Internazionale1099 (1)
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24/29 aprile 2015 • Numero 1099 • Anno 22 “Ma chi ha costruito e messo in moto la macchina del tempo? Un uomo dalle qualità tutto sommato mediocri” Sommario vlAdimir sorokiN, pAgiNA iN copertiNA La settimana Il naufragio dell’Europa Umanità Il numero dei migranti annegati nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno è trenta volte più alto rispetto allo stesso periodo del 2014 (p. 14). Nella foto, operazioni di salvataggio al largo di Rodi, 20 aprile 2015 (Xinhua Press/ Corbis/Contrasto). Citizenfour, il documentario di Laura Poitras che ha vinto l’Oscar, non è un ilm di spionaggio. È un ilm politico. Racconta la storia di Edward Snowden, ex analista della National security agency, uno degli organismi governativi statunitensi che si occupano della sicurezza nazionale. Poitras e Glenn Greenwald, del Guardian, lo intervistano in una stanza d’albergo di Hong Kong. Snowden ha 29 anni, è timido, pallido, magro, l’aria da nerd. Ha visto qualcosa che non gli piace e sa che se parlerà probabilmente non potrà più tornare nel suo paese da uomo libero e forse la sua vita sarà in pericolo. Ma sa anche che se non sarà lui a parlare probabilmente non lo farà nessun altro. Snowden incarna l’idea di politica come mezzo per cambiare il mondo mettendo se stessi, la propria intelligenza e la propria persona al servizio di un obiettivo più alto e, dal suo punto di vista, dell’interesse collettivo. Quello che Snowden ha visto e che descrive nel documentario è storia nota, ma sentirla raccontare da lui fa comunque un altro efetto: “Stiamo costruendo il più grande strumento di oppressione della storia dell’umanità. E le persone che lo dirigono si esentano da ogni responsabilità”. Lo strumento di oppressione di cui parla Snowden è la capacità di intercettare e raccogliere informazioni su tutti, in tutto il mondo. Questa gigantesca quantità di dati è archiviata e resa disponibile sempre, indipendentemente dal fatto di essere sospettati di qualche crimine. Ma nessuna ragione di sicurezza può giustiicare la violazione di un diritto fondamentale, perché se non è garantito il diritto alla riservatezza siamo meno liberi, anche di dire quello che pensiamo. Mai accetteremmo che un simile potere fosse concentrato nelle mani di qualcuno, singoli stati o organizzazioni internazionali. Eppure, poco alla volta, abbiamo accettato che inisse nelle mani degli Stati Uniti. Oggi Barack Obama non ci sembra minaccioso, ma cosa succederebbe se al potere ci fosse qualcun altro? Se aspettiamo di scoprirlo potrebbe essere troppo tardi. u europA 22 Genocidio 24 armeno Novoe Vremja Finlandia Le Monde portfolio 64 La notte Americhe ecoNomiA e lAvoro viAggi Le Monde cultura di Guascogna Jean Harambat reportAge ciNemA AlgeriA fuori dal coro The New York Times Magazine birmANiA 56 La metropoli deserta The Guardian scieNzA 60 Dieci segreti per imparare New Scientist Cinema, libri, musica, arte Le opinioni 10 78 Lo schema Domenico Starnone 34 Ta-Nehisi Coates di Sollywood The Guardian 36 Laurie Penny 82 Gofredo Foi POP 84 Giuliano Milani 90 L’indecifrabile 86 Pier Andrea Canei Günter Grass Ariel Dorfman La macchina del tempo di Putin Vladimir Sorokin 88 Christian Caujolle 94 Tullio De Mauro scieNzA 104 Strisce Neue Zürcher Zeitung 46 La voce 80 76 Lande Asia Sentinel 38 Il muro di Malta 102 Austria- Germania Frankfurter Allgemeine Zeitung grAphic jourNAlism El País AsiA e pAcifico ritrAtti 74 L’Atlantide russa 30 Ambiente 32 Cina-Pakistan automatico The Atlantic Abdalrazak Narratively 26 Sudafrica Daily Maverick di Okinawa Keizō Kitajima 70 Haitham AfricA e medio orieNte tecNologiA 100 L’interprete 92 96 Una scossa al telefono The Christian Science Monitor le rubriche 10 Posta 13 Editoriali 105 L’oroscopo 106 L’ultima Articoli in formato mp3 per gli abbonati le principali fonti di questo numero Daily Maverick È un sito sudafricano di analisi. L’articolo a pagina 26 è uscito il 20 aprile 2015 con il titolo Xenophobia: something had to give. Narratively È un sito statunitense di giornalismo narrativo. L’articolo a pagina 70 è uscito con il titolo The lonely psychiatrist of Sadr City. Neue Zürcher Zeitung È un quotidiano svizzero di Zurigo, in lingua tedesca. L’articolo a pagina 38 è uscito nel gennaio del 2015 sul magazine mensile Folio con il titolo Angst vor dem schwarzen Mann. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 3 internazionale.it/sommario Giovanni De Mauro Immagini Tratti in salvo Lesbo, Grecia 17 aprile 2015 Migranti portati in salvo sull’isola di Lesbo dopo che la loro imbarcazione è affondata. Le zone di conine e le rotte marittime tra la Grecia e la Turchia sono tra le vie principali percorse dai migranti che dal Medio Oriente vogliono entrare in Europa. Secondo le autorità di Atene, finora nel 2015 sulle coste greche sono sbarcate più di 10.400 persone, rispetto alle 2.863 arrivate nello stesso periodo dell’anno scorso. Foto di Angelos Tzortzinis (Afp/Getty Images) Immagini Ricordi della shoah Ksalon, Israele 16 aprile 2015 Moshe Eshkenazi racconta ad alcuni uiciali della polizia di frontiera israeliana la storia di come suo nonno Moshe Pesach, il rabbino di Volos, in Grecia, riuscì a mettere in salvo più di mille ebrei durante la seconda guerra mondiale. Il 16 aprile gli israeliani hanno celebrato la giornata dedicata al ricordo dei sei milioni di ebrei uccisi durante la shoah. Foto di Oded Balilty (Ap/Ansa) Immagini L’ascesa Les Plans-sur-Bex, Svizzera 12 aprile 2015 Sciatori durante la 68ª edizione del Trophées du Muveran, una competizione di sci alpinismo che si svolge ogni anno sulle Alpi svizzere. La prima gara si è tenuta nel 1948. All’edizione di quest’anno hanno partecipato quasi mille sportivi. Il percorso principale è lungo 58 chilometri e ha un dislivello di oltre duemila metri. Foto di Jean-Christophe Bott (Ap/Ansa) [email protected] Renzi contro tutti u L’articolo di Jim Yardley su Matteo Renzi (Internazionale 1098) ha il tipico difetto del giornalismo che racconta senza dire nulla. Racconta che Renzi vuole abolire il senato, ma non dice che vuole abolire il senato elettivo, per cui il senato rimane ma al cittadino viene impedito di scegliere il proprio candidato. Racconta che Renzi vuole le riforme, ma non dice quali sono e gli efetti deleteri che queste provocano. Alla ine l’articolo dà l’impressione che Renzi abbia tutti contro perché vuol fare troppo: questo giornalismo serve solo a creare confusione e io mi chiedo se sia imperizia o malafede. Massimiliano Bruzzoneo Il maestro che vorrei u La pur interessante inchiesta “Il maestro che vorrei” (Internazionale 1098) credo trascuri due punti fondamentali: 1) è la scuola che deve adattarsi allo studente e non viceversa, come capita nella maggior parte dei casi imponendo programmi di- dattici dall’alto; 2) imparare dev’essere un piacere e anche un divertimento. L’andare a scuola troppo spesso si traduce in paura e angoscia per timore del voto o dell’interrogazione. Come faceva notare alcune settimane fa Galli della Loggia sul Corriere della Sera, lo scopo del sistema educativo, ino all’università, dovrebbe essere quello di formare cittadini virtuosi, mentre oggi sempre più il tutto è declinato in una logica economicistica. Sergio Sinigaglia I ragazzi traditi u Ho letto con molta tristezza l’articolo “I ragazzi italiani traditi due volte” (Internazionale 1095). Sono italiana ma ho scelto di andare all’estero per i miei studi, sono quasi alla ine del mio percorso universitario e ho sempre sognato, anche se dove sono mi trovo molto bene, di poter trovare lavoro in Italia. Amo il mio paese, la sua storia e l’arte invidiabile che possediamo. Mi scoraggia molto leggere che i ragazzi, dopo la laurea, sono costretti ad andare via dall’Italia per ottenere un lavoro sicuro e che grandi aziende rappresentative dell’economia italiana siano obbligate a mettersi nelle mani di paesi esteri. Voglio essere iduciosa e sperare che non tornerò in Italia solo per trascorrere le mie vacanze. Sefora Multari u Comincio sempre la lettura di Internazionale dall’editoriale di Giovanni De Mauro e mi rassicura trovare qualcuno con cui essere in sintonia: mi sento meno sola. La Siria riguarda tutti perché ogni guerra ci riguarda e ogni pace può avvenire solo come evento collettivo e conclusivo di un percorso di uguaglianza e di consapevolezza della sacralità della vita. Antonella Palmieri Errori da segnalare? [email protected] PER CONTATTARE LA REDAZIONE Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718 Posta via Volturno 58, 00185 Roma Email [email protected] Web internazionale.it Non siamo supereroi C’è un tema sul quale sono molto rigido: ai bambini bisogna raccontare la verità. Se spiegati nel modo giusto, sono davvero pochi gli argomenti che non possono capire. Inol- 10 tre credo che abbiate perso un’ottima occasione per introdurre il tema della morte nel modo meno duro perché, anche se provavate molto afetto per il vostro cane, la sua morte è un dramma minore rispetto alla morte di una persona cara. A tuo nipote sarebbe servito per cominciare a concepire l’idea che la vita inisce. Quindi ve lo dico chiaro e tondo: non è stata una buona idea. E questo era il pedante consigliere per famiglie. Da essere umano, invece, devo svelarvi un segreto: gli adulti non sono supereroi. Genitori, zii, nonni: anche se agli occhi Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Domenico Starnone Il male peggiore Probabilmente Dear Daddy Claudio Rossi Marcelli È da poco morto il cane di famiglia e a mio nipote di quattro anni è stato detto che è partito per una lunga vacanza. Io ero contraria a raccontare balle, ma ti confesso che immaginarlo a rincorrere palline su spiagge esotiche è meno straziante che saperlo nel cassonetto dell’ospedale. Tu che ne pensi?–Anna Parole dei piccoli siamo infallibili e onniscienti, in realtà stiamo ancora crescendo anche noi. Non è detto che gli adulti debbano sempre fare la cosa più giusta e a volte è importante relativizzare: chi sofre davvero per la scomparsa del vostro cane non è il tuo nipotino di quattro anni, siete voi. E se immaginarlo che rincorre palline su una spiaggia bianca vi aiuta a vivere meglio, allora va bene così. In efetti è un’immagine talmente bella e commovente che quasi quasi convince anche me. u [email protected] u C’è molta gente che in ogni circostanza, con tono scettico, dice: non vedo la diferenza tra. Per esempio, a un dibattito, ho sentito un tale che non vedeva la diferenza tra le bombe maiose che nel 19921993 fecero scempio di esseri umani e di opere d’arte a Firenze, Roma e Milano; i tifosi olandesi che hanno mutilato tempo fa la Barcaccia; e i guerrieri del gruppo Stato islamico che distruggono esistenze, città antiche e musei. Barbari – ha detto questo signore – sia i maiosi sia gli olandesi sia i distruttori islamisti. Ed è vero, la barbarie cova ovunque, ma la diferenza c’è. Il male dei maiosi d’Italia e dei tifosi d’Olanda è grezzo, ogni possibile sua ragione è ributtante e insieme futile. Il male dei guerrieri del gruppo Stato islamico vanta invece ragioni elevate. I distruttori si sentono agli ordini di un dio che non tollera idoli e infedeli in nessun luogo, in nessun tempo. Essi versano a iumi il sangue degli inermi e fanno a pezzi opere d’arte in nome di una legge divina che fonderà un mondo moralmente e politicamente perfetto. Si raccontano, insomma, bugie nobili – come del resto noi ci siamo raccontati spesso e ci raccontiamo – per sentirsi dalla parte giusta e gridare: guai a chi non è con me. Ma ogni gerarchia del male fondata sul giusto, chiunque la proponga, ci imbroglia. Il male necessario, quello che a in di bene giustiica i mezzi più disgustosi, è il peggiore. Editoriali Quanti morti servono “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra ilosoia” William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De Mauro Vicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo Zanchini Editor Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente (opinioni), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Stati Uniti), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio Oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura, caposervizio) Copy editor Giovanna Chioini (web, caposervizio), Anna Franchin, Pierfrancesco Romano (coordinamento, caposervizio), Giulia Zoli Photo editor Giovanna D’Ascenzi (web), Mélissa Jollivet, Maysa Moroni, Rosy Santella (web) Impaginazione Pasquale Cavorsi (caposervizio), Valeria Quadri, Marta Russo Web Giovanni Ansaldo, Annalisa Camilli, Donata Columbro, Francesca Gnetti, Stefania Mascetti (caposervizio), Stella Prudente, Martina Recchiuti (caposervizio), Giuseppe Rizzo Internazionale a Ferrara Luisa Cifolilli, Alberto Emiletti Segreteria Teresa Censini, Monica Paolucci, Angelo Sellitto Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Giuseppina Cavallo, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Andrea Ferrario, Federico Ferrone, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Francesca Rossetti, Irene Sorrentino, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Catherine Cornet, China Files, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Antonio Frate, Anita Joshi, Andrea Pira, Fabio Pusterla, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello Editore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo Storto Sede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli, Alessia Salvitti Concessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editoriale Tel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Subconcessionaria Download Pubblicità srl Stampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi) Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commercialeCondividi allo stesso modo 3.0. 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Fino a qualche giorno prima, infatti, quando nel Mediterraneo erano annegati “solo” settecento profughi, Bruxelles e Berlino continuavano a sottrarsi alle loro responsabilità. Ora sembrano inalmente aver cambiato idea. Tuttavia non sembra che sia in programma un vero cambio di mentalità. Questo signiicherebbe mettere in discussione la “fortezza Europa” e aprire strade legali e sicure all’immigrazione. Ma per il momento non è previsto. L’Unione vuole impegnarsi di più per soccorrere i naufraghi, è vero, ma allo stesso tempo ha intenzione di raforzare la discussa agenzia per la protezione delle frontiere, Frontex, che in futuro potrà perfino attaccare le imbarcazioni degli scafisti. I traicanti di esseri umani sono stati individuati come il nemico principale e un intero arsenale sarà impiegato per mettere ine alle loro malefat- te. Ma la criminalizzazione e la militarizzazione non risolveranno il problema, perché le cause sono altrove: nella povertà e nella guerra dall’altra parte del Mediterraneo. Per questioni simili, però, l’Europa non è la soluzione, ma è parte del problema. Con le sue rigide regole sull’asilo e sull’immigrazione, l’Unione è stata la prima a costringere i migranti a salire sui barconi, perché non potevano viaggiare in modo legale. Con i suoi vertici e le sue procedure, è stata l’Unione a permettere ai paesi del nord di bloccare gli stati del Mediterraneo come l’Italia e Malta, che avrebbero voluto passare all’azione già due anni fa, quando più di trecento rifugiati annegarono al largo di Lampedusa. Stavolta non potrà permetterselo: la pressione dell’opinione pubblica è troppo forte e bisogna mostrare dei risultati concreti. Ma non per questo l’Europa diventerà più umana. Nel migliore dei casi sarà solo un po’ meno cinica e brutale. u fp La falsa clemenza dell’Egitto Le Monde, Francia Anche in materia di repressione tutto è relativo: la condanna a vent’anni di prigione dell’ex presidente egiziano Mohamed Morsi per l’uso della violenza contro dei manifestanti nel 2012 è stata paradossalmente considerata mite dalla maggior parte degli osservatori. Il verdetto avrebbe potuto essere più severo, se consideriamo la durezza dei tribunali egiziani dopo che, nel luglio 2013, il maresciallo Abdel Fattah al Sisi ha rovesciato con un colpo di stato Morsi e i Fratelli musulmani. Da parte di un regime che ha ucciso più di 1.400 manifestanti, imprigionato circa quindicimila simpatizzanti del Fratelli musulmani in meno di due anni e pronunciato centinaia di condanne a morte, la pena capitale o l’ergastolo per Morsi non avrebbero stupito nessuno. Ma questa apparente clemenza non deve nascondere la brutale realtà egiziana. Innanzitutto questo è solo il primo dei processi contro l’ex presidente. Altri tre lo aspettano, di cui uno per “spionaggio”, in cui rischia la pena di morte. Inoltre la repressione non accenna a diminuire, e Al Sisi ha poco da invidiare ai metodi dei suoi predecessori, Hosni Mubarak e Gamal Abdel Nasser. Negli ultimi mesi centinaia di oppositori, tra cui la guida suprema dei Fratelli musulmani, Mohamed Ba- die, sono stati condannati a morte con processi sommari che l’Onu ha deinito “senza precedenti nella storia recente”. La stampa è imbavagliata. Gli uomini di Mubarak, per cui anche Al Sisi aveva prestato servizio prima di diventare il ministro della difesa di Morsi, stanno tornando ai vertici. È vero che Al Sisi è diventato presidente in seguito alle elezioni del maggio 2014, ma solo dopo aver eliminato ogni forma di opposizione. Questo non gli impedisce di godere di una certa popolarità tra gli egiziani, stremati dall’instabilità, dalla violenza e dalla paralisi economica che vanno avanti dall’inizio delle rivoluzioni arabe del 2011. E non ha impedito ai paesi occidentali di mostrarsi indulgenti e ricominciare a vendere armi all’Egitto. Dopo aver neutralizzato l’alternativa politica rappresentata dai Fratelli musulmani, il presidente egiziano può ora permettersi di sospendere la repressione? Il paese non potrà riprendersi se quel venti o trenta per cento di cittadini che ancora sostiene i Fratelli musulmani continuerà a essere brutalmente represso. Se il prossimo verdetto contro Morsi confermerà la relativa clemenza di quello del 21 aprile, sarà un segnale positivo. u as Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 13 In copertina Il naufragio d Hakim Bello, The Guardian, Regno Unito l ragazzo vicino a me è caduto e per un attimo non ho capito se era svenuto o morto. Poi ho visto che si copriva gli occhi per non dover guardare più le onde. Una donna incinta vomitava e urlava. Quelli sottocoperta gridavano che non riuscivano a respirare. Gli scaisti sono scesi e hanno cominciato a picchiarli. Quando abbiamo visto l’elicottero dei soccorsi, due giorni dopo che il nostro barcone aveva lasciato la Libia con 250 persone a bordo, qualcuno era già morto, trascinato in mare dalle onde o sofocato nella stiva, al buio. Per me è molto doloroso ricordare queste cose, ma è importante che la gente capisca quello che sta succedendo e perché. Quattro anni fa ho pagato un traicante perché mi portasse via dalla Libia. Sono una delle migliaia di persone che dopo le rivolte della primavera araba del 2011 sono arrivate in Europa attraversando il mar Mediterraneo. La frontiera più pericolosa del mondo. Ognuno di noi aveva un motivo diverso per partire: qualcuno pensava di trovare una vita migliore in Europa, altri volevano solo scappare da una zona di guerra. Ma tutti eravamo convinti di non avere altra scelta. Io sono originario della Nigeria e quando è scoppiata la guerra vivevo in Libia da cinque anni. Lavoravo come sarto e guadagnavo abbastanza da mandare un po’ di soldi a casa. Ma quando sono cominciati gli scontri, i neri come me si sono trovati in una posizione diicile, perché tutti i giovani era- I 14 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 no armati, sapevano che avevamo soldi in casa e che potevano derubarci. Se uscivi a comprare qualcosa da mangiare, c’era sempre una banda che ti fermava e ti chiedeva da che parte stavi. E tu non sapevi se davanti avevi soldati ribelli o governativi. Non potevo tornare in Nigeria, le strade che andavano a sud erano bloccate, poi a Tripoli ho conosciuto delle persone che dicevano di conoscere un modo per arrivare in Italia. Ci hanno portato su una spiaggia fuori città dove erano già accampate centinaia di persone in attesa di partire. Alcune venivano dalla Siria, altre dall’Algeria o dall’Egitto. Ma la maggior parte arrivava dall’Africa occidentale o orientale. Molti erano uomini, ma c’erano anche donne e famiglie con bambini piccoli. Il costo della traversata non era uguale per tutti: dipendeva dai contatti che avevi e da quanto eri disperato. Io ho pagato 400 dinari, che all’epoca equivalevano a 350 euro ed erano il salario di una settimana. I traicanti avevano preso dei vecchi pescherecci, alcuni così vecchi che non avrebbero più dovuto essere usati. Ci avevano montato dei motori nuovi e avevano aidato il timone a persone che conoscevano. Il “capitano” poteva anche non sapere la rotta per l’Italia e non aver mai guidato una barca. Quando il peschereccio in cui mi trovavo è salpato, temevamo che il motore non reggesse, ma presto ci siamo resi conto che il vero problema erano le onde. Il barcone non era stato costruito per reggere quel tipo di viaggi e ogni volta che arrivava un’onda DArrIN ZAMMIT LUPI (rEUTErS/CONTrASTO) Il numero dei migranti annegati dall’inizio dell’anno mentre cercavano di attraversare il Mediterraneo è trenta volte più alto rispetto allo stesso periodo del 2014. Il racconto di un ragazzo nigeriano sopravvissuto alla traversata alta rischiava di capovolgersi. L’unica cosa che potevo fare era pregare, avevo la sensazione di essere già morto. Questo succedeva nel 2011. Oggi le persone accampate sulla costa libica in attesa che arrivi il loro turno sono molte di più. dell’Europa Malta, 20 aprile 2015. Sopravvissuti al naufragio avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 aprile al largo delle coste libiche Quando ho saputo che alcuni politici britannici erano contrari a un’operazione di salvataggio nel Mediterraneo ho pensato che appartenessero a un partito di estrema destra. Solo dopo mi sono reso conto che invece era la politica uiciale del governo britannico. È una decisione terribile. Tutta l’Europa ha il dovere di impedire che le persone continuino ad annegare. Molte sono state costrette a lasciare il proprio paese anche a causa del comportamento degli stati europei in Africa. L’Italia sta facendo molto per salvare i rifugiati e ha bisogno di aiuto. Il Regno Unito, il Belgio e la Germania pensano di essere lontani dall’Africa e di non avere nessuna responsabilità, ma tutti hanno partecipato alla sua colonizzazione. La Nato ha partecipato alla guerra in Libia. Il proInternazionale 1099 | 24 aprile 2015 15 In copertina Da sapere Gli arrivi dal mare Numero di migranti sbarcati sulle coste italiane dal 2006 al 2015. Fonte: ministero dell’interno italiano 2006 22.016 2007 20.455 2008 36.951 2009 9.573 2010 4.406 2011 2012 2013 62.692 13.267 42.925 2014 2015 170.100 26.556* *ino al 19 aprile 16 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Catania, 20 aprile 2015. Uno dei naufraghi salvati TULLIo M. PUGLIA (GETTy IMAGES) blema riguarda tutti. Il nostro viaggio non è inito quando siamo arrivati a terra. Dopo che l’elicottero ha avvistato il nostro peschereccio, una nave italiana ci ha raccolti e portati a Lampedusa. Lì siamo stati rinchiusi in un centro di accoglienza che sembrava una prigione. Poi io sono stato mandato in un paese del sud d’Italia e ho avuto la fortuna di trovare lavoro. Cucivo tende, ma mi pagavano così poco che non mi bastava per vivere. Quindi ho pensato di andare a cercare lavoro in Nordeuropa. Sono andato a Berlino e mi hanno oferto dei lavori, ma non potevo accettarli perché non avevo i documenti giusti. In base al trattato di Dublino, i rifugiati sono costretti a rimanere nel paese dove arrivano. Quando ho inito i pochi soldi che avevo sono andato a vivere in un campo abitato da rifugiati che lottavano per il diritto di vivere e lavorare in Germania. Nel campo si faceva politica e questo mi ha aiutato a prendere coscienza. Perché la mia vita lì era peggiore di quella che avevo vissuto sotto la dittatura di Gheddai? Credo nella democrazia, ma in Europa sembra che esista solo per qualcuno. Abbiamo chiamato il nostro gruppo Lampedusa a Berlino. Io sono stato fortunato. A Berlino ho conosciuto la mia compagna e ora abbiamo un bambino di tre mesi. Quando lo guardo penso a quanto vorrei che vivesse in un mondo migliore e non dovesse subire quello che ho subìto io. Quando sono partito da Tripoli non avevo idea di quanto sarebbe stato pericoloso. Prima di allora, ero salito su una barca solo una volta in vita mia. E non so neanche nuotare. u bt Come evitare altre morti nel Mediterraneo Maximilian Popp, Der Spiegel, Germania Le stragi ai conini dell’Unione europea sono una conseguenza delle scelte politiche di Bruxelles. Che devono cambiare Varsavia i funzionari della sede centrale di Frontex, l’agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere, contano gli ingressi irregolari e i barconi di rifugiati. Dal dicembre del 2013 l’agenzia sta spendendo centinaia di milioni di euro per sorvegliare le frontiere con droni e satelliti. L’Unione europea registra tutto quello che succede ai suoi conini. Al contrario di quello che spesso si dice, non distoglie lo sguardo di fronte alla morte dei profughi, ma la osserva con attenzione. Il problema in questo caso non è la negligenza, ma l’omicidio intenzionale. Da anni molte persone perdono la vita cercando di fuggire verso l’Europa. Annegano nel Mediterraneo, muoiono dissanguate sulle recinzioni ai conini di Ceuta e Melilla o assiderate sui monti tra l’Ungheria e l’Ucraina. Ma a quanto pare l’opinione pubblica europea non è ancora del tutto A consapevole dell’entità di questa catastrofe. Siamo complici di uno dei più grandi crimini della storia europea dal dopoguerra. Probabilmente tra vent’anni i tribunali o gli storici si occuperanno di questo periodo oscuro. E non solo i politici, ma anche noi comuni cittadini dovremo abituarci a sentirci chiedere cosa abbiamo fatto contro la barbarie compiuta in nostro nome. La morte dei rifugiati lungo le frontiere dell’Europa non è una sciagura, ma il risultato diretto della politica europea. La costituzione e la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea promettono protezione alle persone che fuggono dalla guerra o dalla persecuzione politica. Eppure gli stati dell’Unione cercano di afossare questo diritto da anni. Chi vuole chiedere asilo in Europa deve prima arrivare sul territorio europeo e questo è stato reso quasi impossibile dalla politica dell’Unione, che lungo le sue frontiere ha innalzato alte recinzioni, ha schierato soldati e inviato navi da guerra per tenere lontani i profughi. Per chi fugge dalla Siria o dall’Eritrea in cerca di protezione non esistono vie legali e sicure per arrivare in Europa. I rifugiati socontinua a pagina 18 » L’opinione Aprire tutte le frontiere Nicola Perugini, Al Jazeera, Qatar L’Europa ha creato un sistema che dà libertà di movimento ai suoi cittadini ma lascia morire i migranti stata la più grave tragedia del mar Mediterraneo nella storia delle migrazioni. Secondo le testimonianze di alcuni sopravvissuti, nell’imbarcazione che è afondata al largo delle coste libiche nella notte tra il 18 e il 19 aprile c’erano più di settecento migranti provenienti soprattutto dall’Africa subsahariana. Ormai siamo abituati a notizie simili, e questo è uno degli aspetti più terriicanti. Proprio così: noi – europei bianchi di diverse nazionalità in possesso di passaporti che ci aprono tutte le porte – ci siamo abituati alle migliaia di corpi non bianchi che afondano nelle acque del Mediterraneo, come in passato ci siamo abituati a molte altre forme di sterminio portate avanti per motivi etnici. Come è potuto succedere? Le politiche europee nel Mediterraneo hanno sempre oscillato tra l’approccio umanitario e quello che mette la sicurezza al primo posto. I dibattiti sulle migrazioni fanno emergere le nostre contraddizioni. Le discussioni sono impostate come se i processi che hanno trasformato il Mediterraneo nel più grande cimitero marino del mondo siano separati dall’ordinamento giuridico e territoriale costruito con gli accordi di Schengen. Un sistema che ha trasformato un parte dell’Europa in un’unica unità territoriale e allo stesso tempo ha costruito un muro per impedire a chi ha un passaporto asiatico o africano di entrarci. Schengen in fondo distingue tra bianchi con passaporto e neri con passaporto e non riconosce ai secondi i diritti umani universali, a è partire dalla libertà di movimento. Deinire Schengen come una conquista europea (“l’Europa non ha conini!”) e contemporaneamente ignorare gli efetti politici che ha sui migranti ci consente di parlare di “incidenti” quando le persone annegano lungo le nostre frontiere marittime e di negare che a ucciderle siano state le nostre leggi. Nell’ottobre del 2013, dopo il naufragio al largo di Lampedusa in cui morirono 366 persone, il governo italiano ha creato, in collaborazione con i governi nordafricani, l’operazione militare e umanitaria Mare nostrum. Le tante missioni di salvataggio compiute non hanno comunque evitato la morte di molti migranti. Nel novembre del 2014 Mare nostrum è stata sostituita da Triton, un’operazione gestita dall’agenzia europea di controllo delle frontiere (Frontex), il cui mandato è quello di sostenere le autorità italiane nella raccolta di informazioni sulle reti di traicanti di esseri umani che operano nei paesi di origine e di transito dei migranti. Il dovere morale e legale del salvataggio è passato in secondo piano rispetto all’imperativo del controllo delle frontiere e della prevenzione del traico di esseri umani. Le dichiarazioni della destra Da allora la tensione tra salvataggio e difesa delle frontiere ha continuato a caratterizzare il dibattito europeo sull’immigrazione. Nel frattempo i migranti continuano a morire, mentre gli accordi di Schengen naturalmente continuano a essere inviolabili. Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli appelli dei politici europei favorevoli alla sospensione di qualsiasi operazione di salvataggio nelle acque dell’Europa meridionale. “Non sosterremo operazioni pianiicate per la ricerca e il salvataggio nel Mediterraneo”, ha detto nell’ottobre del 2014 Philip Hammond, ministro degli esteri britannico. Secondo Hammond questo tipo di missioni avrebbe incoraggiato altri migranti a tentare il rischioso viaggio in mare e provocato ulteriori morti tragiche e non necessarie. “Dobbiamo afondare le barche che trasportano i migranti. Un atto di guerra è meglio che perdere una guerra”, ha detto il 19 aprile Daniela Santanchè, deputata di Forza Italia. Altri politici italiani di destra sono tornati a chiedere un blocco navale internazionale davanti alle coste dalla Libia. In queste dichiarazioni c’è un esplicito impulso omicida. Ma sbaglieremmo a considerarle casi isolati di follia politica. È molto più terriicante ammettere che noi – cittadini europei che grazie a Schengen godiamo della massima libertà di movimento – abbiamo inito per considerare normali i massacri nel Mediterraneo. Li abbiamo tollerati proprio perché ci sentiamo meno colpevoli dopo aver sentito gli estremisti di destra o i falchi del governo articolare i loro virulenti discorsi razzisti. Diciamo a noi stessi: “Questo è troppo, abbiamo l’obbligo morale di salvare vite umane”. Ma c’è un problema: il salvataggio – che secondo noi sarebbe la soluzione al problema – è semplicemente parte del processo di interiorizzazione delle nostre leggi omicide. Anzi, il salvataggio è parte integrante di quel meccanismo omicida legalizzato che serenamente deiniamo gestione dei lussi migratori. Centinaia di esseri umani hanno perso la vita la notte tra il 18 e il 19 aprile mentre un mercantile portoghese si avvicinava al peschereccio in cui si trovavano. I migranti si sono spostati sul ianco più vicino al mercantile per poter essere salvati. Il peso dei loro corpi ha inito per capovolgere il peschereccio. Così centinaia di persone sono morte. Lasciarsi sconvolgere dalle dichiarazioni dell’estrema destra sulle operazioni di salvataggio non basta. Dovremmo chiedere ai nostri governi di rinunciare ai privilegi oferti dal trattato di Schengen e aprire le nostre frontiere. u gim Nicola Perugini è un antropologo italiano che insegna alla Brown University. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 17 In copertina no costretti a entrare nel territorio dell’Unione come migranti “irregolari”, percorrendo rotte pericolose e spaventose, come quella che passa per il mar Mediterraneo. Lungo le frontiere dell’Europa si è creato un meccanismo darwiniano: solo chi ha i soldi per pagare i traicanti di esseri umani o la tenacia per continuare a lanciarsi contro le recinzioni avrà forse l’opportunità di chiedere asilo in Europa. Poveri, malati, vecchi, famiglie e bambini sono in gran parte abbandonati alla loro sorte. Il sistema con cui l’Europa gestisce le richieste d’asilo è la perversione del diritto d’asilo. Le riforme necessarie Dopo il naufragio avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 aprile, in cui sono morte 800 persone, la cifra più alta mai registrata inora, in Europa c’è grande costernazione. Per l’ennesima volta si sente dire che tragedie simili non devono più ripetersi, proprio com’è successo dopo il disastro avvenuto al largo di Lampedusa nell’autunno del 2013 e quello nelle acque di Malta nel settembre del 2014. Il 20 aprile c’è stato il rischio che tutto si ripetesse di nuovo: centinaia di persone a bordo di una nave di profughi hanno rischiato di naufragare nel Mediterraneo. I leader europei condannano il dramma dei rifugiati ma poi continuano a voler tenere chiuse le frontiere, che è il presupposto stesso di questi incidenti. I capi di stato e di governo dell’Unione europea e i loro ministri dell’interno non possono più mantenere questa posizione. Bruxelles deve istituire immediatamente vie legali che permettano ai profughi di raggiungere l’Europa. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e organizzazioni umanitarie come Pro asyl o Human rights watch hanno spiegato da tempo come si potrebbe procedere. Ecco i punti principali. 1. Mare nostrum, l’operazione della marina italiana che ha salvato centinaia di migliaia di rifugiati dall’annegamento, deve riprendere immediatamente. L’operazione Triton della Frontex, che serve a respingere i migranti, dev’essere annullata. 2. L’Unione europea dovrebbe concedere asilo attraverso le ambasciate. In questo modo i profughi potrebbero presentare domanda di protezione nelle sedi diplomatiche degli stati dell’Unione e gli verrebbero risparmiati viaggi molto rischiosi. 3. L’Unione europea deve partecipare seriamente al programma di reinsediamento dell’Unhcr. Le Nazioni Unite trasferisco- 18 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 no da anni i profughi che scappano da zone di crisi in paesi sicuri per un periodo di tempo limitato, senza complesse procedure burocratiche per la richiesta d’asilo. Attualmente l’Unhcr sta cercando di capire dove sistemare centinaia di migliaia di profughi. Nel 2013 il Nordamerica ne ha accolti più di novemila, la Germania trecento. 4. L’obbligo del visto per i cittadini di paesi in crisi come la Siria o l’Eritrea dovrebbe essere temporaneamente sospeso. In questo modo i profughi potrebbero chiedere di entrare in Europa senza essere respinti automaticamente. Il regolamento di Dublino, che vieta ai rifugiati di viaggiare in altri paesi una volta arrivati in Europa, dev’essere abolito. I richiedenti asilo dovrebbero essere distribuiti nei vari stati dell’Unione europea in base a un sistema di quote. La libertà di circolazione garantita ai cittadini dell’Unione dovrebbe essere estesa a tutte le persone a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato. 5. A chi fugge dalla povertà e non solo dalla persecuzione politica bisognerebbe ofrire la possibilità di emigrare per lavoro, per esempio con un permesso di soggiorno per migranti provenienti dai paesi poveri. Queste riforme non eliminerebbero di colpo l’immigrazione irregolare, ma contribuirebbero a ridurre la soferenza. A diferenza di quanto dicono i leader politici europei, le morti lungo le frontiere dell’Unione possono essere evitate o comunque drasticamente ridotte. Ma per farlo occorre che gli europei dimostrino di voler proteggere anche gli esseri umani, non solo le frontiere. u fp Da sapere In cerca d’asilo Paesi europei con più richieste d’asilo, in migliaia Germania 173 75 Svezia Italia 63 Francia 59 Ungheria 41 Regno Unito 31 Austria 28 Paesi Bassi 24 Danimarca 15 Belgio 14 Dati 2014 Fonte: The Economist Da sapere Ultime notizie u Tra il 18 e il 19 aprile al largo delle coste libiche è afondato un peschereccio con almeno 800 persone a bordo. Era partito il 18 aprile da una località a 50 chilometri da Tripoli. La prima nave a prestare soccorso è stata il mercantile portoghese King Jacob. I sopravvissuti sono 28 e le salme recuperate 24. Il 20 aprile la guardia costiera italiana ha portato i cadaveri a Malta e il 21 aprile i superstiti a Catania. I funerali delle vittime si dovrebbero svolgere il 27 aprile a Malta. I sopravvissuti hanno indicato alla polizia il presunto “capitano”, Mohamed Ali Malek, 27 anni, tunisino, e il suo aiutante Mahmud Bikhit, 25 anni, siriano, arrestati dopo lo sbarco in Sicilia. Secondo la procura di Catania Malek, con una manovra sbagliata, avrebbe fatto sbattere il peschereccio contro il mercantile portoghese. Il naufragio sarebbe stato provocato dalla collisione e dal sovrafollamento del peschereccio. u Il 20 aprile la guardia costiera greca ha salvato 90 migranti su un’imbarcazione incagliata poco al largo dell’isola di Rodi. Tre persone sono morte nel tentativo di raggiungere la riva. u Il 23 aprile si è svolto a Bruxelles un consiglio europeo straordinario per discutere dell’emergenza umanitaria nel Mediterraneo. I ministri degli esteri e dell’interno dell’Unione europea hanno proposto un piano in dieci punti. Tra questi, il raforzamento delle operazioni Triton e Poseidon, lo stanziamento di più risorse inanziarie per fronteggiare l’emergenza e l’aumento degli sforzi per la distruzione dei barconi. ANgELos TzoRTzINIs (AFp/gETTy IMAgEs) Grecia, 18 aprile 2015. Migranti nel porto di Lesbo Un crimine contro l’umanità Claude Calame, Le Temps, Svizzera In quindici anni più di 22mila migranti sono morti nel Mediterraneo. E i sopravvissuti sono trattati in modo disumano ono stati 3.419 i migranti morti nel Mediterraneo nel 2014. Nel 2015 trecento migranti hanno perso la vita nella seconda settimana di febbraio 2015 al largo di Lampedusa, quattrocento il 14 aprile al largo della Libia e altri ottocento nella notte tra il 18 e il 19 aprile sempre al largo delle coste libiche. Questo è il bilancio drammatico della politica di chiusura delle frontiere decisa dall’Unione europea. Anche la Francia ha deciso di erigere dei muri contro i migranti. A Calais sono S stati sgomberati i campi e i migranti sono stati sistemati lontano da tutto e da tutti. Un rapporto di Human rights watch denuncia le condizioni in cui sono costretti a vivere tremila migranti che a Calais e nei dintorni aspettano di raggiungere clandestinamente il Regno Unito o attendono di sapere l’esito incerto di una richiesta d’asilo fatta in Francia. E a questa situazione di estrema precarietà va aggiunta la repressione da parte della polizia. Nel giugno del 2014 sono stati prima svuotati e poi chiusi tre campi rom. All’inizio di aprile di quest’anno tutti i campi improvvisati sono stati sgomberati e i migranti sono stati raccolti dove prima c’era un’ex discarica, alla periferia dalla città. Dall’estate scorsa le associazioni di sostegno ai migranti attive a Calais segnala- no il pessimo stato di questi accampamenti improvvisati: non c’è acqua, non ci sono i bagni, i riiuti non vengono raccolti, non è possibile scaldare il cibo se non su fuochi accesi con materiali spesso tossici, non vengono distribuiti pasti regolari e non viene oferta alcuna forma di assistenza medica. All’indigenza materiale si aggiunge la miseria morale provocata da vari fattori: la prospettiva di dover attraversare la Manica, le minacce d’espulsione, le pressioni esercitate dai traicanti, gli inevitabili conlitti e le violenze della polizia denunciate da Human rights watch. A tutto questo si devono aggiungere le esperienze traumatizzanti che i migranti hanno subìto attraversando il Mediterraneo e l’Europa. Agli afgani e agli iracheni si sono sostituiti i sudanesi, gli eritrei e i siriani. L’Unione europea accetta solo quote minime di siriani, mentre il Libano ne accoglie più di un milione. Migranti “illegali”, il cui unico crimine è quello di essere fuggiti da situazioni di guerra o di repressione estreme, quindi, nella maggior parte dei casi, di essere dei rifugiati, secondo quanto stabilito dalla comunità internazionale. Cosa fa intanto il governo francese? Nel Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 19 novembre del 2014 il ministro dell’interno Bernard Cazeneuve ha promesso di costruire un centro di accoglienza diurno con appena quattrocento posti. Due mesi prima, però, aveva ottenuto 15 milioni di euro dalla ministra dell’interno britannica Theresa May per erigere e pattugliare una barriera di sicurezza che impedisse ai migranti qualsiasi accesso al porto di Calais. Per quanto riguarda le frontiere meridionali dell’Unione europea, invece, Parigi ha sostenuto il passaggio dall’operazione Mare nostrum all’operazione Triton. Invece del sostegno concreto dato dal governo italiano ai migranti in diicoltà nel Mediterraneo, il governo francese ha scelto di appoggiare un’operazione di pattugliamento e blocco delle frontiere meridionali dell’Europa. Triton è responsabile delle morti dei migranti registrate da febbraio nel Mediterraneo. Muri e campi di accoglienza La politica d’intimidazione, repressione ed espulsione dei migranti condotta a Calais è solo una parte della strategia decisa dall’Unione europea per chiudere le frontiere davanti a qualsiasi forma di migrazione indesiderata. L’Unione europea fa in modo che le vittime della sua politica di connivenza con il potere economico, finanziario e militare occidentale non si possano rivolgere a lei. Ormai, con i muri e i campi di accoglienza, diventati per molti dei veri e propri campi di concentramento. Ci stiamo avvicinando alla deinizione di crimine contro l’umanità: la “violazione deliberata e contraria della dignità della persona, dei diritti fondamentali di un individuo o di un gruppo di individui dovuta a motivi politici, ideologici, razziali o religiosi”. Ricordiamo che, oltre allo sterminio, alla riduzione in schiavitù, alla prostituzione forzata o alla persecuzione di un gruppo di persone, l’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale deinisce crimine contro l’umanità anche “altri atti inumani (...) diretti a provocare intenzionalmente grandi soferenze o gravi danni all’integrità isica o alla salute isica o mentale”. A causa della politica di respingimento dei migranti attuata dall’Unione europea, i morti nel Mediterraneo dal duemila sono ormai più di 22mila. Questo non dovrebbe essere riconosciuto come crimine contro l’umanità, rispettando le deinizioni date dalle convenzioni internazionali? u gim 20 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 ALBERTO PIzzOLI (AFP/GETTy IMAGES) In copertina Migranti nel porto di Augusta, il 22 aprile 2015 Gli afari milionari dei traicanti africani Matina Stevis, The Wall Street Journal, Stati Uniti a morte di centinaia di migranti nel Mediterraneo è la diretta conseguenza di un traico milionario di esseri umani gestito da milizie, capi tribali e banditi libici. Secondo Arezo Makakooti, una dirigente dell’Altai Consulting (società di consulenza che collabora con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), in Libia ci sono gruppi armati che sponsorizzano i loro servizi tra i migranti provenienti dall’Africa subsahariana e i siriani in fuga dalla guerra. Presentano il caos in Libia come un’occasione irripetibile per garantirsi un passaggio sicuro verso l’Europa. “I profitti del traffico di esseri umani hanno contribuito a consolidare una nuova struttura di potere nel Sahel e in Libia”, sostiene Tuesday Reitano, direttrice della Global initiative against transnational organized crime. Secondo Reitano, la tribù dei tubu guadagna sessantamila