La resistenza I fascisti sono abbandonati al loro destino
Transcript
La resistenza I fascisti sono abbandonati al loro destino
La resistenza I fascisti sono abbandonati al loro destino La calma era solo apparente, la decisione di resistere all’occupazione tedesca con le armi era già stata presa. Le forze antifasciste, nonostante l’incalzare degli eventi si andavano organizzando. Già il 9 settembre, mentre nei pressi di Roma si combatteva, il comitato delle correnti antifasciste, sull’esempio francese, si era trasformato in Comitato di liberazione nazionale “per chiamare gli italiani alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”. L’11 settembre anche a Milano il Fronte nazionale di azione si trasformò in CLN ed entrò nella clandestinità. Progressivamente, con l’adesione dei vari comitati antifascisti locali, la rete dei CLN si estese a tutta l’Italia occupata dai nazisti. Io rimasi lì [in carcere] fino l’8 settembre, 7, mi sembra (...) Fui scarcerato, però io avevo la residenza a Torino (...) ma la polizia italiana... la questura di Torino disse “Tu hai la residenza a Torino (...) però ti mandiamo al tuo paese natale”. E mi spedirono a Cesena. Forse non sarei nemmeno venuto a Cesena perché avevo due fratelli e una sorella a Torino, avevo il mio ambiente lì. (...) venni qui a casa di una mia sorella, qui a San Vittore... a Tipano. Quando fui qui, cosa trovammo qui? Niente. Cioè, vi era stato l’8 settembre, il popolo di Cesena aveva dato l’assalto alle caserme, vi era i soldati che scappavano, andavano via e la gente che andava nelle caserme. (...) Ora il nostro compito era quello di riorganizzare le file. Allora... era, il problema, quello di trovare il contatto coi compagni. Noi avevamo, in Spagna, Tabarri che è uno qui di Borgo Paglia, che era stato in Spagna. Poi avevamo Buda [Agostino], che è uno di Gambettola, che aveva una sorella a Torre del Moro, che era un emigrato francese. Era stato in Francia per parecchio tempo. Ho preso contatto con lui. Ecco, cercai di trovare questi contatti. (...) e incominciai a lavorare. E il mio lavoro fu quello di organizzare il partito [comunista], quindi la resistenza (...) il lavoro era politico e organizzativo. Vi era l’aspetto politico, che io ero comunista [e] vi era l’aspetto militare. (...) Contatto, presi, per esempio, con Montanari Oddino, che era stato in Spagna con me (...) lui era già qui a Cesena, era venuto dal confino. Caselli Luciano, che lavorava all’Arrigoni, anche lui era stato in Spagna. C’eravamo conosciuti in Spagna (...) Poi c’era Ricci [Fabio]. Anche lui che era stato in Spagna, che l’avevo conosciuto. Questi compagni... poi organizzammo... organizzammo il contatto con tutti quelli che potevamo prendere... e fra i quali: Lucchi Leopoldo (...) Ricci Fabio, Buda Agostino (Torre del Moro), Tabarri Ilario. Poi avevamo il contatto... io avevo il contatto con Ricchi Werther, per il lavoro in direzione del gruppo dell’Arrigoni. Che c’era un gruppo forte. Il nostro intento era quello di organizzare nei posti di lavoro e nelle frazioni, i gruppi del partito, ma i gruppi anche della resistenza. Benini Adriano che lavorava al consorzio. Bucci Quinto all’Arrigoni. Amaducci Giovanni (Gianni). Campana Alvaro, contadino della Calabrina, lo conoscevo perché è mio cugino. Campana Pio, che è morto nel rastrellamento di aprile, un vecchio antifascista. Casadei Ezio del gruppo di Settecrociari, anche lui morto in brigata. Barbieri Ernesto (...) di San Giorgio. Questo è il gruppo di compagni che io presi il contatto. Che avevo il compito di lavorare nell’interno delle aziende per organizzare l’antifascismo. Pero io... il mio lavoro... mi allargai in questo senso, perché c’era da organizzare il partito e c’era da organizzare la lotta contro i tedeschi. Perché siamo già avanti, c’è già l’occupazione tedesca. Alla fine di ottobre