L`oDIo PER L`oCCIDENtE DI JEAN ZIEGLER

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L`oDIo PER L`oCCIDENtE DI JEAN ZIEGLER
Nuova Umanità
XXXII (2010/6) 192, pp. 797 - 800
L’ODIO PER L’OCCIDENTE DI JEAN ZIEGLER
Gian Maria Giovannetti
Il nuovo libro del settantaseienne sociologo svizzero Jean
Ziegler 1 si presenta deciso e con un preciso scopo politico e
culturale: quello di attivare forze capaci di innescare processi
di liberazione dei popoli in via di sviluppo (o ancora in una fase
di mancato sviluppo) per far sì che pervengano ad una seconda
e vera indipendenza, dato che la prima è rimasta solo a livello
formale.
Il programma è esplicito, ma il libro non è al riparo da
un’ambivalenza che coltiva sin dal titolo. In esso si accosta un
sentimento forte come l’odio, al destinatario che lo riceve, l’Occidente, lasciando imprecisato il soggetto che lo prova.
Questo destinatario risulta anch’esso ambivalente, poiché in
prima istanza si è portati ad immaginarlo come un luogo geografico, mentre nel libro si chiarisce che per esso deve intendersi il
«modo di produzione capitalistico». Ad essere odiato, pertanto,
sarebbe questo modo di intendere i rapporti economico-sociali
e politici, introdotto dal vecchio e dal nuovo mondo (Europa e
Stati Uniti) e da loro poi trasmesso anche alle nuove élite di altri
continenti che si affacciano sullo scenario mondiale con prospettive neocolonialiste. Eppure, il potere evocativo del significante
“Occidente” è così potente che in modo istintivo si tende ad associarvi proprio il corrispettivo significato geografico e culturale;
e ciò contribuisce ad alimentare l’idea che ad essere odiato e a
doversi odiare sia l’Occidente quale insieme di popoli. Su questa
ambivalenza si gioca, forse troppo colpevolmente, tutto il testo.
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J. Ziegler, L’odio per l’Occidente, Tropea, Milano 2010.
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Per cogliere a fondo le varie sfumature del libro è utile conoscere l’identità culturale dell’autore, in modo da poterne collocare il pensiero in una prospettiva più consapevole. A questo
scopo richiamaiamo un episodio significativo: il giovane Ziegler
incontrò nel 1964 a Ginevra, Ernesto “Che” Guevara, chiedendogli di portarlo con sé a Cuba; il Comandante gli rispose che lui
si trovava già nel cuore dell’“impero”, e che se voleva servire la
rivoluzione poteva farlo lavorando da “dentro” il sistema.
La biografia dell’autore aiuta a spiegare il filo ideologico che
scorre lungo tutto il libro. E rende ancora più rimarchevole il fatto, quasi paradossale, che un fautore della rivoluzione socialista
utilizzi in modo costante, quasi a farne l’ossatura dei futuri movimenti di liberazione, le categorie politiche di “identità”, “nazione”
e “memoria”, tradizionalmente proprie di una cultura politica di
destra. Ciò fa riflettere una volta di più sui profondi mutamenti
culturali e identitari avvenuti in seguito al crollo del Muro di Berlino: cambiato il mondo, le stesse categorie di “destra” e di “sinistra” hanno perso i loro tradizionali tratti distintivi. È per questo
che la liberazione di quell’insieme di popoli sfruttati, depredati e
umiliati dalla disumana voracità capitalista, che agli occhi di Ziegler costituiscono una sorta di proletariato mondiale, passa per il
recupero della memoria, della propria identità e per il costituirsi
come vere nazioni davanti alle nazioni occidentali.