dollari a settimana dai passaggi in macchina che offre ai migranti dell’Africa occidentale per raggiungere Agadez, una città del Niger. Da lì i migranti sono trasportati a Sebha, nella Libia centrale, e poi verso nord, dove li aspetta il viaggio in mare verso l’Italia. L I proitti sono così alti da portare i gruppi tribali a combattere tra loro per il controllo delle tratte. I contrabbandieri fanno viaggiare i migranti da Ghat, che si trova nel sudovest della Libia, alle città di Awbari e Sebha. Questo tragitto verso nordest è molto pericoloso, perché i tubu si scontrano con i tuareg per il suo controllo. A Sebha gli uomini lavorano per mesi come braccianti e le donne come domestiche per guadagnare i mille dollari necessari a pagare il viaggio ino alla costa settentrionale della Libia. Finora l’Europa non è riuscita a smantellare queste reti. Secondo Frontex, l’agenzia europea per la gestione delle frontiere, nel 2014 le autorità dell’Unione europea hanno arrestato diecimila persone accusate di aver favorito il traico di esseri umani. Ma si tratta di igure di secondo piano, come gli autisti dei camion che trasportano i migranti o gli scaisti delle barche che attraversano il Mediterraneo. Dal 2014 le forze dell’ordine italiane hanno arrestato mille contrabbandieri ma non dispongono delle risorse necessarie per smantellare i traici, e il peggioramento della situazione in Libia rende molto diicile catturare i pesci più grossi. u gim È un errore fermare i migranti invece, saranno abbandonati in mezzo al mare dai traicanti, saranno inghiottiti dalle onde e moriranno annegati a pochi chilometri dalla terra promessa. Quello che collega il Sudafrica a Dadaab e alle rotte dell’immigrazione in Nordafrica è che in tutti e tre i casi si tratta di africani in movimento. Africani in cerca di una vita senza guerra, persecuzioni e discriminazioni, che possa garantire a loro e ai loro familiari un po’ di dignità, sicurezza e rispetto. Sono ancora troppi i paesi africani che non ofrono queste opportunità ai loro cittadini. E quelli che possono farlo non vogliono concederle a tutti. Tutto questo è un errore, e non solo sul piano morale o dei diritti umani. È un errore anche dal punto di vista pratico, puramente egoistico: gli africani che riescono a sfuggire alla povertà estrema e alle guerre sono dei sopravvissuti. Sono imprenditori. Sono i più disposti a lavorare sodo e ad assumersi dei rischi: sono gente temprata, in grado di cavarsela dovunque. La storia è dalla loro parte. Gli uomini sono sempre stati e sono ancora in movimento. Il progresso del genere umano deriva anche dalla ricerca incessante di pascoli più verdi e di nuove frontiere. Per quanto ci sforziamo, non riusciremo mai a fermare le persone che attraversano paesi e frontiere. Prima lo accettiamo e cominciamo a coglierne i vantaggi, meglio sarà. Tanto, alla ine, a perdere saranno quelli che cercano di fermare questo flusso, andando contro la natura dell’essere umano. u ma Simon Allison, Daily Maverick, Sudafrica Dal Sudafrica alle coste del Maghreb, chi parte in cerca di un futuro migliore rischia la vita. Ma la storia è dalla sua parte N Il prezzo da pagare Spostandoci ancora più a nord arriviamo alle spiagge bianche del mar Mediterraneo. Qui ogni settimana centinaia di persone rischiano la vita imbarcandosi su navi sgangherate guidate da equipaggi senza scrupoli che, in cambio di una somma spropositata, s’impegnano a portarle in Europa, dove nel migliore dei casi si ritroveranno a spazzare strade e a pulire gabinetti. E, nonostante ciò, questi immigrati dovranno affrontare il risentimento degli europei, troppo egoisti per capire che ospitare stranieri disposti a svolgere i lavori più umili è un prezzo molto basso da pagare in cambio della ricchezza sproporzionata che spesso deriva proprio dalla rapina e dal saccheggio delle terre altrui. I migranti meno fortunati, Le rotte seguite da profughi e migranti per raggiungere la costa libica, 2014-2015 Istanbul ITALIA SPAGNA Zuwarah MAROCCO TuRCHIA GRECIA Algeri Tripoli Ajdabiya Debdeb Sebha LIBIA ARAbIA SAuDITA Kufra Timiaouine Dongola Dirkou MALI Gao Agadez Niamey Ouallam bamako NIGERIA Cotonou benin City Migranti subsahariani In passato andavano in Libia per trovare lavoro. Ma dopo l’inizio della guerra civile sono costretti a proseguire il viaggio verso l’Europa IRAQ Il Cairo EGITTO Qatrun Tamanrasset SIRIA Damasco bengasi Ouargla ALGERIA FONTE: THE NEW YORK TIMES onostante tutti i discorsi sul panafricanismo e sull’ubuntu (un’espressione in lingua bantu che significa “benevolenza verso gli altri”), l’Africa è un continente che sa come maltrattare i suoi igli, soprattutto i più deboli. Cominciamo dal basso, dal Sudafrica, il motore economico e politico del continente, un paese che si vanta di rispettare i diritti umani e le norme internazionali. In questo paese un capo tradizionale della comunità zulu è salito agli onori della cronaca prendendo di mira un facile bersaglio, gli “stranieri”. Le sue parole hanno ispirato una serie di violenze contro gli immigrati (tutti africani), che sono stati cacciati dalle loro case e dai loro negozi, e sono stati picchiati per il semplice fatto di venire da un altro paese. Gli attacchi hanno causato sette morti. Spostandoci verso nordest, in Kenya, troviamo il campo profughi di Dadaab, il più grande del mondo. Ospita centinaia di migliaia di somali fuggiti dalla guerra. Neanche lì la vita è facile: il cibo scarseggia e il lavoro ancora di più. Lo stato keniano fa di tutto per impedire una vera integrazione perché preferisce lasciare i rifugiati in una specie di limbo, un purgatorio lontano da casa. A un certo punto il conlitto in Somalia (a cui partecipa anche un contingente di truppe keniane) si è inasprito e le conseguenze si sono fatte sentire anche in Kenya: all’inizio di aprile 148 studenti dell’università di Garissa sono stati uccisi a sangue freddo in un attentato rivendicato dai ribelli somali di Al Shabaab. Ora il Kenya vorrebbe chiudere il campo profughi di Dadaab entro tre mesi e rispedire tutti i rifugiati in Somalia. Il signiicato sottinteso quale sarebbe? Che i rifugiati somali rimangono in Kenya perché gli va bene così, come se fossero dei turisti che hanno comprato il pacchetto vacanze peggiore del mondo e ora hanno il visto scaduto? Del resto, chi non abbandonerebbe la casa, il lavoro, gli amici, la famiglia, i suoi terreni, i suoi averi e la sua storia per andare a vivere in una tenda polverosa in una striscia di terra arida e infuocata? SuDAN CIAD ERITREA Khartoum Profughi siriani Quelli che non riescono a ottenere il visto nei paesi vicini volano a Khartoum, in Sudan, per poi andare in Libia e da lì raggiungere l’Europa Gallabat Gondar Jijiga Kelafo Juba Gulu Dolo KENYA beledweyne SOMALIA Mbale Nairobi Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 21 Europa Cent’anni di silenzio sul genocidio armeno Il 24 aprile è il centesimo anniversario del primo genocidio europeo. L’opinione di un giornale armeno gruppi sunniti radicali finanziati dall’Arabia Saudita e dal Qatar continuano a estendere il loro controllo su alcune zone dell’Iraq e della Siria. Nei villaggi occupati i cristiani sono sistematicamente massacrati. Tra i più colpiti ci sono gli yazidi, i mandei e gli altri “eretici” che includono anche gli sciiti e i sunniti moderati. E i politici europei si ostinano a “non prestare attenzione” al fatto che i crimini contro queste minoranze si svolgono nelle stesse regioni dove un secolo fa avvenne il genocidio degli armeni. Con la diferenza che all’epoca gli armeni, gli assiri e i greci della regione del Ponto furono sterminati dai turchi. Ogni tentativo di fare un paragone tra quello che sta succedendo nelle ex province arabe dell’Impero ottomano e il genocidio degli armeni suscita l’indignazione del governo turco. A quanto pare la storia non ha insegnato niente. La particolarità del genocidio degli armeni, compiuto tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, sta prima di tutto nelle dimensioni del massacro e nel fatto che quel crimine è rimasto impunito. Inoltre, il massacro avvenne sotto gli occhi di una comunità internazionale che si ostinava a non vedere quello che stava succedendo. Non solo: dimostrando una sfrontata ipocrisia, la maggioranza dei paesi non ha mai ammesso che fu un genocidio. Inine, fu il primo sterminio di massa basato sul criterio della nazionalità compiuto da un paese che rivendicava la sua appartenenza al mondo moderno. Il genocidio degli armeni ha diversi punti in comune con l’olocausto organizzato alcuni decenni dopo dai nazisti: la stessa ferocia, l’indiferenza della comunità internazionale e un numero ristretto di persone che hanno cercato di conservare le prove dei crimini. Ma mentre i crimini nazisti so- I 22 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 no stati riconosciuti quasi universalmente, per il genocidio degli armeni i progressi sono molto scarsi e comunque non suicienti a soddisfare i parenti delle vittime, cioè la maggioranza degli armeni che vivono sparsi per il mondo. La spiegazione è semplice e sta nella diferenza tra la Germania del dopoguerra e la Turchia. Dopo la ine della seconda guerra mondiale, le potenze vincitrici imposero alla Germania un processo di denaziicazione. Lo sterminio degli ebrei è stato considerato un elemento fondamentale dell’ideologia nazista e l’apologia del nazismo è stata vietata. In Turchia, invece, l’intera classe politica era e rimane composta da persone che parteciparono al genocidio degli armeni o dai loro discendenti diretti. Il passaggio dalla Turchia di Atatürk a quella di Erdoğan non ha cambiato niente: gli islamisti riiutano di riconoscere i crimini dei loro antenati con la stessa energia dei kemalisti. Un altro elemento importante è il fatto che l’Armenia è stata una repubblica sovietica ino al 1991, mentre la Turchia fa parte della Nato ed è membro associato dell’Unione europea. Era chiaro dove si sarebbero indirizzate le simpatie della comunità internazionale. Da sapere Riconoscimento diicile u Il 24 aprile, giornata del ricordo del genocidio armeno, ricorre il centesimo anniversario dello sterminio di centinaia di migliaia di armeni – secondo alcuni storici più di un milione – da parte delle forze turche. Le uccisioni e le deportazioni di massa della popolazione cristiana dell’Armenia occidentale furono decise dall’impero ottomano dopo le sconitte subite all’inizio della prima guerra mondiale contro l’esercito russo, in cui militavano anche battaglioni di volontari armeni. u I paesi che hanno riconosciuto uicialmente il genocidio sono ventiquattro. L’Italia l’ha fatto nel 2000. Ankara continua a negare il genocidio, e questo rimane uno dei principali ostacoli nei negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea. CONTRASTO Evgenij Satanovskij, Novoe Vremja, Armenia Di solito si deinisce genocidio lo sterminio degli armeni nei territori controllati dall’impero ottomano a partire dal 1915 (durato secondo alcune fonti ino al 1923). Il genocidio si svolse in diverse fasi: disarmo dei soldati armeni, deportazione selettiva degli abitanti delle regioni di frontiera, adozione di una legge sulle espulsioni, deportazione di massa e uccisioni. Alcuni storici includono nel genocidio anche le stragi di massa degli armeni negli anni ottanta dell’ottocento, il massacro della città di Izmir e i soprusi compiuti dalle truppe turche in Transcaucasia nel 1918. Mehmet Talât , Ahmed Gemal e Ismail Enver, dirigenti del movimento dei Giovani turchi, e Bahattin Şakir, capo delle forze speciali dell’impero ottomano, sono considerati i principali organizzatori del genocidio. Il Regno Unito, la Francia e la Russia furono i primi paesi a deinire (in una dichiarazione del 24 maggio del 1915) un crimine contro l’umanità il massacro degli armeni. Cultura rasa al suolo Il numero di armeni uccisi è una questione che continua a suscitare polemiche, così come il numero di armeni che vivevano in quei territori. Le autorità turche ostacolano qualunque tentativo di indagine rigorosa. Si sa che intorno alla metà dell’ottocento la popolazione dell’impero era composta per L’opinione L’ipocrisia del governo turco Cengiz Aktar, Al Jazeera, Qatar Ankara continua a negare lo sterminio. Perché riconoscerlo signiicherebbe mettere in discussione la repubblica stessa e apriamo i libri di storia europea si parla dell’Africa, dell’Asia. Ma dove sono gli aborigeni australiani? Dove sono i nativi americani? Dove sono le tante tribù africane? Noi non abbiamo mai avuto ghetti. I ghetti sono un’invenzione europea”. Le parole di Ahmet Davutoğlu, primo ministro turco, dimostrano che le autorità di Ankara hanno reagito duramente alle ultime condanne del genocidio degli armeni. La prima è arrivata da papa Francesco, che il 12 aprile ha parlato dei massacri degli armeni ottomani nel 1915-1916 deinendoli il primo genocidio del ventesimo secolo. Qualche giorno dopo il parlamento europeo ha chiesto di nuovo alla Turchia di riconoscere il genocidio, un passo che permetterebbe una vera riconciliazione con l’Armenia. Ma Ankara ha ignorato questi appelli e si è preparata a modo suo al 24 aprile, la giornata del ricordo per gli armeni. Il governo ha deciso di anticipare dal 25 al 24 aprile le commemorazioni legate all’Anzac day, che ricorda la battaglia di Gallipoli durante la prima guerra mondiale: una mossa pensata per oscurare le commemorazioni del centenario del genocidio. Nel frattempo i funzionari turchi continuano a fare pressioni sui governi stranieri per assicurarsi che la parola genocidio non sia pronunciata in nessun evento legato al centenario. Quasi ogni anno in questo periodo qualche politico turco va a Washington per convincere i funzionari statunitensi a schierarsi contro l’uso della parola “genocidio” per descrivere il massacro di un milione e mezzo di armeni. Alti funzionari turchi di tutti gli schieramenti politici – tranne quelli curdi – si sono scagliati contro il papa e i parlamentari europei. In un attacco di rabbia, Ankara ha richiamato il suo ambasciatore presso la Santa Sede. Il presidente Recep “S Erevan, Armenia, 28 maggio 2013 il 56 per cento da non musulmani. Il primo censimento della popolazione nel 1844 parlava di quasi due milioni di armeni in Turchia orientale. Nel 1867, all’Esposizione universale di Parigi, l’impero aveva dichiarato che due milioni di armeni vivevano in Anatolia e 400mila nella Turchia europea. Secondo i dati del patriarcato armeno, invece, nel 1878 c’erano 400mila armeni nella Turchia europea, 600mila nell’Anatolia occidentale, 670mila nei distretti di Sivas, Trebisonda, Kayseri, Diyarbakır e circa 1,3 milioni sull’altopiano armeno. Nel 1914, secondo il patriarcato, gli armeni nel paese erano circa 1,8 milioni, cioè più di un milione in meno rispetto alle cifre precedenti, a causa dei massacri del 1894-1896, della fuga degli armeni turchi e della loro conversione forzata all’islam. Si pensa che alla ine del 1923 furono eliminati tra un milione e mezzo e due milioni di armeni (i ricercatori turchi parlano di 200mila vittime causate dalla guerra). Lo sterminio degli armeni fu accompagnato dalla distruzione del loro patrimonio culturale. Monumenti e chiese furono rasi al suolo, i cimiteri furono trasformati in campi coltivati, mentre i quartieri armeni delle città furono distrutti oppure occupati e i loro nomi cambiati. u adr Evgenij Satanovskij è un politologo russo. Tayyip Erdoğan ha perino lodato la generosità del suo governo nel decidere di “non deportare” i cittadini turchi armeni, goniando in modo inquietante il numero di armeni che lavorano in Turchia, per la maggior parte in nero. Minaccia esistenziale “Se vuole contribuire alla pace, il parlamento europeo non dovrebbe prendere decisioni che potrebbero sfociare in sentimenti di odio nei confronti di una religione o di un gruppo etnico”, ha detto il primo ministro Davutoğlu. E ha proseguito: “Questa vicenda va oltre la questione turco-armena. È un nuovo rilesso del razzismo in Europa. Non ci faremo ricattare attraverso dibattiti storici”. Questa posizione è stata sostenuta anche dalle autorità religiose. Mefail Hızlı, il mufti di Ankara, ha detto che la dichiarazione del papa “rispecchia una versione moderna delle crociate scatenate in queste terre per secoli e secoli”. Questa santa alleanza non deve sorprendere. Il genocidio degli armeni è stato il principale strumento della pulizia etnica e religiosa e del saccheggio perpetrato nei confronti dei gruppi non musulmani nel tardo impero ottomano. Un’operazione che condusse all’invenzione di uno statonazione turco omogeneo dal punto di vista religioso. Il genocidio è alla base stessa della Repubblica turca. Anzi, la pulizia etnica e religiosa è proseguita anche negli anni della repubblica. I monumenti religiosi non musulmani sono stati quasi tutti distrutti. Quindi qualsiasi ammissione delle violenze del passato sarebbe una minaccia alle fondamenta dello stato. Il governo, invece, ha bisogno non solo di negare ma anche di giustiicare indirettamente il genocidio per riafermare la sua esistenza. L’unica scintilla di speranza in questa ostinata oscurità arriva dalle sempre più numerose iniziative legate alla memoria lanciate dai cittadini. Iniziative che sidano la madre di tutti i tabù. u gim Cengiz Aktar è un politologo turco. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 23 Europa MIkkO STIg (LEHTIkUVA/AP/ANSA) Espoo, 19 aprile 2015. Timo Soini, leader del partito populista Veri inlandesi Cambia la maggioranza in Finlandia Jean-Baptiste Chastand, Le Monde, Francia Alle elezioni del 19 aprile hanno vinto i centristi dell’ex imprenditore Juha Sipilä, che era all’opposizione lle elezioni legislative del 19 aprile i inlandesi hanno virato verso l’euroscetticismo. Non solo hanno bocciato il premier uscente, l’europeista e conservatore Alexander Stubb del Partito della coalizione nazionale (Ncp), ma hanno anche spinto al secondo posto, dietro al Partito di centro, il partito populista dei Veri inlandesi guidato da Timo Soini, 52 anni, ostile all’immigrazione e soprattutto all’Europa. Con il 17,6 per cento dei voti e grazie alla ripartizione delle circoscrizioni elettorali, i Veri inlandesi hanno conquistato 38 seggi, uno in più rispetto all’Ncp che ha ottenuto il 18,2 per cento dei voti. Nel corso della cam- A pagna elettorale Soini aveva dichiarato la sua intenzione di far parte del futuro governo e ora si trova in una posizione di forza per ottenere il posto di ministro degli esteri. Soini, leader dei Veri finlandesi dal 1997, è riuscito ancora una volta a smentire i sondaggi che lo davano in calo rispetto al 2011. La sua popolarità è cresciuta soprattutto per le incertezze degli elettori sull’Europa, aumentate dopo la crisi dell’euro e del debito greco, che Soini non vuole inanziare. Nel suo programma si legge che la Finlandia deve “rinegoziare l’adesione all’Unione europea, recuperare i poteri ceduti a Bruxelles e ridurre quelli della Commissione europea”. Soini aferma di “non avere niente di personale contro i greci”: il problema è il governo “di estrema sinistra” che fa appello alla solidarietà europea. L’economia inlandese è in recessione da tre anni e i cittadini sono disposti ad accet- Il nuovo parlamento inlandese, totale dei seggi 200. Fonte: Afp Partito di centro 49 | Veri inlandesi 38 | Partito della coalizione nazionale (Ncp) 37 | Partito socialdemocratico 34 | Verdi 15 | Alleanza di sinistra 12 | Altri 15 24 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 tare un pesante taglio della spesa pubblica pur di uscirne, come hanno già fatto all’inizio degli anni novanta. I negoziati con il primo partito, i centristi dell’ex imprenditore Juha Sipilä, dovrebbero cominciare il 27 aprile e potrebbero durare settimane. Con il 21,1 per cento dei voti, Sipilä ha ottenuto 49 dei duecento seggi del parlamento, meno di quanto previsto dai sondaggi, e non ha escluso la possibilità di formare un governo con i Veri inlandesi. “In politica siamo pragmatici”, aveva afermato prima delle elezioni il segretario generale del Partito di centro Timo Laaninen. “Ogni partito con una presenza forte in parlamento ha diritto di governare. I Veri inlandesi sono diversi dal Front national”. Soini ha sempre usato toni civili sull’immigrazione, ma molti esponenti del suo partito sono stati accusati spesso di derive razziste, senza mai essere puniti. Programma rassicurante Secondo le previsioni fatte il 20 aprile dal principale quotidiano inlandese, Helsingin Sanomat, una coalizione con i Veri inlandesi sembra l’ipotesi più probabile. I conservatori dell’Ncp e i socialdemocratici, due grandi partiti del governo uscente, hanno perso voti e non vogliono più formare un esecutivo insieme. Il premier uscente, Alexander Stubb, è stato penalizzato perché ha perso la iducia degli elettori, che non vedono come lui e il suo partito possano rimettere in sesto il paese. Stubb aveva proposto di ridurre di 6 miliardi di euro la spesa pubblica e di far entrare la Finlandia nella Nato, un argomento delicato in un paese che condivide con la Russia una frontiera lunga 1.300 chilometri. Juha Sipilä, che probabilmente guiderà il governo, ha vinto soprattutto grazie a un programma più rassicurante rispetto a quello di Stubb, molto vago sulla portata dei tagli alla spesa pubblica e sull’adesione alla Nato, a cui il Partito di centro si è sempre opposto. Sipilä si è limitato a promettere la creazione di 200mila posti di lavoro puntando soprattutto sullo sviluppo delle bioindustrie, un argomento scelto per compiacere l’elettorato centrista, che ha una forte tradizione agricola. Sipilä ha approittato anche della sua immagine di uomo semplice ed entrato da poco in politica: è stato eletto deputato nel 2011, dopo una fortunata carriera da imprenditore. u gim MAxIM SHEMETOv (REUTERS/CONTRASTO) Regno Unito CIPRO Ballottaggio al nord Populismo di sinistra The Spectator, Regno Unito “Uno spettro si aggira per l’Europa e bussa alla porta di Downing street. Ha già fatto eleggere un presidente in Francia e un sindaco a New York. Ora sta seminando il caos in Spagna e in Grecia e sollevando venti di rivolta in Scozia, e potrebbe fermare la marcia trionfale di Hillary Clinton verso la Casa Bianca. Stiamo parlando del populismo di sinistra, una risposta radicale, coerente e moderna alla crisi inanziaria degli ultimi anni e alle diicoltà economiche dei cittadini. Il leader laburista Ed Miliband lo sta usando per avvantaggiarsi sugli avversari in vista delle elezioni legislative del 7 maggio nel Regno Unito. Insomma, è su questo credo che potrebbe essere basata la politica del governo britannico nei prossimi cinque anni”, scrive The Spectator. Secondo il settimanale conservatore, il programma elettorale del Partito laburista sfrutta gli umori populisti e incita alla lotta di classe, chiudendo deinitivamente l’era del New labour di Tony Blair. “Fino a poco tempo fa una strategia del genere sarebbe stata considerata suicida, ma oggi è estremamente popolare, perfetta per vincere le elezioni. Un po’ meno per governare dopo averle vinte”. ◆ RUSSIA Alleanza informale In Russia le forze di opposizione hanno fatto un importante passo avanti verso la creazione di un fronte comune. Il Partito repubblicano, di cui era copresidente Boris Nemtsov, assassinato a febbraio, e il Partito del progresso, guidato da Aleksej Navalnyj (nella foto), “hanno deciso di unire le forze per formare un blocco informale di opposizione”, scrive la Novaja Gazeta, ricordando che la legge russa vieta la creazione di coalizioni elettorali. Il primo banco di prova per i due partiti, a cui si sono aggiunte alcune formazioni minori, saranno le elezioni regionali di settembre. UCRAINA Oppositori nel mirino GRECIA Alba dorata sotto processo Ha suscitato grande impressione in Ucraina l’uccisione di due noti oppositori del governo nel giro di ventiquattr’ore. Il primo è Oleg Kalašnikov, ex deputato del Partito delle regioni e organizzatore delle proteste anti- GlEB GARANICH (REUTERS/CONTRASTO) Il 20 aprile è cominciato ad Atene il processo a 69 esponenti del partito neonazista Alba dorata, tra cui il leader Nikos Michaloliakos, accusati di far parte di un’organizzazione criminale. l’udienza è stato però sospesa per motivi procedurali, e riprenderà solo il 7 maggio. Il processo è il risultato di una lunga inchiesta seguita all’uccisione del rapper Pavlos Fyssas da parte di un militante di Alba dorata nel settembre del 2013, scrive Kathimerini. Il quotidiano racconta anche che alcuni testimoni sono stati aggrediti da sostenitori di Alba dorata fuori dal tribunale. Maidan. Il secondo è Oles Buzina, noto giornalista e conduttore tv ilorusso. Sono stati uccisi nello stesso modo, vicino alle loro abitazioni e con cinque colpi sparati da uomini dal volto coperto. Il sito Spilne osserva che “in un clima di impunità, in cui molti incitano a regolare i conti al di fuori delle aule giudiziarie, aumenta la possibilità che i ‘patrioti’ compiano azioni violente. Ma così si inisce per legittimare la violenza politica”. Intanto nell’ovest dell’Ucraina sono cominciate le esercitazioni congiunte dell’esercito statunitense e di quello ucraino, scrive Korrespondent. Circa trecento paracadutisti americani (nella foto) addestreranno i soldati della guardia nazionale ucraina, tra cui igurano anche membri del battaglione neofascista Azov. Il 19 aprile si è svolto il primo turno delle presidenziali nell’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro Nord. Il capo di stato uscente Derviş Eroğlu ha ottenuto il 28,2 per cento dei voti, battendo il candidato indipendente Mustafa Akıncı (26,9 per cento), che aveva basato la sua campagna elettorale sulla lotta alla corruzione. Il vincitore del ballottaggio del 26 aprile avrà il compito di riprendere i negoziati con la Repubblica di Cipro per la riuniicazione dell’isola, scrive il quotidiano turco Hürriyet. la Repubblica Turca di Cipro Nord, fondata nel 1983, è riconosciuta solo dalla Turchia. IN BREVE Francia Il 22 aprile il ministro dell’interno Bernard Cazeneuve ha annunciato l’arresto vicino a Parigi di un algerino che stava per compiere un attentato in una chiesa. Germania Il 21 aprile è cominciato a lüneburg il processo a Oskar Gröning, 93 anni, ex contabile del campo di concentramento di Auschwitz. Russia l’esercito ha annunciato il 20 aprile di aver ucciso Aliaskhab Kebekov, leader dei ribelli jihadisti del Caucaso, in un’operazione nel Daghestan. Spagna Il 16 aprile la polizia ha perquisito a Madrid l’abitazione dell’ex direttore del Fondo monetario internazionale Rodrigo Rato, sotto inchiesta per riciclaggio. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 25 Africa e Medio Oriente Proteste contro gli immigrati a Johannesburg, 17 aprile 2015 Da sapere IhSAAn hAFFEJEE (AnADOLu AGEnCy/GETTy IMAGES) Manifestazioni e rimpatri La reazione del Sudafrica alle aggressioni xenofobe Ranjeni Munusamy, Daily Maverick, Sudafrica Gli attacchi contro gli stranieri a Durban e a Johannesburg sono la conseguenza di una grave crisi politica e sociale. Finora il governo ha semplicemente ignorato il problema isoccupazione, economia in calo, crisi politica, alti livelli di criminalità e corruzione, servizi ineicienti: non è un mistero che il Sudafrica è in crisi. Di fronte a questi problemi, però, il governo non si è assunto le sue responsabilità e il presidente Jacob Zuma ha preferito addossare le colpe di molti problemi all’eredità dell’apartheid, invece di riconoscere i suoi fallimenti. Tuttavia l’ondata di violenze xenofobe a Durban, Pietermaritzburg e Johannesburg ha costretto Zuma e il governo a darsi da fare. Il 12 aprile il presidente ha nominato una squadra di ministri incaricata di occuparsi delle aggressioni agli stranieri, che dal 30 marzo hanno causato sette morti e costretto migliaia di persone ad abbandonare le loro case. Il 18 aprile Zuma ha cancellato un viaggio uiciale in Indonesia e ha fatto visi- D 26 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 ta agli sfollati del campo di accoglienza di Chatsworth, a Durban. Ma è stato accolto con ostilità e alcuni hanno espresso delusione per la lenta reazione delle autorità. Prendere le distanze Se il Sudafrica non riuscirà a fermare le violenze, saranno a rischio non solo i rapporti diplomatici con gli altri paesi africani, ma anche le attività di mediazione in tutto il continente: sarebbe strano per i leader sudafricani presentarsi come dei paciicatori all’estero, mentre non sono capaci di tenere la situazione sotto controllo in patria. Il ministro dell’interno Malusi Gigaba ha minacciato di adottare misure severe per punire chi commette violenze o le provoca, “a prescindere dal posto che occupa nella società”. Finora sono state arrestate 307 persone. Il governo, però, non ha preso le distanze dal re zulu Goodwill Zwelithini, accusato di aver alimentato la xenofobia con le sue dichiarazioni (ha invitato gli stranieri a “fare le valigie e tornarsene a casa”). Gigaba ha annunciato che gli sfollati hanno ricevuto cibo e alloggio nei campi allestiti vicino alle città colpite dalle violenze. Anche le organizzazioni religiose e della società civile si sono coordinate per soccor- u Il 21 aprile il governo sudafricano ha inviato l’esercito nelle aree di Johannesburg e di Durban più interessate dalle violenze xenofobe. Il bilancio degli attacchi contro i lavoratori stranieri è di sette morti e di circa cinquemila sfollati, in gran parte originari del Mozambico, del Malawi e dello Zimbabwe. Secondo le autorità, almeno 900 persone hanno chiesto di essere rimpatriate. A Lagos, in nigeria, e a Lilongwe, in Malawi ci sono state proteste contro la xenofobia in Sudafrica. rere le vittime. Il 18 aprile la federazione di calcio sudafricana ha annunciato che la nazionale giocherà due amichevoli contro le squadre di paesi coninanti. Sono state necessarie le morti di Emmanuel Sithole (il mozambicano accoltellato il 18 aprile nella township di Alexandra, a Johannesburg) e di altre sei persone per costringere il Sudafrica a condannare gli attacchi xenofobi e a impegnarsi per ridare stabilità al paese. La parte peggiore della società ha fatto emergere anche la sua parte migliore: le manifestazioni di solidarietà, la determinazione di alcuni funzionari, la lotta ai comportamenti criminali e gli sforzi per promuovere il rispetto della vita. È forse questo il risvolto positivo di un episodio orribile della storia del Sudafrica. Oggi la priorità è riportare la pace. Ma sarebbe un errore, quando le violenze si saranno fermate, fare inta che non sia successo nulla. Molti concordano sul fatto che gli attacchi sono il risultato di diversi fattori: dagli scarsi controlli alle frontiere alla dura competizione per le risorse. Se i sudafricani non impareranno da questa esperienza, simili eventi si ripeteranno in altre forme. E arriverà il giorno in cui non sarà più possibile fermarli. u gim Africa e Medio Oriente Yemen MALI EGITTO Dura condanna per Morsi Il 21 aprile l’ex presidente egiziano Mohamed Morsi (nella foto) è stato condannato a vent’anni di carcere per “istigazione alla violenza” e per aver incarcerato e torturato i manifestanti dell’opposizione dopo gli scontri al palazzo presidenziale Ittihadeya nel dicembre del 2012. Morsi deve afrontare ancora quattro processi, scrive Mada Masr. Altri 22 Fratelli musulmani sono stati condannati a morte per aver ucciso 14 poliziotti nel commissariato di giza. L’ong Amnesty international ha deinito il processo a Morsi “una farsa”. Al Shorouk scrive che “le condanne esagerate nuocciono all’immagine dell’egitto”. MOHAMeD AL-SAYAgHI (ReuTeRS/COnTRASTO) ASMAA WAguIH (ReuTeRS/COnTRASTO) Una strategia incerta La coalizione guidata da Riyadh ha annunciato la ine dei bombardamenti sullo Yemen il 21 aprile, spiegando di aver raggiunto l’obiettivo di eliminare la minaccia che l’avanzata dei ribelli zaiditi houthi costituiva per l’Arabia Saudita e i paesi vicini (nella foto, un combattente houthi a Sanaa, il 21 aprile 2015). Tuttavia, scrive Al Jazeera, il 22 aprile ci sono stati nuovi raid su Aden e Taiz, e sono stati registrati scontri sul terreno tra i ribelli e i sostenitori del presidente Abd Rabbo Mansur Hadi nelle città di Aden, Lahij e Daleh. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il bilancio delle vittime della guerra (aggiornato al 17 aprile) è di 944 morti e 3.487 feriti. u ETIOPIA BURUNDI Le vittime dei terroristi Clima teso in vista del voto Ad Addis Abeba migliaia di persone sono scese in piazza il 22 aprile per protestare contro l’uccisione di 28 cristiani etiopi in Libia, scrive The Reporter. Il massacro è stato mostrato in un video pubblicato online il 19 aprile dal gruppo Stato islamico. Secondo Ha’aretz, tra le vittime dei jihadisti che appaiono nel video ci sono anche tre eritrei richiedenti asilo che non erano stati accolti in Israele. uno di loro, dopo essere passato per uganda e Ruanda, era inito in Libia perché da lì avrebbe potuto raggiungere l’europa. Il governo ha minacciato di far intervenire l’esercito per fermare le proteste, in corso da mesi, contro il presidente Pierre nkurunziza, che vorrebbe presentarsi alle elezioni del 26 giugno per ottenere un terzo mandato. Il 17 aprile nella capitale Bujumbura un migliaio di manifestanti si è scontrato con le forze di polizia. Centoventi persone sono state arrestate e 65 militanti dell’opposizione sono stati rinviati a giudizio. Le proteste contro nkurunziza non sono organizzate solo dai partiti di opposizione (convinti che un terzo 28 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 mandato presidenziale sia illegale), ma anche dai gruppi della società civile e dalla chiesa. nel paese intanto cresce la tensione. Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, nelle ultime due settimane ottomila burundesi sono già scappati nei paesi vicini, in particolare in Ruanda e nella Repubblica Democratica del Congo, per paura di violenze in occasione del voto. “Il modello di convivenza burundese tra le etnie hutu, tutsi e twa sarà messo alla prova”, scrive Jeune Afrique. Come il Ruanda, anche il Burundi ha vissuto una durissima guerra civile a sfondo etnico negli anni novanta, in cui sono morte centinaia di migliaia di persone. Ancora nell’instabilità “Quando è stato eletto nel 2013, il presidente maliano Ibrahim Boubacar Keïta ha promesso di ristabilire l’autorità dello stato nel nord del paese”, che era stato occupato da milizie tuareg e jihadiste. Tuttavia, scrive Le Point Afrique, “la situazione non è ancora stata risolta e l’accordo per la pace e la riconciliazione – che avrebbe dovuto essere irmato il 1 marzo – è a un punto morto”. Il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (formato dai gruppi ribelli tuareg e arabi) continua a respingere i termini dell’intesa. Intorno a gao, nel nordest del Mali, si moltiplicano gli attacchi contro le forze della missione dell’Onu (Minusma). Il 17 e il 20 aprile sono stati attaccati due convogli di rifornimenti destinati alla Minusma. In tutto sono rimaste uccise almeno tre persone. IN BREVE Somalia Il 21 aprile tre persone sono morte nell’esplosione di un’autobomba davanti a un ristorante a Mogadiscio. Altre sei persone sono morte in un attacco contro un minibus dell’Onu a garowe, nel Puntland. Camerun Il 17 aprile 19 persone sono morte in un attacco di Boko haram nel villaggio di Bia. Iraq Izzat Ibrahim al Duri, ex numero due del regime di Saddam Hussein, sarebbe morto il 17 aprile nei combattimenti vicino a Tikrit. Le autorità attendono il test del dna per conferma. Americhe L’America Latina non aiuta chi difende la terra María Martín, El País, Spagna el 2014 Raimundo Rodrigues da Silva, un contadino di 42 anni che aveva passato la vita a lottare per proteggere la sua terra, è stato ucciso da un colpo di fucile nella zona di Campestre, a 280 chilometri da São Luís, città nel nordest del Brasile. Secondo la Commissione pastorale della terra (Cpt), il suo nome era da tempo su una lista nera perché si era opposto al latifondo che minacciava la sua comunità e al potente proprietario terriero che lo rappresentava. Quello di Rodrigues da Silva è solo uno dei 116 omicidi segnalati dall’ultimo rapporto dell’ong britannica Global witness sulla violenza subita dagli ambientalisti nel mondo, intitolato “How many more?”. Nel 2014 sono ci sono state 21 vittime in più dell’anno precedente, e il Brasile è ancora in testa alla classifica mondiale della violenza legata all’ambiente, con 29 vittime, cioè il 25 per cento degli omicidi totali. Seguono la Colombia (25 vittime), le Filippine (15) e l’Honduras (12) in una lista totale di diciassette paesi. In America Latina sono stati assassinati 87 militanti ambientalisti. E l’Honduras, considerato dalle Nazioni Unite il paese più violento del mondo, è per il quinto anno consecutivo il paese con più omicidi di ambientalisti rispetto alla popolazione. N BRUNo KELLy (REUtERS/CoNtRASto) Secondo l’ultimo rapporto dell’ong Global witness, nel 2014 gli omicidi degli indigeni e dei militanti ambientalisti sono aumentati. Solo in Brasile sono state uccise 29 persone Brasile, 29 gennaio 2014. La protesta di un indigeno a Manaus Nel caso del Brasile, dove l’organizzazione ha documentato 477 omicidi dal 2002, molte morti sono legate ai conlitti per la proprietà, il controllo e l’uso delle terre, oltre che al disboscamento illegale. Le cause sono le stesse in tutto il mondo e la situazione si complica nelle piccole comunità e nei villaggi indigeni che lottano per ottenere la proprietà delle loro terre, un diritto che li spinge a scontrarsi con gli interessi dell’industria agricola e mineraria, con la costruzione di dighe e il disboscamento intensivo. Da sapere Il rapporto di Global witness Nel 2014 ci sono stati 116 omicidi legati alla difesa dell’ambiente in diciassette paesi Totale Di cui vittime indigeni Totale Di cui vittime indigeni Brasile 29 4 Indonesia 2 1 Esecutori e mandanti Colombia 25 15 Birmania 2 2 Secondo Global witness, che si occupa dei casi di corruzione e di abuso nello sfruttamento delle risorse naturali, le cifre (che potrebbero essere molto più alte) sono “drammatiche”. L’ong sottolinea anche “la tendenza preoccupante di alcuni governi a usare le norme antiterrorismo contro gli attivisti, descritti come nemici dello stato”. Filippine 15 9 Uganda 2 2 Honduras 12 4 Ecuador 1 1 Perù 9 7 India 1 - Guatemala 5 4 Costa Rica 1 - thailandia 4 1 Sudafrica 1 - Paraguay 3 3 Cambogia 1 - Messico 3 1 Fonte: Global witness 30 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Il 40 per cento delle vittime sono indigeni. Secondo il rapporto, la maggior parte degli omicidi degli ambientalisti rimane impunito. Ma non va sempre così: il presunto assassino di Rodrigues da Silva è ancora in carcere in attesa di giudizio. Diogo Cabral, avvocato della Cpt, aferma che in Brasile gli omicidi di almeno 1.200 contadini impegnati nella difesa dell’ambiente sono ancora senza un colpevole. “Il caso di Rodrigues è un eccezione”, aferma. Global witness denuncia che non ci sono informazioni uiciali sugli omicidi, ma prova a indicare le categorie coinvolte nei casi più documentati: i gruppi paramilitari, la polizia, le guardie di sicurezza private e i militari. Loro premono il grilletto, ma di solito i mandanti sono i grandi proprietari terrieri, che tuttavia non sono quasi mai indagati. Global witness sottolinea che le aziende e i governi di solito favoriscono gli accordi per coltivare i prodotti più richiesti, come la gomma, su terreni e boschi molto estesi. Nonostante questo il Brasile si prepara a votare una legge, la Pec 215, per trasferire il potere di delimitare le aree indigene, oggi attribuito al governo e protetto dalla costituzione, al parlamento, dov’è forte la lobby dei principali interessati allo sfruttamento di queste terre. u fr Colombia STATI UNITI Almeno quindici dollari YAMIL LAGE (AFp/GEttY IMAGES) I calcoli sbagliati delle Farc Semana, Colombia CUBA Cuomo all’Avana Il 21 aprile il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo (nella foto), ha terminato la sua prima visita uiciale a Cuba. L’obiettivo del viaggio, scrive 14ymedio, era potenziare le relazioni commerciali con gli Stati Uniti dopo l’annuncio, lo scorso 17 dicembre, della ripresa dei rapporti diplomatici tra i due paesi. Cuomo si è espresso contro l’embargo commerciale statunitense a Cuba, sottolineando che “l’isolamento non è stato produttivo”. Intanto il 19 aprile due dissidenti cubani, Hildebrando Chaviano e Yuniel López, non sono riusciti a ottenere i voti necessari per entrare nell’Assemblea municipale. A mezzanotte del 15 aprile un’unità delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) ha attaccato l’esercito colombiano nel municipio di Buenos Aires, nel dipartimento di Cauca. “Il combattimento è durato pochi minuti”, scrive Semana, “e il bilancio è stato di undici soldati morti e diciassette feriti. Nell’attacco hanno perso la vita anche due guerriglieri”. Il presidente Juan Manuel Santos ha reagito senza esitazioni annunciando la ripresa dei bombardamenti contro la guerriglia sospesi poche settimane prima. Al di là dell’indignazione per l’attacco, bisogna chiedersi cosa ha spinto le Farc a compiere un gesto che rischia di avere solo efetti controproducenti, proprio quando i negoziati di pace con il governo in corso da più di due anni all’Avana sembravano a buon punto. Secondo Semana, il gruppo guerrigliero ha fatto male i calcoli: l’azione del 15 aprile non convincerà il governo a dichiarare un cessate il fuoco bilaterale, ma farà solo aumentare la siducia dell’opinione pubblica verso il processo di pace. Ora serve un gesto di buona volontà da parte della guerriglia, che deve condannare l’attacco e chiedere perdono al paese. ◆ STATI UNITI STATI UNITI Un premio ai giornali locali Il 21 aprile il dipartimento di giustizia statunitense ha aperto un’indagine per violazione dei diritti civili a proposito della morte di Freddie Gray, un nero di venticinque anni, avvenuta il 19 aprile in un ospedale di Balti- Baltimora, 21 aprile 2015 SAMUEL CORUM (ANADOLU AGENCY/GEttY IMAGES) Il 20 aprile a New York sono stati annunciati i vincitori dell’edizione 2015 del premio pulitzer, il riconoscimento giornalistico più prestigioso degli Stati Uniti. Sono state premiate molte testate locali: il post and Courier di Charleston, in South Carolina, ha ricevuto il premio per il giornalismo di pubblica utilità per una serie di articoli sulle violenze nei confronti delle donne. Nella sezione fotograia d’attualità la redazione del St. Louis post-Disptach è stata premiata per le foto delle proteste dei neri contro gli abusi della polizia. La rabbia di Baltimora mora, nel Maryland. Una settimana prima Gray, che era disarmato, era stato arrestato da quattro agenti e caricato su un furgone della polizia. In seguito era stato portato in ospedale con gravi lesioni alla spina dorsale. Dopo la sua morte migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro gli abusi della polizia nei confronti dei cittadini afroamericani, e il dipartimento di polizia ha sospeso sei agenti coinvolti nella vicenda. Il New York Times spiega che la situazione di Baltimora è diversa da quella di Ferguson e di altre città in cui ci sono stati abusi nei confronti di cittadini neri. “Molti funzionari, tra cui il sindaco Stephanie Rawlings-Blake, sono neri. E ora i cittadini si aspettano da loro delle risposte immediate e concrete”. Nell’ultima settimana migliaia di lavoratori hanno manifestato in diverse città degli Stati Uniti per chiedere l’aumento del salario minimo. Il movimento Fight for $15, sostenuto dai sindacati, ha coinvolto i lavoratori del settore della ristorazione, dei servizi per l’infanzia e per gli anziani, della catena di grandi magazzini Walmart, ma anche gli insegnanti di supplenza in diverse azioni di protesta: tutti a chiedere l’aumento del salario minimo dagli attuali 7,25 dollari l’ora a 15 dollari. Il Washington Post spiega che “negli ultimi sei anni il salario minimo federale è rimasto fermo, ma 29 stati l’hanno alzato, e altri quindici hanno in programma aumenti salariali nel entro la ine del 2015”. IN BREVE Messico Il 17 aprile tre persone sono morte in una sparatoria tra poliziotti e narcotraicanti a Reynosa, nello stato di tamaulipas, nel nordest del paese. Stati Uniti La procura federale di Minneapolis ha annunciato il 20 aprile l’arresto di sei statunitensi di origine somala accusati di aver cercato di raggiungere il gruppo Stato islamico in Siria. Venezuela Il 19 aprile il presidente Nicolás Maduro ha annunciato di aver ottenuto