Internazionale1099 (1)

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Internazionale1099 (1)
24/29 aprile 2015 • Numero 1099 • Anno 22
“Ma chi ha costruito e messo in moto
la macchina del tempo? Un uomo dalle qualità
tutto sommato mediocri”
Sommario
vlAdimir sorokiN, pAgiNA
iN copertiNA
La settimana
Il naufragio dell’Europa
Umanità
Il numero dei migranti annegati nel Mediterraneo
dall’inizio dell’anno è trenta volte più alto rispetto allo
stesso periodo del 2014 (p. 14). Nella foto, operazioni di
salvataggio al largo di Rodi, 20 aprile 2015 (Xinhua Press/
Corbis/Contrasto).
Citizenfour, il documentario di Laura Poitras
che ha vinto l’Oscar, non è un ilm di
spionaggio. È un ilm politico. Racconta la
storia di Edward Snowden, ex analista della
National security agency, uno degli organismi
governativi statunitensi che si occupano della
sicurezza nazionale. Poitras e Glenn
Greenwald, del Guardian, lo intervistano in
una stanza d’albergo di Hong Kong. Snowden
ha 29 anni, è timido, pallido, magro, l’aria da
nerd. Ha visto qualcosa che non gli piace e sa
che se parlerà probabilmente non potrà più
tornare nel suo paese da uomo libero e forse
la sua vita sarà in pericolo. Ma sa anche che se
non sarà lui a parlare probabilmente non lo
farà nessun altro. Snowden incarna l’idea di
politica come mezzo per cambiare il mondo
mettendo se stessi, la propria intelligenza e la
propria persona al servizio di un obiettivo più
alto e, dal suo punto di vista, dell’interesse
collettivo. Quello che Snowden ha visto e che
descrive nel documentario è storia nota, ma
sentirla raccontare da lui fa comunque un
altro efetto: “Stiamo costruendo il più
grande strumento di oppressione della storia
dell’umanità. E le persone che lo dirigono si
esentano da ogni responsabilità”. Lo
strumento di oppressione di cui parla
Snowden è la capacità di intercettare e
raccogliere informazioni su tutti, in tutto il
mondo. Questa gigantesca quantità di dati è
archiviata e resa disponibile sempre,
indipendentemente dal fatto di essere
sospettati di qualche crimine. Ma nessuna
ragione di sicurezza può giustiicare la
violazione di un diritto fondamentale, perché
se non è garantito il diritto alla riservatezza
siamo meno liberi, anche di dire quello che
pensiamo. Mai accetteremmo che un simile
potere fosse concentrato nelle mani di
qualcuno, singoli stati o organizzazioni
internazionali. Eppure, poco alla volta,
abbiamo accettato che inisse nelle mani
degli Stati Uniti. Oggi Barack Obama non ci
sembra minaccioso, ma cosa succederebbe
se al potere ci fosse qualcun altro? Se
aspettiamo di scoprirlo potrebbe essere
troppo tardi. u
europA
22 Genocidio
24
armeno
Novoe Vremja
Finlandia
Le Monde
portfolio
64 La notte
Americhe
ecoNomiA
e lAvoro
viAggi
Le Monde
cultura
di Guascogna
Jean Harambat
reportAge
ciNemA
AlgeriA
fuori dal coro
The New York Times
Magazine
birmANiA
56 La metropoli
deserta
The Guardian
scieNzA
60 Dieci segreti
per imparare
New Scientist
Cinema, libri,
musica, arte
Le opinioni
10
78 Lo schema
Domenico
Starnone
34
Ta-Nehisi Coates
di Sollywood
The Guardian
36
Laurie Penny
82
Gofredo Foi
POP
84
Giuliano Milani
90 L’indecifrabile
86
Pier Andrea Canei
Günter Grass
Ariel Dorfman
La macchina
del tempo
di Putin
Vladimir Sorokin
88
Christian Caujolle
94
Tullio De Mauro
scieNzA
104 Strisce
Neue Zürcher
Zeitung
46 La voce
80
76 Lande
Asia Sentinel
38 Il muro di Malta
102 Austria-
Germania
Frankfurter
Allgemeine Zeitung
grAphic
jourNAlism
El País
AsiA e pAcifico
ritrAtti
74 L’Atlantide russa
30 Ambiente
32 Cina-Pakistan
automatico
The Atlantic
Abdalrazak
Narratively
26 Sudafrica
Daily Maverick
di Okinawa
Keizō Kitajima
70 Haitham
AfricA
e medio orieNte
tecNologiA
100 L’interprete
92
96 Una scossa
al telefono
The Christian
Science Monitor
le rubriche
10
Posta
13
Editoriali
105 L’oroscopo
106 L’ultima
Articoli in formato
mp3 per gli abbonati
le principali fonti di questo numero
Daily Maverick È un sito sudafricano di analisi. L’articolo a pagina 26 è uscito il 20 aprile 2015
con il titolo Xenophobia: something had to give. Narratively È un sito statunitense di giornalismo
narrativo. L’articolo a pagina 70 è uscito con il titolo The lonely psychiatrist of Sadr City. Neue
Zürcher Zeitung È un quotidiano svizzero di Zurigo, in lingua tedesca. L’articolo a pagina 38 è
uscito nel gennaio del 2015 sul magazine mensile Folio con il titolo Angst vor
dem schwarzen Mann. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli
dell’Economist.
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
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internazionale.it/sommario
Giovanni De Mauro
Immagini
Tratti in salvo
Lesbo, Grecia
17 aprile 2015
Migranti portati in salvo sull’isola di Lesbo dopo che la loro imbarcazione è affondata. Le zone di conine e le rotte
marittime tra la Grecia e la Turchia sono
tra le vie principali percorse dai migranti che dal Medio Oriente vogliono entrare in Europa. Secondo le autorità di Atene, finora nel 2015 sulle coste greche
sono sbarcate più di 10.400 persone,
rispetto alle 2.863 arrivate nello stesso
periodo dell’anno scorso. Foto di Angelos
Tzortzinis (Afp/Getty Images)
Immagini
Ricordi della shoah
Ksalon, Israele
16 aprile 2015
Moshe Eshkenazi racconta ad alcuni
uiciali della polizia di frontiera israeliana la storia di come suo nonno Moshe
Pesach, il rabbino di Volos, in Grecia,
riuscì a mettere in salvo più di mille
ebrei durante la seconda guerra mondiale. Il 16 aprile gli israeliani hanno
celebrato la giornata dedicata al ricordo
dei sei milioni di ebrei uccisi durante la
shoah. Foto di Oded Balilty (Ap/Ansa)
Immagini
L’ascesa
Les Plans-sur-Bex, Svizzera
12 aprile 2015
Sciatori durante la 68ª edizione del Trophées du Muveran, una competizione di
sci alpinismo che si svolge ogni anno
sulle Alpi svizzere. La prima gara si è tenuta nel 1948. All’edizione di quest’anno hanno partecipato quasi mille sportivi. Il percorso principale è lungo 58 chilometri e ha un dislivello di oltre duemila metri. Foto di Jean-Christophe Bott
(Ap/Ansa)
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Renzi contro tutti
u L’articolo di Jim Yardley su
Matteo Renzi (Internazionale
1098) ha il tipico difetto del
giornalismo che racconta senza
dire nulla. Racconta che Renzi
vuole abolire il senato, ma non
dice che vuole abolire il senato
elettivo, per cui il senato rimane
ma al cittadino viene impedito
di scegliere il proprio candidato.
Racconta che Renzi vuole le riforme, ma non dice quali sono e
gli efetti deleteri che queste
provocano. Alla ine l’articolo dà
l’impressione che Renzi abbia
tutti contro perché vuol fare
troppo: questo giornalismo serve solo a creare confusione e io
mi chiedo se sia imperizia o malafede.
Massimiliano Bruzzoneo
Il maestro che vorrei
u La pur interessante inchiesta
“Il maestro che vorrei” (Internazionale 1098) credo trascuri
due punti fondamentali: 1) è la
scuola che deve adattarsi allo
studente e non viceversa, come
capita nella maggior parte dei
casi imponendo programmi di-
dattici dall’alto; 2) imparare
dev’essere un piacere e anche
un divertimento. L’andare a
scuola troppo spesso si traduce
in paura e angoscia per timore
del voto o dell’interrogazione.
Come faceva notare alcune settimane fa Galli della Loggia sul
Corriere della Sera, lo scopo del
sistema educativo, ino all’università, dovrebbe essere quello
di formare cittadini virtuosi,
mentre oggi sempre più il tutto è
declinato in una logica economicistica.
Sergio Sinigaglia
I ragazzi traditi
u Ho letto con molta tristezza
l’articolo “I ragazzi italiani traditi due volte” (Internazionale
1095). Sono italiana ma ho scelto di andare all’estero per i miei
studi, sono quasi alla ine del
mio percorso universitario e ho
sempre sognato, anche se dove
sono mi trovo molto bene, di poter trovare lavoro in Italia. Amo
il mio paese, la sua storia e l’arte invidiabile che possediamo.
Mi scoraggia molto leggere che i
ragazzi, dopo la laurea, sono costretti ad andare via dall’Italia
per ottenere un lavoro sicuro e
che grandi aziende rappresentative dell’economia italiana
siano obbligate a mettersi nelle
mani di paesi esteri. Voglio essere iduciosa e sperare che
non tornerò in Italia solo per
trascorrere le mie vacanze.
Sefora Multari
u Comincio sempre la lettura
di Internazionale dall’editoriale di Giovanni De Mauro e mi
rassicura trovare qualcuno con
cui essere in sintonia: mi sento
meno sola. La Siria riguarda
tutti perché ogni guerra ci riguarda e ogni pace può avvenire solo come evento collettivo e
conclusivo di un percorso di
uguaglianza e di consapevolezza della sacralità della vita.
Antonella Palmieri
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Non siamo supereroi
C’è un tema sul quale sono
molto rigido: ai bambini bisogna raccontare la verità. Se
spiegati nel modo giusto, sono
davvero pochi gli argomenti
che non possono capire. Inol-
10
tre credo che abbiate perso
un’ottima occasione per introdurre il tema della morte nel
modo meno duro perché, anche se provavate molto afetto
per il vostro cane, la sua morte
è un dramma minore rispetto
alla morte di una persona cara. A tuo nipote sarebbe servito per cominciare a concepire
l’idea che la vita inisce. Quindi ve lo dico chiaro e tondo:
non è stata una buona idea.
E questo era il pedante
consigliere per famiglie. Da
essere umano, invece, devo
svelarvi un segreto: gli adulti
non sono supereroi. Genitori,
zii, nonni: anche se agli occhi
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Domenico Starnone
Il male
peggiore
Probabilmente
Dear Daddy Claudio Rossi Marcelli
È da poco morto il cane di
famiglia e a mio nipote di
quattro anni è stato detto
che è partito per una lunga
vacanza. Io ero contraria a
raccontare balle, ma ti confesso che immaginarlo a
rincorrere palline su spiagge esotiche è meno straziante che saperlo nel cassonetto dell’ospedale. Tu
che ne pensi?–Anna
Parole
dei piccoli siamo infallibili e
onniscienti, in realtà stiamo
ancora crescendo anche noi.
Non è detto che gli adulti debbano sempre fare la cosa più
giusta e a volte è importante
relativizzare: chi sofre davvero per la scomparsa del vostro
cane non è il tuo nipotino di
quattro anni, siete voi. E se
immaginarlo che rincorre palline su una spiaggia bianca vi
aiuta a vivere meglio, allora va
bene così. In efetti è un’immagine talmente bella e commovente che quasi quasi convince anche me. u
[email protected]
u C’è molta gente che in ogni
circostanza, con tono scettico,
dice: non vedo la diferenza
tra. Per esempio, a un dibattito, ho sentito un tale che non
vedeva la diferenza tra le
bombe maiose che nel 19921993 fecero scempio di esseri
umani e di opere d’arte a Firenze, Roma e Milano; i tifosi
olandesi che hanno mutilato
tempo fa la Barcaccia; e i guerrieri del gruppo Stato islamico
che distruggono esistenze, città antiche e musei. Barbari –
ha detto questo signore – sia i
maiosi sia gli olandesi sia i distruttori islamisti. Ed è vero, la
barbarie cova ovunque, ma la
diferenza c’è. Il male dei maiosi d’Italia e dei tifosi d’Olanda è grezzo, ogni possibile sua
ragione è ributtante e insieme
futile. Il male dei guerrieri del
gruppo Stato islamico vanta
invece ragioni elevate. I distruttori si sentono agli ordini
di un dio che non tollera idoli e
infedeli in nessun luogo, in
nessun tempo. Essi versano a
iumi il sangue degli inermi e
fanno a pezzi opere d’arte in
nome di una legge divina che
fonderà un mondo moralmente e politicamente perfetto. Si
raccontano, insomma, bugie
nobili – come del resto noi ci
siamo raccontati spesso e ci
raccontiamo – per sentirsi dalla parte giusta e gridare: guai a
chi non è con me. Ma ogni gerarchia del male fondata sul
giusto, chiunque la proponga,
ci imbroglia. Il male necessario, quello che a in di bene
giustiica i mezzi più disgustosi, è il peggiore.
Editoriali
Quanti morti servono
“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,
di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”
William Shakespeare, Amleto
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22 aprile 2015
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Eric Bonse, Die Tageszeitung, Germania
Quante persone devono morire perché l’Unione
europea si occupi dell’emergenza dei migranti? Il
20 aprile abbiamo avuto una risposta cinica e brutale: almeno mille. Fino a qualche giorno prima,
infatti, quando nel Mediterraneo erano annegati
“solo” settecento profughi, Bruxelles e Berlino
continuavano a sottrarsi alle loro responsabilità.
Ora sembrano inalmente aver cambiato idea.
Tuttavia non sembra che sia in programma
un vero cambio di mentalità. Questo signiicherebbe mettere in discussione la “fortezza Europa” e aprire strade legali e sicure all’immigrazione. Ma per il momento non è previsto. L’Unione
vuole impegnarsi di più per soccorrere i naufraghi, è vero, ma allo stesso tempo ha intenzione di
raforzare la discussa agenzia per la protezione
delle frontiere, Frontex, che in futuro potrà perfino attaccare le imbarcazioni degli scafisti. I
traicanti di esseri umani sono stati individuati
come il nemico principale e un intero arsenale
sarà impiegato per mettere ine alle loro malefat-
te. Ma la criminalizzazione e la militarizzazione
non risolveranno il problema, perché le cause
sono altrove: nella povertà e nella guerra dall’altra parte del Mediterraneo.
Per questioni simili, però, l’Europa non è la
soluzione, ma è parte del problema. Con le sue
rigide regole sull’asilo e sull’immigrazione,
l’Unione è stata la prima a costringere i migranti
a salire sui barconi, perché non potevano viaggiare in modo legale. Con i suoi vertici e le sue
procedure, è stata l’Unione a permettere ai paesi
del nord di bloccare gli stati del Mediterraneo
come l’Italia e Malta, che avrebbero voluto passare all’azione già due anni fa, quando più di trecento rifugiati annegarono al largo di Lampedusa. Stavolta non potrà permetterselo: la pressione dell’opinione pubblica è troppo forte e bisogna mostrare dei risultati concreti. Ma non per
questo l’Europa diventerà più umana. Nel migliore dei casi sarà solo un po’ meno cinica e brutale. u fp
La falsa clemenza dell’Egitto
Le Monde, Francia
Anche in materia di repressione tutto è relativo: la
condanna a vent’anni di prigione dell’ex presidente egiziano Mohamed Morsi per l’uso della
violenza contro dei manifestanti nel 2012 è stata
paradossalmente considerata mite dalla maggior
parte degli osservatori. Il verdetto avrebbe potuto
essere più severo, se consideriamo la durezza dei
tribunali egiziani dopo che, nel luglio 2013, il maresciallo Abdel Fattah al Sisi ha rovesciato con un
colpo di stato Morsi e i Fratelli musulmani. Da
parte di un regime che ha ucciso più di 1.400 manifestanti, imprigionato circa quindicimila simpatizzanti del Fratelli musulmani in meno di due
anni e pronunciato centinaia di condanne a morte, la pena capitale o l’ergastolo per Morsi non
avrebbero stupito nessuno.
Ma questa apparente clemenza non deve nascondere la brutale realtà egiziana. Innanzitutto
questo è solo il primo dei processi contro l’ex presidente. Altri tre lo aspettano, di cui uno per “spionaggio”, in cui rischia la pena di morte. Inoltre la
repressione non accenna a diminuire, e Al Sisi ha
poco da invidiare ai metodi dei suoi predecessori,
Hosni Mubarak e Gamal Abdel Nasser. Negli ultimi mesi centinaia di oppositori, tra cui la guida
suprema dei Fratelli musulmani, Mohamed Ba-
die, sono stati condannati a morte con processi
sommari che l’Onu ha deinito “senza precedenti
nella storia recente”.
La stampa è imbavagliata. Gli uomini di Mubarak, per cui anche Al Sisi aveva prestato servizio
prima di diventare il ministro della difesa di Morsi, stanno tornando ai vertici. È vero che Al Sisi è
diventato presidente in seguito alle elezioni del
maggio 2014, ma solo dopo aver eliminato ogni
forma di opposizione. Questo non gli impedisce
di godere di una certa popolarità tra gli egiziani,
stremati dall’instabilità, dalla violenza e dalla paralisi economica che vanno avanti dall’inizio delle rivoluzioni arabe del 2011. E non ha impedito ai
paesi occidentali di mostrarsi indulgenti e ricominciare a vendere armi all’Egitto.
Dopo aver neutralizzato l’alternativa politica
rappresentata dai Fratelli musulmani, il presidente egiziano può ora permettersi di sospendere la repressione? Il paese non potrà riprendersi
se quel venti o trenta per cento di cittadini che
ancora sostiene i Fratelli musulmani continuerà
a essere brutalmente represso. Se il prossimo
verdetto contro Morsi confermerà la relativa clemenza di quello del 21 aprile, sarà un segnale
positivo. u as
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
13
In copertina
Il naufragio d
Hakim Bello, The Guardian, Regno Unito
l ragazzo vicino a me è caduto e
per un attimo non ho capito se era
svenuto o morto. Poi ho visto che
si copriva gli occhi per non dover
guardare più le onde. Una donna
incinta vomitava e urlava. Quelli
sottocoperta gridavano che non riuscivano
a respirare. Gli scaisti sono scesi e hanno
cominciato a picchiarli. Quando abbiamo
visto l’elicottero dei soccorsi, due giorni dopo che il nostro barcone aveva lasciato la
Libia con 250 persone a bordo, qualcuno era
già morto, trascinato in mare dalle onde o
sofocato nella stiva, al buio. Per me è molto
doloroso ricordare queste cose, ma è importante che la gente capisca quello che sta
succedendo e perché. Quattro anni fa ho
pagato un traicante perché mi portasse via
dalla Libia.
Sono una delle migliaia di persone che
dopo le rivolte della primavera araba del
2011 sono arrivate in Europa attraversando
il mar Mediterraneo. La frontiera più pericolosa del mondo. Ognuno di noi aveva un
motivo diverso per partire: qualcuno pensava di trovare una vita migliore in Europa,
altri volevano solo scappare da una zona di
guerra. Ma tutti eravamo convinti di non
avere altra scelta.
Io sono originario della Nigeria e quando è scoppiata la guerra vivevo in Libia da
cinque anni. Lavoravo come sarto e guadagnavo abbastanza da mandare un po’ di
soldi a casa. Ma quando sono cominciati gli
scontri, i neri come me si sono trovati in una
posizione diicile, perché tutti i giovani era-
I
14
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
no armati, sapevano che avevamo soldi in
casa e che potevano derubarci. Se uscivi a
comprare qualcosa da mangiare, c’era sempre una banda che ti fermava e ti chiedeva
da che parte stavi. E tu non sapevi se davanti avevi soldati ribelli o governativi.
Non potevo tornare in Nigeria, le strade
che andavano a sud erano bloccate, poi a
Tripoli ho conosciuto delle persone che dicevano di conoscere un modo per arrivare
in Italia. Ci hanno portato su una spiaggia
fuori città dove erano già accampate centinaia di persone in attesa di partire. Alcune
venivano dalla Siria, altre dall’Algeria o
dall’Egitto. Ma la maggior parte arrivava
dall’Africa occidentale o orientale. Molti
erano uomini, ma c’erano anche donne e
famiglie con bambini piccoli. Il costo della
traversata non era uguale per tutti: dipendeva dai contatti che avevi e da quanto eri
disperato. Io ho pagato 400 dinari, che
all’epoca equivalevano a 350 euro ed erano
il salario di una settimana. I traicanti avevano preso dei vecchi pescherecci, alcuni
così vecchi che non avrebbero più dovuto
essere usati. Ci avevano montato dei motori nuovi e avevano aidato il timone a persone che conoscevano. Il “capitano” poteva
anche non sapere la rotta per l’Italia e non
aver mai guidato una barca.
Quando il peschereccio in cui mi trovavo è salpato, temevamo che il motore non
reggesse, ma presto ci siamo resi conto che
il vero problema erano le onde. Il barcone
non era stato costruito per reggere quel tipo
di viaggi e ogni volta che arrivava un’onda
DArrIN ZAMMIT LUPI (rEUTErS/CONTrASTO)
Il numero dei migranti annegati dall’inizio
dell’anno mentre cercavano di attraversare il
Mediterraneo è trenta volte più alto rispetto allo
stesso periodo del 2014. Il racconto di un ragazzo
nigeriano sopravvissuto alla traversata
alta rischiava di capovolgersi. L’unica cosa
che potevo fare era pregare, avevo la sensazione di essere già morto.
Questo succedeva nel 2011. Oggi le persone accampate sulla costa libica in attesa
che arrivi il loro turno sono molte di più.
dell’Europa
Malta, 20 aprile 2015. Sopravvissuti al naufragio avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 aprile al largo delle coste libiche
Quando ho saputo che alcuni politici britannici erano contrari a un’operazione di
salvataggio nel Mediterraneo ho pensato
che appartenessero a un partito di estrema
destra. Solo dopo mi sono reso conto che
invece era la politica uiciale del governo
britannico. È una decisione terribile. Tutta
l’Europa ha il dovere di impedire che le persone continuino ad annegare. Molte sono
state costrette a lasciare il proprio paese anche a causa del comportamento degli stati
europei in Africa. L’Italia sta facendo molto
per salvare i rifugiati e ha bisogno di aiuto. Il
Regno Unito, il Belgio e la Germania pensano di essere lontani dall’Africa e di non avere nessuna responsabilità, ma tutti hanno
partecipato alla sua colonizzazione. La Nato ha partecipato alla guerra in Libia. Il proInternazionale 1099 | 24 aprile 2015
15
In copertina
Da sapere
Gli arrivi dal mare
Numero di migranti sbarcati sulle coste italiane
dal 2006 al 2015. Fonte: ministero dell’interno italiano
2006
22.016
2007
20.455
2008
36.951
2009
9.573
2010
4.406
2011
2012
2013
62.692
13.267
42.925
2014
2015
170.100
26.556*
*ino al 19 aprile
16
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Catania, 20 aprile 2015. Uno dei naufraghi salvati
TULLIo M. PUGLIA (GETTy IMAGES)
blema riguarda tutti. Il nostro viaggio non è
inito quando siamo arrivati a terra. Dopo
che l’elicottero ha avvistato il nostro peschereccio, una nave italiana ci ha raccolti e
portati a Lampedusa. Lì siamo stati rinchiusi in un centro di accoglienza che sembrava
una prigione. Poi io sono stato mandato in
un paese del sud d’Italia e ho avuto la fortuna di trovare lavoro. Cucivo tende, ma mi
pagavano così poco che non mi bastava per
vivere. Quindi ho pensato di andare a cercare lavoro in Nordeuropa. Sono andato a
Berlino e mi hanno oferto dei lavori, ma
non potevo accettarli perché non avevo i
documenti giusti. In base al trattato di Dublino, i rifugiati sono costretti a rimanere
nel paese dove arrivano. Quando ho inito i
pochi soldi che avevo sono andato a vivere
in un campo abitato da rifugiati che lottavano per il diritto di vivere e lavorare in Germania. Nel campo si faceva politica e questo mi ha aiutato a prendere coscienza.
Perché la mia vita lì era peggiore di quella
che avevo vissuto sotto la dittatura di Gheddai? Credo nella democrazia, ma in Europa
sembra che esista solo per qualcuno. Abbiamo chiamato il nostro gruppo Lampedusa a
Berlino.
Io sono stato fortunato. A Berlino ho conosciuto la mia compagna e ora abbiamo
un bambino di tre mesi. Quando lo guardo
penso a quanto vorrei che vivesse in un
mondo migliore e non dovesse subire quello che ho subìto io. Quando sono partito da
Tripoli non avevo idea di quanto sarebbe
stato pericoloso. Prima di allora, ero salito
su una barca solo una volta in vita mia. E
non so neanche nuotare. u bt
Come evitare altre morti
nel Mediterraneo
Maximilian Popp, Der Spiegel, Germania
Le stragi ai conini dell’Unione
europea sono una conseguenza
delle scelte politiche di
Bruxelles. Che devono cambiare
Varsavia i funzionari della sede
centrale di Frontex, l’agenzia
europea per la gestione della
cooperazione internazionale
alle frontiere, contano gli ingressi irregolari
e i barconi di rifugiati. Dal dicembre del
2013 l’agenzia sta spendendo centinaia di
milioni di euro per sorvegliare le frontiere
con droni e satelliti. L’Unione europea registra tutto quello che succede ai suoi conini.
Al contrario di quello che spesso si dice, non
distoglie lo sguardo di fronte alla morte dei
profughi, ma la osserva con attenzione. Il
problema in questo caso non è la negligenza, ma l’omicidio intenzionale.
Da anni molte persone perdono la vita
cercando di fuggire verso l’Europa. Annegano nel Mediterraneo, muoiono dissanguate sulle recinzioni ai conini di Ceuta e
Melilla o assiderate sui monti tra l’Ungheria
e l’Ucraina. Ma a quanto pare l’opinione
pubblica europea non è ancora del tutto
A
consapevole dell’entità di questa catastrofe. Siamo complici di uno dei più grandi crimini della storia europea dal dopoguerra.
Probabilmente tra vent’anni i tribunali o gli
storici si occuperanno di questo periodo
oscuro. E non solo i politici, ma anche noi
comuni cittadini dovremo abituarci a sentirci chiedere cosa abbiamo fatto contro la
barbarie compiuta in nostro nome.
La morte dei rifugiati lungo le frontiere
dell’Europa non è una sciagura, ma il risultato diretto della politica europea. La costituzione e la carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea promettono protezione alle persone che fuggono dalla guerra o
dalla persecuzione politica. Eppure gli stati
dell’Unione cercano di afossare questo diritto da anni. Chi vuole chiedere asilo in
Europa deve prima arrivare sul territorio
europeo e questo è stato reso quasi impossibile dalla politica dell’Unione, che lungo le
sue frontiere ha innalzato alte recinzioni,
ha schierato soldati e inviato navi da guerra
per tenere lontani i profughi.
Per chi fugge dalla Siria o dall’Eritrea in
cerca di protezione non esistono vie legali e
sicure per arrivare in Europa. I rifugiati socontinua a pagina 18 »
L’opinione
Aprire tutte le frontiere
Nicola Perugini, Al Jazeera, Qatar
L’Europa ha creato un
sistema che dà libertà di
movimento ai suoi cittadini
ma lascia morire i migranti
stata la più grave tragedia del
mar Mediterraneo nella storia
delle migrazioni. Secondo le
testimonianze di alcuni sopravvissuti, nell’imbarcazione che è
afondata al largo delle coste libiche
nella notte tra il 18 e il 19 aprile c’erano
più di settecento migranti provenienti
soprattutto dall’Africa subsahariana.
Ormai siamo abituati a notizie simili, e
questo è uno degli aspetti più terriicanti. Proprio così: noi – europei bianchi di diverse nazionalità in possesso
di passaporti che ci aprono tutte le porte – ci siamo abituati alle migliaia di
corpi non bianchi che afondano nelle
acque del Mediterraneo, come in passato ci siamo abituati a molte altre forme di sterminio portate avanti per motivi etnici. Come è potuto succedere?
Le politiche europee nel Mediterraneo hanno sempre oscillato tra l’approccio umanitario e quello che mette
la sicurezza al primo posto. I dibattiti
sulle migrazioni fanno emergere le nostre contraddizioni. Le discussioni sono impostate come se i processi che
hanno trasformato il Mediterraneo nel
più grande cimitero marino del mondo
siano separati dall’ordinamento giuridico e territoriale costruito con gli accordi di Schengen. Un sistema che ha
trasformato un parte dell’Europa in
un’unica unità territoriale e allo stesso
tempo ha costruito un muro per impedire a chi ha un passaporto asiatico o
africano di entrarci. Schengen in fondo
distingue tra bianchi con passaporto e
neri con passaporto e non riconosce ai
secondi i diritti umani universali, a
è
partire dalla libertà di movimento. Deinire Schengen come una conquista europea (“l’Europa non ha conini!”) e contemporaneamente ignorare gli efetti politici che ha sui migranti ci consente di
parlare di “incidenti” quando le persone
annegano lungo le nostre frontiere marittime e di negare che a ucciderle siano state le nostre leggi.
Nell’ottobre del 2013, dopo il naufragio al largo di Lampedusa in cui morirono
366 persone, il governo italiano ha creato,
in collaborazione con i governi nordafricani, l’operazione militare e umanitaria
Mare nostrum. Le tante missioni di salvataggio compiute non hanno comunque
evitato la morte di molti migranti.
Nel novembre del 2014 Mare nostrum
è stata sostituita da Triton, un’operazione
gestita dall’agenzia europea di controllo
delle frontiere (Frontex), il cui mandato è
quello di sostenere le autorità italiane nella raccolta di informazioni sulle reti di
traicanti di esseri umani che operano nei
paesi di origine e di transito dei migranti.
Il dovere morale e legale del salvataggio è passato in secondo piano rispetto
all’imperativo del controllo delle frontiere e della prevenzione del traico di esseri
umani.
Le dichiarazioni della destra
Da allora la tensione tra salvataggio e difesa delle frontiere ha continuato a caratterizzare il dibattito europeo sull’immigrazione. Nel frattempo i migranti continuano a morire, mentre gli accordi di
Schengen naturalmente continuano a essere inviolabili.
Negli ultimi mesi si sono moltiplicati
gli appelli dei politici europei favorevoli
alla sospensione di qualsiasi operazione
di salvataggio nelle acque dell’Europa
meridionale. “Non sosterremo operazioni pianiicate per la ricerca e il salvataggio
nel Mediterraneo”, ha detto nell’ottobre
del 2014 Philip Hammond, ministro
degli esteri britannico. Secondo Hammond questo tipo di missioni avrebbe
incoraggiato altri migranti a tentare il
rischioso viaggio in mare e provocato
ulteriori morti tragiche e non necessarie. “Dobbiamo afondare le barche
che trasportano i migranti. Un atto di
guerra è meglio che perdere una guerra”, ha detto il 19 aprile Daniela Santanchè, deputata di Forza Italia. Altri
politici italiani di destra sono tornati a
chiedere un blocco navale internazionale davanti alle coste dalla Libia.
In queste dichiarazioni c’è un esplicito impulso omicida. Ma sbaglieremmo a considerarle casi isolati di follia
politica. È molto più terriicante ammettere che noi – cittadini europei che
grazie a Schengen godiamo della massima libertà di movimento – abbiamo
inito per considerare normali i massacri nel Mediterraneo. Li abbiamo tollerati proprio perché ci sentiamo meno
colpevoli dopo aver sentito gli estremisti di destra o i falchi del governo articolare i loro virulenti discorsi razzisti.
Diciamo a noi stessi: “Questo è troppo,
abbiamo l’obbligo morale di salvare vite umane”. Ma c’è un problema: il salvataggio – che secondo noi sarebbe la
soluzione al problema – è semplicemente parte del processo di interiorizzazione delle nostre leggi omicide. Anzi, il salvataggio è parte integrante di
quel meccanismo omicida legalizzato
che serenamente deiniamo gestione
dei lussi migratori. Centinaia di esseri
umani hanno perso la vita la notte tra il
18 e il 19 aprile mentre un mercantile
portoghese si avvicinava al peschereccio in cui si trovavano. I migranti si sono spostati sul ianco più vicino al mercantile per poter essere salvati. Il peso
dei loro corpi ha inito per capovolgere
il peschereccio. Così centinaia di persone sono morte. Lasciarsi sconvolgere dalle dichiarazioni dell’estrema destra sulle operazioni di salvataggio non
basta. Dovremmo chiedere ai nostri
governi di rinunciare ai privilegi oferti
dal trattato di Schengen e aprire le nostre frontiere. u gim
Nicola Perugini è un antropologo italiano che insegna alla Brown University.
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
17
In copertina
no costretti a entrare nel territorio
dell’Unione come migranti “irregolari”,
percorrendo rotte pericolose e spaventose,
come quella che passa per il mar Mediterraneo. Lungo le frontiere dell’Europa si è
creato un meccanismo darwiniano: solo chi
ha i soldi per pagare i traicanti di esseri
umani o la tenacia per continuare a lanciarsi contro le recinzioni avrà forse l’opportunità di chiedere asilo in Europa. Poveri,
malati, vecchi, famiglie e bambini sono in
gran parte abbandonati alla loro sorte. Il sistema con cui l’Europa gestisce le richieste
d’asilo è la perversione del diritto d’asilo.
Le riforme necessarie
Dopo il naufragio avvenuto nella notte tra il
18 e il 19 aprile, in cui sono morte 800 persone, la cifra più alta mai registrata inora,
in Europa c’è grande costernazione. Per
l’ennesima volta si sente dire che tragedie
simili non devono più ripetersi, proprio
com’è successo dopo il disastro avvenuto al
largo di Lampedusa nell’autunno del 2013 e
quello nelle acque di Malta nel settembre
del 2014. Il 20 aprile c’è stato il rischio che
tutto si ripetesse di nuovo: centinaia di persone a bordo di una nave di profughi hanno
rischiato di naufragare nel Mediterraneo.
I leader europei condannano il dramma
dei rifugiati ma poi continuano a voler tenere chiuse le frontiere, che è il presupposto
stesso di questi incidenti. I capi di stato e di
governo dell’Unione europea e i loro ministri dell’interno non possono più mantenere questa posizione. Bruxelles deve istituire
immediatamente vie legali che permettano
ai profughi di raggiungere l’Europa. L’Alto
commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e organizzazioni umanitarie
come Pro asyl o Human rights watch hanno
spiegato da tempo come si potrebbe procedere. Ecco i punti principali.
1. Mare nostrum, l’operazione della marina italiana che ha salvato centinaia di migliaia di rifugiati dall’annegamento, deve
riprendere immediatamente. L’operazione
Triton della Frontex, che serve a respingere
i migranti, dev’essere annullata.
2. L’Unione europea dovrebbe concedere asilo attraverso le ambasciate. In questo
modo i profughi potrebbero presentare domanda di protezione nelle sedi diplomatiche degli stati dell’Unione e gli verrebbero
risparmiati viaggi molto rischiosi.
3. L’Unione europea deve partecipare
seriamente al programma di reinsediamento dell’Unhcr. Le Nazioni Unite trasferisco-
18
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
no da anni i profughi che scappano da zone
di crisi in paesi sicuri per un periodo di tempo limitato, senza complesse procedure
burocratiche per la richiesta d’asilo. Attualmente l’Unhcr sta cercando di capire dove
sistemare centinaia di migliaia di profughi.
Nel 2013 il Nordamerica ne ha accolti più di
novemila, la Germania trecento.
4. L’obbligo del visto per i cittadini di
paesi in crisi come la Siria o l’Eritrea dovrebbe essere temporaneamente sospeso.
In questo modo i profughi potrebbero chiedere di entrare in Europa senza essere respinti automaticamente. Il regolamento di
Dublino, che vieta ai rifugiati di viaggiare in
altri paesi una volta arrivati in Europa,
dev’essere abolito. I richiedenti asilo dovrebbero essere distribuiti nei vari stati
dell’Unione europea in base a un sistema di
quote. La libertà di circolazione garantita ai
cittadini dell’Unione dovrebbe essere estesa a tutte le persone a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato.
5. A chi fugge dalla povertà e non solo
dalla persecuzione politica bisognerebbe
ofrire la possibilità di emigrare per lavoro,
per esempio con un permesso di soggiorno
per migranti provenienti dai paesi poveri.
Queste riforme non eliminerebbero di
colpo l’immigrazione irregolare, ma contribuirebbero a ridurre la soferenza. A diferenza di quanto dicono i leader politici europei, le morti lungo le frontiere dell’Unione possono essere evitate o comunque
drasticamente ridotte. Ma per farlo occorre
che gli europei dimostrino di voler proteggere anche gli esseri umani, non solo le
frontiere. u fp
Da sapere
In cerca d’asilo
Paesi europei con più richieste d’asilo, in migliaia
Germania
173
75
Svezia
Italia
63
Francia
59
Ungheria
41
Regno Unito
31
Austria
28
Paesi Bassi
24
Danimarca
15
Belgio
14
Dati 2014
Fonte: The Economist
Da sapere
Ultime notizie
u Tra il 18 e il 19 aprile al largo delle
coste libiche è afondato un peschereccio con almeno 800 persone a bordo.
Era partito il 18 aprile da una località a
50 chilometri da Tripoli. La prima nave
a prestare soccorso è stata il mercantile portoghese King Jacob. I sopravvissuti sono 28 e le salme recuperate 24. Il
20 aprile la guardia costiera italiana ha
portato i cadaveri a Malta e il 21 aprile
i superstiti a Catania. I funerali delle
vittime si dovrebbero svolgere il 27
aprile a Malta. I sopravvissuti hanno
indicato alla polizia il presunto “capitano”, Mohamed Ali Malek, 27 anni,
tunisino, e il suo aiutante Mahmud Bikhit, 25 anni, siriano, arrestati dopo lo
sbarco in Sicilia. Secondo la procura di
Catania Malek, con una manovra sbagliata, avrebbe fatto sbattere il peschereccio contro il mercantile portoghese.
Il naufragio sarebbe stato provocato
dalla collisione e dal sovrafollamento
del peschereccio.
u Il 20 aprile la guardia costiera greca
ha salvato 90 migranti su un’imbarcazione incagliata poco al largo dell’isola
di Rodi. Tre persone sono morte nel
tentativo di raggiungere la riva.
u Il 23 aprile si è svolto a Bruxelles un
consiglio europeo straordinario per discutere dell’emergenza umanitaria nel
Mediterraneo. I ministri degli esteri e
dell’interno dell’Unione europea hanno proposto un piano in dieci punti.
Tra questi, il raforzamento delle operazioni Triton e Poseidon, lo stanziamento di più risorse inanziarie per
fronteggiare l’emergenza e l’aumento
degli sforzi per la distruzione dei barconi.
ANgELos TzoRTzINIs (AFp/gETTy IMAgEs)
Grecia, 18 aprile 2015. Migranti nel porto di Lesbo
Un crimine
contro l’umanità
Claude Calame, Le Temps, Svizzera
In quindici anni più di 22mila
migranti sono morti nel
Mediterraneo. E i sopravvissuti
sono trattati in modo disumano
ono stati 3.419 i migranti morti nel
Mediterraneo nel 2014. Nel 2015
trecento migranti hanno perso la
vita nella seconda settimana di
febbraio 2015 al largo di Lampedusa, quattrocento il 14 aprile al largo della Libia e
altri ottocento nella notte tra il 18 e il 19
aprile sempre al largo delle coste libiche.
Questo è il bilancio drammatico della politica di chiusura delle frontiere decisa
dall’Unione europea.
Anche la Francia ha deciso di erigere
dei muri contro i migranti. A Calais sono
S
stati sgomberati i campi e i migranti sono
stati sistemati lontano da tutto e da tutti.
Un rapporto di Human rights watch denuncia le condizioni in cui sono costretti a
vivere tremila migranti che a Calais e nei
dintorni aspettano di raggiungere clandestinamente il Regno Unito o attendono di
sapere l’esito incerto di una richiesta d’asilo fatta in Francia. E a questa situazione di
estrema precarietà va aggiunta la repressione da parte della polizia. Nel giugno del
2014 sono stati prima svuotati e poi chiusi
tre campi rom. All’inizio di aprile di
quest’anno tutti i campi improvvisati sono
stati sgomberati e i migranti sono stati raccolti dove prima c’era un’ex discarica, alla
periferia dalla città.
Dall’estate scorsa le associazioni di sostegno ai migranti attive a Calais segnala-
no il pessimo stato di questi accampamenti improvvisati: non c’è acqua, non ci sono i
bagni, i riiuti non vengono raccolti, non è
possibile scaldare il cibo se non su fuochi
accesi con materiali spesso tossici, non
vengono distribuiti pasti regolari e non viene oferta alcuna forma di assistenza medica. All’indigenza materiale si aggiunge la
miseria morale provocata da vari fattori: la
prospettiva di dover attraversare la Manica, le minacce d’espulsione, le pressioni
esercitate dai traicanti, gli inevitabili conlitti e le violenze della polizia denunciate
da Human rights watch. A tutto questo si
devono aggiungere le esperienze traumatizzanti che i migranti hanno subìto attraversando il Mediterraneo e l’Europa.
Agli afgani e agli iracheni si sono sostituiti i sudanesi, gli eritrei e i siriani. L’Unione europea accetta solo quote minime di
siriani, mentre il Libano ne accoglie più di
un milione. Migranti “illegali”, il cui unico
crimine è quello di essere fuggiti da situazioni di guerra o di repressione estreme,
quindi, nella maggior parte dei casi, di essere dei rifugiati, secondo quanto stabilito
dalla comunità internazionale.
Cosa fa intanto il governo francese? Nel
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
19
novembre del 2014 il ministro dell’interno
Bernard Cazeneuve ha promesso di costruire un centro di accoglienza diurno con
appena quattrocento posti. Due mesi prima, però, aveva ottenuto 15 milioni di euro
dalla ministra dell’interno britannica Theresa May per erigere e pattugliare una barriera di sicurezza che impedisse ai migranti qualsiasi accesso al porto di Calais. Per
quanto riguarda le frontiere meridionali
dell’Unione europea, invece, Parigi ha sostenuto il passaggio dall’operazione Mare
nostrum all’operazione Triton. Invece del
sostegno concreto dato dal governo italiano ai migranti in diicoltà nel Mediterraneo, il governo francese ha scelto di appoggiare un’operazione di pattugliamento e
blocco delle frontiere meridionali dell’Europa. Triton è responsabile delle morti dei
migranti registrate da febbraio nel Mediterraneo.
Muri e campi di accoglienza
La politica d’intimidazione, repressione ed
espulsione dei migranti condotta a Calais
è solo una parte della strategia decisa
dall’Unione europea per chiudere le frontiere davanti a qualsiasi forma di migrazione indesiderata. L’Unione europea fa in
modo che le vittime della sua politica di
connivenza con il potere economico, finanziario e militare occidentale non si possano rivolgere a lei. Ormai, con i muri e i
campi di accoglienza, diventati per molti
dei veri e propri campi di concentramento.
Ci stiamo avvicinando alla deinizione di
crimine contro l’umanità: la “violazione
deliberata e contraria della dignità della
persona, dei diritti fondamentali di un individuo o di un gruppo di individui dovuta
a motivi politici, ideologici, razziali o religiosi”. Ricordiamo che, oltre allo sterminio, alla riduzione in schiavitù, alla prostituzione forzata o alla persecuzione di un
gruppo di persone, l’articolo 7 dello Statuto
di Roma della Corte penale internazionale
deinisce crimine contro l’umanità anche
“altri atti inumani (...) diretti a provocare
intenzionalmente grandi soferenze o gravi danni all’integrità isica o alla salute isica o mentale”.
A causa della politica di respingimento
dei migranti attuata dall’Unione europea,
i morti nel Mediterraneo dal duemila sono
ormai più di 22mila. Questo non dovrebbe
essere riconosciuto come crimine contro
l’umanità, rispettando le deinizioni date
dalle convenzioni internazionali? u gim
20
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
ALBERTO PIzzOLI (AFP/GETTy IMAGES)
In copertina
Migranti nel porto di Augusta, il 22 aprile 2015
Gli afari milionari
dei traicanti africani
Matina Stevis, The Wall Street Journal, Stati Uniti
a morte di centinaia di migranti
nel Mediterraneo è la diretta conseguenza di un traico milionario
di esseri umani gestito da milizie,
capi tribali e banditi libici. Secondo Arezo
Makakooti, una dirigente dell’Altai Consulting (società di consulenza che collabora
con l’Organizzazione internazionale per le
migrazioni), in Libia ci sono gruppi armati
che sponsorizzano i loro servizi tra i migranti provenienti dall’Africa subsahariana e i
siriani in fuga dalla guerra. Presentano il
caos in Libia come un’occasione irripetibile
per garantirsi un passaggio sicuro verso
l’Europa.
“I profitti del traffico di esseri umani
hanno contribuito a consolidare una nuova
struttura di potere nel Sahel e in Libia”, sostiene Tuesday Reitano, direttrice della
Global initiative against transnational organized crime. Secondo Reitano, la tribù
dei tubu guadagna sessantamila dollari a
settimana dai passaggi in macchina che offre ai migranti dell’Africa occidentale per
raggiungere Agadez, una città del Niger. Da
lì i migranti sono trasportati a Sebha, nella
Libia centrale, e poi verso nord, dove li
aspetta il viaggio in mare verso l’Italia.
L
I proitti sono così alti da portare i gruppi
tribali a combattere tra loro per il controllo
delle tratte. I contrabbandieri fanno viaggiare i migranti da Ghat, che si trova nel
sudovest della Libia, alle città di Awbari e
Sebha. Questo tragitto verso nordest è molto pericoloso, perché i tubu si scontrano con
i tuareg per il suo controllo. A Sebha gli uomini lavorano per mesi come braccianti e le
donne come domestiche per guadagnare i
mille dollari necessari a pagare il viaggio
ino alla costa settentrionale della Libia.
Finora l’Europa non è riuscita a smantellare queste reti. Secondo Frontex, l’agenzia europea per la gestione delle frontiere,
nel 2014 le autorità dell’Unione europea
hanno arrestato diecimila persone accusate
di aver favorito il traico di esseri umani.
Ma si tratta di igure di secondo piano, come gli autisti dei camion che trasportano i
migranti o gli scaisti delle barche che attraversano il Mediterraneo. Dal 2014 le forze
dell’ordine italiane hanno arrestato mille
contrabbandieri ma non dispongono delle
risorse necessarie per smantellare i traici,
e il peggioramento della situazione in Libia
rende molto diicile catturare i pesci più
grossi. u gim
È un errore
fermare i migranti
invece, saranno abbandonati in mezzo al
mare dai traicanti, saranno inghiottiti dalle onde e moriranno annegati a pochi chilometri dalla terra promessa.