Malgrado i vizi ideologici e l’assolutismo di una posizione
che non vuole lasciare spazi a dubbi o tentennamenti, tanto da
giustificare e fomentare questo odio verso l’Occidente, il libro ha
il pregio di richiamare alla coscienza globale tutto ciò che non
è dimenticabile: lo sradicamento di venti milioni di neri africani
dalle loro case per alimentare lo sfruttamento dei nuovi territori
americani; la creazione degli imperi coloniali mediante campagne
militari di agghiacciante e lucida violenza. Alfred Métraux notò
che «senza Auschwitz, gli europei non avrebbero mai capito quello che avevano fatto agli africani» e, si potrebbe aggiungere, ai
sudamericani, agli indiani d’America e ai popoli asiatici.
Il ripetuto richiamo che Ziegler fa ai versi del poeta Aimé
Césaire, nato in Martinica e impegnato per liberare la sua isola
dal colonialismo francese, sa trasportarci empaticamente in un
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dolore causato dall’indifferenza umana verso quel mondo vivo
dell’etica che costitutivamente alberga in ogni uomo:
Abito una ferita sacra
abito antenati immaginari
abito un volere oscuro
abito un lungo silenzio
abito una sete irrimediabile
abito un viaggio di mille anni
abito una guerra di trecento anni.
L’odio, ci dice l’autore, è la risposta a questa sofferenza causata dalla volontà di dominio dei più forti contro i più deboli e i
meno organizzati. Ed è proprio qui che forse si evidenzia il più
grande limite di tutto il discorso di Ziegler, vale a dire l’incapacità dell’autore di trovare un’alternativa seria all’odio come motore della storia. Per contrastare il disprezzo della dignità umana dimostrato dai colonizzatori vecchi e nuovi, Ziegler auspica
una raccolta di tutte le energie di rivolta dei popoli oppressi per
contrastare le grandi lobbies dei potentati internazionali. Egli non
sfugge, in sostanza, alla dialettica amico/nemico, responsabile di
bloccare la storia in continue contrapposizioni, che impediscono
di inventare un’alternativa etica, culturale e politica in grado di
dare reali soluzioni ai drammi di oggi che sono in parte gli stessi
di ieri.
Poco importa, in questa prospettiva, che l’autore distingua
chiaramente tra “odio lucido” e “odio patologico”, intendendo
con il primo una risposta politica e diplomatica agli attacchi del
neocolonialismo odierno anche attraverso la riappropriazione
delle proprie risorse naturali ed economiche; mentre con il secondo indica la deriva irrazionale e fondamentalista della reazione
contro l’Occidente, condannandola senza se e senza ma, visto che
risulta politicamente sterile e che colpisce civili inermi lasciando
al loro posto i gruppi di potere consolidati e i centri finanziari
corresponsabili dello sfruttamento del Sud del mondo.
Il libro sembra pertanto incapace di svincolarsi dalla tradizionale concezione della lotta politica basata sulla contrapposi-
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zione e sui rapporti di forza, dove non trovano spazio categorie
nuove che possono e potranno informare la cultura e la prassi
politica, quali quelle del rinnovamento culturale e della fraternità,
che lentamente ma costantemente stanno trovando strada tanto
nella riflessione teorica quanto nell’esperienza pratica.
Proprio questi limiti impediscono all’autore di mettere in luce, o addirittura di scorgere, dietro alle innegabili responsabilità
del presente e del passato cui l’Occidente non può sfuggire, un
grande e decennale lavoro che in modo crescente la società civile
occidentale, anche in opposizione ai propri governi, sta svolgendo in nome dei diritti umani e dei principi ispirati alla dignità
della persona. Non riconoscere ciò che di buono l’Occidente sta
cercando di fare contribuisce a creare le contrapposizioni sbagliate, senza permettere l’attivazione di sinergie funzionali tra quei
soggetti del Sud e del Nord del mondo, tanto civili quanto politici, che mirano da ambo le parti a porre fine all’era dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Summary
A critical analysis of J.Zeigler’s L’odio per l’Occidente (Hatred of the West), Tropea, Milan 2010.
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