un inanziamento da cinque miliardi di dollari dalla Cina. Il paese sta attraversando una grave crisi economica. Internazionale 1099 | 25 aprile 2015 31 Asia e Paciico Decorazioni per la visita di Xi Jinping a Islamabad, 19 aprile 2015 tuttavia, non bisogna sopravvalutare il signiicato strategico di un nuovo accesso di Pechino all’oceano Indiano attraverso la strada tortuosa che collega Kashgar, nello Xinjiang, al porto pachistano di Gwadar, finanziato dai cinesi. Kashgar, infatti, è molto lontana dal cuore della Cina, ed è in balia della diicile convivenza tra gli uiguri, la minoranza musulmana che abita nella regione, e gli han. Inoltre il percorso dalla città alla pianura del Punjab è lungo, diicile e passa vicino al conine con l’India, attraverso il Kashmir pachistano. ReUteRS/ContRASto Interessi incrociati Il regalo di Pechino a Islamabad Asia Sentinel, Hong Kong Il presidente cinese Xi Jinping è andato in Pakistan annunciando investimenti per 46 miliardi di dollari. Un impegno economico con risvolti strategici che riguardano anche l’India a conclusione che possiamo trarre dalla visita del presidente cinese Xi Jinping in Pakistan è che Pechino e Islamabad sono diplomaticamente nei guai se diventano i migliori alleati in Asia. L’oferta cinese di investire in Pakistan 46 miliardi di dollari – in gran parte nella costruzione di strade, ferrovie e nella rete elettrica – è stupefacente. Gran parte dei mezzi d’informazione pachistani ha accolto con grande favore la notizia, presentando l’impegno economico cinese come il punto di partenza per trasformare il Pakistan in una nuova tigre asiatica. È diicile immaginare un altro paese in Asia così felice per questo “abbraccio”, soprattutto considerando che lo Sri Lanka e la Birmania hanno fatto grandi sforzi per liberarsi dalla stretta della Cina. Le Filippine e il Vietnam, molto vicini a Pechino, L 32 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 stanno lavorando a un piano di mutua difesa per contrastare le azioni della Cina nel mar Cinese meridionale. L’ingente impegno economico cinese in Pakistan fa parte di una più ampia iniziativa di Pechino per migliorare le infrastrutture in modo da promuovere il commercio tra i due paesi e assicurarsi che le merci, i servizi e i capitali possano muoversi facilmente, favorendo soprattutto gli interessi cinesi. L’investimento totale potrebbe ammontare a circa 225 miliardi di euro. La Cina ne trarrà due vantaggi a breve termine. Innanzitutto la gratitudine dei pachistani, perché gli investimenti potrebbero ridurre in poco tempo le enormi carenze energetiche del paese. Inoltre la manovra potrebbe attirare di nuovo sul Pakistan l’attenzione dell’India, che teme per la propria sicurezza. negli ultimi anni l’aumento della presenza cinese nel golfo del Bengala e nell’oceano Indiano aveva distratto new Delhi. Ma allo stesso tempo, il clamore suscitato dagli investimenti cinesi potrebbe scoraggiare l’India dal cercare un compromesso con Islamabad in altri ambiti, a partire da una maggiore cooperazione economica (che per i due paesi sarebbe molto più utile degli investimenti cinesi). La Cina sa bene che le forze islamiste create o sostenute dal Pakistan possono essere pericolose, dati i suoi problemi nello Xinjiang. Il governo cinese probabilmente pensa che la leva economica possa spingere l’intelligence pachistana a non dare sostegno alle forze islamiste che potrebbero danneggiare gli interessi indiani. tuttavia gli interessi incrociati della Cina in Asia centrale, che rendono molto difficili le scelte politiche, potrebbero diventare tanto numerosi quanto quelli degli Stati Uniti in Medio oriente. Il Pakistan ha giocato bene una diicile partita diplomatica restando vicino a Washington nonostante il ruolo degli Stati Uniti in Afghanistan. Di recente il governo pachistano ha ofeso i suoi ricchi amici sunniti in Arabia Saudita e nel Golfo riiutandosi di partecipare alla coalizione contro i ribelli houthi nello Yemen. Forse Islamabad ha ritenuto che far infuriare l’Iran senza probabilmente riuscire a fare pulizia nello Yemen non era una buona idea, soprattutto considerando l’afrancamento di teheran dallo status di paria per l’occidente e la sua capacità di suscitare disordini in Belucistan. Alla lunga questi problemi peseranno più di qualsiasi somma di denaro. u as Afghanistan HONG KONG Riforma BOBBY YIP (ReuTeRS/CONTRASTO) L’ombra dello Stato islamico senza sorprese Gao Yu Giornalista dietro le sbarre Il 16 aprile Gao Yu, una delle più note giornaliste cinesi, è stata condannata a sette anni di carcere per aver consegnato a un giornale straniero una circolare interna del Partito comunista. Si tratta del Documento n. 9, che richiama all’unità ideologica contro “i sette pericoli”, tra cui la società civile e la visione occidentale dell’informazione, del quale il New York Times due anni fa pubblicò alcuni stralci. Insieme alla sospensione di Bi Fujian, il giornalista punito per aver ofeso Mao Zedong in privato, il caso Gao è la dimostrazione del controllo ideologico sempre maggiore voluto da Xi Jinping, scrive Mingpao. COREA DEL SUD Il periodo nero di Park Per la presidente Park Geun-hye non è un buon periodo. Mentre i familiari delle vittime del naufragio del traghetto Sewol, in cui un anno fa sono morte 304 persone, fanno pressione perché apra un’inchiesta sulle cause della tragedia, Park ha perso il suo braccio destro. Il primo ministro Lee Wan-koo si è infatti dimesso il 21 aprile dopo soli due mesi di incarico. Il nome di Lee era su una lista di politici accusati da un magnate dell’edilizia morto suicida qualche giorno prima di aver ricevuto tangenti da lui, scrive Hankyoreh. PARWIZ (ReuTeRS/CONTRASTO) CINA Funerale dopo l’attentato di Jalalabad, 18 aprile 2015 Il 18 aprile 35 persone sono morte e più di cento sono rimaste ferite in un attentato suicida davanti alla iliale della New Kabul Bank a Jalalabad, nell’est del paese. L’attacco, di cui i taliban hanno negato la paternità, è stato rivendicato da un gruppo che si è presentato come il braccio dello Stato islamico nella regione. Il presidente afgano Ashraf Ghani ha condannato il primo attentato del gruppo Stato islamico nel paese. Il giorno dopo, tuttavia, in un’intervista a The Daily Beast, Sheikh Muslim Dost, un portavoce del gruppo Stato islamico in Afghanistan, ha negato la responsabilità della sua organizzazione nell’attacco. “È possibile che alcuni capi taliban abbiano cominciato a indossare i panni dello Stato islamico, dato che ogni tanto qualche dissidente si stacca e giura fedeltà all’organizzazione jihadista radicata in Iraq e in Siria”, scrive l’analista M. K. Bhadrakumar su Asia Times. “Il punto non è se ci sia o meno un legame concreto tra questi elementi e il quartier generale dello Stato islamico in Iraq”, spiega Bhadrakumar. “Il punto è che lo Stato islamico è un’idea, e se quell’idea attecchisce anche solo nelle menti di pochi estremisti in Afghanistan o in Pakistan la prospettiva diventa terriicante. Tuttavia, mentre il governo di Kabul e altri paesi nella regione sostengono che lo spettro dello Stato islamico sia già arrivato in Afghanistan, Washington e i suoi alleati rimangono cauti. È chiaro che per Barack Obama l’arrivo dello Stato islamico nel paese sarebbe una nuova conferma del fatto che la guerra cominciata nel 2001 è stata un fallimento colossale; d’altra parte, però, darebbe agli statunitensi il pretesto per mantenere le loro basi militari nel paese ancora a lungo”. Forse è proprio questo il motivo che ha spinto Ghani ad attribuire l’attentato di Jalalabad allo Stato islamico, conclude il Daily Beast. u Nessuna sorpresa nella riforma elettorale presentata il 22 aprile in parlamento dalla segretaria capo di Hong Kong Carrie Lam in vista del voto del 2017, scrive il South China Morning Post. La riforma, infatti, segue le linee guida indicate da Pechino nell’agosto del 2014, fortemente contestate dai manifestanti che occuparono alcune zone della città durate più di due mesi. Secondo le nuove regole, un comitato di 1.200 rappresentanti dei principali settori dell’economia e della società – imprenditori e commercianti, professionisti, politici, esponenti della società civile e di gruppi religiosi – nominati in gran parte da Pechino voterà i candidati. IN BREVE Giappone Il 22 aprile un tribunale ha respinto il ricorso di un gruppo di cittadini contro la riattivazione dei reattori nucleari Sendai 1 e 2 a Kagoshima. La settimana scorsa un altro tribunale aveva bloccato per motivi di sicurezza la riattivazione dei reattori Takahama 3 e 4. Australia La polizia ha annunciato il 18 aprile di aver arrestato cinque presunti terroristi, due dei quali stavano per compiere un attentato a Melbourne. Cina Il 17 aprile un uomo è morto nella provincia del Sichuan dopo essersi dato fuoco per protestare contro la repressione in Tibet. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 33 Le opinioni La violenza della polizia è solo un sintomo Ta-Nehisi Coates uando si parla degli omicidi compiuti “potere” e “autorità”. L’autorità è una questione di rapdagli agenti di polizia si tende a concen- porti, lealtà e interazione, e “si fonda sul consenso di trarsi sulla tattica piuttosto che sulla chi vi è sottoposto”. Il potere invece è “esterno” e si “bastrategia. Pensiamo alle azioni sa sulla forza”. Il potere esiste dove la lealtà non esiste dell’agente in questione cercando di più o non è mai esistita. “Il potere si aferma solo quancapire cosa pensava in quel momento. do l’autorità viene meno”. Gli afroamericani hanno quasi sempre vissuto sot“La scelta di sparare era giustiicata?”, ci chiediamo. Ma forse dovremmo farci un’altra domanda: “Era la to il potere del sistema giudiziario, non sotto la sua autorità. L’elemento dominante nel rapporto tra gli polizia che doveva intervenire?”. Da qualche tempo gli statunitensi hanno deciso afroamericani e il loro paese è stato la privazione, e la che le risposte migliori a ogni problema sociale sono la privazione ha reso impossibile l’autorità della polizia e polizia e i giudici. Questioni sociali come l’abuso di necessario il potere della polizia. Lo scetticismo sulla droga, l’impossibilità di mantenere i igli e la malattia versione fornita dall’agente Darren Wilson a proposito dell’omicidio di Michael Brown, per mentale sono afrontati ricorrendo a uoesempio, nasce dalla mancanza di automini e donne specializzati nel suscitare Gli statunitensi hanno deciso che rità della polizia, ovvero dalla convinpaura e nel far rispettare l’ordine. zione che i poliziotti mentono come Quando Walter Scott scappava dalla la risposta migliore qualsiasi altro cittadino. I genitori afropolizia di North Charleston non stava a ogni problema americani avvertono i loro igli di non scappando solo dall’agente Michael Tho- sociale è ricorrere fare gesti improvvisi in presenza di un mas Slager, ma dalla prospettiva di inire a uomini e donne agente, non perché devono rispettare un in carcere. Stava scappando perché ab- specializzati nel ideale democratico, ma perché sanno biamo deciso che il sistema penale è lo suscitare paura che l’agente potrebbe ucciderli. strumento migliore per occuparsi degli e far rispettare Eppure per la maggior parte degli stauomini che non possono o non vogliono l’ordine tunitensi la polizia e il sistema giudiziario mantenere i loro igli a un livello che noi sono portatori di un’autorità. Il distintivo consideriamo adeguato. Alla radice della maggior parte delle sparatorie che hanno coinvolto la non rappresenta la forza, ma il consenso e una legittipolizia c’è un problema sociale che abbiamo trasforma- mità fondata sull’integrità. È per questo che quando un politico critica l’operato di un poliziotto deve sempre to in un problema di ordine pubblico. Il 6 marzo a Madison un agente di polizia ha ucciso aggiungere che “la maggior parte dei poliziotti sono un uomo di nome Tony Robinson che era sotto l’efetto persone buone e integerrime”. Sembra una pessima di funghi allucinogeni. Gli agenti erano stati chiamati giustiicazione, ma non serve a giustiicare gli agenti. perché Robinson aveva rincorso una macchina, e uno Serve a sottolineare che chi parla non intende mettere di loro lo ha ucciso. Il 9 marzo ad Atlanta Anthony Hill, in dubbio l’autorità della polizia, del sistema giudiziario afetto da malattia mentale, si è spogliato e ha minac- e della democrazia. Non stupisce che il sindaco di North Charleston abciato di buttarsi dal balcone. Gli agenti sono arrivati e lo hanno ucciso. Il 22 novembre a Cleveland il dodicenne bia ordinato che tutti gli agenti portino delle videocaTamir Rice è stato ucciso da un agente perché aveva mere addosso: le videocamere non servono solo a regolare l’attività della polizia, ma anche a evitare un esame una pistola ad aria compressa. Esiste un altro modo di gestire queste situazioni. Il più approfondito su cosa signiica mantenere gran parfatto che la macchina di Walter Scott avesse un faro te degli Stati Uniti sotto il potere del sistema giudiziario che non funzionava doveva portare all’intervento del- invece che sotto l’autorità di altre istituzioni della sociela polizia? È giusto che Scott sia stato in carcere diverse tà civile. Gli agenti di polizia combattono il crimine. Gli volte perché non aveva pagato gli alimenti per suo i- agenti di polizia non sono assistenti sociali, insegnanti, glio? Vogliamo davvero che siano degli agenti adde- medici o esperti di tossicodipendenza. Il problema di ripristinare l’autorità della polizia non strati a combattere il crimine a occuparsi di una persona che ha smesso di prendere le medicine? Una pistola riguarda solo l’autorità della polizia, ma la democrazia aumenta le probabilità di risolvere paciicamente una stessa. Una riforma che prenda di mira solo i poliziotti questione di droga? In questo senso la polizia è solo il servirebbe unicamente a nascondere il vero problema, e a confermare l’abitudine statunitense a concentrarsi sintomo di qualcosa di più grande. Nel suo libro La comunità e lo stato (La Comunità sulle azioni di singoli individui e ignorare le funzioni e 1957), il conservatore Robert Nisbet distingueva tra le intenzioni dei sistemi. u as Q 34 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Ta-Nehisi CoaTes è un giornalista e scrittore statunitense. Ha scritto The beautiful struggle: a father, two sons, and an unlikely road to manhood (Spiegel & Grau 2008). Scrive questa column per il mensile The Atlantic. Le opinioni Votate per scegliere il vostro nemico Laurie Penny è tutta una serie di argomenti che di veri e i più deboli. Ho visto lo United Kingdom indepensolito si usano per convincere la dence party (Ukip) farsi largo sfruttando la paura in un gente a votare anche quando non modo che sarebbe stato impensabile se solo la classe c’è nessuno per cui votare. Potrei politica non fosse stata così incapace. Cosa dovremmo fare con quest’alternanza di deludirvi che votare è un dovere civico. Potrei dirvi che se vi asterrete poi sioni, con quest’idra dalle cento teste di cazzo? Come non avrete il diritto di lamentarvi. Potrei ricordarvi che possiamo esprimere il nostro disgusto verso questo gugenerazioni di uomini e donne hanno dato la vita per scio vuoto della democrazia? Vorrei che ci fosse una ridifendere il vostro diritto a scegliere un altro politico sposta semplice, ma la verità è molto più triste: qualuncorrotto solo perché ha la cravatta meno brutta. Ma tut- que sia il risultato delle elezioni, una dura lotta attende chiunque creda ancora nella giustizia sociale. Oggi to questo non ha senso. La storia delle sufragette è quella che mi fa imbe- l’unica cosa che possiamo scegliere è il volto del nostro stialire di più. Le sufragette non volevano il diritto di prossimo nemico. I candidati non sono tutti uguali, ma voto perché credevano nel sistema parlamentare. Non a prima vista appaiono abbastanza simili nella loro inerzia e brama di potere. erano un gruppo di signore con i cartelli Nel 2010 abbiamo commesso l’errore in mano e strani cappelli in testa. Erano Nel Regno Unito donne secondo cui fare una dichiarazio- non c’è nessuno per di pensare che fossero tutti uguali, che i conservatori non potevano essere peggio ne politica signiicava avvolgerla intorno cui votare, ma di Tony Blair. Avevamo torto. Non si trata un mattone e scagliarla contro la ine- moltissimi contro stra di un ministro. Erano considerate cui votare. Andate a ta di capire se avremo mai il governo che terroriste e la polizia le trattava come ta- votare se ci riuscite. ci meritiamo. Si tratta di stabilire se vogliamo cinque anni di disastri o cinque li. Volevano il voto perché lo considera- Votate per vano uno strumento per trasformare disperazione. Votate anni di depressione. La scelta è tra diverse sfumature di delusione. una categoria discriminata in un soggetoggi e cambiate il Non è certo uno slogan che fa battere to politico. il cuore. Le mie pulsazioni sono rimaste Fino a non molto tempo fa alcuni di mondo domani regolari, tranne quando Nigel Farage noi credevano che il sistema potesse essere cambiato dall’interno. Avevamo torto. Nel 2010 ho dell’Ukip ha detto in tv che gli immigrati portano l’hiv votato per i liberaldemocratici.È in cima alla lista delle nel Regno Unito ed è riuscito a far sembrare David Cacose stupide che ho fatto da giovane, ma la mia speran- meron una persona ragionevole. Ma per fortuna il voto za era sincera, e lo è stata anche la delusione per le non è il punto dove la democrazia comincia e inisce, e aspettative tradite. Oggi molti pensano che il modo mi- non lo è mai stato. La democrazia, come diceva l’intellettuale e attivigliore per afrontare questa situazione deprimente sia non votare. Non condivido questa scelta, ma la rispetto. sta Howard Zinn, “non è la conta dei voti, ma la conta Rifiutarsi di votare non è un segno di passività, ma delle cose che facciamo”. In queste elezioni il cambiaun’aggressione passiva. Il problema dell’aggressione mento che la maggior parte dei britannici vorrebbe non passiva è che funziona solo se al vostro bersaglio inte- è tra le scelte possibili. Arriverà solo se la gente sarà ressa cosa pensate. Chiunque abbia vissuto una relazio- pronta a lottare per ottenerlo, se agirà in prima persona. ne burrascosa sa bene che quando qualcuno vuole solo Ci vorranno coraggio, lavoro e tempo. Le sufragette lo dominarvi non gliene frega niente della vostra aggres- sapevano, avevano capito che la democrazia non inisce nell’urna. Se saremo fortunati comincerà da lì, dalsione passiva, se vi limitate a restare passivi. Le elezioni britanniche del 7 maggio sono un po’ la la scelta del nostro nemico. In questo momento non c’è nessuno per cui votare, stessa cosa. I tory sarebbero contenti se non votaste, soprattutto se siete giovani o poveri. Per loro è molto ma moltissimi contro cui votare. Andate a votare se ci meglio non dovervi considerare tra le persone che con- riuscite. Spero che ci riusciate. Votate per disgusto. Votano. Scrivere una cosa del genere è doloroso. Ma negli tate per disperazione. Se vi incontrerò al seggio con il ultimi cinque anni ho visto i conservatori distruggere il sorriso in volto allora mi preoccuperò, a meno che non welfare, massacrare il contratto sociale e mandare la abbiate la fortuna di essere scozzesi. Votate contro l’inpolizia antisommossa a picchiare chiunque osasse tolleranza, l’odio e la paura. Votate oggi e cambiate il esprimere il suo dissenso. Ho visto i liberaldemocratici mondo domani. Non siamo impotenti come vorrebbechinare la testa e lasciar fare. Ho visto i laburisti arren- ro farci credere. Scegliete il vostro nemico e sceglietelo dersi alle bugie dei conservatori e tradire i malati, i po- con cura. Buona fortuna. u as C ’ 36 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 LAURIE PENNY è una giornalista britannica. È columnist del settimanale New Statesman e collabora con il Guardian. In Italia ha pubblicato Meat market. Carne femminile sul banco del capitalismo (Settenove 2013). Reportage Il muro di Malta Gudrun Sachse, Neue Zürcher Zeitung, Svizzera Foto di Darrin Zammit Lupi L’isola del Mediterraneo è uno dei primi approdi per migliaia di profughi africani che fuggono dalla guerra e che troppo spesso iniscono rinchiusi in centri di detenzione simili a prigioni l gommone arriva alle prime luci dell’alba. Sul piccolo molo ci sono ad aspettarlo funzionari pubblici e giornalisti della stampa locale. Għar Lapsi è un’insenatura da sogno nel sud dell’isola, a cui si arriva percorrendo una scalinata interminabile. Con le sue coste ripide, Malta è una fortezza nel mezzo del mar Mediterraneo. Nelle sue case in tufo dorato dall’aria arabeggiante e con i tetti piatti vivono quasi 420mila persone, su una supericie totale di 316 chilometri quadrati: in nessun altro paese d’Europa la densità demograica è così alta. Chi toglie spazio agli isolani deve sapere che non è il benvenuto, a meno di non avere un notevole potere d’acquisto e di fermarsi solo per qualche settimana, magari per ammirare le rocce di Għar Lapsi, visitare la famosa grotta azzurra a bordo di pescherecci variopinti e lasciarsi avvolgere dallo scintillio delle sue acque blu. Dal gommone scendono trentacinque uomini e undici donne. Un Cristo con un mantello rosso osserva la scena chiuso in una teca di vetro dentro una nicchia scavata nella roccia. Ha le braccia aperte, come per accogliere i nuovi arrivati. Ma loro non gli prestano attenzione. Il freddo gli è entrato nelle ossa, hanno le vesciche piene da scoppiare. E poi Gesù Cristo non è nemmeno il loro dio. Loro hanno Allah. I somali imboccano la stretta salita circondati dai poliziot- I 38 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 ti e seguiti dagli obiettivi delle telecamere. In cima li aspetta un pullman della polizia. Prima di farli salire, gli agenti li perquisiscono e li fotografano. “Noi volevamo andare in Italia”, ripetono, mentre i poliziotti annuiscono. Nessuno vuole fermarsi a Malta. E i maltesi non vogliono nessuno. Malta dista dall’Africa 340 chilometri, ma i suoi abitanti sarebbero felici se l’isola potesse essere spostata un po’ più lontano dalla coste africane. Lontano da quel detestato continente e dalla sua minacciosa vastità. Il cuore bianco “Altri ancora”, mormora la guida turistica Louis mentre, di sera, guarda alla tv un servizio sugli ultimi sbarchi. Poi aggiunge che a Malta molti la pensano come lui. Del resto, gli sbarchi sono raccontati con grande dovizia di particolari dalla tv e finiscono sempre sulle prime pagine dei giornali locali. È così che si difonde la sensazione che un intero continente si stia riversando sull’isola, spiega. Naturalmente Louis sa che la mattina sono arrivati solo quarantasei stranieri. “Ma noi siamo pochi: è come se fossero 46mila”, dice. Malta è arida, piove poco, ma la terra è fertile e a volte brilla di rosso per il ferro che contiene. Muretti in pietra delimitano piccoli campi in cui si coltivano patate e crescono viti e olivi. Le patate si esportano in Germania e nei Paesi Bassi: il loro commercio è molto importante per l’isola. Ma a trai- nare l’economia è il turismo. Ogni anno un milione e mezzo di persone visitano Malta e le vicine isolette di Gozo e Comino. Non sono molte rispetto a un’isola come Maiorca, per esempio, dove ogni anno arrivano quasi dieci milioni di turisti. Malta è meno nota, meno verde e non ha quasi spiagge di sabbia, ma in compenso è più tranquilla. Quando le grandi navi da crociera approdano al porto della Valletta, la capitale, le viuzze della città si riempiono di gente. I poliziotti di guardia davanti al palazzo del governo si fanno da parte per permettere a ragazzine in pantaloni attillati di farsi scattare una foto ricordo a cavallo dei vecchi cannoni. Durante la visita i turisti ricevono Un migrante soccorso da una barca delle forze armate maltesi, il 31 maggio 2007 da Louis una rapida lezione sulla geograia e la storia dell’isola, ma dimenticano tutto in un attimo. I templi megalitici più antichi risalgono al 5200 aC. Poi arrivarono i romani, seguiti dagli arabi. Dopo un breve intermezzo normanno, Malta cadde in mano agli svevi e poi agli aragonesi. L’isola faceva parte del grande impero spagnolo prima che, nel 1798, Ferdinand von Hompesch la cedesse senza colpo ferire a Napoleone e ai suoi soldati, che la occuparono e la saccheggiarono. Louis sa che nessuno lo sta ascoltando, ma continua a parlare con entusiasmo. Due anni dopo Malta diventò una colonia della corona britannica e un’importante base navale nel Mediterraneo. Nel 1964 dichiarò l’indipendenza, ma le ultime truppe inglesi partirono solo nel 1979. Forse i turisti ricordano che Malta è entrata nell’Unione europea nel 2004. L’isola, però, è rimasta fuori dalla Nato e ha mantenuto in vigore il rigido divieto di abortire. Il maltese, che deriva da un dialetto arabo, è stato riconosciuto come lingua ufficiale dell’Unione. La Valletta è un gioiello. Le case sono ornate da piccoli bovindi simili a scai di nave e nelle chiese risplendono altari meravigliosi. Malta è un po’ Lisbona, un po’ Sicilia e un soio di oriente. Raramente si vede qualche persone nera, magari aggrappata dietro a un camion che raccoglie l’immon- dizia o intenta ad aiutare un fabbro che monta una struttura metallica davanti alla sua bottega. Il cuore di Malta è ancora bianco, anche se sull’isola vivono migliaia di africani. Quello sbarco a Għar Lapsi, avvenuto nel maggio del 2012, era il secondo in due giorni. Quell’anno ce ne sono stati in totale 27. Nel 2013 sono stati 24 e sull’isola sono arrivati 2.008 profughi. Negli ultimi dieci anni a Malta sono sbarcate 17.743 persone. Secondo i dati dell’uicio europeo di sostegno per l’asilo (Easo, che ha sede alla Valletta), Malta è il paese europeo con più richiedenti asilo per numero di abitanti. Tra il 2009 e il 2013 ha concesso asilo a quasi Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 39 Reportage 14mila persone. Con queste cifre, l’isola è in cima alla graduatoria europea, prima ancora di Svezia e Norvegia. Il fatto che tutti questi stranieri siano quasi invisibili è dovuto alle misure prese sull’isola. I boat people, come vengono chiamati qui i migranti, subito dopo l’arrivo vengono rinchiusi in uno dei tre centri di detenzione. Qui diverse centinaia di uomini dormono in uno stanzone pieno di letti a castello. I richiedenti asilo possono restare in queste carceri speciali ino a diciotto mesi, poi sono trasferiti nei cosiddetti open centers, i centri d’accoglienza, dove possono fermarsi al massimo per altri due anni. Chi è fortunato viene mandato dall’Agenzia per il benessere dei richiedenti asilo (Awas) al Marsa open center del dottor Ahmed Bugri o al Peacelab gestito dal frate francescano Dionysius Mintof. Anche alla casa Balzan della commissione per l’emigrazione, che ha sede in una strada secondaria della Valletta, proprio accanto al palazzo del governo, si vive in maniera dignitosa. Ma, come spiega Neil Falzon, un avvocato maltese che si occupa di diritti umani, per chi inisce in uno dei cinque open centers gestiti dallo stato la vita diventa un inferno. Falzon ha trascinato La Valletta davanti alla corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Un gesto così radicale, per di più compiuto da un omosessuale dichiarato, non lo ha reso il beniamino di questo cattolicissimo paese. L’avvocato sostiene di essere l’uomo più odiato dell’isola. Il lavoro è stato a lungo la sua ossessione: ino al 2009 Falzon ha diretto l’ufficio maltese dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e in seguito è stato il rappresentante sull’isola di Amnesty international. Lavorava giorno e notte a casi che non lo facevano dormire: stupri di massa in Africa, torture in Medio Oriente. Le persone che gli stavano intorno sofrivano a causa del suo costante malumore, racconta oggi nel suo abito dal taglio impeccabile. Alla ine gli è venuta la depressione e ha avuto un esaurimento nervoso. Dopo un anno di convalescenza, nel 2011, a 37 anni, Falzon ha creato la Aditus, una fondazione che si batte per dare voce a chi non ce l’ha. Oggi sottolinea che c’è una netta diferenza tra le persone che scappano da guerre e violenze e quelle che emigrano per motivi economici. A Malta approdano quasi solo vittime di conlitti: “In questi casi”, spiega Falzon, “ci sono precisi diritti da rispettare”. È su questa premessa che si basa la sua critica al governo: rinchiudere dei profughi di guerra in centri sovrafollati, claustrofobici e senza nessuna privacy è 40 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 una violazione dei diritti umani. Per questo Falzon si è rivolto alla corte di Strasburgo, che alla ine gli ha dato ragione, creando così un precedente che ha fatto inire la politica di accoglienza maltese sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. L’isola è stata descritta come un “grande carcere”. Il primo ministro si è scusato pubblicamente, ma ha anche chiesto all’Unione di non abbandonare il paese a se stesso, e lo stato ha versato un risarcimento alle vittime. Tuttavia, accusa Falzon, da allora il trattamento riservato ai profughi non è cambiato granché. “Porteremo un caso dopo l’altro in tribunale inché la situazione non cambierà”, promette l’avvocato. Come in guerra Malta non è un paese povero: in confronto al resto d’Europa se la passa piuttosto bene. Grazie a una serie di agevolazioni iscali, dagli anni settanta attira gli investimenti stranieri: è qui che diverse aziende tedesche come la Playmobil, la fabbrica di occhiali Menrad o quella di scarpe Lloyd producono i loro beni destinati all’esportazione. Con Da sapere Lavoro e migranti u Malta è uno stato insulare del mar Mediterraneo. Con un’estensione di 316 chilometri quadrati e 416mila abitanti è uno dei paesi più piccoli e più densamente popolati al mondo. Nel 1964 ha conquistato l’indipendenza dal Regno Unito. Nel 2004 è entrato nell’Unione europea e dal 2008 fa parte dell’eurozona. Ha un pil pro capite di 17.200 euro (2014) all’anno mentre il tasso di disoccupazione è del 5,9 per cento (febbraio 2015). Secondo i dati del governo della Valletta, negli ultimi dieci anni sull’isola sono sbarcati 17.743 tra migranti e profughi, quasi tutti africani. u Il 20 aprile 2015 la nave Gregoretti della guardia costiera italiana ha portato a Malta i 24 corpi delle vittime del naufragio avvenuto nel canale di Sicilia la notte tra il 18 e il 19 aprile, quando un barcone proveniente dalla Libia con almeno 800 persone a bordo si è ribaltato: i superstiti soccorsi sono stati 28. un tasso di disoccupazione del 6 per cento, il paese è al di sotto della media europea. Anche per questo Falzon non sopporta le proteste di chi sostiene che Malta è troppo povera per accogliere tanti stranieri. A partire dal 2007 La Valletta ha ricevuto più di settecento milioni di euro dal Fondo europeo di sviluppo regionale, a cui si sono aggiunti vari milioni arrivati nel 2008 proprio per aiutare l’isola a dare un’accoglienza più dignitosa ai profughi. “Il governo non sa gestire l’assistenza ai migranti”, accusa l’avvocato. Da anni, in efetti, Malta tratta l’immigrazione come un problema temporaneo: prima o poi si difonderà la voce che sull’isola i profughi non sono graditi, pensano i maltesi, quindi non c’è nessun motivo per investire nella loro integrazione. “È assurdo”, commenta Falzon. “Chi ha bisogno di fuggire fugge, a prescindere dalla disumanità del trattamento che gli riserviamo”. I migranti hanno cominciato ad arrivare dall’Africa nel 2002. Jon Hoisaeter, il rappresentante dell’Unhcr a Malta, è rimasto stupito quando durante la sua prima visita sull’isola ha scoperto l’esistenza di campi profughi simili a quelli che si trovano solo nelle zone di guerra. “Malta era al limite”, racconta. Le condizioni dei campi erano talmente cattive che l’Unhcr ha aperto nel 2005 un uicio sull’isola e ne ha aidato la direzione a Hoisaeter. Da allora Hoisaeter cerca d’inluire sulle decisioni del governo e prova a spiegare alla popolazione e ai mezzi d’informazione che chi arriva sull’isola non è un immigrato clandestino, ma un rifugiato. Allo Hal Far Tent Village, che continua a chiamarsi così anche se le tende sono state rimpiazzate da container italiani, vivono 175 persone. Il campo si trova nel sud dell’isola, poco lontano dall’aeroporto. Dietro le recinzioni ci sono ragazzi in piedi e bambini seduti a terra sotto il sole a picco. Provengono quasi tutti dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Gambia e dal Mali. In questo campo ci sono i profughi a cui, dopo almeno un anno di detenzione, è stato concesso l’asilo. Chi invece da Malta raggiunge illegalmente un altro paese europeo, quando viene scoperto è riportato sull’isola e internato di nuovo. Ma per molti migranti scappare è l’unica possibilità di lasciare Malta, visto che gli altri paesi dell’Unione cercano in ogni modo di non aiutare l’isola a gestire le richieste di asilo. Le eccezioni sono poche. Una volta cento persone a cui era stato riconosciuto lo status di rifugiati si sono trasferite in Germania, e nel 2012 la Svezia si è dichiarata disposta a farne entrare di- Nel campo profughi di Hal Far, 2 gennaio 2014 ciannove. Nello stesso anno il Liechtenstein ha accolto un eritreo. Pochi chilometri a sud della capitale, l’autista del taxi su cui viaggiamo ci consiglia di non uscire dalla macchina perché “questa è la zona dei clandestini”. Subito dopo spinge sull’acceleratore e sfreccia accanto al porto di Marsa e ai suoi cantieri navali. Il Grand Harbour, su cui il porto si afaccia, è un’insenatura che si insinua per diversi chilometri all’interno della costa nordorientale dell’isola. Superiamo un portone di ferro e una recinzione, ed entriamo in quella che un tempo era una scuola e oggi è il centro di accoglienza di Marsa. Ahmed Bugri è seduto nel suo ordinatissimo uicio: preciso e metodico, è stato lui a far erigere una recinzione intorno al centro appena entrato in carica. Bugri è arrivato dal Ghana venticinque anni fa. Allora era uno dei tre neri dell’isola. A quei tempi tutti lo riconoscevano per il colore della pelle, oggi perché è diventato famoso: l’anno scorso gli è stata conferita la medaglia d’onore di Malta. Alla ine Bugri è riuscito a convincere i tassisti a fermarsi in questa zona. Fino al 2007 a Marsa i profughi vivevano abbandonati a se stessi. Lo stato aveva perso il controllo del campo, e in poco tempo gli africani avevano imposto le loro regole: Marsa era il loro villaggio, loro decidevano chi aveva voce in capitolo, chi guadagnava e come. Polli, donne, droga: tutto era in vendita. Il posto era sporco e la puzza insopportabile. Perino le ambulanze si riiutavano di entrare per raccattare chi veniva picchiato quando i somali si ribellavano contro i “fratelli” del resto del continente e avevano la meglio. La missione di Bugri In quegli anni a Malta nessuno sapeva quanti stranieri vivessero nell’isola. “Più di mille”, stima oggi Ahmed Bugri, che allora lavorava come stagista in un uicio pubblico. Per la preghiera del venerdì si radunava una grande folla: musulmani a perdita d’occhio. I maltesi erano impietriti. Lo smartphone di Bugri vibra. È stato il colore della sua pelle o sono stati i suoi modi duri ma giusti a convincere il governo a scegliere lui per rimettere ordine in quell’inferno? Oppure i politici cercavano qualcuno a cui dare la responsabilità del loro fallimento? Bugri sa quanto vale. Non si considera un fantoccio da manovrare. Non ha rotto con la famiglia e abbandonato il suo paese per fare il burattino di qualcuno. Ahmed Bugri ha avuto un’educazione rigidamente musulmana: suo padre era un imam. Ma lui voleva diventare cristiano e per questo si è allontanato dalla famiglia. Con l’aiuto dei gesuiti, è partito dal Ghana e ha raggiunto Malta. Ma neanche il cattolicesimo lo ha convinto. Oggi è un pastore evangelico. Si è laureato in giurisprudenza all’università di Malta e ha avuto tre igli dalla sua compagna maltese. Il più grande, che ha 16 anni, si è fatto male cadendo dallo skateboard, mi spiega Bugri guardando il telefono. Poi mi chiede se può rispondergli. Nel 2008 Bugri ha fondato un’ong. Se il suo compito era mettere ordine nel campo, ha detto al ministro, allora l’avrebbe fatto a modo suo. Diventato direttore del centro di accoglienza di Marsa, per prima cosa ha chiesto di costruire una recinzione e poi ha piazzato guardie all’ingresso, per controllare chi cercava di entrare o uscire. Ha ridotto il numero degli abitanti del campo a cinquecento e ha incaricato alcuni di loro d’intonacare le pareti e d’imbiancare i soitti, pagandoli sei euro all’ora. Anche se il centro diventava più accogliente, Bugri non ha mai smesso di ricordare ai suoi ospiti che quel posto era “il loro nemico, non la loro casa”. La sua idea è semplice: ognuno ha un anno di tempo per costruirsi una vita a Malta, per trovare un lavoro regolare e un tetto sotto cui vivere. I profughi seguono corsi di Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 41 Reportage Migranti somali soccorsi dal peschereccio siciliano Esaco al largo di Malta, 31 maggio 2007 inglese e di informatica. Dopo un anno lasciano il centro e a quel punto devono cavarsela da soli. Il lavoro di Bugri è conosciuto in tutta Europa. Quando era commissaria europea per gli afari interni, Cecilia Malmström ha visitato il centro di Marsa open center due volte e le sue visite sono durate molto di più della mezz’ora canonica prevista. Bugri, del resto, sa bene come intrattenere i suoi ospiti mentre li guida negli angoli più remoti del suo regno. Indica le camerate con sedici letti, arredate con piccoli armadi, e la stanza dove si gioca a biliardino. Fa i complimenti a Massad che sta lavando il pavimento nei gabinetti, poi apre la porta di una camera con due letti. Tutte le persone che arrivano a Malta, racconta, hanno vissuto dei traumi. Devastate dal peso dell’angoscia e della fatica, qui possono curare lo spirito. Nel campo una sola persona si è tolta la vita, nel 2009. “Mentre negli altri centri c’è più di un tentativo di suicidio alla settimana”, sottolinea Bugri. Un laboratorio di pace Louis, la guida turistica, commenterebbe probabilmente questa storia con un’alzata di spalle che più o meno vorrebbe dire: avrebbero fatto meglio a restarsene a casa 42 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 loro. Ahmed Bugri riesce a capire perino atteggiamenti del genere, che spiega con il fatto che il tradizionale carattere ospitale dei maltesi è stato messo per anni a dura prova. Quando i primi stranieri sono arrivati dal mare stremati dalla fame, i maltesi gli hanno portato da mangiare e da vestirsi. Ma nessuno accettava il cibo e i vestiti. “Il fatto è che i musulmani hanno regole rigide sull’alimentazione. E i giovani preferiscono i jeans ai vecchi pantaloni tradizionali”. Bugri spiega così l’apparente ingratitudine che è rimasta tanto impressa agli isolani. “Queste persone hanno bisogno di qualcosa da fare, non di elemosina”. Quando ricevono il sussidio statale di 104,66 euro al mese, quasi tutti mandano cento euro a casa, anche per difendere la loro dignità e per non dover ammettere di non aver concluso niente. “Anziché lavoro, ai rifugiati si preferisce dare tranquillanti”. Quasi tutti prendono qualche tipo di pasticca, spiega Bugri, che poi racconta come molti ospiti del suo centro mostrino i comportamenti tipici di chi assume psicofarmaci: un uomo sta seduto immobile su uno sgabello con lo sguardo isso a terra; un altro cammina ciabattando per dieci metri in una direzione e poi indietro. Scene così si ripetono tutto il giorno, ogni giorno. Chi arriva a Malta ha alle spalle mesi di viaggio, prima attraverso il deserto e poi per mare. A partire non sono solo persone istruite, ma anche ragazzotti che non hanno idea di cosa sia l’Europa. Nessuno di loro sa che in alcuni paesi europei il tasso di disoccupazione è più alto che in Marocco, e che alcuni europei hanno cominciato a trasferirsi in Africa per lavorare. E nessuno immagina che in molti paesi d’Europa non si fa diferenza tra chi emigra per motivi economici e chi fugge da regimi brutali. “Il governo di Malta apprezza il mio lavoro”, racconta Bugri. “Però nessun ministro ha mai messo piede qui dentro”. La visita di un ministro potrebbe dare l’impressione che il politico sia favorevole all’integrazione, mettendo a rischio la sua carriera. È per questo che Bugri non si aspetta soluzioni dalla politica: solo il tempo potrà cambiare qualcosa. Magari con un po’ d’aiuto da parte del Signore. A Malta varie organizzazioni cristiane si occupano dei rifugiati. Le persone più ostili all’immigrazione, come Louis, sostengono che in questo modo la chiesa spera di guadagnare fedeli, una specie di “missione nel proprio paese, se possiamo chiamarla così”. A queste accuse frate Dionysius Mintof risponde alzandosi dalla panchina di pietra e guidandomi, attraverso il giardino del suo centro, ino a una piccola moschea. L’ha fatta costruire per permettere ai suoi ospiti di sentirsi a loro agio. A dirla tutta, quando era un giovane francescano di 17 anni Mintof sarebbe voluto andare a fare il missionario in Africa. Sessant’anni dopo l’Africa è venuta da lui. “A volte la vita gioca strani scherzi”, dice sedendosi di nuovo di fronte alla sua chiesa, con il bastone tra le ginocchia. I grilli friniscono sugli eucalipti e nei recinti belano le pecore, mentre l’odore pungente di un caprone rovina l’idillio bucolico di questo “laboratorio di pace”. Il Peacelab, il centro gestito da Mintof, dista pochi passi dallo Hal Far Tent Village. “Lì dentro non fanno che mangiare e dormire, le persone sono trattate peggio delle bestie”, dice indignato il frate nel piccolo paradiso che ha fondato quarant’anni fa. Da allora nel suo centro sono passate più di diecimila persone. Attualmente nelle casette bianche del bambini durante la guerra. Per Malta fu un periodo durissimo. L’aeronautica tedesca bombardò per la prima volta l’isola, che era la base britannica più importante del Mediterraneo, nel dicembre del 1941. Durante le tremila incursioni che seguirono caddero quasi 14mila tonnellate di bombe: più ordigni per metro quadrato che in qualunque altro posto investito dal conlitto. “Questo è un luogo storico”, dice Mintof battendo con il bastone sul pavimento in pietra della sua camera. Il presidente statunitense Franklin Roosevelt, il primo ministro britannico Winston Churchill e il ministro degli esteri sovietico Viačeslav Molotov s’incontrarono cinque volte in questo ediicio, che all’epoca faceva parte di un complesso di bunker, per preparare la conferenza di Jalta. Alla ine della guerra a Malta non c’era più nulla. Migliaia di persone emigrarono nel Regno Unito, in Australia, in Canada e negli Stati Uniti. Negli ultimi decenni circa 160mila maltesi hanno abbandonato l’iso- Padre Philip Calleja ricorda bene il giorno del 1970 quando arrivarono i primi profughi dall’Uganda. Dopo di loro fu il turno degli iracheni Peacelab vivono 38 rifugiati. Il frate ha installato un’altalena per far giocare i bambini del campo vicino. Le porte del suo centro sono sempre aperte a tutti. Al Peacelab lavorano anche volontari che insegnano inglese, spiegano come usare il computer e fanno conoscere ai nuovi arrivati la cultura e le regole dell’isola. Gli ospiti si cucinano i pasti da soli. Di giorno lavorano. Ma a volte, dopo aver trasportato pietre per tutto il giorno, ricevono solo cinque euro dall’impresa edile per cui hanno faticato. Quando succede, Mintof alza la voce e zoppica ino al telefono per sfogare la rabbia. Quando nel giardino fa buio, Mintof va ad augurare la buonanotte a tutti, spostandosi lentamente tra un bungalow e l’altro. Se in una stanza c’è ancora un letto libero, ogni tanto si sdraia insieme ai profughi. “Come in una famiglia”, commenta. La madre di Mintof diede alla luce undici igli. I maschi erano sette. Sopra il suo letto, che si trova in una stanza stretta collegata da un corridoio alla chiesa, è appesa una foto che lo ritrae, giovanissimo e già frate francescano, in mezzo ai suoi genitori. Il padre era uiciale di marina e nella foto è vestito di bianco, la madre indossa un pesante vestito scuro. La donna tirò su i suoi la. “Ma a nessuno piace ricordarlo”, dice Mintof, aggiungendo poi che anche l’odio verso i tedeschi è stato dimenticato. E di questo bisogna ringraziare anche persone come lui, che da ragazzo andava di scuola in scuola per parlare di pace agli studenti. Sono discorsi che gli riescono ancora bene. Ma oggi, invece di rivolgersi agli scolari, all’ora di pranzo Mintof si siede nello studio di una radio locale e per alcuni minuti dispensa battute e perle di saggezza a tutti i maltesi, un po’ come faceva don Camillo con Peppone. L’odore della burocrazia Quando alle nove si aprono le porte dell’uficio della commissione per l’emigrazione, davanti al palazzo si è già formato un piccolo capannello di persone. Abdel è arrivato prestissimo per essere il primo. Padre Philip Calleja è già al suo posto da ore. È uscito il mattino presto dalla casa di riposo per sacerdoti in cui vive e con la sua Skoda ha raggiunto la capitale. Calleja è l’eminenza grigia della commissione per l’emigrazione. Il suo uicio sa di carte vecchie: l’odore della burocrazia. La sua scrivania è ricoperta di lettere, cartelline e faldoni. Il sacerdote è seduto dietro una montagna di fogli e, a 84 anni, non dà l’impressione di poter mai smaltire tutti i documenti. I primi profughi sono usciti dai centri di detenzione nel 2003. “Qualcuno doveva pure aiutarli”, dice Calleja. Così ci ha pensato lui. Da allora tutti i rifugiati che arrivano sull’isola si rivolgono al prete, che distribuisce posti di lavoro e denaro per le piccole spese, aiuta a risolvere i problemi con le istituzioni e di tanto in tanto ofre anche un posto dove dormire. Abdel è siriano e ha solo bisogno di una irma su un documento da presentare a un ufficio pubblico. “Next”, grida il sacerdote, lanciando uno sguardo casuale all’uomo che si sporge con fare umile oltre il tavolo per stringere la mano al “monsignore”. A tutta questa gentilezza il sacerdote non è più abituato. “Next”. L’uomo che entra sfoggia una camicia rossa e un pizzetto quasi vezzoso. Parlando in falsetto, dice di aver bisogno di soldi per andare a trovare alcuni amici in Germania. I brevi viaggi all’estero sono in genere l’inizio di una vita nell’illegalità. “No”, risponde il prete. Il somalo insiste: “Come on, solo trenta euro”. Promette di restituirli entro breve. Calleja gira la sedia verso il computer, digita con calma una serie di numeri e poi gli porge un assegno da quindici euro. Il somalo impreca: è troppo poco. Calleja prende l’assegno e lo mette via. “Go”, dice. Poi si rivolge alla persona successiva, che si è già seduta sulla sedia davanti alla scrivania. Philip Calleja ricorda bene il giorno del 1970 quando a Malta arrivarono i primi profughi dall’Uganda. Dopo fu il turno degli iracheni. “Erano persone istruite”, dice. “Gli ingegneri e i medici ripartirono immediatamente per gli Stati Uniti”. Nel 1992, invece, sull’isola sbarcarono 291 jugoslavi. “Erano bravissimi con i computer quando noi ancora non sapevamo neanche cosa fossero”, ricorda. Anche loro sono spariti in un batter d’occhio. Oggi invece Calleja resta perplesso quando sente parlare della situazione familiare di alcuni somali: “Cinque igli con cinque donne diverse che vivono chissà dove e sono tutte sposate. Non è bello”. Uno dei sette ediici gestiti dalla commissione per l’emigrazione si trova a Balzan, una piccola località a mezz’ora dalla Valletta con case dalle facciate decorate e giardinetti con cancelli in ferro battuto. Uno spesso muro di pietra costeggia una stradina secondaria. Dietro il muro c’è una casa signorile con un atrio grande come una sala da ballo. Prima di farci entrare un’addetta alla sicurezza registra il nostro arrivo e poi torna a dar da mangiare ai suoi gattini. Un’ampia scalinata porta al primo piano. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 43 Reportage Sulla ringhiera sono appesi ad asciugare teli da bagno e coperte. Alle pareti l’intonaco in alcuni punti si è staccato. La struttura ospita gratuitamente famiglie o madri con igli. Una camera per quattro persone misura dieci metri quadrati: un letto matrimoniale per i genitori, due lettini per i bambini, un televisore e una radio su uno scafale. La inestra è coperta da una tenda spessa che ripara dal sole. Quattro stanze come questa danno su uno stretto corridoio. Il bagno con la doccia è in comune tra tutti gli ospiti. Immigrazione Sei video su Internazionale.it In mezzo al mare Hibo ha 27 anni. Ha studiato giurisprudenza in Somalia e parla un buon inglese. Ogni tanto qualche organizzazione umanitaria le ofre lavoro come interprete, così riesce a guadagnare un po’ di soldi extra. Hibo è scappata con il suo compagno, un giornalista perseguitato per le sue opinioni, che in questo momento si trova nella vicina biblioteca. “Non rientriamo propriamente nello stereotipo dei rifugiati”, dice Hibo. Tornerebbero volentieri a casa, ma sanno che se lo facessero sarebbero sicuramente vittime di tortura e violenze. Hibo unge una padella con uno straccio intriso d’olio per preparare le frittelle per la colazione. Certe volte, dice, non è sicura che questa situazione di stallo sia meglio della tortura. Accanto a lei in cucina ci sono altre tre donne con i bambini attaccati alla gonna. Vengono da paesi africani diversi e ognuna ha il suo modo di preparare le frittelle. “Il nostro gommone era lungo così”, dice Hibo indicando i sette metri di lunghezza della cucina. A bordo c’erano ottanta persone. Prima della partenza dalla Libia i passeurs hanno aidato il timone a uno dei migranti e gli hanno messo una bussola in mano. Accanto a Hibo era seduta una donna con un bambino di tre mesi. Quando la barca è partita la donna ha cominciato a vomitare. Il neonato l’hanno tenuto a turno gli altri migranti. Il viaggio è durato tre giorni e tre notti. Prima è inita l’acqua, poi il carburante. Il gommone stava andando alla deriva quando è stato avvistato da un elicottero. Un uomo ha gridato attraverso un megafono: “Proseguite il viaggio fino a Malta”. “Italia”, hanno gridato loro in risposta. “Out of fuel”. Erano le dieci di mattina. Alle sei di pomeriggio è arrivata la guardia costiera che ha rimorchiato la barca ino a Malta. Sono sopravvissuti tutti, anche il neonato. La guida turistica Louis ha saputo di quello sbarco dal telegiornale della sera. E anche in quel caso ha avuto la sensazione che i migranti arrivati non fossero ottanta, ma ottantamila. u fp 44 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Le porte d’Europa Stefano Liberti per Internazionale l conine europeo è un muro che dobbiamo scavalcare”. Così descriveva l’ingresso nell’Unione un giovane siriano incontrato in Turchia, che cercava di raggiungere la zona Schengen per ricostruirsi una vita lontano dalle bombe. Durante il nostro viaggio lungo la frontiera europea abbiamo visto muri sempre più alti, mari chiusi, spazi blindati. Al conine tra la Turchia e la Bulgaria, tra il Marocco e l’enclave spagnola di Melilla, nella francese Calais, da dove i migranti cercano di raggiungere il Regno Unito, in mezzo al mar Mediterraneo e all’aer oporto di Fiumicino, la frontiera somiglia al fronte di una guerra che l’Unione europea combatte con strumenti ultratecnologici: sensori, telecamere termiche, radar e droni. Ogni mezzo serve a impedire l’accesso degli intrusi, che tecnicamente sono deiniti “irregolari”. E, come ogni guerra, anche questa ha le sue vittime: secondo la stima uiciale (probabilmente prudente) dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nel Mediterraneo nel 2014 ci sono stati 3.419 morti. Borderline, la serie di sei reportage video che sarà pubblicata a partire da questa settimana sul sito di Internazionale, prova a raccontare questo conine che si attorciglia su se stesso, si fa ostacolo e blocca persone in fuga da conlitti e persecuzioni. Se analizziamo i dati, vediamo che chi cerca di arrivare in Europa viene soprattutto da paesi in guerra come la Siria, o sottopo- “I sti a brutali dittature come l’Eritrea e il Gambia. Tutte persone che, una volta entrate in Europa, ottengono l’asilo politico o la protezione umanitaria. È il grande paradosso: cerchiamo di bloccare un lusso che poi riteniamo legittimo. Non forniamo ai migranti mezzi di accesso legale e gettiamo i profughi nelle mani degli imprenditori del trasporto clandestino. Un documento storico Le persone conosciute lungo questi spazi amori che sono i conini si aspettavano un’Europa accogliente. Invece si sono confrontate con situazioni al limite del sostenibile: le trufe degli scaisti, i respingimenti violenti, i furti dei piccoli criminali. I più ostinati – o i più fortunati – ce l’hanno fatta. Gli altri languono ancora in un limbo d’indeterminatezza. Questi video, realizzati con il sostegno dell’Open society foundations, hanno un obiettivo ambizioso, ma necessario: proporre una mappatura del conine europeo che sia anche un documento storico. In modo che tra venti o trent’anni i nostri igli e nipoti possano ricordarsi di come, tra la ine del ventesimo secolo e l’inizio del ventunesimo, l’Europa abbia deciso di considerare l’altro un pericolo invece che una ricchezza. u Stefano Liberti è un giornalista italiano. Ha scritto Land grabbing (Minimum fax 2011). Con Andrea Segre ha girato Mare chiuso (2012). Cosa fai il 2, 3 e 4 ottobre? facebook.com/internazfest @Internazfest - #intfe Algeria Vu/PhotomasI Kamel Daoud a Orano, 31 gennaio 2015 46 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 La voce fuori dal coro Adam Shatz, The New York Times Magazine, Stati Uniti. Foto di Ferhat Bouda Nei suoi articoli critica sia l’estremismo islamico sia il conformismo dei nazionalisti. Il giornalista Kamel Daoud è il simbolo di un’Algeria che cerca di liberarsi del suo passato o sentito parlare per la prima volta di Kamel Daoud alcuni anni fa, quando un’amica algerina mi ha consigliato di leggerlo per capire com’era cambiato il paese: “Se l’Algeria riesce a produrre un Kamel Daoud, c’è ancora speranza”. Leggendo gli articoli di Daoud sul Quotidien d’Oran, un giornale algerino in francese, ho capito cosa voleva dire la mia amica. Lo stile è originale e conciso: scherzoso, lirico, sfrontato. Ho anche capito perché è stato accusato di essere razzista e di “odiare se stesso”. Dopo l’11 settembre 2001, per esempio, scrisse che gli arabi “si erano schiantati” per secoli e che avrebbero continuato a farlo, visto che erano noti più per dirottare gli aerei che per fabbricarli. Ma mi è sembrata più che altro la provocazione di uno scrittore intelligente che per una volta si era lasciato trasportare dalle sue metafore. Leggendo Daoud ho avuto la sensazione che a motivarlo non sia il disprezzo di sé, ma l’amore deluso. Ho visto in lui uno scrittore quarantenne, un uomo della mia età, H convinto che in Algeria, e nel mondo musulmano in generale, i cittadini meritino di più dei regimi militari o degli islamisti, il menù di due portate che si sono visti ofrire dalla ine del colonialismo in poi. Niente, però, mi aveva preparato al suo primo romanzo, Meursault, contre-enquête, una vibrante riscrittura del classico di Albert Camus del 1942, Lo straniero, seguendo il punto di vista del fratello dell’arabo ucciso da Meursault, l’antieroe di Camus. Il romanzo, uscito in Algeria nel 2013, non solo dà nuova vita allo Straniero, ma contiene una dura critica dell’Algeria postcoloniale. Daoud difende con coraggio la causa della libertà individuale, con un’audacia che siora l’imprudenza in un paese dove fede e nazione sono passioni collettive molto forti. Mi sono chiesto se la igura di Daoud potesse aiutare a capire lo stato della libertà intellettuale in Algeria, uno strano ibrido di democrazia rappresentativa e stato di polizia. Alla ine del 2014 ho ottenuto una specie di risposta. Daoud non era più uno scrittore come gli altri, ma era diventato un personaggio rispetto al quale bisognava prendere una posizione, sia in Algeria sia in Francia. Tutto è cominciato il 13 dicembre 2014, Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 47 Algeria durante il tour per presentare Meursault, contre-enquête in Francia, dove il libro oltre a ricevere recensioni entusiaste ha venduto centomila copie e per soli due voti non ha vinto il premio Goncourt, il più prestigioso riconoscimento letterario del paese. Quel giorno Daoud è stato ospite del popolare talk show televisivo On n’est pas couché e si è sentito, mi avrebbe raccontato in seguito, “come se avesse tutta l’Algeria sulle spalle”. Alla giornalista Léa Salamé ha risposto che si considerava algerino, non arabo. Ha dichiarato di parlare una lingua chiamata algerino, non l’arabo. Ha detto che preferiva incontrare dio da solo, non attraverso un “viaggio organizzato” in una moschea, e che l’ortodossia religiosa era un ostacolo al progresso del mondo musulmano. Nell’intervista Daoud non ha detto nulla che non avesse scritto nei suoi articoli o nel romanzo. Ma dicendolo in Francia, il paese che colonizzò l’Algeria dal 1830 al 1962, si è fatto notare da quegli algerini che di solito non leggono i quotidiani in francese. Tra loro c’era Abdelfattah Hamadache, un imam sconosciuto che si dice sia stato un informatore dei servizi di sicurezza. Tre giorni dopo l’apparizione di Daoud alla tv francese, Hamadache ha scritto sulla sua pagina Facebook che lo scrittore doveva essere processato per aver insultato l’islam e doveva essere ucciso sulla pubblica piazza. La “fatwa di Facebook” ha provocato reazioni indignate, e non solo tra i progressisti. Ali Belhadj, il vecchio leader del Fronte islamico di salvezza (Fis, messo al bando nel 1992), ha criticato Hamadache, sostenendo che non aveva l’autorità per poter deinire Daoud un apostata. Anche se il ministro degli afari religiosi Mohamed Aïssa, un uomo mite vicino al suismo, è intervenuto per difendere Daoud, il governo ha mantenuto una strana neutralità. Questa neutralità rilette qualcosa di più profondo di una mera convenienza politica. La lezione principale che lo stato algerino ha tratto dalla guerra decennale contro l’estremismo islamico è che i terroristi non si possono sconiggere sul campo di battaglia: i nemici devono essere reclutati, non sconitti. In questo senso l’Algeria è dieci anni avanti rispetto ad altri paesi arabi dove, dopo le rivolte popolari, le élite laiche si stanno scontrando con i movimenti islamici sulla forma da dare ai nuovi governi. Oggi l’Algeria è uno stato prospero, e sempre più sicuro che il suo modello di condivisione del potere debba essere esportato nei paesi vicini. Tuttavia il caso Daoud sta mettendo alla prova questa convinzione. Il 15 gennaio 2015 prendo un aereo per 48 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Orano, una città nel nordovest dell’Algeria. In quei giorni la guerra alla blasfemia ha raggiunto la Francia: la redazione del settimanale Charlie Hebdo è stata attaccata da due jihadisti locali, due fratelli d’origine algerina. A Orano i sostenitori di Daoud proclamano: “Siamo tutti Kamel Daoud”. A Parigi migliaia di persone stanno scendendo in piazza per dire “Je suis Charlie”. Mi chiedo quali possano essere le ripercussioni degli eventi di Parigi sulla posizione di Daoud. Essere uno scrittore algerino signiica essere anche uno studioso della violenza politica. L’Algeria ottenne l’indipendenza dalla Francia nel 1962, dopo una lunga e sanguinosa guerra di decolonizzazione. Il sistema politico, che gli algerini chiamano Essere uno scrittore algerino signiica essere uno studioso della violenza politica il pouvoir (il potere), è ancora dominato dai mujahidin, i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale (Fln) che combatterono contro i francesi. Uno di loro è il presidente Abdelaziz Boutelika: ha 78 anni, è al quarto mandato e governa da una sedia a rotelle dotata di microfono, perché la sua voce è troppo debole. Boutelika non è l’unico personaggio del pouvoir che si avvicina alla ine dei suoi giorni. Anche il comandante in capo dell’esercito e quello dei servizi segreti hanno più di settant’anni. L’Algeria rischia una tripla crisi di successione in un momento molto delicato, con i prezzi del petrolio in caduta. Nessuno sa se il pouvoir ha un piano per il dopo Boutelika, perché le sue macchinazioni sono oscure. Questo codice di segretezza impenetrabile, come tante altre cose in Algeria, è un prodotto della guerra d’indipendenza ed è sempre rimasto il modus operandi delle élite. L’Algeria è governata come se il conflitto non fosse mai finito. Ogni nuova crisi – le rivolte per il pane, la guerra civile, le proteste della minoranza berbera, la primavera araba – ha giustiicato la scelta di rimanere costantemente sul piede di guerra. Ogni nuova emergenza ha fatto slittare la questione di “cosa succede dopo la liberazione”, sostiene Daoud. Oggi gli uomini che prendono concretamente le decisioni in Algeria rivendicano la loro legittimità basandosi su due punti. Il primo è aver liberato l’Algeria dai francesi. Il secondo è aver sconitto il terrorismo islamico negli anni novanta. Per Daoud non sono suicienti: l’Algeria sarà libera solo quando sarà stata “liberata dai liberatori”. Non si tratta solo di rovesciare il governo. Anche la società deve cambiare se il paese vuole sfuggire alla morsa dell’autoritarismo e dell’islamismo. Il 16 gennaio, il giorno del mio arrivo in Algeria, migliaia di persone tra cui Hamadache stanno marciando nel centro di Algeri, sidando il divieto di manifestare nella capitale. Il raduno “in difesa del Profeta” è stato organizzato per protestare contro la vignetta di Maometto pubblicata da Charlie Hebdo dopo il massacro di Parigi. Aïssa, il ministro degli afari religiosi, si è opposto alle manifestazioni, ma il risentimento tra la popolazione è forte e i predicatori salaiti soiano sul fuoco. Alcuni giovani sventolano la bandiera nera del gruppo Stato islamico e inneggiano agli attentatori di Parigi come a dei martiri. Come spesso succede in Algeria, la manifestazione degenera in scontri. Hamadache viene arrestato. A Orano, una città dove gli islamisti non sono visti di buon occhio, le proteste sono più limitate che ad Algeri, ma abbastanza estese da fermare il traico. Sto percorrendo la strada dall’aeroporto all’albergo insieme a Robert Parks, un professore universitario statunitense molto amico di Daoud. Parks, che dal 2006 dirige un centro studi a Orano, mi spiega che l’Algeria sta lentamente ritrovando la iducia in se stessa. Gli algerini, mi racconta, sono contenti di aver evitato il tumulto delle rivolte arabe perché così sono riusciti a valutare più lucidamente la loro situazione. La spavalderia con cui gli islamisti sono scesi in piazza ha ricordato a molti l’accordo che strinsero con Boutelika nel 1999, subito dopo che fu eletto presidente. Con il suo “progetto di riconciliazione” Boutelika offrì l’amnistia a chiunque aveva combattuto nella guerra civile degli anni 1992-2002, VU/PHOTOMASI Orano, 6 febbraio 2015 purché deponesse le armi. Il pouvoir non negoziò con l’ala politica del Fis e preferì sistemare la questione con i ribelli armati a porte chiuse. Le forze di sicurezza, responsabili di sparizioni e uccisioni extragiudiziarie, non furono mai messe sotto accusa. I combattenti islamici se la cavarono ancora meglio: abbandonarono la resistenza nelle montagne e tornarono nelle moschee. Molti, in seguito, hanno ottenuto posti di lavoro e proprietà. Il paradosso della recente guerra civile è che gli islamisti non sono riusciti ad abbattere lo stato, ma il progetto di riconciliazione di Boutelika gli ha permesso di raforzare la loro presenza nella macchina del potere. Oggi sono di fatto un’ala del pouvoir, che non si è limitato semplicemente a tollerarli ma li ha autorizzati a sedere in parlamento. Per i generali la loro presenza ha un vantaggio: è un avvertimento costante per gli altri algerini – e per gli alleati del paese a Washington e a Parigi – su cosa potrebbe accadere se l’esercito e i servizi segreti allentassero la presa. Non c’è dubbio che l’Algeria abbia fatto progressi dal decennio nero. Anche se ormai appare raramente in pubblico, Bouteflika è ancora popolare, se non altro per mancanza di alternative. Molti gli riconoscono il merito di aver ricostruito l’Algeria uscita dalla guerra civile. Nel 2003, un anno dopo la ine uiciale del conlitto, quando facevo il corrispondente da Algeri, il paese era agitato e traumatizzato. Oggi, invece, anche se i jihadisti sono attivi nel sud e nell’est del paese, l’Algeria è relativamente sicura. La nuova autostrada est-ovest, costruita grazie alla manodopera cinese, ha ridotto della metà il tempo necessario a compiere il viaggio da Algeri a Orano, per cui in passato si impiegavano anche dieci ore. L’economia dipende ancora molto dalle riserve di gas e di petrolio (oltre il 90 per cento delle esportazioni algerine), ma il paese ha quasi 200 miliardi di dollari di riserve in valuta estera. L’Algeria è un punto di riferimento per il ruolo svolto nella lotta regionale contro il terrorismo, per la competenza e l’eicienza dei suoi servizi d’intelligence e per le sue iniziative diplomatiche in Tunisia, Libia e Mali. Il pouvoir ha agito con scaltrezza per mantenere la stabilità. All’inizio del 2011 ha impedito alle proteste ispirate alla primavera araba di difondersi. I metodi sono stati gli stessi di sempre: dispiegare migliaia di poliziotti nella capitale, diminuire i prezzi di zucchero, farina e olio e ofrire inanziamenti ai giovani desiderosi di avviare un’attività. “La primavera araba è una zanzara a cui abbiamo chiuso la porta in faccia”, ha dichiarato all’epoca il primo ministro Abdelmalek Sellal. Il pouvoir non è né laico né islamico, ma ha portato avanti una politica di deliberata indecisione, tollerando elementi radicali come Hamadache e allo stesso tempo ingendo di non vedere quello che Robert Parks deinisce “un fragile esperimento” di liberalizzazione culturale. Il luogo migliore per osservare questo esperimento è Orano, la città del raï, il pop algerino che fonde musica araba e spagnola, disco e hip-hop. Le virtù della noia La prima sera a Orano vado in un locale notturno con Parks e la poetessa Amina Mekahli. A Orano i cabaret sono praticamente degli spacci clandestini di alcolici. Un cameriere ci porta una bottiglia di whisky con un piatto di frutta fresca. La maggior parte dei clienti è formata da algerini tra i venti e i trent’anni. Sono circondato da pantaloni leopardati, minigonne e borsette di Louis Vuitton contrafatte. Mekahli mi presenta il suo amico Gigi, “famoso omosessuale”. Mi spiega che Gigi, un uomo dolce e androgino sulla quarantina, combina incontri davanti al bagno: se a un ragazzo piace una donna lo dice a Gigi, e quando la Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 49 Algeria ragazza esce dal bagno lui la informa che ha un ammiratore. “Quello che è interessante di Gigi”, dice Mekahli “è che viene da un quartiere operaio dove tutti lo accettano, anche se la parola ‘gay’ non viene mai pronunciata”. La storia che appassiona Mekahli non mi colpisce più di tanto, ma mi torna in mente un’osservazione di Camus, secondo cui Orano è una città dove “s’imparano le virtù, ovviamente provvisorie, di un certo tipo di noia”. Naturalmente Orano è molto cambiata dai tempi di Camus. Sotto il dominio francese era una città europea. Dopo l’indipendenza gli europei partirono in massa e le loro case furono occupate da persone arrivate dai villaggi vicini. Altri trovarono un alloggio, squallido ma gratuito, nei grandi palazzi in stile sovietico costruiti dallo stato. Negli ultimi anni lo skyline ha guadagnato in altezza: l’hotel Sheraton e il Méridien sembrano importati da Dubai. Eppure la città conserva il suo languido carattere mediterraneo. Nei bar gli uomini sorseggiano tè alla menta e cafè nero, i ristoranti sul mare offrono pesce alla griglia, paella e scorci mozzafiato sul Mediterraneo. Per strada quasi tutte le donne portano l’hijab. Ma nei locali notturni come quello dove ci troviamo, i giovani ballano, bevono e, come scriveva Camus nel 1939, “si conoscono, si scambiano sguardi e si studiano, felici di essere vivi e di farsi notare”. Alle due di notte arriva Cheba Dalila, una cantante raï dalla voce tanto profonda da ricordare Nina Simone, e la pista da ballo si riempie. Lei passa da un tavolo all’altro con il microfono in mano. Una donna con i jeans attillati indossa una maglietta con scritto “Detroit 1983”; sulla pista si vedono uomini che danzano con le donne anche se sono palesemente attratti fra loro. Scatto una foto, ma il iglio di Mekahli, Hadi, mi dice di lasciar perdere: “Questo locale è gestito dalla maia”. La “maia” fa soldi con gli alcolici di contrabbando e le prostitute. Alcune donne sono chiaramente disponibili. “Secondo me locali come questo sono una riappropriazione dell’identità algerina”, mi dice Mekahli. “La Francia qui non esiste. La gente è totalmente decolonizzata”. La prima volta che incontro Daoud nel suo appartamento alla periferia di Orano sta guardando la tv in pigiama con il iglio di 12 anni. Legge le ultime notizie, scrive email, controlla la sua pagina Facebook e riceve telefonate. Non alza quasi gli occhi dallo schermo, e temo che non riusciremo mai a parlare. Sarebbe più facile se rimanessi un po’ a casa sua, mi dice. Due giorni dopo, la mia decisione di la- 50 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 sciare l’albergo provoca un piccolo incidente diplomatico. Il portiere dell’hotel esce a parlare con Daoud, che mi aspetta in macchina. Se me ne andassi, gli fa notare con tono nervoso, sarebbe impossibile controllare i movimenti dell’étranger e lui non può permettersi di avere tra le mani un altro Hervé Gourdel. Gourdel era un turista francese che nel settembre del 2014 stava visitando le montagne della Cabilia, quando è stato sequestrato e decapitato da un gruppo di estremisti islamici. Daoud gli risponde che avviserà la polizia. Ospitare un cittadi- Gli algerini stanno diventando più moderni, ma in segreto no statunitense, commenta poi scherzando, sarà vista come un’ulteriore colpa a suo carico, una prova del fatto che si è venduto alle forze dell’imperialismo. Il tema principale degli scritti di Daoud è la condizione algerina. Essere algerino, sostiene, signiica essere “schizofrenico”, diviso tra devozione religiosa e individualismo liberale. I negozi di alcolici di Orano sono legali, ma sempre un po’ nascosti. Eppure il giovedì sera gli si forma intorno un anello di traico. Il sesso fuori dal matrimonio è più tollerato rispetto al passato, ma le donne che vanno nei bar per incontrare degli uomini sono considerate delle prostitute. Gli algerini stanno diventando più moderni, ma in segreto, come se non volessero ammetterlo. Questa forma di ipocrisia potrebbe essere un passo sulla diicile strada verso una società più tollerante, ma Daoud ne è esasperato. “Gli islamisti almeno hanno fatto una scelta”, dice. Con la sua campagna contro l’islamismo si è guadagnato l’adorazione degli algerini francofoni liberali, che lo lodano per le sue posizioni. Loro le condividono ma non osano esprimerle in pubblico. A criticarlo duramente invece non sono solo gli islamisti, ma anche i nazionalisti e la sinistra. Durante la guerra dell’estate del 2014 nella Striscia di Gaza, Daoud ha pubblicato un articolo intitolato “Perché non sono ‘solidale’ con la Palestina”. Daoud non era certo “solidale” con Israele, ma non gli piaceva il sottinteso che dovesse essere dalla parte dei palestinesi perché era musulmano. Era contrario ai bombardamenti di Israele per ragioni umanitarie e anticoloniali, non per motivi religiosi o etnici. Il tema di fondo del suo articolo era sempre l’Algeria: a farlo arrabbiare non era tanto l’appello alla solidarietà con la Palestina ma la pressione a uniformarsi sotto la bandiera dell’identità araba e islamica. Fermi tra cielo e terra La pressione coercitiva all’unità è sempre stata un elemento essenziale del nazionalismo algerino. Durante la lotta per l’indipendenza i leader dell’Fln, tra cui c’erano anche dei berberi, abbandonarono la rivendicazione dell’identità berbera in nome dell’unità nazionale contro i francesi. Dopo l’indipendenza, sottolinea Daoud, agli algerini fu insegnato a considerarsi appartenenti al mondo arabo-islamico e a negare quello che avevano imparato dalla storia e dall’esperienza, cioè che la maggior parte della popolazione discendeva dai berberi, non dagli arabi, che un’ampia minoranza parlava il berbero (una lingua che solo di recente è stata riconosciuta come lingua nazionale) o il francese e che perino l’arabo parlato in casa da molti algerini era in realtà infarcito di termini presi da altre lingue. Lungi dal rappresentare un’alternativa all’ideologia dell’unità arabo-islamica, gli islamisti algerini ne predicano una versione più religiosa. Perciò l’Algeria rimane, secondo Daoud, “bloccata tra cielo e terra. La terra appartiene ai ‘liberatori’. Il cielo è stato colonizzato da religiosi che se ne sono appropriati in nome di Allah”. Questo senso d’impotenza trova un’espressione isica nelle infrastrutture decrepite del paese. Una sera di pioggia io e Daoud prendiamo la macchina per andare a cena in un quartiere borghese di Orano. Le strade sono piene di fango e per poco non rimaniamo impantanati. “Che casino!”, urla. Daoud è ossessionato dalla pulizia e pensa che la tolleranza degli algerini per la sporcizia sia un sintomo politico e spirituale. Sotto il dominio francese la terra fu sottratta agli algerini con la violenza. Dal momento che l’unica cosa che possedevano era l’interno delle loro abitazioni, arrivarono a considerare gli spazi pubblici come qualcosa di estraneo, come una proprietà francese, il problema di qualcun altro. Dopo l’indipendenza diventò un problema dello stato. Inine la religione ha raforzato l’idea che le diicoltà quotidiane siano nelle mani di un’autorità superiore. “Perino i nostri problemi ecologici sono d’ordine metaisico”, commenta. L’islamismo si nutre di questo malesse- VU/PHoToMASI Il cafè Rotana a Orano, 7 febbraio 2015 re, sostiene Daoud. Lo stesso senso di inutilità e noia porta altri a fuggire, a rischiare la morte in mare. Il fratello minore di Daoud è uno delle migliaia di giovani algerini – i cosiddetti harraga – che sono fuggiti in Europa su un barcone. È stato soccorso da una nave britannica e ora vive nel Regno Unito senza documenti. Daoud non è un musulmano praticante e si deinisce ilosoicamente vicino al buddismo. Gli chiedo se c’è qualcosa dell’islam che ammira ancora. “Trovo afascinante il primato della giustizia sulla fede”, mi risponde. “Mi piace anche la mancanza di intermediari tra l’essere umano e dio. Il compito dell’imam è guidare le preghiere. L’islam è un rapporto diretto tra dio e il credente, è una fede molto liberale”. Forse quello che mi descrive è l’islam che ha conosciuto da bambino a Mesra, un villaggio nel nordovest dell’Algeria. I Daoud, mi spiega, “erano sicuri della loro fede, perciò non pensavano di doverla difendere. Gli islamisti di oggi, invece, sono incredibilmente fragili”. Lo stesso vale per l’attaccamento alla terra: la sua famiglia era composta da patrioti che avevano fatto la guerra d’indipendenza, ma nessuno sentiva il bisogno di negare “la complessità della vita ai tempi del colonialismo”. A scuola ha imparato “un’unica storia”, un racconto in bianco e nero sugli infallibili mujahidin che combattevano i malvagi coloni francesi. Ma a casa i nonni gli raccontavano anche dei francesi impoveriti che avevano conosciuto a Mesra, del prete cattolico che gli aveva dato da mangiare nei periodi diicili, dei soldati francesi che disertavano pur di non torturare e uccidere. La nascita di uno scrittore Primo di sei igli, Daoud è nato nel 1970. A quei tempi l’Algeria era considerata un successo postcoloniale. Il presidente Houari Boumédiène, un colonnello enigmatico, taciturno e autoritario, la trasformò in una potenza regionale e in una protagonista del movimento dei paesi non allineati. Sotto Boumédiène, che arrivò al potere con un colpo di stato tre anni dopo l’indipendenza, l’esercito diventò l’istituzione dominante. Il padre di Daoud, Mohamed, era un agente della gendarmerie. Anche se era nato povero riuscì, visto che “faceva parte di una generazione in ascesa”, a sposare una donna che apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri. Mohamed Daoud aveva frequentato le scuole francesi ed era l’unico in famiglia a saper leggere e scrivere. Insegnò al iglio l’alfabeto e gli passò i suoi libri in francese. Nella biblioteca di Mostaganem, la città portuale dove andò a scuola, il giovane Kamel lesse i libri di Jules Verne, Dune di Frank Herbert e testi di mitologia greca. Ma l’opera che lo afascinò di più fu La rinascita delle scienze religiose di Abu Hamid al Ghazali, un teologo persiano dell’undicesimo secolo che dopo una crisi di fede cercò di puriicarsi con l’esperienza mistica. Dopo aver letto Al Ghazali, il Corano non gli bastava più: “Era solo il volto visibile di un testo nascosto”. Per riuscire a decifrare quel testo occulto e più sacro Daoud diventò sempre più ascetico. Voleva fare lo scrittore, ma anche diventare un imam. In un primo momento fu il Corano a prevalere. Nei primi anni ottanta per un adolescente algerino la religione era una strada più promettente della letteratura. Il presidente Chadli Bendjedid, salito al potere nel 1979, aveva cancellato il progetto di riforma agraria socialista promosso dal suo predecessore e cominciato a liberalizzare l’economia. I negozi erano stati inondati di beni di consumo occidentali, ma la “de-Boumédiènizzazione” aveva lasciato un vuoto ideologico. Bendjedid lo riempì con l’islam e l’identità araba. Represse le rivolte berbere del 1980, intensiicò l’araInternazionale 1099 | 24 aprile 2015 51 Algeria bizzazione delle scuole e autorizzò la costruzione di nuove moschee. Il movimento islamista cominciò ad addestrare giovani militanti. Daoud fu reclutato dal suo insegnante di geografia, che gli fece leggere le opere di Abul Ala Mawdudi, Sayyid Qutb e Hassan al Banna, e lo convinse che la salvezza individuale poteva essere raggiunta solo attraverso quella collettiva, all’interno di uno stato islamico. Daoud si fece crescere la barba, cominciò a distribuire volantini e diventò l’imam del suo liceo. I giovani dell’emergente movimento islamico algerino erano indottrinati nei campi e nei gruppi di atletica, e Daoud sembrava avviato a diventare uno dei loro leader. Ma a 18 anni lasciò tutto. “Ero stanco. Arrivato a un certo punto non sentivo più niente. Il pericolo per una persona devota non è la tentazione, ma la stanchezza”. Il 5 ottobre 1988, tre mesi dopo la rottura di Daoud con l’islamismo, in Algeria scoppiarono violente manifestazioni antigovernative. Daoud andò a Mostaganem armato di una catena, sperando di “rompere qualcosa”. Al suo arrivo i militari avevano già cominciato a sparare. Un anziano lo prese e si riparò dietro di lui. Il giovane fu salvato da una donna che lo tirò per un braccio e, ingendo di essere sua madre, lo portò in salvo. “Ero furioso contro quella generazione di uomini che si nascondeva dietro a un ragazzo. Quell’atteggiamento mi sembrava molto simbolico”. Diverse centinaia di algerini morirono. L’anno seguente fu adottata una nuova costituzione che legalizzava i partiti diversi dall’Fln e il Fis diventò il partito più potente dell’opposizione. Nel gennaio del 1992 l’esercito cancellò il secondo turno delle elezioni legislative per impedire al Fis di andare al potere. Gli islamisti presero le armi e scoppiò la guerra civile. Daoud, che studiava francese all’università di Orano, si oppose alla cancellazione del voto. Ma in realtà, spiega, “non m’importava tanto. Ero un individualista”. Aveva scelto una forma di ribellione più personale, attraverso la letteratura, la musica e la birra: leggeva Baudelaire, Borges e il poeta siriano Adonis, e scriveva poesie e racconti. Dopo l’università lavorò come cronista di nera per il mensile Détective. Coprendo processi per omicidio e crimini sessuali in località remote, Daoud scoprì “la vera Algeria”. Nel 1996 passò al Quotidien d’Oran. Mentre gli altri giornalisti si lamentavano del pericolo dei ribelli islamisti, Daoud prese in aitto un asino e andò a intervistarli. 52 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Raccontò alcuni dei peggiori massacri della guerra civile. Il lavoro come reporter gli insegnò a diidare delle “posizioni rigide e delle grandi analisi”. Lui non sosteneva nessuna ideologia, non parlava in nome di nessuno, se non di se stesso. Chi ammirava le sue opinioni celebrava la comparsa di uno spirito libero autenticamente algerino. Mentre, per chi lo criticava, Daoud era il volto di una generazione egoista, vuota, antialgerina. Il romanzo Meursault, contre-enquête è nato da uno dei suoi articoli. La premessa era che Lo straniero di Camus, che parla dell’assassinio di un arabo senza nome su una spiaggia di Algeri, fosse una storia vera. “Lo straniero è un romanzo ilosoico, ma in Algeria riusciamo a leggerlo solo co- sare una donna più giovane. Poco dopo la pubblicazione Boudjedra fu costretto all’esilio, prima a Parigi e poi in Marocco. Se c’era qualcuno in grado di capire Daoud, era proprio lui. E invece ha deinito il romanzo “mediocre”. In seguito ha detto che Daoud è uno di “quegli scrittori che cercano solo di procurarsi un visto letterario: vanno in Francia e leccano i piedi”. Boudjedra è noto per il carattere diicile. Ma il suo disprezzo rilette un pregiudizio di classe più difuso. Boudjedra è di una famiglia importante mentre Daoud è uno che si è fatto da solo, nato in un villaggio polveroso. Per i pensatori di sinistra di Algeri, basta questo per vedere in Daoud un arrivista di provincia invece che un vero intellettuale. Il pericolo per una persona devota non è la tentazione, ma la stanchezza Il diritto di parlare per gli altri me romanzo coloniale”, mi ha detto Daoud quando gli ho chiesto cosa lo aveva attirato dell’opera di Camus. “Ma per Camus la questione più importante è quella religiosa: cosa fai per Dio se Dio non esiste? La scena più potente dello Straniero è il confronto tra il prete e il condannato. Il protagonista Meursault è sempre indifferente, con le donne, con il giudice, ma va in collera davanti al prete. Nel mio romanzo, il protagonista si ribella a Dio”. Il libro è stato pubblicato dalle Éditions Barzakh nel 2013 e in Algeria ha venduto moltissimo (in Italia sarà pubblicato da Bompiani nel 2016). Solo quando è uscito in Francia, l’anno dopo, ha scatenato una polemica. A cinquant’anni dall’indipendenza, la vita intellettuale dell’Algeria esiste solo all’ombra del suo ex occupante. Per molti intellettuali algerini è inconcepibile che Daoud abbia avuto successo in Francia senza l’aiuto dell’onnipresente ma invisibile – e invariabilmente sinistra – main étrangère, mano straniera. Per il suo romanzo Daoud ha ricevuto parecchie critiche. L’attacco più sorprendente è stato forse quello dello scrittore Rachid Boudjedra, un altro personaggio dissacrante, che quarant’anni fa lasciò l’Algeria a causa delle minacce degli islamisti. Boudjedra raggiunse il successo nel 1969 con Il ripudio (Edizioni Lavoro 2004), un romanzo in francese che parla di un ragazzo il cui padre abbandona la madre per spo- Un giorno vado ad Algeri per fare visita a vecchi amici, tra cui lo storico Daho Djerbal. Algeri mi sembra molto cambiata rispetto a dodici anni prima, quando facevo il corrispondente. Camminando lungo via Didouche Mourad, la principale strada commerciale, vedo una città che è tornata a vivere. Passo vicino a un negozio Swatch, gioiellerie, agenzie di viaggi e boutique alla moda. I cafè sono pieni. A Place de la grande poste centinaia di persone, per lo più uomini, guardano la Coppa d’Africa su un maxischermo. Il mercato di Bab el Oued, un quartiere operaio che un tempo era una roccaforte islamista, è vivace: le bancarelle traboccano di attrezzature elettroniche e vestiti cinesi, cd, dvd e prodotti freschi. Nella redazione della rivista che dirige, Djerbal cerca di convincermi che questa normalità è un’illusione, l’efetto eimero di un boom dei consumi alimentato dagli alti prezzi del petrolio. Non durerà, mi dice, e fare i conti con la realtà non sarà piacevole. Poi passa in rassegna le devastazioni della liberalizzazione economica: il sequestro e la privatizzazione delle grandi aziende statali da parte di uomini del regime, l’accumulazione di immense fortune private, la nascita di una classe media parassitaria. Descrive via Didouche Mourad come una facciata che non sopravviverà alla caduta dei prezzi del petrolio e all’incapacità dello stato di diversiicare l’economia. Quando gli chiedo di Daoud, Djerbal si spazientisce. Daoud, spiega, è parte di quel problema, un iglio viziato dello stato che attaccava. Però è un bravo scrittore. Tuttavia “non abbastanza per vincere il premio Goncourt. Del resto, la Francia non darà VU/PHOtOMASI Orano, 4 febbraio 2015 mai quel premio a un algerino”. Sembra gioire della sconitta di Daoud, che “rappresenta un ceto senza legittimità storica”. In Algeria l’espressione “legittimità storica” è molto specifica. Nel 1954, quando scoppiò la guerra d’indipendenza, l’Fln proclamò la sua “legittimità storica” come unico rappresentante della nazione algerina. Avere legittimità significava rappresentare una forza sociale collettiva e avere il diritto di essere ascoltato. La maggior parte degli intellettuali algerini ha ancora a cuore il concetto di legittimità e pretende di parlare in nome di una causa superiore: la nazione, il popolo, la classe operaia, i berberi. Invece Daoud parla per se stesso, e forse è questo che i suoi critici trovano inquietante. Una sera ad Algeri provoco una lite semplicemente citando Daoud. La fazione ilo-Daoud è guidata da Soiane Hadjadj, che dirige le Éditions Barzakh insieme alla moglie, Selma Hellal. La fazione anti-Daoud è capitanata da Ghania Moufok, una giornalista di estrema sinistra, che ammira il suo romanzo ma non i suoi articoli. Mouffok è appena tornata dal sud del paese, dove ha seguito le proteste contro l’estrazione di gas di scisto. Le manifestazioni hanno riacceso la sua iducia nello spirito di resi- stenza degli algerini. “Quando pensi a tutto quello che abbiamo subìto, è incredibile che riusciamo ancora ad alzare la testa”, dice Moufok. “Ma Daoud non lo capisce. Lui scrive come se l’imperialismo e il capitalismo non esistessero”. Dà un tiro alla sigaretta e rimane in silenzio per un attimo. “Io adoro Kamel. È stato splendido a On n’est pas couché. Ma qualche giorno dopo l’ho visto sul canale tv Echorouk: l’intervistatore si rivolgeva a lui come se fosse un insetto. Avevo detto a Kamel: ‘Non andare a quei programmi, non comportarti come se fossi colpevole. L’Algeria è un paese che va a rotoli, dove non ti permettono di avere successo. E se ce l’hai la gente spera che tu fallisca’”. Chiedo a Moufok perché critica l’Algeria così severamente e intanto condanna Daoud perché fa altrettanto. Mi risponde che lei critica i potenti, mentre Daoud attacca il popolo. “È puerile”, obietta lui quando gli riferisco il rimprovero. “Io non attacco il popolo, ma la gente. Quella che passa con il semaforo rosso. Quella che butta la sporcizia per strada. Ognuno è responsabile delle proprie azioni. Anche Ghania la pensa come me, ma non lo scrive. E mi accusa di odiare l’Algeria”. Secondo Moufok, il fatto che Daoud creda nella responsabilità indivi- duale “riproduce il disprezzo del pouvoir nei confronti del popolo”. Anche se fosse vero, il pouvoir non sembra apprezzare molto Daoud. Un giorno incontro Hamid Grine, il ministro delle comunicazioni, e lui minimizza le preoccupazioni per la fatwa contro Daoud. “Non è più in pericolo di tanti altri”, osserva. “Il suo caso ha fatto scalpore perché fa vendere giornali. Ma la gente parla del prezzo delle patate, non di Daoud”. Grine, 60 anni, è anche lui un romanziere e, come Daoud, scrive in francese. Gli dico che mi è piaciuto il suo romanzo Camus nel narghilè (Edizioni e/o 2013), su un uomo che scopre che Camus era suo padre. Grine si lamenta perché il suo libro non ha goduto dell’“enorme promozione” che ha portato al successo Daoud in Francia. Grine non ha neanche letto Meursault, contre-enquête. “Ma sono sicuro che è un ottimo libro: a mio iglio è piaciuto molto. Io leggo solo quello che vede qui”, conclude indicando la pila di documenti sulla sua scrivania. u gc L’AUTORE Adam Shatz è un giornalista statunitense che collabora regolarmente con la London Review of Books. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 53 NIC DuNLop (pANoS/LuzphoTo) Birmania Una strada a 14 corsie che attraversa Naypyidaw, aprile 2012 La metropoli deserta Matt Kennard e Claire Provost, The Guardian, Regno Unito È sei volte più grande di New York, con strade a venti corsie e campi da golf. A Naypyidaw, la capitale birmana costruita dieci anni fa, mancano solo le persone ttraversando in macchina Naypyidaw, la nuova capitale della Birmania, è facile dimenticare di essere in uno dei paesi più poveri del sudest asiatico. La serie apparentemente ininita di ediici colossali, alberghi di lusso e centri commerciali che costeggia la strada da entrambi i lati sembra caduta dal cielo. Sono tutti dipinti in colori pastello: rosa palli- A 56 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 do, celeste, beige. Le strade, asfaltate di fresco, sono costeggiate da aiuole e siepi potate con cura. Anche le dimensioni di questa città surreale sono incredibili: secondo alcune stime ha una supericie di circa 4.800 chilometri quadrati, sei volte quella di New York. Tutto sembra fuori misura. Le sue grandiose strade, chiaramente progettate per le macchine e le parate di auto del governo, non certo per i pedoni e le passeggiate, pos- sono avere anche venti corsie e si estendono a perdita d’occhio (si dice che siano state costruite per permettere agli aerei di usarle come piste di atterraggio in caso di proteste contro il governo o altri “disordini”). C’è un parco safari, uno zoo con un’area per i pinguini, e almeno quattro campi da golf. A diferenza di quanto avviene nel resto del paese, qui l’elettricità non manca mai. E molti ristoranti ofrono il wii gratuito. L’unica cosa che manca, a quanto sem- bra, sono le persone. Le sue enormi superstrade sono completamente vuote e tutto tace. Non si muove niente. Uicialmente, la città conta una popolazione di un milione di abitanti, ma molti dubitano che questa cifra si avvicini anche solo lontanamente alla realtà. In un soleggiato pomeriggio domenicale, le strade sono silenziose, i ristoranti e gli alberghi vuoti. Sembra di essere nello spettrale scenario di un’America postapocalittica, in un ilm di David Lynch girato in Corea del Nord. Benvenuti in una delle più bizzarre capitali del mondo. Naypyidaw (che signiica “sede dei re”), costruita da zero tra i campi di riso e di canna da zucchero, è stata presentata nel novembre del 2005 dalla giunta militare allora al potere come la nuova capitale della Birmania. In un paese che spende solo lo 0,5 per cento del suo pil per la sanità pubblica, meno di tutti gli altri paesi del mondo, sembra che la sua costruzione sia costata più di quattro miliardi di dollari. Negli ultimi anni l’insolita struttura urbanistica e la strana mancanza di vita di Naypyidaw sono diventate una stranezza conosciuta in tutto il mondo. La troupe della Bbc che nel 2014 l’ha visitata per girare una puntata speciale di Top gear (la trasmissione su auto e motori girata in località sempre diverse) è rimasta sorpresa dalla desolazione delle strade, dove ha potuto giocare a pallone, organizzare una gara di velocità e fare battute sulla dificoltà di spostarsi in un’inesistente ora di punta. Ma se uno si concentra sulla vuota vastità delle strade di Naypyidaw rischia di perdere gli onnipresenti spazzini, gli unici pedoni che ogni giorno procedono a coppie per ore con i loro giubbotti verdi fosforescenti per pulire strade già immacolate. O il piccolo esercito di operai che trasportano mattoni a mano e continuano a costruire. Anche se, in teoria, dal 2011 la giunta militare è stata sostituita da un governo civile, gli abitanti sono molto restii a parlare con noi. E quelli che lo fanno ci chiedono di non riportare il loro vero nome. “È pericoloso”, dice un uomo che si è trasferito qui nel 2013. “Il governo è cambiato, ma è sempre lo stesso”. Naypyidaw è il regno dei contrasti: un bizzarro centro residenziale nel cuore di un paese disperatamente povero. “È stata costruita essenzialmente per la pubblica amministrazione, sono tutti ediici del governo”, ci spiega l’uomo, che lavora in un centro commerciale. “Non c’è niente d’interessante da vedere. La maggior parte della gente è infelice, ci abita solo perché qui può lavorare e guadagnarsi da vivere”. La presenza del governo è così palpabile che bisogna essere molto coraggiosi per infrangere la legge in questo panopticon in stile Beverly Hills. Secondo Reporter senza frontiere, nel 2006 un fotografo locale e un giornalista sono stati condannati a tre anni di reclusione solo per aver fotografato la città. Manie di grandezza Sulle origini di Naypyidaw esistono solo voci e ipotesi. Alcuni sostengono che sia il frutto della vanità di Than Shwe, l’ex leader militare del paese. Secondo un cablogramma dell’ambasciata statunitense del 2006 svelato da Wikileaks, molti pensano che il nome dato alla capitale riletta le “manie di grandezza di Shwe o sia un ulteriore segno della sua possibile demenza”. Un’altra teoria è che la giunta militare, sempre più paranoica, abbia voluto trasferire la capitale lontano dalla costa per timore di un’invasione americana dal mare. In realtà la sede del potere politico e militare è più vicina alle regioni dove movimenti separatisti e le minoranze oppresse come i karen e i rohingya stanno chiedendo con insistenza maggiori diritti. Il regime e Than Shwe hanno cercato di spacciare Naypyidaw per una nuova Canberra o Brasília, una capitale amministrativa lontana dagli ingorghi e dalla calca di Rangoon. Ma non molti credono a questa storia. “Allontanandosi da Rangoon, la principale città del paese, Than Shwe e il governo si sono messi al riparo da qualsiasi rivolta popolare”, suggerisce l’attivista Benedict Rogers nel suo libro Than Shwe. Unmasking Burma’s tyrant. Il monumentale complesso di edifici che ospita il parlamento è circondato da un fossato. Nel punto più vicino che si può raggiungere prima di essere fermati dagli imponenti cancelli di ferro e dai soldati resta diicile distinguere bene quei palazzi. Si dice anche che sotto la città ci sia un’ampia rete di tunnel e che qualcuno abbia visto le foto dei tecnici nordcoreani consultati dal governo per costruirli. La strada da Rangoon a Naypyidaw si snoda per più di 300 chilometri in direzione nord, attraverso campi e basse colline. Di domenica è quasi completamente vuota e silenziosa, fatta eccezione per poche automobili e qualche camion che trasporta decine di passeggeri ammassati sul retro come un minibus di fortuna. Ai bordi della carreggiata, i cartelli ricordano agli automobilisti di stare attenti e di rispettare i limiti di velocità. Su uno si legge: “La vita è un viaggio. Portatelo a termine”. Anche se è vuota, e chi l’ha percorsa dice che è la migliore del mondo, su questa strada ci sono stati molti incidenti mortali. Qualcuno la chiama “l’autostrada della morte” e la contesta sostenendo che sia stata costruita troppo in fretta, senza investire abbastanza sulle misure di sicurezza. I cooperanti stranieri che vivono a Rangoon si mettono a ridere quando gli chiediamo se sarebbero disposti a trasferirsi a Naypyidaw. Preferiscono sobbarcarsi le cinque ore di viaggio in auto o, come è possibile fare da qualche tempo, prendere l’aereo. Ma, con i voli che costano 350 dollari andata e ritorno, viene da chiedersi se usare l’aereo sia un buon modo per spendere i soldi degli aiuti allo sviluppo. “È una buona domanda”, ammette la dipendente di una ong inglese che ieri mattina è andata in aereo a Naypyidaw con due colleghi per rientrare a Rangoon la sera stessa. “Naypyidaw è un posto molto strano, vuoto, ma è la capitale e quindi dobbiamo andarci”. “Sono tornato ieri sera e domani ci vado di nuovo”, spiega un alto funzionario di un’organizzazione umanitaria. “Ci sto due notti alla settimana, provi a chiedere a mia moglie e ai miei figli cosa ne pensano”. Un’altra donna dice che volerà a Naypyidaw domani mattina e rientrerà verso mezzogiorno con un piccolo aereo di linea a 66 posti che di solito sono tutti occupati. “Ormai ci stiamo abituando”, ammette. “A volte diciamo scherzando che passare qualche giorno lì è piuttosto riposante. Almeno non ci sono gli ingorghi del traico”. Seduti sotto l’ombrellone di un bar, davanti a uno dei giganteschi centri commerciali di Naypyidaw, un uomo e una donna Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 57 Birmania che lavorano come consulenti delle Nazioni Unite stanno chiacchierando con i computer portatili aperti sul tavolo. È la prima volta che vengono in Birmania e maledicono la sfortuna di essere stati mandati lì invece che a Rangoon. “Gli alberghi sono belli visti da fuori, ma dentro cade tutto a pezzi. Non c’è acqua calda e puzzano di mufa”, dice la donna, che chiede di mantenere l’anonimato perché lavora per il governo. “Non sapevamo cosa aspettarci quando ci hanno mandato qui. Pensavamo che la Birmania fosse ancora piuttosto arretrata, quindi non ci aspettavamo queste strade enormi”, aggiunge. “È un vero deserto, una città fantasma, mi sento molto a disagio in questo posto”. Senza un centro Naypyidaw non è l’unica città creata dal nulla per motivi politici. Il modo in cui è stata costruita ricorda altri insediamenti decisi a tavolino come Astana in Kazakistan, Oyala nella Guinea Equatoriale e l’assurda Gbadolite voluta da Mobutu Sese Seko, l’ex dittatore di quella che oggi è la Repubblica Democratica del Congo. La stessa Birmania ha una lunga storia di spostamenti della capitale in giro per il paese: Mandalay, l’ultima capitale del regno, fu fatta costruire dal re Mindon alla fine dell’ottocento sulla riva orientale del iume Irrawaddy. Naypyidaw è suddivisa in grandi “zone” – il quartiere degli alberghi, quello degli ediici governativi, quello dove risiedono i funzionari, e la zona militare, circondata da alte recinzioni in metallo sorvegliate dai soldati – che rendono diicile capire quale sia il suo vero centro. Anche questo, probabilmente, è stato deciso a tavolino: non c’è un spazio pubblico, come piazza Tahrir al Cairo, dove la gente si possa radunare spontaneamente. Dopo averla visitata, un giornalista indiano ha deinito Naypyidaw il frutto di una “cartograia dittatoriale”. Questa atmosfera autoritaria sembra sia stata prevista nel progetto stesso della città. Le storie di persone costrette a trasferirsi a Naypyidaw – o ad andarsene – hanno rovinato questa immagine della città, accuratamente fabbricata. “La nuova capitale”, si legge in un altro cablogramma del 2006 dell’ambasciata statuitense pubblicato da Wikileaks, “manca di infrastrutture essenziali; gli uici del governo che sono stati spostati qui non riescono a funzionare normalmente e le migliaia di dipendenti pubblici costretti a trasferirsi incontrano grandi diicoltà a viverci”. Il regime birmano, prosegue il docu- 58 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 mento, “ha minacciato di mandare in carcere o di negare la pensione ai dipendenti pubblici che non si fossero trasferiti; e si dice che ne abbia già fatti arrestare diversi”. Nessuno sa esattamente quando sono cominciati i lavori per costruire la città, perché tutto è avvenuto nella massima segretezza. Ma a giudicare dalle dimensioni, è diicile immaginare che sia stato possibile progettarla e costruirla in meno di dieci anni. “La zona intorno a Naypyidaw è stata completamente evacuata per isolare questo enorme agglomerato dal mondo esterno”, ha scritto all’epoca un giornale tailandese. “Interi villaggi sono stati cancellati dalle mappe e i contadini sono stati cacciati via dalle terre che le loro famiglie coltivavano da secoli. Centinaia, forse migliaia, di loro sono andati a ingrossare le ila degli sfollati, mentre i più sani e robusti sono stati ‘arruolati’ per contribuire alla costruzione della nuova capitale”. Per alleggerire l’atmosfera della città, gli urbanisti hanno Non c’è uno spazio pubblico dove la gente si possa radunare spontaneamente previsto anche la possibilità di svolgere alcune attività ricreative. Oltre allo zoo e ai campi da golf, c’è un enorme parco perfettamente curato di quasi ottomila metri quadrati, e alle porte della città c’è un ecoresort dotato di acquascivoli, spa e una spiaggia con un lago artiiciale. Ma ben pochi residenti di Naypyidaw possono godersi questi svaghi. Silenzio assoluto Una domenica pomeriggio, su uno dei campi da golf della città cinque o sei persone con la stessa polo azzurra si esercitano sull’erba perfettamente curata. Alle loro spalle brilla al sole una pagoda dorata. Scendendo lungo il prato, con il ronzio degli annaiatoi automatici che si percepisce appena, è facile dimenticare di essere in uno dei paesi più poveri del mondo, dove tra i bambini sotto i cinque anni due su cinque sono denutriti. Se alla ine del Yepyar golf course si sbaglia uscita, ci si ritrova su una strada fangosa e non asfaltata cosparsa di riiuti. Un bambino cammina a piedi nudi verso una bancarella che è l’unico negozio della via e vende ogni genere di dolci appiccicosi, ma niente cibo né acqua. Se si osserva più da vicino la pagoda Uppatasanti che brilla al sole, si vede che an- che quella è una replica, una copia dell’antica pagoda Shwedagon di Rangoon. A Naypyidaw è tutto così, non c’è nulla che abbia più di dieci anni. In fondo a una strada c’è una gigantesca esposizione di gioielli e pietre preziose, un enorme salone in cui sono ammassate decine di eleganti stand di gioielleria. Le donne dietro ai banconi hanno sul viso un sorriso forzato, quasi dipinto, e i loro occhi ci seguono in giro per la sala. In questo posto lavorano decine di persone, ma non c’è nessun cliente. Il silenzio è assoluto. Nel vicino quartiere degli alberghi, si può pranzare o bere un martini al Café Flight, un ristorante costruito all’interno di un aereo precipitato che è stato recuperato e portato qui per attirare i turisti che vogliono sperimentare la cucina locale. Anche questo è vuoto, c’è solo una coppia silenziosa che festeggia San Valentino. Il pranzo costa cinque dollari, più del doppio di quanto guadagna in un giorno un operaio di qui. Nelle zone residenziali della città, le case hanno i tetti di colori diversi a seconda del ministero in cui lavorano i loro inquilini. Molti dipendenti pubblici di basso livello vivono in dormitori e caserme spartane, mentre gli alti funzionari alloggiano in residenze sfarzose. Si dice che i politici dell’opposizione abbiano case più piccole di quelle dei pezzi grossi del partito al governo. Un elemento secondario, forse, ma in perfetto accordo con questo monumento alla gerarchia. Negli ultimi anni, Naypyidaw è entrata a far parte del circuito dei vertici internazionali e ha ospitato conferenze e incontri tra leader ed esperti internazionali. Barack Obama è stato qui nel 2014, David Cameron nel 2012. Quello stesso anno, dopo aver conquistato il suo storico seggio in parlamento, anche Aung San Suu Kyi, la spina nel fianco del regime, si è trasferita a Naypyidaw. I dirigenti del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, dicono che ha aittato una casa in periferia, molto diversa dalla villa sul lago Inya, a Rangoon, dove è stata tenuta agli arresti domiciliari per circa quindici anni. Naypyidaw è molto lontana dall’essere lo scintillante emblema della “nuova Birmania” che il governo sta cercando di promuovere. Con il nuovo sfavillante aeroporto internazionale sembra voler mettere alla prova la teoria secondo cui “se costruisci un posto, qualcuno verrà”. Ma inora, con il governo che ha già riportato almeno una delle sue agenzie d’investimento a Rangoon, sembra solo uno spettacolare fallimento. u bt Scienza Dieci segreti per imparare Emma Young, New Scientist, Regno Unito. Foto di Lorenzo Maccotta Rilassarsi, fare una pausa, giocare, studiare insieme agli altri. Oltre alle tecniche classiche ci sono molti modi per aiutarci ad apprendere qualcosa e a ricordarlo bene. Ecco dieci metodi suggeriti da New Scientist nche quando gli esami scolastici sono un ricordo lontano, la sete di conoscenza non si placa mai. Che l’obiettivo sia quello di acquisire una nuova competenza, parlare meglio un’altra lingua, suonare uno strumento musicale o approfondire un nuovo interesse, si passa tutta la vita a imparare. Anche quando per vincere un quiz o attirare l’attenzione di qualcuno è necessario solo aggiornarsi su degli argomenti frivoli, il bisogno di conoscere è ininito. Si può quindi pensare che gli esseri umani abbiano ormai ainato le tecniche per imparare, ma in realtà quelle più comuni sono abbastanza inutili. La buona notizia è che ci sono dei segreti per imparare meglio e che funzionano a qualsiasi età. A 1. Sappiate quando imparare Gli anziani funzionano meglio la mattina. Da uno studio condotto su un gruppo di persone tra i 60 e gli 82 anni dal Rotman research institute del Baycrest health sciences di Toronto, in Canada, è emerso che i volontari si concentravano di più e se la cavavano meglio nei test di memoria tra le 8.30 e le 10.30 del mattino. Andavano meno bene tra l’una e le cinque del pomeriggio. La risonanza magnetica funzionale rivelava che nel pomeriggio il loro cervello “girava al minimo”: erano entrati nella cosiddetta “modalità di default”, di solito associata alle fantasticherie. Negli adulti più giovani, invece, le aree collegate al 60 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 controllo dell’attenzione erano ancora molto attive ino al pomeriggio inoltrato. Ma per ottenere il massimo dai loro sforzi di apprendimento, anche le persone più giovani possono organizzare meglio il tempo. Da un altro studio è emerso che le ragazze tra i 16 e i 17 anni riuscivano meglio nei test di memoria se avevano studiato alle tre del pomeriggio piuttosto che alle nove di sera, ma acquisivano più rapidamente le abilità legate al movimento se si esercitavano di sera. “Questi risultati fanno pensare che forse è meglio studiare le lingue nel pomeriggio e il piano o un altro strumento musicale la sera”, dice Christoph Nissen, dell’università tedesca di Friburgo. Perché la scelta degli orari è così importante? Sappiamo che andare a dormire dopo aver appreso qualcosa aiuta a consolidare il ricordo. Nissen ha il sospetto che la “inestra critica” tra l’apprendimento e il sonno sia più piccola per tutto quello che è legato al movimento rispetto ad altri tipi di Perché la scelta degli orari è importante? Sappiamo che andare a dormire dopo aver appreso qualcosa aiuta a consolidare il ricordo memoria. Non è ancora chiaro se gli adulti possono trarre da queste inestre lo stesso vantaggio degli adolescenti. “È dimostrato che gli adolescenti hanno più capacità di apprendere e dormono meglio”, aferma. 2. Interrogatevi Nel corso di un fondamentale studio sull’importanza dell’autoveriica, Jefrey Karpicke, della Purdue university a West Lafayette, negli Stati Uniti, ha chiesto a un gruppo di studenti di imparare il signiicato di 40 parole swahili. Quelli che dovevano continuamente cercare di ricordarle nel corso della settimana alla ine ne avevano imparato l’80 per cento, mentre quelli che le avevano solo studiate senza mai ripeterle ne ricordavano in media il 36 per cento. Altri studi successivi hanno confermato l’ipotesi che interrogarsi da soli è più eicace di qualsiasi altra strategia di apprendimento, come per esempio disegnare diagrammi per rappresentare le idee contenute in un testo. Se ripassate mentalmente queste parole swahili le ricorderete molto più facilmente: adhama (onore), adui (nemico), buu (verme), chakula (cibo), daina (tesoro), elimu (scienza), fagio (scopa), farasi (cavallo), fununu (pettegolezzo), goti (ginocchio), kaputula (pantaloncini), ndoo (secchio), pombe (birra), sumu (veleno), tabibu (dottore), theluji (neve), tumbili (scimmia), usingizi (sonno), yai (uovo), ziwa (lago). Se vi sembra troppo faticoso, non vi scoraggiate. Nate Kornell e i suoi colleghi CoNTrASTo Monaco di Baviera, Germania. Lezione di biologia alla Anne Frank Schule del Williams college di Williamstown, negli Stati Uniti, hanno scoperto che l’importante non è tanto riuscire a recuperare le informazioni che stiamo imparando, ma provarci. Sembra infatti che anche sentir ripetere la risposta corretta aiuti a memorizzarla quanto il ripassarla da soli. “È stata una scoperta sorprendente”, dice Kornell. “Gli studiosi della memoria hanno sempre dato per scontato che nella mente si creano dei ‘percorsi’ dalla domanda alla risposta e che seguire l’intero percorso è più importante che seguirne solo una parte e poi controllare la risposta”. Il risultato degli studi di Kornell fa pensare che forse dovremmo rivedere come funziona la memoria. Ma dà anche qualche speranza ai più pigri. 3. Imparate senza imparare Per imparare non è necessario uno sforzo eccessivo, possiamo farlo anche quando la nostra mente è impegnata in qualcos’altro. Beverly Wright, della Northwestern university di Evanston, negli Stati Uniti, ha chiesto a un gruppo di volontari di eserci- tarsi a distinguere tra suoni di frequenze diverse ma molto simili tra loro. Nel frattempo un altro gruppo passava metà del tempo a fare la stessa cosa e l’altra metà ad ascoltare i suoni in sottofondo mentre faceva un esercizio scritto. Al test inale entrambi i gruppi hanno riportato più o meno lo stesso punteggio, ma solo se l’apprendimento passivo avveniva entro 15 minuti dalla sessione attiva. Se passavano più di quattro ore, l’efetto spariva completamente. Com’è possibile? Wright ipotizza che l’allenamento attivo metta il circuito neurale coinvolto in un particolare compito in uno stato che facilita l’apprendimento, e che questo stato rimane per un po’ di tempo. Finché dura, stimoli simili a quelli appresi sono elaborati dal cervello “come se fosse ancora in corso l’apprendimento attivo”, dice il ricercatore. Finora Wright e la sua équipe hanno indagato solo sull’apprendimento di un’abilità, non su quello di fatti o eventi. Ma Lynn Hasher e i suoi colleghi dell’università di Toronto hanno scoperto che un periodo di apprendimento passivo subito dopo lo studio attivo aiuta gli anziani a imparare una lista di parole. I volontari che hanno partecipato al suo studio hanno detto che durante la fase passiva non si erano neanche accorti che le parole venivano ripetute. L’apprendimento passivo funziona meglio quando si fa qualcosa di non troppo impegnativo. Per esempio, conviene ascoltare un po’ di vocaboli stranieri mentre si prepara la cena non mentre si scrive un’email. 4. Sfruttate le distrazioni Avete la tendenza a distrarvi? Sfruttatela a vostro vantaggio. “Molte persone partono dal presupposto che prestare attenzione a più cose contemporaneamente sia sbagliato”, dice Joo-Hyun Song, della Brown university a Providence, negli Stati Uniti. Certo, se interrompiamo spesso lo studio per mandare un sms o per concentrarci su una canzone che stiamo ascoltando in cuia, probabilmente non impareremo bene coInternazionale 1099 | 24 aprile 2015 61 Scienza me faremmo nel silenzio assoluto. “Ma l’apprendimento prevede anche una componente successiva di recupero delle abilità”, dice. “Nessuno aveva mai studiato il ruolo che svolge l’attenzione divisa nel ricordare”. Song ha scoperto che distrarsi mentre si sta studiando può essere utile se si sarà distratti anche quando si dovrà usare quello che si è imparato. Ormai è noto che il contesto può facilitare l’apprendimento. Se studiamo una lista di parole sentendo l’odore di vaniglia, per esempio, ne ricorderemo un numero maggiore se il profumo di vaniglia è nell’aria quando le dobbiamo riportare alla memoria. Song ha scoperto che l’attenzione divisa può agire come contesto. Nei suoi studi i soggetti distratti durante l’apprendimento e il ricordo se la cavavano altrettanto bene di quelli che non erano distratti in nessuna delle due occasioni. Non aveva importanza se le distrazioni erano le stesse in entrambi i casi, ma il grado di deconcentrazione doveva essere simile. Song ha scoperto anche un’altra cosa afascinante: l’attenzione divisa aiuta l’apprendimento più di qualsiasi contesto ambientale. Questo comporta una serie di implicazioni importanti, dice. “Durante la formazione le persone dovrebbero tener conto del contesto in cui useranno le loro competenze”. Se dovranno ricordare quello che hanno imparato in un ambiente in cui probabilmente saranno distratti – in una città straniera afollata o in un pub rumoroso – se la caveranno sicuramente meglio se saranno distratte anche durante l’apprendimento. 5. Studiate insieme Anche se studiare da soli è importante, discutere argomenti diicili con altre persone può essere utile. Saundra McGuire, vicerettrice per la didattica e l’apprendimento della Louisiana state university, e il premio Nobel per la chimica Roald Hofman consigliano di alternare lo studio individuale con il lavoro di gruppo. In particolare, dopo aver afrontato un argomento da soli può essere utile discuterlo con un piccolo gruppo di studio di tre, sei persone. Secondo McGuire e Hofman, il gruppo deve svolgere due tipi di attività: discussione e risoluzione dei problemi. Se i suoi componenti si fanno domande a vicenda, saranno poi facilitati nei test. Ma dopo aver discusso i materiali, chiarito i dubbi e sfruttato l’opportunità di interrogarsi a vicenda, dicono i ricercatori, bisognerebbe tornare a lavorare da soli. 62 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Giocare è l’attività ideale nel tempo libero se si sta imparando a usare il computer, a suonare uno strumento o a praticare uno sport 6. Usate i videogiochi Giocare nel tempo libero è l’attività ideale se si sta imparando a usare il computer, a suonare uno strumento o a praticare un nuovo sport, in sintesi qualsiasi cosa che abbia una struttura costante e prevedibile e richieda coordinazione tra gli input sensoriali e i movimenti isici. Un’équipe guidata da Jay Pratt, dell’università di Toronto, ha scoperto che chi usa un videogioco d’azione come Call of duty da sei a otto ore alla settimana impara più rapidamente compiti che richiedono la coordinazione tra l’occhio e la mano. All’inizio questi giocatori non sono particolarmente bravi, ma migliorano più rapidamente. Secondo Pratt, il gioco accelera la capacità del cervello di formare precisi “modelli” di azione coordinata occhio-mano. “I giochi d’azione, diventando progressivamente più diicili, chiedono molto al sistema visivo, a quello cognitivo e a quello sensorimotorio e ne migliorano costantemente l’efficienza”, dice. È diicile sapere con certezza quanto inluirebbe sulle attività del mondo reale il fatto di giocare regolarmente, perché ci sono troppe variabili, ammette Pratt. “Ma se una persona ha cominciato un lavoro che richiede una forte capacità sensorimotoria, giocare qualche ora a settimana potrebbe essere un buon investimento”. veniva messa alla prova in seguito. Secondo Davachi questo dimostra il consolidamento dei ricordi durante il riposo. Se abbiamo appena studiato una lista di vocaboli o cercato di memorizzare alcune date storiche, concederci una bella pausa dovrebbe aiutarci a ricordare quelle informazioni, dice Davachi. “È una cosa di cui non ci rendiamo conto, soprattutto perché oggi le tecnologie informatiche ci tengono impegnati tutto il giorno”. Ma cosa signiica prendersi “una bella pausa”? Davachi ha scoperto che il riposo può contribuire a consolidare i ricordi se attiva popolazioni di neuroni, o intere regioni del cervello, diverse da quelle attive durante il periodo di apprendimento. Quindi se abbiamo studiato sodo, l’ideale è andare a fare una partita a tennis. Detto questo, stendersi un po’ può sembrare più invitante e forse è anche più produttivo. Ma ai ini dell’apprendimento ancora non sappiamo se è meglio semplicemente rilassarsi o fare un sonnellino. 8. Fingete di dover insegnare È più facile ricordare qualcosa se si pensa che in seguito la si dovrà insegnare. Kornell lo ha scoperto quando ha dato dieci minuti agli allievi del Williams college per studiare un brano di 1.500 parole su una poesia di Alfred Tennyson, La carica dei seicento. Le persone a cui era stato detto che in seguito dovevano trasmettere le nozioni imparate ricordavano di più e i loro ricordi erano meglio organizzati rispetto a quelle che pensavano semplicemente di dover superare un test. “La nostra ricerca dimostra che anche ingere di dover insegnare aiuta”, aggiunge Kornell. Chiedersi se si è in grado di ripetere quello che si è imparato con parole proprie ha dei vantaggi cognitivi. “Favorisce il recupero attivo dei ricordi, aiuta a organizzare i propri pensieri e a individuare i vuoti da riempire”. 7. Rilassatevi Se il sonno consolida i ricordi, prendersi una pausa dallo studio può avere un efetto simile? Lila Davachi, della New York university, ha sottoposto a scansione il cervello di alcune persone che guardavano una serie di immagini e poi gli ha chiesto di pensare a quello che volevano. Durante il periodo di riposo l’attività dell’ippocampo (che è coinvolto nella memorizzazione) e quella delle regioni della corteccia dedicate al “pensiero” aumentavano. Inoltre, più attività c’era in quelle regioni, più una persona ricordava le immagini viste quando 9. Scegliete gli intervalli giusti Abbiamo appena imparato una serie di brillanti mosse di apertura per una partita a scacchi, ma qual è il momento migliore per ripassarle in modo da ricordarcele quando serviranno? “Più si aspetta e meglio è”, dice Kornell. “Esiste un lasso di tempo limite, ma è abbastanza ampio”. È vero che se si aspetta molto è più diicile ricordare le informazioni. “Ma più è diicile, più si impara. Quando avremo bisogno di quelle informazioni, ce le ricorderemo meglio”, dice Kornell. CONtRAStO Lipsia, Germania. Nel cortile del Wilhelm Ostwald Gymnasium Hal Pashler e i suoi colleghi dell’università della California a San Diego consigliano di stabilire gli intervalli tra un ripasso e l’altro in proporzione al tempo trascorso tra l’apprendimento iniziale e il momento in cui si vogliono ricordare le informazioni. Per ricordarle meglio una settimana dopo, bisognerebbe ripassare le informazioni due o tre giorni dopo averle apprese. “Se si vuole ricordarle a lungo, è meglio usare un intervallo maggiore, diciamo del 10 per cento”, dice Pashler. Perciò se vogliamo ricordare qualcosa tra un anno, dobbiamo ripassarlo un mese dopo averlo imparato e poi una volta al mese. Per ricordare una cosa per dieci anni, idealmente bisognerebbe ripassarla una volta all’anno. Nessuno sa quali sono i meccanismi mentali alla base di questa scoperta. Ma forse lasciare lunghi intervalli tra l’apprendimento, la revisione e il recupero delle informazioni dice al nostro cervello che quelle conoscenze probabilmente ci serviranno a lungo termine. Ora l’équipe di Pashler sta cercando di sviluppare strumenti pratici basati sulla sua ricerca. Ha elaborato un algoritmo in grado di generare intervalli di studio personalizzati. La formula tiene conto della diicoltà del materiale e delle capacità che un particolare studente ha dimostrato in test precedenti. Da una ricerca condotta su un gruppo di volontari che stavano imparando lo spagnolo è emerso che i piani di studio personalizzati facevano aumentare del 16,5 per cento le lezioni che riuscivano a ricordare alla fine del semestre, rispetto al 10 per cento dei piani uguali per tutti. 10. Fatelo e basta Se avete difficoltà a studiare e di conseguenza i risultati che ottenete a un esame sono scarsi, non arrabbiatevi troppo con voi stessi. Michael Wohl e i suoi colleghi della Carleton university di Ottawa, in Canada, hanno scoperto che chi si perdona il fatto di aver rinviato la prima sessione di esami se la cava meglio nella seconda e temporeggia meno rispetto a chi non se lo perdona. Inoltre appare anche più ottimista. Secondo Wohl, perdonarsi consente di liberarsi dei sentimenti negativi nei confronti di se stessi e quindi aiuta a migliorare le nostre prestazioni future. Ma il ricercatore sottolinea che questo non funziona per chi tende regolarmente a rimandare: “Abbiamo scoperto che un comportamento malsano cronico tende a mantenere lo status quo, cioè continuare a comportarsi in modo malsano”. Se vi riconoscete in questo quadro, forse dovete intervenire in modo drastico. Per imparare ci vuole forza di volontà e autocontrollo. La forza di volontà è come un muscolo, sostiene Roy Baumeister, della Florida state university: più la si esercita e più si rinforza. Baumeister, inoltre, ha scoperto che esercitando la forza di volontà in un campo, la si migliora anche negli altri. Se si compie uno sforzo per fare qualcosa, dal mantenere in ordine la casa allo stare seduti dritti, si migliora anche la capacità di mettersi seduti a studiare o a esercitarsi. Cosa state aspettando? Perché non cominciare subito? u bt Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 63 Portfolio La notte di Okinawa Il fotografo Keizō Kitajima ha documentato il mondo della prostituzione che ruotava intorno alle basi statunitensi in Giappone negli anni settanta. Un incontro tra universi estranei, scrive Christian Caujolle Portfolio n tutte le guerre, come confermano le ricerche di diversi studiosi, sono nati dei sistemi di prostituzione per il “riposo del guerriero”. Alcuni erano basati su uno sfruttamento di massa, altri sui “bordelli da campo”. Periodicamente, in occasione di manifestazioni di protesta o di nuove testimonianze, si torna a parlare di uno degli episodi più sconcertanti di questo sfruttamento, quello che avvenne durante la guerra di Corea, quando il fenomeno arrivò ad assumere un carattere “industriale”. Stranamente, invece, quanto è avvenuto nella prefettura di Okinawa, in Giappone, non ha oltrepassato le frontiere del paese, e solo la pubblicazione dei lavori del fotografo Keizō Kitajima ci ha permesso di venirne a conoscenza. Okinawa, dove ancora oggi si trova la più importante base statunitense in Asia, con 25mila soldati, è stata amministrata dagli Stati Uniti dal 1945 al 1972. La base è un’eredità di quel periodo, cominciato dopo una delle battaglie più sanguinose della seconda guerra mondiale, che fece più di centomila morti a Okinawa, un terzo dei quali civili. Fino al 1972 da Okinawa decollavano i B-52 che bombardavano o lanciavano l’agente arancio sul Vietnam, sulla I 66 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Cambogia e su una parte del Laos. Solo quando l’isola fu restituita ai giapponesi furono portate via le bombe atomiche. Quando arrivò a Okinawa, tre anni dopo la restituzione al Giappone, Kitajima era un giovane fotografo di 21 anni, impegnato nelle lotte urbane a Tokyo contro la costruzione dell’aeroporto Narita e nelle rivendicazioni sociali seguite al 1968. Come altri fotograi (Nobuyoshi Araki e Daidō Moriyama) che si ritroveranno nell’eimero gruppo della rivista underground Provoke, Kitajima s’interrogava sul ruolo della fotograia, sulla possibilità di immortalare la realtà e di analizzare i fenomeni sociali. Nei cinque anni in cui rimase a Okinawa, Kitajima si immerse nella vita notturna dell’isola, e il libro appena pubblicato si sofferma sul fenomeno della prostituzione. Con il lash, in modo sempre diretto, senza manierismi, confrontandosi con l’azione, Kitajima ci fa entrare in un mondo in cui sembra a suo agio e in cui si è guadagnato la iducia dei protagonisti: ragazze, clienti, protettori e altri enigmatici personaggi di cui è diicile deinire il ruolo. Questa libertà nell’approccio, garantita dal fatto che la presenza del fotografo è ormai accettata da tutti, evita qualunque voyeurismo e ci permette di valutare la particolarità di un uni- verso di cui nulla sembrava presagire l’esistenza. Le ragazze sono in maggioranza giapponesi, ma alcune vengono dalla Thailandia (dove il villaggio di Pattaya, altra base dei bombardieri statunitensi, è ancora oggi un immenso bordello). I clienti sono americani e per lo più neri, i protettori sono giapponesi e si ha l’impressione che tra loro ci sia anche qualche statunitense. Nei corridoi o nelle camere, nude o con abiti trasparenti, in biancheria intima, a volte truccate da geishe, le ragazze si ofrono senza problemi. Sembrano quasi giocare con il fotografo che le immortala con il lash. Un po’ complici e un po’ attrici, si prestano al gioco della fotograia mentre danzano avvinghiate a dei neri muscolosi che a volte assumono pose caricaturali, con le loro pesanti catene d’oro e i vestiti stravaganti. Una grande sorpresa Oggi è diicile immaginare cosa poteva significare l’incontro di questi due mondi perfettamente estranei. All’epoca in Giappone non c’erano né africani né neri, e gli Stati Uniti erano lontani. Kitajima ricorda: “Simpatizzavamo per la lotta degli afroamericani, speravamo che ottenessero i diritti civili, ma non avevamo alcuna idea di Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 67 Portfolio 68 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 chi fossero questi uomini né, tanto meno, di come fosse la società statunitense. Furono una grande sorpresa per noi. Portarono anche la musica, dal blues al rock passando per il jazz, che pochi di noi conoscevano. Una musica che ci ha inluenzato”. Guardando più da vicino, si coglie l’incontro di questi universi eterogenei, quando uomini eleganti con pantaloni a righe, occhialetti tondi, giacca e cappello, che sembrano usciti da un film, stringono tra le braccia “hostess” sinuose, con vestiti in tessuti ricamati, pantaloncini aderenti e bustini con paillettes. La luce che buca la notte assegna a ciascuno un posto deinitivo, immutabile, nel gioco dei ruoli che trasforma tutto in teatro. O in un cinema documentario estremo in cui tutto, gli abbracci come le risse, diventa irreale, o inverosimile, a furia di essere evidenziato, immobilizzato. La forza di Kitajima, al di là della testimonianza, deriva da questa dimensione diretta nel confronto tra immagini e realtà, da questa assenza di qualunque giudizio, sentimentalismo, analisi. L’assenza di didascalie, l’impaginazione – ritmata da qualche pagina bianca – che struttura il lusso di immagini, articolate come un’esplorazione e non come una storia, e la brutalità elegante dell’insieme sono di una rara modernità. Viene da pensare a un Anders Petersen ante litteram, alla rara capacità di investire uno spazio urbano appropriandosene senza turbarlo, anche quando in alcuni casi il fotografo lo modiica perché le persone ritratte recitano per lui. Okinawa nel 1975 è un aspetto collaterale della guerra che non viene mai mostrato e di cui si parla poco. Ed è la dimostrazione della capacità documentaria della fotograia quando non si preoccupa di analizzare quello che esplora. u adr IL LIBRO Modoru Okinawa di Keizō Kitajima è stato pubblicato da Gomma Books nel 2015. Il libro ha 136 pagine e una prefazione di Christian Caujolle. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 69 Ritratti Haitham Abdalrazak Sindrome irachena dell’ignoranza”, spiega il dottor Haitham Abdalrazak, responsabile del reparto. Molti iracheni pensano che la malattia mentale sia qualcosa di cui vergognarsi. “La nostra fede considera i problemi psicologici come una possessione demoniaca. È un pregiudizio che va superato se vogliamo aiutare queste persone”. Abdalrazak è un uomo sulla quarantina, ha pochi capelli e un volto squadrato che non lascia trapelare emozioni. Nel 2009 ha introdotto le terapie occidentali a Sadr City. Con l’aiuto di Medici senza frontiere ha avviato un programma con sessioni di mezz’ora. Le sedute sono gratuite. Abdalrazak chiede ai suoi pazienti di compilare un modulo prima e dopo la cura affinché possano valutare i loro miglioramenti su una scala da uno a dieci. Finita la cura, in media i pazienti riconoscono che la loro capacità di stare con gli altri e lavorare è migliorata di almeno quattro punti. Bombe e fatalismo Paulien Bakker, Narratively, Stati Uniti Foto di Marieke van der Velden In un paese dove i disturbi mentali sono ancora considerati una possessione demoniaca, è uno dei pochi psichiatri ad aiutare le vittime della violenza e dei traumi della guerra elle casupole ammassate una sull’altra di Sadr City, un quartiere sciita di Baghdad, vivono circa tre milioni di persone. I marciapiedi sono pieni di copertoni e rottami arrugginiti. Dai pali della luce e davanti ai negozi sventolano bandiere verdi. Le barriere contro le autobomba sono tappezzate di manifesti che ritraggono il predicatore sciita Muqtada al Sadr. Quando si azzardano a uscire di casa, le donne camminano veloci, vestite di nero dalla testa ai piedi. È domenica mattina, e per gli iracheni è l’inizio della settimana lavorativa. Nella sala d’attesa del reparto di psicologia all’ospedale Imam Ali, una donna racconta che la notte precedente è stata assalita dal mal di testa e dalla tristezza. Ha ascoltato la registrazione di un sermone sulla morte dell’imam Hussein, nipote del profeta Maometto la cui uccisione nel 680 fu all’origi- N 70 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 ne della separazione tra sciiti e sunniti. La donna ha circa cinquant’anni ed è completamente vestita di nero, comprese le calze sotto i sandali. Il sermone le ha ricordato la morte di sua madre. Il suo psicoterapeuta, Samir, le dice che deve trovare qualcosa di utile da fare nelle prossime settimane. Poi la guida in una tecnica di rilassamento. “Espira profondamente e ripeti: ‘Grazie al cielo, dio è superiore a tutti gli errori’”. Uicialmente le malattie psichiatriche non esistono in Iraq. Secondo uno studio sulla salute mentale condotto dall’Organizzazione mondiale della sanità tra il 2006 e il 2007, meno del quattro per cento degli iracheni sofre di sindrome da stress post-traumatico. Considerando che quasi tutta la popolazione ha vissuto i traumi della guerra e ha assistito a omicidi, sparatorie ed esplosioni, la stima è ovviamente inferiore al dato reale. Come se non bastasse, meno del dieci per cento dei pazienti ha ricevuto cure psichiatriche. “È colpa Biograia ◆ 1969 Nasce a Baghdad, in Iraq. ◆ 2007 Viene assegnato a un ospedale di Sadr City, a Baghdad. ◆ 2008 Comincia a lavorare con Medici senza frontiere. ◆ 2014 Assiste gli yazidi in fuga dal gruppo Stato islamico nel Kurdistan iracheno. Abdalrazak è il secondo di nove fratelli, iglio di una donna analfabeta e di un impiegato statale. A 17 anni trovò nella libreria del padre L’occulto di Colin Wilson, e cominciò a interessarsi ai problemi della mente. Grazie ai suoi ottimi risultati scolastici poté iscriversi alla facoltà più ambita, medicina, ma dopo la laurea decise di specializzarsi in psichiatria, una disciplina che in Iraq pochi scelgono volontariamente. Mentre lavorava alla sua tesi di dottorato – uno studio per trovare una causa organica alla maggiore incidenza della depressione tra i diabetici – gli Stati Uniti invasero l’Iraq. “Tutti vogliono vivere in una democrazia, ma non avrei mai pensato che l’Iraq sarebbe diventato un casino del genere”, racconta. “Se me lo chiedi oggi, penso che sarebbe stato meglio non essere invasi. Non perché fossi un sostenitore di Saddam, ma perché ci sono stati troppi morti, troppa soferenza”. Nonostante la disperazione che lo circonda, Abdalrazak crede ancora in un nuovo Iraq. “Quando scoppia una bomba la gente dice ‘Ormai ci siamo abituati’ o ‘Sarà dio a decidere quando morirò’. Se le persone non cercano nemmeno di scappare significa che non hanno più speranze”. Nella stanza numero tre lo attende un uomo insieme al iglio di sei anni, Mehdi, che si rifiuta di andare a scuola. “Ehi Mehdi, ti piace il calcio?”, domanda Abdalrazak. Mehdi si rannicchia contro lo schienale della sedia e non risponde. Il padre lo prende per un braccio. “No, lo lasci stare”, lo interrompe il dottore, poi ripete la do- manda. Mehdi non risponde. “Gli piacciono i cartoni animati e i videogiochi. Nessuno dei suoi fratelli è così”, spiega il padre con imbarazzo. “È successo qualcosa di particolare alla nascita? Ha pensato che fosse diverso?”, chiede Abdalrazak. Il padre di Mehdi risponde che non aveva notato nulla di strano. Ogni volta che veniva maltrattato a scuola, scappava dalla madre, che insegna nello stesso istituto, ma lei lo riportava indietro. Ora però non vuole più tornare a scuola. “Se Mehdi fa qualcosa di sbagliato a casa, anche lì corre dalla mamma?”, domanda Haitham. “Sì, quando voglio picchiarlo scappa dalla madre”. “E sua moglie le permette di picchiarlo?”. La violenza domestica è molto comune a Sadr City. L’ostilità del mondo esterno si sfoga in casa sulle donne e sui bambini. Molti uomini non permettono che i igli vadano dallo psicologo. Dopo aver rivolto all’uomo altre domande, Haitham dichiara con tono severo: “I genitori hanno la responsabilità di co- struire il carattere dei igli”. L’uomo annuisce. “Per riuscirci bisogna fare le cose insieme e parlare. Se vuole punirlo, non lo picchi. Lo prenda da parte e gli spieghi dove ha sbagliato”. Poi prescrive un test del quoziente intellettivo. Il padre di Mehdi domanda ancora: “Cosa c’è che non va in mio iglio, dottore?”