Quello che collega il Sudafrica a Dadaab
e alle rotte dell’immigrazione in Nordafrica
è che in tutti e tre i casi si tratta di africani in
movimento. Africani in cerca di una vita
senza guerra, persecuzioni e discriminazioni, che possa garantire a loro e ai loro
familiari un po’ di dignità, sicurezza e rispetto. Sono ancora troppi i paesi africani
che non ofrono queste opportunità ai loro
cittadini. E quelli che possono farlo non vogliono concederle a tutti.
Tutto questo è un errore, e non solo sul
piano morale o dei diritti umani. È un errore anche dal punto di vista pratico, puramente egoistico: gli africani che riescono a
sfuggire alla povertà estrema e alle guerre
sono dei sopravvissuti. Sono imprenditori.
Sono i più disposti a lavorare sodo e ad assumersi dei rischi: sono gente temprata, in
grado di cavarsela dovunque. La storia è
dalla loro parte. Gli uomini sono sempre
stati e sono ancora in movimento. Il progresso del genere umano deriva anche dalla ricerca incessante di pascoli più verdi e di
nuove frontiere. Per quanto ci sforziamo,
non riusciremo mai a fermare le persone
che attraversano paesi e frontiere. Prima lo
accettiamo e cominciamo a coglierne i vantaggi, meglio sarà. Tanto, alla ine, a perdere saranno quelli che cercano di fermare
questo flusso, andando contro la natura
dell’essere umano. u ma
Simon Allison, Daily Maverick, Sudafrica
Dal Sudafrica alle coste del
Maghreb, chi parte in cerca di
un futuro migliore rischia la vita.
Ma la storia è dalla sua parte
N
Il prezzo da pagare
Spostandoci ancora più a nord arriviamo
alle spiagge bianche del mar Mediterraneo.
Qui ogni settimana centinaia di persone
rischiano la vita imbarcandosi su navi sgangherate guidate da equipaggi senza scrupoli che, in cambio di una somma spropositata, s’impegnano a portarle in Europa, dove
nel migliore dei casi si ritroveranno a spazzare strade e a pulire gabinetti. E, nonostante ciò, questi immigrati dovranno affrontare il risentimento degli europei, troppo egoisti per capire che ospitare stranieri
disposti a svolgere i lavori più umili è un
prezzo molto basso da pagare in cambio
della ricchezza sproporzionata che spesso
deriva proprio dalla rapina e dal saccheggio
delle terre altrui. I migranti meno fortunati,
Le rotte seguite da
profughi e migranti
per raggiungere
la costa libica,
2014-2015
Istanbul
ITALIA
SPAGNA
Zuwarah
MAROCCO
TuRCHIA
GRECIA
Algeri
Tripoli
Ajdabiya
Debdeb
Sebha
LIBIA
ARAbIA
SAuDITA
Kufra
Timiaouine
Dongola
Dirkou
MALI
Gao
Agadez
Niamey
Ouallam
bamako
NIGERIA
Cotonou
benin City
Migranti subsahariani In passato andavano
in Libia per trovare lavoro. Ma dopo l’inizio
della guerra civile sono costretti a proseguire
il viaggio verso l’Europa
IRAQ
Il Cairo
EGITTO
Qatrun
Tamanrasset
SIRIA
Damasco
bengasi
Ouargla
ALGERIA
FONTE: THE NEW YORK TIMES
onostante tutti i discorsi sul panafricanismo e sull’ubuntu
(un’espressione in lingua bantu
che significa “benevolenza
verso gli altri”), l’Africa è un continente che
sa come maltrattare i suoi igli, soprattutto
i più deboli. Cominciamo dal basso, dal Sudafrica, il motore economico e politico del
continente, un paese che si vanta di rispettare i diritti umani e le norme internazionali. In questo paese un capo tradizionale
della comunità zulu è salito agli onori della
cronaca prendendo di mira un facile bersaglio, gli “stranieri”. Le sue parole hanno
ispirato una serie di violenze contro gli immigrati (tutti africani), che sono stati cacciati dalle loro case e dai loro negozi, e sono
stati picchiati per il semplice fatto di venire
da un altro paese. Gli attacchi hanno causato sette morti.
Spostandoci verso nordest, in Kenya,
troviamo il campo profughi di Dadaab, il
più grande del mondo. Ospita centinaia di
migliaia di somali fuggiti dalla guerra. Neanche lì la vita è facile: il cibo scarseggia e il
lavoro ancora di più. Lo stato keniano fa di
tutto per impedire una vera integrazione
perché preferisce lasciare i rifugiati in una
specie di limbo, un purgatorio lontano da
casa.
A un certo punto il conlitto in Somalia
(a cui partecipa anche un contingente di
truppe keniane) si è inasprito e le conseguenze si sono fatte sentire anche in Kenya:
all’inizio di aprile 148 studenti dell’università di Garissa sono stati uccisi a sangue
freddo in un attentato rivendicato dai ribelli somali di Al Shabaab. Ora il Kenya vorrebbe chiudere il campo profughi di Dadaab entro tre mesi e rispedire tutti i rifugiati
in Somalia. Il signiicato sottinteso quale
sarebbe? Che i rifugiati somali rimangono
in Kenya perché gli va bene così, come se
fossero dei turisti che hanno comprato il
pacchetto vacanze peggiore del mondo e
ora hanno il visto scaduto? Del resto, chi
non abbandonerebbe la casa, il lavoro, gli
amici, la famiglia, i suoi terreni, i suoi averi
e la sua storia per andare a vivere in una
tenda polverosa in una striscia di terra arida e infuocata?
SuDAN
CIAD
ERITREA
Khartoum
Profughi siriani Quelli che
non riescono a ottenere
il visto nei paesi vicini volano
a Khartoum, in Sudan, per
poi andare in Libia e da lì
raggiungere l’Europa
Gallabat
Gondar
Jijiga
Kelafo
Juba
Gulu
Dolo
KENYA
beledweyne
SOMALIA
Mbale
Nairobi
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
21
Europa
Cent’anni di silenzio
sul genocidio armeno
Il 24 aprile è il centesimo
anniversario del primo
genocidio europeo. L’opinione
di un giornale armeno
gruppi sunniti radicali finanziati
dall’Arabia Saudita e dal Qatar continuano a estendere il loro controllo su
alcune zone dell’Iraq e della Siria. Nei
villaggi occupati i cristiani sono sistematicamente massacrati. Tra i più colpiti ci sono
gli yazidi, i mandei e gli altri “eretici” che
includono anche gli sciiti e i sunniti moderati. E i politici europei si ostinano a “non
prestare attenzione” al fatto che i crimini
contro queste minoranze si svolgono nelle
stesse regioni dove un secolo fa avvenne il
genocidio degli armeni. Con la diferenza
che all’epoca gli armeni, gli assiri e i greci
della regione del Ponto furono sterminati
dai turchi.
Ogni tentativo di fare un paragone tra
quello che sta succedendo nelle ex province
arabe dell’Impero ottomano e il genocidio
degli armeni suscita l’indignazione del governo turco. A quanto pare la storia non ha
insegnato niente. La particolarità del genocidio degli armeni, compiuto tra la fine
dell’ottocento e l’inizio del novecento, sta
prima di tutto nelle dimensioni del massacro e nel fatto che quel crimine è rimasto
impunito. Inoltre, il massacro avvenne sotto gli occhi di una comunità internazionale
che si ostinava a non vedere quello che stava succedendo. Non solo: dimostrando una
sfrontata ipocrisia, la maggioranza dei paesi non ha mai ammesso che fu un genocidio.
Inine, fu il primo sterminio di massa basato
sul criterio della nazionalità compiuto da
un paese che rivendicava la sua appartenenza al mondo moderno.
Il genocidio degli armeni ha diversi
punti in comune con l’olocausto organizzato alcuni decenni dopo dai nazisti: la stessa
ferocia, l’indiferenza della comunità internazionale e un numero ristretto di persone
che hanno cercato di conservare le prove
dei crimini. Ma mentre i crimini nazisti so-
I
22
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
no stati riconosciuti quasi universalmente,
per il genocidio degli armeni i progressi sono molto scarsi e comunque non suicienti
a soddisfare i parenti delle vittime, cioè la
maggioranza degli armeni che vivono sparsi per il mondo. La spiegazione è semplice e
sta nella diferenza tra la Germania del dopoguerra e la Turchia. Dopo la ine della
seconda guerra mondiale, le potenze vincitrici imposero alla Germania un processo
di denaziicazione. Lo sterminio degli ebrei
è stato considerato un elemento fondamentale dell’ideologia nazista e l’apologia
del nazismo è stata vietata. In Turchia, invece, l’intera classe politica era e rimane
composta da persone che parteciparono al
genocidio degli armeni o dai loro discendenti diretti. Il passaggio dalla Turchia di
Atatürk a quella di Erdoğan non ha cambiato niente: gli islamisti riiutano di riconoscere i crimini dei loro antenati con la stessa
energia dei kemalisti. Un altro elemento
importante è il fatto che l’Armenia è stata
una repubblica sovietica ino al 1991, mentre la Turchia fa parte della Nato ed è membro associato dell’Unione europea. Era
chiaro dove si sarebbero indirizzate le simpatie della comunità internazionale.
Da sapere
Riconoscimento diicile
u Il 24 aprile, giornata del ricordo del
genocidio armeno, ricorre il centesimo
anniversario dello sterminio di centinaia di
migliaia di armeni – secondo alcuni storici più
di un milione – da parte delle forze turche. Le
uccisioni e le deportazioni di massa della
popolazione cristiana dell’Armenia
occidentale furono decise dall’impero
ottomano dopo le sconitte subite all’inizio
della prima guerra mondiale contro l’esercito
russo, in cui militavano anche battaglioni di
volontari armeni.
u I paesi che hanno riconosciuto uicialmente
il genocidio sono ventiquattro. L’Italia l’ha
fatto nel 2000. Ankara continua a negare il
genocidio, e questo rimane uno dei principali
ostacoli nei negoziati per l’ingresso della
Turchia nell’Unione europea.
CONTRASTO
Evgenij Satanovskij, Novoe Vremja, Armenia
Di solito si deinisce genocidio lo sterminio degli armeni nei territori controllati
dall’impero ottomano a partire dal 1915
(durato secondo alcune fonti ino al 1923). Il
genocidio si svolse in diverse fasi: disarmo
dei soldati armeni, deportazione selettiva
degli abitanti delle regioni di frontiera, adozione di una legge sulle espulsioni, deportazione di massa e uccisioni. Alcuni storici
includono nel genocidio anche le stragi di
massa degli armeni negli anni ottanta
dell’ottocento, il massacro della città di Izmir e i soprusi compiuti dalle truppe turche
in Transcaucasia nel 1918. Mehmet Talât ,
Ahmed Gemal e Ismail Enver, dirigenti del
movimento dei Giovani turchi, e Bahattin
Şakir, capo delle forze speciali dell’impero
ottomano, sono considerati i principali organizzatori del genocidio. Il Regno Unito, la
Francia e la Russia furono i primi paesi a deinire (in una dichiarazione del 24 maggio
del 1915) un crimine contro l’umanità il
massacro degli armeni.
Cultura rasa al suolo
Il numero di armeni uccisi è una questione
che continua a suscitare polemiche, così
come il numero di armeni che vivevano in
quei territori. Le autorità turche ostacolano
qualunque tentativo di indagine rigorosa. Si
sa che intorno alla metà dell’ottocento la
popolazione dell’impero era composta per
L’opinione
L’ipocrisia del governo turco
Cengiz Aktar, Al Jazeera, Qatar
Ankara continua a negare lo
sterminio. Perché riconoscerlo
signiicherebbe mettere in
discussione la repubblica stessa
e apriamo i libri di storia europea si parla dell’Africa,
dell’Asia. Ma dove sono gli aborigeni australiani? Dove sono i nativi americani? Dove sono le tante tribù africane?
Noi non abbiamo mai avuto ghetti. I ghetti
sono un’invenzione europea”. Le parole di
Ahmet Davutoğlu, primo ministro turco,
dimostrano che le autorità di Ankara hanno reagito duramente alle ultime condanne del genocidio degli armeni. La prima è
arrivata da papa Francesco, che il 12 aprile
ha parlato dei massacri degli armeni ottomani nel 1915-1916 deinendoli il primo
genocidio del ventesimo secolo. Qualche
giorno dopo il parlamento europeo ha
chiesto di nuovo alla Turchia di riconoscere il genocidio, un passo che permetterebbe una vera riconciliazione con l’Armenia.
Ma Ankara ha ignorato questi appelli e
si è preparata a modo suo al 24 aprile, la
giornata del ricordo per gli armeni. Il governo ha deciso di anticipare dal 25 al 24
aprile le commemorazioni legate all’Anzac day, che ricorda la battaglia di Gallipoli durante la prima guerra mondiale: una
mossa pensata per oscurare le commemorazioni del centenario del genocidio. Nel
frattempo i funzionari turchi continuano a
fare pressioni sui governi stranieri per assicurarsi che la parola genocidio non sia
pronunciata in nessun evento legato al
centenario. Quasi ogni anno in questo periodo qualche politico turco va a Washington per convincere i funzionari statunitensi a schierarsi contro l’uso della parola
“genocidio” per descrivere il massacro di
un milione e mezzo di armeni.
Alti funzionari turchi di tutti gli schieramenti politici – tranne quelli curdi – si
sono scagliati contro il papa e i parlamentari europei. In un attacco di rabbia, Ankara ha richiamato il suo ambasciatore presso la Santa Sede. Il presidente Recep
“S
Erevan, Armenia, 28 maggio 2013
il 56 per cento da non musulmani. Il primo
censimento della popolazione nel 1844 parlava di quasi due milioni di armeni in Turchia orientale. Nel 1867, all’Esposizione
universale di Parigi, l’impero aveva dichiarato che due milioni di armeni vivevano in
Anatolia e 400mila nella Turchia europea.
Secondo i dati del patriarcato armeno, invece, nel 1878 c’erano 400mila armeni nella
Turchia europea, 600mila nell’Anatolia occidentale, 670mila nei distretti di Sivas,
Trebisonda, Kayseri, Diyarbakır e circa 1,3
milioni sull’altopiano armeno. Nel 1914,
secondo il patriarcato, gli armeni nel paese
erano circa 1,8 milioni, cioè più di un milione in meno rispetto alle cifre precedenti, a
causa dei massacri del 1894-1896, della fuga degli armeni turchi e della loro conversione forzata all’islam.
Si pensa che alla ine del 1923 furono eliminati tra un milione e mezzo e due milioni
di armeni (i ricercatori turchi parlano di
200mila vittime causate dalla guerra). Lo
sterminio degli armeni fu accompagnato
dalla distruzione del loro patrimonio culturale. Monumenti e chiese furono rasi al suolo, i cimiteri furono trasformati in campi
coltivati, mentre i quartieri armeni delle
città furono distrutti oppure occupati e i loro nomi cambiati. u adr
Evgenij Satanovskij è un politologo russo.
Tayyip Erdoğan ha perino lodato la generosità del suo governo nel decidere di
“non deportare” i cittadini turchi armeni,
goniando in modo inquietante il numero
di armeni che lavorano in Turchia, per la
maggior parte in nero.
Minaccia esistenziale
“Se vuole contribuire alla pace, il parlamento europeo non dovrebbe prendere
decisioni che potrebbero sfociare in sentimenti di odio nei confronti di una religione o di un gruppo etnico”, ha detto il primo ministro Davutoğlu. E ha proseguito:
“Questa vicenda va oltre la questione turco-armena. È un nuovo rilesso del razzismo in Europa. Non ci faremo ricattare attraverso dibattiti storici”. Questa posizione è stata sostenuta anche dalle autorità
religiose. Mefail Hızlı, il mufti di Ankara,
ha detto che la dichiarazione del papa “rispecchia una versione moderna delle crociate scatenate in queste terre per secoli e
secoli”.
Questa santa alleanza non deve sorprendere. Il genocidio degli armeni è stato
il principale strumento della pulizia etnica
e religiosa e del saccheggio perpetrato nei
confronti dei gruppi non musulmani nel
tardo impero ottomano. Un’operazione
che condusse all’invenzione di uno statonazione turco omogeneo dal punto di vista
religioso. Il genocidio è alla base stessa
della Repubblica turca. Anzi, la pulizia etnica e religiosa è proseguita anche negli
anni della repubblica. I monumenti religiosi non musulmani sono stati quasi tutti
distrutti. Quindi qualsiasi ammissione
delle violenze del passato sarebbe una minaccia alle fondamenta dello stato. Il governo, invece, ha bisogno non solo di negare ma anche di giustiicare indirettamente il genocidio per riafermare la sua
esistenza. L’unica scintilla di speranza in
questa ostinata oscurità arriva dalle sempre più numerose iniziative legate alla memoria lanciate dai cittadini. Iniziative che
sidano la madre di tutti i tabù. u gim
Cengiz Aktar è un politologo turco.
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
23
Europa
MIkkO STIg (LEHTIkUVA/AP/ANSA)
Espoo, 19 aprile 2015. Timo Soini, leader del partito populista Veri inlandesi
Cambia la maggioranza
in Finlandia
Jean-Baptiste Chastand, Le Monde, Francia
Alle elezioni del 19 aprile hanno
vinto i centristi dell’ex
imprenditore Juha Sipilä,
che era all’opposizione
lle elezioni legislative del 19
aprile i inlandesi hanno virato
verso l’euroscetticismo. Non
solo hanno bocciato il premier
uscente, l’europeista e conservatore Alexander Stubb del Partito della coalizione
nazionale (Ncp), ma hanno anche spinto al
secondo posto, dietro al Partito di centro, il
partito populista dei Veri inlandesi guidato da Timo Soini, 52 anni, ostile all’immigrazione e soprattutto all’Europa. Con il
17,6 per cento dei voti e grazie alla ripartizione delle circoscrizioni elettorali, i Veri
inlandesi hanno conquistato 38 seggi, uno
in più rispetto all’Ncp che ha ottenuto il
18,2 per cento dei voti. Nel corso della cam-
A
pagna elettorale Soini aveva dichiarato la
sua intenzione di far parte del futuro governo e ora si trova in una posizione di forza per ottenere il posto di ministro degli
esteri.
Soini, leader dei Veri finlandesi dal
1997, è riuscito ancora una volta a smentire
i sondaggi che lo davano in calo rispetto al
2011. La sua popolarità è cresciuta soprattutto per le incertezze degli elettori sull’Europa, aumentate dopo la crisi dell’euro e
del debito greco, che Soini non vuole inanziare. Nel suo programma si legge che la
Finlandia deve “rinegoziare l’adesione
all’Unione europea, recuperare i poteri ceduti a Bruxelles e ridurre quelli della Commissione europea”. Soini aferma di “non
avere niente di personale contro i greci”: il
problema è il governo “di estrema sinistra”
che fa appello alla solidarietà europea.
L’economia inlandese è in recessione da
tre anni e i cittadini sono disposti ad accet-
Il nuovo parlamento inlandese, totale dei seggi 200. Fonte: Afp
Partito di centro 49 | Veri inlandesi 38 | Partito della coalizione nazionale (Ncp) 37 |
Partito socialdemocratico 34 | Verdi 15 | Alleanza di sinistra 12 | Altri 15
24
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
tare un pesante taglio della spesa pubblica
pur di uscirne, come hanno già fatto all’inizio degli anni novanta.
I negoziati con il primo partito, i centristi dell’ex imprenditore Juha Sipilä, dovrebbero cominciare il 27 aprile e potrebbero durare settimane. Con il 21,1 per cento
dei voti, Sipilä ha ottenuto 49 dei duecento
seggi del parlamento, meno di quanto previsto dai sondaggi, e non ha escluso la possibilità di formare un governo con i Veri
inlandesi. “In politica siamo pragmatici”,
aveva afermato prima delle elezioni il segretario generale del Partito di centro Timo Laaninen. “Ogni partito con una presenza forte in parlamento ha diritto di governare. I Veri inlandesi sono diversi dal
Front national”.
Soini ha sempre usato toni civili sull’immigrazione, ma molti esponenti del suo
partito sono stati accusati spesso di derive
razziste, senza mai essere puniti.
Programma rassicurante
Secondo le previsioni fatte il 20 aprile dal
principale quotidiano inlandese, Helsingin Sanomat, una coalizione con i Veri inlandesi sembra l’ipotesi più probabile. I
conservatori dell’Ncp e i socialdemocratici, due grandi partiti del governo uscente,
hanno perso voti e non vogliono più formare un esecutivo insieme.
Il premier uscente, Alexander Stubb, è
stato penalizzato perché ha perso la iducia
degli elettori, che non vedono come lui e il
suo partito possano rimettere in sesto il paese. Stubb aveva proposto di ridurre di 6
miliardi di euro la spesa pubblica e di far
entrare la Finlandia nella Nato, un argomento delicato in un paese che condivide
con la Russia una frontiera lunga 1.300 chilometri.
Juha Sipilä, che probabilmente guiderà
il governo, ha vinto soprattutto grazie a un
programma più rassicurante rispetto a
quello di Stubb, molto vago sulla portata
dei tagli alla spesa pubblica e sull’adesione
alla Nato, a cui il Partito di centro si è sempre opposto. Sipilä si è limitato a promettere la creazione di 200mila posti di lavoro
puntando soprattutto sullo sviluppo delle
bioindustrie, un argomento scelto per
compiacere l’elettorato centrista, che ha
una forte tradizione agricola. Sipilä ha approittato anche della sua immagine di uomo semplice ed entrato da poco in politica:
è stato eletto deputato nel 2011, dopo una
fortunata carriera da imprenditore. u gim
MAxIM SHEMETOv (REUTERS/CONTRASTO)
Regno Unito
CIPRO
Ballottaggio
al nord
Populismo di sinistra
The Spectator, Regno Unito
“Uno spettro si aggira per l’Europa e
bussa alla porta di Downing street.
Ha già fatto eleggere un presidente in
Francia e un sindaco a New York. Ora
sta seminando il caos in Spagna e in
Grecia e sollevando venti di rivolta in
Scozia, e potrebbe fermare la marcia
trionfale di Hillary Clinton verso la
Casa Bianca. Stiamo parlando del
populismo di sinistra, una risposta radicale, coerente e
moderna alla crisi inanziaria degli ultimi anni e alle
diicoltà economiche dei cittadini. Il leader laburista Ed
Miliband lo sta usando per avvantaggiarsi sugli avversari
in vista delle elezioni legislative del 7 maggio nel Regno
Unito. Insomma, è su questo credo che potrebbe essere
basata la politica del governo britannico nei prossimi
cinque anni”, scrive The Spectator. Secondo il
settimanale conservatore, il programma elettorale del
Partito laburista sfrutta gli umori populisti e incita alla
lotta di classe, chiudendo deinitivamente l’era del New
labour di Tony Blair. “Fino a poco tempo fa una strategia
del genere sarebbe stata considerata suicida, ma oggi è
estremamente popolare, perfetta per vincere le elezioni.
Un po’ meno per governare dopo averle vinte”. ◆
RUSSIA
Alleanza
informale
In Russia le forze di opposizione
hanno fatto un importante passo avanti verso la creazione di
un fronte comune. Il Partito repubblicano, di cui era copresidente Boris Nemtsov, assassinato a febbraio, e il Partito del progresso, guidato da Aleksej Navalnyj (nella foto), “hanno deciso di unire le forze per formare
un blocco informale di opposizione”, scrive la Novaja Gazeta, ricordando che la legge russa
vieta la creazione di coalizioni
elettorali. Il primo banco di prova per i due partiti, a cui si sono
aggiunte alcune formazioni minori, saranno le elezioni regionali di settembre.
UCRAINA
Oppositori
nel mirino
GRECIA
Alba dorata
sotto processo
Ha suscitato grande impressione in Ucraina l’uccisione di due
noti oppositori del governo nel
giro di ventiquattr’ore. Il primo
è Oleg Kalašnikov, ex deputato
del Partito delle regioni e organizzatore delle proteste anti-
GlEB GARANICH (REUTERS/CONTRASTO)
Il 20 aprile è cominciato ad Atene il processo a 69 esponenti del
partito neonazista Alba dorata,
tra cui il leader Nikos Michaloliakos, accusati di far parte di
un’organizzazione criminale.
l’udienza è stato però sospesa
per motivi procedurali, e riprenderà solo il 7 maggio. Il processo
è il risultato di una lunga inchiesta seguita all’uccisione del rapper Pavlos Fyssas da parte di un
militante di Alba dorata nel settembre del 2013, scrive Kathimerini. Il quotidiano racconta
anche che alcuni testimoni sono
stati aggrediti da sostenitori di
Alba dorata fuori dal tribunale.
Maidan. Il secondo è Oles Buzina, noto giornalista e conduttore tv ilorusso. Sono stati uccisi
nello stesso modo, vicino alle loro abitazioni e con cinque colpi
sparati da uomini dal volto coperto. Il sito Spilne osserva che
“in un clima di impunità, in cui
molti incitano a regolare i conti
al di fuori delle aule giudiziarie,
aumenta la possibilità che i ‘patrioti’ compiano azioni violente.
Ma così si inisce per legittimare
la violenza politica”. Intanto
nell’ovest dell’Ucraina sono cominciate le esercitazioni congiunte dell’esercito statunitense
e di quello ucraino, scrive Korrespondent. Circa trecento paracadutisti americani (nella foto)
addestreranno i soldati della
guardia nazionale ucraina, tra
cui igurano anche membri del
battaglione neofascista Azov.
Il 19 aprile si è svolto il primo
turno delle presidenziali nell’autoproclamata Repubblica Turca
di Cipro Nord. Il capo di stato
uscente Derviş Eroğlu ha ottenuto il 28,2 per cento dei voti,
battendo il candidato indipendente Mustafa Akıncı (26,9 per
cento), che aveva basato la sua
campagna elettorale sulla lotta
alla corruzione. Il vincitore del
ballottaggio del 26 aprile avrà il
compito di riprendere i negoziati con la Repubblica di Cipro per
la riuniicazione dell’isola, scrive il quotidiano turco Hürriyet.
la Repubblica Turca di Cipro
Nord, fondata nel 1983, è riconosciuta solo dalla Turchia.
IN BREVE
Francia Il 22 aprile il ministro
dell’interno Bernard Cazeneuve
ha annunciato l’arresto vicino a
Parigi di un algerino che stava
per compiere un attentato in
una chiesa.
Germania Il 21 aprile è cominciato a lüneburg il processo a
Oskar Gröning, 93 anni, ex contabile del campo di concentramento di Auschwitz.
Russia l’esercito ha annunciato il 20 aprile di aver ucciso Aliaskhab Kebekov, leader dei ribelli jihadisti del Caucaso, in
un’operazione nel Daghestan.
Spagna Il 16 aprile la polizia ha
perquisito a Madrid l’abitazione
dell’ex direttore del Fondo monetario internazionale Rodrigo
Rato, sotto inchiesta per riciclaggio.
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25
Africa e Medio Oriente
Proteste contro gli immigrati a Johannesburg, 17 aprile 2015
Da sapere
IhSAAn hAFFEJEE (AnADOLu AGEnCy/GETTy IMAGES)
Manifestazioni e rimpatri
La reazione del Sudafrica
alle aggressioni xenofobe
Ranjeni Munusamy, Daily Maverick, Sudafrica
Gli attacchi contro gli stranieri a
Durban e a Johannesburg sono
la conseguenza di una grave crisi
politica e sociale. Finora
il governo ha semplicemente
ignorato il problema
isoccupazione, economia in
calo, crisi politica, alti livelli di
criminalità e corruzione, servizi ineicienti: non è un mistero
che il Sudafrica è in crisi. Di fronte a questi
problemi, però, il governo non si è assunto
le sue responsabilità e il presidente Jacob
Zuma ha preferito addossare le colpe di
molti problemi all’eredità dell’apartheid,
invece di riconoscere i suoi fallimenti. Tuttavia l’ondata di violenze xenofobe a Durban, Pietermaritzburg e Johannesburg ha
costretto Zuma e il governo a darsi da fare.
Il 12 aprile il presidente ha nominato una
squadra di ministri incaricata di occuparsi
delle aggressioni agli stranieri, che dal 30
marzo hanno causato sette morti e costretto migliaia di persone ad abbandonare le
loro case. Il 18 aprile Zuma ha cancellato un
viaggio uiciale in Indonesia e ha fatto visi-
D
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
ta agli sfollati del campo di accoglienza di
Chatsworth, a Durban. Ma è stato accolto
con ostilità e alcuni hanno espresso delusione per la lenta reazione delle autorità.
Prendere le distanze
Se il Sudafrica non riuscirà a fermare le violenze, saranno a rischio non solo i rapporti
diplomatici con gli altri paesi africani, ma
anche le attività di mediazione in tutto il
continente: sarebbe strano per i leader sudafricani presentarsi come dei paciicatori
all’estero, mentre non sono capaci di tenere
la situazione sotto controllo in patria. Il ministro dell’interno Malusi Gigaba ha minacciato di adottare misure severe per punire
chi commette violenze o le provoca, “a prescindere dal posto che occupa nella società”. Finora sono state arrestate 307 persone.
Il governo, però, non ha preso le distanze
dal re zulu Goodwill Zwelithini, accusato di
aver alimentato la xenofobia con le sue dichiarazioni (ha invitato gli stranieri a “fare
le valigie e tornarsene a casa”).
Gigaba ha annunciato che gli sfollati
hanno ricevuto cibo e alloggio nei campi
allestiti vicino alle città colpite dalle violenze. Anche le organizzazioni religiose e della
società civile si sono coordinate per soccor-
u Il 21 aprile il governo sudafricano ha inviato
l’esercito nelle aree di Johannesburg e di
Durban più interessate dalle violenze
xenofobe. Il bilancio degli attacchi contro i
lavoratori stranieri è di sette morti e di circa
cinquemila sfollati, in gran parte originari del
Mozambico, del Malawi e dello Zimbabwe.
Secondo le autorità, almeno 900 persone
hanno chiesto di essere rimpatriate. A Lagos, in
nigeria, e a Lilongwe, in Malawi ci sono state
proteste contro la xenofobia in Sudafrica.
rere le vittime. Il 18 aprile la federazione di
calcio sudafricana ha annunciato che la nazionale giocherà due amichevoli contro le
squadre di paesi coninanti.
Sono state necessarie le morti di Emmanuel Sithole (il mozambicano accoltellato il
18 aprile nella township di Alexandra, a Johannesburg) e di altre sei persone per costringere il Sudafrica a condannare gli attacchi xenofobi e a impegnarsi per ridare
stabilità al paese. La parte peggiore della
società ha fatto emergere anche la sua parte
migliore: le manifestazioni di solidarietà, la
determinazione di alcuni funzionari, la lotta ai comportamenti criminali e gli sforzi
per promuovere il rispetto della vita. È forse
questo il risvolto positivo di un episodio orribile della storia del Sudafrica.
Oggi la priorità è riportare la pace. Ma
sarebbe un errore, quando le violenze si saranno fermate, fare inta che non sia successo nulla. Molti concordano sul fatto che
gli attacchi sono il risultato di diversi fattori:
dagli scarsi controlli alle frontiere alla dura
competizione per le risorse. Se i sudafricani
non impareranno da questa esperienza, simili eventi si ripeteranno in altre forme. E
arriverà il giorno in cui non sarà più possibile fermarli. u gim
Africa e Medio Oriente
Yemen
MALI
EGITTO
Dura condanna
per Morsi
Il 21 aprile l’ex presidente egiziano Mohamed Morsi (nella foto) è
stato condannato a vent’anni di
carcere per “istigazione alla violenza” e per aver incarcerato e
torturato i manifestanti dell’opposizione dopo gli scontri al palazzo presidenziale Ittihadeya
nel dicembre del 2012. Morsi
deve afrontare ancora quattro
processi, scrive Mada Masr.
Altri 22 Fratelli musulmani sono
stati condannati a morte per
aver ucciso 14 poliziotti nel
commissariato di giza. L’ong
Amnesty international ha deinito il processo a Morsi “una
farsa”. Al Shorouk scrive che
“le condanne esagerate nuocciono all’immagine dell’egitto”.
MOHAMeD AL-SAYAgHI (ReuTeRS/COnTRASTO)
ASMAA WAguIH (ReuTeRS/COnTRASTO)
Una strategia incerta
La coalizione guidata da Riyadh ha annunciato la ine dei
bombardamenti sullo Yemen il 21 aprile, spiegando di aver
raggiunto l’obiettivo di eliminare la minaccia che
l’avanzata dei ribelli zaiditi houthi costituiva per l’Arabia
Saudita e i paesi vicini (nella foto, un combattente houthi a
Sanaa, il 21 aprile 2015). Tuttavia, scrive Al Jazeera, il 22
aprile ci sono stati nuovi raid su Aden e Taiz, e sono stati
registrati scontri sul terreno tra i ribelli e i sostenitori del
presidente Abd Rabbo Mansur Hadi nelle città di Aden,
Lahij e Daleh. Secondo l’Organizzazione mondiale della
sanità, il bilancio delle vittime della guerra (aggiornato al
17 aprile) è di 944 morti e 3.487 feriti. u
ETIOPIA
BURUNDI
Le vittime
dei terroristi
Clima teso
in vista del voto
Ad Addis Abeba migliaia di persone sono scese in piazza il 22
aprile per protestare contro l’uccisione di 28 cristiani etiopi in
Libia, scrive The Reporter. Il
massacro è stato mostrato in un
video pubblicato online il 19
aprile dal gruppo Stato islamico.
Secondo Ha’aretz, tra le vittime
dei jihadisti che appaiono nel video ci sono anche tre eritrei richiedenti asilo che non erano
stati accolti in Israele. uno di loro, dopo essere passato per
uganda e Ruanda, era inito in
Libia perché da lì avrebbe potuto raggiungere l’europa.
Il governo ha minacciato di far
intervenire l’esercito per fermare le proteste, in corso da mesi,
contro il presidente Pierre nkurunziza, che vorrebbe presentarsi alle elezioni del 26 giugno
per ottenere un terzo mandato.
Il 17 aprile nella capitale Bujumbura un migliaio di manifestanti
si è scontrato con le forze di polizia. Centoventi persone sono
state arrestate e 65 militanti
dell’opposizione sono stati rinviati a giudizio. Le proteste contro nkurunziza non sono organizzate solo dai partiti di opposizione (convinti che un terzo
28
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
mandato presidenziale sia illegale), ma anche dai gruppi della società civile e dalla chiesa.
nel paese intanto cresce la tensione. Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati,
nelle ultime due settimane ottomila burundesi sono già
scappati nei paesi vicini, in particolare in Ruanda e nella Repubblica Democratica del
Congo, per paura di violenze in
occasione del voto. “Il modello
di convivenza burundese tra le
etnie hutu, tutsi e twa sarà
messo alla prova”, scrive Jeune Afrique. Come il Ruanda,
anche il Burundi ha vissuto una
durissima guerra civile a sfondo etnico negli anni novanta,
in cui sono morte centinaia di
migliaia di persone.
Ancora
nell’instabilità
“Quando è stato eletto nel 2013,
il presidente maliano Ibrahim
Boubacar Keïta ha promesso di
ristabilire l’autorità dello stato
nel nord del paese”, che era stato occupato da milizie tuareg e
jihadiste. Tuttavia, scrive Le
Point Afrique, “la situazione
non è ancora stata risolta e l’accordo per la pace e la riconciliazione – che avrebbe dovuto essere irmato il 1 marzo – è a un
punto morto”. Il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad
(formato dai gruppi ribelli tuareg e arabi) continua a respingere i termini dell’intesa. Intorno a
gao, nel nordest del Mali, si
moltiplicano gli attacchi contro
le forze della missione dell’Onu
(Minusma). Il 17 e il 20 aprile sono stati attaccati due convogli di
rifornimenti destinati alla Minusma. In tutto sono rimaste uccise almeno tre persone.
IN BREVE
Somalia Il 21 aprile tre persone
sono morte nell’esplosione di
un’autobomba davanti a un ristorante a Mogadiscio. Altre sei
persone sono morte in un attacco contro un minibus dell’Onu a
garowe, nel Puntland.
Camerun Il 17 aprile 19 persone sono morte in un attacco di
Boko haram nel villaggio di Bia.
Iraq Izzat Ibrahim al Duri, ex
numero due del regime di Saddam Hussein, sarebbe morto il
17 aprile nei combattimenti vicino a Tikrit. Le autorità attendono il test del dna per conferma.
Americhe
L’America Latina non aiuta
chi difende la terra
María Martín, El País, Spagna
el 2014 Raimundo Rodrigues
da Silva, un contadino di 42 anni che aveva passato la vita a
lottare per proteggere la sua
terra, è stato ucciso da un colpo di fucile
nella zona di Campestre, a 280 chilometri
da São Luís, città nel nordest del Brasile.
Secondo la Commissione pastorale della
terra (Cpt), il suo nome era da tempo su una
lista nera perché si era opposto al latifondo
che minacciava la sua comunità e al potente
proprietario terriero che lo rappresentava.
Quello di Rodrigues da Silva è solo uno dei
116 omicidi segnalati dall’ultimo rapporto
dell’ong britannica Global witness sulla
violenza subita dagli ambientalisti nel mondo, intitolato “How many more?”. Nel 2014
sono ci sono state 21 vittime in più dell’anno
precedente, e il Brasile è ancora in testa alla
classifica mondiale della violenza legata
all’ambiente, con 29 vittime, cioè il 25 per
cento degli omicidi totali. Seguono la Colombia (25 vittime), le Filippine (15) e l’Honduras (12) in una lista totale di diciassette
paesi. In America Latina sono stati assassinati 87 militanti ambientalisti. E l’Honduras, considerato dalle Nazioni Unite il paese
più violento del mondo, è per il quinto anno
consecutivo il paese con più omicidi di ambientalisti rispetto alla popolazione.
N
BRUNo KELLy (REUtERS/CoNtRASto)
Secondo l’ultimo rapporto
dell’ong Global witness, nel
2014 gli omicidi degli indigeni
e dei militanti ambientalisti
sono aumentati. Solo in Brasile
sono state uccise 29 persone
Brasile, 29 gennaio 2014. La protesta di un indigeno a Manaus
Nel caso del Brasile, dove l’organizzazione
ha documentato 477 omicidi dal 2002, molte morti sono legate ai conlitti per la proprietà, il controllo e l’uso delle terre, oltre
che al disboscamento illegale. Le cause sono le stesse in tutto il mondo e la situazione
si complica nelle piccole comunità e nei villaggi indigeni che lottano per ottenere la
proprietà delle loro terre, un diritto che li
spinge a scontrarsi con gli interessi dell’industria agricola e mineraria, con la costruzione di dighe e il disboscamento intensivo.
Da sapere
Il rapporto di Global witness
Nel 2014 ci sono stati 116 omicidi legati alla
difesa dell’ambiente in diciassette paesi
Totale
Di cui
vittime indigeni
Totale
Di cui
vittime indigeni
Brasile
29
4
Indonesia
2
1
Esecutori e mandanti
Colombia
25
15
Birmania
2
2
Secondo Global witness, che si occupa dei
casi di corruzione e di abuso nello sfruttamento delle risorse naturali, le cifre (che
potrebbero essere molto più alte) sono
“drammatiche”. L’ong sottolinea anche “la
tendenza preoccupante di alcuni governi a
usare le norme antiterrorismo contro gli
attivisti, descritti come nemici dello stato”.
Filippine
15
9
Uganda
2
2
Honduras
12
4
Ecuador
1
1
Perù
9
7
India
1
-
Guatemala
5
4
Costa Rica
1
-
thailandia
4
1
Sudafrica
1
-
Paraguay
3
3
Cambogia
1
-
Messico
3
1
Fonte: Global witness
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Il 40 per cento delle vittime sono indigeni.
Secondo il rapporto, la maggior parte degli
omicidi degli ambientalisti rimane impunito. Ma non va sempre così: il presunto assassino di Rodrigues da Silva è ancora in
carcere in attesa di giudizio. Diogo Cabral,
avvocato della Cpt, aferma che in Brasile
gli omicidi di almeno 1.200 contadini impegnati nella difesa dell’ambiente sono ancora senza un colpevole. “Il caso di Rodrigues
è un eccezione”, aferma.
Global witness denuncia che non ci sono informazioni uiciali sugli omicidi, ma
prova a indicare le categorie coinvolte nei
casi più documentati: i gruppi paramilitari,
la polizia, le guardie di sicurezza private e i
militari. Loro premono il grilletto, ma di solito i mandanti sono i grandi proprietari terrieri, che tuttavia non sono quasi mai indagati. Global witness sottolinea che le aziende e i governi di solito favoriscono gli accordi per coltivare i prodotti più richiesti, come
la gomma, su terreni e boschi molto estesi.
Nonostante questo il Brasile si prepara a votare una legge, la Pec 215, per trasferire il
potere di delimitare le aree indigene, oggi
attribuito al governo e protetto dalla costituzione, al parlamento, dov’è forte la lobby
dei principali interessati allo sfruttamento
di queste terre. u fr
Colombia
STATI UNITI
Almeno
quindici dollari
YAMIL LAGE (AFp/GEttY IMAGES)
I calcoli sbagliati delle Farc
Semana, Colombia
CUBA
Cuomo
all’Avana
Il 21 aprile il governatore dello
stato di New York, Andrew Cuomo (nella foto), ha terminato la
sua prima visita uiciale a Cuba.
L’obiettivo del viaggio, scrive
14ymedio, era potenziare le relazioni commerciali con gli Stati
Uniti dopo l’annuncio, lo scorso
17 dicembre, della ripresa dei
rapporti diplomatici tra i due paesi. Cuomo si è espresso contro
l’embargo commerciale statunitense a Cuba, sottolineando che
“l’isolamento non è stato produttivo”. Intanto il 19 aprile due
dissidenti cubani, Hildebrando
Chaviano e Yuniel López, non
sono riusciti a ottenere i voti necessari per entrare nell’Assemblea municipale.
A mezzanotte del 15 aprile un’unità
delle Forze armate rivoluzionarie
della Colombia (Farc) ha attaccato
l’esercito colombiano nel municipio di
Buenos Aires, nel dipartimento di
Cauca. “Il combattimento è durato
pochi minuti”, scrive Semana, “e il
bilancio è stato di undici soldati morti
e diciassette feriti. Nell’attacco hanno
perso la vita anche due guerriglieri”. Il presidente Juan
Manuel Santos ha reagito senza esitazioni annunciando la
ripresa dei bombardamenti contro la guerriglia sospesi
poche settimane prima. Al di là dell’indignazione per
l’attacco, bisogna chiedersi cosa ha spinto le Farc a
compiere un gesto che rischia di avere solo efetti
controproducenti, proprio quando i negoziati di pace con il
governo in corso da più di due anni all’Avana sembravano
a buon punto. Secondo Semana, il gruppo guerrigliero ha
fatto male i calcoli: l’azione del 15 aprile non convincerà il
governo a dichiarare un cessate il fuoco bilaterale, ma farà
solo aumentare la siducia dell’opinione pubblica verso il
processo di pace. Ora serve un gesto di buona volontà da
parte della guerriglia, che deve condannare l’attacco e
chiedere perdono al paese. ◆
STATI UNITI
STATI UNITI
Un premio
ai giornali locali
Il 21 aprile il dipartimento di
giustizia statunitense ha aperto
un’indagine per violazione dei
diritti civili a proposito della
morte di Freddie Gray, un nero
di venticinque anni, avvenuta il
19 aprile in un ospedale di Balti-
Baltimora, 21 aprile 2015
SAMUEL CORUM (ANADOLU AGENCY/GEttY IMAGES)
Il 20 aprile a New York sono stati annunciati i vincitori dell’edizione 2015 del premio pulitzer, il
riconoscimento giornalistico
più prestigioso degli Stati Uniti.
Sono state premiate molte testate locali: il post and Courier di
Charleston, in South Carolina,
ha ricevuto il premio per il giornalismo di pubblica utilità per
una serie di articoli sulle violenze nei confronti delle donne.
Nella sezione fotograia d’attualità la redazione del St. Louis
post-Disptach è stata premiata
per le foto delle proteste dei neri
contro gli abusi della polizia.
La rabbia
di Baltimora
mora, nel Maryland. Una settimana prima Gray, che era disarmato, era stato arrestato da
quattro agenti e caricato su un
furgone della polizia. In seguito
era stato portato in ospedale con
gravi lesioni alla spina dorsale.
Dopo la sua morte migliaia di
persone sono scese in piazza per
protestare contro gli abusi della
polizia nei confronti dei cittadini afroamericani, e il dipartimento di polizia ha sospeso sei
agenti coinvolti nella vicenda. Il
New York Times spiega che la
situazione di Baltimora è diversa da quella di Ferguson e di altre città in cui ci sono stati abusi
nei confronti di cittadini neri.
“Molti funzionari, tra cui il sindaco Stephanie Rawlings-Blake,
sono neri. E ora i cittadini si
aspettano da loro delle risposte
immediate e concrete”.
Nell’ultima settimana migliaia
di lavoratori hanno manifestato
in diverse città degli Stati Uniti
per chiedere l’aumento del salario minimo. Il movimento Fight
for $15, sostenuto dai sindacati,
ha coinvolto i lavoratori del settore della ristorazione, dei servizi per l’infanzia e per gli anziani,
della catena di grandi magazzini
Walmart, ma anche gli insegnanti di supplenza in diverse
azioni di protesta: tutti a chiedere l’aumento del salario minimo
dagli attuali 7,25 dollari l’ora a 15
dollari. Il Washington Post
spiega che “negli ultimi sei anni
il salario minimo federale è rimasto fermo, ma 29 stati l’hanno alzato, e altri quindici hanno
in programma aumenti salariali
nel entro la ine del 2015”.
IN BREVE
Messico Il 17 aprile tre persone
sono morte in una sparatoria tra
poliziotti e narcotraicanti a
Reynosa, nello stato di tamaulipas, nel nordest del paese.
Stati Uniti La procura federale
di Minneapolis ha annunciato il
20 aprile l’arresto di sei statunitensi di origine somala accusati
di aver cercato di raggiungere il
gruppo Stato islamico in Siria.
Venezuela Il 19 aprile il presidente Nicolás Maduro ha annunciato di aver ottenuto un inanziamento da cinque miliardi
di dollari dalla Cina. Il paese sta
attraversando una grave crisi
economica.
Internazionale 1099 | 25 aprile 2015
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Asia e Paciico
Decorazioni per la visita di Xi Jinping a Islamabad, 19 aprile 2015
tuttavia, non bisogna sopravvalutare il
signiicato strategico di un nuovo accesso
di Pechino all’oceano Indiano attraverso la
strada tortuosa che collega Kashgar, nello
Xinjiang, al porto pachistano di Gwadar,
finanziato dai cinesi. Kashgar, infatti, è
molto lontana dal cuore della Cina, ed è in
balia della diicile convivenza tra gli uiguri,
la minoranza musulmana che abita nella
regione, e gli han. Inoltre il percorso dalla
città alla pianura del Punjab è lungo, diicile e passa vicino al conine con l’India, attraverso il Kashmir pachistano.
ReUteRS/ContRASto
Interessi incrociati
Il regalo di Pechino
a Islamabad
Asia Sentinel, Hong Kong
Il presidente cinese Xi Jinping è
andato in Pakistan annunciando
investimenti per 46 miliardi di
dollari. Un impegno economico
con risvolti strategici che
riguardano anche l’India
a conclusione che possiamo trarre dalla visita del presidente cinese Xi Jinping in Pakistan è che
Pechino e Islamabad sono diplomaticamente nei guai se diventano i migliori alleati in Asia. L’oferta cinese di investire in Pakistan 46 miliardi di dollari – in
gran parte nella costruzione di strade, ferrovie e nella rete elettrica – è stupefacente.
Gran parte dei mezzi d’informazione pachistani ha accolto con grande favore la notizia, presentando l’impegno economico
cinese come il punto di partenza per trasformare il Pakistan in una nuova tigre asiatica. È diicile immaginare un altro paese
in Asia così felice per questo “abbraccio”,
soprattutto considerando che lo Sri Lanka e
la Birmania hanno fatto grandi sforzi per
liberarsi dalla stretta della Cina. Le Filippine e il Vietnam, molto vicini a Pechino,
L
32
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
stanno lavorando a un piano di mutua difesa per contrastare le azioni della Cina nel
mar Cinese meridionale.
L’ingente impegno economico cinese
in Pakistan fa parte di una più ampia iniziativa di Pechino per migliorare le infrastrutture in modo da promuovere il commercio
tra i due paesi e assicurarsi che le merci, i
servizi e i capitali possano muoversi facilmente, favorendo soprattutto gli interessi
cinesi. L’investimento totale potrebbe ammontare a circa 225 miliardi di euro. La Cina ne trarrà due vantaggi a breve termine.
Innanzitutto la gratitudine dei pachistani,
perché gli investimenti potrebbero ridurre
in poco tempo le enormi carenze energetiche del paese. Inoltre la manovra potrebbe
attirare di nuovo sul Pakistan l’attenzione
dell’India, che teme per la propria sicurezza. negli ultimi anni l’aumento della presenza cinese nel golfo del Bengala e
nell’oceano Indiano aveva distratto new
Delhi. Ma allo stesso tempo, il clamore suscitato dagli investimenti cinesi potrebbe
scoraggiare l’India dal cercare un compromesso con Islamabad in altri ambiti, a partire da una maggiore cooperazione economica (che per i due paesi sarebbe molto più
utile degli investimenti cinesi).
La Cina sa bene che le forze islamiste create o sostenute dal Pakistan possono essere
pericolose, dati i suoi problemi nello Xinjiang. Il governo cinese probabilmente
pensa che la leva economica possa spingere l’intelligence pachistana a non dare sostegno alle forze islamiste che potrebbero
danneggiare gli interessi indiani. tuttavia
gli interessi incrociati della Cina in Asia
centrale, che rendono molto difficili le
scelte politiche, potrebbero diventare tanto numerosi quanto quelli degli Stati Uniti
in Medio oriente. Il Pakistan ha giocato
bene una diicile partita diplomatica restando vicino a Washington nonostante il
ruolo degli Stati Uniti in Afghanistan. Di
recente il governo pachistano ha ofeso i
suoi ricchi amici sunniti in Arabia Saudita
e nel Golfo riiutandosi di partecipare alla
coalizione contro i ribelli houthi nello Yemen. Forse Islamabad ha ritenuto che far
infuriare l’Iran senza probabilmente riuscire a fare pulizia nello Yemen non era
una buona idea, soprattutto considerando
l’afrancamento di teheran dallo status di
paria per l’occidente e la sua capacità di
suscitare disordini in Belucistan. Alla lunga questi problemi peseranno più di qualsiasi somma di denaro. u as
Afghanistan
HONG KONG
Riforma
BOBBY YIP (ReuTeRS/CONTRASTO)
L’ombra dello Stato islamico senza sorprese
Gao Yu
Giornalista
dietro le sbarre
Il 16 aprile Gao Yu, una delle più
note giornaliste cinesi, è stata
condannata a sette anni di carcere per aver consegnato a un
giornale straniero una circolare
interna del Partito comunista. Si
tratta del Documento n. 9, che
richiama all’unità ideologica
contro “i sette pericoli”, tra cui
la società civile e la visione occidentale dell’informazione, del
quale il New York Times due anni fa pubblicò alcuni stralci. Insieme alla sospensione di Bi Fujian, il giornalista punito per
aver ofeso Mao Zedong in privato, il caso Gao è la dimostrazione del controllo ideologico
sempre maggiore voluto da Xi
Jinping, scrive Mingpao.
COREA DEL SUD
Il periodo
nero di Park
Per la presidente Park Geun-hye
non è un buon periodo. Mentre i
familiari delle vittime del naufragio del traghetto Sewol, in
cui un anno fa sono morte 304
persone, fanno pressione perché apra un’inchiesta sulle cause della tragedia, Park ha perso
il suo braccio destro. Il primo
ministro Lee Wan-koo si è infatti dimesso il 21 aprile dopo soli
due mesi di incarico. Il nome di
Lee era su una lista di politici
accusati da un magnate dell’edilizia morto suicida qualche giorno prima di aver ricevuto tangenti da lui, scrive Hankyoreh.
PARWIZ (ReuTeRS/CONTRASTO)
CINA
Funerale dopo l’attentato di Jalalabad, 18 aprile 2015
Il 18 aprile 35 persone sono morte e più di cento sono
rimaste ferite in un attentato suicida davanti alla iliale
della New Kabul Bank a Jalalabad, nell’est del paese.
L’attacco, di cui i taliban hanno negato la paternità, è stato
rivendicato da un gruppo che si è presentato come il
braccio dello Stato islamico nella regione. Il presidente
afgano Ashraf Ghani ha condannato il primo attentato del
gruppo Stato islamico nel paese. Il giorno dopo, tuttavia, in
un’intervista a The Daily Beast, Sheikh Muslim Dost, un
portavoce del gruppo Stato islamico in Afghanistan, ha
negato la responsabilità della sua organizzazione
nell’attacco. “È possibile che alcuni capi taliban abbiano
cominciato a indossare i panni dello Stato islamico, dato
che ogni tanto qualche dissidente si stacca e giura fedeltà
all’organizzazione jihadista radicata in Iraq e in Siria”,
scrive l’analista M. K. Bhadrakumar su Asia Times. “Il
punto non è se ci sia o meno un legame concreto tra questi
elementi e il quartier generale dello Stato islamico in
Iraq”, spiega Bhadrakumar. “Il punto è che lo Stato
islamico è un’idea, e se quell’idea attecchisce anche solo
nelle menti di pochi estremisti in Afghanistan o in
Pakistan la prospettiva diventa terriicante. Tuttavia,
mentre il governo di Kabul e altri paesi nella regione
sostengono che lo spettro dello Stato islamico sia già
arrivato in Afghanistan, Washington e i suoi alleati
rimangono cauti. È chiaro che per Barack Obama l’arrivo
dello Stato islamico nel paese sarebbe una nuova
conferma del fatto che la guerra cominciata nel 2001 è
stata un fallimento colossale; d’altra parte, però, darebbe
agli statunitensi il pretesto per mantenere le loro basi
militari nel paese ancora a lungo”. Forse è proprio questo il
motivo che ha spinto Ghani ad attribuire l’attentato di
Jalalabad allo Stato islamico, conclude il Daily Beast. u
Nessuna sorpresa nella riforma
elettorale presentata il 22 aprile
in parlamento dalla segretaria
capo di Hong Kong Carrie Lam
in vista del voto del 2017, scrive
il South China Morning Post.
La riforma, infatti, segue le linee guida indicate da Pechino
nell’agosto del 2014, fortemente contestate dai manifestanti
che occuparono alcune zone
della città durate più di due mesi. Secondo le nuove regole, un
comitato di 1.200 rappresentanti dei principali settori
dell’economia e della società –
imprenditori e commercianti,
professionisti, politici, esponenti della società civile e di
gruppi religiosi – nominati in
gran parte da Pechino voterà i
candidati.
IN BREVE
Giappone Il 22 aprile un tribunale ha respinto il ricorso di un
gruppo di cittadini contro la riattivazione dei reattori nucleari
Sendai 1 e 2 a Kagoshima. La
settimana scorsa un altro tribunale aveva bloccato per motivi
di sicurezza la riattivazione dei
reattori Takahama 3 e 4.
Australia La polizia ha annunciato il 18 aprile di aver arrestato
cinque presunti terroristi, due
dei quali stavano per compiere
un attentato a Melbourne.
Cina Il 17 aprile un uomo è morto nella provincia del Sichuan
dopo essersi dato fuoco per protestare contro la repressione in
Tibet.
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
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Le opinioni
La violenza della polizia
è solo un sintomo
Ta-Nehisi Coates
uando si parla degli omicidi compiuti “potere” e “autorità”. L’autorità è una questione di rapdagli agenti di polizia si tende a concen- porti, lealtà e interazione, e “si fonda sul consenso di
trarsi sulla tattica piuttosto che sulla chi vi è sottoposto”. Il potere invece è “esterno” e si “bastrategia. Pensiamo alle azioni sa sulla forza”. Il potere esiste dove la lealtà non esiste
dell’agente in questione cercando di più o non è mai esistita. “Il potere si aferma solo quancapire cosa pensava in quel momento. do l’autorità viene meno”.
Gli afroamericani hanno quasi sempre vissuto sot“La scelta di sparare era giustiicata?”, ci chiediamo.
Ma forse dovremmo farci un’altra domanda: “Era la to il potere del sistema giudiziario, non sotto la sua
autorità. L’elemento dominante nel rapporto tra gli
polizia che doveva intervenire?”.
Da qualche tempo gli statunitensi hanno deciso afroamericani e il loro paese è stato la privazione, e la
che le risposte migliori a ogni problema sociale sono la privazione ha reso impossibile l’autorità della polizia e
polizia e i giudici. Questioni sociali come l’abuso di necessario il potere della polizia. Lo scetticismo sulla
droga, l’impossibilità di mantenere i igli e la malattia versione fornita dall’agente Darren Wilson a proposito
dell’omicidio di Michael Brown, per
mentale sono afrontati ricorrendo a uoesempio, nasce dalla mancanza di automini e donne specializzati nel suscitare Gli statunitensi
hanno deciso che
rità della polizia, ovvero dalla convinpaura e nel far rispettare l’ordine.
zione che i poliziotti mentono come
Quando Walter Scott scappava dalla la risposta migliore
qualsiasi altro cittadino. I genitori afropolizia di North Charleston non stava a ogni problema
americani avvertono i loro igli di non
scappando solo dall’agente Michael Tho- sociale è ricorrere
fare gesti improvvisi in presenza di un
mas Slager, ma dalla prospettiva di inire a uomini e donne
agente, non perché devono rispettare un
in carcere. Stava scappando perché ab- specializzati nel
ideale democratico, ma perché sanno
biamo deciso che il sistema penale è lo suscitare paura
che l’agente potrebbe ucciderli.
strumento migliore per occuparsi degli
e far rispettare
Eppure per la maggior parte degli stauomini che non possono o non vogliono
l’ordine
tunitensi la polizia e il sistema giudiziario
mantenere i loro igli a un livello che noi
sono portatori di un’autorità. Il distintivo
consideriamo adeguato. Alla radice della
maggior parte delle sparatorie che hanno coinvolto la non rappresenta la forza, ma il consenso e una legittipolizia c’è un problema sociale che abbiamo trasforma- mità fondata sull’integrità. È per questo che quando un
politico critica l’operato di un poliziotto deve sempre
to in un problema di ordine pubblico.
Il 6 marzo a Madison un agente di polizia ha ucciso aggiungere che “la maggior parte dei poliziotti sono
un uomo di nome Tony Robinson che era sotto l’efetto persone buone e integerrime”. Sembra una pessima
di funghi allucinogeni. Gli agenti erano stati chiamati giustiicazione, ma non serve a giustiicare gli agenti.
perché Robinson aveva rincorso una macchina, e uno Serve a sottolineare che chi parla non intende mettere
di loro lo ha ucciso. Il 9 marzo ad Atlanta Anthony Hill, in dubbio l’autorità della polizia, del sistema giudiziario
afetto da malattia mentale, si è spogliato e ha minac- e della democrazia.
Non stupisce che il sindaco di North Charleston abciato di buttarsi dal balcone. Gli agenti sono arrivati e lo
hanno ucciso. Il 22 novembre a Cleveland il dodicenne bia ordinato che tutti gli agenti portino delle videocaTamir Rice è stato ucciso da un agente perché aveva mere addosso: le videocamere non servono solo a regolare l’attività della polizia, ma anche a evitare un esame
una pistola ad aria compressa.
Esiste un altro modo di gestire queste situazioni. Il più approfondito su cosa signiica mantenere gran parfatto che la macchina di Walter Scott avesse un faro te degli Stati Uniti sotto il potere del sistema giudiziario
che non funzionava doveva portare all’intervento del- invece che sotto l’autorità di altre istituzioni della sociela polizia? È giusto che Scott sia stato in carcere diverse tà civile. Gli agenti di polizia combattono il crimine. Gli
volte perché non aveva pagato gli alimenti per suo i- agenti di polizia non sono assistenti sociali, insegnanti,
glio? Vogliamo davvero che siano degli agenti adde- medici o esperti di tossicodipendenza.
Il problema di ripristinare l’autorità della polizia non
strati a combattere il crimine a occuparsi di una persona che ha smesso di prendere le medicine? Una pistola riguarda solo l’autorità della polizia, ma la democrazia
aumenta le probabilità di risolvere paciicamente una stessa. Una riforma che prenda di mira solo i poliziotti
questione di droga? In questo senso la polizia è solo il servirebbe unicamente a nascondere il vero problema,
e a confermare l’abitudine statunitense a concentrarsi
sintomo di qualcosa di più grande.
Nel suo libro La comunità e lo stato (La Comunità sulle azioni di singoli individui e ignorare le funzioni e
1957), il conservatore Robert Nisbet distingueva tra le intenzioni dei sistemi. u as
Q
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Ta-Nehisi
CoaTes
è un giornalista e
scrittore statunitense.
Ha scritto The
beautiful struggle: a
father, two sons, and
an unlikely road to
manhood (Spiegel &
Grau 2008). Scrive
questa column per il
mensile The Atlantic.
Le opinioni
Votate per scegliere
il vostro nemico
Laurie Penny
è tutta una serie di argomenti che di veri e i più deboli. Ho visto lo United Kingdom indepensolito si usano per convincere la dence party (Ukip) farsi largo sfruttando la paura in un
gente a votare anche quando non modo che sarebbe stato impensabile se solo la classe
c’è nessuno per cui votare. Potrei politica non fosse stata così incapace.
Cosa dovremmo fare con quest’alternanza di deludirvi che votare è un dovere civico.
Potrei dirvi che se vi asterrete poi sioni, con quest’idra dalle cento teste di cazzo? Come
non avrete il diritto di lamentarvi. Potrei ricordarvi che possiamo esprimere il nostro disgusto verso questo gugenerazioni di uomini e donne hanno dato la vita per scio vuoto della democrazia? Vorrei che ci fosse una ridifendere il vostro diritto a scegliere un altro politico sposta semplice, ma la verità è molto più triste: qualuncorrotto solo perché ha la cravatta meno brutta. Ma tut- que sia il risultato delle elezioni, una dura lotta attende
chiunque creda ancora nella giustizia sociale. Oggi
to questo non ha senso.
La storia delle sufragette è quella che mi fa imbe- l’unica cosa che possiamo scegliere è il volto del nostro
stialire di più. Le sufragette non volevano il diritto di prossimo nemico. I candidati non sono tutti uguali, ma
voto perché credevano nel sistema parlamentare. Non a prima vista appaiono abbastanza simili nella loro
inerzia e brama di potere.
erano un gruppo di signore con i cartelli
Nel 2010 abbiamo commesso l’errore
in mano e strani cappelli in testa. Erano Nel Regno Unito
donne secondo cui fare una dichiarazio- non c’è nessuno per di pensare che fossero tutti uguali, che i
conservatori non potevano essere peggio
ne politica signiicava avvolgerla intorno cui votare, ma
di Tony Blair. Avevamo torto. Non si trata un mattone e scagliarla contro la ine- moltissimi contro
stra di un ministro. Erano considerate cui votare. Andate a ta di capire se avremo mai il governo che
terroriste e la polizia le trattava come ta- votare se ci riuscite. ci meritiamo. Si tratta di stabilire se vogliamo cinque anni di disastri o cinque
li. Volevano il voto perché lo considera- Votate per
vano uno strumento per trasformare
disperazione. Votate anni di depressione. La scelta è tra diverse sfumature di delusione.
una categoria discriminata in un soggetoggi e cambiate il
Non è certo uno slogan che fa battere
to politico.
il cuore. Le mie pulsazioni sono rimaste
Fino a non molto tempo fa alcuni di mondo domani
regolari, tranne quando Nigel Farage
noi credevano che il sistema potesse essere cambiato dall’interno. Avevamo torto. Nel 2010 ho dell’Ukip ha detto in tv che gli immigrati portano l’hiv
votato per i liberaldemocratici.È in cima alla lista delle nel Regno Unito ed è riuscito a far sembrare David Cacose stupide che ho fatto da giovane, ma la mia speran- meron una persona ragionevole. Ma per fortuna il voto
za era sincera, e lo è stata anche la delusione per le non è il punto dove la democrazia comincia e inisce, e
aspettative tradite. Oggi molti pensano che il modo mi- non lo è mai stato.
La democrazia, come diceva l’intellettuale e attivigliore per afrontare questa situazione deprimente sia
non votare. Non condivido questa scelta, ma la rispetto. sta Howard Zinn, “non è la conta dei voti, ma la conta
Rifiutarsi di votare non è un segno di passività, ma delle cose che facciamo”. In queste elezioni il cambiaun’aggressione passiva. Il problema dell’aggressione mento che la maggior parte dei britannici vorrebbe non
passiva è che funziona solo se al vostro bersaglio inte- è tra le scelte possibili. Arriverà solo se la gente sarà
ressa cosa pensate. Chiunque abbia vissuto una relazio- pronta a lottare per ottenerlo, se agirà in prima persona.
ne burrascosa sa bene che quando qualcuno vuole solo Ci vorranno coraggio, lavoro e tempo. Le sufragette lo
dominarvi non gliene frega niente della vostra aggres- sapevano, avevano capito che la democrazia non inisce nell’urna. Se saremo fortunati comincerà da lì, dalsione passiva, se vi limitate a restare passivi.
Le elezioni britanniche del 7 maggio sono un po’ la la scelta del nostro nemico.
In questo momento non c’è nessuno per cui votare,
stessa cosa. I tory sarebbero contenti se non votaste,
soprattutto se siete giovani o poveri. Per loro è molto ma moltissimi contro cui votare. Andate a votare se ci
meglio non dovervi considerare tra le persone che con- riuscite. Spero che ci riusciate. Votate per disgusto. Votano. Scrivere una cosa del genere è doloroso. Ma negli tate per disperazione. Se vi incontrerò al seggio con il
ultimi cinque anni ho visto i conservatori distruggere il sorriso in volto allora mi preoccuperò, a meno che non
welfare, massacrare il contratto sociale e mandare la abbiate la fortuna di essere scozzesi. Votate contro l’inpolizia antisommossa a picchiare chiunque osasse tolleranza, l’odio e la paura. Votate oggi e cambiate il
esprimere il suo dissenso. Ho visto i liberaldemocratici mondo domani. Non siamo impotenti come vorrebbechinare la testa e lasciar fare. Ho visto i laburisti arren- ro farci credere. Scegliete il vostro nemico e sceglietelo
dersi alle bugie dei conservatori e tradire i malati, i po- con cura. Buona fortuna. u as
C
’
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
LAURIE PENNY
è una giornalista
britannica. È
columnist del
settimanale New
Statesman e
collabora con il
Guardian. In Italia ha
pubblicato Meat
market. Carne
femminile sul banco
del capitalismo
(Settenove 2013).
Reportage
Il muro
di Malta
Gudrun Sachse, Neue Zürcher Zeitung, Svizzera
Foto di Darrin Zammit Lupi
L’isola del Mediterraneo è uno dei primi approdi
per migliaia di profughi africani che fuggono
dalla guerra e che troppo spesso iniscono
rinchiusi in centri di detenzione simili a prigioni
l gommone arriva alle prime luci
dell’alba. Sul piccolo molo ci sono
ad aspettarlo funzionari pubblici e
giornalisti della stampa locale.
Għar Lapsi è un’insenatura da sogno nel sud dell’isola, a cui si arriva percorrendo una scalinata interminabile. Con le sue coste ripide, Malta è una fortezza nel mezzo del mar Mediterraneo.
Nelle sue case in tufo dorato dall’aria arabeggiante e con i tetti piatti vivono quasi
420mila persone, su una supericie totale
di 316 chilometri quadrati: in nessun altro
paese d’Europa la densità demograica è
così alta.
Chi toglie spazio agli isolani deve sapere
che non è il benvenuto, a meno di non avere
un notevole potere d’acquisto e di fermarsi
solo per qualche settimana, magari per ammirare le rocce di Għar Lapsi, visitare la famosa grotta azzurra a bordo di pescherecci
variopinti e lasciarsi avvolgere dallo scintillio delle sue acque blu.
Dal gommone scendono trentacinque
uomini e undici donne. Un Cristo con un
mantello rosso osserva la scena chiuso in
una teca di vetro dentro una nicchia scavata
nella roccia. Ha le braccia aperte, come per
accogliere i nuovi arrivati. Ma loro non gli
prestano attenzione. Il freddo gli è entrato
nelle ossa, hanno le vesciche piene da scoppiare. E poi Gesù Cristo non è nemmeno il
loro dio. Loro hanno Allah. I somali imboccano la stretta salita circondati dai poliziot-
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ti e seguiti dagli obiettivi delle telecamere.
In cima li aspetta un pullman della polizia.
Prima di farli salire, gli agenti li perquisiscono e li fotografano. “Noi volevamo andare
in Italia”, ripetono, mentre i poliziotti annuiscono. Nessuno vuole fermarsi a Malta. E i
maltesi non vogliono nessuno. Malta dista
dall’Africa 340 chilometri, ma i suoi abitanti sarebbero felici se l’isola potesse essere
spostata un po’ più lontano dalla coste africane. Lontano da quel detestato continente
e dalla sua minacciosa vastità.
Il cuore bianco
“Altri ancora”, mormora la guida turistica
Louis mentre, di sera, guarda alla tv un servizio sugli ultimi sbarchi. Poi aggiunge che
a Malta molti la pensano come lui. Del resto, gli sbarchi sono raccontati con grande
dovizia di particolari dalla tv e finiscono
sempre sulle prime pagine dei giornali locali. È così che si difonde la sensazione che
un intero continente si stia riversando
sull’isola, spiega. Naturalmente Louis sa
che la mattina sono arrivati solo quarantasei stranieri. “Ma noi siamo pochi: è come
se fossero 46mila”, dice.
Malta è arida, piove poco, ma la terra è
fertile e a volte brilla di rosso per il ferro che
contiene. Muretti in pietra delimitano piccoli campi in cui si coltivano patate e crescono viti e olivi. Le patate si esportano in
Germania e nei Paesi Bassi: il loro commercio è molto importante per l’isola. Ma a trai-
nare l’economia è il turismo. Ogni anno un
milione e mezzo di persone visitano Malta
e le vicine isolette di Gozo e Comino. Non
sono molte rispetto a un’isola come Maiorca, per esempio, dove ogni anno arrivano
quasi dieci milioni di turisti. Malta è meno
nota, meno verde e non ha quasi spiagge di
sabbia, ma in compenso è più tranquilla.
Quando le grandi navi da crociera approdano al porto della Valletta, la capitale,
le viuzze della città si riempiono di gente. I
poliziotti di guardia davanti al palazzo del
governo si fanno da parte per permettere a
ragazzine in pantaloni attillati di farsi scattare una foto ricordo a cavallo dei vecchi
cannoni. Durante la visita i turisti ricevono
Un migrante soccorso da una barca delle forze armate maltesi, il 31 maggio 2007
da Louis una rapida lezione sulla geograia
e la storia dell’isola, ma dimenticano tutto
in un attimo. I templi megalitici più antichi
risalgono al 5200 aC. Poi arrivarono i romani, seguiti dagli arabi. Dopo un breve intermezzo normanno, Malta cadde in mano
agli svevi e poi agli aragonesi. L’isola faceva
parte del grande impero spagnolo prima
che, nel 1798, Ferdinand von Hompesch la
cedesse senza colpo ferire a Napoleone e ai
suoi soldati, che la occuparono e la saccheggiarono. Louis sa che nessuno lo sta ascoltando, ma continua a parlare con entusiasmo. Due anni dopo Malta diventò una colonia della corona britannica e un’importante base navale nel Mediterraneo. Nel
1964 dichiarò l’indipendenza, ma le ultime
truppe inglesi partirono solo nel 1979. Forse
i turisti ricordano che Malta è entrata
nell’Unione europea nel 2004. L’isola, però, è rimasta fuori dalla Nato e ha mantenuto in vigore il rigido divieto di abortire. Il
maltese, che deriva da un dialetto arabo, è
stato riconosciuto come lingua ufficiale
dell’Unione.
La Valletta è un gioiello. Le case sono
ornate da piccoli bovindi simili a scai di nave e nelle chiese risplendono altari meravigliosi. Malta è un po’ Lisbona, un po’ Sicilia
e un soio di oriente. Raramente si vede
qualche persone nera, magari aggrappata
dietro a un camion che raccoglie l’immon-
dizia o intenta ad aiutare un fabbro che
monta una struttura metallica davanti alla
sua bottega. Il cuore di Malta è ancora bianco, anche se sull’isola vivono migliaia di
africani.
Quello sbarco a Għar Lapsi, avvenuto
nel maggio del 2012, era il secondo in due
giorni. Quell’anno ce ne sono stati in totale
27. Nel 2013 sono stati 24 e sull’isola sono
arrivati 2.008 profughi. Negli ultimi dieci
anni a Malta sono sbarcate 17.743 persone.
Secondo i dati dell’uicio europeo di sostegno per l’asilo (Easo, che ha sede alla Valletta), Malta è il paese europeo con più richiedenti asilo per numero di abitanti. Tra il
2009 e il 2013 ha concesso asilo a quasi
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14mila persone. Con queste cifre, l’isola è in
cima alla graduatoria europea, prima ancora di Svezia e Norvegia.
Il fatto che tutti questi stranieri siano
quasi invisibili è dovuto alle misure prese
sull’isola. I boat people, come vengono chiamati qui i migranti, subito dopo l’arrivo vengono rinchiusi in uno dei tre centri di detenzione. Qui diverse centinaia di uomini dormono in uno stanzone pieno di letti a castello. I richiedenti asilo possono restare in
queste carceri speciali ino a diciotto mesi,
poi sono trasferiti nei cosiddetti open centers, i centri d’accoglienza, dove possono
fermarsi al massimo per altri due anni. Chi
è fortunato viene mandato dall’Agenzia per
il benessere dei richiedenti asilo (Awas) al
Marsa open center del dottor Ahmed Bugri
o al Peacelab gestito dal frate francescano
Dionysius Mintof. Anche alla casa Balzan
della commissione per l’emigrazione, che
ha sede in una strada secondaria della Valletta, proprio accanto al palazzo del governo, si vive in maniera dignitosa.
Ma, come spiega Neil Falzon, un avvocato maltese che si occupa di diritti umani,
per chi inisce in uno dei cinque open centers
gestiti dallo stato la vita diventa un inferno.
Falzon ha trascinato La Valletta davanti alla
corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Un gesto così radicale, per di più compiuto da un omosessuale dichiarato, non lo
ha reso il beniamino di questo cattolicissimo paese. L’avvocato sostiene di essere
l’uomo più odiato dell’isola. Il lavoro è stato
a lungo la sua ossessione: ino al 2009 Falzon ha diretto l’ufficio maltese dell’Alto
commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e in seguito è stato il rappresentante sull’isola di Amnesty international. Lavorava giorno e notte a casi che non
lo facevano dormire: stupri di massa in Africa, torture in Medio Oriente. Le persone
che gli stavano intorno sofrivano a causa
del suo costante malumore, racconta oggi
nel suo abito dal taglio impeccabile. Alla ine gli è venuta la depressione e ha avuto un
esaurimento nervoso.
Dopo un anno di convalescenza, nel
2011, a 37 anni, Falzon ha creato la Aditus,
una fondazione che si batte per dare voce a
chi non ce l’ha. Oggi sottolinea che c’è una
netta diferenza tra le persone che scappano da guerre e violenze e quelle che emigrano per motivi economici. A Malta approdano quasi solo vittime di conlitti: “In questi
casi”, spiega Falzon, “ci sono precisi diritti
da rispettare”. È su questa premessa che si
basa la sua critica al governo: rinchiudere
dei profughi di guerra in centri sovrafollati,
claustrofobici e senza nessuna privacy è
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una violazione dei diritti umani. Per questo
Falzon si è rivolto alla corte di Strasburgo,
che alla ine gli ha dato ragione, creando
così un precedente che ha fatto inire la politica di accoglienza maltese sulle prime
pagine dei giornali di tutto il mondo. L’isola
è stata descritta come un “grande carcere”.
Il primo ministro si è scusato pubblicamente, ma ha anche chiesto all’Unione di non
abbandonare il paese a se stesso, e lo stato
ha versato un risarcimento alle vittime.
Tuttavia, accusa Falzon, da allora il trattamento riservato ai profughi non è cambiato
granché. “Porteremo un caso dopo l’altro in
tribunale inché la situazione non cambierà”, promette l’avvocato.
Come in guerra
Malta non è un paese povero: in confronto
al resto d’Europa se la passa piuttosto bene.
Grazie a una serie di agevolazioni iscali,
dagli anni settanta attira gli investimenti
stranieri: è qui che diverse aziende tedesche
come la Playmobil, la fabbrica di occhiali
Menrad o quella di scarpe Lloyd producono
i loro beni destinati all’esportazione. Con
Da sapere
Lavoro e migranti
u Malta è uno stato insulare del mar Mediterraneo. Con un’estensione di 316 chilometri quadrati e 416mila abitanti è uno dei paesi più piccoli e più densamente popolati al mondo. Nel
1964 ha conquistato l’indipendenza dal Regno
Unito. Nel 2004 è entrato nell’Unione europea e dal 2008 fa parte dell’eurozona. Ha un pil
pro capite di 17.200 euro (2014) all’anno mentre
il tasso di disoccupazione è del 5,9 per cento
(febbraio 2015). Secondo i dati del governo della
Valletta, negli ultimi dieci anni sull’isola sono
sbarcati 17.743 tra migranti e profughi, quasi
tutti africani. u Il 20 aprile 2015 la nave Gregoretti della guardia costiera italiana ha portato a
Malta i 24 corpi delle vittime del naufragio avvenuto nel canale di Sicilia la notte tra il 18 e il
19 aprile, quando un barcone proveniente dalla
Libia con almeno 800 persone a bordo si è ribaltato: i superstiti soccorsi sono stati 28.
un tasso di disoccupazione del 6 per cento,
il paese è al di sotto della media europea.
Anche per questo Falzon non sopporta
le proteste di chi sostiene che Malta è troppo povera per accogliere tanti stranieri. A
partire dal 2007 La Valletta ha ricevuto più
di settecento milioni di euro dal Fondo europeo di sviluppo regionale, a cui si sono
aggiunti vari milioni arrivati nel 2008 proprio per aiutare l’isola a dare un’accoglienza più dignitosa ai profughi. “Il governo
non sa gestire l’assistenza ai migranti”, accusa l’avvocato. Da anni, in efetti, Malta
tratta l’immigrazione come un problema
temporaneo: prima o poi si difonderà la
voce che sull’isola i profughi non sono graditi, pensano i maltesi, quindi non c’è nessun motivo per investire nella loro integrazione. “È assurdo”, commenta Falzon.
“Chi ha bisogno di fuggire fugge, a prescindere dalla disumanità del trattamento
che gli riserviamo”.
I migranti hanno cominciato ad arrivare dall’Africa nel 2002. Jon Hoisaeter, il
rappresentante dell’Unhcr a Malta, è rimasto stupito quando durante la sua prima
visita sull’isola ha scoperto l’esistenza di
campi profughi simili a quelli che si trovano solo nelle zone di guerra. “Malta era al
limite”, racconta. Le condizioni dei campi
erano talmente cattive che l’Unhcr ha
aperto nel 2005 un uicio sull’isola e ne ha
aidato la direzione a Hoisaeter. Da allora
Hoisaeter cerca d’inluire sulle decisioni
del governo e prova a spiegare alla popolazione e ai mezzi d’informazione che chi
arriva sull’isola non è un immigrato clandestino, ma un rifugiato. Allo Hal Far Tent
Village, che continua a chiamarsi così anche se le tende sono state rimpiazzate da
container italiani, vivono 175 persone. Il
campo si trova nel sud dell’isola, poco lontano dall’aeroporto. Dietro le recinzioni ci
sono ragazzi in piedi e bambini seduti a
terra sotto il sole a picco. Provengono quasi tutti dalla Somalia, dall’Eritrea, dal
Gambia e dal Mali. In questo campo ci sono i profughi a cui, dopo almeno un anno di
detenzione, è stato concesso l’asilo.
Chi invece da Malta raggiunge illegalmente un altro paese europeo, quando viene scoperto è riportato sull’isola e internato di nuovo. Ma per molti migranti scappare è l’unica possibilità di lasciare Malta,
visto che gli altri paesi dell’Unione cercano
in ogni modo di non aiutare l’isola a gestire
le richieste di asilo. Le eccezioni sono poche. Una volta cento persone a cui era stato
riconosciuto lo status di rifugiati si sono
trasferite in Germania, e nel 2012 la Svezia
si è dichiarata disposta a farne entrare di-
Nel campo profughi di Hal Far, 2 gennaio 2014
ciannove. Nello stesso anno il Liechtenstein ha accolto un eritreo.
Pochi chilometri a sud della capitale,
l’autista del taxi su cui viaggiamo ci consiglia di non uscire dalla macchina perché
“questa è la zona dei clandestini”. Subito
dopo spinge sull’acceleratore e sfreccia accanto al porto di Marsa e ai suoi cantieri
navali. Il Grand Harbour, su cui il porto si
afaccia, è un’insenatura che si insinua per
diversi chilometri all’interno della costa
nordorientale dell’isola. Superiamo un portone di ferro e una recinzione, ed entriamo
in quella che un tempo era una scuola e oggi
è il centro di accoglienza di Marsa. Ahmed
Bugri è seduto nel suo ordinatissimo uicio:
preciso e metodico, è stato lui a far erigere
una recinzione intorno al centro appena entrato in carica. Bugri è arrivato dal Ghana
venticinque anni fa. Allora era uno dei tre
neri dell’isola. A quei tempi tutti lo riconoscevano per il colore della pelle, oggi perché
è diventato famoso: l’anno scorso gli è stata
conferita la medaglia d’onore di Malta. Alla
ine Bugri è riuscito a convincere i tassisti a
fermarsi in questa zona.
Fino al 2007 a Marsa i profughi vivevano
abbandonati a se stessi. Lo stato aveva perso il controllo del campo, e in poco tempo
gli africani avevano imposto le loro regole:
Marsa era il loro villaggio, loro decidevano
chi aveva voce in capitolo, chi guadagnava
e come. Polli, donne, droga: tutto era in
vendita. Il posto era sporco e la puzza insopportabile. Perino le ambulanze si riiutavano di entrare per raccattare chi veniva picchiato quando i somali si ribellavano contro
i “fratelli” del resto del continente e avevano la meglio.
La missione di Bugri
In quegli anni a Malta nessuno sapeva
quanti stranieri vivessero nell’isola. “Più di
mille”, stima oggi Ahmed Bugri, che allora
lavorava come stagista in un uicio pubblico. Per la preghiera del venerdì si radunava
una grande folla: musulmani a perdita d’occhio. I maltesi erano impietriti.
Lo smartphone di Bugri vibra. È stato il
colore della sua pelle o sono stati i suoi modi
duri ma giusti a convincere il governo a scegliere lui per rimettere ordine in quell’inferno? Oppure i politici cercavano qualcuno a
cui dare la responsabilità del loro fallimento? Bugri sa quanto vale. Non si considera
un fantoccio da manovrare. Non ha rotto
con la famiglia e abbandonato il suo paese
per fare il burattino di qualcuno. Ahmed
Bugri ha avuto un’educazione rigidamente
musulmana: suo padre era un imam. Ma lui
voleva diventare cristiano e per questo si è
allontanato dalla famiglia. Con l’aiuto dei
gesuiti, è partito dal Ghana e ha raggiunto
Malta. Ma neanche il cattolicesimo lo ha
convinto. Oggi è un pastore evangelico. Si è
laureato in giurisprudenza all’università di
Malta e ha avuto tre igli dalla sua compagna maltese. Il più grande, che ha 16 anni, si
è fatto male cadendo dallo skateboard, mi
spiega Bugri guardando il telefono. Poi mi
chiede se può rispondergli.
Nel 2008 Bugri ha fondato un’ong. Se il
suo compito era mettere ordine nel campo,
ha detto al ministro, allora l’avrebbe fatto a
modo suo. Diventato direttore del centro di
accoglienza di Marsa, per prima cosa ha
chiesto di costruire una recinzione e poi ha
piazzato guardie all’ingresso, per controllare chi cercava di entrare o uscire. Ha ridotto
il numero degli abitanti del campo a cinquecento e ha incaricato alcuni di loro d’intonacare le pareti e d’imbiancare i soitti,
pagandoli sei euro all’ora. Anche se il centro
diventava più accogliente, Bugri non ha mai
smesso di ricordare ai suoi ospiti che quel
posto era “il loro nemico, non la loro casa”.
La sua idea è semplice: ognuno ha un
anno di tempo per costruirsi una vita a Malta, per trovare un lavoro regolare e un tetto
sotto cui vivere. I profughi seguono corsi di
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Reportage
Migranti somali soccorsi dal peschereccio siciliano Esaco al largo di Malta, 31 maggio 2007
inglese e di informatica. Dopo un anno lasciano il centro e a quel punto devono cavarsela da soli. Il lavoro di Bugri è conosciuto in tutta Europa. Quando era commissaria
europea per gli afari interni, Cecilia Malmström ha visitato il centro di Marsa open
center due volte e le sue visite sono durate
molto di più della mezz’ora canonica prevista. Bugri, del resto, sa bene come intrattenere i suoi ospiti mentre li guida negli angoli più remoti del suo regno. Indica le camerate con sedici letti, arredate con piccoli armadi, e la stanza dove si gioca a biliardino.
Fa i complimenti a Massad che sta lavando
il pavimento nei gabinetti, poi apre la porta
di una camera con due letti. Tutte le persone che arrivano a Malta, racconta, hanno
vissuto dei traumi. Devastate dal peso
dell’angoscia e della fatica, qui possono curare lo spirito. Nel campo una sola persona
si è tolta la vita, nel 2009. “Mentre negli altri centri c’è più di un tentativo di suicidio
alla settimana”, sottolinea Bugri.
Un laboratorio di pace
Louis, la guida turistica, commenterebbe
probabilmente questa storia con un’alzata
di spalle che più o meno vorrebbe dire:
avrebbero fatto meglio a restarsene a casa
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loro. Ahmed Bugri riesce a capire perino
atteggiamenti del genere, che spiega con il
fatto che il tradizionale carattere ospitale
dei maltesi è stato messo per anni a dura
prova. Quando i primi stranieri sono arrivati dal mare stremati dalla fame, i maltesi gli
hanno portato da mangiare e da vestirsi. Ma
nessuno accettava il cibo e i vestiti. “Il fatto
è che i musulmani hanno regole rigide
sull’alimentazione. E i giovani preferiscono
i jeans ai vecchi pantaloni tradizionali”. Bugri spiega così l’apparente ingratitudine che
è rimasta tanto impressa agli isolani. “Queste persone hanno bisogno di qualcosa da
fare, non di elemosina”.
Quando ricevono il sussidio statale di
104,66 euro al mese, quasi tutti mandano
cento euro a casa, anche per difendere la
loro dignità e per non dover ammettere di
non aver concluso niente. “Anziché lavoro,
ai rifugiati si preferisce dare tranquillanti”.
Quasi tutti prendono qualche tipo di pasticca, spiega Bugri, che poi racconta come
molti ospiti del suo centro mostrino i comportamenti tipici di chi assume psicofarmaci: un uomo sta seduto immobile su uno
sgabello con lo sguardo isso a terra; un altro cammina ciabattando per dieci metri in
una direzione e poi indietro. Scene così si
ripetono tutto il giorno, ogni giorno.
Chi arriva a Malta ha alle spalle mesi di
viaggio, prima attraverso il deserto e poi per
mare. A partire non sono solo persone istruite, ma anche ragazzotti che non hanno idea
di cosa sia l’Europa. Nessuno di loro sa che
in alcuni paesi europei il tasso di disoccupazione è più alto che in Marocco, e che alcuni
europei hanno cominciato a trasferirsi in
Africa per lavorare. E nessuno immagina
che in molti paesi d’Europa non si fa diferenza tra chi emigra per motivi economici e
chi fugge da regimi brutali.
“Il governo di Malta apprezza il mio lavoro”, racconta Bugri. “Però nessun ministro ha mai messo piede qui dentro”. La visita di un ministro potrebbe dare l’impressione che il politico sia favorevole all’integrazione, mettendo a rischio la sua carriera.
È per questo che Bugri non si aspetta soluzioni dalla politica: solo il tempo potrà cambiare qualcosa. Magari con un po’ d’aiuto da
parte del Signore.
A Malta varie organizzazioni cristiane si
occupano dei rifugiati. Le persone più ostili
all’immigrazione, come Louis, sostengono
che in questo modo la chiesa spera di guadagnare fedeli, una specie di “missione nel
proprio paese, se possiamo chiamarla così”.
A queste accuse frate Dionysius Mintof risponde alzandosi dalla panchina di pietra e
guidandomi, attraverso il giardino del suo
centro, ino a una piccola moschea. L’ha fatta costruire per permettere ai suoi ospiti di
sentirsi a loro agio. A dirla tutta, quando era
un giovane francescano di 17 anni Mintof
sarebbe voluto andare a fare il missionario
in Africa. Sessant’anni dopo l’Africa è venuta da lui. “A volte la vita gioca strani scherzi”, dice sedendosi di nuovo di fronte alla
sua chiesa, con il bastone tra le ginocchia. I
grilli friniscono sugli eucalipti e nei recinti
belano le pecore, mentre l’odore pungente
di un caprone rovina l’idillio bucolico di
questo “laboratorio di pace”. Il Peacelab, il
centro gestito da Mintof, dista pochi passi
dallo Hal Far Tent Village. “Lì dentro non
fanno che mangiare e dormire, le persone
sono trattate peggio delle bestie”, dice indignato il frate nel piccolo paradiso che ha
fondato quarant’anni fa. Da allora nel suo
centro sono passate più di diecimila persone. Attualmente nelle casette bianche del
bambini durante la guerra. Per Malta fu un
periodo durissimo. L’aeronautica tedesca
bombardò per la prima volta l’isola, che era
la base britannica più importante del Mediterraneo, nel dicembre del 1941. Durante le
tremila incursioni che seguirono caddero
quasi 14mila tonnellate di bombe: più ordigni per metro quadrato che in qualunque
altro posto investito dal conlitto.
“Questo è un luogo storico”, dice Mintof battendo con il bastone sul pavimento
in pietra della sua camera. Il presidente statunitense Franklin Roosevelt, il primo ministro britannico Winston Churchill e il
ministro degli esteri sovietico Viačeslav
Molotov s’incontrarono cinque volte in
questo ediicio, che all’epoca faceva parte
di un complesso di bunker, per preparare la
conferenza di Jalta.
Alla ine della guerra a Malta non c’era
più nulla. Migliaia di persone emigrarono
nel Regno Unito, in Australia, in Canada e
negli Stati Uniti. Negli ultimi decenni circa
160mila maltesi hanno abbandonato l’iso-
Padre Philip Calleja ricorda bene
il giorno del 1970 quando arrivarono
i primi profughi dall’Uganda.
Dopo di loro fu il turno degli iracheni
Peacelab vivono 38 rifugiati. Il frate ha installato un’altalena per far giocare i bambini
del campo vicino. Le porte del suo centro
sono sempre aperte a tutti. Al Peacelab lavorano anche volontari che insegnano inglese, spiegano come usare il computer e
fanno conoscere ai nuovi arrivati la cultura
e le regole dell’isola. Gli ospiti si cucinano i
pasti da soli. Di giorno lavorano. Ma a volte,
dopo aver trasportato pietre per tutto il giorno, ricevono solo cinque euro dall’impresa
edile per cui hanno faticato. Quando succede, Mintof alza la voce e zoppica ino al telefono per sfogare la rabbia. Quando nel
giardino fa buio, Mintof va ad augurare la
buonanotte a tutti, spostandosi lentamente
tra un bungalow e l’altro. Se in una stanza
c’è ancora un letto libero, ogni tanto si sdraia insieme ai profughi. “Come in una famiglia”, commenta.
La madre di Mintof diede alla luce undici igli. I maschi erano sette. Sopra il suo
letto, che si trova in una stanza stretta collegata da un corridoio alla chiesa, è appesa
una foto che lo ritrae, giovanissimo e già
frate francescano, in mezzo ai suoi genitori.
Il padre era uiciale di marina e nella foto è
vestito di bianco, la madre indossa un pesante vestito scuro. La donna tirò su i suoi
la. “Ma a nessuno piace ricordarlo”, dice
Mintof, aggiungendo poi che anche l’odio
verso i tedeschi è stato dimenticato. E di
questo bisogna ringraziare anche persone
come lui, che da ragazzo andava di scuola in
scuola per parlare di pace agli studenti. Sono discorsi che gli riescono ancora bene.
Ma oggi, invece di rivolgersi agli scolari,
all’ora di pranzo Mintof si siede nello studio di una radio locale e per alcuni minuti
dispensa battute e perle di saggezza a tutti i
maltesi, un po’ come faceva don Camillo
con Peppone.
L’odore della burocrazia
Quando alle nove si aprono le porte dell’uficio della commissione per l’emigrazione,
davanti al palazzo si è già formato un piccolo capannello di persone. Abdel è arrivato
prestissimo per essere il primo. Padre Philip
Calleja è già al suo posto da ore. È uscito il
mattino presto dalla casa di riposo per sacerdoti in cui vive e con la sua Skoda ha raggiunto la capitale. Calleja è l’eminenza grigia della commissione per l’emigrazione. Il
suo uicio sa di carte vecchie: l’odore della
burocrazia. La sua scrivania è ricoperta di
lettere, cartelline e faldoni. Il sacerdote è
seduto dietro una montagna di fogli e, a 84
anni, non dà l’impressione di poter mai
smaltire tutti i documenti.