. “Penso che non ci sia nulla che non va nella sua testa. Il problema sono le reazioni che lei e sua moglie avete davanti al suo comportamento, e fortunatamente è una Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 71 Ritratti Le donne che non hanno più notizie dei loro cari vengono colpite da attacchi epilettici o restano paralizzate cosa che si può correggere”. Di tutti i pazienti che si presentano nel corso della giornata, solo uno porta i segni evidenti della violenza: un uomo di 25 anni con cicatrici alle braccia e un supporto di metallo a una gamba. Nel 2005 stava comprando un panino per strada quando un convoglio statunitense saltò in aria. La sua gamba andò in pezzi. “Ho cercato di suicidarmi tre volte, ma non ci sono riuscito”, spiega. “Mi sento inutile, non posso lavorare e non potrò mai camminare normalmente”. Lo psichiatra gli rivolge alcune domande e lo aiuta a mettere in ordine le idee. Spesso è l’unica cosa che può fare, ma in un posto del genere è raro trovare qualcuno capace di ascoltare. Fermata fortunata Nel 2007 il suocero di Abdalrazak fu rapito e rilasciato dopo il pagamento di un riscatto. Lo stesso anno lo psichiatra fu assegnato all’ospedale Imam Ali di Sadr City, dove infuriava la guerra civile. Durante la notte, ai posti di blocco gestiti dalle milizie sciite, i sunniti venivano rapiti o uccisi, e lo stesso destino toccava agli sciiti nei quartieri sunniti. Abdalrazak è sunnita e non poteva entrare a Sadr City, ma non spiegò al suo superiore qual era il motivo: “Temevo che mi accusassero di discriminazione”. Cercò lavoro nel Kurdistan iracheno, ma alla ine fu costretto ad accettare l’incarico nel quartiere sciita. La prima volta che salì su un autobus per Sadr City era molto nervoso. “A ogni posto di blocco pensavo: ‘È la ine’”, ricorda. Con il passare dei giorni, però, cominciò a sentirsi più tranquillo. Nel 2008, quando Medici senza frontiere gli propose di lavorare a un programma per la terapia di gruppo, si sentì abbastanza sicuro da accettare, perché pensava che i colleghi e i pazienti non avrebbero mai scoperto che era un sunnita. Abdalrazak ha trovato la fede a 29 anni, nel 1998. Un giorno, durante le commemorazioni della guerra tra Iraq e Iran, era seduto alla fermata dell’autobus e un uomo gli chiese se poteva sedersi accanto a lui. La panchina era vuota, ma si spostò comunque per far sedere l’uomo. Poco dopo un autobus passò dalla fermata e l’uomo si alzò per salire a bordo. All’improvviso si 72 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 sentì un forte rumore. Qualcuno aveva sparato in aria per festeggiare. Ricadendo, il proiettile perforò il tetto della fermata dell’autobus e cadde proprio dove Abdalrazak era seduto prima dell’arrivo di quella persona. Ha sempre conservato quel proiettile. Abdalrazak crede che il suo lavoro sia necessario. Nel 2011, quando gli statunitensi si preparavano ad abbandonare l’Iraq, era convinto che la situazione sarebbe migliorata rapidamente e voleva combattere l’ignoranza sulla psicologia. Il 2012 fu un anno di speranza. Insieme a Medici senza frontiere Abdalrazak aprì centri di assistenza a Baghdad, nella città sunnita di Falluja, nelle città sciite di Najaf e Karbala e nella città curda di Sulaymaniyya. Inoltre introdusse un programma di terapia al telefono. A Sadr City la sua équipe curava circa duemila pazienti. Alla ine dell’anno, però, arrivò un nuovo collega che apparteneva al partito politico di Muqtada al Sadr e poteva contare su una solida rete di conoscenze nel quartiere. Nel frattempo il paese si stava nuovamente spaccando tra sciiti e sunniti. Secondo Abdalrazak al nuovo collega non interessava afatto la psicoterapia, ma solo i fondi che secondo lui Medici senza frontiere elargiva (in realtà l’organizzazione passa agli psichiatri solo poche centinaia di dollari). “Si è messo in mezzo tra me e il mio lavoro”, ricorda Abdalrazak. In breve lo psichiatra si ritrovò messo ai margini nella piccola comunità di cui era parte integrante. Fu trasferito in un altro ospedale e il suo posto fu preso da un medico senza alcuna esperienza. Le rimostranze al direttore sanitario non servirono a nulla. “Mi guardavano con sospetto perché ero un sunnita e perché lavoravo con gli stranieri”, spiega. Alla ine il suo progetto fu completamente interrotto. Ad Abdalrazak non rimase che partire per la regione autonoma del Kurdistan. “Avevo pensato spesso di andarmene”, spiega. “Ma quando partii fu come una sconitta”. Stress da jihad Una giovane coppia entra nello studio di Abdalrazak nella piccola città di Zakho, nel Kurdistan iracheno. Sono due rifugiati. Lui ha una bruciatura sul labbro superiore, lei indossa un maglione nero sformato e ha una sciarpa avvolta intorno alla bocca. Il dottore li invita a sedersi alla sua scrivania. La ragazza sofre di depressione reattiva. Non riesce a dormire e non vuole mangiare. Le analisi rivelano una forte anemia. Il dottore la ascolta attentamente e pesa con cura le parole, con il distacco emotivo dello psichiatra. “Qui sei al sicuro”, le dice dolcemente. Scrive una ricetta in inglese, poi irma in arabo da destra a sinistra. La donna si toglie la sciarpa per asciugarsi le lacrime. Poi il suo volto si contrae in un’espressione di rabbia. Abdalrazak è l’unico psichiatra di Zakho. Pochi mesi dopo il suo arrivo il gruppo Stato islamico ha conquistato l’area del monte Sinjar, abitata da molti curdi di religione yazidica che i jihadisti considerano adoratori del diavolo. Decine di migliaia di yazidi si sono rifugiati sulla cima della montagna senza provviste né riparo dal sole cocente, assediati dai miliziani. A Zakho sono arrivati centomila profughi. Nei corridoi dell’ospedale ci sono sempre lunghe ile di rifugiati, ma davanti alla sua stanza non c’è nessuno. Qui arrivano solo i casi più disperati, come le donne che non hanno più notizie dei loro cari e, incapaci di esprimere il loro trauma, vengono colpite da attacchi epilettici o restano paralizzate. Abdalrazak ha perso la sua aria rassicurante. Non ha un permesso di soggiorno, perché secondo i curdi tutti i sunniti sono potenziali terroristi. Non può nemmeno spostarsi per andare a far visita ai suoi anziani genitori. Sta pensando di lasciare l’Iraq. “I miei igli non possono andare a scuola, perché le scuole sono piene di rifugiati”, spiega. Guarda le montagne oltre la inestra. “Non posso dare ad altri qualcosa che non ho. Sono un essere umano”, spiega con tono sommesso, come se volesse scusarsi. Lo sconforto però passa subito. Abdalrazak si reca al campo profughi. Ha scoperto che le donne non riescono a raggiungere l’ospedale perché è troppo lontano. Insieme a un’organizzazione umanitaria ha deciso di formare dei volontari perché possano ofrire assistenza psicologica direttamente nei campi profughi. In questo paese dove la guerra continua senza sosta e nessuno sembra pensare alla salute mentale delle vittime, questo medico non rinuncia a fare la sua parte. u as Annunci Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 73 Viaggi L’Atlantide russa A Mologa, la città fatta sommergere nel 1941 da Stalin per creare il bacino di una centrale idroelettrica, le acque si stanno ritirando assili Kovalkov torna in salotto tenendo tra le mani un oggetto pesante dai bordi smussati. “Il mattone della mia nascita!”, dichiara trionfante. Questo blocco di terra erosa con ancora il sigillo di chi lo ha fabbricato non è un mattone come gli altri. È un pezzetto di Mologa, la città inghiottita dalle acque. Un tesoro riemerso dai fondali ghiacciati del bacino di Rybinsk, lungo il Volga, trecento chilometri a nord di Mosca. Mologa fu inondata nel 1941 su ordine di Stalin per formare il lago artiiciale di Rybinsk, che doveva alimentare una diga e una centrale idroelettrica. Da quando qualche anno fa il livello dell’acqua ha cominciato ad abbassarsi lasciando intravedere alcuni resti, la città è meta di un vero e proprio pellegrinaggio. L’estate scorsa è bastato diffondere su Facebook una foto ritoccata che mostrava la cupola dorata di una chiesta emersa dalle acque, per far arrivare visitatori in massa. “Sono arrivati quaranta giornalisti, compresi quelli del Washington Post. Di solito qui ci sono solo i cronisti locali”, racconta stupito e soddisfatto Valentin Blatov, 76 anni, presidente di un’associazione di anziani di Mologa. In realtà non resta quasi più nulla di questa piccola città, che oggi giace sotto tre metri di acqua nel punto in cui il iume Mologa confluisce nel Volga. L’ultimo palazzo è crollato nel 1997. Gli ediici che si vedono nelle foto e sono attribuiti a Mologa si trovano a Kaliazine, nella regione di Tver. I vecchi abitanti si battono per riportare V 74 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 in vita la memoria di questa Atlantide russa, per molto tempo sprofondata sotto il peso del terrore staliniano. Oggi sono in pochi a poter raccontare la tragedia che hanno vissuto. “Quando siamo partite a me e alla mia amica chiedevano sempre da dove venivamo”, racconta Maria Ivanovna. Nata il 1 gennaio 1921, aveva vent’anni quando insieme a tutti gli abitanti della zona, 150mila persone, fu costretta a lasciare la città. Nei suoi documenti d’identità si legge un luogo di nascita, distretto di Mologa, che non esiste più. Ma oggi grazie ai sopravvissuti come Ivanovna e ai loro discendenti, quel luogo è tornato nelle mappe, posizionato in mezzo all’acqua, a 22 chilometri dalla riva di Rybinsk. La diga in pietra svetta ancora tra il bacino e il Volga. “Prima del 2000 non sapevo niente di tutta questa storia, mio padre non me ne aveva mai parlato. Avrebbe gettato delle ombre sul Partito comunista”, ammette Valentin Blatov, che con i suoi denti d’oro e il suo modo di brindare, alternando tè e cognac, sembra uscito anche lui dal passato. Gli ultimi testimoni “All’epoca gli obiettivi primari erano l’energia, e i mezzi di trasporto, e questo si può capire, ma si sarebbero potuti raggiungere causando meno dolore alle persone”. Le case in pietra furono distrutte. La cattedrale dell’Epifania, simile a quella del Cristo salvatore di Mosca, fu rasa al suolo dagli esplosivi prima dello sgombero deinitivo, il 14 aprile del 1941, quando l’acqua invase ogni cosa. Le case in legno, almeno quelle in grado di sopportare il trasporto, erano state smontate e portate sul Volga e furono ricostruite a Rybinsk con l’aiuto di prigionieri del gulag che lavoravano alla diga. Nikolaj Novotelnov, novant’anni, abita in una di queste case, sulla riva nord di Rybinsk. Gli abitanti di Mologa hanno ricostruito le loro abitazioni in una striscia di terra lunga 15 chilometri e hanno taciuto. ARTHUR BONDAR (VII PHOTO MENTOR PROGRAM) Isabelle Mandraud, Le Monde, Francia “Cosa si poteva dire all’epoca a proposito di una decisione presa dal governo centrale?”, si chiede il vecchio signore rovistando tra le foto ingiallite in una scatola di cartone. “Ecco, questa era la sede del Commissariato del popolo per gli afari interni (Nkvd), l’antenato del Kgb. Questo era il monastero, che già non aveva più le croci, portate via dai soviet. E questa era la grande piazza dove suonavo la balalaika insieme a mio fratello”. Novotelnov, che si tiene in forma alzandosi ogni mattina alle cinque per lavorare al suo orto, come faceva a Mologa, si ricorda tutto. “Quello è stato il periodo più felice della mia vita. Dopo, niente è stato più come prima”. Gli ultimi testimoni hanno tutti i loro ricordi, i loro tesori. Oltre al suo mattone, Kovalkov, 80 anni, colleziona chiodi arrugginiti. Oggetti recuperati quando l’acqua ha cominciato a ritirarsi . Partecipa alla commemorazione collettiva che si tiene ogni estate: si sale su una barca e si rema verso Mologa. Kovalkov, che è rimasto orfano molto presto, aferma di sapere con certezza dove si trova la tomba di sua madre. Ha scandagliato il fondo con Russia. Strutture di metallo arrugginito nel bacino idrico di Rybinsk Informazioni pratiche u Documenti Il visto turistico per la Russia va chiesto all’ambasciata russa, ai consolati presenti in Italia o alle agenzie private. Il costo è di circa duecento euro. Per i contatti dei consolati russi: bit.ly/1OmYeiN. u Arrivare e muoversi Il prezzo di un volo per Mosca dall’Italia (Brussels Airlines, Lufthansa, Klm) parte da 212 euro a/r. La città di Rybinsk e l’omonimo bacino idrico si trovano trecento chilometri a nord della capitale russa e si possono raggiungere in auto (il viaggio dura cinque ore), autobus e treno (circa sei ore). u Dormire A Rybinsk, l’hotel Na Kazanskoy è in mezzo al verde e a pochi minuti a piedi dal centro. Ofre una doppia a partire da 2.700 rubli (50 euro) a notte. u Leggere Rachel Polonsky, La lanterna magica di Molotov, Adelphi 2014, 28 euro. u La prossima settimana Viaggio a Bhaktapur, in Nepal. Avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare nella zona, libri da leggere? Scrivete a [email protected]. un mezzo marinaio. Negli anni che precedettero l’inondazione il clima politico in città non era dei migliori. “Nel 1936 mio padre voleva denunciare una malversazione inanziaria nella sua azienda”, ricorda Novotelnov. “Fu accusato di voler nuocere agli stacanovisti e mandato per sei anni a Magadan”, un campo di lavoro in cui morirono migliaia di deportati. “Morì un anno prima di essere liberato”. Maria Ivanovna aveva dieci anni quando suo padre, considerato un kulak, un contadino agiato, fu mandato ad Arcangelo, nel nord. Ma agli altri parenti non andò meglio. Quando nel 1941 arrivò l’acqua gli uomini partirono per la guerra e le donne restarono con i igli in case umide e fatte male. Stando al rapporto di un tenente dell’Nkvd, 294 abitanti di Mologa si riiutarono di partire e morirono annegati. Ma è una leggenda, perché l’acqua non arrivò di colpo, spiegano i più anziani. Anche se quello sradicamento continua a ossessionare i ricordi a più di sessant’anni di distanza, la vicenda di Mologa è l’esempio del rapporto complicato che i russi hanno con la loro storia: nessuno dei sopravvissuti ha mai criticato il regime che li ha rovinati. “La maggior parte di loro considera la perdita della loro terra un sacriicio necessario per salvare il paese, fornire energia a Mosca e vincere la seconda guerra mondiale”, ammette Anatolij Klopov, responsabile del museo di Mologa, fondato da Nikolaj Alekseev, un vecchio abitante di Mologa, usando archivi privati. Per alcuni sommergere la città fu forse un male necessario, perché il Volga era anche il mezzo di trasporto più usato all’epoca, e a volte d’estate la portata del iume non consentiva la navigazione. Il passato resta comunque un buco nero. “Fu stabilito che tutto quello che era esistito prima della rivoluzione del 1917 era cattivo, oggi si tende a dire che tutto quello che è successo ino al 1991 fu un male. Siamo l’unico paese al mondo a riiutare la nostra storia, perché è molto dolorosa”, commenta Novotelnov. Il presente non è più semplice: “Non mi stupisco più di niente. Non sappiamo nemmeno produrre il cibo che ci serve, e rifiutiamo i prodotti stranieri”, prosegue Novotelnov. Maria Ivanovna e sua iglia di 62 anni cercano di aggrapparsi a un periodo storico. “L’epoca in cui governò Brežnev fu la migliore. Lo stato si occupava di tutto: sanità, scuola, casa e colonie estive. L’unico problema erano i negozi, dove l’oferta non era molta”, dice la iglia. La maggior parte delle persone considera il crollo dell’Unione Sovietica il periodo peggiore: “Non ci vergogniamo di Putin, ma ci siamo vergognati di Eltsin”, conclude. Kovalkov, che all’epoca della costruzione del bacino era troppo giovane per ricordarsene, non si separa mai dai suoi libri, che parlano spesso di città inondate o di acqua. Uno è il racconto postumo di un anziano, Gennadij Kersakov, che descrive la sparizione di Mologa equiparandola a un “furto di stato”. “Oggi sarebbe stata deinita una catastrofe umanitaria”, scrive l’autore. Kovalkov, sull’orlo del pianto, ripete: “Chiedo scusa se ho detto qualcosa di negativo sul mio paese”. In Russia, il passato torna a galla ma si svela solo al prezzo di un grande dolore. u gim Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 75 Graphic journalism Cartoline dalle Lande di Guascogna 76 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 (1. Continua) Jean Harambat è nato nel 1976 nelle Lande di Guascogna, dove vive. Il suo ultimo libro è Ulysse, les chants du retour (Actes Sud 2014). Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 77 Cultura Cinema Joe Bullet Dr Dr La locandina di Joe Bullet Lo schema di Sollywood Gavin Haynes, The Guardian, Regno Unito In Sudafrica, negli anni ottanta, il governo inanziava ilm per il pubblico nero. Caduto l’apartheid, restano le pellicole l Durban international ilm festival del 2014, Tonie van der Merwe, con in mano il più afrikaaner dei cocktail, un doppio brandy con Coca-Cola, ha ricevuto il premio Simon Sabela per il suo contributo al cinema. “Senza voler essere razzisti, pensavo che un bianco non avrebbe vinto facilmente un premio, ma mi sbagliavo”, ha detto dal palco. Di sicuro sono pochi i bianchi nel nuovo Sudafrica a ricevere premi per film realizzati grazie al B-scheme, un programma istituito negli anni ottanta dal governo di A 78 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Pretoria per produrre pellicole indirizzate a un pubblico nero. Ora emerge il ruolo enorme, e ambiguo, che van der Merwe ha giocato nel cinema sudafricano durante l’apartheid, anni in cui l’esplosione del cinema nero creò il mito di Sollywood, la Hollywood sudafricana. Birra annacquata Per molti, i ilm realizzati grazie al B-scheme erano l’equivalente cinematograico della “birra nativa” annacquata che si vendeva negli spacci gestiti dal governo, un cinico diversivo sponsorizzato dallo stato per blandire la popolazione nera e farla restare all’interno delle riserve. Altri, invece, sottolineano quanto sia stata importante la figura di van der Merwe nella nascita dell’industria cinematografica nera e quanto quei ilm siano stati fonte d’ispirazione per un’intera generazione. A trent’anni van der Merwe sembrava soddisfatto di gestire la sua impresa edile di Johannesburg. Poi incontrò Louis ed Elmo de Witt, fratelli registi che lo spinsero verso il cinema. Con uno spirito da imprenditore più che da autore, aveva già iutato un’opportunità di guadagno osservando i suoi dipendenti che il sabato sera andavano in massa a guardare i ilm americani della blaxploitation, quel genere di ilm a basso costo nato negli anni settanta che aveva come riferimento il pubblico degli afroamericani. Blaxploitation nel paese dell’apartheid? Be’, perché no? “Avevo capito che era questo il mercato del futuro”, ricorda van der Merwe nel suo uicio alla periferia di Città del Capo. Oggi, a 74 anni, ha una rude cortesia afrikaaner di altri tempi. “Così ho inanziato tutto quanto”. Il risultato fu Joe Bullet: van der Merwe era il produttore, Louis de Witt il regista e il cast era formato solo da neri. Ken Gampu, che avrebbe in seguito avuto successo anche a Hollywood, recitava nel ruolo di Joe Bullet insieme alla cantante Abigail Kubeka. Il film ebbe un enorme successo a Soweto, ma solo per una settimana. Poi la censura decise che quel thriller ritraeva i neri in un modo troppo positivo. Il ilm fu proibito e per van der Merwe fu un disastro inanziario. Imperterrito, individuò un’altra opportunità e riuscì a convincere il governo a creare un programma di sussidi per girare DR Joe Bullet ilm con protagonisti neri: il B-scheme. Ma naturalmente queste pellicole dovevano piacere al governo di Pretoria. In tutto van der Merwe fu coinvolto in quattrocento di questi ilm. Al culmine della sua attività ne produceva uno al mese. E molti seguirono il suo esempio: “Se avevi diecimila rand a disposizione era il miglior investimento che potessi fare. Molti di questi ilm potevano rendere ino a 70mila rand”, ricorda Darryl Els, proprietario di una sala indipendente di Johannesburg. Van der Merwe scrisse anche molti copioni, storie leggere piene di avventura che non si addentravano mai nell’analisi delle misere condizioni socioeconomiche in cui viveva la popolazione nera. Van der Merwe dice di non aver mai appoggiato l’apartheid: “Ma non sono un radicale e non mi sono mai interessato alla politica”. “Il messaggio dei miei ilm era sempre ‘il crimine non paga’”, aferma Steve Hand, un contadino afrikaaner che cominciò a lavorare come traduttore dallo zulu per i ilm di van der Merwe e inì per girare dei B-scheme tutti suoi. Abigail Kubeka ricorda che sul set van der Merwe era “un gentiluomo”: “Non si dava assolutamente delle arie. Non c’era nessun apartheid mentre giravamo”. Eppure gli attori neri e le troupe in larga misura bianche dovevano spesso cenare e dormire in luoghi separati. Nel corso degli anni qualche copione sovversivo riuscì a sfuggire alla censura. Come My country my hat (1983) di David Bensusan, una critica alle norme sugli spostamenti che costringevano i sudafricani neri ad avere dei passaporti interni quando viaggiavano fuori dalla loro township o dalle loro regioni di origine. E pur non essendo un radicale, van der Merwe mise a segno almeno un primato storico producendo il primo ilm al mondo in lingua zulu – Ngomopho (Traccia nera) – anche se lui parlava quella lingua a malapena. Zulu western Nel 1986 realizzò quella che considera la sua opera più rainata, completamente in zulu: Umbango (La faida). “Fu un grande successo”, racconta Hand, che lo produsse. “Costruimmo un’intera città del west lungo il iume Mooi e importammo i costumi dagli Stati Uniti”. Ma la realizzazione era solo l’inizio. Poi bisognava mostrare il film. Hand aveva quattordici camion, ognuno dei quali trasportava due proiettori, che giravano il paese per proiettare gli ultimi B-scheme nelle zone rurali. “La maggior parte di quei posti non aveva l’elettricità, iguriamoci il cinema”, racconta van der Merwe. “Potevano radunarsi migliaia di persone, arrivavano da chilometri e chilometri di distanza”. Gli abitanti delle campagne sperdute del KwaZulu-Natal, un territorio che il governo assegnò ai neri, non avevano mai visto un ilm. “Una volta, mentre portava- mo in giro Joe Bullet, durante una scena su un iume, la gente si mise a guardare dietro lo schermo per vedere da dove arrivava l’acqua”, racconta Hand, che organizzò delle proiezioni perfino per il re zulu Goodwill Zwelithini. “Lo invitai alla prima e lui mi disse che era un ottimo lavoro”. Tuttavia, così come era nato, il B-scheme scomparve. Nel 1989 Pretoria eliminò il programma di sussidi. Nel giro di pochi mesi tutti dovettero trovarsi un lavoro vero, anche van der Merwe, che comprò due alberghi. Con il cambio di regime negli anni novanta, il bulldozer della storia cancellò rapidamente ogni traccia del B-scheme. Poi van der Merwe ha incontrato Benjamin Cowley, direttore della Gravel Road, casa di produzione di Città del Capo, che gli ha proposto di digitalizzare i ilm. Nel giro di un anno, hanno messo in piedi la Retro Afrika Bioscope e alla ine del 2014 Joe Bullet è uscito a Durban in una versione digitale restaurata. Da allora sei ilm sono passati in tv e molti altri sono stati restaurati dalla Gravel Road, compreso Treasure hunter, che parla di un giovane zulu che assiste a un naufragio, e Fishy stones, su due delinquenti dilettanti. Van der Merwe sta per girare il suo primo ilm dopo 25 anni, Rhino wars, sulla caccia di frodo. “Sono molto grato a Cowley, perché mi ha dato una seconda possibilità”, dice con entusiasmo. “Ho in testa un paio di altri ilm”. u nv Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 79 Cultura Cinema Italieni Dalla Polonia I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana il giornalista britannico Lee Marshall. Un sistema che funziona 80 Con il premio Oscar a Ida e l’Orso d’argento per la regia a Ciało il cinema polacco dimostra il suo ottimo stato di salute Da più di vent’anni il cinema polacco afondava in una crisi da cui non sembravano esserci vie d’uscita. L’Oscar come miglior ilm straniero a Ida di Pawel Pawlikowski (consacrazione deinitiva per un ilm che aveva già raccolto riconoscimenti in tutto il mondo) e l’Orso d’argento per la miglior regia a Malgorzata Szumowska (con il suo Ciało) sono la dimostrazione che la cinematograia polacca sta dando impor- Ciało tanti segnali di rinascita. Non si tratta solo di una convergenza favorevole. All’origine di questo rinascimento c’è il Polski Instytut Sztuki Filmowej (Pisf, l’istituto del cinema polacco), un’istituzione che può disporre di grandi fondi. Nato nel 2005 Pisf sostiene la cinematograia nazionale grazie a un sistema di inanziamento moderno che possa coinvolgere produzioni straniere, distribuzioni, enti locali e via dicendo. Al momento quello del Pisf è considerato uno dei migliori sistemi di inanziamento per il cinema in tutta Europa. Finora è riuscito a sostenere più di 130 opere prime e ad attirare alcune importanti coproduzioni internazionali. E il pubblico polacco gradisce visto che rispetto al 2 per cento di dieci anni fa i ilm nazionali nel 2014 hanno attirato il 27,5 per cento degli spettatori. Cahiers du Cinéma Massa critica Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo T Re H E gn D o AI U L n Y L E i to T EL Fr F EG an I G ci A R a R A O PH T C HE an G ad L a OB E T A Re H E N D gn G M o UA U A ni R D IL T t o IA Re H E N gn I o ND U n E L I i to P E N Fr BÉ D an R EN ci AT a T IO LO N St S at A iU N n GE L E i ti L E Fr M S T an O IM ci N a D E S E T St H E at N iU E n W T i t i YO St H E R at W K T iU A IM ni S H E ti I S N G T O N PO ST Short skin Di Duccio Chiarini. Italia 2014, 86’ ● ● ● ●● Ogni tanto un ilm sensibile, grazioso, umano, riesce a resistere a quella strana forza della gravità che da anni trascina la commedia all’italiana verso il basso. Short skin è l’ultimo della serie. Come altre di queste mosche bianche (mi viene in mente Non pensarci di Gianni Zanasi) è ambientato in provincia, in questo caso il litorale pisano. È in parte luogo di chiusura e repressione, ma in parte terra di paradossale libertà (il simbolo chiave qui sono i retoni, le palaitte dei pescatori nella zona di Marina di Pisa). Il ilm racconta la storia di Edo, un diciottenne un po’ sigato che sofre di imosi, cioè ha il prepuzio troppo stretto. Insieme ad altre scelte (come aprire il ilm con due chiappe in primo piano) questo problema anatomico potrebbe fornire lo spunto per una commedia grossolana o per una teenage comedy all’americana. Invece, è il punto di partenza di un ilm tenero, divertente e acuto su un’età in cui le ragazze sono ininitamente più sicure di sé (dopo noi maschi diventiamo più bravi a ingere), o sul fatto che sesso e sentimento spesso non combaciano. Bella la fotograia cristallina di Baris Ozbicer, che è turco. Insieme alla produzione dell’anglo-iraniano Babak Jalali e alla musica indie dei canadesi Woodpigeon, è la prova forse che i ilm sulla provincia italiana non devono essere per forza provinciali. Media CitizenfOur 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 BLaCk sea 11111 - 11111 CenerentOLa 11111 11111 11111 11111 - Chi è senza COLpa - 11111 11111 - 11111 - 11111 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 fOxCatCher 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 huManDrOiD 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 - 11111 11111 1cc11 intO the wOODs 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 thirD persOn 11111 - - 11111 11111 - 11111 - 11111 11111 11111 ViziO Di fOrMa 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 - 11111 11111 11111 wiLD 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 I consigli della redazione Mia madre Nanni Moretti (Italia, 86’) Citizenfour Laura Poitras (Stati Uniti, 114’) In uscita Samba Di Eric Toledano, Olivier Nakache. Con Omar Sy, Charlotte Gainsbourg. Francia 2014, 118’ ●●●●● Seguendo il percorso tracciato con il loro ilm precedente, Quasi amici, Eric Toledano e Olivier Nakache tornano a raccontare la Francia, stavolta attraverso un incontro amoroso. Samba (Omar Sy) è un senegalese che vive a Parigi da una decina d’anni barcamenandosi tra lavori precari sotto la costante minaccia dell’espulsione. Dopo un arresto conosce Alice (Charlotte Gainsbourg), una donna emotivamente in diicoltà che ha lasciato il lavoro per dedicarsi al volontariato. I due si avvicineranno, si aiuteranno e si ameranno seguendo un protocollo ecumenico molto caro ai due registi che consiste nello smussare in modo utopico le diferenze di classe e di origine. Anche se non si rinuncia ai cardini generali del feel good movie, la novità di Samba rispetto a Quasi amici è il modo quasi documentaristico con cui i due autori afrontano alcuni aspetti della storia. Hanno scelto di dare alla loro favola un impronta più realistica dove c’è spazio anche per sondare gli egoismi dei due protagonisti. Una scelta audace per un ilm di buoni sentimenti, che in parte paga. Romain Blondeau, Les Inrockuptibles Sarà il mio tipo? Di Lucas Belvaux. Con Emilie Dequenne, Loïc Corbery. Francia 2014, 151’ ●●●●● Per il suo primo importante ruolo sul grande schermo l’attore della Comedie française Loïc Corbery veste i panni di Sarà il mio tipo? Clément, un giovane professore parigino che ha pubblicato le sue teorie sull’amore con una prestigiosa casa editrice e che il sistema scolastico nazionale conina ad Arras. In provincia Clément incontra Jennifer, una bella parrucchiera interpretata da Emilie Dequenne. L’intellettuale e la parrucchiera, il primo adora Kant la seconda Jennifer Aniston. Forse si può provare a indovinare cosa succederà. Ma potrebbe diventare una commedia romantica solo se Belvaux decidesse di decretare una tregua nella lotta di classe. E Belvaux non è il tipo. Quindi il ilm prende la strada della rilessione su quello che succede quando una persona forte ne incontra una debole: Clément la asseconda, trova gli amici di Jennifer adorabili. Ma che succederà quando la presenterà ai suoi amici e colleghi? Lui che ha fatto della sua incapacità di amare un cavallo di battaglia? Belvaux ripete queste domande con un’insistenza crescente Samba trasformando il ilm in un thriller, o quasi. Ed Emilie Dequenne ci fa tremare tutti per Jennifer che afronta il più temibile degli avversari, quello che non sa nemmeno che vuol fare del male. Thomas Sotinel, Le Monde Squola di Babele Di Julie Bertuccelli. Francia 2013, 89’ ●●●●● Hanno tra gli undici e i 15 anni. I loro nomi – Youssef, Oksana, Yong, Felipe – testimoniano il lungo viaggio compiuto per arrivare in questa classe particolare di una scuola parigina dove impareranno il francese per poi accedere alla scuola “normale”. Julie Bertuccelli li ha ilmati per un anno intero, un anno passato in sospensione tra una vita e un’altra, tra un luogo e un altro. Lontanto dal bilancio educativo amaro di La classe di Laurent Cantet, questo luminoso documentario ci porta dentro un’altra aula che accoglie ragazzi di culture e paesi diversi che giorno dopo giorno diventano un gruppo compatto, una piccola repubblica della speranza. E Julie Bertuccelli riesce in un’impresa per niente facile: ofrire una vera e grande avventura in quel piccolo territorio dove la Francia è ancora un paese accogliente. Cécile Mury, Télérama The ighters Thomas Cailley (Francia, 100’) Avengers. Age of Ultron Di Joss Whedon. Con Robert Downey Jr, Scarlett Johansson. Stati Uniti 2015, 150’ ●●●●● A vedere quanti ilm di supereroi ci aspettano, solo quest’anno, vengono i brividi. Ma qual è il problema? È un genere, come l’horror o la commedia romantica. Se poi fossero tutti divertenti e folli come il nuovo capitolo degli Avengers… I vendicatori sono riuniti di nuovo sotto la guida umorale e talvolta ambigua di Tony Stark (Robert Downey Jr). Tempo fa li avevo paragonati ai Traveling Wilburys del supereroismo. Ora fanno pensare a una specie di G7 di salvatori del pianeta in cui ogni componente è pronto a trasformarsi in una sorta di Angela Merkel ma un po’ meno virile. Peter Bradshaw, The Guardian Adaline. L’eterna giovinezza Di Lee Toland Krieger. Con Blake Lively, Michiel Huisman. Stati Uniti 2015, 110’ ●●●●● Una premessa piuttosto interessante viene un po’ sprecata in Adaline. L’eterna giovinezza. Questo dramma sentimentale non esplora in modo soddisfacente le implicazioni romantiche e ilosoiche di una storia in cui una bella donna scopre di essere incapace di invecchiare. L’interpretazione di Black Lively nel ruolo di Adaline è enigmatica e coinvolgente, ma ha anche uno spessore molto sottile. E il regista Lee Toland Krieger tocca i tasti emotivi giusti, ma evita di prendersi rischi o di andare troppo a fondo nel maneggiare la lama a doppio taglio dell’eterna giovinezza. Tim Grierson, Screen International Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 81 Cultura Libri Dagli Stati Uniti I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana la giornalista israeliana Sivan Kotler. Da St. Malo a Parigi Gheula Canarutto Nemni (Non) si può avere tutto Mondadori, 259 pagine 17,90 euro ● ● ● ●● A partire dal titolo, il primo romanzo di Gheula Canarutto Nemni denuncia la sua complessa e delicata missione: riuscire a mantenere un equilibrio sano in un braccio di ferro tra il mondo e l’io. Un io che è donna, studentessa ed ebrea osservante di Milano. Disposta ad attraversare una strada tracciata da forze intergenerazionali, spesso universale. Il libro illustra il perenne dilemma del saper mantenere un equilibrio tra ambizioni professionali e personali anche nei giorni in cui non è facile riconoscere il conine che le separa. Canarutto, alla sua prima esperienza da scrittrice, dopo quella di docente universitaria alla Bocconi e madre di undici igli, vuole raccontare una storia, in parte autobiograica: afronta con coraggio e semplicità il materiale quotidiano che accomuna tantissime donne, ovunque siano, di qualsiasi religione, paese o città. Un percorso di scontro interiore, intimo e, anche per questo, comodo da leggere e confortante. E comunque inserito in una forte e presente cornice ebraica, capace di contenere allo stesso tempo obblighi, doveri e libertà. Una voce autentica, quasi candida, che si confronta con una realtà spesso incravattata e provoca le (in troppo) facili critiche, iglie di una forma mentis maschile della nostra società che nessuna quota rosa è in grado di scalire. 82 Anthony Doerr ha vinto il premio Pulitzer con il romanzo Tutta la luce che non vediamo Anthony Doerr stava mangiando un gelato a Parigi con suo iglio quando ha scoperto che il suo romanzo Tutta la luce che non vediamo (pubblicato in Italia da Rizzoli) aveva vinto il premio Pulitzer. Una coincidenza interessante visto che il libro è ambientato proprio in Francia, durante l’occupazione nazista, per la precisione a St. Malo, dove segue le vicende di una ragazza cieca e di un giovane soldato tedesco. Doerr ha battuto la concorrenza di scrittori pluripremiati come Richard Ford con Let me be Frank with you o la proliica Joyce Carol Oates. Nelle motivazioni la giuria parla di un ro- BERlINER VERlAG/ARChIV/DPA/CORBIS/CONTRASTO Italieni Parigi, giugno 1940 manzo “fantasioso e intricato” capace di esplorare “la natura umana e il contraddittorio potere della tecnologia”. Il libro è rimasto per quasi un anno nella classiica dei best seller del New York Times e secondo l’editore statunitense, Scribner, la sua difusione (compre- si gli ebook) supera il milione e mezzo di copie. Il premio per la saggistica l’ha vinto Elizabeth Kolbert con La sesta estinzione (pubblicato in Italia da Neri Pozza), mentre per la poesia è stato premiato Gregory Pardlo con il suo Digest. The Wall Street Journal Il libro Gofredo Foi Memorie del 25 aprile Claudio Pavone La mia resistenza Donzelli, 110 pagine, 16 euro Pavone è il maggior storico della resistenza italiana, autore del fondamentale Una guerra civile (Bollati Boringhieri 1991), ma ha sempre tenuto ben distinte storia e memoria e solo adesso, a 95 anni, ha voluto raccontare come lui ha vissuto il tempo che va dalla primavera del 1943 a quella del 1946. Da soldato in licenza a Roma per la morte del padre a reduce di incontri ed entusiasmi, sconforti e paure segnati Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 da un ossessivo rosario di morti, viaggia da Roma a Milano, tra lunghi periodi di detenzione nelle prigioni prima di Regina Coeli e poi di Castelfranco Emilia. “Nelle situazioni eccezionali può accadere, e allora accadde a molti, che sia straordinariamente rapido e chiaro il cammino che porta a maturare convinzioni e a prendere decisioni irrevocabili”, diventa impossibile non schierarsi, non scegliere da che parte stare e che fare, nel panorama politico della resistenza e del dopo- guerra ma soprattutto in rapporto al nemico, i nazisti e quei repubblichini nella cui rete molti sono initi. Pavone non tace i suoi dilemmi del tempo, tra cattolici e azionisti, socialisti e comunisti e altri ancora, perciò questa memoria è anche un documento utile a una storia politica e generazionale. Ma è soprattutto, senza sbavature e compiacenze, una cronaca degna degli antichi cronisti, un piccolo e appassionante gioiello letterario. Contro l’ignavia del presente. u I consigli della redazione Maylis de Kerangal Riparare i viventi (Feltrinelli) Il romanzo Maël Renouard La riforma dell’Opera di Pechino Nottetempo, 51 pagine, 7 euro ●●●●● La riforma dell’Opera di Pechino di Maël Renouard, un romanzo di neppure sessanta pagine, è il primo capitolo di un ciclo che ruota intorno ai rapporti tra il potere e la letteratura in diverse aree geograiche. In questo caso siamo in Cina. Il protagonista è un professore universitario, reclutato nel 1966 ai tempi della Rivoluzione culturale da uno dei membri della cosiddetta banda dei Quattro, Yao Wenyuan, un critico letterario che ha avuto una grandissima inluenza politica. Maël Renouard aveva avuto occasione di contattare Yao Wenyuan nel 1998, per via degli studi storici che stava svolgendo. “Il ruolo del letterato nella politica cinese mi aveva molto interessato”, spiega Renouard, che è uno studioso di ilosoia francese. “La storia che racconto si svolge all’epoca di Mao, ma non è questa la cosa più importante. Questo periodo, mi sembra, non è che un episodio nella storia della Cina, e lo stesso Mao si considerava come un altro imperatore, anche se l’aspetto marxista della sua politica era evidentemente di grande importanza”. Il protagonista di La riforma dell’Opera di Pechino, relegato nell’oscurità in seguito alla morte di Mao, si ripiega sul proprio passato. Il racconto abbraccia un arco di tempo molto lungo; cionono- LEA CRESPI (LUzPhOtO) Il potere e le lettere Maël Renouard stante riesce a essere preciso, scritto in uno stile ellittico, sottile, non sprovvisto di una certa poesia dell’indiferenza. Naturalmente il protagonista cerca di comprendere quel che è accaduto, ma il suo atteggiamento è più contemplativo che analitico. Osserva a posteriori gli imprevisti della fortuna, della politica e anche del cuore, senza acrimonia, con la speranza tuttavia che la ruota torni a girare, e che il suo lavoro sia inalmente riconosciuto. Quando lavorava per la commissione teatrale del gruppo centrale della Rivoluzione culturale, infatti, aveva scritto opere di un genere nuovo pensato appositamente per ediicare il popolo, opere scritte su commissione ovviamente, ma nelle quali aveva dispiegato tutto il suo talento. L’uomo politico sogna apertamente il potere. L’uomo di lettere sogna, segretamente, la gloria. Astrid De Larminat, Le Figaro Molly Antopol Luna di miele con nostalgia (Bollati Boringhieri) David Foenkinos Charlotte (Mondadori) Claire Messud La donna del martedì Bollati Boringhieri, 136 pagine, 14 euro ●●●●● La donna del martedì è la storia semplice di una donna ucraina di nome Maria Poniatowski. Comincia in Canada, con l’amicizia tra Maria e un’anziana donna cieca, la signora Ellington, prima di tornare alla nascita di Maria in Unione Sovietica tra le due guerre mondiali. Il villaggio in cui la sua famiglia ha vissuto da sempre è “ristrutturato” dai sovietici, che costruiscono una scuola dove Maria e le sue sorelle imparano a recitare versi e cantare canzoni per la gloria dell’Urss. Una nuova ristrutturazione avviene quando Maria ha quindici anni: arrivano i tedeschi e rastrellano chiunque abbia meno di trentacinque anni. Maria inisce in Germania, dove è costretta a lavorare dodici ore al giorno in una fabbrica di munizioni. Seguono pagine da batticuore sulla fuga di Maria verso nord, oltre il Reno, ino alla sicurezza relativa della campagna tedesca. Quando la guerra sta per inire, Maria si trova in un campo dei liberatori dove s’innamora di un uomo polacco e rimane incinta. La maggior parte del romanzo parla della sua successiva vita familiare in Canada, e del senso di estraniazione che prova per la perdita del marito, morto di cancro, e del iglio, portato via da una moglie arrogante: un’estraniazione più profonda di quella provata negli anni di prigionia. Il lettore impaziente farà meglio a evitare Claire Messud. Malgrado la sua capacità di racchiudere la Seconda guerra mondiale in una decina di pagine, il suo ritmo può essere lento e il suo linguaggio in troppo complesso. Ma è illumi- nante proprio laddove è più impenetrabile. Daren King, The Guardian Anne Tyler Una spola di ilo blu Guanda, 400 pagine, 18,50 euro ●●●●● Una spola di ilo blu è uno studio intelligente e appassionante sul ruolo della memoria nel creare e distruggere le storie che ci raccontiamo sull’amore. La storia vissuta, rivela il romanzo, è ben più complessa di quella che si tramanda nelle narrazioni familiari. Abby e Red Whitshank sono una coppia che sta invecchiando, e che si trova davanti a un dilemma comune. I due hanno trascorso tutta la loro vita coniugale nella casa che il padre di Red ha costruito; comprensibilmente, sono riluttanti ad abbandonare la propria indipendenza. Ma Red è quasi sordo e la sua salute si sta deteriorando. Abby scompare di continuo per compiere delle passeggiate nelle quali si sente disorientata e perduta. Stem, il iglio adottivo (e preferito) della coppia, sua moglie Nora e i loro bambini si trasferiscono da Abby e Red per prendersi cura di loro, dopo che gli assistenti sociali sono stati cacciati via uno dopo l’altro dalla casa senza troppe cerimonie. Questa situazione già tesa è complicata ulteriormente dal ritorno del libertino Denny, l’irresponsabile e misterioso igliol prodigo. Quando i quattro fratelli si ritrovano insieme, nascono risentimenti, vengono svelati segreti, e al centro del romanzo una strana tragedia capovolge completamente la trama. I lettori che si aspettavano un tranquillo romanzo “domestico” saranno spaventosamente sorpresi. Emily Rapp Black, The Boston Globe Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 83 Cultura Libri posta alla fede e alla speranza irrazionale. Perché il geniale Eden, come vuol far credere, ha un dono scientiicamente inspiegabile. È un musicista, e crede nel potere della musica non solo di padroneggiare le emozioni o le passioni, ma an che di ipnotizzare e perino di guarire. Quando arriva il mo mento di mettere alla prova le sue abilità soprannaturali nes suno si cura molto delle poten ziali conseguenze. Il romanzo di esordio di Wood, scritto con mano sicura e a volte inquie tante, stringe il lettore in una presa d’acciaio. Daniel Hahn, The Independent Ayelet Tsabari Il posto migliore del mondo Nuova Editrice Berti, 224 pagine, 18 euro ●●●●● Ambientato tra Israele e il Ca nada degli ultimi decenni, Il posto migliore del mondo si muove attraverso la vita quoti diana che fa da sfondo alla sto ria moderna: la guerra del Gol fo, la seconda intifada, l’occu pazione e il ritiro dalla peniso la del Sinai, le campagne a Ga za. Malgrado l’ambientazione molto precisa, ogni racconto ha un raggio di universalità e di umanità. Le due amiche adolescenti che passano un’estate di indipendenza a Ei lat potrebbero essere allo stes so modo ragazze del Texas ru rale. I padri assenti e severi, modellati da una vita tutta spe sa nell’esercito israeliano, si possono trovare tra i militari di professione di qualunque eser cito. Le famiglie yemenite sembrano uscite da un roman zo di Mario Puzo. L’alternarsi di egoismo e generosità dei vecchi fratelli, l’orgoglio dei nonni per i loro valori progres sisti, il senso di colpa per non riuscire ad amare qualcuno quanto merita: queste cose si sommano nella nostalgia la tente del “posto migliore del mondo”, qualunque esso sia. Nat Bernstein, Jewish Book Council Non iction Giuliano Milani Via dallo sviluppo William Easterly La tirannia degli esperti Laterza, 510 pagine, 28 euro A noi profani l’idea secondo cui la difusione dei diritti fa vorisce la crescita economica appare ovvia. Al contrario, dalla seconda guerra mondia le in poi, le politiche dello svi luppo si sono concentrate