I primi profughi sono usciti dai centri di
detenzione nel 2003. “Qualcuno doveva
pure aiutarli”, dice Calleja. Così ci ha pensato lui. Da allora tutti i rifugiati che arrivano sull’isola si rivolgono al prete, che distribuisce posti di lavoro e denaro per le piccole
spese, aiuta a risolvere i problemi con le istituzioni e di tanto in tanto ofre anche un
posto dove dormire. Abdel è siriano e ha solo bisogno di una irma su un documento da
presentare a un ufficio pubblico. “Next”,
grida il sacerdote, lanciando uno sguardo
casuale all’uomo che si sporge con fare umile oltre il tavolo per stringere la mano al
“monsignore”. A tutta questa gentilezza il
sacerdote non è più abituato. “Next”. L’uomo che entra sfoggia una camicia rossa e un
pizzetto quasi vezzoso. Parlando in falsetto,
dice di aver bisogno di soldi per andare a
trovare alcuni amici in Germania. I brevi
viaggi all’estero sono in genere l’inizio di
una vita nell’illegalità. “No”, risponde il
prete. Il somalo insiste: “Come on, solo trenta euro”. Promette di restituirli entro breve.
Calleja gira la sedia verso il computer, digita con calma una serie di numeri e poi gli
porge un assegno da quindici euro. Il somalo impreca: è troppo poco. Calleja prende
l’assegno e lo mette via. “Go”, dice. Poi si
rivolge alla persona successiva, che si è già
seduta sulla sedia davanti alla scrivania.
Philip Calleja ricorda bene il giorno del
1970 quando a Malta arrivarono i primi profughi dall’Uganda. Dopo fu il turno degli
iracheni. “Erano persone istruite”, dice.
“Gli ingegneri e i medici ripartirono immediatamente per gli Stati Uniti”. Nel 1992,
invece, sull’isola sbarcarono 291 jugoslavi.
“Erano bravissimi con i computer quando
noi ancora non sapevamo neanche cosa
fossero”, ricorda. Anche loro sono spariti in
un batter d’occhio. Oggi invece Calleja resta perplesso quando sente parlare della situazione familiare di alcuni somali: “Cinque igli con cinque donne diverse che vivono chissà dove e sono tutte sposate. Non è
bello”.
Uno dei sette ediici gestiti dalla commissione per l’emigrazione si trova a Balzan, una piccola località a mezz’ora dalla
Valletta con case dalle facciate decorate e
giardinetti con cancelli in ferro battuto. Uno
spesso muro di pietra costeggia una stradina secondaria. Dietro il muro c’è una casa
signorile con un atrio grande come una sala
da ballo. Prima di farci entrare un’addetta
alla sicurezza registra il nostro arrivo e poi
torna a dar da mangiare ai suoi gattini.
Un’ampia scalinata porta al primo piano.
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Reportage
Sulla ringhiera sono appesi ad asciugare teli da bagno e coperte. Alle pareti l’intonaco
in alcuni punti si è staccato. La struttura
ospita gratuitamente famiglie o madri con
igli. Una camera per quattro persone misura dieci metri quadrati: un letto matrimoniale per i genitori, due lettini per i bambini,
un televisore e una radio su uno scafale. La
inestra è coperta da una tenda spessa che
ripara dal sole. Quattro stanze come questa
danno su uno stretto corridoio. Il bagno con
la doccia è in comune tra tutti gli ospiti.
Immigrazione Sei video su Internazionale.it
In mezzo al mare
Hibo ha 27 anni. Ha studiato giurisprudenza in Somalia e parla un buon inglese. Ogni
tanto qualche organizzazione umanitaria le
ofre lavoro come interprete, così riesce a
guadagnare un po’ di soldi extra. Hibo è
scappata con il suo compagno, un giornalista perseguitato per le sue opinioni, che in
questo momento si trova nella vicina biblioteca. “Non rientriamo propriamente nello
stereotipo dei rifugiati”, dice Hibo. Tornerebbero volentieri a casa, ma sanno che se
lo facessero sarebbero sicuramente vittime
di tortura e violenze. Hibo unge una padella
con uno straccio intriso d’olio per preparare
le frittelle per la colazione. Certe volte, dice,
non è sicura che questa situazione di stallo
sia meglio della tortura.
Accanto a lei in cucina ci sono altre tre
donne con i bambini attaccati alla gonna.
Vengono da paesi africani diversi e ognuna
ha il suo modo di preparare le frittelle. “Il
nostro gommone era lungo così”, dice Hibo
indicando i sette metri di lunghezza della
cucina. A bordo c’erano ottanta persone.
Prima della partenza dalla Libia i passeurs
hanno aidato il timone a uno dei migranti
e gli hanno messo una bussola in mano. Accanto a Hibo era seduta una donna con un
bambino di tre mesi. Quando la barca è partita la donna ha cominciato a vomitare. Il
neonato l’hanno tenuto a turno gli altri migranti. Il viaggio è durato tre giorni e tre
notti. Prima è inita l’acqua, poi il carburante. Il gommone stava andando alla deriva
quando è stato avvistato da un elicottero.
Un uomo ha gridato attraverso un megafono: “Proseguite il viaggio fino a Malta”.
“Italia”, hanno gridato loro in risposta. “Out
of fuel”. Erano le dieci di mattina. Alle sei di
pomeriggio è arrivata la guardia costiera
che ha rimorchiato la barca ino a Malta. Sono sopravvissuti tutti, anche il neonato.
La guida turistica Louis ha saputo di
quello sbarco dal telegiornale della sera. E
anche in quel caso ha avuto la sensazione
che i migranti arrivati non fossero ottanta,
ma ottantamila. u fp
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Le porte d’Europa
Stefano Liberti per Internazionale
l conine europeo è un muro che
dobbiamo scavalcare”. Così descriveva l’ingresso nell’Unione
un giovane siriano incontrato in Turchia,
che cercava di raggiungere la zona Schengen per ricostruirsi una vita lontano dalle
bombe.
Durante il nostro viaggio lungo la frontiera europea abbiamo visto muri sempre
più alti, mari chiusi, spazi blindati. Al conine tra la Turchia e la Bulgaria, tra il Marocco e l’enclave spagnola di Melilla, nella
francese Calais, da dove i migranti cercano di raggiungere il Regno Unito, in mezzo al mar Mediterraneo e all’aer oporto di
Fiumicino, la frontiera somiglia al fronte
di una guerra che l’Unione europea combatte con strumenti ultratecnologici: sensori, telecamere termiche, radar e droni.
Ogni mezzo serve a impedire l’accesso degli intrusi, che tecnicamente sono deiniti
“irregolari”. E, come ogni guerra, anche
questa ha le sue vittime: secondo la stima
uiciale (probabilmente prudente) dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati (Unhcr), nel Mediterraneo nel
2014 ci sono stati 3.419 morti.
Borderline, la serie di sei reportage video che sarà pubblicata a partire da questa
settimana sul sito di Internazionale, prova
a raccontare questo conine che si attorciglia su se stesso, si fa ostacolo e blocca
persone in fuga da conlitti e persecuzioni.
Se analizziamo i dati, vediamo che chi cerca di arrivare in Europa viene soprattutto
da paesi in guerra come la Siria, o sottopo-
“I
sti a brutali dittature come l’Eritrea e il
Gambia. Tutte persone che, una volta entrate in Europa, ottengono l’asilo politico o
la protezione umanitaria. È il grande paradosso: cerchiamo di bloccare un lusso
che poi riteniamo legittimo. Non forniamo ai migranti mezzi di accesso legale e
gettiamo i profughi nelle mani degli imprenditori del trasporto clandestino.
Un documento storico
Le persone conosciute lungo questi spazi
amori che sono i conini si aspettavano
un’Europa accogliente. Invece si sono
confrontate con situazioni al limite del sostenibile: le trufe degli scaisti, i respingimenti violenti, i furti dei piccoli criminali.
I più ostinati – o i più fortunati – ce l’hanno
fatta. Gli altri languono ancora in un limbo d’indeterminatezza.
Questi video, realizzati con il sostegno
dell’Open society foundations, hanno un
obiettivo ambizioso, ma necessario: proporre una mappatura del conine europeo
che sia anche un documento storico. In
modo che tra venti o trent’anni i nostri igli
e nipoti possano ricordarsi di come, tra la
ine del ventesimo secolo e l’inizio del
ventunesimo, l’Europa abbia deciso di
considerare l’altro un pericolo invece che
una ricchezza. u
Stefano Liberti è un giornalista italiano.
Ha scritto Land grabbing (Minimum fax
2011). Con Andrea Segre ha girato Mare
chiuso (2012).
Cosa fai
il 2, 3 e 4
ottobre?
facebook.com/internazfest
@Internazfest - #intfe
Algeria
Vu/PhotomasI
Kamel Daoud a Orano, 31 gennaio 2015
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
La voce
fuori
dal coro
Adam Shatz, The New York Times Magazine,
Stati Uniti. Foto di Ferhat Bouda
Nei suoi articoli critica sia l’estremismo islamico
sia il conformismo dei nazionalisti. Il giornalista
Kamel Daoud è il simbolo di un’Algeria che cerca
di liberarsi del suo passato
o sentito parlare per la
prima volta di Kamel
Daoud alcuni anni fa,
quando un’amica algerina mi ha consigliato di leggerlo per
capire com’era cambiato il paese: “Se l’Algeria riesce a produrre un Kamel Daoud, c’è
ancora speranza”.
Leggendo gli articoli di Daoud sul Quotidien d’Oran, un giornale algerino in francese, ho capito cosa voleva dire la mia amica. Lo stile è originale e conciso: scherzoso,
lirico, sfrontato. Ho anche capito perché è
stato accusato di essere razzista e di “odiare se stesso”. Dopo l’11 settembre 2001, per
esempio, scrisse che gli arabi “si erano
schiantati” per secoli e che avrebbero continuato a farlo, visto che erano noti più per
dirottare gli aerei che per fabbricarli. Ma
mi è sembrata più che altro la provocazione di uno scrittore intelligente che per una
volta si era lasciato trasportare dalle sue
metafore.
Leggendo Daoud ho avuto la sensazione che a motivarlo non sia il disprezzo di sé,
ma l’amore deluso. Ho visto in lui uno scrittore quarantenne, un uomo della mia età,
H
convinto che in Algeria, e nel mondo musulmano in generale, i cittadini meritino di
più dei regimi militari o degli islamisti, il
menù di due portate che si sono visti ofrire
dalla ine del colonialismo in poi. Niente,
però, mi aveva preparato al suo primo romanzo, Meursault, contre-enquête, una vibrante riscrittura del classico di Albert Camus del 1942, Lo straniero, seguendo il punto di vista del fratello dell’arabo ucciso da
Meursault, l’antieroe di Camus. Il romanzo,
uscito in Algeria nel 2013, non solo dà nuova
vita allo Straniero, ma contiene una dura
critica dell’Algeria postcoloniale. Daoud
difende con coraggio la causa della libertà
individuale, con un’audacia che siora l’imprudenza in un paese dove fede e nazione
sono passioni collettive molto forti. Mi sono
chiesto se la igura di Daoud potesse aiutare
a capire lo stato della libertà intellettuale in
Algeria, uno strano ibrido di democrazia
rappresentativa e stato di polizia. Alla ine
del 2014 ho ottenuto una specie di risposta.
Daoud non era più uno scrittore come gli
altri, ma era diventato un personaggio rispetto al quale bisognava prendere una posizione, sia in Algeria sia in Francia.
Tutto è cominciato il 13 dicembre 2014,
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
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Algeria
durante il tour per presentare Meursault,
contre-enquête in Francia, dove il libro oltre
a ricevere recensioni entusiaste ha venduto
centomila copie e per soli due voti non ha
vinto il premio Goncourt, il più prestigioso
riconoscimento letterario del paese. Quel
giorno Daoud è stato ospite del popolare
talk show televisivo On n’est pas couché e si è
sentito, mi avrebbe raccontato in seguito,
“come se avesse tutta l’Algeria sulle spalle”.
Alla giornalista Léa Salamé ha risposto che
si considerava algerino, non arabo. Ha dichiarato di parlare una lingua chiamata algerino, non l’arabo. Ha detto che preferiva
incontrare dio da solo, non attraverso un
“viaggio organizzato” in una moschea, e
che l’ortodossia religiosa era un ostacolo al
progresso del mondo musulmano. Nell’intervista Daoud non ha detto nulla che non
avesse scritto nei suoi articoli o nel romanzo. Ma dicendolo in Francia, il paese che
colonizzò l’Algeria dal 1830 al 1962, si è fatto
notare da quegli algerini che di solito non
leggono i quotidiani in francese.
Tra loro c’era Abdelfattah Hamadache,
un imam sconosciuto che si dice sia stato un
informatore dei servizi di sicurezza. Tre
giorni dopo l’apparizione di Daoud alla tv
francese, Hamadache ha scritto sulla sua
pagina Facebook che lo scrittore doveva essere processato per aver insultato l’islam e
doveva essere ucciso sulla pubblica piazza.
La “fatwa di Facebook” ha provocato reazioni indignate, e non solo tra i progressisti.
Ali Belhadj, il vecchio leader del Fronte islamico di salvezza (Fis, messo al bando nel
1992), ha criticato Hamadache, sostenendo
che non aveva l’autorità per poter deinire
Daoud un apostata. Anche se il ministro degli afari religiosi Mohamed Aïssa, un uomo
mite vicino al suismo, è intervenuto per
difendere Daoud, il governo ha mantenuto
una strana neutralità.
Questa neutralità rilette qualcosa di più
profondo di una mera convenienza politica.
La lezione principale che lo stato algerino
ha tratto dalla guerra decennale contro
l’estremismo islamico è che i terroristi non
si possono sconiggere sul campo di battaglia: i nemici devono essere reclutati, non
sconitti. In questo senso l’Algeria è dieci
anni avanti rispetto ad altri paesi arabi dove, dopo le rivolte popolari, le élite laiche si
stanno scontrando con i movimenti islamici sulla forma da dare ai nuovi governi. Oggi
l’Algeria è uno stato prospero, e sempre più
sicuro che il suo modello di condivisione
del potere debba essere esportato nei paesi
vicini. Tuttavia il caso Daoud sta mettendo
alla prova questa convinzione.
Il 15 gennaio 2015 prendo un aereo per
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Orano, una città nel nordovest dell’Algeria.
In quei giorni la guerra alla blasfemia ha
raggiunto la Francia: la redazione del settimanale Charlie Hebdo è stata attaccata da
due jihadisti locali, due fratelli d’origine algerina. A Orano i sostenitori di Daoud proclamano: “Siamo tutti Kamel Daoud”. A
Parigi migliaia di persone stanno scendendo in piazza per dire “Je suis Charlie”. Mi
chiedo quali possano essere le ripercussioni
degli eventi di Parigi sulla posizione di
Daoud.
Essere uno scrittore algerino signiica
essere anche uno studioso della violenza
politica. L’Algeria ottenne l’indipendenza
dalla Francia nel 1962, dopo una lunga e
sanguinosa guerra di decolonizzazione. Il
sistema politico, che gli algerini chiamano
Essere uno scrittore
algerino signiica
essere uno studioso
della violenza politica
il pouvoir (il potere), è ancora dominato dai
mujahidin, i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale (Fln) che combatterono
contro i francesi. Uno di loro è il presidente
Abdelaziz Boutelika: ha 78 anni, è al quarto
mandato e governa da una sedia a rotelle
dotata di microfono, perché la sua voce è
troppo debole. Boutelika non è l’unico personaggio del pouvoir che si avvicina alla ine
dei suoi giorni. Anche il comandante in capo dell’esercito e quello dei servizi segreti
hanno più di settant’anni. L’Algeria rischia
una tripla crisi di successione in un momento molto delicato, con i prezzi del petrolio in
caduta.
Nessuno sa se il pouvoir ha un piano per
il dopo Boutelika, perché le sue macchinazioni sono oscure. Questo codice di segretezza impenetrabile, come tante altre cose
in Algeria, è un prodotto della guerra d’indipendenza ed è sempre rimasto il modus
operandi delle élite. L’Algeria è governata
come se il conflitto non fosse mai finito.
Ogni nuova crisi – le rivolte per il pane, la
guerra civile, le proteste della minoranza
berbera, la primavera araba – ha giustiicato
la scelta di rimanere costantemente sul piede di guerra. Ogni nuova emergenza ha fatto slittare la questione di “cosa succede
dopo la liberazione”, sostiene Daoud.
Oggi gli uomini che prendono concretamente le decisioni in Algeria rivendicano la
loro legittimità basandosi su due punti. Il
primo è aver liberato l’Algeria dai francesi.
Il secondo è aver sconitto il terrorismo islamico negli anni novanta. Per Daoud non
sono suicienti: l’Algeria sarà libera solo
quando sarà stata “liberata dai liberatori”.
Non si tratta solo di rovesciare il governo.
Anche la società deve cambiare se il paese
vuole sfuggire alla morsa dell’autoritarismo
e dell’islamismo.
Il 16 gennaio, il giorno del mio arrivo in
Algeria, migliaia di persone tra cui Hamadache stanno marciando nel centro di Algeri, sidando il divieto di manifestare nella
capitale. Il raduno “in difesa del Profeta” è
stato organizzato per protestare contro la
vignetta di Maometto pubblicata da Charlie
Hebdo dopo il massacro di Parigi. Aïssa, il
ministro degli afari religiosi, si è opposto
alle manifestazioni, ma il risentimento tra
la popolazione è forte e i predicatori salaiti
soiano sul fuoco. Alcuni giovani sventolano la bandiera nera del gruppo Stato islamico e inneggiano agli attentatori di Parigi
come a dei martiri. Come spesso succede in
Algeria, la manifestazione degenera in
scontri. Hamadache viene arrestato.
A Orano, una città dove gli islamisti non
sono visti di buon occhio, le proteste sono
più limitate che ad Algeri, ma abbastanza
estese da fermare il traico. Sto percorrendo la strada dall’aeroporto all’albergo insieme a Robert Parks, un professore universitario statunitense molto amico di Daoud.
Parks, che dal 2006 dirige un centro studi a
Orano, mi spiega che l’Algeria sta lentamente ritrovando la iducia in se stessa. Gli
algerini, mi racconta, sono contenti di aver
evitato il tumulto delle rivolte arabe perché
così sono riusciti a valutare più lucidamente
la loro situazione.
La spavalderia con cui gli islamisti sono
scesi in piazza ha ricordato a molti l’accordo
che strinsero con Boutelika nel 1999, subito dopo che fu eletto presidente. Con il suo
“progetto di riconciliazione” Boutelika offrì l’amnistia a chiunque aveva combattuto
nella guerra civile degli anni 1992-2002,
VU/PHOTOMASI
Orano, 6 febbraio 2015
purché deponesse le armi. Il pouvoir non
negoziò con l’ala politica del Fis e preferì
sistemare la questione con i ribelli armati a
porte chiuse. Le forze di sicurezza, responsabili di sparizioni e uccisioni extragiudiziarie, non furono mai messe sotto accusa.
I combattenti islamici se la cavarono ancora
meglio: abbandonarono la resistenza nelle
montagne e tornarono nelle moschee. Molti, in seguito, hanno ottenuto posti di lavoro
e proprietà. Il paradosso della recente guerra civile è che gli islamisti non sono riusciti
ad abbattere lo stato, ma il progetto di riconciliazione di Boutelika gli ha permesso
di raforzare la loro presenza nella macchina del potere. Oggi sono di fatto un’ala del
pouvoir, che non si è limitato semplicemente a tollerarli ma li ha autorizzati a sedere in
parlamento. Per i generali la loro presenza
ha un vantaggio: è un avvertimento costante per gli altri algerini – e per gli alleati del
paese a Washington e a Parigi – su cosa potrebbe accadere se l’esercito e i servizi segreti allentassero la presa.
Non c’è dubbio che l’Algeria abbia fatto
progressi dal decennio nero. Anche se ormai appare raramente in pubblico, Bouteflika è ancora popolare, se non altro per
mancanza di alternative. Molti gli riconoscono il merito di aver ricostruito l’Algeria
uscita dalla guerra civile. Nel 2003, un anno
dopo la ine uiciale del conlitto, quando
facevo il corrispondente da Algeri, il paese
era agitato e traumatizzato. Oggi, invece,
anche se i jihadisti sono attivi nel sud e
nell’est del paese, l’Algeria è relativamente
sicura. La nuova autostrada est-ovest, costruita grazie alla manodopera cinese, ha
ridotto della metà il tempo necessario a
compiere il viaggio da Algeri a Orano, per
cui in passato si impiegavano anche dieci
ore. L’economia dipende ancora molto dalle riserve di gas e di petrolio (oltre il 90 per
cento delle esportazioni algerine), ma il
paese ha quasi 200 miliardi di dollari di riserve in valuta estera. L’Algeria è un punto
di riferimento per il ruolo svolto nella lotta
regionale contro il terrorismo, per la competenza e l’eicienza dei suoi servizi d’intelligence e per le sue iniziative diplomatiche in Tunisia, Libia e Mali.
Il pouvoir ha agito con scaltrezza per
mantenere la stabilità. All’inizio del 2011 ha
impedito alle proteste ispirate alla primavera araba di difondersi. I metodi sono stati
gli stessi di sempre: dispiegare migliaia di
poliziotti nella capitale, diminuire i prezzi
di zucchero, farina e olio e ofrire inanziamenti ai giovani desiderosi di avviare un’attività. “La primavera araba è una zanzara a
cui abbiamo chiuso la porta in faccia”, ha
dichiarato all’epoca il primo ministro Abdelmalek Sellal.
Il pouvoir non è né laico né islamico, ma
ha portato avanti una politica di deliberata
indecisione, tollerando elementi radicali
come Hamadache e allo stesso tempo ingendo di non vedere quello che Robert
Parks deinisce “un fragile esperimento” di
liberalizzazione culturale. Il luogo migliore
per osservare questo esperimento è Orano,
la città del raï, il pop algerino che fonde musica araba e spagnola, disco e hip-hop.
Le virtù della noia
La prima sera a Orano vado in un locale
notturno con Parks e la poetessa Amina
Mekahli. A Orano i cabaret sono praticamente degli spacci clandestini di alcolici.
Un cameriere ci porta una bottiglia di whisky con un piatto di frutta fresca. La maggior parte dei clienti è formata da algerini
tra i venti e i trent’anni. Sono circondato da
pantaloni leopardati, minigonne e borsette
di Louis Vuitton contrafatte. Mekahli mi
presenta il suo amico Gigi, “famoso omosessuale”. Mi spiega che Gigi, un uomo dolce e androgino sulla quarantina, combina
incontri davanti al bagno: se a un ragazzo
piace una donna lo dice a Gigi, e quando la
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Algeria
ragazza esce dal bagno lui la informa che ha
un ammiratore. “Quello che è interessante
di Gigi”, dice Mekahli “è che viene da un
quartiere operaio dove tutti lo accettano,
anche se la parola ‘gay’ non viene mai pronunciata”. La storia che appassiona Mekahli non mi colpisce più di tanto, ma mi
torna in mente un’osservazione di Camus,
secondo cui Orano è una città dove “s’imparano le virtù, ovviamente provvisorie, di
un certo tipo di noia”.
Naturalmente Orano è molto cambiata
dai tempi di Camus. Sotto il dominio francese era una città europea. Dopo l’indipendenza gli europei partirono in massa e le
loro case furono occupate da persone arrivate dai villaggi vicini. Altri trovarono un
alloggio, squallido ma gratuito, nei grandi
palazzi in stile sovietico costruiti dallo stato.
Negli ultimi anni lo skyline ha guadagnato
in altezza: l’hotel Sheraton e il Méridien
sembrano importati da Dubai. Eppure la
città conserva il suo languido carattere mediterraneo. Nei bar gli uomini sorseggiano
tè alla menta e cafè nero, i ristoranti sul
mare offrono pesce alla griglia, paella e
scorci mozzafiato sul Mediterraneo. Per
strada quasi tutte le donne portano l’hijab.
Ma nei locali notturni come quello dove ci
troviamo, i giovani ballano, bevono e, come
scriveva Camus nel 1939, “si conoscono, si
scambiano sguardi e si studiano, felici di
essere vivi e di farsi notare”.
Alle due di notte arriva Cheba Dalila,
una cantante raï dalla voce tanto profonda
da ricordare Nina Simone, e la pista da ballo
si riempie. Lei passa da un tavolo all’altro
con il microfono in mano. Una donna con i
jeans attillati indossa una maglietta con
scritto “Detroit 1983”; sulla pista si vedono
uomini che danzano con le donne anche se
sono palesemente attratti fra loro. Scatto
una foto, ma il iglio di Mekahli, Hadi, mi
dice di lasciar perdere: “Questo locale è gestito dalla maia”. La “maia” fa soldi con gli
alcolici di contrabbando e le prostitute. Alcune donne sono chiaramente disponibili.
“Secondo me locali come questo sono una
riappropriazione dell’identità algerina”, mi
dice Mekahli. “La Francia qui non esiste. La
gente è totalmente decolonizzata”.
La prima volta che incontro Daoud nel
suo appartamento alla periferia di Orano
sta guardando la tv in pigiama con il iglio di
12 anni. Legge le ultime notizie, scrive
email, controlla la sua pagina Facebook e
riceve telefonate. Non alza quasi gli occhi
dallo schermo, e temo che non riusciremo
mai a parlare. Sarebbe più facile se rimanessi un po’ a casa sua, mi dice.
Due giorni dopo, la mia decisione di la-
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
sciare l’albergo provoca un piccolo incidente diplomatico. Il portiere dell’hotel esce a
parlare con Daoud, che mi aspetta in macchina. Se me ne andassi, gli fa notare con
tono nervoso, sarebbe impossibile controllare i movimenti dell’étranger e lui non può
permettersi di avere tra le mani un altro
Hervé Gourdel. Gourdel era un turista francese che nel settembre del 2014 stava visitando le montagne della Cabilia, quando è
stato sequestrato e decapitato da un gruppo
di estremisti islamici. Daoud gli risponde
che avviserà la polizia. Ospitare un cittadi-
Gli algerini stanno
diventando più
moderni, ma in
segreto
no statunitense, commenta poi scherzando, sarà vista come un’ulteriore colpa a suo
carico, una prova del fatto che si è venduto
alle forze dell’imperialismo.
Il tema principale degli scritti di Daoud
è la condizione algerina. Essere algerino,
sostiene, signiica essere “schizofrenico”,
diviso tra devozione religiosa e individualismo liberale. I negozi di alcolici di Orano
sono legali, ma sempre un po’ nascosti. Eppure il giovedì sera gli si forma intorno un
anello di traico. Il sesso fuori dal matrimonio è più tollerato rispetto al passato, ma le donne che vanno nei
bar per incontrare degli uomini
sono considerate delle prostitute.
Gli algerini stanno diventando
più moderni, ma in segreto, come
se non volessero ammetterlo. Questa forma di ipocrisia potrebbe essere un passo
sulla diicile strada verso una società più
tollerante, ma Daoud ne è esasperato. “Gli
islamisti almeno hanno fatto una scelta”,
dice.
Con la sua campagna contro l’islamismo si è guadagnato l’adorazione degli algerini francofoni liberali, che lo lodano per
le sue posizioni. Loro le condividono ma
non osano esprimerle in pubblico. A criticarlo duramente invece non sono solo gli
islamisti, ma anche i nazionalisti e la sinistra. Durante la guerra dell’estate del 2014
nella Striscia di Gaza, Daoud ha pubblicato
un articolo intitolato “Perché non sono ‘solidale’ con la Palestina”. Daoud non era certo “solidale” con Israele, ma non gli piaceva
il sottinteso che dovesse essere dalla parte
dei palestinesi perché era musulmano. Era
contrario ai bombardamenti di Israele per
ragioni umanitarie e anticoloniali, non per
motivi religiosi o etnici. Il tema di fondo del
suo articolo era sempre l’Algeria: a farlo arrabbiare non era tanto l’appello alla solidarietà con la Palestina ma la pressione a uniformarsi sotto la bandiera dell’identità
araba e islamica.
Fermi tra cielo e terra
La pressione coercitiva all’unità è sempre
stata un elemento essenziale del nazionalismo algerino. Durante la lotta per l’indipendenza i leader dell’Fln, tra cui c’erano anche
dei berberi, abbandonarono la rivendicazione dell’identità berbera in nome
dell’unità nazionale contro i francesi. Dopo
l’indipendenza, sottolinea Daoud, agli algerini fu insegnato a considerarsi appartenenti al mondo arabo-islamico e a negare
quello che avevano imparato dalla storia e
dall’esperienza, cioè che la maggior parte
della popolazione discendeva dai berberi,
non dagli arabi, che un’ampia minoranza
parlava il berbero (una lingua che solo di
recente è stata riconosciuta come lingua
nazionale) o il francese e che perino l’arabo
parlato in casa da molti algerini era in realtà
infarcito di termini presi da altre lingue.
Lungi dal rappresentare un’alternativa
all’ideologia dell’unità arabo-islamica, gli
islamisti algerini ne predicano una versione
più religiosa. Perciò l’Algeria rimane, secondo Daoud, “bloccata tra cielo e terra. La
terra appartiene ai ‘liberatori’. Il cielo è stato colonizzato da religiosi che se
ne sono appropriati in nome di
Allah”.
Questo senso d’impotenza
trova un’espressione isica nelle
infrastrutture decrepite del paese. Una sera di pioggia io e Daoud prendiamo la macchina per andare a cena in un
quartiere borghese di Orano. Le strade sono piene di fango e per poco non rimaniamo impantanati. “Che casino!”, urla. Daoud è ossessionato dalla pulizia e pensa
che la tolleranza degli algerini per la sporcizia sia un sintomo politico e spirituale.
Sotto il dominio francese la terra fu sottratta agli algerini con la violenza. Dal momento che l’unica cosa che possedevano
era l’interno delle loro abitazioni, arrivarono a considerare gli spazi pubblici come
qualcosa di estraneo, come una proprietà
francese, il problema di qualcun altro. Dopo l’indipendenza diventò un problema
dello stato. Inine la religione ha raforzato
l’idea che le diicoltà quotidiane siano nelle mani di un’autorità superiore. “Perino i
nostri problemi ecologici sono d’ordine
metaisico”, commenta.
L’islamismo si nutre di questo malesse-
VU/PHoToMASI
Il cafè Rotana a Orano, 7 febbraio 2015
re, sostiene Daoud. Lo stesso senso di inutilità e noia porta altri a fuggire, a rischiare
la morte in mare. Il fratello minore di
Daoud è uno delle migliaia di giovani algerini – i cosiddetti harraga – che sono fuggiti
in Europa su un barcone. È stato soccorso
da una nave britannica e ora vive nel Regno Unito senza documenti.
Daoud non è un musulmano praticante
e si deinisce ilosoicamente vicino al buddismo. Gli chiedo se c’è qualcosa dell’islam
che ammira ancora. “Trovo afascinante il
primato della giustizia sulla fede”, mi risponde. “Mi piace anche la mancanza di
intermediari tra l’essere umano e dio. Il
compito dell’imam è guidare le preghiere.
L’islam è un rapporto diretto tra dio e il credente, è una fede molto liberale”.
Forse quello che mi descrive è l’islam
che ha conosciuto da bambino a Mesra, un
villaggio nel nordovest dell’Algeria. I
Daoud, mi spiega, “erano sicuri della loro
fede, perciò non pensavano di doverla difendere. Gli islamisti di oggi, invece, sono
incredibilmente fragili”. Lo stesso vale per
l’attaccamento alla terra: la sua famiglia
era composta da patrioti che avevano fatto
la guerra d’indipendenza, ma nessuno
sentiva il bisogno di negare “la complessità della vita ai tempi del colonialismo”. A
scuola ha imparato “un’unica storia”, un
racconto in bianco e nero sugli infallibili
mujahidin che combattevano i malvagi coloni francesi. Ma a casa i nonni gli raccontavano anche dei francesi impoveriti che
avevano conosciuto a Mesra, del prete cattolico che gli aveva dato da mangiare nei
periodi diicili, dei soldati francesi che disertavano pur di non torturare e uccidere.
La nascita di uno scrittore
Primo di sei igli, Daoud è nato nel 1970. A
quei tempi l’Algeria era considerata un
successo postcoloniale. Il presidente
Houari Boumédiène, un colonnello enigmatico, taciturno e autoritario, la trasformò in una potenza regionale e in una protagonista del movimento dei paesi non allineati. Sotto Boumédiène, che arrivò al
potere con un colpo di stato tre anni dopo
l’indipendenza, l’esercito diventò l’istituzione dominante. Il padre di Daoud, Mohamed, era un agente della gendarmerie.
Anche se era nato povero riuscì, visto che
“faceva parte di una generazione in ascesa”, a sposare una donna che apparteneva
a una famiglia di proprietari terrieri.
Mohamed Daoud aveva frequentato le
scuole francesi ed era l’unico in famiglia a
saper leggere e scrivere. Insegnò al iglio
l’alfabeto e gli passò i suoi libri in francese.
Nella biblioteca di Mostaganem, la città
portuale dove andò a scuola, il giovane Kamel lesse i libri di Jules Verne, Dune di
Frank Herbert e testi di mitologia greca.
Ma l’opera che lo afascinò di più fu La rinascita delle scienze religiose di Abu Hamid
al Ghazali, un teologo persiano dell’undicesimo secolo che dopo una crisi di fede
cercò di puriicarsi con l’esperienza mistica. Dopo aver letto Al Ghazali, il Corano
non gli bastava più: “Era solo il volto visibile di un testo nascosto”. Per riuscire a decifrare quel testo occulto e più sacro Daoud
diventò sempre più ascetico. Voleva fare lo
scrittore, ma anche diventare un imam.
In un primo momento fu il Corano a
prevalere. Nei primi anni ottanta per un
adolescente algerino la religione era una
strada più promettente della letteratura. Il
presidente Chadli Bendjedid, salito al potere nel 1979, aveva cancellato il progetto
di riforma agraria socialista promosso dal
suo predecessore e cominciato a liberalizzare l’economia. I negozi erano stati inondati di beni di consumo occidentali, ma la
“de-Boumédiènizzazione” aveva lasciato
un vuoto ideologico. Bendjedid lo riempì
con l’islam e l’identità araba. Represse le
rivolte berbere del 1980, intensiicò l’araInternazionale 1099 | 24 aprile 2015
51
Algeria
bizzazione delle scuole e autorizzò la costruzione di nuove moschee.
Il movimento islamista cominciò ad
addestrare giovani militanti. Daoud fu reclutato dal suo insegnante di geografia,
che gli fece leggere le opere di Abul Ala
Mawdudi, Sayyid Qutb e Hassan al Banna,
e lo convinse che la salvezza individuale
poteva essere raggiunta solo attraverso
quella collettiva, all’interno di uno stato
islamico. Daoud si fece crescere la barba,
cominciò a distribuire volantini e diventò
l’imam del suo liceo. I giovani dell’emergente movimento islamico algerino erano
indottrinati nei campi e nei gruppi di atletica, e Daoud sembrava avviato a diventare
uno dei loro leader. Ma a 18 anni lasciò tutto. “Ero stanco. Arrivato a un certo punto
non sentivo più niente. Il pericolo per una
persona devota non è la tentazione, ma la
stanchezza”.
Il 5 ottobre 1988, tre mesi dopo la rottura di Daoud con l’islamismo, in Algeria
scoppiarono violente manifestazioni antigovernative. Daoud andò a Mostaganem
armato di una catena, sperando di “rompere qualcosa”. Al suo arrivo i militari avevano già cominciato a sparare. Un anziano
lo prese e si riparò dietro di lui. Il giovane
fu salvato da una donna che lo tirò per un
braccio e, ingendo di essere sua madre, lo
portò in salvo. “Ero furioso contro quella
generazione di uomini che si nascondeva
dietro a un ragazzo. Quell’atteggiamento
mi sembrava molto simbolico”. Diverse
centinaia di algerini morirono. L’anno seguente fu adottata una nuova costituzione
che legalizzava i partiti diversi dall’Fln e il
Fis diventò il partito più potente dell’opposizione.
Nel gennaio del 1992 l’esercito cancellò
il secondo turno delle elezioni legislative
per impedire al Fis di andare al potere. Gli
islamisti presero le armi e scoppiò la guerra
civile. Daoud, che studiava francese all’università di Orano, si oppose alla cancellazione del voto. Ma in realtà, spiega, “non
m’importava tanto. Ero un individualista”.
Aveva scelto una forma di ribellione più
personale, attraverso la letteratura, la musica e la birra: leggeva Baudelaire, Borges e
il poeta siriano Adonis, e scriveva poesie e
racconti.
Dopo l’università lavorò come cronista
di nera per il mensile Détective. Coprendo
processi per omicidio e crimini sessuali in
località remote, Daoud scoprì “la vera Algeria”. Nel 1996 passò al Quotidien d’Oran.
Mentre gli altri giornalisti si lamentavano
del pericolo dei ribelli islamisti, Daoud prese in aitto un asino e andò a intervistarli.
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Raccontò alcuni dei peggiori massacri della
guerra civile. Il lavoro come reporter gli insegnò a diidare delle “posizioni rigide e
delle grandi analisi”. Lui non sosteneva
nessuna ideologia, non parlava in nome di
nessuno, se non di se stesso. Chi ammirava
le sue opinioni celebrava la comparsa di
uno spirito libero autenticamente algerino.
Mentre, per chi lo criticava, Daoud era il
volto di una generazione egoista, vuota,
antialgerina.
Il romanzo Meursault, contre-enquête è
nato da uno dei suoi articoli. La premessa
era che Lo straniero di Camus, che parla
dell’assassinio di un arabo senza nome su
una spiaggia di Algeri, fosse una storia vera. “Lo straniero è un romanzo ilosoico,
ma in Algeria riusciamo a leggerlo solo co-
sare una donna più giovane. Poco dopo la
pubblicazione Boudjedra fu costretto
all’esilio, prima a Parigi e poi in Marocco.
Se c’era qualcuno in grado di capire Daoud,
era proprio lui. E invece ha deinito il romanzo “mediocre”. In seguito ha detto che
Daoud è uno di “quegli scrittori che cercano solo di procurarsi un visto letterario:
vanno in Francia e leccano i piedi”.
Boudjedra è noto per il carattere diicile. Ma il suo disprezzo rilette un pregiudizio di classe più difuso. Boudjedra è di una
famiglia importante mentre Daoud è uno
che si è fatto da solo, nato in un villaggio
polveroso. Per i pensatori di sinistra di Algeri, basta questo per vedere in Daoud un
arrivista di provincia invece che un vero intellettuale.
Il pericolo per una
persona devota non
è la tentazione, ma
la stanchezza
Il diritto di parlare per gli altri
me romanzo coloniale”, mi ha detto Daoud
quando gli ho chiesto cosa lo aveva attirato
dell’opera di Camus. “Ma per Camus la
questione più importante è quella religiosa:
cosa fai per Dio se Dio non esiste? La scena
più potente dello Straniero è il confronto tra
il prete e il condannato. Il protagonista
Meursault è sempre indifferente, con le
donne, con il giudice, ma va in collera davanti al prete. Nel mio romanzo, il protagonista si ribella a Dio”.
Il libro è stato pubblicato dalle Éditions
Barzakh nel 2013 e in Algeria ha venduto
moltissimo (in Italia sarà pubblicato da
Bompiani nel 2016). Solo quando
è uscito in Francia, l’anno dopo,
ha scatenato una polemica. A
cinquant’anni dall’indipendenza, la vita intellettuale dell’Algeria esiste solo all’ombra del suo
ex occupante. Per molti intellettuali algerini è inconcepibile che Daoud abbia avuto
successo in Francia senza l’aiuto dell’onnipresente ma invisibile – e invariabilmente
sinistra – main étrangère, mano straniera.
Per il suo romanzo Daoud ha ricevuto
parecchie critiche. L’attacco più sorprendente è stato forse quello dello scrittore
Rachid Boudjedra, un altro personaggio
dissacrante, che quarant’anni fa lasciò l’Algeria a causa delle minacce degli islamisti.
Boudjedra raggiunse il successo nel 1969
con Il ripudio (Edizioni Lavoro 2004), un
romanzo in francese che parla di un ragazzo il cui padre abbandona la madre per spo-
Un giorno vado ad Algeri per fare visita a
vecchi amici, tra cui lo storico Daho Djerbal. Algeri mi sembra molto cambiata rispetto a dodici anni prima, quando facevo
il corrispondente. Camminando lungo via
Didouche Mourad, la principale strada
commerciale, vedo una città che è tornata a
vivere. Passo vicino a un negozio Swatch,
gioiellerie, agenzie di viaggi e boutique alla
moda. I cafè sono pieni. A Place de la grande poste centinaia di persone, per lo più
uomini, guardano la Coppa d’Africa su un
maxischermo. Il mercato di Bab el Oued,
un quartiere operaio che un tempo era una
roccaforte islamista, è vivace: le bancarelle
traboccano di attrezzature elettroniche e
vestiti cinesi, cd, dvd e prodotti freschi.
Nella redazione della rivista che dirige,
Djerbal cerca di convincermi che questa
normalità è un’illusione, l’efetto eimero
di un boom dei consumi alimentato dagli alti prezzi del petrolio.
Non durerà, mi dice, e fare i conti
con la realtà non sarà piacevole.
Poi passa in rassegna le devastazioni della liberalizzazione economica: il sequestro e la privatizzazione
delle grandi aziende statali da parte di uomini del regime, l’accumulazione di immense fortune private, la nascita di una
classe media parassitaria. Descrive via Didouche Mourad come una facciata che non
sopravviverà alla caduta dei prezzi del petrolio e all’incapacità dello stato di diversiicare l’economia.
Quando gli chiedo di Daoud, Djerbal si
spazientisce. Daoud, spiega, è parte di quel
problema, un iglio viziato dello stato che
attaccava. Però è un bravo scrittore. Tuttavia “non abbastanza per vincere il premio
Goncourt. Del resto, la Francia non darà
VU/PHOtOMASI
Orano, 4 febbraio 2015
mai quel premio a un algerino”. Sembra
gioire della sconitta di Daoud, che “rappresenta un ceto senza legittimità storica”.
In Algeria l’espressione “legittimità storica” è molto specifica. Nel 1954, quando
scoppiò la guerra d’indipendenza, l’Fln
proclamò la sua “legittimità storica” come
unico rappresentante della nazione algerina. Avere legittimità significava rappresentare una forza sociale collettiva e avere
il diritto di essere ascoltato. La maggior
parte degli intellettuali algerini ha ancora
a cuore il concetto di legittimità e pretende
di parlare in nome di una causa superiore:
la nazione, il popolo, la classe operaia, i
berberi. Invece Daoud parla per se stesso,
e forse è questo che i suoi critici trovano
inquietante.
Una sera ad Algeri provoco una lite
semplicemente citando Daoud. La fazione
ilo-Daoud è guidata da Soiane Hadjadj,
che dirige le Éditions Barzakh insieme alla
moglie, Selma Hellal. La fazione anti-Daoud è capitanata da Ghania Moufok, una
giornalista di estrema sinistra, che ammira
il suo romanzo ma non i suoi articoli. Mouffok è appena tornata dal sud del paese, dove ha seguito le proteste contro l’estrazione
di gas di scisto. Le manifestazioni hanno
riacceso la sua iducia nello spirito di resi-
stenza degli algerini. “Quando pensi a tutto
quello che abbiamo subìto, è incredibile
che riusciamo ancora ad alzare la testa”,
dice Moufok. “Ma Daoud non lo capisce.
Lui scrive come se l’imperialismo e il capitalismo non esistessero”.
Dà un tiro alla sigaretta e rimane in silenzio per un attimo. “Io adoro Kamel. È
stato splendido a On n’est pas couché. Ma
qualche giorno dopo l’ho visto sul canale tv
Echorouk: l’intervistatore si rivolgeva a lui
come se fosse un insetto. Avevo detto a Kamel: ‘Non andare a quei programmi, non
comportarti come se fossi colpevole. L’Algeria è un paese che va a rotoli, dove non ti
permettono di avere successo. E se ce l’hai
la gente spera che tu fallisca’”. Chiedo a
Moufok perché critica l’Algeria così severamente e intanto condanna Daoud perché
fa altrettanto. Mi risponde che lei critica i
potenti, mentre Daoud attacca il popolo.
“È puerile”, obietta lui quando gli riferisco il rimprovero. “Io non attacco il popolo,
ma la gente. Quella che passa con il semaforo rosso. Quella che butta la sporcizia per
strada. Ognuno è responsabile delle proprie azioni. Anche Ghania la pensa come
me, ma non lo scrive. E mi accusa di odiare
l’Algeria”. Secondo Moufok, il fatto che
Daoud creda nella responsabilità indivi-
duale “riproduce il disprezzo del pouvoir
nei confronti del popolo”.
Anche se fosse vero, il pouvoir non sembra apprezzare molto Daoud. Un giorno
incontro Hamid Grine, il ministro delle comunicazioni, e lui minimizza le preoccupazioni per la fatwa contro Daoud. “Non è più
in pericolo di tanti altri”, osserva. “Il suo
caso ha fatto scalpore perché fa vendere
giornali. Ma la gente parla del prezzo delle
patate, non di Daoud”.
Grine, 60 anni, è anche lui un romanziere e, come Daoud, scrive in francese. Gli
dico che mi è piaciuto il suo romanzo Camus nel narghilè (Edizioni e/o 2013), su un
uomo che scopre che Camus era suo padre.
Grine si lamenta perché il suo libro non ha
goduto dell’“enorme promozione” che ha
portato al successo Daoud in Francia. Grine
non ha neanche letto Meursault, contre-enquête. “Ma sono sicuro che è un ottimo libro:
a mio iglio è piaciuto molto. Io leggo solo
quello che vede qui”, conclude indicando la
pila di documenti sulla sua scrivania. u gc
L’AUTORE
Adam Shatz è un giornalista statunitense
che collabora regolarmente con la London
Review of Books.
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NIC DuNLop (pANoS/LuzphoTo)
Birmania
Una strada a 14 corsie che attraversa Naypyidaw, aprile 2012
La metropoli
deserta
Matt Kennard e Claire Provost, The Guardian, Regno Unito
È sei volte più grande di New York, con strade a venti corsie e campi da golf.
A Naypyidaw, la capitale birmana costruita dieci anni fa, mancano solo le persone
ttraversando in macchina Naypyidaw, la nuova
capitale della Birmania,
è facile dimenticare di
essere in uno dei paesi
più poveri del sudest
asiatico. La serie apparentemente ininita
di ediici colossali, alberghi di lusso e centri commerciali che costeggia la strada da
entrambi i lati sembra caduta dal cielo. Sono tutti dipinti in colori pastello: rosa palli-
A
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
do, celeste, beige. Le strade, asfaltate di
fresco, sono costeggiate da aiuole e siepi
potate con cura. Anche le dimensioni di
questa città surreale sono incredibili: secondo alcune stime ha una supericie di
circa 4.800 chilometri quadrati, sei volte
quella di New York.
Tutto sembra fuori misura. Le sue grandiose strade, chiaramente progettate per le
macchine e le parate di auto del governo,
non certo per i pedoni e le passeggiate, pos-
sono avere anche venti corsie e si estendono a perdita d’occhio (si dice che siano state
costruite per permettere agli aerei di usarle
come piste di atterraggio in caso di proteste
contro il governo o altri “disordini”). C’è un
parco safari, uno zoo con un’area per i pinguini, e almeno quattro campi da golf. A
diferenza di quanto avviene nel resto del
paese, qui l’elettricità non manca mai. E
molti ristoranti ofrono il wii gratuito.
L’unica cosa che manca, a quanto sem-
bra, sono le persone. Le sue enormi superstrade sono completamente vuote e tutto
tace. Non si muove niente. Uicialmente,
la città conta una popolazione di un milione
di abitanti, ma molti dubitano che questa
cifra si avvicini anche solo lontanamente
alla realtà. In un soleggiato pomeriggio domenicale, le strade sono silenziose, i ristoranti e gli alberghi vuoti. Sembra di essere
nello spettrale scenario di un’America postapocalittica, in un ilm di David Lynch
girato in Corea del Nord. Benvenuti in una
delle più bizzarre capitali del mondo.
Naypyidaw (che signiica “sede dei re”),
costruita da zero tra i campi di riso e di canna da zucchero, è stata presentata nel novembre del 2005 dalla giunta militare allora al potere come la nuova capitale della
Birmania. In un paese che spende solo lo
0,5 per cento del suo pil per la sanità pubblica, meno di tutti gli altri paesi del mondo,
sembra che la sua costruzione sia costata
più di quattro miliardi di dollari. Negli ultimi anni l’insolita struttura urbanistica e la
strana mancanza di vita di Naypyidaw sono
diventate una stranezza conosciuta in tutto
il mondo. La troupe della Bbc che nel 2014
l’ha visitata per girare una puntata speciale
di Top gear (la trasmissione su auto e motori
girata in località sempre diverse) è rimasta
sorpresa dalla desolazione delle strade, dove ha potuto giocare a pallone, organizzare
una gara di velocità e fare battute sulla dificoltà di spostarsi in un’inesistente ora di
punta. Ma se uno si concentra sulla vuota
vastità delle strade di Naypyidaw rischia di
perdere gli onnipresenti spazzini, gli unici
pedoni che ogni giorno procedono a coppie
per ore con i loro giubbotti verdi fosforescenti per pulire strade già immacolate. O il
piccolo esercito di operai che trasportano
mattoni a mano e continuano a costruire.
Anche se, in teoria, dal 2011 la giunta
militare è stata sostituita da un governo civile, gli abitanti sono molto restii a parlare
con noi. E quelli che lo fanno ci chiedono di
non riportare il loro vero nome. “È pericoloso”, dice un uomo che si è trasferito qui
nel 2013. “Il governo è cambiato, ma è sempre lo stesso”. Naypyidaw è il regno dei
contrasti: un bizzarro centro residenziale
nel cuore di un paese disperatamente povero. “È stata costruita essenzialmente per
la pubblica amministrazione, sono tutti
ediici del governo”, ci spiega l’uomo, che
lavora in un centro commerciale. “Non c’è
niente d’interessante da vedere. La maggior parte della gente è infelice, ci abita solo
perché qui può lavorare e guadagnarsi da
vivere”. La presenza del governo è così palpabile che bisogna essere molto coraggiosi
per infrangere la legge in questo panopticon in stile Beverly Hills. Secondo Reporter
senza frontiere, nel 2006 un fotografo locale e un giornalista sono stati condannati
a tre anni di reclusione solo per aver fotografato la città.
Manie di grandezza
Sulle origini di Naypyidaw esistono solo
voci e ipotesi. Alcuni sostengono che sia il
frutto della vanità di Than Shwe, l’ex leader
militare del paese. Secondo un cablogramma dell’ambasciata statunitense del 2006
svelato da Wikileaks, molti pensano che il
nome dato alla capitale riletta le “manie di
grandezza di Shwe o sia un ulteriore segno
della sua possibile demenza”. Un’altra teoria è che la giunta militare, sempre più paranoica, abbia voluto
trasferire la capitale lontano dalla costa per timore di un’invasione americana dal mare. In realtà
la sede del potere politico e militare è più vicina alle regioni dove movimenti separatisti e le minoranze oppresse
come i karen e i rohingya stanno chiedendo
con insistenza maggiori diritti.
Il regime e Than Shwe hanno cercato di
spacciare Naypyidaw per una nuova Canberra o Brasília, una capitale amministrativa lontana dagli ingorghi e dalla calca di
Rangoon. Ma non molti credono a questa
storia. “Allontanandosi da Rangoon, la
principale città del paese, Than Shwe e il
governo si sono messi al riparo da qualsiasi
rivolta popolare”, suggerisce l’attivista Benedict Rogers nel suo libro Than Shwe. Unmasking Burma’s tyrant.
Il monumentale complesso di edifici
che ospita il parlamento è circondato da un
fossato. Nel punto più vicino che si può raggiungere prima di essere fermati dagli imponenti cancelli di ferro e dai soldati resta
diicile distinguere bene quei palazzi. Si
dice anche che sotto la città ci sia un’ampia
rete di tunnel e che qualcuno abbia visto le
foto dei tecnici nordcoreani consultati dal
governo per costruirli.
La strada da Rangoon a Naypyidaw si
snoda per più di 300 chilometri in direzione nord, attraverso campi e basse colline.
Di domenica è quasi completamente vuota
e silenziosa, fatta eccezione per poche automobili e qualche camion che trasporta
decine di passeggeri ammassati sul retro
come un minibus di fortuna. Ai bordi della
carreggiata, i cartelli ricordano agli automobilisti di stare attenti e di rispettare i limiti di velocità. Su
uno si legge: “La vita è un viaggio. Portatelo a termine”. Anche
se è vuota, e chi l’ha percorsa dice
che è la migliore del mondo, su
questa strada ci sono stati molti incidenti
mortali. Qualcuno la chiama “l’autostrada
della morte” e la contesta sostenendo che
sia stata costruita troppo in fretta, senza
investire abbastanza sulle misure di sicurezza.
I cooperanti stranieri che vivono a Rangoon si mettono a ridere quando gli chiediamo se sarebbero disposti a trasferirsi a
Naypyidaw. Preferiscono sobbarcarsi le
cinque ore di viaggio in auto o, come è possibile fare da qualche tempo, prendere l’aereo. Ma, con i voli che costano 350 dollari
andata e ritorno, viene da chiedersi se usare l’aereo sia un buon modo per spendere i
soldi degli aiuti allo sviluppo. “È una buona
domanda”, ammette la dipendente di una
ong inglese che ieri mattina è andata in aereo a Naypyidaw con due colleghi per rientrare a Rangoon la sera stessa. “Naypyidaw
è un posto molto strano, vuoto, ma è la capitale e quindi dobbiamo andarci”.
“Sono tornato ieri sera e domani ci vado
di nuovo”, spiega un alto funzionario di
un’organizzazione umanitaria. “Ci sto due
notti alla settimana, provi a chiedere a mia
moglie e ai miei figli cosa ne pensano”.
Un’altra donna dice che volerà a Naypyidaw domani mattina e rientrerà verso mezzogiorno con un piccolo aereo di linea a 66
posti che di solito sono tutti occupati. “Ormai ci stiamo abituando”, ammette. “A volte diciamo scherzando che passare qualche
giorno lì è piuttosto riposante. Almeno non
ci sono gli ingorghi del traico”.
Seduti sotto l’ombrellone di un bar, davanti a uno dei giganteschi centri commerciali di Naypyidaw, un uomo e una donna
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Birmania
che lavorano come consulenti delle Nazioni Unite stanno chiacchierando con i computer portatili aperti sul tavolo. È la prima
volta che vengono in Birmania e maledicono la sfortuna di essere stati mandati lì invece che a Rangoon. “Gli alberghi sono
belli visti da fuori, ma dentro cade tutto a
pezzi. Non c’è acqua calda e puzzano di
mufa”, dice la donna, che chiede di mantenere l’anonimato perché lavora per il governo. “Non sapevamo cosa aspettarci quando
ci hanno mandato qui. Pensavamo che la
Birmania fosse ancora piuttosto arretrata,
quindi non ci aspettavamo queste strade
enormi”, aggiunge. “È un vero deserto, una
città fantasma, mi sento molto a disagio in
questo posto”.
Senza un centro
Naypyidaw non è l’unica città creata dal
nulla per motivi politici. Il modo in cui è
stata costruita ricorda altri insediamenti
decisi a tavolino come Astana in Kazakistan, Oyala nella Guinea Equatoriale e l’assurda Gbadolite voluta da Mobutu Sese
Seko, l’ex dittatore di quella che oggi è la
Repubblica Democratica del Congo. La
stessa Birmania ha una lunga storia di spostamenti della capitale in giro per il paese:
Mandalay, l’ultima capitale del regno, fu
fatta costruire dal re Mindon alla fine
dell’ottocento sulla riva orientale del iume
Irrawaddy.
Naypyidaw è suddivisa in grandi “zone”
– il quartiere degli alberghi, quello degli
ediici governativi, quello dove risiedono i
funzionari, e la zona militare, circondata da
alte recinzioni in metallo sorvegliate dai
soldati – che rendono diicile capire quale
sia il suo vero centro. Anche questo, probabilmente, è stato deciso a tavolino: non c’è
un spazio pubblico, come piazza Tahrir al
Cairo, dove la gente si possa radunare
spontaneamente. Dopo averla visitata, un
giornalista indiano ha deinito Naypyidaw
il frutto di una “cartograia dittatoriale”.
Questa atmosfera autoritaria sembra sia
stata prevista nel progetto stesso della città.
Le storie di persone costrette a trasferirsi a
Naypyidaw – o ad andarsene – hanno rovinato questa immagine della città, accuratamente fabbricata.
“La nuova capitale”, si legge in un altro
cablogramma del 2006 dell’ambasciata
statuitense pubblicato da Wikileaks, “manca di infrastrutture essenziali; gli uici del
governo che sono stati spostati qui non riescono a funzionare normalmente e le migliaia di dipendenti pubblici costretti a trasferirsi incontrano grandi diicoltà a viverci”. Il regime birmano, prosegue il docu-
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mento, “ha minacciato di mandare in carcere o di negare la pensione ai dipendenti
pubblici che non si fossero trasferiti; e si dice che ne abbia già fatti arrestare diversi”.
Nessuno sa esattamente quando sono
cominciati i lavori per costruire la città, perché tutto è avvenuto nella massima segretezza. Ma a giudicare dalle dimensioni, è
diicile immaginare che sia stato possibile
progettarla e costruirla in meno di dieci anni. “La zona intorno a Naypyidaw è stata
completamente evacuata per isolare questo enorme agglomerato dal mondo esterno”, ha scritto all’epoca un giornale tailandese. “Interi villaggi sono stati cancellati
dalle mappe e i contadini sono stati cacciati via dalle terre che le loro famiglie coltivavano da secoli. Centinaia, forse migliaia, di
loro sono andati a ingrossare le ila degli
sfollati, mentre i più sani e robusti sono stati ‘arruolati’ per contribuire alla costruzione della nuova capitale”. Per alleggerire
l’atmosfera della città, gli urbanisti hanno
Non c’è uno spazio
pubblico dove la gente
si possa radunare
spontaneamente
previsto anche la possibilità di svolgere alcune attività ricreative. Oltre allo zoo e ai
campi da golf, c’è un enorme parco perfettamente curato di quasi ottomila metri quadrati, e alle porte della città c’è un ecoresort
dotato di acquascivoli, spa e una spiaggia
con un lago artiiciale. Ma ben pochi residenti di Naypyidaw possono godersi questi
svaghi.
Silenzio assoluto
Una domenica pomeriggio, su uno dei
campi da golf della città cinque o sei persone con la stessa polo azzurra si esercitano
sull’erba perfettamente curata. Alle loro
spalle brilla al sole una pagoda dorata.
Scendendo lungo il prato, con il ronzio degli annaiatoi automatici che si percepisce
appena, è facile dimenticare di essere in
uno dei paesi più poveri del mondo, dove
tra i bambini sotto i cinque anni due su cinque sono denutriti. Se alla ine del Yepyar
golf course si sbaglia uscita, ci si ritrova su
una strada fangosa e non asfaltata cosparsa
di riiuti. Un bambino cammina a piedi nudi verso una bancarella che è l’unico negozio della via e vende ogni genere di dolci
appiccicosi, ma niente cibo né acqua.
Se si osserva più da vicino la pagoda Uppatasanti che brilla al sole, si vede che an-
che quella è una replica, una copia dell’antica pagoda Shwedagon di Rangoon. A
Naypyidaw è tutto così, non c’è nulla che
abbia più di dieci anni.
In fondo a una strada c’è una gigantesca
esposizione di gioielli e pietre preziose, un
enorme salone in cui sono ammassate decine di eleganti stand di gioielleria. Le donne dietro ai banconi hanno sul viso un sorriso forzato, quasi dipinto, e i loro occhi ci
seguono in giro per la sala. In questo posto
lavorano decine di persone, ma non c’è
nessun cliente. Il silenzio è assoluto. Nel
vicino quartiere degli alberghi, si può pranzare o bere un martini al Café Flight, un ristorante costruito all’interno di un aereo
precipitato che è stato recuperato e portato
qui per attirare i turisti che vogliono sperimentare la cucina locale. Anche questo è
vuoto, c’è solo una coppia silenziosa che
festeggia San Valentino. Il pranzo costa
cinque dollari, più del doppio di quanto
guadagna in un giorno un operaio di qui.
Nelle zone residenziali della città, le case
hanno i tetti di colori diversi a seconda del
ministero in cui lavorano i loro inquilini.
Molti dipendenti pubblici di basso livello
vivono in dormitori e caserme spartane,
mentre gli alti funzionari alloggiano in residenze sfarzose. Si dice che i politici dell’opposizione abbiano case più piccole di quelle
dei pezzi grossi del partito al governo. Un
elemento secondario, forse, ma in perfetto
accordo con questo monumento alla gerarchia.
Negli ultimi anni, Naypyidaw è entrata
a far parte del circuito dei vertici internazionali e ha ospitato conferenze e incontri
tra leader ed esperti internazionali. Barack
Obama è stato qui nel 2014, David Cameron nel 2012. Quello stesso anno, dopo aver
conquistato il suo storico seggio in parlamento, anche Aung San Suu Kyi, la spina
nel fianco del regime, si è trasferita a
Naypyidaw. I dirigenti del suo partito, la
Lega nazionale per la democrazia, dicono
che ha aittato una casa in periferia, molto
diversa dalla villa sul lago Inya, a Rangoon,
dove è stata tenuta agli arresti domiciliari
per circa quindici anni.
Naypyidaw è molto lontana dall’essere
lo scintillante emblema della “nuova Birmania” che il governo sta cercando di promuovere. Con il nuovo sfavillante aeroporto internazionale sembra voler mettere
alla prova la teoria secondo cui “se costruisci un posto, qualcuno verrà”. Ma inora,
con il governo che ha già riportato almeno
una delle sue agenzie d’investimento a
Rangoon, sembra solo uno spettacolare
fallimento. u bt
Scienza
Dieci segreti
per imparare
Emma Young, New Scientist, Regno Unito. Foto di Lorenzo Maccotta
Rilassarsi, fare una pausa, giocare, studiare insieme agli altri. Oltre alle tecniche
classiche ci sono molti modi per aiutarci ad apprendere qualcosa e a ricordarlo
bene. Ecco dieci metodi suggeriti da New Scientist
nche quando gli esami
scolastici sono un ricordo lontano, la sete di conoscenza non si placa
mai. Che l’obiettivo sia
quello di acquisire una
nuova competenza, parlare meglio un’altra lingua, suonare uno strumento musicale o approfondire un nuovo interesse, si
passa tutta la vita a imparare. Anche quando per vincere un quiz o attirare l’attenzione di qualcuno è necessario solo aggiornarsi su degli argomenti frivoli, il bisogno
di conoscere è ininito. Si può quindi pensare che gli esseri umani abbiano ormai
ainato le tecniche per imparare, ma in realtà quelle più comuni sono abbastanza
inutili. La buona notizia è che ci sono dei
segreti per imparare meglio e che funzionano a qualsiasi età.
A
1. Sappiate quando imparare
Gli anziani funzionano meglio la mattina.
Da uno studio condotto su un gruppo di
persone tra i 60 e gli 82 anni dal Rotman
research institute del Baycrest health
sciences di Toronto, in Canada, è emerso
che i volontari si concentravano di più e se
la cavavano meglio nei test di memoria tra
le 8.30 e le 10.30 del mattino. Andavano
meno bene tra l’una e le cinque del pomeriggio. La risonanza magnetica funzionale
rivelava che nel pomeriggio il loro cervello
“girava al minimo”: erano entrati nella cosiddetta “modalità di default”, di solito
associata alle fantasticherie. Negli adulti
più giovani, invece, le aree collegate al
60
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controllo dell’attenzione erano ancora
molto attive ino al pomeriggio inoltrato.
Ma per ottenere il massimo dai loro
sforzi di apprendimento, anche le persone
più giovani possono organizzare meglio il
tempo. Da un altro studio è emerso che le
ragazze tra i 16 e i 17 anni riuscivano meglio nei test di memoria se avevano studiato alle tre del pomeriggio piuttosto che alle
nove di sera, ma acquisivano più rapidamente le abilità legate al movimento se si
esercitavano di sera. “Questi risultati fanno pensare che forse è meglio studiare le
lingue nel pomeriggio e il piano o un altro
strumento musicale la sera”, dice
Christoph Nissen, dell’università tedesca
di Friburgo.
Perché la scelta degli orari è così importante? Sappiamo che andare a dormire dopo aver appreso qualcosa aiuta a consolidare il ricordo. Nissen ha il sospetto che la
“inestra critica” tra l’apprendimento e il
sonno sia più piccola per tutto quello che è
legato al movimento rispetto ad altri tipi di
Perché la scelta degli
orari è importante?
Sappiamo che andare
a dormire dopo aver
appreso qualcosa
aiuta a consolidare
il ricordo
memoria. Non è ancora chiaro se gli adulti
possono trarre da queste inestre lo stesso
vantaggio degli adolescenti. “È dimostrato
che gli adolescenti hanno più capacità di
apprendere e dormono meglio”, aferma.
2. Interrogatevi
Nel corso di un fondamentale studio
sull’importanza dell’autoveriica, Jefrey
Karpicke, della Purdue university a West
Lafayette, negli Stati Uniti, ha chiesto a un
gruppo di studenti di imparare il signiicato di 40 parole swahili. Quelli che dovevano continuamente cercare di ricordarle nel
corso della settimana alla ine ne avevano
imparato l’80 per cento, mentre quelli che
le avevano solo studiate senza mai ripeterle ne ricordavano in media il 36 per cento.
Altri studi successivi hanno confermato
l’ipotesi che interrogarsi da soli è più eicace di qualsiasi altra strategia di apprendimento, come per esempio disegnare
diagrammi per rappresentare le idee contenute in un testo.
Se ripassate mentalmente queste parole swahili le ricorderete molto più facilmente: adhama (onore), adui (nemico),
buu (verme), chakula (cibo), daina (tesoro), elimu (scienza), fagio (scopa), farasi
(cavallo), fununu (pettegolezzo), goti (ginocchio), kaputula (pantaloncini), ndoo
(secchio), pombe (birra), sumu (veleno),
tabibu (dottore), theluji (neve), tumbili
(scimmia), usingizi (sonno), yai (uovo), ziwa (lago).
Se vi sembra troppo faticoso, non vi
scoraggiate. Nate Kornell e i suoi colleghi
CoNTrASTo
Monaco di Baviera, Germania. Lezione di biologia alla Anne Frank Schule
del Williams college di Williamstown, negli Stati Uniti, hanno scoperto che l’importante non è tanto riuscire a recuperare le
informazioni che stiamo imparando, ma
provarci. Sembra infatti che anche sentir
ripetere la risposta corretta aiuti a memorizzarla quanto il ripassarla da soli. “È stata
una scoperta sorprendente”, dice Kornell.
“Gli studiosi della memoria hanno sempre
dato per scontato che nella mente si creano
dei ‘percorsi’ dalla domanda alla risposta e
che seguire l’intero percorso è più importante che seguirne solo una parte e poi controllare la risposta”. Il risultato degli studi
di Kornell fa pensare che forse dovremmo
rivedere come funziona la memoria. Ma dà
anche qualche speranza ai più pigri.
3. Imparate senza imparare
Per imparare non è necessario uno sforzo
eccessivo, possiamo farlo anche quando la
nostra mente è impegnata in qualcos’altro.
Beverly Wright, della Northwestern university di Evanston, negli Stati Uniti, ha
chiesto a un gruppo di volontari di eserci-
tarsi a distinguere tra suoni di frequenze
diverse ma molto simili tra loro. Nel frattempo un altro gruppo passava metà del
tempo a fare la stessa cosa e l’altra metà ad
ascoltare i suoni in sottofondo mentre faceva un esercizio scritto.
Al test inale entrambi i gruppi hanno
riportato più o meno lo stesso punteggio,
ma solo se l’apprendimento passivo avveniva entro 15 minuti dalla sessione attiva.
Se passavano più di quattro ore, l’efetto
spariva completamente.
Com’è possibile? Wright ipotizza che
l’allenamento attivo metta il circuito neurale coinvolto in un particolare compito in
uno stato che facilita l’apprendimento, e
che questo stato rimane per un po’ di tempo. Finché dura, stimoli simili a quelli appresi sono elaborati dal cervello “come se
fosse ancora in corso l’apprendimento attivo”, dice il ricercatore.
Finora Wright e la sua équipe hanno indagato solo sull’apprendimento di un’abilità, non su quello di fatti o eventi. Ma Lynn
Hasher e i suoi colleghi dell’università di
Toronto hanno scoperto che un periodo di
apprendimento passivo subito dopo lo studio attivo aiuta gli anziani a imparare una
lista di parole. I volontari che hanno partecipato al suo studio hanno detto che durante la fase passiva non si erano neanche accorti che le parole venivano ripetute.
L’apprendimento passivo funziona meglio quando si fa qualcosa di non troppo
impegnativo. Per esempio, conviene ascoltare un po’ di vocaboli stranieri mentre si
prepara la cena non mentre si scrive
un’email.
4. Sfruttate le distrazioni
Avete la tendenza a distrarvi? Sfruttatela a
vostro vantaggio. “Molte persone partono
dal presupposto che prestare attenzione a
più cose contemporaneamente sia sbagliato”, dice Joo-Hyun Song, della Brown university a Providence, negli Stati Uniti. Certo, se interrompiamo spesso lo studio per
mandare un sms o per concentrarci su una
canzone che stiamo ascoltando in cuia,
probabilmente non impareremo bene coInternazionale 1099 | 24 aprile 2015
61
Scienza
me faremmo nel silenzio assoluto. “Ma
l’apprendimento prevede anche una componente successiva di recupero delle abilità”, dice. “Nessuno aveva mai studiato il
ruolo che svolge l’attenzione divisa nel ricordare”. Song ha scoperto che distrarsi
mentre si sta studiando può essere utile se
si sarà distratti anche quando si dovrà usare quello che si è imparato.
Ormai è noto che il contesto può facilitare l’apprendimento. Se studiamo una lista di parole sentendo l’odore di vaniglia,
per esempio, ne ricorderemo un numero
maggiore se il profumo di vaniglia è
nell’aria quando le dobbiamo riportare alla
memoria. Song ha scoperto che l’attenzione divisa può agire come contesto.
Nei suoi studi i soggetti distratti durante l’apprendimento e il ricordo se la cavavano altrettanto bene di quelli che non
erano distratti in nessuna delle due occasioni. Non aveva importanza se le distrazioni erano le stesse in entrambi i casi, ma
il grado di deconcentrazione doveva essere simile. Song ha scoperto anche un’altra
cosa afascinante: l’attenzione divisa aiuta
l’apprendimento più di qualsiasi contesto
ambientale.
Questo comporta una serie di implicazioni importanti, dice. “Durante la formazione le persone dovrebbero tener conto
del contesto in cui useranno le loro competenze”. Se dovranno ricordare quello che
hanno imparato in un ambiente in cui probabilmente saranno distratti – in una città
straniera afollata o in un pub rumoroso –
se la caveranno sicuramente meglio se saranno distratte anche durante l’apprendimento.
5. Studiate insieme
Anche se studiare da soli è importante, discutere argomenti diicili con altre persone può essere utile. Saundra McGuire, vicerettrice per la didattica e l’apprendimento della Louisiana state university, e il premio Nobel per la chimica Roald Hofman
consigliano di alternare lo studio individuale con il lavoro di gruppo. In particolare, dopo aver afrontato un argomento da
soli può essere utile discuterlo con un piccolo gruppo di studio di tre, sei persone.
Secondo McGuire e Hofman, il gruppo
deve svolgere due tipi di attività: discussione e risoluzione dei problemi. Se i suoi
componenti si fanno domande a vicenda,
saranno poi facilitati nei test. Ma dopo aver
discusso i materiali, chiarito i dubbi e sfruttato l’opportunità di interrogarsi a vicenda,
dicono i ricercatori, bisognerebbe tornare
a lavorare da soli.
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Giocare è l’attività
ideale nel tempo
libero se si sta
imparando a usare il
computer, a suonare
uno strumento o a
praticare uno sport
6. Usate i videogiochi
Giocare nel tempo libero è l’attività ideale
se si sta imparando a usare il computer, a
suonare uno strumento o a praticare un
nuovo sport, in sintesi qualsiasi cosa che
abbia una struttura costante e prevedibile
e richieda coordinazione tra gli input sensoriali e i movimenti isici.
Un’équipe guidata da Jay Pratt, dell’università di Toronto, ha scoperto che chi usa
un videogioco d’azione come Call of duty
da sei a otto ore alla settimana impara più
rapidamente compiti che richiedono la coordinazione tra l’occhio e la mano. All’inizio questi giocatori non sono particolarmente bravi, ma migliorano più rapidamente. Secondo Pratt, il gioco accelera la
capacità del cervello di formare
precisi “modelli” di azione coordinata occhio-mano. “I giochi
d’azione, diventando progressivamente più diicili, chiedono
molto al sistema visivo, a quello
cognitivo e a quello sensorimotorio e ne
migliorano costantemente l’efficienza”,
dice.
È diicile sapere con certezza quanto
inluirebbe sulle attività del mondo reale il
fatto di giocare regolarmente, perché ci
sono troppe variabili, ammette Pratt. “Ma
se una persona ha cominciato un lavoro
che richiede una forte capacità sensorimotoria, giocare qualche ora a settimana potrebbe essere un buon investimento”.
veniva messa alla prova in seguito. Secondo Davachi questo dimostra il consolidamento dei ricordi durante il riposo.
Se abbiamo appena studiato una lista di
vocaboli o cercato di memorizzare alcune
date storiche, concederci una bella pausa
dovrebbe aiutarci a ricordare quelle informazioni, dice Davachi. “È una cosa di cui
non ci rendiamo conto, soprattutto perché
oggi le tecnologie informatiche ci tengono
impegnati tutto il giorno”.
Ma cosa signiica prendersi “una bella
pausa”? Davachi ha scoperto che il riposo
può contribuire a consolidare i ricordi se
attiva popolazioni di neuroni, o intere regioni del cervello, diverse da quelle attive
durante il periodo di apprendimento.
Quindi se abbiamo studiato sodo, l’ideale
è andare a fare una partita a tennis. Detto
questo, stendersi un po’ può sembrare più
invitante e forse è anche più produttivo.
Ma ai ini dell’apprendimento ancora non
sappiamo se è meglio semplicemente rilassarsi o fare un sonnellino.
8. Fingete di dover insegnare
È più facile ricordare qualcosa se si pensa
che in seguito la si dovrà insegnare. Kornell lo ha scoperto quando ha dato dieci
minuti agli allievi del Williams
college per studiare un brano di
1.500 parole su una poesia di Alfred Tennyson, La carica dei seicento. Le persone a cui era stato
detto che in seguito dovevano
trasmettere le nozioni imparate ricordavano di più e i loro ricordi erano meglio organizzati rispetto a quelle che pensavano
semplicemente di dover superare un test.
“La nostra ricerca dimostra che anche
ingere di dover insegnare aiuta”, aggiunge
Kornell. Chiedersi se si è in grado di ripetere quello che si è imparato con parole proprie ha dei vantaggi cognitivi. “Favorisce il
recupero attivo dei ricordi, aiuta a organizzare i propri pensieri e a individuare i vuoti
da riempire”.
7. Rilassatevi
Se il sonno consolida i ricordi, prendersi
una pausa dallo studio può avere un efetto
simile? Lila Davachi, della New York university, ha sottoposto a scansione il cervello di alcune persone che guardavano una
serie di immagini e poi gli ha chiesto di
pensare a quello che volevano. Durante il
periodo di riposo l’attività dell’ippocampo
(che è coinvolto nella memorizzazione) e
quella delle regioni della corteccia dedicate al “pensiero” aumentavano. Inoltre, più
attività c’era in quelle regioni, più una persona ricordava le immagini viste quando
9. Scegliete gli intervalli giusti
Abbiamo appena imparato una serie di
brillanti mosse di apertura per una partita
a scacchi, ma qual è il momento migliore
per ripassarle in modo da ricordarcele
quando serviranno? “Più si aspetta e meglio è”, dice Kornell. “Esiste un lasso di
tempo limite, ma è abbastanza ampio”. È
vero che se si aspetta molto è più diicile
ricordare le informazioni. “Ma più è diicile, più si impara. Quando avremo bisogno
di quelle informazioni, ce le ricorderemo
meglio”, dice Kornell.
CONtRAStO
Lipsia, Germania. Nel cortile del Wilhelm Ostwald Gymnasium
Hal Pashler e i suoi colleghi dell’università della California a San Diego consigliano di stabilire gli intervalli tra un ripasso e
l’altro in proporzione al tempo trascorso
tra l’apprendimento iniziale e il momento
in cui si vogliono ricordare le informazioni.
Per ricordarle meglio una settimana dopo,
bisognerebbe ripassare le informazioni
due o tre giorni dopo averle apprese. “Se si
vuole ricordarle a lungo, è meglio usare un
intervallo maggiore, diciamo del 10 per
cento”, dice Pashler.
Perciò se vogliamo ricordare qualcosa
tra un anno, dobbiamo ripassarlo un mese
dopo averlo imparato e poi una volta al mese. Per ricordare una cosa per dieci anni,
idealmente bisognerebbe ripassarla una
volta all’anno.
Nessuno sa quali sono i meccanismi
mentali alla base di questa scoperta. Ma
forse lasciare lunghi intervalli tra l’apprendimento, la revisione e il recupero delle
informazioni dice al nostro cervello che
quelle conoscenze probabilmente ci serviranno a lungo termine.
Ora l’équipe di Pashler sta cercando di
sviluppare strumenti pratici basati sulla
sua ricerca. Ha elaborato un algoritmo in
grado di generare intervalli di studio personalizzati. La formula tiene conto della
diicoltà del materiale e delle capacità che
un particolare studente ha dimostrato in
test precedenti.
Da una ricerca condotta su un gruppo
di volontari che stavano imparando lo spagnolo è emerso che i piani di studio personalizzati facevano aumentare del 16,5 per
cento le lezioni che riuscivano a ricordare
alla fine del semestre, rispetto al 10 per
cento dei piani uguali per tutti.
10. Fatelo e basta
Se avete difficoltà a studiare e di conseguenza i risultati che ottenete a un esame
sono scarsi, non arrabbiatevi troppo con voi
stessi. Michael Wohl e i suoi colleghi della
Carleton university di Ottawa, in Canada,
hanno scoperto che chi si perdona il fatto di
aver rinviato la prima sessione di esami se
la cava meglio nella seconda e temporeggia
meno rispetto a chi non se lo perdona. Inoltre appare anche più ottimista.
Secondo Wohl, perdonarsi consente di
liberarsi dei sentimenti negativi nei confronti di se stessi e quindi aiuta a migliorare le nostre prestazioni future. Ma il ricercatore sottolinea che questo non funziona
per chi tende regolarmente a rimandare:
“Abbiamo scoperto che un comportamento malsano cronico tende a mantenere lo
status quo, cioè continuare a comportarsi
in modo malsano”.
Se vi riconoscete in questo quadro, forse dovete intervenire in modo drastico. Per
imparare ci vuole forza di volontà e autocontrollo. La forza di volontà è come un
muscolo, sostiene Roy Baumeister, della
Florida state university: più la si esercita e
più si rinforza.
Baumeister, inoltre, ha scoperto che
esercitando la forza di volontà in un campo, la si migliora anche negli altri. Se si
compie uno sforzo per fare qualcosa, dal
mantenere in ordine la casa allo stare seduti dritti, si migliora anche la capacità di
mettersi seduti a studiare o a esercitarsi.
Cosa state aspettando? Perché non cominciare subito? u bt
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Portfolio
La notte
di Okinawa
Il fotografo Keizō Kitajima ha documentato
il mondo della prostituzione che ruotava intorno
alle basi statunitensi in Giappone negli anni
settanta. Un incontro tra universi estranei,
scrive Christian Caujolle
Portfolio
n tutte le guerre, come confermano le ricerche di diversi studiosi,
sono nati dei sistemi di prostituzione per il “riposo del guerriero”.
Alcuni erano basati su uno sfruttamento di massa, altri sui “bordelli da campo”. Periodicamente, in occasione di manifestazioni di protesta o di
nuove testimonianze, si torna a parlare di
uno degli episodi più sconcertanti di questo
sfruttamento, quello che avvenne durante
la guerra di Corea, quando il fenomeno arrivò ad assumere un carattere “industriale”. Stranamente, invece, quanto è avvenuto nella prefettura di Okinawa, in Giappone, non ha oltrepassato le frontiere del paese, e solo la pubblicazione dei lavori del
fotografo Keizō Kitajima ci ha permesso di
venirne a conoscenza.
Okinawa, dove ancora oggi si trova la
più importante base statunitense in Asia,
con 25mila soldati, è stata amministrata dagli Stati Uniti dal 1945 al 1972. La base è
un’eredità di quel periodo, cominciato dopo una delle battaglie più sanguinose della
seconda guerra mondiale, che fece più di
centomila morti a Okinawa, un terzo dei
quali civili. Fino al 1972 da Okinawa decollavano i B-52 che bombardavano o lanciavano l’agente arancio sul Vietnam, sulla
I
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Cambogia e su una parte del Laos. Solo
quando l’isola fu restituita ai giapponesi
furono portate via le bombe atomiche.
Quando arrivò a Okinawa, tre anni dopo
la restituzione al Giappone, Kitajima era un
giovane fotografo di 21 anni, impegnato
nelle lotte urbane a Tokyo contro la costruzione dell’aeroporto Narita e nelle rivendicazioni sociali seguite al 1968. Come altri
fotograi (Nobuyoshi Araki e Daidō Moriyama) che si ritroveranno nell’eimero gruppo della rivista underground Provoke, Kitajima s’interrogava sul ruolo della fotograia,
sulla possibilità di immortalare la realtà e di
analizzare i fenomeni sociali.
Nei cinque anni in cui rimase a Okinawa, Kitajima si immerse nella vita notturna
dell’isola, e il libro appena pubblicato si sofferma sul fenomeno della prostituzione.
Con il lash, in modo sempre diretto, senza
manierismi, confrontandosi con l’azione,
Kitajima ci fa entrare in un mondo in cui
sembra a suo agio e in cui si è guadagnato
la iducia dei protagonisti: ragazze, clienti,
protettori e altri enigmatici personaggi di
cui è diicile deinire il ruolo. Questa libertà nell’approccio, garantita dal fatto che la
presenza del fotografo è ormai accettata da
tutti, evita qualunque voyeurismo e ci permette di valutare la particolarità di un uni-
verso di cui nulla sembrava presagire l’esistenza.
Le ragazze sono in maggioranza giapponesi, ma alcune vengono dalla Thailandia
(dove il villaggio di Pattaya, altra base dei
bombardieri statunitensi, è ancora oggi un
immenso bordello). I clienti sono americani e per lo più neri, i protettori sono giapponesi e si ha l’impressione che tra loro ci sia
anche qualche statunitense. Nei corridoi o
nelle camere, nude o con abiti trasparenti,
in biancheria intima, a volte truccate da
geishe, le ragazze si ofrono senza problemi. Sembrano quasi giocare con il fotografo
che le immortala con il lash. Un po’ complici e un po’ attrici, si prestano al gioco
della fotograia mentre danzano avvinghiate a dei neri muscolosi che a volte assumono pose caricaturali, con le loro pesanti catene d’oro e i vestiti stravaganti.
Una grande sorpresa
Oggi è diicile immaginare cosa poteva significare l’incontro di questi due mondi
perfettamente estranei. All’epoca in Giappone non c’erano né africani né neri, e gli
Stati Uniti erano lontani. Kitajima ricorda:
“Simpatizzavamo per la lotta degli afroamericani, speravamo che ottenessero i diritti civili, ma non avevamo alcuna idea di
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Portfolio
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
chi fossero questi uomini né, tanto meno,
di come fosse la società statunitense. Furono una grande sorpresa per noi. Portarono
anche la musica, dal blues al rock passando
per il jazz, che pochi di noi conoscevano.
Una musica che ci ha inluenzato”. Guardando più da vicino, si coglie l’incontro di
questi universi eterogenei, quando uomini
eleganti con pantaloni a righe, occhialetti
tondi, giacca e cappello, che sembrano
usciti da un film, stringono tra le braccia
“hostess” sinuose, con vestiti in tessuti ricamati, pantaloncini aderenti e bustini con
paillettes. La luce che buca la notte assegna
a ciascuno un posto deinitivo, immutabile,
nel gioco dei ruoli che trasforma tutto in
teatro. O in un cinema documentario estremo in cui tutto, gli abbracci come le risse,
diventa irreale, o inverosimile, a furia di
essere evidenziato, immobilizzato.
La forza di Kitajima, al di là della testimonianza, deriva da questa dimensione
diretta nel confronto tra immagini e realtà,
da questa assenza di qualunque giudizio,
sentimentalismo, analisi. L’assenza di didascalie, l’impaginazione – ritmata da qualche pagina bianca – che struttura il lusso di
immagini, articolate come un’esplorazione
e non come una storia, e la brutalità elegante dell’insieme sono di una rara modernità.
Viene da pensare a un Anders Petersen ante litteram, alla rara capacità di investire
uno spazio urbano appropriandosene senza
turbarlo, anche quando in alcuni casi il fotografo lo modiica perché le persone ritratte recitano per lui.
Okinawa nel 1975 è un aspetto collaterale della guerra che non viene mai mostrato e di cui si parla poco. Ed è la dimostrazione della capacità documentaria della fotograia quando non si preoccupa di analizzare quello che esplora. u adr
IL LIBRO
Modoru Okinawa di Keizō Kitajima è stato
pubblicato da Gomma Books nel 2015. Il libro
ha 136 pagine e una prefazione di Christian
Caujolle.
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Ritratti
Haitham
Abdalrazak
Sindrome
irachena
dell’ignoranza”, spiega il dottor Haitham
Abdalrazak, responsabile del reparto. Molti iracheni pensano che la malattia mentale
sia qualcosa di cui vergognarsi. “La nostra
fede considera i problemi psicologici come
una possessione demoniaca. È un pregiudizio che va superato se vogliamo aiutare
queste persone”.
Abdalrazak è un uomo sulla quarantina, ha pochi capelli e un volto squadrato
che non lascia trapelare emozioni. Nel
2009 ha introdotto le terapie occidentali a
Sadr City. Con l’aiuto di Medici senza frontiere ha avviato un programma con sessioni di mezz’ora. Le sedute sono gratuite.
Abdalrazak chiede ai suoi pazienti di compilare un modulo prima e dopo la cura affinché possano valutare i loro miglioramenti su una scala da uno a dieci. Finita la
cura, in media i pazienti riconoscono che
la loro capacità di stare con gli altri e lavorare è migliorata di almeno quattro punti.
Bombe e fatalismo
Paulien Bakker, Narratively, Stati Uniti
Foto di Marieke van der Velden
In un paese dove i disturbi
mentali sono ancora
considerati una possessione
demoniaca, è uno dei pochi
psichiatri ad aiutare le vittime
della violenza e dei traumi
della guerra
elle casupole ammassate una sull’altra di Sadr
City, un quartiere sciita
di Baghdad, vivono circa tre milioni di persone. I marciapiedi sono
pieni di copertoni e rottami arrugginiti.
Dai pali della luce e davanti ai negozi sventolano bandiere verdi. Le barriere contro le
autobomba sono tappezzate di manifesti
che ritraggono il predicatore sciita Muqtada al Sadr. Quando si azzardano a uscire di
casa, le donne camminano veloci, vestite
di nero dalla testa ai piedi.
È domenica mattina, e per gli iracheni è
l’inizio della settimana lavorativa. Nella
sala d’attesa del reparto di psicologia
all’ospedale Imam Ali, una donna racconta
che la notte precedente è stata assalita dal
mal di testa e dalla tristezza. Ha ascoltato
la registrazione di un sermone sulla morte
dell’imam Hussein, nipote del profeta Maometto la cui uccisione nel 680 fu all’origi-
N
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ne della separazione tra sciiti e sunniti. La
donna ha circa cinquant’anni ed è completamente vestita di nero, comprese le calze
sotto i sandali. Il sermone le ha ricordato la
morte di sua madre. Il suo psicoterapeuta,
Samir, le dice che deve trovare qualcosa di
utile da fare nelle prossime settimane. Poi
la guida in una tecnica di rilassamento.
“Espira profondamente e ripeti: ‘Grazie al
cielo, dio è superiore a tutti gli errori’”.
Uicialmente le malattie psichiatriche
non esistono in Iraq. Secondo uno studio
sulla salute mentale condotto dall’Organizzazione mondiale della sanità tra il
2006 e il 2007, meno del quattro per cento
degli iracheni sofre di sindrome da stress
post-traumatico. Considerando che quasi
tutta la popolazione ha vissuto i traumi della guerra e ha assistito a omicidi, sparatorie
ed esplosioni, la stima è ovviamente inferiore al dato reale. Come se non bastasse,
meno del dieci per cento dei pazienti ha
ricevuto cure psichiatriche. “È colpa
Biograia
◆ 1969 Nasce a Baghdad, in Iraq.
◆ 2007 Viene assegnato a un ospedale di
Sadr City, a Baghdad.
◆ 2008 Comincia a lavorare con Medici
senza frontiere.
◆ 2014 Assiste gli yazidi in fuga dal gruppo
Stato islamico nel Kurdistan iracheno.
Abdalrazak è il secondo di nove fratelli, iglio di una donna analfabeta e di un impiegato statale. A 17 anni trovò nella libreria
del padre L’occulto di Colin Wilson, e cominciò a interessarsi ai problemi della
mente. Grazie ai suoi ottimi risultati scolastici poté iscriversi alla facoltà più ambita,
medicina, ma dopo la laurea decise di specializzarsi in psichiatria, una disciplina che
in Iraq pochi scelgono volontariamente.
Mentre lavorava alla sua tesi di dottorato – uno studio per trovare una causa organica alla maggiore incidenza della depressione tra i diabetici – gli Stati Uniti invasero
l’Iraq. “Tutti vogliono vivere in una democrazia, ma non avrei mai pensato che l’Iraq
sarebbe diventato un casino del genere”,
racconta. “Se me lo chiedi oggi, penso che
sarebbe stato meglio non essere invasi.
Non perché fossi un sostenitore di Saddam, ma perché ci sono stati troppi morti,
troppa soferenza”. Nonostante la disperazione che lo circonda, Abdalrazak crede
ancora in un nuovo Iraq. “Quando scoppia
una bomba la gente dice ‘Ormai ci siamo
abituati’ o ‘Sarà dio a decidere quando morirò’. Se le persone non cercano nemmeno
di scappare significa che non hanno più
speranze”.
Nella stanza numero tre lo attende un
uomo insieme al iglio di sei anni, Mehdi,
che si rifiuta di andare a scuola. “Ehi
Mehdi, ti piace il calcio?”, domanda Abdalrazak. Mehdi si rannicchia contro lo schienale della sedia e non risponde. Il padre lo
prende per un braccio. “No, lo lasci stare”,
lo interrompe il dottore, poi ripete la do-
manda. Mehdi non risponde. “Gli piacciono i cartoni animati e i videogiochi. Nessuno dei suoi fratelli è così”, spiega il padre
con imbarazzo. “È successo qualcosa di
particolare alla nascita? Ha pensato che
fosse diverso?”, chiede Abdalrazak.
Il padre di Mehdi risponde che non aveva notato nulla di strano. Ogni volta che
veniva maltrattato a scuola, scappava dalla
madre, che insegna nello stesso istituto,
ma lei lo riportava indietro. Ora però non
vuole più tornare a scuola. “Se Mehdi fa
qualcosa di sbagliato a casa, anche lì corre
dalla mamma?”, domanda Haitham.
“Sì, quando voglio picchiarlo scappa
dalla madre”.
“E sua moglie le permette di picchiarlo?”.
La violenza domestica è molto comune
a Sadr City. L’ostilità del mondo esterno si
sfoga in casa sulle donne e sui bambini.
Molti uomini non permettono che i igli vadano dallo psicologo.
Dopo aver rivolto all’uomo altre domande, Haitham dichiara con tono severo:
“I genitori hanno la responsabilità di co-
struire il carattere dei igli”. L’uomo annuisce. “Per riuscirci bisogna fare le cose insieme e parlare. Se vuole punirlo, non lo
picchi. Lo prenda da parte e gli spieghi dove ha sbagliato”. Poi prescrive un test del
quoziente intellettivo.
Il padre di Mehdi domanda ancora:
“Cosa c’è che non va in mio iglio, dottore?”.
“Penso che non ci sia nulla che non va
nella sua testa. Il problema sono le reazioni
che lei e sua moglie avete davanti al suo
comportamento, e fortunatamente è una
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Ritratti
Le donne che non hanno più notizie dei loro cari vengono colpite
da attacchi epilettici o restano paralizzate
cosa che si può correggere”.
Di tutti i pazienti che si presentano nel
corso della giornata, solo uno porta i segni
evidenti della violenza: un uomo di 25 anni
con cicatrici alle braccia e un supporto di
metallo a una gamba. Nel 2005 stava comprando un panino per strada quando un
convoglio statunitense saltò in aria. La sua
gamba andò in pezzi. “Ho cercato di suicidarmi tre volte, ma non ci sono riuscito”,
spiega. “Mi sento inutile, non posso lavorare e non potrò mai camminare normalmente”.
Lo psichiatra gli rivolge alcune domande e lo aiuta a mettere in ordine le idee.
Spesso è l’unica cosa che può fare, ma in un
posto del genere è raro trovare qualcuno
capace di ascoltare.