esclusivamente sull’aspetto economico, mettendo da par te i diritti umani. Più di recen te, poi, la crescita della Cina ha consolidato deinitivamen te la convinzione secondo cui un governo autoritario dotato 84 di un potere forte può applica re le ricette economiche in modo più eicace rispetto a un regime democratico in cui quelle politiche possono esse re messe in discussione. Per criticare questo ap proccio l’economista William Easterly ne ripercorre la sto ria, delineando i presupposti mentali su cui si fonda: consi derare gli stati come “tabule rase” senza dare alcun ruolo all’esperienza storica, proget tare, dall’esterno, compiti da far eseguire ai governi invece che incentivare la spontanea Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 ricerca di soluzioni locali e pri vilegiare gli interessi delle na zioni rispetto a quelli degli in dividui. Questi pregiudizi, tra l’altro, hanno conseguenze cruciali sulle politiche migra torie. I migranti, spiega Ea sterly, oggi considerati nel mi gliore dei casi come risorse sottratte a una nazione, do vrebbero essere visti come in dividui che esercitano la pro pria libertà e che, come mo stra la storia economica, con tribuiscono allo sviluppo, tan to dei paesi di provenienza quanto di quelli di arrivo. u Germania GALuSChKA (uLLSTEIN BILd/GETTy) Benjamin Wood Il caso Bellwether Ponte alle Grazie, 411 pagine, 16,80 euro ●●●●● Passando accanto alla cappella del King’s college, a Cam bridge, Oscar sente l’organo che suona per l’inizio della preghiera serale ed è spinto a entrare. Nella congregazione, la sua attenzione è catturata da una ragazza, Iris, e dopo il ser vizio i due cominciano a parla re. Nelle settimane che seguo no, mentre comincia a inna morarsi di lei, Oscar si ritrova in mezzo alla cerchia di amici della ragazza. Il loro centro di gravità è Eden Bellwether, il fratello carismatico, arrogante, persuasivo e pericoloso di Iris. Il loro gruppo è fatto di studen ti universitari, molto istruiti e abituati alla comodità e al lus so. Oscar lavora invece in una casa di riposo. Il grande con litto del romanzo, tuttavia, non riguarda la classe sociale e il privilegio, ma la ragione scettica e scientiica contrap Sibylle Berg Der Tag, als meine Frau einen Mann fand Carl Hanser Le disavventure di una coppia sposata, raccontate con umori smo: un triangolo che comin cia ai tropici e inisce al ritorno a casa, in Germania, quando la coppia torna d’amore e d’ac cordo. Sibylle Berg è nata a Weimar nel 1962. Tex Rubinowitz Irma Rowohlt Il protagonista rintraccia su Facebook una sua vecchia compagna di casa e di letto di trent’anni prima, Irma, e ri vanga negli anni passati. Tex Rubinowitz è nato ad hanover nel 1961. Dörte Hansen Altes Land Knaus In un’imponente e vecchia ca sa di Altes Land, regione della Germania settentrionale, si in trecciano le storie di due don ne: Vera che ci abita dal dopo guerra e Anne, sua nipote, che ci si trasferisce con il iglio pic colo. dörte hansen è nata a husum nel 1964. Rolf Bauerdick Pakete an Frau Blech Deutsche Verlags-Anstalt Ai funerali di Albert, il diretto re di circo che gli ha fatto da padre, Maik incontra i vecchi compagni. Rolf Bauerdick è nato nella Renania settentrio nale nel 1957. Maria Sepa usalibri.blogspot.com Ragazzi Ricevuti Mestieri senza limiti Andrea Segre FuoriRotta Marsilio, 216 pagine, 16,50 euro I diari scritti durante dieci anni di viaggi fuori rotta. Da Valona a Dakar, da Pristina ad Accra, da Sarajevo a Ouagadougou, per conoscere le storie e le origini dei migranti che arrivano in Europa. Liniers Il sabato è come un palloncino rosso La Nuova Frontiera Junior, 31 pagine, 15 euro Ricardo Liniers Siri, noto semplicemente come Liniers, è un nome importante in Argentina. È l’autore di Macanudo, una striscia molto amata, pubblicata da La Nación. Macanudo è stato deinito un’attualizzazione della Mafalda di Quino, ma è qualcosa di diverso, a tratti più surreale. Chi conosce la giovane Henrietta, l’orso Mandelbaum e il gatto Fellini sa che il mondo al contrario di Liniers è pieno di dolcezza. Questo sentimento domina anche Il sabato è come un palloncino rosso, che Liniers dedica alle sue bambine, Matilda e Clementina. Due sorelline devono afrontare una giornata di pioggia. Una se ne vorrebbe rimanere sotto le coperte, l’altra invece vuole avventurarsi dentro tutta quell’acqua. Ed ecco che in una girandola di emozioni si afacciano dentro queste vignette-mondo l’allegria, la curiosità, la delusione. Le due sorelle si sostengono e tra loro nasce un rapporto basato su una grande complicità. Il tratto un po’ iabesco di Liniers fa il resto. Le due sorelle sono così carine con quegli occhioni grandi e quei nasini un po’ tondi. Certo correre sotto la pioggia senza un ombrello ti fa rischiare un bello starnuto alla ine, ma quanto divertimento in mezzo. Liniers sembra dire ai più piccoli, ma anche agli adulti, non abbiate paura della vita, attraversatela sorridendo. Igiaba Scego Stefano Bartezzaghi M Einaudi, 282 pagine, 20 euro Tra arrivi e partenze, amicizie di una vita e incontri quotidiani, ricordi tenaci e attimi mancati, l’autore ci conduce in un insolito viaggio sentimentale nella sua città, Milano. Fumetti Amore ai margini Fred Bernard e François Roca Jésus Betz Logos, 32 pagine, 18 euro Fred Bernard è un autore francese da seguire ma ancora troppo poco conosciuto, di cui le edizioni Tunuè hanno pubblicato l’ottimo L’uomo bonsai, rivisitazione dell’immaginario del feuilleton tra ottocento e novecento crudele e ironica, ma tuttavia profonda, disegnata con uno stile apparentemente approssimativo, in realtà naif e impressionistico. Altrettanto ispirato nei libri illustrati, irma qui solo i testi coadiuvato dalle pitture coloratissime di François Roca, illustratore di scuola iperrealista. Approccio quindi opposto a quello scelto da Bernard in veste di autore di fumetti. Jésus Betz è un ragazzo senza gambe né braccia che, venduto dalla madre a scaltri personaggi, comincia una vita ai margini, tra i mari e i fenomeni da baraccone. Marginale tra i marginali (anche i trapezisti del circo lo maltrattano), questo busto di Gesù, nato proprio il 24 dicembre (ma del 1894), trova l’amore etereo quanto intenso nella stella dello show, l’angelica Kuma Satra, contorsionista volteggiante, muta dopo che “un mago le ha spezzato il cuore”. Il racconto è scandito da una numerazione dal sapore cristologico: 33 date corrispondenti in gran parte ad altrettante date storiche, dal primo volo dei fratelli Wright del 17 dicembre 1903 all’uscita nelle sale il 6 febbraio del 1921 di Il monello di Chaplin. È una parabola la cui poesia e ironia non vengono mai meno. Roca, con i suoi colori fuoriusciti da un tramonto perenne, riesce nella magia di unire, per esempio, Howard Pyle, il grande illustratore inglese (si veda la sua lettura di L’isola del tesoro di Stevenson), con Botero e la cartellonistica newyorchese d’epoca. Francesco Boille Wendy Doniger Gli indù Adelphi, 872 pagine, 65 euro Una visione eterodossa della civiltà indù che attinge alle opere della letteratura sanscrita, ai poemi epici, ai testi tantrici e alle tradizioni orali. Nick Turse Così era il Vietnam Piemme, 365 pagine, 18,50 euro In Vietnam tutto ruotava intorno al body count, la conta dei morti da parte dei soldati statunitensi. Francesco Trabucco Design Bollati Boringhieri, 139 pagine, 10 euro Il design attribuisce nuove qualità estetiche a oggetti materiali o digitali già esistenti, ne inventa di nuovi, allestisce nuovi scenari d’uso. Alessandro Pancotti Le iniziali LietoColle, 13 euro Una raccolta di poesie che costituiscono un viaggio alla ricerca dell’identità. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 85 Cultura Musica Dagli Stati Uniti Selah Sue Milano, 29 aprile, tunnel-milano.it Percy Sledge, 1940-2015 Sleaford Mods Bologna, 2 maggio, covoclub.it; Milano, 3 maggio, bikoclub.net; Roma, 4 maggio, initroma.com Il cantante di When a man loves a woman è morto a Baton Rouge, in Louisiana Beth Hart Milano, 28 aprile, alcatrazmilano.com Circa Waves Bologna, 30 aprile, covoclub.it Kenny Wayne Shepherd Mezzago (Mb), 26 aprile, bloomnet.org; Roma, 27 aprile, planetroma.com Ozric Tentacles Pordenone, 3 maggio, ildepositoconcerthall.com; Roma, 5 maggio, planetroma.com; Bologna, 6 maggio, locomotivclub.it Klingande Milano, 20 aprile, fabriquemilano.it Dee Dee Bridgewater Ravenna, 2 maggio, teatroalighieri.org Ryoji Ikeda Venezia, 4 maggio, spazioaereo.com Selah Sue 86 Quando era un ragazzo a Leighton, in Alabama, Percy Sledge cantava in chiesa tutte le domeniche, ma a casa ascoltava musica country con cantanti bianchi perché, come raccontava, “l’unica stazione radio che si sentiva faceva solo quella”. Sognava di diventare un giocatore di baseball, lavorava come infermiere o in un impianto chimico e cantava tra sé i successi di Jim Reeves, Hank Williams ed Elvis Presley. Poi aveva cominciato a esibirsi come cantante nel circuito Percy Sledge, 2007 soul del sud degli Stati Uniti, e siccome voleva fare un disco aveva scritto una canzone che parlava di un uomo lasciato dalla sua donna. Poi aveva cambiato le parole perché gli avevano detto che le canzoni d’amore vendevano di più. Era il 1966 ed era nata When a man loves a woman, che ha fatto ottenere a Sledge R. SInTE MAARTEnSDIJK (GETTy IMAGES) Dal vivo un contratto con la Atlantic e uno dei successi più longevi della storia del pop. Da lì in avanti ha avuto una carriera altalenante (la sua ultima hit è stata Take time to know her, nel 1968), ma ha continuato a esibirsi regolarmente in giro per il mondo, soprattutto in Europa e in Sudafrica, dove nel 1969 ha fatto un tour di enorme successo (“Suonavamo per i neri, i bianchi e gli indiani, venivano tutti”, raccontava). E When a man loves a woman è tornata regolarmente in classiica grazie a uno spot dei jeans Levi’s nel 1987 e molte colonne sonore. Adam Sweeting, The Guardian Playlist Pier Andrea Canei Electro Vecchioni Dan Solo Naftalina Il nick da guerriero stellare calza benissimo al bassista ex Marlene Kuntz, qui all’esordio solista, Classe A. Lui è classe ’68, torinese, e qui ci mette sonorità moderne e un modo di scrivere e cantare da classicone, con una erre gucciniana e testi un poco Stranamore. Vien da pensare al trailer del prossimo Star wars con Harrison Ford invecchiato, ancoraggio rassicurante per assimilare la modernità. Dan fa una cosa simile: si preoccupa di sonorità avanti, e dietro fa l’artigiano di una volta, racconti, sentimenti, cesello, cancellino. Cose fatte a modo, lavoro solido. 1 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Stearica Delta Altri tre torinesi portentosi, indignados strumentali, che pubblicano il nuovo album Fertile per un’etichetta inglese (la Monotreme), picchiano come fabbri psichedelici, sonorizzano Golem, intrallazzano con altre formazioni fanatiche (Girls Against Boys, Acid Mothers Temple, Coliseum) e fanno musica furibonda e inebriante. Se qualcuno facesse parkour tra le rovine di Kobane con la GoPro in testa, loro sarebbero la colonna sonora. Vanno sulla forza degli strumentali, e potrebbero dedicarsi a colonne sonore di technothriller seriali. 2 Nibiru Prj 22 Elektro punk E che ilm si fanno, questi giovani salernitani con nome impronunciabile, album (uscito da poco) Incompatibile, strumentazione elettronica, formazione jazz e attitudine da spugnette assorbisonorità globalizzate? In uno di questi ilm erano coinvolti ino al collo, favoreggiando il piano di arricchirsi a suon di pasticche da parte dei ricercatori-pusher di Smetto quando voglio. E ora che si misurano sulle lunghe distanze li scopriamo briosi nel giostrare elektro, punk, rock, dub, reggaeton, ambient in un amalgama pronto da spalmare sulle pareti di un club. 3 Blur The magic whip (Parlophone) ●●●●● Durante l’ultimo tour asiatico, i Blur si sono ritrovati in uno studio di Hong Kong per improvvisare e vedere cosa sarebbe successo. I primi risultati non sono stati promettenti, ma Graham Coxon e il produttore Stephen Street hanno trasformato queste jam in canzoni, poi sono arrivate le parole di Damon Albarn a concludere l’opera. Proprio i testi rilettono gli umori stanchi di un outsider immerso in un mondo strano. Il senso di lontananza e di deriva guidano tutto l’album. C’è un sostanziale strascico dal disco solista di Albarn, Everyday robots. Alla ine il nuovo lavoro della band può essere letto attraverso una lente sentimentale che mostra i piccoli disturbi dovuti dalla solitudine e alla nostalgia di casa, e li mette accanto alle preoccupazioni per la sovrappopolazione e la sostenibilità ambientale. The magic whip è una constatazione, dolce e triste, di quanto le nostre relazioni private si mescolino con la vita pubblica e la politica. Andy Gill, The Independent Calexico Edge of the sun (Anti-) ●●●●● Sembra che per fare il loro nono disco i Calexico avessero bisogno di cambiare aria, così sono andati da Tucson, in Arizona, a Città del Messico. Ne è valsa la pena? Diicile dirlo. Edge of the sun è un lavoro molto buono sotto ogni punto di vista, ma c’è qualcosa che lo rende prevedibile. Per questo afermare che l’album segna la Matteo Fossi e Marco Gaggini Bartók: complete music for two pianos (Brilliant) Calexico rinascita creativa della band mi pare una forzatura. Non fraintendetemi: i Calexico restano uno dei migliori gruppi statunitensi. La combinazione tra la voce calda di Joey Burns e i ritmi incalzanti di John Convertino rimane insuperata, ma quando si fa accompagnare da iati, tastiere e una serie ininita di amici (come Sam Beam, Ben Bridwell, Neko Case o Pieta Brown) la sua forza può annacquarsi, se non sprofondare. Quindi no, forse Edge of the sun non raggiungere le vette di capolavori come The black light e Feast of wire. Ma pazienza. Stuart Henderson, Exclaim Lightning Bolt Fantasy empire (Thrill Jockey) ●●●●● Ai tempi d’oro di Ride the skies e Wonderful rainbow, questo duo statunitense aveva tra i suoi ammiratori gente del calibro di Kieran Hebden, Thurston Moore e Mats Gustafsson. Poi Brian Chippendale (batteria) e Brian Turner (chitarra e basso) si erano dedicati ad altri interessi e i loro album successivi erano stati deludenti. Ora Fantasy empire restituisce ai due Brian il loro posto nella storia del rock. Il loro stile non ha subìto rivoluzioni: Chippendale continua a cantare attraverso uno strano apparecchio e ad agitarsi alla batteria con l’energia furiosa di un bambino, Turner sembra suo- nare tre chitarre contemporaneamente. Questa è l’opera più panoramica della loro discograia: si sente l’inluenza del crossover dei Suicidal Tendencies, del punk dei Black Flag, dell’hardcore californiano, del noise giapponese e degli Slayer. La tentazione della violenza sonora è moderata dalla gioia che pervade tutto il disco e dalla passione per il gioco e la decostruzione, che però non si spinge ino a distruggere le canzoni. La semplice genialità dei Lightning Bolt sta anche nel non dimenticare le cose che legano le persone alla musica, come il ritmo, la melodia e la celebrazione comunitaria dei suoni. José Marmeleira, Público Earl Sweatshirt I don’t like shit, I don’t go outside (Columbia) ●●●●● A volte nel caotico mondo del rap, in cui si pubblicano senza sosta album spesso insigniicanti, spicca una perla rara. È il NATALJA KENT Album Bertrand Cuiller Rameau: pièces pour clavecin (Mirare) GErALD vON FOrIS Classica Scelti da Alberto Notarbartolo Lightning Bolt Jean Martinon The complete Chicago symphony orchestra recordings (Sony Classical) caso dell’accattivante, brutalmente introspettivo terzo album di Earl Sweatshirt, novellino della west coast di appena 21 anni, opera che può essere deinita una pietra miliare dell’hip-hop quanto i recenti lavori di Drake e Kendrick Lamar. Dall’organo lounge intamente disinvolto di Huey al cupo pianoforte che infesta Of top, Thebe Neruda Kgositsile (come lo conosce sua madre) dimostra di possedere, come i migliori rapper della storia, il dono naturale di enfatizzare un ragionamento con dei punti esclamativi musicali. Ben Thompson, The Observer Built To Spill Untethered moon (Warner) ●●●●● Untethered moon è il primo album dei Built To Spill negli ultimi sei anni, e già il fatto che sia arrivato è una mezza sorpresa. Infatti dopo There is no enemy, il leader della band Doug Martsch aveva dichiarato di sentirsi “senza una direzione”. Se si ama la musica dei Built To Spill, Untethered moon farà provare a chi l’ascolta la stessa sensazione di conforto degli album precedenti. Martsch continua a mettere in piedi pezzi rock: basta ascoltare On the way, un pezzo insolito per Martsch, con le seconde voci femminili, la linea di basso in primo piano e un vago senso di minaccia. C’è anche un pezzo con inluenze dub, C.R.E.B., ma Martsch dice da una decina d’anni di voler pubblicare un disco reggae. In ogni album dei Built To Spill ci sono almeno quattro o cinque perle, abbastanza perché Martsch continui a deliziarci ancora con la sua presenza dimessa e imperscrutabile. Jayson Greene, Pitchfork Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 87 Cultura Video In rete Clouds over Sidra Storie di famiglia Venerdì 24 aprile, ore 21.15 Rai5 Partendo dall’autobiograia dal padre e interrogando parenti e conoscenti, l’attrice e regista canadese Sarah Polley dedica un commovente ilm al ricordo della madre, anche lei attrice, morta per una grave malattia nel 1990. La memoria degli ultimi Sabato 25 aprile, ore 20.00 Laefe Il ilm di Samuele Rossi è un viaggio isico e simbolico nei ricordi della resistenza attraverso gli sguardi di sette partigiani, che il regista accompagna nei rifugi e nei luoghi dove hanno combattuto. Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana Sabato 25 aprile, ore 21.00 History Oltre alle paludi Mussolini voleva boniicare anche l’italiano. L’obiettivo era cambiare atteggiamento e comportamenti dei cittadini a partire dal modo di scrivere e parlare, in ogni ambito: dalla scuola, al lavoro al tempo libero. Treni e stazioni Lunedì 27 aprile, ore 23.00 Rai Storia Reportage su spazi di transito e non luoghi italiani: dai casi negativi dell’Air terminal Ostiense e della stazione di Vigna Clara, a Roma, al recupero delle carrozze delle Ferrovie del Sud Est in Puglia. Togliattigrad Venerdì 1 maggio, ore 21.30 Rai Storia La città industriale sovietica resta simbolo dell’incontro tra due visioni opposte del mondo: da una parte quella della Fiat di Torino, dall’altra quella dell’Unione Sovietica. 88 Dvd Reportage lirico Era diicile immaginare come lo stile lirico e i tempi dilatati del cinema di Serhij Loznycja potessero adattarsi al racconto di un evento concitato e violento come la rivolta contro il presidente Janukovič, che sconvolse Kiev nell’inverno 2013. Invece è proprio grazie all’unicità del suo sguardo, nell’impressionante Maidan presentato a Cannes nel 2014 e ora in dvd nel Regno Unito, che il regista ucraino è riuscito a rendere conto dell’ineluttabile sviluppo dalle prime proteste paciiche alle barricate e gli scontri. Loznycja celebra l’incedere della storia e ritrae una nazione nel momento della riscoperta della sua identità. loznitsa.com/movies/maidan vrse.works/clouds-over-sidra Recuperando il principio della stereoscopia, l’applicazione Vrse permette di trasformare uno smartphone in uno strumento di visualizzazione immersiva. Basta inserirlo in seplici visori di cartoncino come Cardboard di Google. Questo progetto è promosso dalle Nazioni Unite in collaborazione con Samsung, e il risultato è un ilm virtuale girato dal punto di vista di una bambina di 12 anni del campo profughi di Za’atari in Giordania, dove vivono 84mila rifugiati siriani. Secondo l’Onu strumenti come questo possono aiutare a condividere le esperienze di chi si trova in situazioni umanitarie critiche. Un buon esempio di quello che la tecnologia potrebbe fare al servizio dei diritti umani. Fotograia Christian Caujolle Uno sguardo attento Al ritmo di due numeri all’anno (15 euro ognuno) la rivista The Eyes sta trovando la sua velocità di crociera. Questa pubblicazione bilingue (in inglese e francese) molto curata, che si è deinita in dall’inizio uno sguardo sulla fotograia europea, si sta concentrando numero dopo numero sulle città del vecchio continente. Il punto di vista è quello della loro rilevanza attuale per la fotograia. L’ultimo numero è dedicato a Madrid, di cui The Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Eyes dimostra di essere una vera guida, molto ben fatta e, cosa che non guasta, bella e selettiva. L’omaggio all’immenso Alberto García-Alix era probabilmente necessario, e si lascia apprezzare il tufo nella nuova scena spagnola, a prescindere dal fatto che sia una delle più attive e interessanti del momento. La scelta dei luoghi è severa, precisa e anche molto utile. Infatti le informazioni pratiche, come una selezione di libri consigliati per accompagnare la visita e i classici da rivista specializzata, una volta tanto, sono molto ben integrate agli argomenti trattati. E se si sente la mancanza di una dimensione internazionale, per stavolta non sarà un problema. A tutto questo poi si aggiunge anche un’intervista ad Alec Soth e un lavoro in 3d sulla Corea del Nord. The Eyes ha trovato il suo posto nel mondo. Senza fretta. u Cultura Arte Corinne May Botz, Kitchen (Room from afar) PEr GENtILE CoNCESSIoNE DI CorINNE MAY Botz E BENrUBI GALLErY Capolavori in 3d Hoy toca el Prado, Madrid, ino al 28 giugno Di solito i guardiani del Prado si assicurano che i visitatori non si avvicinino troppo ai capolavori del celebre museo di Madrid. Invece qualche settimana fa José Pedro González ha potuto scorrere le dita su uno dei più famosi dipinti di El Greco, il Nobile con la mano sul petto. Ha fatto avanti e indietro sugli occhi del nobiluomo e ha stroinato bene la barba ino a raggiungere la mano seguendo i bordi di ogni campitura. Si trattava naturalmente di una copia tridimensionale. Così il signor González, 56 anni, cieco dall’età di 14, ha sperimentato la pittura in prima persona e ha sentito i dettagli del quadro scorrere sotto i polpastrelli. Hoy toca el Prado è un progetto che consente ai ciechi di creare l’immagine mentale di un dipinto attraverso il tatto. Il percorso, allestito in una sala laterale del museo, comprende cinque copie in 3d di opere famose del Prado, insieme alla Gioconda di Leonardo Da Vinci del Louvre. La mostra è uno dei più avanzati tentativi di mettere la bellezza delle arti visive a disposizione di chi non vede. Il Metropolitan di New York e la National gallery di Londra organizzano laboratori per non vedenti, il Louvre ha una galleria tattile con copie di sculture, gli Uizi nel 2011 hanno realizzato una copia in 3d della Nascita di Venere di Botticelli. Il Museo nacional de San Carlos, a Città del Messico, è stato tra i pionieri in questo campo. La novità del Prado è di aver mantenuto inalterato il colore degli originali, perché spesso i non vedenti possono percepire alcuni colori. The New York Times Londra Anatomia del crimine Forensics. The anatomy of crime Wellcome Collection, Londra e Whitworth gallery, ino al 21 giugno Marat giace nella vasca da bagno, nel capolavoro di Jacques-Louis David. Una coltellata sotto la clavicola, il sangue nell’acqua e in mano la falsa lettera di Charlotte Corday. La morte di Marat è il corpo del reato, la perfetta rappresentazione della scena del crimine. La mostra della Wellcome dimostra come artisti e investigatori forensi abbiano l’interesse comune di visualiz- zare la scena del delitto. La mostra, che unisce arte, oggetti storici e prove, si apre con la vivida dimostrazione di questo tema. Il corpo di una povera anima in-de-siécle giace a terra in un bar parigino. Da un primo punto di vista fotograico, la donna sembra che sia caduta fracassandosi la testa. Ma l’invenzione di un treppiede allungabile permette una visione aerea che mostra l’anomala posizione delle gambe, dalla quale si deduce che il corpo è stato trascinato o sbattuto contro il muro. Un architetto di Londra disegna dettagli dei vicoli dove Jack lo squartatore uccideva le sue vittime. Un ritrattista produce nitidissimi volti di criminali. Un detective francese dopo ogni omicidio dipinge deliziosi acquerelli di chiazze di sangue. Prima dell’avvento delle impronte digitali, Alphonse Bertillon inventa la foto segnaletica. Ma la vera rarità di questa mostra è uno dei modelli macabri di Frances Glessner Lee che rivoluziona il metodo investigativo ricostruendo scene di crimini irrisolti in case di bambole. The Guardian Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 89 Pop L’indecifrabile Günter Grass Ariel Dorfman utti i commenti che ho letto sulla morte me incisioni che aveva realizzato proprio quella di Günter Grass ne riconoscono la mattina. grandezza di scrittore e poi, quasi imQuando inalmente il suo sguardo si alzò e incrociò mediatamente, ricordano ai lettori la il mio, notai che gli scintillava una strana rabbia negli sua iscrizione giovanile alle Wafen-Ss occhi. Poi disse: “Perché i compagni socialisti cileni e il fatto che per decenni la tenne se- non hanno partecipato alla conferenza che i patrioti greta, mentre si afermava come coscienza morale del cechi hanno fatto quest’estate in Francia?”. suo paese, per non dire del mondo. Spiegai che, per quanta simpatia molti democratici Ma abbiamo veramente capito che rapporto c’è tra cileni nutrissero per la primavera di Praga e la lotta dei il magnifico talento dello scrittore e le sue lacune dissidenti cechi, ostentare una posizione del genere in etiche? pubblico era politicamente sconsigliabile. Avrebbe Potrà forse servire a far luce sulla signiicato rompere con i comunisti cilequestione, anche se probabilmente non Era il 1975 e con mia ni, che in quel momento erano una comdarà una vera risposta, il mio primo, fu- moglie eravamo ponente vitale – la spina dorsale, si poandati a fargli visita. trebbe dire – della resistenza alla dittarioso incontro con Grass. Era il marzo del 1975 e con mia mo- Viveva in una casa tura, così come erano stati alleati leali glie Angélica eravamo andati a fargli vi- rurale sulla riva di e decisivi del governo di Salvador Allensita a casa sua, vicino ad Amburgo. Era un iume dalle de, rovesciato dal colpo di stato del 1973. una spaziosa casa rurale sulla riva di un acque di gran lunga Aggiunsi che Allende aveva condannato fiume dalle acque di gran lunga più l’invasione sovietica della Ceco più placide di quel placide di quel nostro travagliato colslovacchia. nostro travagliato loquio. Ma quel mio chiarimento non amAll’inizio andò tutto incredibilmente colloquio mansì Grass. Per lui l’intervento sovietibene. Ci aveva accompagnati il nostro co in quel paese era stato il frutto del amico Freimut Duve, grande giornalista, paladino dei medesimo impulso imperialista che aveva animato gli diritti umani e parlamentare socialdemocratico. statunitensi in Cile: era essenziale denunciare entramMentre Grass cucinava una succulenta zuppa di pe- be le superpotenze e cercare modelli economici e sosce (avevo già sentito parlare della sua leggendaria ciali alternativi, partecipando attivamente alla difesa abilità culinaria), conversavamo in inglese sulla del socialismo democratico. sua opera e sull’enorme inluenza che la sua trilogia Quando risposi che per liberarci di Pinochet non di Danzica aveva avuto sul mio stesso lavoro di nar- potevamo compromettere l’appoggio assicurato ratore. dall’Unione Sovietica e dai suoi alleati, l’autore del Poco alla volta, introdussi nella conversazione il Tamburo di latta non volle più rivolgermi neanche una motivo principale – meno letterario – che mi aveva parola. Per fortuna era rimasto afascinato dalla mia spinto a chiedere quell’incontro. Speravo infatti di splendida moglie e trascorse il resto della nostra visita convincere Grass a dare la sua irma a sostegno di una a conversare amichevolmente con lei. In seguito feci campagna per la difesa della cultura cilena e contro la notare al nostro amico Freimut che probabilmente, se dittatura del generale Augusto Pinochet. L’iniziativa non fosse stato per la magia e il fascino di Angélica, mi aveva già ottenuto il sostegno entusiasta del suo con- avrebbe cacciato di casa o mi avrebbe aizzato contro il nazionale Heinrich Böll e di altri grandi scrittori, come suo cane. Gabriel García Márquez e Julio Cortázar. Visto che In ogni caso, proprio al termine della nostra visita, Günter sosteneva posizioni politiche di sinistra, im- Grass mi accordò qualche parola di congedo: “Quando maginavo che non sarebbe stato diicile. una cosa è moralmente giusta”, disse, “dobbiamo diInvece, quando ebbi terminato la mia spiegazione, fenderla senza riguardi per le conseguenze politiche o Grass restò in silenzio, cosa per lui inconsueta. Poi mi- personali che potrà comportare”. se il coperchio sulla casseruola, lasciando nella stufa a A quarant’anni di distanza, continuo a ripensare a legna qualche tizzone acceso perché la bouillabaisse quelle parole. Sarebbe facile rivolgerle alle sue spoglie, potesse bollire con tutta la calma che meritava, e sen- chiedere a quell’uomo che aveva preteso rettitudine za aggiungere una parola si mise a studiare le bellissi- da me che diritto avesse di insegnare al prossimo il va- T ARIEL DORFMAN è uno scrittore argentino-cileno. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Memorie del deserto. Viaggio attraverso il Cile del nord (Einaudi 2005). Questo articolo è uscito su The Nation con il titolo Remembering Günter Grass. 90 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 ALE&ALE Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 91 Pop VLADIMIR SOROKIN è uno scrittore russo. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La giornata di un opricnik (Atmosphere Libri 2014). Questo articolo è uscito con il titolo Putinskaja mašina vremeni dymitsja. Storie vere Gaioz Nigalidze, grande maestro di scacchi georgiano, è stato squaliicato da un torneo a Dubai dopo che un avversario si è lamentato perché continuava ad andare sempre nello stesso bagno prima di muovere. Gli arbitri hanno trovato nel gabinetto uno smartphone con un’app per il gioco degli scacchi aperta su un’analisi della partita che Nigalidze stava facendo in quel momento. Secondo Nigel Short, gran maestro britannico, “anche il mio cane o mia nonna potrebbero vincere un torneo se usassero uno di quei software”. 92 lore dell’onestà nascondendo il suo passato nazista. Sarebbe facile pronunciare contro di lui un atto di accusa, come oggi sembrano fare in tanti mentre commemorano il vincitore del premio Nobel appena scomparso e si pongono domande sul suo conto. Allora mi sia consentito difendere Günter Grass. Io non credo che i suoi giudizi morali o politici siano indeboliti dall’aver nascosto la sua adesione alle Ss hitleriane. Aveva ragione sulla Germania e sull’amnesia nazionale che la corrose. Aveva ragione a difendere i movimenti di liberazione del terzo mondo. Aveva ragione sul fatto che bisognava ricordare anche le vittime tedesche dei bombardamenti a tappeto efettuati dagli alleati durante la seconda guerra mondiale. E aveva ragione nel caso particolare che provocò un esito tanto infelice di quel nostro primo incontro. Glielo dissi anni dopo, quando ci incontrammo di nuovo all’Aja, dove partecipavamo a un incontro letterario, e gliel’ho ripetuto in diverse altre occasioni successive: i socialisti cileni avrebbero dovuto, come feci io poco dopo, far propria la causa dei dissidenti dei paesi comunisti. Avremmo dovuto farlo con coraggio e integrità e io, come scrittore, avevo il dovere aggiuntivo di prendere posizione a favore della libertà d’espressione ovunque venisse attaccata. Grass ha avuto ragione, eppure, a tanti anni di distanza, mi torna di continuo un interrogativo: perché reagire con tanta furia a quella che, in in dei conti, era una legittima diferenza di opinione? Perché non mostrarsi tollerante verso un compagno di strada sul cammino verso un mondo migliore? La rigidità delle sue prese di posizione categoriche non contraddiceva forse la splendida ambiguità dei suoi personaggi e la promiscua ricchezza della sua prosa? Günter non è più qui per rispondermi. Eppure forse era proprio quel giovane nazista, quel suo colpevole alter ego adolescente, a imporre alla sua incarnazione adulta di prendere solo posizioni trasparenti, deinitive, aliene da qualsiasi compromesso etico. Non si potrebbe spiegare così quella sua rabbia, quella sua efervescenza, quella sua certezza? Non era forse un segno di espiazione? Comunque sia, dobbiamo fare attenzione. Se dall’opera letteraria di un simile gigante possiamo imparare qualcosa, è che siamo esseri umani complessi, paradossali e spesso indecifrabili. Forse non sarebbe giusto ridurre l’intera opera di uno scrittore così magniicamente molteplice ai messaggi che pure gli sono stati indubbiamente sussurrati per tutta la vita da quel Grass più giovane, morto anche lui al buio, insieme al più vecchio. Io penso che ino alla ine Günter Grass non sia mai riuscito a perdonare quella zona oscura e maligna del suo passato. Tutto ciò che posso fare oggi è rimpiangere di non averne mai parlato a lungo con lui né allora né in seguito, quando ci riavvicinammo. Posso solo celebrare quel nostro incontro presso il placido iume, che getta un po’ di luce sulla vita e sull’opera di uno scrittore che non inirò mai di leggere e non ho mai inito di ammirare. u ma Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 La macchina del tempo di Putin Vladimir Sorokin l grande scrittore di fantascienza britannico H.G. Wells, che in un suo romanzo descrisse con precisione il viaggio di un uomo nel tempo, nella sua opera trascurò una sola cosa importante: gli efetti che una straordinaria avventura di questo tipo può avere sulla psiche del viaggiatore. Com’è noto, l’uomo esiste nel tempo. “Provate a strapparmi a quest’epoca! Vi garantisco che mi si torcerà il collo”, scrisse durante gli anni di Stalin il poeta Osip Mandelštam. Purtroppo, alla ine, la macchina spietata del gulag riuscì davvero a strapparlo alla sua epoca. Il romanzo di Wells ha dato vita a un intero genere letterario, quello cronofantastico, ma nella maggior parte dei libri e dei ilm che ne fanno parte il tema della psiche di chi viaggia lungo il iume del tempo rimane in secondo piano. Di norma l’eroe torna alla sua epoca felice e pieno di vivide impressioni. Le coordinate di un ipotetico viaggio nel futuro sono nella loro essenza più o meno chiare, mentre quelle di uno spostamento nel passato a quanto pare mettono in profondo imbarazzo gli studiosi. I teorici continuano a fare conferenze per discutere approfonditamente il tema senza nemmeno sospettare che un’enorme macchina del tempo è già stata costruita ed è partita felicemente verso il passato. E la cosa più fantastica è che questo viaggio è stato intrapreso non da un eroe solitario simile a quello di Wells, ma da un intero paese, cioè dai 140 milioni di cittadini della Federazione russa. Si tratta di un audace esperimento che poteva essere intrapreso solo dai più entusiasti di tutti all’idea di un viaggio nel passato. E i russi sono davvero un popolo di entusiasti, basti pensare al ventesimo secolo e al suo progetto comunista. Probabilmente non è un caso nemmeno che il primo uomo nello spazio sia stato un russo. Ma chi ha costruito e messo in moto la macchina del tempo? Un uomo dalle qualità tutto sommato mediocri, un ex collaboratore del Kgb che non si è fatto certo notare nel corso della sua carriera all’interno di questa organizzazione, ma che in compenso, dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica, è diventato un funzionario statale di un certo successo, che si è mosso passo dopo passo verso l’alto e alla ine, del tutto inaspettatamente, è stato collocato da un Boris Eltsin ormai malato al vertice della piramide del potere russo, allo scopo principale di garantire la sicurezza della sua famiglia. Chi arriva al culmine di questa antica piramide, creata ai tempi di Ivan il terribile, si accorge di avere qualità di cui in precedenza non avrebbe mai sospettato. È come in una iaba: un uomo del tutto normale si inila al dito l’anello del potere e diventa Sauron. E in una persona di medie capacità all’improvviso si risve- I GIAcoMo BAGnARA glia un amore così bestiale per il potere, un desiderio così acceso di fare tutto il possibile ainché l’anello magico rimanga per sempre al suo dito, che al compagno Stalin nella sua tomba scappa ancora oggi un sorriso di approvazione. Anche lui adorava il potere e lo teneva stretto a sé con l’aiuto di una formula eicace: incessante terrore di massa contro la popolazione + mito del futuro radioso + cortina di ferro. Ma come si fa a rimanere al vertice della piramide meravigliosa nel ventunesimo secolo, il secolo di internet, della democrazia, dei conini aperti e delle alte tecnologie? Il cervello del nuovo governante della Russia ha inventato una sua formula magica: la macchina del tempo. È davvero fantastica! A partire dal primo giorno in cui si è trovato alla guida del paese ha cominciato a costruirla con la pazienza di una formica, pezzo dopo pezzo. Quest’uomo dall’aspetto modesto e poco appariscente ha dato prova di una grande ostinazione. Quando alla ine la macchina del tempo è stata pronta lui, con la mano sudata per l’emozione, ha tirato la leva. E l’enorme paese ha cominciato a navigare in un passato che i milioni di pensionati russi sognavano da tempo quando si addormentavano nei loro letti. Il bianco splendore dell’impero sovietico! Un sogno che non dava tregua non solo ai pensionati, ma anche ai neoimperialisti postsovietici, ai nazionalbolscevichi e ai neomonarchici, i quali ritenevano che Stalin non fosse altro che “uno zar russo come tutti gli altri, solo un po’ più spietato”. Proprio la nostalgia per il passato sovietico è diventata il principale carburante della macchina costruita da Putin. Una nostalgia che negli anni novanta non tutti avevano buttato nella spazzatura. Alcuni suoi preziosi frammenti erano stati conservati gelosamente nei bauli dei nonni e nei cassettoni delle nonne. E afinché la popolazione li gettasse nella caldaia della macchina del tempo per consentirle di funzionare era necessario creare un’altra macchina, quella della propaganda. La benzina di questa macchina è stata la televisione. Tutto è cominciato con i remake dei ilm e delle canzoni dell’era sovietica, che hanno cominciato a risuonare sempre più spesso in versioni pop per i giovani, con i talk show in cui stalinisti dai capelli grigi raccontavano ai più giovani di quanto l’Unione Sovietica fosse potente e di come l’occidente la temesse e la rispettasse, tacendo allo stesso tempo sui gulag e le repressioni di massa. nel frattempo venivano chiusi i programmi più liberi, si mettevano a tacere interi canali televisivi e si raforzava il controllo su tutti i mezzi d’informazione. Il viaggio indietro nel passato è cominciato così, e il paese si è ritrovato nella tarda era di Brežnev: è emerso un sistema monopartitico, i politici dell’opposizione si sono trasformati in dissidenti, l’antiamericanismo è diventato un luogo comune. Dopo cinque anni tutto ha cominciato a puzzare di stalinismo: le elezioni sono diventate deinitivamente una farsa, i politici dissidenti si sono ritrovati sotto processo o sono stati costretti a emigrare, i tribunali e il parlamento sono diventati strumenti di Putin. Sulle ali del successo, quest’ultimo ha cominciato a premere sempre di più sull’acceleratore della sua macchina del tempo: indietro, indietro, sempre più veloce! Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 93 Pop Ed ecco che alla retorica sovietica ha cominciato a sostituirsi quella imperiale, e la massima dello zar conservatore Alessandro III secondo cui “la Russia ha solo due alleati, la propria lotta e il proprio esercito” è diventata il programma dello stato. Nei talk show si è cominciato a parlare dello “speciale modello russo”, della nostra eccezionale spiritualità che ha salvato la Russia dalle grinie di un occidente marcio, mentre la chiesa si è fusa sempre di più con lo stato e i generali dei servizi segreti hanno preso a urlare con foga dagli schermi televisivi. “La Russia è sempre stata, è e rimarrà imperiale!”, gridano i giovani scrittori e i politologi. Ma un impero ha bisogno di vittorie militari, di nuovi spazi sottratti al nemico. Ed ecco che la vittoria alla ine è arrivata: “La Crimea è nostra!”. Il televisore si surriscalda di urla di vittoria, la macchina del tempo vibra sempre più. Bisognerebbe frenare un po’ e rilettere. Ma ecco che nel viaggiatore nel tempo si veriica quell’annebbiamento della coscienza del quale ha taciuto Wells e le labbra dei nostri uomini di stato si sono aperte: “Lanciare le divisioni corazzate verso Kiev!”, “Usare le bombe atomiche contro gli ucrofascisti!”, “La Russia ha bisogno di un imperatore!”, “Impedire alla popolazione di possedere dollari!”, “Reintrodurre la pena di morte per punire i pedoili, i pervertiti e i nemici della Russia!”, “Lo studio delle lingue straniere a scuola è una minaccia per le tradizioni russe!”, “Introdurre i visti di uscita!”, “Distruggere la quinta colonna!”. Angela Merkel (e non solo lei) ha osservato che “Putin vive in una realtà a parte”. Eh, sì! Questa realtà lo agita e lo inebria, i piedi premono scatenati sull’acceleratore, i meccanismi della macchina si arroventano. C’è bisogno di altro carburante, la nostalgia ormai non basta, la propaganda delle idee imperiali non è più suiciente, c’è bisogno di una vera guerra, di sangue autentico, il sangue di eroi caduti per il Donbass, per la Novorossija, per l’idea russa, c’è bisogno di una guerra con l’occidente ino a un esito vittorioso! A Minsk è riuscito ad avere la meglio sugli smidollati politici europei. Ora avanti verso nuove battaglie e nuove vittorie! Ci sarà una nuova Stalingrado dalle parti di Charkov, ci sarà una vittoria e Charkov, distrutta e soggiogata, sarà rinominata Putingrado, il vincitore ci entrerà su di un cavallo bianco impugnando la spada di Aleksandr Nevskij e indossando una divisa bianca, anzi no, un kimono da judo, oppure no, ancora meglio, nudo ino alla cintura, come un nuovo Conan il barbaro, anche se lui non è un barbaro ma è il vincitore, il protettore del mondo russo , e ci sarà una parata della vittoria, alla quale farà seguito l’incoronazione del nuovo imperatore della nuova Russia. La macchina del tempo si è però rivelata un giocattolo molto costoso. Il rublo crolla, l’economia comincia a declinare sotto il peso delle sanzioni, la gente perde i risparmi. L’aggressiva isteria televisiva contro i “traditori della nazione” e la “quinta colonna” ha già dato i suoi primi frutti perversi: l’uccisione di un oppositore come Boris Nemtsov di fronte al Cremlino è un segno di come nella capitale della Russia la vita sia sempre più pericolosa e imprevedibile. Una caccia al “nemico del popolo”, lunghe ile per le strade, provocazioni sanguinose: ora può succedere di tutto. Passerà ancora un po’ di tempo e i cittadini afamati cominceranno a porsi la domanda: “Ma cosa diavolo ce ne facciamo di questa macchina del tempo?”. Sotto l’efetto di domande del genere cominceranno a dissiparsi le illusioni collettive e l’impero comincerà a vacillare. Ricordiamoci quel che si diceva una volta: “Ma cosa diavolo ce ne facciamo di questo comunismo?”. La macchina del tempo di Putin comincia a fumare. Ma diicilmente si fermerà per propria volontà. Con ogni probabilità s’incendierà oppure scoppierà. Nel primo caso ci sarà una grande puzza, nel secondo voleranno schegge. La domanda, in questo secondo caso, sarà: dove e come cadranno? u af Scuole Tullio De Mauro Latino per rainati La lunga catena di discussioni sull’insegnamento del latino nelle scuole (del greco classico spesso nemmeno si parla) si arricchisce d’un nuovo anello. L’avvio l’ha dato la proposta innovativa che la ministra francese dell’educazione Najat Vallaud-Belkacem ha rivolto alle scuole medie superiori. Il nucleo della proposta, come qui si è già ricordato, è passare dal tradizionale insegnamento e apprendimento per materie separate all’insegnamento per temi e problemi. Questo porterà a contrarre il tem- 94 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 po che nella programmazione didattica sarà concesso a materie di taglio istituzionale, sistematico. Lo studio sistematico delle due antiche lingue classiche vedrebbe dunque ridotti sempre di più i suoi spazi e di fatto ciò raforzerebbe i molti che chiedono la completa soppressione di queste materie, un vecchiume inutile. Protestano gli insegnanti di lingue classiche ed evocano argomenti consueti: importanza delle lingue classiche nella storia, loro incidenza sul francese e sulle lingue d’oggi, loro persistenza attraverso i secoli, loro natura di prerequisito per gli studi giuridici e medici, oltre che letterari. Un’insegnante di geograia, Mara Goyet, sviluppa nel suo blog un argomento meno consueto. Latino e greco sono merce rara, fuori mercato, dicono i detrattori, e apprenderli è un lusso. Appunto, argomenta Goyet, appunto: chi impara queste antiche lingue si rende padrone di un sapere di élite. Il latino fait classe. Chi lo conosce entra in un club internazionale di rainati. u Scienza ISSEI KATo (REUTERS/CoNTRASTo) Durante una simulazione sismica. Tokyo, marzo 2015 fu un terremoto di magnitudo 9,5. Il progetto userà i sensori di più di duecento smartphone in vari ediici cileni, aiancandoli a una rete di osservatori che il Cile sta realizzando. L’idea di ricorrere agli smartphone come sistemi di preallarme sismico è venuta ai ricercatori mentre usavano i computer portatili e issi come sensori, spiega Brooks. Spesso i portatili sono dotati di un accelerometro che rileva quando il computer viene mosso e serve a proteggere l’hard disk in caso di caduta. Dieci secondi Una scossa al telefono Pete Spotts, The Christian Science Monitor, Stati Uniti Alcuni smartphone potrebbero dare il primo allarme di un terremoto in arrivo nelle zone che non possono permettersi i sistemi di rilevamento tradizionali n gruppo di geoisici ha scoperto che usando i dati dei sistemi di navigazione satellitare alcuni smartphone potrebbero funzionare come sistema a basso costo per segnalare un terremoto imminente. L’obiettivo non è sostituire con strumenti più economici i sistemi tradizionali, osserva Benjamin Brooks, geoisico dello United States geological survey di Menlo Park, in California. Rispetto agli smartphone, i sistemi esistenti individuano una gamma più ampia di terremoti di magnitudo potenzialmente dannosa, almeno per ora. Eppure solo otto regioni del mondo relativamente piccole hanno degli osservatori in grado di dare un preallarme. I loro sistemi di rilevamento si basano sui sismograi – strumenti che misurano il movimento del suolo – e a volte sui dati forniti dai si- U 96 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 stemi satellitari di posizionamento globale (gps). Questi impianti costano tra i ventimila e i trentamila dollari l’uno e non tutti i paesi ad alto rischio sismico possono permetterseli. Gli smartphone, invece, sono ormai diffusissimi. Hanno ricevitori gps e accelerometri (sensori di movimento). Nelle tasche e nelle borse di tutto il mondo oggi ce ne sono più di un miliardo ed entro il 2020 potrebbero arrivare a sei miliardi. Alcuni di questi smartphone potrebbero dare il primo allarme sismico nei paesi che non possono permettersi un osservatorio vero e proprio. Soprattutto nelle aree vicine ai margini delle placche della crosta terrestre, e in particolare nelle zone di subduzione, dove una placca scivola sotto un’altra: è in queste zone che hanno origine i terremoti più violenti. Le potenzialità sono talmente interessanti che l’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) ha concesso al gruppo di ricerca un inanziamento di 500mila dollari per un progetto dimostrativo in Cile, dove i forti terremoti sono frequenti. In Cile c’è stata la scossa più violenta mai registrata: appena a sud della città costiera di Concepción, nel 1960, ci Per lo studio in corso, pubblicato sulla rivista online ad accesso libero Science Advances, i ricercatori hanno fatto due simulazioni. Una su un ipotetico sisma di magnitudo 7 lungo la faglia di Hayward, sul lato orientale della baia di San Francisco. Un altro test ha usato i dati rilevati da sismograi e satelliti durante il terremoto al largo della regione del Tōhoku nel 2011, di magnitudo 9, il più violento mai registrato in Giappone e il quarto al mondo. Ipotizzando che solo un piccolo numero di smartphone sia sempre attivo, si è calcolato che a poter dare il primo allarme del terremoto di Hayward entro cinque secondi dall’inizio sarebbe lo 0,2 per cento dei cellulari della popolazione presente nell’area, circa 4.700 persone. San Francisco avrebbe pochi secondi prima dell’arrivo della scossa violenta e San Jose qualche decina di secondi. Per il terremoto del Tōhoku, appena 510 smartphone avrebbero lanciato l’allarme 77 secondi dopo il sisma, non lasciando abbastanza tempo per avvisare le zone costiere più vicine all’epicentro in mare. Tuttavia, sarebbe stato possibile lanciare l’allerta tsunami diversi minuti prima dell’arrivo dell’onda, e dare l’allarme a Tokyo dieci secondi prima. Un tempo sicuramente brevissimo, ma suiciente per mettere in attesa gli aerei a terra e in volo, consentire alla gente di ripararsi, chiudere ponti e gallerie e allontanarsi da macchinari o materiali pericolosi sui luoghi di lavoro. Con il progetto in corso in Cile si stanno cercando anche altri strumenti di preallarme sismico. “Abbiamo pensato agli smartphone perché sono molto diffusi”, dice Brooks. Un altro possibile “osservatorio” difuso sono le automobili. “Le nuove auto avranno tutte un sistema gps, che è un magniico sensore geodetico”. u sdf Fumo elettronico ChimiCa HEIdI IkONEN/www.VISItALANd.cOM Champagne d’epoca Nel 2010 sono state trovate su un relitto al largo delle isole Åland, in finlandia, 168 bottiglie di champagne di 170 anni fa. Ora un’équipe di ricercatori guidata da Philippe Jeandet ne ha analizzato il contenuto e ha scoperto che rispetto al vino moderno questo champagne ha un alto contenuto di zuccheri, meno alcol, sostanze derivanti dal legno e molti metalli, scrive la rivista Pnas. tracce di materia oscura Mnras, Regno Unito La materia oscura potrebbe interagire con se stessa. Il telescopio Vlt, in cile, e il telescopio spaziale Hubble hanno registrato la collisione di quattro galassie nell’ammasso Abell 3827 e hanno costruito una mappa della distribuzione della massa. I ricercatori hanno usato il metodo della lente gravitazionale, che sfrutta il fenomeno della delessione della radiazione emessa da una sorgente luminosa a causa della presenza di una massa posta tra la sorgente e l’osservatore. Misurando questa delessione si può studiare la distribuzione della massa nell’universo. In questo caso sono stati osservati gli efetti della collisione tra galassie e si è visto che una parte di materia oscura sembrava essersi separata dalla sua galassia ed essere rimasta indietro. Si pensa che la materia oscura costituisca ino all’85 per cento di tutta la materia e sarebbe al suo interno che si formano le galassie. Senza la materia oscura e la forza di gravità che esercita, le galassie si “romperebbero”. Secondo lo studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è possibile che la materia oscura sia stata rallentata da altra materia oscura. Questo potrebbe voler dire che la materia oscura interagisce con se stessa con una forza diversa da quella di gravità. u BLAckEIffEL Negli Stati Uniti la sigaretta elettronica è il prodotto da tabacco più usato dai giovani, seguito dal narghilè e dalla sigaretta classica. Gli ultimi dati del Morbidity and mortality weekly report rivelano che, in un solo anno, l’uso delle sigaretta elettronica è triplicato nelle scuole medie e superiori, e quello del narghilè è raddoppiato. circa due milioni e mezzo di studenti dichiarano di aver “svapato” almeno un giorno nell’ultimo mese, più di un milione e mezzo di aver fumato il narghilè. La difusione di questi due modi di fumare compensa il calo dei consumo della sigaretta classica. complessivamente nel 2014 i giovani consumatori di tabacco sono aumentati di 400mila unità. I centers for disease control and prevention avvertono che la nicotina è pericolosa per i giovani, in qualsiasi forma sia assunta: “Può causare dipendenza e danni allo sviluppo cerebrale”. astroisica in breve Genetica È stato analizzato il dna di 34 piante del genere citrus. Secondo Molecular Biology and Evolution, l’antenato degli agrumi ha cominciato a dividersi nei tre principali gruppi, il cedro, il pomelo e il mandarino, tra i 7,5 e i 6,3 milioni di anni fa. Altri due eventi di separazione delle diverse specie – uno tra i 5,0 e i 3,7 milioni di anni fa e l’altro tra gli 1,5 e gli 0,2 milioni di anni fa – hanno dato vita agli agrumi moderni. Salute L’Organizzazione mondiale della sanità ha invitato i ricercatori a pubblicare i risultati di tutte le sperimentazioni scientiiche, anche quelle passate, con risultato negativo o incerto. L’ideale sarebbe pubblicare su una rivista gratuita l’esito di ogni studio, entro un anno dalla ine della sperimentazione. In questo modo si potrebbero evitare nuovi test, scegliere i trattamenti migliori, proteggere i malati e risparmiare. biologia Salute resistenza yanomami MIkAkO MIkURA Salute amore a prima vista Guardarsi negli occhi potrebbe aiutare umani e cani a stabilire un legame afettivo, come avviene tra mamma e neonato. Una serie di test con persone e animali, nei quali si variava la durata degli sguardi e l’interazione, hanno rivelato cambi dei livelli di ossitocina, un ormone che regola l’attaccamento afettivo. I padroni avevano un livello più alto di ossitocina se il loro cane li aveva guardati a lungo. L’ormone portava le persone a interagire con gli animali, e questo a sua volta innalzava l’ossitocina nei cani, scrive Science. u Anche tra gli yanomami, una popolazione isolata dell’Amazzonia, estranea alla medicina occidentale, sono difusi i geni per la resistenza agli antibiotici. Secondo Science Advances i cacciatori raccoglitori dell’Orinoco, in Venezuela, hanno una lora intestinale molto ricca e diversiicata, con geni per la resistenza agli antibiotici, anche a quelli sintetici. Questa resistenza potrebbe essere una caratteristica naturale, acquisita dai batteri del terreno. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 97 Russia Il diario della Terra Ethical living Stati Uniti Grecia 6,1 M Cuba Taiwan 6,6 M Molti tedeschi vorrebbero consumare in modo responsabile, ma sono arrivati alla conIndonesia 6,0 M Solo clusione che “salvare il pianeta attraverso le scelte di acquisto Fiji comporta un impegno notevo6,5 M le”, scrive Der Spiegel. Nuovi -72,8°C Australia Polo sud, dubbi stanno attraversando il Antartide movimento del consumo critico in Germania. Lo dimostra quanto è avvenuto nel settore tessile. Nell’aprile del 2013, quando 1.134 operai sono mordei cetacei potrebbe essere a lasciare le loro case. Le iamti nel crollo del Rana Plaza a me hanno distrutto 125 ettari di stata causata da un’infezione Savar, in Bangladesh (uno dei parassitaria o dallo spostavegetazione. mento delle placche tettoniche paesi con bassi salari, lunghi orari di lavoro e nessun diritto suboceaniche. Cicloni La tempesta tropiper i lavoratori), molti comcale Solo ha portato forti piogmittenti occidentali si sono ge sul territorio francese della Coccodrilli Lo zoo di impegnati a garantire maggioSydney, Australia Nuova Caledonia. La tempesta Stoccolma, in Svezia, ha Papua Nuova ri controlli. Tra questi, il tedeha poi siorato Vanuatu. annunciato che trasferirà a Guinea Group, specializzato Cuba dieci coccodrilli cubani 7,5 Msco OttoReuben Tempeste Una tempesta ha nel commercio online. appena nati, che saranno causato la morte di tre persone Delini Le carcasse di più Indonesia Eppure, anche se cerca di rimessi in libertà. Nell’isola nella regione di Sydney, nel sudi 150 peponocefali, Mozambicouna sviluppare pratiche eticamencaraibica rimangono solo dest dell’Australia. Secondo i specie di delini, sono state Angola te accettabili, l’Otto Group quattromila esemplari della meteorologi, a Sydney sono ca- rinvenute su una spiaggia nel specie, considerata a rischio di non pubblicizza le sue iniziatiduti 119 millimetri di pioggia in nordest del Giappone. ve perché teme un effetto booestinzione. appena ventiquattr’ore, il dato Secondo gli esperti, la morte merang. La “cultura dell’indipiù alto dal 2002. I venti supegnazione” portata avanti dal riori ai 135 chilometri all’ora movimento del consumo critihanno sradicato centinaia di co rende rischioso parlare di alberi, mentre 200mila case queste iniziative, anche perché sono rimaste senza elettricità. spesso sono destinate a fallire. Il porto di Sydney è rimasto Sbagliare è facile: il gruppo chiuso per due giorni. vende due milioni di capi di vestiario, prodotti da 200 forTerremoti Un sisma di manitori in 70 paesi. Ma controlgnitudo 5,6 sulla scala Richter lare il subfornitore, il sub-subha colpito Cipro. Non ci sono fornitore e il sub-sub-subforstate vittime, ma alcuni ediici nitore diventa impossibile. Il sono rimasti danneggiati. Altre problema è il concetto stesso scosse sono state registrate al di consumo critico: se i consulargo di Taiwan, al largo delle Inquinamento La catena montuosa dell’himalaya (nella foto) isole Fiji, nell’ovest dell’Indonon è abbastanza alta per proteggere l’altopiano tibetano dall’in- matori sono moralmente responsabili di tutto, i politici nesia e nel sud della Grecia. quinamento atmosferico proveniente dall’Asia meridionale. Le non hanno alcuna responsabistazioni climatiche sui versanti nord e sud dell’Everest (a quota lità. Le condizioni dei lavora4.276 e 5.079 metri) hanno rilevato gli stessi inquinanti alle Incendi Gli incendi che si tori possono essere migliorate sono sviluppati nella regione di stesse concentrazioni. Si tratta di composti organici e sulfurei anche dai sindacati, non solo rilasciati dalla combustione, che si depositano sui ghiacciai Los Angeles, sulla costa occidalle scelte dei consumatori, dentale degli Stati Uniti, hanno tibetani contribuendo allo scioglimento anticipato in primavera, conclude lo Spiegel. scrive Atmospheric Chemistry and Physics. costretto centinaia di persone TIM ChONG (REUTERS/CONTRASTO) 45,0°C Linguere, Senegal BRENdON ThORNE (GETTy IMAGES) Giappone Cipro 5,6 M Consumo critico 98 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 Il pianeta visto dallo spazio 24.02.2015 NorMAN KurING (oceAN coLor Web/NASA) I colori del mar Giallo Corea del Nord Mar Giallo Corea del Sud Cina e dinamiche al mondo”, aferma Menghua Wang, oceanografo della National oceanic and atmospheric administration statunitense. Nella foto, il marrone lungo la costa cinese è l’acqua torbida comune alle zone costiere. Secondo Wang, è probabile che a mescolare i sedimenti abbiano contribuito la scarsa profondità, le correnti di marea e i forti venti invernali. Alcune volute presenti nella foto potrebbero essere causate dalla corrente calda che d’inverno entra nel mar Giallo. Questo tratto della corrente Kuroshio altera la temperatura della supericie marina favorendo l’instabilità che forse provoca le volute relativamente scure al centro e nella parte inferiore della foto. L’interpretazione del colore marino dalle foto satellitari può essere diicile, specie in regioni complesse come questa. Le prossime missioni come la Pace (Pre-aerosol, clouds, and ocean ecosystem) dovrebbero aiutare gli scienziati a distinguere meglio le particelle e le sostanze presenti nell’atmosfera e nel mare.–Kathryn Hansen Mar Cinese meridionale Questa foto del mar Giallo è stata scattata il 24 febbraio 2015 dallo spettroradiometro Modis a bordo del satellite Aqua della Nasa Nord 100 km u L’acqua copre il 71 per cento della supericie della Terra, chiamata per questo blue marble (biglia blu) o pianeta azzurro. I satelliti che studiano il colore del mare, però, dimostrano che le cose non sono così semplici. Le sostanze presenti nell’acqua, viventi o meno, sono spesso agitate o mescolate e fanno assumere alla supericie toni di celeste, verde, beige, bianco e mar- rone. Il fenomeno è particolarmente visibile nel mar Giallo. “La regione oceanica che comprende il mare di bohai, il mar Giallo e il mar cinese orientale è una delle più torbide u Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 99 Tecnologia L’interprete automatico Skype sta studiando un software per tradurre in tempo reale conversazioni tra persone che non parlano la stessa lingua io padre racconta sempre una storia su un suo amico, uno scienziato. Invitato in Giappone per tenere una conferenza, lo scienziato aprì il suo intervento con una barzelletta che durò un paio di minuti. Dopo averla raccontata, aspettò che il traduttore la riferisse alla platea. Il traduttore parlò per pochi secondi, e i presenti scoppiarono immediatamente a ridere. Dopo la ine della presentazione, l’amico di mio padre chiese al traduttore come avesse fatto a sintetizzare la barzelletta senza far perdere il divertimento. Il traduttore alzò le spalle e rispose: “Ho detto che l’americano aveva appena raccontato una barzelletta molto divertente e che il pubblico avrebbe dovuto ridere”. La storia dello scienziato evidenzia la natura soggettiva e umana della traduzione. Raramente passare da una lingua all’altra signiica trasporre il signiicato letterale delle parole. La traduzione è un processo che richiede la capacità di ordinare informazioni inaspettate e di risolvere dubbi di continuo, oltre a una certa consapevolezza sociale. In altre parole è un lavoro fatto su misura per gli esseri umani, non per i computer. Con un addestramento adeguato un computer sarà mai in grado di tradurre come un essere umano? Alla Microsoft centinaia di esseri umani stanno cercando di spiegare a una macchina come ascoltare, tradurre e parlare. A dicembre l’azienda ha annunciato il lancio di Skype Translator, un programma capace di tradurre una videochiamata tra due persone in diverse lingue e in tempo reale. Il software, per il momento disponibile solo su invito, lavora con l’inglese, lo spagnolo, l’italiano e il cinese mandarino. Anche Google ha un’app per smartphone (gratis e disponibile per M 100 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 tutti) in grado di trascrivere frasi parlate, tradurle e pronunciare il risultato in un’altra lingua. Non è diicile immaginare che Google possa inserire questa tecnologia nella sua videochat. Pochi giorni fa ho avuto la fortuna di provare il nuovo programma della Microsoft, in coppia con il traduttore Ignacio Horcada. Ho cominciato la chiamata pensando che sarebbe stata una conversazione normale, ma poi ho capito di essere alle prese con un metodo comunicativo completamente diverso: appena ho cominciato a parlare il software ha aspettato una mia pausa per trascrivere le mie parole su una barra laterale, e poi le riportate a Ignacio in spagnolo con una voce computerizzata. In questo modo non abbiamo potuto interromperci a vicenda e ho capito che era meglio esprimere le mie idee in poche frasi invece che in lunghi paragrai. Inconvenienti trascurabili Piccoli fastidi si sono accumulati sotto forma di signiicati distorti e parole travisate, ma alla ine della conversazione ho avuto la sensazione che Skype Translator sia un programma molto promettente. Considerando che avevamo parlato in due lingue diverse ma ci eravamo sostanzialmente capiti, questi inconvenienti erano trascurabili (dopo tutto anche gli esseri umani sbagliano). Skype Translator può solo migliorare, perché dipende dall’apprendimento automatico, un processo che valuta i risultati e si adegua di conseguenza. È lo stesso meccanismo che ha permesso a Google Maps e a Google Search di migliorare in base al numero di persone che usano il servizio. Per il momento la Microsoft si concentra su come adattare questa tecnologia alla vita dei consumatori. Sulla sua pagina web, nei suoi video promozionali e in occasione degli eventi dal vivo, l’azienda ha elogiato i vantaggi della nuova tecnologia per le persone comuni: gli studenti possono parlare con i loro colleghi nelle classi di tutto il mondo, mentre i viaggiatori possono entrare in contatto con gli abitanti del OLeG PRIkHODkO (GeTTy IMAGeS) Joe Pinsker, The Atlantic, Stati Uniti posto in cui sono diretti prima di partire. Non è diicile immaginare altre funzioni quotidiane (sono un giornalista, e uno strumento come questo aumenta il mio serbatoio di potenziali notizie), ma c’è la sensazione che questa nuova tecnologia possa sfondare presto nel mondo degli affari. Milioni di test “Ovviamente quando il nostro amministratore delegato l’ha mostrato sul palco siamo stati inondati di richieste dei nostri partner sulle implicazioni commerciali”, spiega Vikram Dendi, direttore del settore strategico della Microsoft Research. Dendi ha contribuito allo sviluppo di Skype Translator e non esita a evidenziarne i limiti. “Voglio essere sicuro che prima di passare alla fase successiva ci sia il giusto livello di maturità e competenza”, spiega. L’idea di distribuire il programma ai 300 milioni di utenti che usano Skype ogni mese ha senso non solo perché l’utente medio di Skype è più tollerante rispetto a un manager, ma anche perché è un modo di far conoscere la nuova tecnologia e suggerire un possibile uso commerciale. “Con il difondersi del programma gli utenti suggeriranno ai loro datori di lavoro di adottare questo sistema anche nelle loro videoconferenze. Sarà una spinta dal basso, sempre più forte con l’aumento del nume- ro degli utenti che usano il programma nella loro vita privata”, spiega Nicolas de Benoist, ricercatore di Steelcase, società specializzata nella produzione di mobili da uicio. Fattore culturale Se verrà perfezionato, Skype Translator sarà utilissimo a un gran numero di multinazionali che dipendono dalle capacità dei traduttori per concludere transazioni cruciali. Tuttavia il programma potrebbe essere ancora più importante se applicato alle economie in via di sviluppo, dove le aziende sono più piccole e non possono permettersi di assumere traduttori professionisti, e dove l’inglese non si è ancora affermato come la principale lingua del commercio. “Mentre i mercati si espandono in aree dove l’inglese si parla meno – pensate alle nuove economie in forte crescita in Africa, Asia e America Latina – penso che la nuova tecnologia avrà un efetto profondo”, spiega Dean Foster, fondatore e presidente di Intercultural Global Solutions, una società di consulenza che istruisce gli uomini d’affari sulle peculiarità di culture diverse. In Cina, nel 2006 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati) 400 milioni di persone su un totale di 1,3 miliardi conosceva l’inglese. Ma di questi 400 milioni metà dichiarava di parlare “raramente” inglese, e appena il 5-15 per cento afermava di parlarlo regolarmente. Ne deriva che moltissimi cinesi preferiscono di gran lunga parlare nella loro lingua quando fanno afari a livello internazionale. Per quanto questa tecnologia possa risultare utile alle piccole aziende e alle multinazionali, non è ancora capace di tradurre una componente fondamentale e complessa dell’interazione globale: la cultura. “Anche se la traduzione è corretta al 90 per cento, non tiene conto dell’aspetto culturale. Per noi la fluidità culturale, opposta alla luidità linguistica, è probabilmente il fattore più importante per determinare il successo commerciale”, spiega Foster. Quello di Foster, laureato in sociologia e capo di una società di consulenza interculturale, potrebbe sembrare un punto di vista parziale, ma sottolineare l’importanza della comprensione tra culture diverse non è certo un dato marginale. Ignorare alcuni elementi culturali può generare perdite economiche: in Brasile, per esempio, unire i polpastrelli di pollice e indice è considerato un gesto blasfemo, mentre negli Stati Uniti è il tipico segnale per dire ok. “Ho sentito storie di imprenditori americani che sono andati in Brasile dopo aver negoziato un accordo per mesi, e una volta irmato il contratto hanno fatto il tipico segno di ok, senza sapere di aver appena insultato l’amministratore delegato della azienda brasiliana, in pubblico e davanti alle telecamere”, spiega Foster. La traduzione in tempo reale può essere compromessa dalle piccole diferenze culturali anche perché può dare l’illusione della comprensione. “È facile accettare che qualcuno non parli la nostra lingua e non sia in grado di comunicare, mentre è diicile accettare che l’incomunicabilità sia dovuta alla mancanza di conoscenze culturali”, aggiunge Foster. Per esempio americani e britannici si aspettano di capirsi al volo nelle trattative commerciali, ma spesso esprimono culture manageriali molto diverse. Raramente passare da una lingua all’altra signiica trasporre il signiicato letterale delle parole Inoltre, in un mondo in cui le traduzioni sono corrette, perderemmo la possibilità di imparare la lingua madre del nostro cliente e di fare bella igura. Yui Kong Heung, traduttore a Hong Kong per un’importante azienda giapponese di elettronica, ha scoperto che era molto più facile entrare nelle grazie dei suoi capi quando si accorgevano che parlava bene la loro lingua madre. “I giapponesi sono molto aperti e rilassati quando sanno che parli la loro lingua”, spiega. Sensazione di distanza Nei prossimi anni Skype Translator migliorerà certamente, ma intanto sorgono grandi interrogativi anche a proposito del suo mezzo di difusione, la videochat. Chris Congdon, collega di Nicolas de Benoist alla Steelcase, mi ha confessato che nonostante l’idea della videoconferenza sia molto in voga nel mondo degli afari, il suo uso è più limitato di quanto si possa pensare. “Quando si parla di queste tecnologie mi chiedo se diventeranno mai talmente trasparenti da cancellare quella sensazione di distanza che creano tra due persone che stanno cercando di costruire un rapporto”, spiega. Secondo de Benoist esistono altri ostacoli all’adozione della videochat. L’intesa tra le persone, per esempio, nasce condividendo lo stesso spazio, dalla stanza in cui si lavora all’ambiente esterno. Questo elemento è molto diicile da replicare con la videoconferenza. Inoltre non è detto che tutte le informazioni importanti vengano scambiate durante le riunioni. “Le persone condividono i contenuti a livello informale dopo aver chiuso una riunione, quando i più timidi dicono cose come ‘avrei voluto dire questo, ma non me la sentivo perché mi sembrava tutto troppo formale per me’”, spiega. Le traduzioni in tempo reale in videochat potrebbero sembrare un’idea lontana tanto quanto le bizzarre tesi futuristiche sul futuro delle riunioni di lavoro (Congdon ha parlato di telecamere che registrano il linguaggio corporale delle persone e Dendi ha menzionato una possibile integrazione futura con le HoloLens, gli occhiali a percezione aumentata della Microsoft). Per ora la traduzione in tempo reale è una possibilità che appare molto lontana, ma è anche vero che in passato avevamo detto la stessa cosa di Slack, delle email e del telefono. u as Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 101 Economia e lavoro WoLFGAnG KUMM (PICtUrE-ALLIAnCE/DPA/AP/AnSA) Berlino, Germania. La sede del Reichstag, il parlamento tedesco ge, in sostanza, autorizza a coinvolgere di più i creditori per evitare che siano solo i contribuenti a sostenere il costo dei salvataggi. La banca centrale tedesca ritiene che i creditori potrebbero perdere ino al 50 per cento dei loro soldi. Sarebbero colpite duramente le banche e le assicurazioni tedesche, che hanno prestato alla Hypo sette miliardi di euro. Il governo tedesco ha già dovuto salvare la Düsseldorfer Hypothekenbank. Agli altri istituti non resta che ammortizzare le perdite e procedere per vie legali contro quella che considerano un’espropriazione. Amici intimi I creditori tedeschi infuriati con Vienna C. Geinitz, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Germania Il governo austriaco ha deciso di non pagare i debiti della Hypo Alpe Adria, banca nazionalizzata nel 2009. I più colpiti sono gli investitori tedeschi, che ora minacciano azioni legali politici e i banchieri tedeschi stanno criticando duramente l’Austria a causa della crisi legata alla banca Hypo Alpe Adria. Il ministro delle inanze della Baviera, Markus Söder, ha detto che l’Austria potrebbe “essere il prossimo grande problema dopo la Grecia”. Michael Kemmer, direttore dell’associazione delle banche tedesche, ha dichiarato che gli austriaci hanno “oferto garanzie statali in modo avventato”, un po’ come ha fatto l’Argentina. Per trovare le origini di queste critiche bisogna andare a Klagenfurt, la capitale del land austriaco della Carinzia. Quando nella città governava ancora la Fpö guidata da Jörg Haider, la banca carinziana Hypo Alpe Adria si trasformò in una banca attiva in tutta l’Europa sudorientale. Questo sviluppo attirò l’interesse della tedesca BayernLb, che nel 2007 comprò l’istituto. Ma in segui- I 102 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 to la Hypo fallì, proprio a causa delle attività nei Balcani, e nel 2009 il governo di Vienna rilevò l’istituto dalla BayernLb e dagli altri proprietari al prezzo simbolico di quattro euro. Da allora si litiga per un bel po’ di soldi. I bavaresi hanno fatto causa a Vienna per ottenere la restituzione di un vecchio prestito di 2,3 miliardi di euro concesso alla Hypo. Gli austriaci pretendono invece un risarcimento di 3,5 miliardi di euro, perché i bavaresi hanno tenuto nascosti i rischi al momento della nazionalizzazione. La situazione è stata complicata da una legge, approvata nell’estate del 2014, che prevede la cancellazione parziale dei debiti della Hypo. La situazione è peggiorata ancora di più quando nella Heta, la bad bank in cui sono conluiti i titoli spazzatura della Hypo, si è aperta una nuova voragine miliardaria: all’inizio di marzo l’ente di vigilanza inanziaria e il governo austriaci hanno deciso di non attingere ulteriormente alle casse dello stato e di sospendere il pagamento degli interessi e la restituzione dei debiti della Heta. Da allora i creditori aspettano il loro denaro. Questa moratoria sui debiti è in linea con un’altra legge approvata per recepire una direttiva dell’Unione europea. La leg- Anche il ministro tedesco delle finanze, Wolfgang Schäuble, è convinto che la questione sarà portata nei tribunali e che il governo di Berlino potrebbe essere parte in causa, visto che detiene delle quote in alcune banche creditrici. Schäuble, comunque, è amico intimo del ministro austriaco delle inanze, Hans Jörg Schelling. I due vanno molto d’accordo, come si può dedurre dalla posizione unitaria nei confronti della Grecia. Per quanto riguarda la Hypo, evitano di parlare dei problemi per non doverli afrontare. Se Vienna smetterà di rimborsare perfino le obbligazioni prioritarie garantite dalla Carinzia, solo i creditori riceveranno un duro colpo. Schäuble dice che il problema dovrà essere risolto nei tribunali e quindi, qualunque sia il verdetto, l’Unione europea non ne sarà travolta. Gli investitori tedeschi potrebbero aver efettuato queste speculazioni fallimentari per un’analogia sbagliata: dal momento che Germania e Austria sono accomunate da molte cose, i tedeschi sono convinti che nel paese vicino ci siano leggi simili alle loro. In realtà non è così. La Carinzia ha fornito garanzie su alcuni debiti per un volume dodici volte superiore al suo bilancio: non poteva inire bene. Se i tedeschi hanno deciso comunque di aidare il loro denaro alla Hypo è stato perché si aspettavano che Vienna intervenisse, perché così succede nel loro paese. In Austria, però, questo non è scontato, tanto che, con orrore dei creditori, Schelling ha potuto afermare: “Il governo centrale non garantirà per la Carinzia”. È possibile che alla ine il conto sia ripartito tra creditori e contribuenti. Ma da questa situazione si può già trarre un insegnamento: le banche e le garanzie statali non sono di per sé immuni alle crisi, e gli investitori dovrebbero tenerlo bene a mente. u fp Unione europea STATI UNITI Un arresto per il lash crash Il 18 aprile migliaia di persone hanno manifestato in tutta Europa contro il transatlantic trade and investment partnership (ttip), l’accordo di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti. Le proteste, scrive Die Tageszeitung, riguardano la clausola con cui le aziende possono denunciare i governi che danneggiano i loro investimenti. Il 20 aprile sono ripresi a New York i negoziati per il ttip. Aziende Il potere della famiglia Due fondi pensione canadesi e altri grandi investitori istituzionali hanno denunciato il governo norvegese. Come spiega il Wall Street Journal, l’azione giudiziaria è legata al provvedimento con cui Oslo ha ridotto le tarife imposte dai gasdotti per il trasporto del gas. I fondi sostengono che questa misura “ridurrà le entrate dell’azienda che gestisce gli impianti, dimezzando il rendimento atteso dai loro investimenti”. I fondi non hanno speciicato l’ammontare del risarcimento richiesto, ma sostengono che la misura del governo potrebbe provocare “perdite miliardarie”. Il caso sarà esaminato dal tribunale di Oslo a partire dal 27 aprile. “Sia in politica sia in economia il potere è ancora concentrato nelle famiglie”, scrive l’Economist. “più del 90 per cento delle aziende di tutto il mondo è gestito o controllato da una famiglia. anche grandi multinazionali, come la News Corporation di rupert Murdoch o la Volkswagen, dove in questi giorni è in corso un duro scontro tra i familiari che controllano il gruppo. Secondo il Boston Consulting Group le famiglie possiedono il 33 per cento delle aziende statunitensi e il 40 per cento di quelle francesi e tedesche con un fatturato annuale superiore al miliardo di dollari. Nelle economie emergenti il peso delle famiglie è ancora maggiore”. Questa situazione forse coglie di sorpresa molti economisti, convinti che la quotazione in borsa dei grandi gruppi avrebbe dissolto il potere delle famiglie dividendo il capitale tra molti investitori. “In realtà non è mai successo, in parte perché i vantaggi della parentela si sono dimostrati duraturi. Le aziende di famiglia spesso sono più lessibili e capaci di fare programmi a lungo termine”. ◆ YOrGOS KarahaLIS (ap/aNSa) Governo sotto accusa Il governo greco ha disposto che i ministeri e gli enti locali trasferiscano parte dei loro fondi alla banca centrale greca, scrive Express. “Sono esclusi i fondi necessari a coprire gli impegni a breve termine”. Il provvedimento, che è retroattivo a partire dal 17 marzo, ha provocato dure proteste nel paese. I fondi saranno usati per pagare stipendi e pensioni in attesa che il governo riceva nuovi aiuti da Bruxelles. “I creditori”, sostiene la Süddeutsche Zeitung, “sono disposti ad aspettare ino al 30 giugno – quando scadrà il piano di salvataggio concesso nel 2012 – perché atene presenti le riforme chieste in cambio degli aiuti. per quella data la Grecia riceverà i restanti 7,2 miliardi di euro del pacchetto”. In migliaia contro il Ttip The Economist, Regno Unito NORVEGIA Trasferimenti forzati Manifestazione contro il Ttip a Monaco, Germania MIChaEL DaLDEr (rEUtErS/CONtraStO) Dopo cinque anni di indagini e le rivelazioni di un informatore, le autorità statunitensi sono certe di aver individuato il responsabile del lash crash, il crollo di Wall street causato da un ordine di vendita partito da un computer che il 6 maggio 2010 provocò perdite pesanti nel giro di pochi minuti. Gli inquirenti statunitensi, scrive il New York Times, hanno spiccato un ordine di cattura contro Navinder Singh Sarao, che è stato arrestato il 21 aprile a Londra. Il 6 maggio 2010 “Sarao avrebbe fatto ripetuti ordini di vendita, rendendo il mercato vulnerabile a un’operazione partita dagli Stati Uniti. Quel giorno l’indice Dow Jones industrial average, che rappresenta le trenta principali aziende quotate statunitensi, perse 600 punti in pochi minuti”. Secondo gli inquirenti, con questo tipo di operazioni Sarao “ha guadagnato quaranta milioni di dollari in quattro anni”. GRECIA IN BREVE Mercati Il 22 aprile Margrethe Vestager, la commissaria europea alla concorrenza interna, ha dichiarato che aprirà un’inchiesta per abuso di posizione dominante contro le esportazioni di gas della Gazprom, l’azienda energetica di proprietà del governo russo. Bruxelles accusa la Gazprom di imporre prezzi eccessivi in cinque paesi dell’Europa orientale e di impedire a otto stati dell’Europa centrale e orientale di rivendere il gas ad altri paesi. La Gazprom, che rischia una multa di dieci miliardi di euro, ha dodici settimane per rispondere alle accuse. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 103 Mediocri Tuono Pettinato, Italia Strisce Dopo molti anni: Guarda ragazzo mio! Fingerpori Pertti Jarla, Finlandia Complimenti, lei ha ereditato la pipa di suo padre Buni Ryan Pagelow, Stati Uniti Sephko Gojko Franulic, Cile Un giorno tutto questo sarà tuo 104 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 L’oroscopo Rob Brezsny TORO Di solito non ho niente contro la tua intensa preoccupazione (non voglio chiamarla “ossessione”) per la tranquillità e la sicurezza. Ma nella vita di tutti i Tori ci sono alcuni rari periodi in cui la stabilità assoluta diventa uno svantaggio. Il vostro procedere senza intoppi rischia di trasformarsi in una vuota routine. Ora siamo in una di queste fasi e ti conviene arrenderti all’imprevedibilità. È più probabile che sia l’incertezza a insegnarti qualcosa e che a darti gioia sia il desiderio di abbracciare l’ignoto. Quando non sappiamo cosa regalare per un’occasione speciale, a volte ricorriamo a un buono regalo da usare in una catena di negozi. Il problema è che molte persone si dimenticano di spendere i loro buoni. Li mettono in un cassetto e non si ricordano più della loro esistenza. Secondo gli esperti di economia, negli Stati Uniti ci sono miliardi di dollari di buoni regalo non utilizzati. Questa è la tua metafora del momento, Ariete. C’è qualche risorsa che non stai usando? Qualche vantaggio che non stai sfruttando? Qualche bene prezioso che stai ignorando? Se è così, vedi di sistemare la faccenda. GEMELLI ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI Un evento simile a un’inondazione spazzerà via tutto quello che non ti serve più o ci sarà una sorta di terremoto che solo tu sentirai e che demolirà un ostacolo ormai consumato dal tempo. Oppure un fortunato incidente ti farà deragliare dalla strada sbagliata (anche se pensavi che fosse quella giusta). Tutto sommato, credo che sarà un’ottima settimana per le forze beneiche che sfuggono al tuo controllo. Quanto sarai capace di arrenderti a loro? CANCRO Qual è la tua scusa più grossa? O meglio: qual è la tua scusa più stupida, perversa e debilitante? Tutti ne abbiamo una: la bugia che ci raccontiamo per giustiicare la nostra incapacità di essere all’altezza delle nostre potenzialità, il presunto ostacolo che consideriamo così profondo da non permetterci di rompere l’in- cantesimo che esercita su di noi. Forse è un ricordo traumatico. Forse è un difetto isico o una paura cronica. In conformità con i presagi astrali, ti consiglio di rivedere la tua scusa più misera. Credo che ora tu sia in grado più che in passato di esaminarla e che tu abbia più potere del solito di smantellarla almeno in parte. Forse puoi fuggire verso spazi aperti che scateneranno il potere nascosto della tua fantasia. BILANCIA “Per me non c’è atto di coraggio più grande che baciare per primi”, dice l’attrice della Bilancia Janeane Garofalo. Mi verrebbero in mente anche altri modi per misurare il coraggio, ma per il tuo immediato futuro la sua deinizione andrà benissimo. La tua prova suprema sarà dimostrarti capace di donare liberamente tenerezza, empatia e compassione, senza condizioni preliminari né aspettative di nessun genere. Per la tua stessa integrità e salute mentale, mostrati sempre decisa a sferrare il primo colpo per la pace, l’amore e la comprensione. seducente pianta velenosa. CAPRICORNO Oggi il pittore francese del Capricorno Henri Matisse è ritenuto uno dei pionieri dell’arte moderna. Ma nella prima metà del novecento le sue opere suscitarono molte discussioni. Quando alcuni suoi quadri furono esposti in una grande mostra a Chicago, gli studenti di arte della città rimasero sconvolti. Inscenarono un into processo in cui accusavano Matisse di crimini artistici, lo condannarono e bruciarono una riproduzione del suo quadro Nudo blu. Non prevedo che nelle prossime settimane provocherai azioni così estreme, Capricorno, ma di sicuro la vigorosa creatività e originalità con cui ti esprimerai riuscirà a suscitare reazioni altrettanto forti. SCORPIONE LEONE Se tu fossi un personaggio secondario di una popolare serie tv, i produttori creerebbero un nuovo show dove sei il protagonista. Se facessi parte di un gruppo rock , saresti pronto a suonare non più davanti a trecento persone, ma davanti a duemila. Se sei sempre stato un romantico egocentrico nella media, come tutti noi, forse nella tua mente stai per diventare una leggenda. In questo caso sarebbe ora di cominciare a vendere magliette e tazze con la tua immagine stampata sopra. Ma anche se non sei niente di tutto questo, Leone, credo che tu sia pronto per passare al livello successivo. Presto sarai a metà strada tra il tuo compleanno passato e il prossimo. Ti invito a farne un’occasione speciale. Potresti chiamarlo il tuo anticompleanno o noncompleanno. Come festeggiarlo? Ecco qualche idea: 1) immagina come saresti se fossi l’opposto di te stesso; 2) fai un elenco di tutte le qualità che non possiedi, delle cose di cui non hai bisogno e di quello che non vuoi fare nella vita; 3) cerca di vedere il mondo attraverso gli occhi delle persone diverse da te; 4) accogli con gioia quelle parti ombrose, immature e marginali della tua psiche che inora non sei riuscito ad accettare. SAGITTARIO VERGINE Finalmente libera! Finalmente libera! Grazie al signore dell’universo o al mostro degli spaghetti volanti o a un inaspettato sprazzo di fortuna, sei inalmente libera. Libera dal peso che ti faceva dire cose che non pensavi. Libera dalla tentazione di aittare o addirittura vendere la tua anima. Ma soprattutto, libera da quella vocina maligna che avevi nella testa, quella perfezionista superstiziosa che ti sussurrava strambi consigli basati sulle tue paure e illusioni. E ora cosa farai? Durante la mia solita passeggiata, mentre mi avvio sulla prima collina, percorro un sentiero coperto su entrambi i lati da una pianta dalle lucide foglie trilobate. Sono così belle e rigogliose che mi viene voglia di stroinare la faccia nel loro verde splendore. Ma mi trattengo perché so che sono foglie di tossicodendro e se le toccassi mi verrebbe un’eruzione cutanea che durerebbe per giorni. Invito anche te, nel tuo mondo, a evitare il contatto con qualsiasi inluenza metaforicamente equivalente a questa ACQUARIO Leonardo da Vinci era un maestro in molti campi, ma è famoso soprattutto come pittore. Eppure in 67 anni di vita dipinse meno di 40 quadri. Lavorava molto lentamente. Per completare la Gioconda impiegò 14 anni. È un metodo che dovresti sperimentare nelle prossime settimane, Acquario. Prova a diminuire la tua velocità e la tua intensità. Conosci il movimento Slow food? Hai letto Elogio della lentezza di Carl Honoré? PESCI I ilm di oggi non si risparmiano nell’uso della parolaccia fuck. In The wolf of Wall street gli attori la pronunciano 569 volte, 326 in End of watch tolleranza zero. Ma quest’espressione non è sempre stata usata con tanta facilità. Nessun attore l’aveva mai pronunciata sullo schermo prima del 1967, quando Marianne Faithfull la usò nel ilm Il complesso del sesso. Nelle prossime settimane ti invito a infrangere un tabù: forse l’impresa non sarà monumentale come quella di Marianne Faithfull, ma violarlo sarà comunque divertente e ti darà una carica di energia. Comportati da rivoluzionario. Libera la vitalità bloccata. Internazionale 1099 | 24 aprile 2015 105 internazionale.it/oroscopo ARIETE COMPITI PER TUTTI Cerca di scoprire quello che stai nascondendo a te stesso, ma fallo con gentilezza. alex, la lIberté, svIZZera L’ultima Il presidente turco e il genocidio degli armeni. “sono senza parole”. CleMeNt, NatIoNal Post, CaNada el roto, el País, sPagNa ZyglIs, buffalo News, statI uNItI “e lasciate tutto questo?”. toro Una vignetta di Adam Zyglis, del Bufalo News, vincitore del premio Pulitzer nella categoria editorial cartooning. “Non vedo l’ora che tu mi chieda perché sono vegana”. Le regole Farmacia 1 È una farmacista non una psicoterapeuta: attieniti ai sintomi senza tediarla con i tuoi stati d’animo. 2 Hai comprato tre pacchetti di Zigulì per camufare l’acquisto di proilattici. Cos’è, hai tredici anni? 3 Non chiedere campioncini gratuiti: non sei in profumeria. 4 Piangere e urlare non convincerà un farmacista a darti un farmaco senza ricetta. 5 Ma lirtare con lui sì. [email protected] 106 Internazionale 1099 | 24 aprile 2015