Fermata fortunata
Nel 2007 il suocero di Abdalrazak fu rapito
e rilasciato dopo il pagamento di un riscatto. Lo stesso anno lo psichiatra fu assegnato all’ospedale Imam Ali di Sadr City, dove
infuriava la guerra civile. Durante la notte,
ai posti di blocco gestiti dalle milizie sciite,
i sunniti venivano rapiti o uccisi, e lo stesso
destino toccava agli sciiti nei quartieri sunniti.
Abdalrazak è sunnita e non poteva entrare a Sadr City, ma non spiegò al suo superiore qual era il motivo: “Temevo che mi
accusassero di discriminazione”. Cercò
lavoro nel Kurdistan iracheno, ma alla ine
fu costretto ad accettare l’incarico nel
quartiere sciita.
La prima volta che salì su un autobus
per Sadr City era molto nervoso. “A ogni
posto di blocco pensavo: ‘È la ine’”, ricorda. Con il passare dei giorni, però, cominciò a sentirsi più tranquillo. Nel 2008,
quando Medici senza frontiere gli propose
di lavorare a un programma per la terapia
di gruppo, si sentì abbastanza sicuro da accettare, perché pensava che i colleghi e i
pazienti non avrebbero mai scoperto che
era un sunnita.
Abdalrazak ha trovato la fede a 29 anni,
nel 1998. Un giorno, durante le commemorazioni della guerra tra Iraq e Iran, era
seduto alla fermata dell’autobus e un uomo gli chiese se poteva sedersi accanto a
lui. La panchina era vuota, ma si spostò comunque per far sedere l’uomo. Poco dopo
un autobus passò dalla fermata e l’uomo si
alzò per salire a bordo. All’improvviso si
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
sentì un forte rumore. Qualcuno aveva
sparato in aria per festeggiare. Ricadendo,
il proiettile perforò il tetto della fermata
dell’autobus e cadde proprio dove Abdalrazak era seduto prima dell’arrivo di quella
persona. Ha sempre conservato quel proiettile.
Abdalrazak crede che il suo lavoro sia
necessario. Nel 2011, quando gli statunitensi si preparavano ad abbandonare
l’Iraq, era convinto che la situazione sarebbe migliorata rapidamente e voleva combattere l’ignoranza sulla psicologia.
Il 2012 fu un anno di speranza. Insieme
a Medici senza frontiere Abdalrazak aprì
centri di assistenza a Baghdad, nella città
sunnita di Falluja, nelle città sciite di Najaf
e Karbala e nella città curda di Sulaymaniyya. Inoltre introdusse un programma di
terapia al telefono. A Sadr City la sua équipe curava circa duemila pazienti.
Alla ine dell’anno, però, arrivò un nuovo collega che apparteneva al partito politico di Muqtada al Sadr e poteva contare su
una solida rete di conoscenze nel quartiere. Nel frattempo il paese si stava nuovamente spaccando tra sciiti e sunniti.
Secondo Abdalrazak al nuovo collega
non interessava afatto la psicoterapia, ma
solo i fondi che secondo lui Medici senza
frontiere elargiva (in realtà l’organizzazione passa agli psichiatri solo poche centinaia di dollari). “Si è messo in mezzo tra me e
il mio lavoro”, ricorda Abdalrazak.
In breve lo psichiatra si ritrovò messo ai
margini nella piccola comunità di cui era
parte integrante. Fu trasferito in un altro
ospedale e il suo posto fu preso da un medico senza alcuna esperienza. Le rimostranze al direttore sanitario non servirono
a nulla. “Mi guardavano con sospetto perché ero un sunnita e perché lavoravo con
gli stranieri”, spiega.
Alla ine il suo progetto fu completamente interrotto. Ad Abdalrazak non rimase che partire per la regione autonoma
del Kurdistan. “Avevo pensato spesso di
andarmene”, spiega. “Ma quando partii fu
come una sconitta”.
Stress da jihad
Una giovane coppia entra nello studio di
Abdalrazak nella piccola città di Zakho, nel
Kurdistan iracheno. Sono due rifugiati. Lui
ha una bruciatura sul labbro superiore, lei
indossa un maglione nero sformato e ha
una sciarpa avvolta intorno alla bocca. Il
dottore li invita a sedersi alla sua scrivania.
La ragazza sofre di depressione reattiva.
Non riesce a dormire e non vuole mangiare. Le analisi rivelano una forte anemia. Il
dottore la ascolta attentamente e pesa con
cura le parole, con il distacco emotivo dello
psichiatra. “Qui sei al sicuro”, le dice dolcemente. Scrive una ricetta in inglese, poi
irma in arabo da destra a sinistra. La donna si toglie la sciarpa per asciugarsi le lacrime. Poi il suo volto si contrae in un’espressione di rabbia.
Abdalrazak è l’unico psichiatra di Zakho. Pochi mesi dopo il suo arrivo il gruppo
Stato islamico ha conquistato l’area del
monte Sinjar, abitata da molti curdi di religione yazidica che i jihadisti considerano
adoratori del diavolo. Decine di migliaia di
yazidi si sono rifugiati sulla cima della
montagna senza provviste né riparo dal
sole cocente, assediati dai miliziani.
A Zakho sono arrivati centomila profughi. Nei corridoi dell’ospedale ci sono sempre lunghe ile di rifugiati, ma davanti alla
sua stanza non c’è nessuno. Qui arrivano
solo i casi più disperati, come le donne che
non hanno più notizie dei loro cari e, incapaci di esprimere il loro trauma, vengono
colpite da attacchi epilettici o restano paralizzate.
Abdalrazak ha perso la sua aria rassicurante. Non ha un permesso di soggiorno,
perché secondo i curdi tutti i sunniti sono
potenziali terroristi. Non può nemmeno
spostarsi per andare a far visita ai suoi anziani genitori. Sta pensando di lasciare
l’Iraq. “I miei igli non possono andare a
scuola, perché le scuole sono piene di rifugiati”, spiega. Guarda le montagne oltre la
inestra. “Non posso dare ad altri qualcosa
che non ho. Sono un essere umano”, spiega
con tono sommesso, come se volesse scusarsi.
Lo sconforto però passa subito. Abdalrazak si reca al campo profughi. Ha scoperto che le donne non riescono a raggiungere
l’ospedale perché è troppo lontano. Insieme a un’organizzazione umanitaria ha deciso di formare dei volontari perché possano ofrire assistenza psicologica direttamente nei campi profughi. In questo paese
dove la guerra continua senza sosta e nessuno sembra pensare alla salute mentale
delle vittime, questo medico non rinuncia
a fare la sua parte. u as
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
73
Viaggi
L’Atlantide
russa
A Mologa, la città fatta
sommergere nel 1941 da Stalin
per creare il bacino di una
centrale idroelettrica, le acque
si stanno ritirando
assili Kovalkov torna in
salotto tenendo tra le mani un oggetto pesante dai
bordi smussati. “Il mattone della mia nascita!”,
dichiara trionfante. Questo blocco di terra erosa con ancora il sigillo
di chi lo ha fabbricato non è un mattone come gli altri. È un pezzetto di Mologa, la città
inghiottita dalle acque. Un tesoro riemerso
dai fondali ghiacciati del bacino di Rybinsk,
lungo il Volga, trecento chilometri a nord di
Mosca.
Mologa fu inondata nel 1941 su ordine
di Stalin per formare il lago artiiciale di
Rybinsk, che doveva alimentare una diga e
una centrale idroelettrica.
Da quando qualche anno fa il livello
dell’acqua ha cominciato ad abbassarsi lasciando intravedere alcuni resti, la città è
meta di un vero e proprio pellegrinaggio.
L’estate scorsa è bastato diffondere su
Facebook una foto ritoccata che mostrava
la cupola dorata di una chiesta emersa dalle acque, per far arrivare visitatori in massa. “Sono arrivati quaranta giornalisti,
compresi quelli del Washington Post. Di
solito qui ci sono solo i cronisti locali”, racconta stupito e soddisfatto Valentin Blatov,
76 anni, presidente di un’associazione di
anziani di Mologa.
In realtà non resta quasi più nulla di questa piccola città, che oggi giace sotto tre metri di acqua nel punto in cui il iume Mologa
confluisce nel Volga. L’ultimo palazzo è
crollato nel 1997. Gli ediici che si vedono
nelle foto e sono attribuiti a Mologa si trovano a Kaliazine, nella regione di Tver.
I vecchi abitanti si battono per riportare
V
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
in vita la memoria di questa Atlantide russa,
per molto tempo sprofondata sotto il peso
del terrore staliniano. Oggi sono in pochi a
poter raccontare la tragedia che hanno vissuto. “Quando siamo partite a me e alla mia
amica chiedevano sempre da dove venivamo”, racconta Maria Ivanovna. Nata il 1
gennaio 1921, aveva vent’anni quando insieme a tutti gli abitanti della zona, 150mila
persone, fu costretta a lasciare la città. Nei
suoi documenti d’identità si legge un luogo
di nascita, distretto di Mologa, che non esiste più.
Ma oggi grazie ai sopravvissuti come
Ivanovna e ai loro discendenti, quel luogo è
tornato nelle mappe, posizionato in mezzo
all’acqua, a 22 chilometri dalla riva di Rybinsk. La diga in pietra svetta ancora tra il
bacino e il Volga. “Prima del 2000 non sapevo niente di tutta questa storia, mio padre
non me ne aveva mai parlato. Avrebbe gettato delle ombre sul Partito comunista”,
ammette Valentin Blatov, che con i suoi
denti d’oro e il suo modo di brindare, alternando tè e cognac, sembra uscito anche lui
dal passato.
Gli ultimi testimoni
“All’epoca gli obiettivi primari erano l’energia, e i mezzi di trasporto, e questo si può
capire, ma si sarebbero potuti raggiungere
causando meno dolore alle persone”. Le
case in pietra furono distrutte. La cattedrale
dell’Epifania, simile a quella del Cristo salvatore di Mosca, fu rasa al suolo dagli esplosivi prima dello sgombero deinitivo, il 14
aprile del 1941, quando l’acqua invase ogni
cosa. Le case in legno, almeno quelle in grado di sopportare il trasporto, erano state
smontate e portate sul Volga e furono ricostruite a Rybinsk con l’aiuto di prigionieri
del gulag che lavoravano alla diga.
Nikolaj Novotelnov, novant’anni, abita
in una di queste case, sulla riva nord di Rybinsk. Gli abitanti di Mologa hanno ricostruito le loro abitazioni in una striscia di
terra lunga 15 chilometri e hanno taciuto.
ARTHUR BONDAR (VII PHOTO MENTOR PROGRAM)
Isabelle Mandraud, Le Monde, Francia
“Cosa si poteva dire all’epoca a proposito di
una decisione presa dal governo centrale?”,
si chiede il vecchio signore rovistando tra le
foto ingiallite in una scatola di cartone. “Ecco, questa era la sede del Commissariato
del popolo per gli afari interni (Nkvd), l’antenato del Kgb. Questo era il monastero,
che già non aveva più le croci, portate via
dai soviet. E questa era la grande piazza
dove suonavo la balalaika insieme a mio
fratello”. Novotelnov, che si tiene in forma
alzandosi ogni mattina alle cinque per lavorare al suo orto, come faceva a Mologa,
si ricorda tutto. “Quello è stato il periodo
più felice della mia vita. Dopo, niente è stato più come prima”. Gli ultimi testimoni
hanno tutti i loro ricordi, i loro tesori. Oltre
al suo mattone, Kovalkov, 80 anni, colleziona chiodi arrugginiti. Oggetti recuperati quando l’acqua ha cominciato a ritirarsi .
Partecipa alla commemorazione collettiva
che si tiene ogni estate: si sale su una barca
e si rema verso Mologa. Kovalkov, che è
rimasto orfano molto presto, aferma di
sapere con certezza dove si trova la tomba
di sua madre. Ha scandagliato il fondo con
Russia. Strutture di metallo arrugginito nel bacino idrico di Rybinsk
Informazioni
pratiche
u Documenti Il visto turistico per la Russia va
chiesto all’ambasciata russa, ai consolati
presenti in Italia o alle agenzie private.
Il costo è di circa duecento euro. Per i contatti
dei consolati russi: bit.ly/1OmYeiN.
u Arrivare e muoversi Il prezzo di un volo
per Mosca dall’Italia (Brussels Airlines,
Lufthansa, Klm) parte da 212 euro a/r. La città
di Rybinsk e l’omonimo bacino idrico si trovano
trecento chilometri a nord della capitale russa e
si possono raggiungere in auto (il viaggio dura
cinque ore), autobus e treno (circa sei ore).
u Dormire A Rybinsk, l’hotel Na Kazanskoy è
in mezzo al verde e a pochi minuti a piedi dal
centro. Ofre una doppia a partire da 2.700 rubli
(50 euro) a notte.
u Leggere Rachel Polonsky, La lanterna
magica di Molotov, Adelphi 2014, 28 euro.
u La prossima settimana Viaggio a
Bhaktapur, in Nepal. Avete suggerimenti su
tarife, posti dove mangiare nella zona, libri da
leggere? Scrivete a [email protected].
un mezzo marinaio. Negli anni che precedettero l’inondazione il clima politico in
città non era dei migliori. “Nel 1936 mio
padre voleva denunciare una malversazione inanziaria nella sua azienda”, ricorda
Novotelnov. “Fu accusato di voler nuocere
agli stacanovisti e mandato per sei anni a
Magadan”, un campo di lavoro in cui morirono migliaia di deportati. “Morì un anno
prima di essere liberato”.
Maria Ivanovna aveva dieci anni quando suo padre, considerato un kulak, un contadino agiato, fu mandato ad Arcangelo, nel
nord. Ma agli altri parenti non andò meglio.
Quando nel 1941 arrivò l’acqua gli uomini
partirono per la guerra e le donne restarono
con i igli in case umide e fatte male. Stando
al rapporto di un tenente dell’Nkvd, 294
abitanti di Mologa si riiutarono di partire e
morirono annegati. Ma è una leggenda,
perché l’acqua non arrivò di colpo, spiegano
i più anziani.
Anche se quello sradicamento continua
a ossessionare i ricordi a più di sessant’anni di distanza, la vicenda di Mologa è
l’esempio del rapporto complicato che i
russi hanno con la loro storia: nessuno dei
sopravvissuti ha mai criticato il regime che
li ha rovinati. “La maggior parte di loro
considera la perdita della loro terra un sacriicio necessario per salvare il paese, fornire energia a Mosca e vincere la seconda
guerra mondiale”, ammette Anatolij Klopov, responsabile del museo di Mologa,
fondato da Nikolaj Alekseev, un vecchio
abitante di Mologa, usando archivi privati.
Per alcuni sommergere la città fu forse un
male necessario, perché il Volga era anche
il mezzo di trasporto più usato all’epoca, e
a volte d’estate la portata del iume non
consentiva la navigazione.
Il passato resta comunque un buco nero. “Fu stabilito che tutto quello che era
esistito prima della rivoluzione del 1917
era cattivo, oggi si tende a dire che tutto
quello che è successo ino al 1991 fu un male. Siamo l’unico paese al mondo a riiutare
la nostra storia, perché è molto dolorosa”,
commenta Novotelnov. Il presente non è
più semplice: “Non mi stupisco più di niente. Non sappiamo nemmeno produrre il
cibo che ci serve, e rifiutiamo i prodotti
stranieri”, prosegue Novotelnov. Maria
Ivanovna e sua iglia di 62 anni cercano di
aggrapparsi a un periodo storico. “L’epoca
in cui governò Brežnev fu la migliore. Lo
stato si occupava di tutto: sanità, scuola,
casa e colonie estive. L’unico problema erano i negozi, dove l’oferta non era molta”,
dice la iglia. La maggior parte delle persone considera il crollo dell’Unione Sovietica
il periodo peggiore: “Non ci vergogniamo
di Putin, ma ci siamo vergognati di Eltsin”,
conclude.
Kovalkov, che all’epoca della costruzione del bacino era troppo giovane per ricordarsene, non si separa mai dai suoi libri,
che parlano spesso di città inondate o di
acqua. Uno è il racconto postumo di un anziano, Gennadij Kersakov, che descrive la
sparizione di Mologa equiparandola a un
“furto di stato”. “Oggi sarebbe stata deinita una catastrofe umanitaria”, scrive l’autore. Kovalkov, sull’orlo del pianto, ripete:
“Chiedo scusa se ho detto qualcosa di negativo sul mio paese”. In Russia, il passato
torna a galla ma si svela solo al prezzo di un
grande dolore. u gim
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Graphic journalism Cartoline dalle Lande di Guascogna
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(1. Continua)
Jean Harambat è nato nel 1976 nelle Lande di Guascogna, dove vive. Il suo ultimo libro è Ulysse, les chants du retour (Actes Sud 2014).
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Cultura
Cinema
Joe Bullet
Dr
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La locandina di Joe Bullet
Lo schema
di Sollywood
Gavin Haynes, The Guardian, Regno Unito
In Sudafrica, negli anni ottanta,
il governo inanziava ilm per il
pubblico nero. Caduto
l’apartheid, restano le pellicole
l Durban international ilm
festival del 2014, Tonie van
der Merwe, con in mano il
più afrikaaner dei cocktail,
un doppio brandy con Coca-Cola, ha ricevuto il premio Simon Sabela per il suo contributo al cinema. “Senza
voler essere razzisti, pensavo che un bianco non avrebbe vinto facilmente un premio, ma mi sbagliavo”, ha detto dal palco.
Di sicuro sono pochi i bianchi nel nuovo
Sudafrica a ricevere premi per film realizzati grazie al B-scheme, un programma
istituito negli anni ottanta dal governo di
A
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Pretoria per produrre pellicole indirizzate
a un pubblico nero. Ora emerge il ruolo
enorme, e ambiguo, che van der Merwe ha
giocato nel cinema sudafricano durante
l’apartheid, anni in cui l’esplosione del cinema nero creò il mito di Sollywood, la
Hollywood sudafricana.
Birra annacquata
Per molti, i ilm realizzati grazie al B-scheme erano l’equivalente cinematograico
della “birra nativa” annacquata che si vendeva negli spacci gestiti dal governo, un
cinico diversivo sponsorizzato dallo stato
per blandire la popolazione nera e farla restare all’interno delle riserve. Altri, invece,
sottolineano quanto sia stata importante la
figura di van der Merwe nella nascita
dell’industria cinematografica nera e
quanto quei ilm siano stati fonte d’ispirazione per un’intera generazione.
A trent’anni van der Merwe sembrava
soddisfatto di gestire la sua impresa edile
di Johannesburg. Poi incontrò Louis ed Elmo de Witt, fratelli registi che lo spinsero
verso il cinema. Con uno spirito da imprenditore più che da autore, aveva già iutato
un’opportunità di guadagno osservando i
suoi dipendenti che il sabato sera andavano in massa a guardare i ilm americani
della blaxploitation, quel genere di ilm a
basso costo nato negli anni settanta che
aveva come riferimento il pubblico degli
afroamericani. Blaxploitation nel paese
dell’apartheid? Be’, perché no?
“Avevo capito che era questo il mercato
del futuro”, ricorda van der Merwe nel suo
uicio alla periferia di Città del Capo. Oggi, a 74 anni, ha una rude cortesia afrikaaner di altri tempi. “Così ho inanziato tutto
quanto”. Il risultato fu Joe Bullet: van der
Merwe era il produttore, Louis de Witt il
regista e il cast era formato solo da neri.
Ken Gampu, che avrebbe in seguito avuto
successo anche a Hollywood, recitava nel
ruolo di Joe Bullet insieme alla cantante
Abigail Kubeka. Il film ebbe un enorme
successo a Soweto, ma solo per una settimana. Poi la censura decise che quel thriller ritraeva i neri in un modo troppo positivo. Il ilm fu proibito e per van der Merwe
fu un disastro inanziario.
Imperterrito, individuò un’altra opportunità e riuscì a convincere il governo a
creare un programma di sussidi per girare
DR
Joe Bullet
ilm con protagonisti neri: il B-scheme. Ma
naturalmente queste pellicole dovevano
piacere al governo di Pretoria. In tutto van
der Merwe fu coinvolto in quattrocento di
questi ilm. Al culmine della sua attività ne
produceva uno al mese. E molti seguirono
il suo esempio: “Se avevi diecimila rand a
disposizione era il miglior investimento
che potessi fare. Molti di questi ilm potevano rendere ino a 70mila rand”, ricorda
Darryl Els, proprietario di una sala indipendente di Johannesburg.
Van der Merwe scrisse anche molti copioni, storie leggere piene di avventura che
non si addentravano mai nell’analisi delle
misere condizioni socioeconomiche in cui
viveva la popolazione nera. Van der Merwe
dice di non aver mai appoggiato l’apartheid: “Ma non sono un radicale e non mi
sono mai interessato alla politica”.
“Il messaggio dei miei ilm era sempre
‘il crimine non paga’”, aferma Steve Hand,
un contadino afrikaaner che cominciò a
lavorare come traduttore dallo zulu per i
ilm di van der Merwe e inì per girare dei
B-scheme tutti suoi. Abigail Kubeka ricorda che sul set van der Merwe era “un gentiluomo”: “Non si dava assolutamente delle
arie. Non c’era nessun apartheid mentre
giravamo”. Eppure gli attori neri e le troupe
in larga misura bianche dovevano spesso
cenare e dormire in luoghi separati.
Nel corso degli anni qualche copione
sovversivo riuscì a sfuggire alla censura.
Come My country my hat (1983) di David
Bensusan, una critica alle norme sugli spostamenti che costringevano i sudafricani
neri ad avere dei passaporti interni quando
viaggiavano fuori dalla loro township o dalle loro regioni di origine. E pur non essendo un radicale, van der Merwe mise a segno almeno un primato storico producendo il primo ilm al mondo in lingua zulu –
Ngomopho (Traccia nera) – anche se lui
parlava quella lingua a malapena.
Zulu western
Nel 1986 realizzò quella che considera la
sua opera più rainata, completamente in
zulu: Umbango (La faida). “Fu un grande
successo”, racconta Hand, che lo produsse. “Costruimmo un’intera città del west
lungo il iume Mooi e importammo i costumi dagli Stati Uniti”.
Ma la realizzazione era solo l’inizio. Poi
bisognava mostrare il film. Hand aveva
quattordici camion, ognuno dei quali trasportava due proiettori, che giravano il paese per proiettare gli ultimi B-scheme nelle
zone rurali. “La maggior parte di quei posti
non aveva l’elettricità, iguriamoci il cinema”, racconta van der Merwe. “Potevano
radunarsi migliaia di persone, arrivavano
da chilometri e chilometri di distanza”.
Gli abitanti delle campagne sperdute
del KwaZulu-Natal, un territorio che il governo assegnò ai neri, non avevano mai
visto un ilm. “Una volta, mentre portava-
mo in giro Joe Bullet, durante una scena su
un iume, la gente si mise a guardare dietro lo schermo per vedere da dove arrivava
l’acqua”, racconta Hand, che organizzò
delle proiezioni perfino per il re zulu
Goodwill Zwelithini. “Lo invitai alla prima
e lui mi disse che era un ottimo lavoro”.
Tuttavia, così come era nato, il B-scheme scomparve. Nel 1989 Pretoria eliminò
il programma di sussidi. Nel giro di pochi
mesi tutti dovettero trovarsi un lavoro vero, anche van der Merwe, che comprò due
alberghi. Con il cambio di regime negli anni novanta, il bulldozer della storia cancellò rapidamente ogni traccia del B-scheme.
Poi van der Merwe ha incontrato Benjamin Cowley, direttore della Gravel Road,
casa di produzione di Città del Capo, che
gli ha proposto di digitalizzare i ilm. Nel
giro di un anno, hanno messo in piedi la
Retro Afrika Bioscope e alla ine del 2014
Joe Bullet è uscito a Durban in una versione
digitale restaurata.
Da allora sei ilm sono passati in tv e
molti altri sono stati restaurati dalla Gravel Road, compreso Treasure hunter, che
parla di un giovane zulu che assiste a un
naufragio, e Fishy stones, su due delinquenti dilettanti. Van der Merwe sta per
girare il suo primo ilm dopo 25 anni, Rhino
wars, sulla caccia di frodo. “Sono molto
grato a Cowley, perché mi ha dato una seconda possibilità”, dice con entusiasmo.
“Ho in testa un paio di altri ilm”. u nv
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Cultura
Cinema
Italieni
Dalla Polonia
I ilm italiani visti da un
corrispondente straniero.
Questa settimana il giornalista britannico Lee Marshall.
Un sistema che funziona
80
Con il premio Oscar a Ida
e l’Orso d’argento per la
regia a Ciało il cinema
polacco dimostra il suo
ottimo stato di salute
Da più di vent’anni il cinema
polacco afondava in una crisi
da cui non sembravano esserci
vie d’uscita. L’Oscar come miglior ilm straniero a Ida di Pawel Pawlikowski (consacrazione deinitiva per un ilm che
aveva già raccolto riconoscimenti in tutto il mondo) e l’Orso d’argento per la miglior regia a Malgorzata Szumowska
(con il suo Ciało) sono la dimostrazione che la cinematograia polacca sta dando impor-
Ciało
tanti segnali di rinascita. Non
si tratta solo di una convergenza favorevole.
All’origine di questo rinascimento c’è il Polski Instytut
Sztuki Filmowej (Pisf, l’istituto
del cinema polacco), un’istituzione che può disporre di grandi fondi. Nato nel 2005 Pisf
sostiene la cinematograia nazionale grazie a un sistema di
inanziamento moderno che
possa coinvolgere produzioni
straniere, distribuzioni, enti
locali e via dicendo. Al momento quello del Pisf è considerato uno dei migliori sistemi
di inanziamento per il cinema
in tutta Europa. Finora è riuscito a sostenere più di 130
opere prime e ad attirare alcune importanti coproduzioni internazionali. E il pubblico polacco gradisce visto che rispetto al 2 per cento di dieci anni fa
i ilm nazionali nel 2014 hanno
attirato il 27,5 per cento degli
spettatori.
Cahiers du Cinéma
Massa critica
Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo
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Short skin
Di Duccio Chiarini.
Italia 2014, 86’
● ● ● ●●
Ogni tanto un ilm sensibile,
grazioso, umano, riesce a resistere a quella strana forza della gravità che da anni trascina
la commedia all’italiana verso
il basso. Short skin è l’ultimo
della serie. Come altre di queste mosche bianche (mi viene
in mente Non pensarci di Gianni Zanasi) è ambientato in provincia, in questo caso il litorale
pisano. È in parte luogo di
chiusura e repressione, ma in
parte terra di paradossale libertà (il simbolo chiave qui sono i retoni, le palaitte dei pescatori nella zona di Marina di
Pisa). Il ilm racconta la storia
di Edo, un diciottenne un po’
sigato che sofre di imosi,
cioè ha il prepuzio troppo
stretto. Insieme ad altre scelte
(come aprire il ilm con due
chiappe in primo piano) questo problema anatomico potrebbe fornire lo spunto per
una commedia grossolana o
per una teenage comedy
all’americana. Invece, è il punto di partenza di un ilm tenero, divertente e acuto su un’età
in cui le ragazze sono ininitamente più sicure di sé (dopo
noi maschi diventiamo più
bravi a ingere), o sul fatto che
sesso e sentimento spesso non
combaciano. Bella la fotograia cristallina di Baris Ozbicer,
che è turco. Insieme alla produzione dell’anglo-iraniano
Babak Jalali e alla musica indie
dei canadesi Woodpigeon, è la
prova forse che i ilm sulla provincia italiana non devono essere per forza provinciali.
Media
CitizenfOur
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Chi è senza COLpa
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Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo
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I consigli
della
redazione
Mia madre
Nanni Moretti
(Italia, 86’)
Citizenfour
Laura Poitras
(Stati Uniti, 114’)
In uscita
Samba
Di Eric Toledano, Olivier Nakache. Con Omar Sy, Charlotte
Gainsbourg. Francia 2014, 118’
●●●●●
Seguendo il percorso tracciato
con il loro ilm precedente,
Quasi amici, Eric Toledano e
Olivier Nakache tornano a raccontare la Francia, stavolta attraverso un incontro amoroso.
Samba (Omar Sy) è un senegalese che vive a Parigi da una
decina d’anni barcamenandosi
tra lavori precari sotto la costante minaccia dell’espulsione. Dopo un arresto conosce
Alice (Charlotte Gainsbourg),
una donna emotivamente in
diicoltà che ha lasciato il lavoro per dedicarsi al volontariato. I due si avvicineranno, si
aiuteranno e si ameranno seguendo un protocollo ecumenico molto caro ai due registi
che consiste nello smussare in
modo utopico le diferenze di
classe e di origine. Anche se
non si rinuncia ai cardini generali del feel good movie, la novità di Samba rispetto a Quasi
amici è il modo quasi documentaristico con cui i due autori afrontano alcuni aspetti
della storia. Hanno scelto di
dare alla loro favola un impronta più realistica dove c’è
spazio anche per sondare gli
egoismi dei due protagonisti.
Una scelta audace per un ilm
di buoni sentimenti, che in
parte paga.
Romain Blondeau,
Les Inrockuptibles
Sarà il mio tipo?
Di Lucas Belvaux. Con Emilie
Dequenne, Loïc Corbery.
Francia 2014, 151’
●●●●●
Per il suo primo importante
ruolo sul grande schermo l’attore della Comedie française
Loïc Corbery veste i panni di
Sarà il mio tipo?
Clément, un giovane professore parigino che ha pubblicato
le sue teorie sull’amore con
una prestigiosa casa editrice e
che il sistema scolastico nazionale conina ad Arras. In provincia Clément incontra Jennifer, una bella parrucchiera interpretata da Emilie Dequenne. L’intellettuale e la parrucchiera, il primo adora Kant la
seconda Jennifer Aniston. Forse si può provare a indovinare
cosa succederà. Ma potrebbe
diventare una commedia romantica solo se Belvaux decidesse di decretare una tregua
nella lotta di classe. E Belvaux
non è il tipo. Quindi il ilm
prende la strada della rilessione su quello che succede quando una persona forte ne incontra una debole: Clément la asseconda, trova gli amici di Jennifer adorabili. Ma che succederà quando la presenterà ai
suoi amici e colleghi? Lui che
ha fatto della sua incapacità di
amare un cavallo di battaglia?
Belvaux ripete queste domande con un’insistenza crescente
Samba
trasformando il ilm in un
thriller, o quasi. Ed Emilie Dequenne ci fa tremare tutti per
Jennifer che afronta il più temibile degli avversari, quello
che non sa nemmeno che vuol
fare del male.
Thomas Sotinel, Le Monde
Squola di Babele
Di Julie Bertuccelli.
Francia 2013, 89’
●●●●●
Hanno tra gli undici e i 15 anni.
I loro nomi – Youssef, Oksana,
Yong, Felipe – testimoniano il
lungo viaggio compiuto per arrivare in questa classe particolare di una scuola parigina dove impareranno il francese per
poi accedere alla scuola “normale”. Julie Bertuccelli li ha ilmati per un anno intero, un anno passato in sospensione tra
una vita e un’altra, tra un luogo
e un altro. Lontanto dal bilancio educativo amaro di La classe di Laurent Cantet, questo luminoso documentario ci porta
dentro un’altra aula che accoglie ragazzi di culture e paesi
diversi che giorno dopo giorno
diventano un gruppo compatto, una piccola repubblica della
speranza. E Julie Bertuccelli riesce in un’impresa per niente
facile: ofrire una vera e grande
avventura in quel piccolo territorio dove la Francia è ancora
un paese accogliente.
Cécile Mury, Télérama
The ighters
Thomas Cailley
(Francia, 100’)
Avengers. Age of Ultron
Di Joss Whedon. Con Robert
Downey Jr, Scarlett Johansson.
Stati Uniti 2015, 150’
●●●●●
A vedere quanti ilm di supereroi ci aspettano, solo quest’anno, vengono i brividi. Ma qual
è il problema? È un genere, come l’horror o la commedia romantica. Se poi fossero tutti
divertenti e folli come il nuovo
capitolo degli Avengers… I
vendicatori sono riuniti di nuovo sotto la guida umorale e talvolta ambigua di Tony Stark
(Robert Downey Jr). Tempo fa
li avevo paragonati ai Traveling Wilburys del supereroismo. Ora fanno pensare a una
specie di G7 di salvatori del
pianeta in cui ogni componente è pronto a trasformarsi in
una sorta di Angela Merkel ma
un po’ meno virile.
Peter Bradshaw,
The Guardian
Adaline. L’eterna
giovinezza
Di Lee Toland Krieger. Con Blake Lively, Michiel Huisman.
Stati Uniti 2015, 110’
●●●●●
Una premessa piuttosto interessante viene un po’ sprecata
in Adaline. L’eterna giovinezza.
Questo dramma sentimentale
non esplora in modo soddisfacente le implicazioni romantiche e ilosoiche di una storia
in cui una bella donna scopre
di essere incapace di invecchiare. L’interpretazione di
Black Lively nel ruolo di Adaline è enigmatica e coinvolgente, ma ha anche uno spessore
molto sottile. E il regista Lee
Toland Krieger tocca i tasti
emotivi giusti, ma evita di
prendersi rischi o di andare
troppo a fondo nel maneggiare
la lama a doppio taglio
dell’eterna giovinezza.
Tim Grierson,
Screen International
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
81
Cultura
Libri
Dagli Stati Uniti
I libri italiani letti da un
corrispondente straniero.
Questa settimana la giornalista israeliana Sivan Kotler.
Da St. Malo a Parigi
Gheula Canarutto Nemni
(Non) si può avere tutto
Mondadori, 259 pagine
17,90 euro
● ● ● ●●
A partire dal titolo, il primo romanzo di Gheula Canarutto
Nemni denuncia la sua complessa e delicata missione: riuscire a mantenere un equilibrio sano in un braccio di ferro
tra il mondo e l’io. Un io che è
donna, studentessa ed ebrea
osservante di Milano. Disposta
ad attraversare una strada
tracciata da forze intergenerazionali, spesso universale. Il libro illustra il perenne dilemma
del saper mantenere un equilibrio tra ambizioni professionali e personali anche nei giorni
in cui non è facile riconoscere
il conine che le separa. Canarutto, alla sua prima esperienza da scrittrice, dopo quella di
docente universitaria alla Bocconi e madre di undici igli,
vuole raccontare una storia, in
parte autobiograica: afronta
con coraggio e semplicità il
materiale quotidiano che accomuna tantissime donne,
ovunque siano, di qualsiasi religione, paese o città. Un percorso di scontro interiore, intimo e, anche per questo, comodo da leggere e confortante. E
comunque inserito in una forte
e presente cornice ebraica, capace di contenere allo stesso
tempo obblighi, doveri e libertà. Una voce autentica, quasi
candida, che si confronta con
una realtà spesso incravattata
e provoca le (in troppo) facili
critiche, iglie di una forma
mentis maschile della nostra
società che nessuna quota rosa
è in grado di scalire.
82
Anthony Doerr ha vinto
il premio Pulitzer con il
romanzo Tutta la luce che
non vediamo
Anthony Doerr stava mangiando un gelato a Parigi con
suo iglio quando ha scoperto
che il suo romanzo Tutta la luce che non vediamo (pubblicato
in Italia da Rizzoli) aveva vinto
il premio Pulitzer. Una coincidenza interessante visto che il
libro è ambientato proprio in
Francia, durante l’occupazione nazista, per la precisione a
St. Malo, dove segue le vicende di una ragazza cieca e di un
giovane soldato tedesco.
Doerr ha battuto la concorrenza di scrittori pluripremiati come Richard Ford con Let me be
Frank with you o la proliica
Joyce Carol Oates. Nelle motivazioni la giuria parla di un ro-
BERlINER VERlAG/ARChIV/DPA/CORBIS/CONTRASTO
Italieni
Parigi, giugno 1940
manzo “fantasioso e intricato”
capace di esplorare “la natura
umana e il contraddittorio potere della tecnologia”. Il libro è
rimasto per quasi un anno nella classiica dei best seller del
New York Times e secondo
l’editore statunitense, Scribner, la sua difusione (compre-
si gli ebook) supera il milione e
mezzo di copie. Il premio per
la saggistica l’ha vinto Elizabeth Kolbert con La sesta estinzione (pubblicato in Italia da
Neri Pozza), mentre per la poesia è stato premiato Gregory
Pardlo con il suo Digest.
The Wall Street Journal
Il libro Gofredo Foi
Memorie del 25 aprile
Claudio Pavone
La mia resistenza
Donzelli, 110 pagine, 16 euro
Pavone è il maggior storico
della resistenza italiana, autore del fondamentale Una guerra civile (Bollati Boringhieri
1991), ma ha sempre tenuto
ben distinte storia e memoria e
solo adesso, a 95 anni, ha voluto raccontare come lui ha vissuto il tempo che va dalla primavera del 1943 a quella del
1946. Da soldato in licenza a
Roma per la morte del padre a
reduce di incontri ed entusiasmi, sconforti e paure segnati
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
da un ossessivo rosario di morti, viaggia da Roma a Milano,
tra lunghi periodi di detenzione nelle prigioni prima di Regina Coeli e poi di Castelfranco
Emilia.
“Nelle situazioni eccezionali può accadere, e allora accadde a molti, che sia straordinariamente rapido e chiaro il
cammino che porta a maturare
convinzioni e a prendere decisioni irrevocabili”, diventa impossibile non schierarsi, non
scegliere da che parte stare e
che fare, nel panorama politico
della resistenza e del dopo-
guerra ma soprattutto in rapporto al nemico, i nazisti e quei
repubblichini nella cui rete
molti sono initi.
Pavone non tace i suoi dilemmi del tempo, tra cattolici
e azionisti, socialisti e comunisti e altri ancora, perciò questa
memoria è anche un documento utile a una storia politica e generazionale. Ma è soprattutto, senza sbavature e
compiacenze, una cronaca degna degli antichi cronisti, un
piccolo e appassionante gioiello letterario. Contro l’ignavia
del presente. u
I consigli
della
redazione
Maylis de Kerangal
Riparare i viventi
(Feltrinelli)
Il romanzo
Maël Renouard
La riforma dell’Opera
di Pechino
Nottetempo, 51 pagine, 7 euro
●●●●●
La riforma dell’Opera di Pechino di Maël Renouard, un romanzo di neppure sessanta
pagine, è il primo capitolo di
un ciclo che ruota intorno ai
rapporti tra il potere e la letteratura in diverse aree geograiche. In questo caso siamo in Cina. Il protagonista è
un professore universitario,
reclutato nel 1966 ai tempi
della Rivoluzione culturale
da uno dei membri della cosiddetta banda dei Quattro,
Yao Wenyuan, un critico letterario che ha avuto una
grandissima inluenza politica. Maël Renouard aveva
avuto occasione di contattare
Yao Wenyuan nel 1998, per
via degli studi storici che stava svolgendo.
“Il ruolo del letterato nella politica cinese mi aveva
molto interessato”, spiega
Renouard, che è uno studioso di ilosoia francese. “La
storia che racconto si svolge
all’epoca di Mao, ma non è
questa la cosa più importante. Questo periodo, mi sembra, non è che un episodio
nella storia della Cina, e lo
stesso Mao si considerava come un altro imperatore, anche se l’aspetto marxista della sua politica era evidentemente di grande importanza”. Il protagonista di La riforma dell’Opera di Pechino,
relegato nell’oscurità in seguito alla morte di Mao, si ripiega sul proprio passato. Il
racconto abbraccia un arco di
tempo molto lungo; cionono-
LEA CRESPI (LUzPhOtO)
Il potere e le lettere
Maël Renouard
stante riesce a essere preciso,
scritto in uno stile ellittico,
sottile, non sprovvisto di una
certa poesia dell’indiferenza. Naturalmente il protagonista cerca di comprendere
quel che è accaduto, ma il
suo atteggiamento è più contemplativo che analitico. Osserva a posteriori gli imprevisti della fortuna, della politica e anche del cuore, senza
acrimonia, con la speranza
tuttavia che la ruota torni a
girare, e che il suo lavoro sia
inalmente riconosciuto.
Quando lavorava per la
commissione teatrale del
gruppo centrale della Rivoluzione culturale, infatti, aveva
scritto opere di un genere
nuovo pensato appositamente per ediicare il popolo,
opere scritte su commissione
ovviamente, ma nelle quali
aveva dispiegato tutto il suo
talento. L’uomo politico sogna apertamente il potere.
L’uomo di lettere sogna, segretamente, la gloria.
Astrid De Larminat,
Le Figaro
Molly Antopol
Luna di miele
con nostalgia
(Bollati Boringhieri)
David Foenkinos
Charlotte
(Mondadori)
Claire Messud
La donna del martedì
Bollati Boringhieri, 136 pagine,
14 euro
●●●●●
La donna del martedì è la storia
semplice di una donna ucraina
di nome Maria Poniatowski.
Comincia in Canada, con
l’amicizia tra Maria e un’anziana donna cieca, la signora Ellington, prima di tornare alla
nascita di Maria in Unione Sovietica tra le due guerre mondiali. Il villaggio in cui la sua
famiglia ha vissuto da sempre
è “ristrutturato” dai sovietici,
che costruiscono una scuola
dove Maria e le sue sorelle imparano a recitare versi e cantare canzoni per la gloria
dell’Urss. Una nuova ristrutturazione avviene quando Maria
ha quindici anni: arrivano i tedeschi e rastrellano chiunque
abbia meno di trentacinque
anni. Maria inisce in Germania, dove è costretta a lavorare
dodici ore al giorno in una fabbrica di munizioni. Seguono
pagine da batticuore sulla fuga
di Maria verso nord, oltre il Reno, ino alla sicurezza relativa
della campagna tedesca.
Quando la guerra sta per inire, Maria si trova in un campo
dei liberatori dove s’innamora
di un uomo polacco e rimane
incinta. La maggior parte del
romanzo parla della sua successiva vita familiare in Canada, e del senso di estraniazione
che prova per la perdita del
marito, morto di cancro, e del
iglio, portato via da una moglie arrogante: un’estraniazione più profonda di quella provata negli anni di prigionia. Il
lettore impaziente farà meglio
a evitare Claire Messud. Malgrado la sua capacità di racchiudere la Seconda guerra
mondiale in una decina di pagine, il suo ritmo può essere
lento e il suo linguaggio in
troppo complesso. Ma è illumi-
nante proprio laddove è più
impenetrabile.
Daren King, The Guardian
Anne Tyler
Una spola di ilo blu
Guanda, 400 pagine, 18,50 euro
●●●●●
Una spola di ilo blu è uno studio intelligente e appassionante sul ruolo della memoria nel
creare e distruggere le storie
che ci raccontiamo sull’amore.
La storia vissuta, rivela il romanzo, è ben più complessa di
quella che si tramanda nelle
narrazioni familiari. Abby e
Red Whitshank sono una coppia che sta invecchiando, e che
si trova davanti a un dilemma
comune. I due hanno trascorso
tutta la loro vita coniugale nella casa che il padre di Red ha
costruito; comprensibilmente,
sono riluttanti ad abbandonare la propria indipendenza. Ma
Red è quasi sordo e la sua salute si sta deteriorando. Abby
scompare di continuo per
compiere delle passeggiate
nelle quali si sente disorientata
e perduta. Stem, il iglio adottivo (e preferito) della coppia,
sua moglie Nora e i loro bambini si trasferiscono da Abby e
Red per prendersi cura di loro,
dopo che gli assistenti sociali
sono stati cacciati via uno dopo l’altro dalla casa senza troppe cerimonie. Questa situazione già tesa è complicata ulteriormente dal ritorno del libertino Denny, l’irresponsabile e
misterioso igliol prodigo.
Quando i quattro fratelli si ritrovano insieme, nascono risentimenti, vengono svelati
segreti, e al centro del romanzo una strana tragedia capovolge completamente la trama. I lettori che si aspettavano
un tranquillo romanzo “domestico” saranno spaventosamente sorpresi.
Emily Rapp Black,
The Boston Globe
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
83
Cultura
Libri
posta alla fede e alla speranza
irrazionale. Perché il geniale
Eden, come vuol far credere,
ha un dono scientiicamente
inspiegabile. È un musicista, e
crede nel potere della musica
non solo di padroneggiare le
emozioni o le passioni, ma an­
che di ipnotizzare e perino di
guarire. Quando arriva il mo­
mento di mettere alla prova le
sue abilità soprannaturali nes­
suno si cura molto delle poten­
ziali conseguenze. Il romanzo
di esordio di Wood, scritto con
mano sicura e a volte inquie­
tante, stringe il lettore in una
presa d’acciaio.
Daniel Hahn,
The Independent
Ayelet Tsabari
Il posto migliore del mondo
Nuova Editrice Berti,
224 pagine, 18 euro
●●●●●
Ambientato tra Israele e il Ca­
nada degli ultimi decenni, Il
posto migliore del mondo si
muove attraverso la vita quoti­
diana che fa da sfondo alla sto­
ria moderna: la guerra del Gol­
fo, la seconda intifada, l’occu­
pazione e il ritiro dalla peniso­
la del Sinai, le campagne a Ga­
za. Malgrado l’ambientazione
molto precisa, ogni racconto
ha un raggio di universalità e
di umanità. Le due amiche
adolescenti che passano
un’estate di indipendenza a Ei­
lat potrebbero essere allo stes­
so modo ragazze del Texas ru­
rale. I padri assenti e severi,
modellati da una vita tutta spe­
sa nell’esercito israeliano, si
possono trovare tra i militari di
professione di qualunque eser­
cito. Le famiglie yemenite
sembrano uscite da un roman­
zo di Mario Puzo. L’alternarsi
di egoismo e generosità dei
vecchi fratelli, l’orgoglio dei
nonni per i loro valori progres­
sisti, il senso di colpa per non
riuscire ad amare qualcuno
quanto merita: queste cose si
sommano nella nostalgia la­
tente del “posto migliore del
mondo”, qualunque esso sia.
Nat Bernstein,
Jewish Book Council
Non iction Giuliano Milani
Via dallo sviluppo
William Easterly
La tirannia degli esperti
Laterza, 510 pagine, 28 euro
A noi profani l’idea secondo
cui la difusione dei diritti fa­
vorisce la crescita economica
appare ovvia. Al contrario,
dalla seconda guerra mondia­
le in poi, le politiche dello svi­
luppo si sono concentrate
esclusivamente sull’aspetto
economico, mettendo da par­
te i diritti umani. Più di recen­
te, poi, la crescita della Cina
ha consolidato deinitivamen­
te la convinzione secondo cui
un governo autoritario dotato
84
di un potere forte può applica­
re le ricette economiche in
modo più eicace rispetto a un
regime democratico in cui
quelle politiche possono esse­
re messe in discussione.
Per criticare questo ap­
proccio l’economista William
Easterly ne ripercorre la sto­
ria, delineando i presupposti
mentali su cui si fonda: consi­
derare gli stati come “tabule
rase” senza dare alcun ruolo
all’esperienza storica, proget­
tare, dall’esterno, compiti da
far eseguire ai governi invece
che incentivare la spontanea
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
ricerca di soluzioni locali e pri­
vilegiare gli interessi delle na­
zioni rispetto a quelli degli in­
dividui. Questi pregiudizi, tra
l’altro, hanno conseguenze
cruciali sulle politiche migra­
torie. I migranti, spiega Ea­
sterly, oggi considerati nel mi­
gliore dei casi come risorse
sottratte a una nazione, do­
vrebbero essere visti come in­
dividui che esercitano la pro­
pria libertà e che, come mo­
stra la storia economica, con­
tribuiscono allo sviluppo, tan­
to dei paesi di provenienza
quanto di quelli di arrivo. u
Germania
GALuSChKA (uLLSTEIN BILd/GETTy)
Benjamin Wood
Il caso Bellwether
Ponte alle Grazie, 411 pagine,
16,80 euro
●●●●●
Passando accanto alla cappella
del King’s college, a Cam­
bridge, Oscar sente l’organo
che suona per l’inizio della
preghiera serale ed è spinto a
entrare. Nella congregazione,
la sua attenzione è catturata da
una ragazza, Iris, e dopo il ser­
vizio i due cominciano a parla­
re. Nelle settimane che seguo­
no, mentre comincia a inna­
morarsi di lei, Oscar si ritrova
in mezzo alla cerchia di amici
della ragazza. Il loro centro di
gravità è Eden Bellwether, il
fratello carismatico, arrogante,
persuasivo e pericoloso di Iris.
Il loro gruppo è fatto di studen­
ti universitari, molto istruiti e
abituati alla comodità e al lus­
so. Oscar lavora invece in una
casa di riposo. Il grande con­
litto del romanzo, tuttavia,
non riguarda la classe sociale e
il privilegio, ma la ragione
scettica e scientiica contrap­
Sibylle Berg
Der Tag, als meine Frau
einen Mann fand
Carl Hanser
Le disavventure di una coppia
sposata, raccontate con umori­
smo: un triangolo che comin­
cia ai tropici e inisce al ritorno
a casa, in Germania, quando la
coppia torna d’amore e d’ac­
cordo. Sibylle Berg è nata a
Weimar nel 1962.
Tex Rubinowitz
Irma Rowohlt
Il protagonista rintraccia su
Facebook una sua vecchia
compagna di casa e di letto di
trent’anni prima, Irma, e ri­
vanga negli anni passati. Tex
Rubinowitz è nato ad hanover
nel 1961.
Dörte Hansen
Altes Land Knaus
In un’imponente e vecchia ca­
sa di Altes Land, regione della
Germania settentrionale, si in­
trecciano le storie di due don­
ne: Vera che ci abita dal dopo­
guerra e Anne, sua nipote, che
ci si trasferisce con il iglio pic­
colo. dörte hansen è nata a
husum nel 1964.
Rolf Bauerdick
Pakete an Frau Blech
Deutsche Verlags-Anstalt
Ai funerali di Albert, il diretto­
re di circo che gli ha fatto da
padre, Maik incontra i vecchi
compagni. Rolf Bauerdick è
nato nella Renania settentrio­
nale nel 1957.
Maria Sepa
usalibri.blogspot.com
Ragazzi
Ricevuti
Mestieri
senza limiti
Andrea Segre
FuoriRotta
Marsilio, 216 pagine, 16,50 euro
I diari scritti durante dieci anni
di viaggi fuori rotta. Da Valona
a Dakar, da Pristina ad Accra,
da Sarajevo a Ouagadougou,
per conoscere le storie e le origini dei migranti che arrivano
in Europa.
Liniers
Il sabato è come
un palloncino rosso
La Nuova Frontiera Junior,
31 pagine, 15 euro
Ricardo Liniers Siri, noto semplicemente come Liniers, è un
nome importante in Argentina. È l’autore di Macanudo,
una striscia molto amata, pubblicata da La Nación. Macanudo è stato deinito un’attualizzazione della Mafalda di Quino, ma è qualcosa di diverso, a
tratti più surreale. Chi conosce
la giovane Henrietta, l’orso
Mandelbaum e il gatto Fellini
sa che il mondo al contrario di
Liniers è pieno di dolcezza.
Questo sentimento domina
anche Il sabato è come un palloncino rosso, che Liniers dedica alle sue bambine, Matilda e
Clementina. Due sorelline devono afrontare una giornata
di pioggia. Una se ne vorrebbe
rimanere sotto le coperte, l’altra invece vuole avventurarsi
dentro tutta quell’acqua. Ed
ecco che in una girandola di
emozioni si afacciano dentro
queste vignette-mondo l’allegria, la curiosità, la delusione.
Le due sorelle si sostengono e
tra loro nasce un rapporto basato su una grande complicità.
Il tratto un po’ iabesco di Liniers fa il resto. Le due sorelle
sono così carine con quegli occhioni grandi e quei nasini un
po’ tondi. Certo correre sotto
la pioggia senza un ombrello ti
fa rischiare un bello starnuto
alla ine, ma quanto divertimento in mezzo. Liniers sembra dire ai più piccoli, ma anche agli adulti, non abbiate
paura della vita, attraversatela
sorridendo. Igiaba Scego
Stefano Bartezzaghi
M
Einaudi, 282 pagine, 20 euro
Tra arrivi e partenze, amicizie
di una vita e incontri quotidiani, ricordi tenaci e attimi mancati, l’autore ci conduce in un
insolito viaggio sentimentale
nella sua città, Milano.
Fumetti
Amore ai margini
Fred Bernard
e François Roca
Jésus Betz
Logos, 32 pagine, 18 euro
Fred Bernard è un autore francese da seguire ma ancora
troppo poco conosciuto, di cui
le edizioni Tunuè hanno pubblicato l’ottimo L’uomo bonsai,
rivisitazione dell’immaginario
del feuilleton tra ottocento e
novecento crudele e ironica,
ma tuttavia profonda, disegnata con uno stile apparentemente approssimativo, in realtà naif e impressionistico. Altrettanto ispirato nei libri illustrati, irma qui solo i testi coadiuvato dalle pitture coloratissime di François Roca, illustratore di scuola iperrealista. Approccio quindi opposto a quello scelto da Bernard in veste di
autore di fumetti. Jésus Betz è
un ragazzo senza gambe né
braccia che, venduto dalla madre a scaltri personaggi, comincia una vita ai margini, tra
i mari e i fenomeni da baraccone. Marginale tra i marginali
(anche i trapezisti del circo lo
maltrattano), questo busto di
Gesù, nato proprio il 24 dicembre (ma del 1894), trova
l’amore etereo quanto intenso
nella stella dello show, l’angelica Kuma Satra, contorsionista volteggiante, muta dopo
che “un mago le ha spezzato il
cuore”. Il racconto è scandito
da una numerazione dal sapore cristologico: 33 date corrispondenti in gran parte ad altrettante date storiche, dal
primo volo dei fratelli Wright
del 17 dicembre 1903 all’uscita nelle sale il 6 febbraio del
1921 di Il monello di Chaplin.
È una parabola la cui poesia e
ironia non vengono mai meno. Roca, con i suoi colori fuoriusciti da un tramonto perenne, riesce nella magia di unire, per esempio, Howard Pyle,
il grande illustratore inglese
(si veda la sua lettura di L’isola
del tesoro di Stevenson), con
Botero e la cartellonistica
newyorchese d’epoca.
Francesco Boille
Wendy Doniger
Gli indù
Adelphi, 872 pagine, 65 euro
Una visione eterodossa della
civiltà indù che attinge alle
opere della letteratura sanscrita, ai poemi epici, ai testi
tantrici e alle tradizioni orali.
Nick Turse
Così era il Vietnam
Piemme, 365 pagine, 18,50 euro
In Vietnam tutto ruotava intorno al body count, la conta
dei morti da parte dei soldati
statunitensi.
Francesco Trabucco
Design
Bollati Boringhieri, 139 pagine,
10 euro
Il design attribuisce nuove
qualità estetiche a oggetti materiali o digitali già esistenti,
ne inventa di nuovi, allestisce
nuovi scenari d’uso.
Alessandro Pancotti
Le iniziali
LietoColle, 13 euro
Una raccolta di poesie che costituiscono un viaggio alla ricerca dell’identità.
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
85
Cultura
Musica
Dagli Stati Uniti
Selah Sue
Milano, 29 aprile,
tunnel-milano.it
Percy Sledge, 1940-2015
Sleaford Mods
Bologna, 2 maggio,
covoclub.it; Milano, 3 maggio,
bikoclub.net; Roma, 4 maggio,
initroma.com
Il cantante di When a man
loves a woman è morto a
Baton Rouge, in Louisiana
Beth Hart
Milano, 28 aprile,
alcatrazmilano.com
Circa Waves
Bologna, 30 aprile,
covoclub.it
Kenny Wayne Shepherd
Mezzago (Mb), 26 aprile,
bloomnet.org; Roma, 27 aprile,
planetroma.com
Ozric Tentacles
Pordenone, 3 maggio,
ildepositoconcerthall.com;
Roma, 5 maggio,
planetroma.com; Bologna,
6 maggio, locomotivclub.it
Klingande
Milano, 20 aprile,
fabriquemilano.it
Dee Dee Bridgewater
Ravenna, 2 maggio,
teatroalighieri.org
Ryoji Ikeda
Venezia, 4 maggio,
spazioaereo.com
Selah Sue
86
Quando era un ragazzo a
Leighton, in Alabama, Percy
Sledge cantava in chiesa tutte
le domeniche, ma a casa
ascoltava musica country
con cantanti bianchi perché,
come raccontava, “l’unica
stazione radio che si sentiva
faceva solo quella”. Sognava
di diventare un giocatore di
baseball, lavorava come infermiere o in un impianto
chimico e cantava tra sé i successi di Jim Reeves, Hank
Williams ed Elvis Presley. Poi
aveva cominciato a esibirsi
come cantante nel circuito
Percy Sledge, 2007
soul del sud degli Stati Uniti,
e siccome voleva fare un disco
aveva scritto una canzone che
parlava di un uomo lasciato
dalla sua donna. Poi aveva
cambiato le parole perché gli
avevano detto che le canzoni
d’amore vendevano di più.
Era il 1966 ed era nata
When a man loves a woman,
che ha fatto ottenere a Sledge
R. SInTE MAARTEnSDIJK (GETTy IMAGES)
Dal vivo
un contratto con la Atlantic e
uno dei successi più longevi
della storia del pop. Da lì in
avanti ha avuto una carriera
altalenante (la sua ultima hit
è stata Take time to know her,
nel 1968), ma ha continuato a
esibirsi regolarmente in giro
per il mondo, soprattutto in
Europa e in Sudafrica, dove
nel 1969 ha fatto un tour di
enorme successo (“Suonavamo per i neri, i bianchi e gli
indiani, venivano tutti”, raccontava). E When a man loves
a woman è tornata regolarmente in classiica grazie a
uno spot dei jeans Levi’s nel
1987 e molte colonne sonore.
Adam Sweeting,
The Guardian
Playlist Pier Andrea Canei
Electro Vecchioni
Dan Solo
Naftalina
Il nick da guerriero stellare calza benissimo al bassista
ex Marlene Kuntz, qui all’esordio solista, Classe A. Lui è classe ’68, torinese, e qui ci mette
sonorità moderne e un modo
di scrivere e cantare da classicone, con una erre gucciniana
e testi un poco Stranamore.
Vien da pensare al trailer del
prossimo Star wars con Harrison Ford invecchiato, ancoraggio rassicurante per assimilare
la modernità. Dan fa una cosa
simile: si preoccupa di sonorità
avanti, e dietro fa l’artigiano di
una volta, racconti, sentimenti, cesello, cancellino. Cose
fatte a modo, lavoro solido.
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Stearica
Delta
Altri tre torinesi portentosi, indignados strumentali,
che pubblicano il nuovo album
Fertile per un’etichetta inglese
(la Monotreme), picchiano come fabbri psichedelici, sonorizzano Golem, intrallazzano
con altre formazioni fanatiche
(Girls Against Boys, Acid Mothers Temple, Coliseum) e fanno musica furibonda e inebriante. Se qualcuno facesse
parkour tra le rovine di Kobane
con la GoPro in testa, loro sarebbero la colonna sonora.
Vanno sulla forza degli strumentali, e potrebbero dedicarsi a colonne sonore di technothriller seriali.
2
Nibiru Prj 22
Elektro punk
E che ilm si fanno, questi giovani salernitani con nome impronunciabile, album
(uscito da poco) Incompatibile,
strumentazione elettronica,
formazione jazz e attitudine da
spugnette assorbisonorità globalizzate? In uno di questi ilm
erano coinvolti ino al collo, favoreggiando il piano di arricchirsi a suon di pasticche da
parte dei ricercatori-pusher di
Smetto quando voglio. E ora che
si misurano sulle lunghe distanze li scopriamo briosi nel
giostrare elektro, punk, rock,
dub, reggaeton, ambient in un
amalgama pronto da spalmare
sulle pareti di un club.
3
Blur
The magic whip
(Parlophone)
●●●●●
Durante l’ultimo tour asiatico,
i Blur si sono ritrovati in uno
studio di Hong Kong per improvvisare e vedere cosa sarebbe successo. I primi risultati non sono stati promettenti,
ma Graham Coxon e il produttore Stephen Street hanno trasformato queste jam in canzoni, poi sono arrivate le parole
di Damon Albarn a concludere
l’opera. Proprio i testi rilettono gli umori stanchi di un outsider immerso in un mondo
strano. Il senso di lontananza e
di deriva guidano tutto l’album. C’è un sostanziale strascico dal disco solista di Albarn, Everyday robots. Alla ine
il nuovo lavoro della band può
essere letto attraverso una lente sentimentale che mostra i
piccoli disturbi dovuti dalla solitudine e alla nostalgia di casa, e li mette accanto alle preoccupazioni per la sovrappopolazione e la sostenibilità ambientale. The magic whip è una
constatazione, dolce e triste, di
quanto le nostre relazioni private si mescolino con la vita
pubblica e la politica.
Andy Gill,
The Independent
Calexico
Edge of the sun
(Anti-)
●●●●●
Sembra che per fare il loro nono disco i Calexico avessero
bisogno di cambiare aria, così
sono andati da Tucson, in Arizona, a Città del Messico. Ne è
valsa la pena? Diicile dirlo.
Edge of the sun è un lavoro molto buono sotto ogni punto di
vista, ma c’è qualcosa che lo
rende prevedibile. Per questo
afermare che l’album segna la
Matteo Fossi e Marco Gaggini
Bartók: complete music
for two pianos
(Brilliant)
Calexico
rinascita creativa della band
mi pare una forzatura. Non
fraintendetemi: i Calexico restano uno dei migliori gruppi
statunitensi. La combinazione
tra la voce calda di Joey Burns
e i ritmi incalzanti di John
Convertino rimane insuperata, ma quando si fa accompagnare da iati, tastiere e una serie ininita di amici (come Sam
Beam, Ben Bridwell, Neko
Case o Pieta Brown) la sua forza può annacquarsi, se non
sprofondare. Quindi no, forse
Edge of the sun non raggiungere
le vette di capolavori come The
black light e Feast of wire. Ma
pazienza.
Stuart Henderson, Exclaim
Lightning Bolt
Fantasy empire
(Thrill Jockey)
●●●●●
Ai tempi d’oro di Ride the skies
e Wonderful rainbow, questo
duo statunitense aveva tra i
suoi ammiratori gente del calibro di Kieran Hebden, Thurston Moore e Mats Gustafsson.
Poi Brian Chippendale (batteria) e Brian Turner (chitarra e
basso) si erano dedicati ad altri
interessi e i loro album successivi erano stati deludenti. Ora
Fantasy empire restituisce ai
due Brian il loro posto nella
storia del rock. Il loro stile non
ha subìto rivoluzioni: Chippendale continua a cantare attraverso uno strano apparecchio e ad agitarsi alla batteria
con l’energia furiosa di un
bambino, Turner sembra suo-
nare tre chitarre contemporaneamente. Questa è l’opera
più panoramica della loro discograia: si sente l’inluenza
del crossover dei Suicidal Tendencies, del punk dei Black
Flag, dell’hardcore californiano, del noise giapponese e degli Slayer. La tentazione della
violenza sonora è moderata
dalla gioia che pervade tutto il
disco e dalla passione per il
gioco e la decostruzione, che
però non si spinge ino a distruggere le canzoni. La semplice genialità dei Lightning
Bolt sta anche nel non dimenticare le cose che legano le persone alla musica, come il ritmo, la melodia e la celebrazione comunitaria dei suoni.
José Marmeleira, Público
Earl Sweatshirt
I don’t like shit, I don’t go
outside
(Columbia)
●●●●●
A volte nel caotico mondo del
rap, in cui si pubblicano senza
sosta album spesso insigniicanti, spicca una perla rara. È il
NATALJA KENT
Album
Bertrand Cuiller
Rameau: pièces pour
clavecin
(Mirare)
GErALD vON FOrIS
Classica
Scelti da Alberto
Notarbartolo
Lightning Bolt
Jean Martinon
The complete Chicago
symphony orchestra
recordings (Sony Classical)
caso dell’accattivante, brutalmente introspettivo terzo album di Earl Sweatshirt, novellino della west coast di appena
21 anni, opera che può essere
deinita una pietra miliare
dell’hip-hop quanto i recenti
lavori di Drake e Kendrick Lamar. Dall’organo lounge intamente disinvolto di Huey al cupo pianoforte che infesta Of
top, Thebe Neruda Kgositsile
(come lo conosce sua madre)
dimostra di possedere, come i
migliori rapper della storia, il
dono naturale di enfatizzare
un ragionamento con dei punti
esclamativi musicali.
Ben Thompson,
The Observer
Built To Spill
Untethered moon
(Warner)
●●●●●
Untethered moon è il primo album dei Built To Spill negli ultimi sei anni, e già il fatto che
sia arrivato è una mezza sorpresa. Infatti dopo There is no
enemy, il leader della band
Doug Martsch aveva dichiarato di sentirsi “senza una direzione”. Se si ama la musica dei
Built To Spill, Untethered moon
farà provare a chi l’ascolta la
stessa sensazione di conforto
degli album precedenti.
Martsch continua a mettere in
piedi pezzi rock: basta ascoltare On the way, un pezzo insolito per Martsch, con le seconde
voci femminili, la linea di basso in primo piano e un vago
senso di minaccia. C’è anche
un pezzo con inluenze dub,
C.R.E.B., ma Martsch dice da
una decina d’anni di voler pubblicare un disco reggae. In
ogni album dei Built To Spill ci
sono almeno quattro o cinque
perle, abbastanza perché
Martsch continui a deliziarci
ancora con la sua presenza dimessa e imperscrutabile.
Jayson Greene, Pitchfork
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Cultura
Video
In rete
Clouds
over Sidra
Storie di famiglia
Venerdì 24 aprile, ore 21.15
Rai5
Partendo dall’autobiograia
dal padre e interrogando parenti e conoscenti, l’attrice e
regista canadese Sarah Polley
dedica un commovente ilm al
ricordo della madre, anche lei
attrice, morta per una grave
malattia nel 1990.
La memoria degli ultimi
Sabato 25 aprile, ore 20.00
Laefe
Il ilm di Samuele Rossi è un
viaggio isico e simbolico nei
ricordi della resistenza attraverso gli sguardi di sette partigiani, che il regista accompagna nei rifugi e nei luoghi dove hanno combattuto.
Me ne frego! Il fascismo
e la lingua italiana
Sabato 25 aprile, ore 21.00
History
Oltre alle paludi Mussolini voleva boniicare anche l’italiano. L’obiettivo era cambiare
atteggiamento e comportamenti dei cittadini a partire
dal modo di scrivere e parlare,
in ogni ambito: dalla scuola, al
lavoro al tempo libero.
Treni e stazioni
Lunedì 27 aprile, ore 23.00
Rai Storia
Reportage su spazi di transito
e non luoghi italiani: dai casi
negativi dell’Air terminal
Ostiense e della stazione di
Vigna Clara, a Roma, al recupero delle carrozze delle Ferrovie del Sud Est in Puglia.
Togliattigrad
Venerdì 1 maggio, ore 21.30
Rai Storia
La città industriale sovietica
resta simbolo dell’incontro tra
due visioni opposte del mondo: da una parte quella della
Fiat di Torino, dall’altra quella
dell’Unione Sovietica.
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Dvd
Reportage lirico
Era diicile immaginare come
lo stile lirico e i tempi dilatati
del cinema di Serhij Loznycja
potessero adattarsi al racconto
di un evento concitato e violento come la rivolta contro il
presidente Janukovič, che
sconvolse Kiev nell’inverno
2013. Invece è proprio grazie
all’unicità del suo sguardo,
nell’impressionante Maidan
presentato a Cannes nel 2014 e
ora in dvd nel Regno Unito,
che il regista ucraino è riuscito
a rendere conto dell’ineluttabile sviluppo dalle prime proteste paciiche alle barricate e
gli scontri. Loznycja celebra
l’incedere della storia e ritrae
una nazione nel momento della riscoperta della sua identità.
loznitsa.com/movies/maidan
vrse.works/clouds-over-sidra
Recuperando il principio della
stereoscopia, l’applicazione
Vrse permette di trasformare
uno smartphone in uno
strumento di visualizzazione
immersiva. Basta inserirlo in
seplici visori di cartoncino
come Cardboard di Google.
Questo progetto è promosso
dalle Nazioni Unite in
collaborazione con Samsung,
e il risultato è un ilm virtuale
girato dal punto di vista di una
bambina di 12 anni del campo
profughi di Za’atari in
Giordania, dove vivono
84mila rifugiati siriani.
Secondo l’Onu strumenti
come questo possono aiutare
a condividere le esperienze di
chi si trova in situazioni
umanitarie critiche. Un buon
esempio di quello che la
tecnologia potrebbe fare al
servizio dei diritti umani.
Fotograia Christian Caujolle
Uno sguardo attento
Al ritmo di due numeri
all’anno (15 euro ognuno) la
rivista The Eyes sta trovando
la sua velocità di crociera.
Questa pubblicazione
bilingue (in inglese e
francese) molto curata, che si
è deinita in dall’inizio uno
sguardo sulla fotograia
europea, si sta concentrando
numero dopo numero sulle
città del vecchio continente. Il
punto di vista è quello della
loro rilevanza attuale per la
fotograia. L’ultimo numero è
dedicato a Madrid, di cui The
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
Eyes dimostra di essere una
vera guida, molto ben fatta e,
cosa che non guasta, bella e
selettiva.
L’omaggio all’immenso
Alberto García-Alix era
probabilmente necessario, e si
lascia apprezzare il tufo nella
nuova scena spagnola, a
prescindere dal fatto che sia
una delle più attive e
interessanti del momento. La
scelta dei luoghi è severa,
precisa e anche molto utile.
Infatti le informazioni
pratiche, come una selezione
di libri consigliati per
accompagnare la visita e i
classici da rivista
specializzata, una volta tanto,
sono molto ben integrate agli
argomenti trattati. E se si
sente la mancanza di una
dimensione internazionale,
per stavolta non sarà un
problema. A tutto questo poi
si aggiunge anche
un’intervista ad Alec Soth e un
lavoro in 3d sulla Corea del
Nord. The Eyes ha trovato il
suo posto nel mondo. Senza
fretta. u
Cultura
Arte
Corinne May Botz, Kitchen (Room from afar)
PEr GENtILE CoNCESSIoNE DI CorINNE MAY Botz E BENrUBI GALLErY
Capolavori in 3d
Hoy toca el Prado,
Madrid, ino al 28 giugno
Di solito i guardiani del Prado
si assicurano che i visitatori
non si avvicinino troppo ai
capolavori del celebre museo
di Madrid. Invece qualche
settimana fa José Pedro
González ha potuto scorrere le
dita su uno dei più famosi
dipinti di El Greco, il Nobile con
la mano sul petto. Ha fatto
avanti e indietro sugli occhi del
nobiluomo e ha stroinato
bene la barba ino a
raggiungere la mano seguendo
i bordi di ogni campitura. Si
trattava naturalmente di una
copia tridimensionale. Così il
signor González, 56 anni, cieco
dall’età di 14, ha sperimentato
la pittura in prima persona e ha
sentito i dettagli del quadro
scorrere sotto i polpastrelli.
Hoy toca el Prado è un progetto
che consente ai ciechi di creare
l’immagine mentale di un
dipinto attraverso il tatto. Il
percorso, allestito in una sala
laterale del museo, comprende
cinque copie in 3d di opere
famose del Prado, insieme alla
Gioconda di Leonardo Da
Vinci del Louvre. La mostra è
uno dei più avanzati tentativi
di mettere la bellezza delle arti
visive a disposizione di chi non
vede. Il Metropolitan di New
York e la National gallery di
Londra organizzano laboratori
per non vedenti, il Louvre ha
una galleria tattile con copie di
sculture, gli Uizi nel 2011
hanno realizzato una copia in
3d della Nascita di Venere di
Botticelli. Il Museo nacional
de San Carlos, a Città del
Messico, è stato tra i pionieri in
questo campo. La novità del
Prado è di aver mantenuto
inalterato il colore degli
originali, perché spesso i non
vedenti possono percepire
alcuni colori.
The New York Times
Londra
Anatomia del crimine
Forensics. The anatomy
of crime
Wellcome Collection, Londra e
Whitworth gallery, ino al 21
giugno
Marat giace nella vasca da bagno, nel capolavoro di Jacques-Louis David. Una coltellata sotto la clavicola, il sangue nell’acqua e in mano la
falsa lettera di Charlotte Corday. La morte di Marat è il corpo del reato, la perfetta rappresentazione della scena del
crimine. La mostra della Wellcome dimostra come artisti e
investigatori forensi abbiano
l’interesse comune di visualiz-
zare la scena del delitto. La
mostra, che unisce arte, oggetti storici e prove, si apre
con la vivida dimostrazione di
questo tema. Il corpo di una
povera anima in-de-siécle giace a terra in un bar parigino.
Da un primo punto di vista fotograico, la donna sembra
che sia caduta fracassandosi
la testa. Ma l’invenzione di un
treppiede allungabile permette una visione aerea che mostra l’anomala posizione delle
gambe, dalla quale si deduce
che il corpo è stato trascinato
o sbattuto contro il muro. Un
architetto di Londra disegna
dettagli dei vicoli dove Jack lo
squartatore uccideva le sue
vittime. Un ritrattista produce
nitidissimi volti di criminali.
Un detective francese dopo
ogni omicidio dipinge deliziosi acquerelli di chiazze di sangue. Prima dell’avvento delle
impronte digitali, Alphonse
Bertillon inventa la foto segnaletica. Ma la vera rarità di
questa mostra è uno dei modelli macabri di Frances
Glessner Lee che rivoluziona
il metodo investigativo ricostruendo scene di crimini irrisolti in case di bambole.
The Guardian
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Pop
L’indecifrabile Günter Grass
Ariel Dorfman
utti i commenti che ho letto sulla morte me incisioni che aveva realizzato proprio quella
di Günter Grass ne riconoscono la mattina.
grandezza di scrittore e poi, quasi imQuando inalmente il suo sguardo si alzò e incrociò
mediatamente, ricordano ai lettori la il mio, notai che gli scintillava una strana rabbia negli
sua iscrizione giovanile alle Wafen-Ss occhi. Poi disse: “Perché i compagni socialisti cileni
e il fatto che per decenni la tenne se- non hanno partecipato alla conferenza che i patrioti
greta, mentre si afermava come coscienza morale del cechi hanno fatto quest’estate in Francia?”.
suo paese, per non dire del mondo.
Spiegai che, per quanta simpatia molti democratici
Ma abbiamo veramente capito che rapporto c’è tra cileni nutrissero per la primavera di Praga e la lotta dei
il magnifico talento dello scrittore e le sue lacune dissidenti cechi, ostentare una posizione del genere in
etiche?
pubblico era politicamente sconsigliabile. Avrebbe
Potrà forse servire a far luce sulla
signiicato rompere con i comunisti cilequestione, anche se probabilmente non Era il 1975 e con mia ni, che in quel momento erano una comdarà una vera risposta, il mio primo, fu- moglie eravamo
ponente vitale – la spina dorsale, si poandati a fargli visita. trebbe dire – della resistenza alla dittarioso incontro con Grass.
Era il marzo del 1975 e con mia mo- Viveva in una casa
tura, così come erano stati alleati leali
glie Angélica eravamo andati a fargli vi- rurale sulla riva di
e decisivi del governo di Salvador Allensita a casa sua, vicino ad Amburgo. Era un iume dalle
de, rovesciato dal colpo di stato del 1973.
una spaziosa casa rurale sulla riva di un acque di gran lunga Aggiunsi che Allende aveva condannato
fiume dalle acque di gran lunga più
l’invasione sovietica della Ceco più placide di quel
placide di quel nostro travagliato colslovacchia.
nostro travagliato
loquio.
Ma quel mio chiarimento non amAll’inizio andò tutto incredibilmente colloquio
mansì Grass. Per lui l’intervento sovietibene. Ci aveva accompagnati il nostro
co in quel paese era stato il frutto del
amico Freimut Duve, grande giornalista, paladino dei medesimo impulso imperialista che aveva animato gli
diritti umani e parlamentare socialdemocratico.
statunitensi in Cile: era essenziale denunciare entramMentre Grass cucinava una succulenta zuppa di pe- be le superpotenze e cercare modelli economici e sosce (avevo già sentito parlare della sua leggendaria ciali alternativi, partecipando attivamente alla difesa
abilità culinaria), conversavamo in inglese sulla del socialismo democratico.
sua opera e sull’enorme inluenza che la sua trilogia
Quando risposi che per liberarci di Pinochet non
di Danzica aveva avuto sul mio stesso lavoro di nar- potevamo compromettere l’appoggio assicurato
ratore.
dall’Unione Sovietica e dai suoi alleati, l’autore del
Poco alla volta, introdussi nella conversazione il Tamburo di latta non volle più rivolgermi neanche una
motivo principale – meno letterario – che mi aveva parola. Per fortuna era rimasto afascinato dalla mia
spinto a chiedere quell’incontro. Speravo infatti di splendida moglie e trascorse il resto della nostra visita
convincere Grass a dare la sua irma a sostegno di una a conversare amichevolmente con lei. In seguito feci
campagna per la difesa della cultura cilena e contro la notare al nostro amico Freimut che probabilmente, se
dittatura del generale Augusto Pinochet. L’iniziativa non fosse stato per la magia e il fascino di Angélica, mi
aveva già ottenuto il sostegno entusiasta del suo con- avrebbe cacciato di casa o mi avrebbe aizzato contro il
nazionale Heinrich Böll e di altri grandi scrittori, come suo cane.
Gabriel García Márquez e Julio Cortázar. Visto che
In ogni caso, proprio al termine della nostra visita,
Günter sosteneva posizioni politiche di sinistra, im- Grass mi accordò qualche parola di congedo: “Quando
maginavo che non sarebbe stato diicile.
una cosa è moralmente giusta”, disse, “dobbiamo diInvece, quando ebbi terminato la mia spiegazione, fenderla senza riguardi per le conseguenze politiche o
Grass restò in silenzio, cosa per lui inconsueta. Poi mi- personali che potrà comportare”.
se il coperchio sulla casseruola, lasciando nella stufa a
A quarant’anni di distanza, continuo a ripensare a
legna qualche tizzone acceso perché la bouillabaisse quelle parole. Sarebbe facile rivolgerle alle sue spoglie,
potesse bollire con tutta la calma che meritava, e sen- chiedere a quell’uomo che aveva preteso rettitudine
za aggiungere una parola si mise a studiare le bellissi- da me che diritto avesse di insegnare al prossimo il va-
T
ARIEL DORFMAN
è uno scrittore
argentino-cileno. Il
suo ultimo libro
pubblicato in italiano
è Memorie del deserto.
Viaggio attraverso il
Cile del nord (Einaudi
2005). Questo
articolo è uscito su
The Nation con il
titolo Remembering
Günter Grass.
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ALE&ALE
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Pop
VLADIMIR
SOROKIN
è uno scrittore russo.
Il suo ultimo libro
pubblicato in Italia è
La giornata di un
opricnik (Atmosphere
Libri 2014). Questo
articolo è uscito con il
titolo Putinskaja
mašina vremeni
dymitsja.
Storie vere
Gaioz Nigalidze,
grande maestro di
scacchi georgiano, è
stato squaliicato da
un torneo a Dubai
dopo che un
avversario si è
lamentato perché
continuava ad andare
sempre nello stesso
bagno prima di
muovere. Gli arbitri
hanno trovato nel
gabinetto uno
smartphone con
un’app per il gioco
degli scacchi aperta
su un’analisi della
partita che Nigalidze
stava facendo in quel
momento. Secondo
Nigel Short, gran
maestro britannico,
“anche il mio cane o
mia nonna
potrebbero vincere
un torneo se usassero
uno di quei software”.
92
lore dell’onestà nascondendo il suo passato nazista.
Sarebbe facile pronunciare contro di lui un atto di accusa, come oggi sembrano fare in tanti mentre commemorano il vincitore del premio Nobel appena
scomparso e si pongono domande sul suo conto.
Allora mi sia consentito difendere Günter Grass. Io
non credo che i suoi giudizi morali o politici siano indeboliti dall’aver nascosto la sua adesione alle Ss hitleriane. Aveva ragione sulla Germania e sull’amnesia
nazionale che la corrose. Aveva ragione a difendere i
movimenti di liberazione del terzo mondo. Aveva ragione sul fatto che bisognava ricordare anche le vittime tedesche dei bombardamenti a tappeto efettuati
dagli alleati durante la seconda guerra mondiale. E
aveva ragione nel caso particolare che provocò un esito tanto infelice di quel nostro primo incontro.
Glielo dissi anni dopo, quando ci incontrammo di
nuovo all’Aja, dove partecipavamo a un incontro letterario, e gliel’ho ripetuto in diverse altre occasioni successive: i socialisti cileni avrebbero dovuto, come feci
io poco dopo, far propria la causa dei dissidenti dei
paesi comunisti. Avremmo dovuto farlo con coraggio
e integrità e io, come scrittore, avevo il dovere aggiuntivo di prendere posizione a favore della libertà
d’espressione ovunque venisse attaccata.
Grass ha avuto ragione, eppure, a tanti anni di distanza, mi torna di continuo un interrogativo: perché
reagire con tanta furia a quella che, in in dei conti, era
una legittima diferenza di opinione? Perché non mostrarsi tollerante verso un compagno di strada sul cammino verso un mondo migliore? La rigidità delle sue
prese di posizione categoriche non contraddiceva forse la splendida ambiguità dei suoi personaggi e la promiscua ricchezza della sua prosa?
Günter non è più qui per rispondermi. Eppure forse
era proprio quel giovane nazista, quel suo colpevole
alter ego adolescente, a imporre alla sua incarnazione
adulta di prendere solo posizioni trasparenti, deinitive, aliene da qualsiasi compromesso etico. Non si potrebbe spiegare così quella sua rabbia, quella sua efervescenza, quella sua certezza? Non era forse un segno
di espiazione?
Comunque sia, dobbiamo fare attenzione. Se
dall’opera letteraria di un simile gigante possiamo imparare qualcosa, è che siamo esseri umani complessi,
paradossali e spesso indecifrabili. Forse non sarebbe
giusto ridurre l’intera opera di uno scrittore così magniicamente molteplice ai messaggi che pure gli sono
stati indubbiamente sussurrati per tutta la vita da quel
Grass più giovane, morto anche lui al buio, insieme al
più vecchio.
Io penso che ino alla ine Günter Grass non sia mai
riuscito a perdonare quella zona oscura e maligna del
suo passato.
Tutto ciò che posso fare oggi è rimpiangere di non
averne mai parlato a lungo con lui né allora né in seguito, quando ci riavvicinammo. Posso solo celebrare
quel nostro incontro presso il placido iume, che getta
un po’ di luce sulla vita e sull’opera di uno scrittore che
non inirò mai di leggere e non ho mai inito di ammirare. u ma
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
La macchina
del tempo di Putin
Vladimir Sorokin
l grande scrittore di fantascienza britannico
H.G. Wells, che in un suo romanzo descrisse
con precisione il viaggio di un uomo nel tempo,
nella sua opera trascurò una sola cosa importante: gli efetti che una straordinaria avventura di questo tipo può avere sulla psiche del viaggiatore. Com’è noto, l’uomo esiste nel tempo. “Provate a strapparmi a quest’epoca! Vi garantisco che mi si
torcerà il collo”, scrisse durante gli anni di Stalin il poeta Osip Mandelštam. Purtroppo, alla ine, la macchina spietata del gulag riuscì davvero a strapparlo alla
sua epoca.
Il romanzo di Wells ha dato vita a un intero genere
letterario, quello cronofantastico, ma nella maggior
parte dei libri e dei ilm che ne fanno parte il tema della
psiche di chi viaggia lungo il iume del tempo rimane in
secondo piano. Di norma l’eroe torna alla sua epoca
felice e pieno di vivide impressioni.
Le coordinate di un ipotetico viaggio nel futuro sono nella loro essenza più o meno chiare, mentre quelle
di uno spostamento nel passato a quanto pare mettono
in profondo imbarazzo gli studiosi. I teorici continuano a fare conferenze per discutere approfonditamente
il tema senza nemmeno sospettare che un’enorme
macchina del tempo è già stata costruita ed è partita
felicemente verso il passato. E la cosa più fantastica è
che questo viaggio è stato intrapreso non da un eroe
solitario simile a quello di Wells, ma da un intero paese, cioè dai 140 milioni di cittadini della Federazione
russa. Si tratta di un audace esperimento che poteva
essere intrapreso solo dai più entusiasti di tutti all’idea
di un viaggio nel passato. E i russi sono davvero un popolo di entusiasti, basti pensare al ventesimo secolo e
al suo progetto comunista. Probabilmente non è un
caso nemmeno che il primo uomo nello spazio sia stato
un russo.
Ma chi ha costruito e messo in moto la macchina del
tempo? Un uomo dalle qualità tutto sommato mediocri, un ex collaboratore del Kgb che non si è fatto certo
notare nel corso della sua carriera all’interno di questa
organizzazione, ma che in compenso, dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica, è diventato un funzionario
statale di un certo successo, che si è mosso passo dopo
passo verso l’alto e alla ine, del tutto inaspettatamente,
è stato collocato da un Boris Eltsin ormai malato al vertice della piramide del potere russo, allo scopo principale di garantire la sicurezza della sua famiglia. Chi
arriva al culmine di questa antica piramide, creata ai
tempi di Ivan il terribile, si accorge di avere qualità di
cui in precedenza non avrebbe mai sospettato.
È come in una iaba: un uomo del tutto normale si
inila al dito l’anello del potere e diventa Sauron. E in
una persona di medie capacità all’improvviso si risve-
I
GIAcoMo BAGnARA
glia un amore così bestiale per il potere, un desiderio
così acceso di fare tutto il possibile ainché l’anello
magico rimanga per sempre al suo dito, che al compagno Stalin nella sua tomba scappa ancora oggi un sorriso di approvazione. Anche lui adorava il potere e lo
teneva stretto a sé con l’aiuto di una formula eicace:
incessante terrore di massa contro la popolazione +
mito del futuro radioso + cortina di ferro. Ma come si fa
a rimanere al vertice della piramide meravigliosa nel
ventunesimo secolo, il secolo di internet, della democrazia, dei conini aperti e delle alte tecnologie?
Il cervello del nuovo governante della Russia ha inventato una sua formula magica: la macchina del tempo. È davvero fantastica! A partire dal primo giorno in
cui si è trovato alla guida del paese ha cominciato a costruirla con la pazienza di una formica, pezzo dopo
pezzo. Quest’uomo dall’aspetto modesto e poco appariscente ha dato prova di una grande ostinazione.
Quando alla ine la macchina del tempo è stata pronta
lui, con la mano sudata per l’emozione, ha tirato la leva. E l’enorme paese ha cominciato a navigare in un
passato che i milioni di pensionati russi sognavano da
tempo quando si addormentavano nei loro letti. Il
bianco splendore dell’impero sovietico! Un sogno che
non dava tregua non solo ai pensionati, ma anche ai
neoimperialisti postsovietici, ai nazionalbolscevichi e
ai neomonarchici, i quali ritenevano che Stalin non
fosse altro che “uno zar russo come tutti gli altri, solo
un po’ più spietato”.
Proprio la nostalgia per il passato sovietico è diventata il principale carburante della macchina costruita
da Putin. Una nostalgia che negli anni novanta non
tutti avevano buttato nella spazzatura. Alcuni suoi preziosi frammenti erano stati conservati gelosamente
nei bauli dei nonni e nei cassettoni delle nonne. E afinché la popolazione li gettasse nella caldaia della
macchina del tempo per consentirle di funzionare era
necessario creare un’altra macchina, quella della propaganda. La benzina di questa macchina è stata la televisione.
Tutto è cominciato con i remake dei ilm e delle
canzoni dell’era sovietica, che hanno cominciato a risuonare sempre più spesso in versioni pop per i giovani, con i talk show in cui stalinisti dai capelli grigi raccontavano ai più giovani di quanto l’Unione Sovietica
fosse potente e di come l’occidente la temesse e la rispettasse, tacendo allo stesso tempo sui gulag e le repressioni di massa. nel frattempo venivano chiusi i
programmi più liberi, si mettevano a tacere interi canali televisivi e si raforzava il controllo su tutti i mezzi
d’informazione.
Il viaggio indietro nel passato è cominciato così, e il
paese si è ritrovato nella tarda era di Brežnev: è emerso
un sistema monopartitico, i politici dell’opposizione si
sono trasformati in dissidenti, l’antiamericanismo è
diventato un luogo comune. Dopo cinque anni tutto ha
cominciato a puzzare di stalinismo: le elezioni sono
diventate deinitivamente una farsa, i politici dissidenti si sono ritrovati sotto processo o sono stati costretti a
emigrare, i tribunali e il parlamento sono diventati
strumenti di Putin.
Sulle ali del successo, quest’ultimo ha cominciato a
premere sempre di più sull’acceleratore della sua macchina del tempo: indietro, indietro, sempre più veloce!
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
93
Pop
Ed ecco che alla retorica sovietica ha cominciato a sostituirsi quella imperiale, e la massima dello zar conservatore Alessandro III secondo cui “la Russia ha solo
due alleati, la propria lotta e il proprio esercito” è diventata il programma dello stato. Nei talk show si è
cominciato a parlare dello “speciale modello russo”,
della nostra eccezionale spiritualità che ha salvato la
Russia dalle grinie di un occidente marcio, mentre la
chiesa si è fusa sempre di più con lo stato e i generali
dei servizi segreti hanno preso a urlare con foga dagli
schermi televisivi. “La Russia è sempre stata, è e rimarrà imperiale!”, gridano i giovani scrittori e i politologi. Ma un impero ha bisogno di vittorie militari, di
nuovi spazi sottratti al nemico.
Ed ecco che la vittoria alla ine è arrivata: “La Crimea è nostra!”. Il televisore si surriscalda di urla di vittoria, la macchina del tempo vibra sempre più. Bisognerebbe frenare un po’ e rilettere. Ma ecco che nel
viaggiatore nel tempo si veriica quell’annebbiamento
della coscienza del quale ha taciuto Wells e le labbra
dei nostri uomini di stato si sono aperte: “Lanciare le
divisioni corazzate verso Kiev!”, “Usare le bombe atomiche contro gli ucrofascisti!”, “La Russia ha bisogno
di un imperatore!”, “Impedire alla popolazione di possedere dollari!”, “Reintrodurre la pena di morte per
punire i pedoili, i pervertiti e i nemici della Russia!”,
“Lo studio delle lingue straniere a scuola è una minaccia per le tradizioni russe!”, “Introdurre i visti di uscita!”, “Distruggere la quinta colonna!”.
Angela Merkel (e non solo lei) ha osservato che
“Putin vive in una realtà a parte”. Eh, sì! Questa realtà
lo agita e lo inebria, i piedi premono scatenati sull’acceleratore, i meccanismi della macchina si arroventano. C’è bisogno di altro carburante, la nostalgia ormai
non basta, la propaganda delle idee imperiali non è più
suiciente, c’è bisogno di una vera guerra, di sangue
autentico, il sangue di eroi caduti per il Donbass, per la
Novorossija, per l’idea russa, c’è bisogno di una guerra
con l’occidente ino a un esito vittorioso! A Minsk è riuscito ad avere la meglio sugli smidollati politici europei. Ora avanti verso nuove battaglie e nuove vittorie!
Ci sarà una nuova Stalingrado dalle parti di Charkov,
ci sarà una vittoria e Charkov, distrutta e soggiogata,
sarà rinominata Putingrado, il vincitore ci entrerà su di
un cavallo bianco impugnando la spada di Aleksandr
Nevskij e indossando una divisa bianca, anzi no, un
kimono da judo, oppure no, ancora meglio, nudo ino
alla cintura, come un nuovo Conan il barbaro, anche se
lui non è un barbaro ma è il vincitore, il protettore del
mondo russo , e ci sarà una parata della vittoria, alla
quale farà seguito l’incoronazione del nuovo imperatore della nuova Russia.
La macchina del tempo si è però rivelata un giocattolo molto costoso. Il rublo crolla, l’economia comincia
a declinare sotto il peso delle sanzioni, la gente perde i
risparmi. L’aggressiva isteria televisiva contro i “traditori della nazione” e la “quinta colonna” ha già dato i
suoi primi frutti perversi: l’uccisione di un oppositore
come Boris Nemtsov di fronte al Cremlino è un segno
di come nella capitale della Russia la vita sia sempre
più pericolosa e imprevedibile. Una caccia al “nemico
del popolo”, lunghe ile per le strade, provocazioni sanguinose: ora può succedere di tutto.
Passerà ancora un po’ di tempo e i cittadini afamati cominceranno a porsi la domanda: “Ma cosa diavolo
ce ne facciamo di questa macchina del tempo?”. Sotto
l’efetto di domande del genere cominceranno a dissiparsi le illusioni collettive e l’impero comincerà a vacillare. Ricordiamoci quel che si diceva una volta: “Ma
cosa diavolo ce ne facciamo di questo comunismo?”.
La macchina del tempo di Putin comincia a fumare.
Ma diicilmente si fermerà per propria volontà. Con
ogni probabilità s’incendierà oppure scoppierà. Nel
primo caso ci sarà una grande puzza, nel secondo voleranno schegge. La domanda, in questo secondo caso,
sarà: dove e come cadranno? u af
Scuole Tullio De Mauro
Latino per rainati
La lunga catena di discussioni
sull’insegnamento del latino nelle
scuole (del greco classico spesso
nemmeno si parla) si arricchisce
d’un nuovo anello. L’avvio l’ha dato la proposta innovativa che la
ministra francese dell’educazione
Najat Vallaud-Belkacem ha rivolto alle scuole medie superiori. Il
nucleo della proposta, come qui si
è già ricordato, è passare dal tradizionale insegnamento e apprendimento per materie separate all’insegnamento per temi e problemi.
Questo porterà a contrarre il tem-
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Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
po che nella programmazione didattica sarà concesso a materie di
taglio istituzionale, sistematico.
Lo studio sistematico delle
due antiche lingue classiche vedrebbe dunque ridotti sempre di
più i suoi spazi e di fatto ciò raforzerebbe i molti che chiedono la
completa soppressione di queste
materie, un vecchiume inutile.
Protestano gli insegnanti di lingue
classiche ed evocano argomenti
consueti: importanza delle lingue
classiche nella storia, loro incidenza sul francese e sulle lingue
d’oggi, loro persistenza attraverso
i secoli, loro natura di prerequisito
per gli studi giuridici e medici, oltre che letterari. Un’insegnante di
geograia, Mara Goyet, sviluppa
nel suo blog un argomento meno
consueto. Latino e greco sono
merce rara, fuori mercato, dicono
i detrattori, e apprenderli è un lusso. Appunto, argomenta Goyet,
appunto: chi impara queste antiche lingue si rende padrone di un
sapere di élite. Il latino fait classe.
Chi lo conosce entra in un club internazionale di rainati. u
Scienza
ISSEI KATo (REUTERS/CoNTRASTo)
Durante una simulazione sismica. Tokyo, marzo 2015
fu un terremoto di magnitudo 9,5. Il progetto userà i sensori di più di duecento
smartphone in vari ediici cileni, aiancandoli a una rete di osservatori che il Cile sta
realizzando.
L’idea di ricorrere agli smartphone come sistemi di preallarme sismico è venuta
ai ricercatori mentre usavano i computer
portatili e issi come sensori, spiega Brooks.
Spesso i portatili sono dotati di un accelerometro che rileva quando il computer viene
mosso e serve a proteggere l’hard disk in
caso di caduta.
Dieci secondi
Una scossa al telefono
Pete Spotts, The Christian Science Monitor, Stati Uniti
Alcuni smartphone potrebbero
dare il primo allarme di
un terremoto in arrivo nelle
zone che non possono
permettersi i sistemi
di rilevamento tradizionali
n gruppo di geoisici ha scoperto che usando i dati dei sistemi
di navigazione satellitare alcuni smartphone potrebbero funzionare come sistema a basso costo per segnalare un terremoto imminente. L’obiettivo non è sostituire con strumenti più economici i sistemi tradizionali, osserva Benjamin Brooks, geoisico dello United States
geological survey di Menlo Park, in California. Rispetto agli smartphone, i sistemi esistenti individuano una gamma più ampia di
terremoti di magnitudo potenzialmente
dannosa, almeno per ora.
Eppure solo otto regioni del mondo relativamente piccole hanno degli osservatori in grado di dare un preallarme. I loro sistemi di rilevamento si basano sui sismograi – strumenti che misurano il movimento del suolo – e a volte sui dati forniti dai si-
U
96
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stemi satellitari di posizionamento globale
(gps). Questi impianti costano tra i ventimila e i trentamila dollari l’uno e non tutti i
paesi ad alto rischio sismico possono permetterseli.
Gli smartphone, invece, sono ormai diffusissimi. Hanno ricevitori gps e accelerometri (sensori di movimento). Nelle tasche
e nelle borse di tutto il mondo oggi ce ne
sono più di un miliardo ed entro il 2020 potrebbero arrivare a sei miliardi.
Alcuni di questi smartphone potrebbero
dare il primo allarme sismico nei paesi che
non possono permettersi un osservatorio
vero e proprio. Soprattutto nelle aree vicine
ai margini delle placche della crosta terrestre, e in particolare nelle zone di subduzione, dove una placca scivola sotto un’altra: è
in queste zone che hanno origine i terremoti più violenti.
Le potenzialità sono talmente interessanti che l’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) ha concesso
al gruppo di ricerca un inanziamento di
500mila dollari per un progetto dimostrativo in Cile, dove i forti terremoti sono frequenti. In Cile c’è stata la scossa più violenta mai registrata: appena a sud della
città costiera di Concepción, nel 1960, ci
Per lo studio in corso, pubblicato sulla rivista online ad accesso libero Science Advances, i ricercatori hanno fatto due simulazioni. Una su un ipotetico sisma di magnitudo 7 lungo la faglia di Hayward, sul
lato orientale della baia di San Francisco.
Un altro test ha usato i dati rilevati da sismograi e satelliti durante il terremoto al
largo della regione del Tōhoku nel 2011, di
magnitudo 9, il più violento mai registrato
in Giappone e il quarto al mondo.
Ipotizzando che solo un piccolo numero di smartphone sia sempre attivo, si è
calcolato che a poter dare il primo allarme
del terremoto di Hayward entro cinque secondi dall’inizio sarebbe lo 0,2 per cento
dei cellulari della popolazione presente
nell’area, circa 4.700 persone. San Francisco avrebbe pochi secondi prima dell’arrivo della scossa violenta e San Jose qualche
decina di secondi.
Per il terremoto del Tōhoku, appena
510 smartphone avrebbero lanciato l’allarme 77 secondi dopo il sisma, non lasciando
abbastanza tempo per avvisare le zone costiere più vicine all’epicentro in mare. Tuttavia, sarebbe stato possibile lanciare l’allerta tsunami diversi minuti prima dell’arrivo dell’onda, e dare l’allarme a Tokyo
dieci secondi prima. Un tempo sicuramente brevissimo, ma suiciente per mettere
in attesa gli aerei a terra e in volo, consentire alla gente di ripararsi, chiudere ponti e
gallerie e allontanarsi da macchinari o materiali pericolosi sui luoghi di lavoro.
Con il progetto in corso in Cile si stanno
cercando anche altri strumenti di preallarme sismico. “Abbiamo pensato agli smartphone perché sono molto diffusi”, dice
Brooks. Un altro possibile “osservatorio”
difuso sono le automobili. “Le nuove auto
avranno tutte un sistema gps, che è un magniico sensore geodetico”. u sdf
Fumo
elettronico
ChimiCa
HEIdI IkONEN/www.VISItALANd.cOM
Champagne
d’epoca
Nel 2010 sono state trovate su
un relitto al largo delle isole
Åland, in finlandia, 168 bottiglie di champagne di 170 anni
fa. Ora un’équipe di ricercatori
guidata da Philippe Jeandet ne
ha analizzato il contenuto e ha
scoperto che rispetto al vino
moderno questo champagne ha
un alto contenuto di zuccheri,
meno alcol, sostanze derivanti
dal legno e molti metalli, scrive
la rivista Pnas.
tracce di materia oscura
Mnras, Regno Unito
La materia oscura potrebbe interagire
con se stessa. Il telescopio Vlt, in cile,
e il telescopio spaziale Hubble hanno
registrato la collisione di quattro
galassie nell’ammasso Abell 3827 e
hanno costruito una mappa della
distribuzione della massa. I
ricercatori hanno usato il metodo
della lente gravitazionale, che sfrutta
il fenomeno della delessione della radiazione emessa da
una sorgente luminosa a causa della presenza di una
massa posta tra la sorgente e l’osservatore. Misurando
questa delessione si può studiare la distribuzione della
massa nell’universo. In questo caso sono stati osservati gli
efetti della collisione tra galassie e si è visto che una parte
di materia oscura sembrava essersi separata dalla sua
galassia ed essere rimasta indietro. Si pensa che la materia
oscura costituisca ino all’85 per cento di tutta la materia e
sarebbe al suo interno che si formano le galassie. Senza la
materia oscura e la forza di gravità che esercita, le galassie
si “romperebbero”. Secondo lo studio pubblicato su
Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è
possibile che la materia oscura sia stata rallentata da altra
materia oscura. Questo potrebbe voler dire che la materia
oscura interagisce con se stessa con una forza diversa da
quella di gravità. u
BLAckEIffEL
Negli Stati Uniti la sigaretta elettronica è il prodotto da tabacco
più usato dai giovani, seguito
dal narghilè e dalla sigaretta
classica. Gli ultimi dati del Morbidity and mortality weekly report rivelano che, in un solo anno, l’uso delle sigaretta elettronica è triplicato nelle scuole medie e superiori, e quello del narghilè è raddoppiato. circa due
milioni e mezzo di studenti dichiarano di aver “svapato” almeno un giorno nell’ultimo mese, più di un milione e mezzo di
aver fumato il narghilè. La difusione di questi due modi di fumare compensa il calo dei consumo della sigaretta classica.
complessivamente nel 2014 i
giovani consumatori di tabacco
sono aumentati di 400mila unità. I centers for disease control
and prevention avvertono che la
nicotina è pericolosa per i giovani, in qualsiasi forma sia assunta: “Può causare dipendenza e
danni allo sviluppo cerebrale”.
astroisica
in breve
Genetica È stato analizzato il
dna di 34 piante del genere citrus. Secondo Molecular Biology and Evolution, l’antenato degli agrumi ha cominciato a dividersi nei tre principali gruppi, il
cedro, il pomelo e il mandarino,
tra i 7,5 e i 6,3 milioni di anni fa.
Altri due eventi di separazione
delle diverse specie – uno tra i
5,0 e i 3,7 milioni di anni fa e l’altro tra gli 1,5 e gli 0,2 milioni di
anni fa – hanno dato vita agli
agrumi moderni.
Salute L’Organizzazione mondiale della sanità ha invitato i ricercatori a pubblicare i risultati
di tutte le sperimentazioni
scientiiche, anche quelle passate, con risultato negativo o incerto. L’ideale sarebbe pubblicare su una rivista gratuita l’esito di ogni studio, entro un anno
dalla ine della sperimentazione. In questo modo si potrebbero evitare nuovi test, scegliere i
trattamenti migliori, proteggere
i malati e risparmiare.
biologia
Salute
resistenza
yanomami
MIkAkO MIkURA
Salute
amore a prima vista
Guardarsi negli occhi potrebbe aiutare umani e cani a stabilire un legame afettivo, come avviene tra mamma e neonato. Una serie di
test con persone e animali, nei quali si variava la durata degli sguardi
e l’interazione, hanno rivelato cambi dei livelli di ossitocina, un ormone che regola l’attaccamento afettivo. I padroni avevano un livello più alto di ossitocina se il loro cane li aveva guardati a lungo.
L’ormone portava le persone a interagire con gli animali, e questo a
sua volta innalzava l’ossitocina nei cani, scrive Science. u
Anche tra gli yanomami, una
popolazione isolata dell’Amazzonia, estranea alla medicina
occidentale, sono difusi i geni
per la resistenza agli antibiotici.
Secondo Science Advances i
cacciatori raccoglitori dell’Orinoco, in Venezuela, hanno una
lora intestinale molto ricca e diversiicata, con geni per la resistenza agli antibiotici, anche a
quelli sintetici. Questa resistenza potrebbe essere una caratteristica naturale, acquisita dai
batteri del terreno.
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Russia
Il diario della Terra
Ethical living
Stati Uniti
Grecia
6,1 M
Cuba
Taiwan
6,6 M
Molti tedeschi vorrebbero
consumare in modo responsabile, ma sono arrivati alla conIndonesia
6,0 M
Solo
clusione che “salvare il pianeta
attraverso le scelte di acquisto
Fiji
comporta un impegno notevo6,5 M
le”, scrive Der Spiegel. Nuovi
-72,8°C
Australia
Polo sud,
dubbi stanno attraversando il
Antartide
movimento del consumo critico in Germania. Lo dimostra
quanto è avvenuto nel settore
tessile. Nell’aprile del 2013,
quando 1.134 operai sono mordei cetacei potrebbe essere
a lasciare le loro case. Le iamti nel crollo del Rana Plaza a
me hanno distrutto 125 ettari di stata causata da un’infezione
Savar, in Bangladesh (uno dei
parassitaria o dallo spostavegetazione.
mento delle placche tettoniche paesi con bassi salari, lunghi
orari di lavoro e nessun diritto
suboceaniche.
Cicloni La tempesta tropiper i lavoratori), molti comcale Solo ha portato forti piogmittenti occidentali si sono
ge sul territorio francese della
Coccodrilli Lo zoo di
impegnati a garantire maggioSydney, Australia Nuova Caledonia. La tempesta Stoccolma, in Svezia, ha
Papua Nuova
ri controlli. Tra questi, il tedeha poi siorato Vanuatu.
annunciato che trasferirà a Guinea
Group, specializzato
Cuba dieci coccodrilli cubani 7,5 Msco OttoReuben
Tempeste Una tempesta ha
nel commercio online.
appena nati, che saranno
causato la morte di tre persone
Delini Le carcasse di più
Indonesia
Eppure, anche se cerca di
rimessi in libertà. Nell’isola
nella regione di Sydney, nel sudi 150 peponocefali,
Mozambicouna
sviluppare pratiche eticamencaraibica rimangono solo
dest dell’Australia. Secondo i
specie di delini, sono state
Angola
te accettabili, l’Otto Group
quattromila esemplari della
meteorologi, a Sydney sono ca- rinvenute su una spiaggia nel
specie, considerata a rischio di non pubblicizza le sue iniziatiduti 119 millimetri di pioggia in nordest del Giappone.
ve perché teme un effetto booestinzione.
appena ventiquattr’ore, il dato
Secondo gli esperti, la morte
merang. La “cultura dell’indipiù alto dal 2002. I venti supegnazione” portata avanti dal
riori ai 135 chilometri all’ora
movimento del consumo critihanno sradicato centinaia di
co rende rischioso parlare di
alberi, mentre 200mila case
queste iniziative, anche perché
sono rimaste senza elettricità.
spesso sono destinate a fallire.
Il porto di Sydney è rimasto
Sbagliare è facile: il gruppo
chiuso per due giorni.
vende due milioni di capi di
vestiario, prodotti da 200 forTerremoti Un sisma di manitori in 70 paesi. Ma controlgnitudo 5,6 sulla scala Richter
lare il subfornitore, il sub-subha colpito Cipro. Non ci sono
fornitore e il sub-sub-subforstate vittime, ma alcuni ediici
nitore diventa impossibile. Il
sono rimasti danneggiati. Altre
problema è il concetto stesso
scosse sono state registrate al
di consumo critico: se i consulargo di Taiwan, al largo delle
Inquinamento La catena montuosa dell’himalaya (nella foto)
isole Fiji, nell’ovest dell’Indonon è abbastanza alta per proteggere l’altopiano tibetano dall’in- matori sono moralmente responsabili di tutto, i politici
nesia e nel sud della Grecia.
quinamento atmosferico proveniente dall’Asia meridionale. Le
non hanno alcuna responsabistazioni climatiche sui versanti nord e sud dell’Everest (a quota
lità. Le condizioni dei lavora4.276 e 5.079 metri) hanno rilevato gli stessi inquinanti alle
Incendi Gli incendi che si
tori possono essere migliorate
sono sviluppati nella regione di stesse concentrazioni. Si tratta di composti organici e sulfurei
anche dai sindacati, non solo
rilasciati dalla combustione, che si depositano sui ghiacciai
Los Angeles, sulla costa occidalle scelte dei consumatori,
dentale degli Stati Uniti, hanno tibetani contribuendo allo scioglimento anticipato in primavera,
conclude lo Spiegel.
scrive Atmospheric Chemistry and Physics.
costretto centinaia di persone
TIM ChONG (REUTERS/CONTRASTO)
45,0°C
Linguere,
Senegal
BRENdON ThORNE (GETTy IMAGES)
Giappone
Cipro
5,6 M
Consumo
critico
98
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Il pianeta visto dallo spazio 24.02.2015
NorMAN KurING (oceAN coLor Web/NASA)
I colori del mar Giallo
Corea del Nord
Mar Giallo
Corea del Sud
Cina
e dinamiche al mondo”, aferma
Menghua Wang, oceanografo
della National oceanic and atmospheric administration statunitense.
Nella foto, il marrone lungo
la costa cinese è l’acqua torbida
comune alle zone costiere. Secondo Wang, è probabile che a
mescolare i sedimenti abbiano
contribuito la scarsa profondità,
le correnti di marea e i forti venti invernali.
Alcune volute presenti nella
foto potrebbero essere causate
dalla corrente calda che d’inverno entra nel mar Giallo. Questo
tratto della corrente Kuroshio
altera la temperatura della supericie marina favorendo l’instabilità che forse provoca le volute relativamente scure al centro e nella parte inferiore della
foto.
L’interpretazione del colore
marino dalle foto satellitari può
essere diicile, specie in regioni
complesse come questa. Le
prossime missioni come la Pace
(Pre-aerosol, clouds, and ocean
ecosystem) dovrebbero aiutare
gli scienziati a distinguere meglio le particelle e le sostanze
presenti nell’atmosfera e nel
mare.–Kathryn Hansen
Mar Cinese meridionale
Questa foto del mar Giallo è
stata scattata il 24 febbraio
2015 dallo spettroradiometro Modis a bordo del satellite Aqua della Nasa
Nord
100 km
u L’acqua copre il 71 per cento
della supericie della Terra,
chiamata per questo blue marble
(biglia blu) o pianeta azzurro. I
satelliti che studiano il colore
del mare, però, dimostrano che
le cose non sono così semplici.
Le sostanze presenti nell’acqua,
viventi o meno, sono spesso agitate o mescolate e fanno assumere alla supericie toni di celeste, verde, beige, bianco e mar-
rone. Il fenomeno è particolarmente visibile nel mar Giallo.
“La regione oceanica che
comprende il mare di bohai, il
mar Giallo e il mar cinese
orientale è una delle più torbide
u
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
99
Tecnologia
L’interprete automatico
Skype sta studiando un software
per tradurre in tempo reale
conversazioni tra persone che
non parlano la stessa lingua
io padre racconta sempre
una storia su un suo amico,
uno scienziato. Invitato in
Giappone per tenere una
conferenza, lo scienziato aprì il suo intervento con una barzelletta che durò un paio
di minuti. Dopo averla raccontata, aspettò
che il traduttore la riferisse alla platea. Il
traduttore parlò per pochi secondi, e i presenti scoppiarono immediatamente a ridere. Dopo la ine della presentazione, l’amico di mio padre chiese al traduttore come
avesse fatto a sintetizzare la barzelletta
senza far perdere il divertimento. Il traduttore alzò le spalle e rispose: “Ho detto che
l’americano aveva appena raccontato una
barzelletta molto divertente e che il pubblico avrebbe dovuto ridere”.
La storia dello scienziato evidenzia la
natura soggettiva e umana della traduzione. Raramente passare da una lingua all’altra signiica trasporre il signiicato letterale
delle parole. La traduzione è un processo
che richiede la capacità di ordinare informazioni inaspettate e di risolvere dubbi di
continuo, oltre a una certa consapevolezza
sociale. In altre parole è un lavoro fatto su
misura per gli esseri umani, non per i computer.
Con un addestramento adeguato un
computer sarà mai in grado di tradurre come un essere umano? Alla Microsoft centinaia di esseri umani stanno cercando di
spiegare a una macchina come ascoltare,
tradurre e parlare. A dicembre l’azienda ha
annunciato il lancio di Skype Translator,
un programma capace di tradurre una videochiamata tra due persone in diverse
lingue e in tempo reale. Il software, per il
momento disponibile solo su invito, lavora
con l’inglese, lo spagnolo, l’italiano e il cinese mandarino. Anche Google ha un’app
per smartphone (gratis e disponibile per
M
100
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
tutti) in grado di trascrivere frasi parlate,
tradurle e pronunciare il risultato in un’altra lingua. Non è diicile immaginare che
Google possa inserire questa tecnologia
nella sua videochat.
Pochi giorni fa ho avuto la fortuna di
provare il nuovo programma della Microsoft, in coppia con il traduttore Ignacio
Horcada. Ho cominciato la chiamata pensando che sarebbe stata una conversazione
normale, ma poi ho capito di essere alle
prese con un metodo comunicativo completamente diverso: appena ho cominciato
a parlare il software ha aspettato una mia
pausa per trascrivere le mie parole su una
barra laterale, e poi le riportate a Ignacio in
spagnolo con una voce computerizzata. In
questo modo non abbiamo potuto interromperci a vicenda e ho capito che era meglio esprimere le mie idee in poche frasi
invece che in lunghi paragrai.
Inconvenienti trascurabili
Piccoli fastidi si sono accumulati sotto forma di signiicati distorti e parole travisate,
ma alla ine della conversazione ho avuto
la sensazione che Skype Translator sia un
programma molto promettente. Considerando che avevamo parlato in due lingue
diverse ma ci eravamo sostanzialmente
capiti, questi inconvenienti erano trascurabili (dopo tutto anche gli esseri umani
sbagliano). Skype Translator può solo migliorare, perché dipende dall’apprendimento automatico, un processo che valuta
i risultati e si adegua di conseguenza. È lo
stesso meccanismo che ha permesso a
Google Maps e a Google Search di migliorare in base al numero di persone che usano il servizio. Per il momento la Microsoft
si concentra su come adattare questa tecnologia alla vita dei consumatori. Sulla sua
pagina web, nei suoi video promozionali e
in occasione degli eventi dal vivo, l’azienda
ha elogiato i vantaggi della nuova tecnologia per le persone comuni: gli studenti possono parlare con i loro colleghi nelle classi
di tutto il mondo, mentre i viaggiatori possono entrare in contatto con gli abitanti del
OLeG PRIkHODkO (GeTTy IMAGeS)
Joe Pinsker, The Atlantic, Stati Uniti
posto in cui sono diretti prima di partire.
Non è diicile immaginare altre funzioni
quotidiane (sono un giornalista, e uno
strumento come questo aumenta il mio
serbatoio di potenziali notizie), ma c’è la
sensazione che questa nuova tecnologia
possa sfondare presto nel mondo degli affari.
Milioni di test
“Ovviamente quando il nostro amministratore delegato l’ha mostrato sul palco
siamo stati inondati di richieste dei nostri
partner sulle implicazioni commerciali”,
spiega Vikram Dendi, direttore del settore
strategico della Microsoft Research. Dendi
ha contribuito allo sviluppo di Skype
Translator e non esita a evidenziarne i limiti. “Voglio essere sicuro che prima di
passare alla fase successiva ci sia il giusto
livello di maturità e competenza”, spiega.
L’idea di distribuire il programma ai
300 milioni di utenti che usano Skype ogni
mese ha senso non solo perché l’utente
medio di Skype è più tollerante rispetto a
un manager, ma anche perché è un modo
di far conoscere la nuova tecnologia e suggerire un possibile uso commerciale. “Con
il difondersi del programma gli utenti suggeriranno ai loro datori di lavoro di adottare questo sistema anche nelle loro videoconferenze. Sarà una spinta dal basso,
sempre più forte con l’aumento del nume-
ro degli utenti che usano il programma nella loro vita privata”, spiega Nicolas de Benoist, ricercatore di Steelcase, società specializzata nella produzione di mobili da
uicio.
Fattore culturale
Se verrà perfezionato, Skype Translator
sarà utilissimo a un gran numero di multinazionali che dipendono dalle capacità dei
traduttori per concludere transazioni cruciali. Tuttavia il programma potrebbe essere ancora più importante se applicato
alle economie in via di sviluppo, dove le
aziende sono più piccole e non possono
permettersi di assumere traduttori professionisti, e dove l’inglese non si è ancora
affermato come la principale lingua del
commercio.
“Mentre i mercati si espandono in aree
dove l’inglese si parla meno – pensate alle
nuove economie in forte crescita in Africa,
Asia e America Latina – penso che la nuova
tecnologia avrà un efetto profondo”, spiega Dean Foster, fondatore e presidente di
Intercultural Global Solutions, una società
di consulenza che istruisce gli uomini d’affari sulle peculiarità di culture diverse. In
Cina, nel 2006 (ultimo anno per cui sono
disponibili i dati) 400 milioni di persone
su un totale di 1,3 miliardi conosceva l’inglese. Ma di questi 400 milioni metà dichiarava di parlare “raramente” inglese, e
appena il 5-15 per cento afermava di parlarlo regolarmente. Ne deriva che moltissimi cinesi preferiscono di gran lunga parlare nella loro lingua quando fanno afari a
livello internazionale. Per quanto questa
tecnologia possa risultare utile alle piccole
aziende e alle multinazionali, non è ancora
capace di tradurre una componente fondamentale e complessa dell’interazione globale: la cultura. “Anche se la traduzione è
corretta al 90 per cento, non tiene conto
dell’aspetto culturale. Per noi la fluidità
culturale, opposta alla luidità linguistica,
è probabilmente il fattore più importante
per determinare il successo commerciale”,
spiega Foster.
Quello di Foster, laureato in sociologia
e capo di una società di consulenza interculturale, potrebbe sembrare un punto di
vista parziale, ma sottolineare l’importanza della comprensione tra culture diverse
non è certo un dato marginale. Ignorare
alcuni elementi culturali può generare perdite economiche: in Brasile, per esempio,
unire i polpastrelli di pollice e indice è considerato un gesto blasfemo, mentre negli
Stati Uniti è il tipico segnale per dire ok.
“Ho sentito storie di imprenditori americani che sono andati in Brasile dopo aver
negoziato un accordo per mesi, e una volta
irmato il contratto hanno fatto il tipico segno di ok, senza sapere di aver appena insultato l’amministratore delegato della
azienda brasiliana, in pubblico e davanti
alle telecamere”, spiega Foster.
La traduzione in tempo reale può essere compromessa dalle piccole diferenze
culturali anche perché può dare l’illusione
della comprensione. “È facile accettare
che qualcuno non parli la nostra lingua e
non sia in grado di comunicare, mentre è
diicile accettare che l’incomunicabilità
sia dovuta alla mancanza di conoscenze
culturali”, aggiunge Foster. Per esempio
americani e britannici si aspettano di capirsi al volo nelle trattative commerciali,
ma spesso esprimono culture manageriali
molto diverse.
Raramente passare
da una lingua all’altra
signiica trasporre il
signiicato letterale
delle parole
Inoltre, in un mondo in cui le traduzioni
sono corrette, perderemmo la possibilità
di imparare la lingua madre del nostro
cliente e di fare bella igura.
Yui Kong Heung, traduttore a Hong
Kong per un’importante azienda giapponese di elettronica, ha scoperto che era
molto più facile entrare nelle grazie dei
suoi capi quando si accorgevano che parlava bene la loro lingua madre. “I giapponesi
sono molto aperti e rilassati quando sanno
che parli la loro lingua”, spiega.
Sensazione di distanza
Nei prossimi anni Skype Translator migliorerà certamente, ma intanto sorgono grandi interrogativi anche a proposito del suo
mezzo di difusione, la videochat.
Chris Congdon, collega di Nicolas de
Benoist alla Steelcase, mi ha confessato
che nonostante l’idea della videoconferenza sia molto in voga nel mondo degli afari,
il suo uso è più limitato di quanto si possa
pensare.
“Quando si parla di queste tecnologie
mi chiedo se diventeranno mai talmente
trasparenti da cancellare quella sensazione di distanza che creano tra due persone
che stanno cercando di costruire un rapporto”, spiega. Secondo de Benoist esistono altri ostacoli all’adozione della videochat. L’intesa tra le persone, per esempio,
nasce condividendo lo stesso spazio, dalla
stanza in cui si lavora all’ambiente esterno.
Questo elemento è molto diicile da replicare con la videoconferenza. Inoltre non è
detto che tutte le informazioni importanti
vengano scambiate durante le riunioni.
“Le persone condividono i contenuti a livello informale dopo aver chiuso una riunione, quando i più timidi dicono cose come ‘avrei voluto dire questo, ma non me la
sentivo perché mi sembrava tutto troppo
formale per me’”, spiega.
Le traduzioni in tempo reale in videochat potrebbero sembrare un’idea lontana
tanto quanto le bizzarre tesi futuristiche
sul futuro delle riunioni di lavoro (Congdon ha parlato di telecamere che registrano il linguaggio corporale delle persone e
Dendi ha menzionato una possibile integrazione futura con le HoloLens, gli occhiali a percezione aumentata della Microsoft). Per ora la traduzione in tempo reale è
una possibilità che appare molto lontana,
ma è anche vero che in passato avevamo
detto la stessa cosa di Slack, delle email e
del telefono. u as
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
101
Economia e lavoro
WoLFGAnG KUMM (PICtUrE-ALLIAnCE/DPA/AP/AnSA)
Berlino, Germania. La sede del Reichstag, il parlamento tedesco
ge, in sostanza, autorizza a coinvolgere di
più i creditori per evitare che siano solo i
contribuenti a sostenere il costo dei salvataggi. La banca centrale tedesca ritiene che
i creditori potrebbero perdere ino al 50 per
cento dei loro soldi. Sarebbero colpite duramente le banche e le assicurazioni tedesche, che hanno prestato alla Hypo sette
miliardi di euro. Il governo tedesco ha già
dovuto salvare la Düsseldorfer Hypothekenbank. Agli altri istituti non resta che
ammortizzare le perdite e procedere per vie
legali contro quella che considerano
un’espropriazione.
Amici intimi
I creditori tedeschi
infuriati con Vienna
C. Geinitz, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Germania
Il governo austriaco ha deciso di
non pagare i debiti della Hypo
Alpe Adria, banca nazionalizzata
nel 2009. I più colpiti sono gli
investitori tedeschi, che ora
minacciano azioni legali
politici e i banchieri tedeschi stanno
criticando duramente l’Austria a causa della crisi legata alla banca Hypo
Alpe Adria. Il ministro delle inanze
della Baviera, Markus Söder, ha detto che
l’Austria potrebbe “essere il prossimo grande problema dopo la Grecia”. Michael Kemmer, direttore dell’associazione delle banche tedesche, ha dichiarato che gli austriaci
hanno “oferto garanzie statali in modo avventato”, un po’ come ha fatto l’Argentina.
Per trovare le origini di queste critiche bisogna andare a Klagenfurt, la capitale del land
austriaco della Carinzia. Quando nella città
governava ancora la Fpö guidata da Jörg
Haider, la banca carinziana Hypo Alpe
Adria si trasformò in una banca attiva in tutta l’Europa sudorientale. Questo sviluppo
attirò l’interesse della tedesca BayernLb,
che nel 2007 comprò l’istituto. Ma in segui-
I
102
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
to la Hypo fallì, proprio a causa delle attività
nei Balcani, e nel 2009 il governo di Vienna
rilevò l’istituto dalla BayernLb e dagli altri
proprietari al prezzo simbolico di quattro
euro.
Da allora si litiga per un bel po’ di soldi. I
bavaresi hanno fatto causa a Vienna per ottenere la restituzione di un vecchio prestito
di 2,3 miliardi di euro concesso alla Hypo.
Gli austriaci pretendono invece un risarcimento di 3,5 miliardi di euro, perché i bavaresi hanno tenuto nascosti i rischi al momento della nazionalizzazione. La situazione è stata complicata da una legge, approvata nell’estate del 2014, che prevede la
cancellazione parziale dei debiti della
Hypo. La situazione è peggiorata ancora di
più quando nella Heta, la bad bank in cui
sono conluiti i titoli spazzatura della Hypo,
si è aperta una nuova voragine miliardaria:
all’inizio di marzo l’ente di vigilanza inanziaria e il governo austriaci hanno deciso di
non attingere ulteriormente alle casse dello
stato e di sospendere il pagamento degli interessi e la restituzione dei debiti della Heta. Da allora i creditori aspettano il loro denaro. Questa moratoria sui debiti è in linea
con un’altra legge approvata per recepire
una direttiva dell’Unione europea. La leg-
Anche il ministro tedesco delle finanze,
Wolfgang Schäuble, è convinto che la questione sarà portata nei tribunali e che il governo di Berlino potrebbe essere parte in
causa, visto che detiene delle quote in alcune banche creditrici. Schäuble, comunque,
è amico intimo del ministro austriaco delle
inanze, Hans Jörg Schelling. I due vanno
molto d’accordo, come si può dedurre dalla
posizione unitaria nei confronti della Grecia. Per quanto riguarda la Hypo, evitano di
parlare dei problemi per non doverli afrontare. Se Vienna smetterà di rimborsare perfino le obbligazioni prioritarie garantite
dalla Carinzia, solo i creditori riceveranno
un duro colpo. Schäuble dice che il problema dovrà essere risolto nei tribunali e quindi, qualunque sia il verdetto, l’Unione europea non ne sarà travolta.
Gli investitori tedeschi potrebbero aver
efettuato queste speculazioni fallimentari
per un’analogia sbagliata: dal momento che
Germania e Austria sono accomunate da
molte cose, i tedeschi sono convinti che nel
paese vicino ci siano leggi simili alle loro. In
realtà non è così. La Carinzia ha fornito garanzie su alcuni debiti per un volume dodici
volte superiore al suo bilancio: non poteva
inire bene. Se i tedeschi hanno deciso comunque di aidare il loro denaro alla Hypo
è stato perché si aspettavano che Vienna
intervenisse, perché così succede nel loro
paese. In Austria, però, questo non è scontato, tanto che, con orrore dei creditori,
Schelling ha potuto afermare: “Il governo
centrale non garantirà per la Carinzia”. È
possibile che alla ine il conto sia ripartito
tra creditori e contribuenti. Ma da questa
situazione si può già trarre un insegnamento: le banche e le garanzie statali non sono
di per sé immuni alle crisi, e gli investitori
dovrebbero tenerlo bene a mente. u fp
Unione europea
STATI UNITI
Un arresto
per il lash crash
Il 18 aprile migliaia di persone hanno manifestato in tutta Europa
contro il transatlantic trade and investment partnership (ttip), l’accordo di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti. Le
proteste, scrive Die Tageszeitung, riguardano la clausola con cui
le aziende possono denunciare i governi che danneggiano i loro investimenti. Il 20 aprile sono ripresi a New York i negoziati per il ttip.
Aziende
Il potere della famiglia
Due fondi pensione canadesi e
altri grandi investitori istituzionali hanno denunciato il governo norvegese. Come spiega il
Wall Street Journal, l’azione
giudiziaria è legata al provvedimento con cui Oslo ha ridotto le
tarife imposte dai gasdotti per il
trasporto del gas. I fondi sostengono che questa misura “ridurrà
le entrate dell’azienda che gestisce gli impianti, dimezzando il
rendimento atteso dai loro investimenti”. I fondi non hanno
speciicato l’ammontare del risarcimento richiesto, ma sostengono che la misura del governo potrebbe provocare “perdite miliardarie”. Il caso sarà
esaminato dal tribunale di Oslo
a partire dal 27 aprile.
“Sia in politica sia in economia il
potere è ancora concentrato nelle
famiglie”, scrive l’Economist. “più
del 90 per cento delle aziende di tutto
il mondo è gestito o controllato da
una famiglia. anche grandi
multinazionali, come la News
Corporation di rupert Murdoch o la
Volkswagen, dove in questi giorni è in
corso un duro scontro tra i familiari che controllano il
gruppo. Secondo il Boston Consulting Group le famiglie
possiedono il 33 per cento delle aziende statunitensi e il 40
per cento di quelle francesi e tedesche con un fatturato
annuale superiore al miliardo di dollari. Nelle economie
emergenti il peso delle famiglie è ancora maggiore”.
Questa situazione forse coglie di sorpresa molti
economisti, convinti che la quotazione in borsa dei grandi
gruppi avrebbe dissolto il potere delle famiglie dividendo
il capitale tra molti investitori. “In realtà non è mai
successo, in parte perché i vantaggi della parentela si sono
dimostrati duraturi. Le aziende di famiglia spesso sono più
lessibili e capaci di fare programmi a lungo termine”. ◆
YOrGOS KarahaLIS (ap/aNSa)
Governo
sotto accusa
Il governo greco ha disposto che
i ministeri e gli enti locali trasferiscano parte dei loro fondi alla
banca centrale greca, scrive Express. “Sono esclusi i fondi necessari a coprire gli impegni a
breve termine”. Il provvedimento, che è retroattivo a partire dal
17 marzo, ha provocato dure
proteste nel paese. I fondi saranno usati per pagare stipendi e
pensioni in attesa che il governo
riceva nuovi aiuti da Bruxelles.
“I creditori”, sostiene la Süddeutsche Zeitung, “sono disposti ad aspettare ino al 30
giugno – quando scadrà il piano
di salvataggio concesso nel 2012
– perché atene presenti le riforme chieste in cambio degli aiuti.
per quella data la Grecia riceverà i restanti 7,2 miliardi di euro
del pacchetto”.
In migliaia contro il Ttip
The Economist, Regno Unito
NORVEGIA
Trasferimenti
forzati
Manifestazione contro il Ttip a Monaco, Germania
MIChaEL DaLDEr (rEUtErS/CONtraStO)
Dopo cinque anni di indagini e
le rivelazioni di un informatore,
le autorità statunitensi sono certe di aver individuato il responsabile del lash crash, il crollo di
Wall street causato da un ordine
di vendita partito da un computer che il 6 maggio 2010 provocò
perdite pesanti nel giro di pochi
minuti. Gli inquirenti statunitensi, scrive il New York Times, hanno spiccato un ordine
di cattura contro Navinder
Singh Sarao, che è stato arrestato il 21 aprile a Londra. Il 6 maggio 2010 “Sarao avrebbe fatto ripetuti ordini di vendita, rendendo il mercato vulnerabile a
un’operazione partita dagli Stati
Uniti. Quel giorno l’indice Dow
Jones industrial average, che
rappresenta le trenta principali
aziende quotate statunitensi,
perse 600 punti in pochi minuti”. Secondo gli inquirenti, con
questo tipo di operazioni Sarao
“ha guadagnato quaranta milioni di dollari in quattro anni”.
GRECIA
IN BREVE
Mercati Il 22 aprile Margrethe
Vestager, la commissaria europea alla concorrenza interna, ha
dichiarato che aprirà un’inchiesta per abuso di posizione dominante contro le esportazioni di
gas della Gazprom, l’azienda
energetica di proprietà del governo russo. Bruxelles accusa la
Gazprom di imporre prezzi eccessivi in cinque paesi dell’Europa orientale e di impedire a
otto stati dell’Europa centrale e
orientale di rivendere il gas ad
altri paesi. La Gazprom, che rischia una multa di dieci miliardi
di euro, ha dodici settimane per
rispondere alle accuse.
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103
Mediocri
Tuono Pettinato, Italia
Strisce
Dopo molti anni:
Guarda
ragazzo mio!
Fingerpori
Pertti Jarla, Finlandia
Complimenti,
lei ha
ereditato
la pipa di
suo padre
Buni
Ryan Pagelow, Stati Uniti
Sephko
Gojko Franulic, Cile
Un giorno
tutto questo sarà tuo
104
Internazionale 1099 | 24 aprile 2015
L’oroscopo
Rob Brezsny
TORO
Di solito non ho niente contro la tua intensa preoccupazione (non voglio chiamarla “ossessione”) per la
tranquillità e la sicurezza. Ma nella vita di tutti i Tori ci
sono alcuni rari periodi in cui la stabilità assoluta diventa uno
svantaggio. Il vostro procedere senza intoppi rischia di trasformarsi in una vuota routine. Ora siamo in una di queste fasi e ti
conviene arrenderti all’imprevedibilità. È più probabile che sia
l’incertezza a insegnarti qualcosa e che a darti gioia sia il desiderio di abbracciare l’ignoto.
Quando non sappiamo cosa
regalare per un’occasione
speciale, a volte ricorriamo a un
buono regalo da usare in una catena di negozi. Il problema è che
molte persone si dimenticano di
spendere i loro buoni. Li mettono
in un cassetto e non si ricordano
più della loro esistenza. Secondo
gli esperti di economia, negli Stati
Uniti ci sono miliardi di dollari di
buoni regalo non utilizzati. Questa è la tua metafora del momento, Ariete. C’è qualche risorsa che
non stai usando? Qualche vantaggio che non stai sfruttando? Qualche bene prezioso che stai ignorando? Se è così, vedi di sistemare
la faccenda.
GEMELLI
ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI
Un evento simile a un’inondazione spazzerà via tutto
quello che non ti serve più o ci sarà una sorta di terremoto che solo
tu sentirai e che demolirà un ostacolo ormai consumato dal tempo.
Oppure un fortunato incidente ti
farà deragliare dalla strada sbagliata (anche se pensavi che fosse
quella giusta). Tutto sommato,
credo che sarà un’ottima settimana per le forze beneiche che sfuggono al tuo controllo. Quanto sarai capace di arrenderti a loro?
CANCRO
Qual è la tua scusa più grossa? O meglio: qual è la tua
scusa più stupida, perversa e debilitante? Tutti ne abbiamo una: la
bugia che ci raccontiamo per giustiicare la nostra incapacità di essere all’altezza delle nostre potenzialità, il presunto ostacolo che
consideriamo così profondo da
non permetterci di rompere l’in-
cantesimo che esercita su di noi.
Forse è un ricordo traumatico.
Forse è un difetto isico o una paura cronica. In conformità con i
presagi astrali, ti consiglio di rivedere la tua scusa più misera. Credo che ora tu sia in grado più che
in passato di esaminarla e che tu
abbia più potere del solito di
smantellarla almeno in parte.
Forse puoi fuggire verso spazi
aperti che scateneranno il potere
nascosto della tua fantasia.
BILANCIA
“Per me non c’è atto di coraggio più grande che baciare per primi”, dice l’attrice della Bilancia Janeane Garofalo. Mi
verrebbero in mente anche altri
modi per misurare il coraggio, ma
per il tuo immediato futuro la sua
deinizione andrà benissimo. La
tua prova suprema sarà dimostrarti capace di donare liberamente tenerezza, empatia e compassione, senza condizioni preliminari né aspettative di nessun
genere. Per la tua stessa integrità
e salute mentale, mostrati sempre
decisa a sferrare il primo colpo per
la pace, l’amore e la comprensione.
seducente pianta velenosa.
CAPRICORNO
Oggi il pittore francese
del Capricorno Henri Matisse è ritenuto uno dei pionieri
dell’arte moderna. Ma nella prima metà del novecento le sue
opere suscitarono molte discussioni. Quando alcuni suoi quadri
furono esposti in una grande mostra a Chicago, gli studenti di arte della città rimasero sconvolti.
Inscenarono un into processo in
cui accusavano Matisse di crimini artistici, lo condannarono e
bruciarono una riproduzione del
suo quadro Nudo blu. Non prevedo che nelle prossime settimane
provocherai azioni così estreme,
Capricorno, ma di sicuro la vigorosa creatività e originalità con
cui ti esprimerai riuscirà a suscitare reazioni altrettanto forti.
SCORPIONE
LEONE
Se tu fossi un personaggio
secondario di una popolare
serie tv, i produttori creerebbero
un nuovo show dove sei il protagonista. Se facessi parte di un
gruppo rock , saresti pronto a suonare non più davanti a trecento
persone, ma davanti a duemila. Se
sei sempre stato un romantico
egocentrico nella media, come
tutti noi, forse nella tua mente stai
per diventare una leggenda. In
questo caso sarebbe ora di cominciare a vendere magliette e tazze
con la tua immagine stampata sopra. Ma anche se non sei niente di
tutto questo, Leone, credo che tu
sia pronto per passare al livello
successivo.
Presto sarai a metà strada
tra il tuo compleanno passato e il prossimo. Ti invito a farne
un’occasione speciale. Potresti
chiamarlo il tuo anticompleanno
o noncompleanno. Come festeggiarlo? Ecco qualche idea: 1) immagina come saresti se fossi l’opposto di te stesso; 2) fai un elenco
di tutte le qualità che non possiedi, delle cose di cui non hai bisogno e di quello che non vuoi fare
nella vita; 3) cerca di vedere il
mondo attraverso gli occhi delle
persone diverse da te; 4) accogli
con gioia quelle parti ombrose,
immature e marginali della tua
psiche che inora non sei riuscito
ad accettare.
SAGITTARIO
VERGINE
Finalmente libera! Finalmente libera! Grazie al signore dell’universo o al mostro
degli spaghetti volanti o a un inaspettato sprazzo di fortuna, sei inalmente libera. Libera dal peso
che ti faceva dire cose che non
pensavi. Libera dalla tentazione
di aittare o addirittura vendere la
tua anima. Ma soprattutto, libera
da quella vocina maligna che avevi nella testa, quella perfezionista
superstiziosa che ti sussurrava
strambi consigli basati sulle tue
paure e illusioni. E ora cosa farai?
Durante la mia solita passeggiata, mentre mi avvio
sulla prima collina, percorro un
sentiero coperto su entrambi i lati
da una pianta dalle lucide foglie
trilobate. Sono così belle e rigogliose che mi viene voglia di stroinare la faccia nel loro verde
splendore. Ma mi trattengo perché so che sono foglie di tossicodendro e se le toccassi mi verrebbe un’eruzione cutanea che durerebbe per giorni. Invito anche te,
nel tuo mondo, a evitare il contatto con qualsiasi inluenza metaforicamente equivalente a questa
ACQUARIO
Leonardo da Vinci era un
maestro in molti campi,
ma è famoso soprattutto come
pittore. Eppure in 67 anni di vita
dipinse meno di 40 quadri. Lavorava molto lentamente. Per completare la Gioconda impiegò 14
anni. È un metodo che dovresti
sperimentare nelle prossime settimane, Acquario. Prova a diminuire la tua velocità e la tua intensità. Conosci il movimento
Slow food? Hai letto Elogio della
lentezza di Carl Honoré?
PESCI
I ilm di oggi non si risparmiano nell’uso della parolaccia fuck. In The wolf of Wall
street gli attori la pronunciano
569 volte, 326 in End of watch tolleranza zero. Ma quest’espressione non è sempre stata usata
con tanta facilità. Nessun attore
l’aveva mai pronunciata sullo
schermo prima del 1967, quando
Marianne Faithfull la usò nel ilm
Il complesso del sesso. Nelle prossime settimane ti invito a infrangere un tabù: forse l’impresa non
sarà monumentale come quella
di Marianne Faithfull, ma violarlo sarà comunque divertente e ti
darà una carica di energia. Comportati da rivoluzionario. Libera
la vitalità bloccata.
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internazionale.it/oroscopo
ARIETE
COMPITI PER TUTTI
Cerca di scoprire quello che stai nascondendo
a te stesso, ma fallo con gentilezza.
alex, la lIberté, svIZZera
L’ultima
Il presidente turco e il genocidio degli armeni.
“sono senza parole”.
CleMeNt, NatIoNal Post, CaNada
el roto, el País, sPagNa
ZyglIs, buffalo News, statI uNItI
“e lasciate tutto questo?”.
toro
Una vignetta di Adam Zyglis, del Bufalo News, vincitore del premio
Pulitzer nella categoria editorial cartooning.
“Non vedo l’ora che tu mi chieda perché sono vegana”.
Le regole Farmacia
1 È una farmacista non una psicoterapeuta: attieniti ai sintomi senza tediarla con i tuoi stati d’animo.
2 Hai comprato tre pacchetti di Zigulì per camufare l’acquisto di proilattici. Cos’è, hai tredici anni?
3 Non chiedere campioncini gratuiti: non sei in profumeria. 4 Piangere e urlare non convincerà un
farmacista a darti un farmaco senza ricetta. 5 Ma lirtare con lui sì. [email protected]
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