c’è già l’occupazione tedesca (...) però noi avevamo bisogno di trovare dove mandare tutto il materiale che ci... le armi requisite nelle caserme. Vedi, per esempio, il deposito che vi era a Borello. Avevan fatto un centro a Piavola avevan fatto... Le vie per mandare compagni già conosciuti che non potevano più vivere qui perché braccati dalla polizia. I repubblichini, la banda di Garaffon[i], conosceva i vecchi compagni che già... con le schede... che eran stati al confino o in prigione... (...) anche e soprattutto i giovani che eran stati richiamati dalla repubblichina [la RSI], che gran parte vennero in montagna e non nella repubblichina. Bisognava aiutare a organizzare. Cioè bisognava organizzare la lotta armata. (Berto Alberti - 1984) Localmente, il 13 settembre, si tenne la prima riunione del Coordinamento politico interprovinciale (Forlì e Ravenna) del fronte nazionale, per discutere su come affrontare il problema della lotta armata (la direzione provinciale del PCI di Ravenna, in un incontro che si era tenuto a Milano Marittima l’11 settembre, aveva già deciso di dar vita ad una formazione autonoma armata). Il Coordinamento politico (o Comitato politico) del fronte nazionale dette vita a un comitato militare; formato dal tenente colonnello Giovanni Di Lorenzo (monarchico, inviato, sembra, appositamente da Roma per guidare la resistenza), dal maggiore Giusto Tolloy e da un capitano, di cui non si conosce il nome; che vennero incaricati di ispezionare la montagna a sud della valle del Rabbi, per individuare una località dove concentrare gli uomini disponibili. A fine settembre il Comitato militare diede disposizioni perché fosse individuata un’altra zona, sulle montagne sovrastanti il cesenate, ove creare una base partigiana. Il Comitato cesenate del fronte nazionale incaricò quindi Ilario Tabarri, che dopo un’ispezione durata sino alla metà di ottobre, scelse la zona di Pieve di Rivoschio. Il problema militare viene affrontato dai dirigenti la Federazione [forlivese del partito comunista] in maniera che denota il loro interessamento ma con principi per me fondamentalmente sbagliati. Credo che si possa spiegare ciò con l’inesperienza dei dirigenti stessi sulla lotta armata del popolo. Si perdono in discussioni interminabili in seno al F[ronte] N[azionale] perdendovi tutto settembre e una buona metà di ottobre per arrivare o per volere una soluzione come quella che segue: una commissione (che doveva essere l’Esecutivo militare del F[ronte] N[azionale]) composta da colonnelli, credo anche generali, maggiori e capitani (ce ne doveva essere uno che si diceva compagno mentre non era che un imbroglione) doveva partire, studiare una zona dell’Appennino (la foresta di Campigna) tale da garantire la difesa; installarvi magazzini ecc., ed incominciare a suo tempo l’invio di uomini o il radunarvi di masse di soldati che ancora, si diceva, fossero sparsi sui monti. Il piano era magnifico. L’esercito regolare avrebbe continuato a fiorire all’ombra della Campigna. Di tutto ciò io venni a conoscenza verso gli ultimi giorni di settembre. (...) alla fine dello stesso mese [settembre] quando per iniziativa mia e di un certo Battaglia [Berto Alberti] (...) riusciamo anche a indire per quella fine del mese una riunione con la partecipazione di un rappresentante del Comitato federale [del partito comunista]; per chiarire e risolvere fra le altre questioni (militari principalmente) le relazioni tra Comitato federale e Comitato locale. (...) Riguardo alla questione militare, dopo aver fatto un rimprovero meritato per non aver realizzato null’altro che quel po’ di raccolta d’armi (...) e dopo averci messo al corrente, per la prima volta, di quello che Forlì concludeva (raccolte di vettovaglie, equipaggiamenti, fondi, ecc.) o, tra l’altro, l’imminente responso dell’Esecutivo militare del F[ronte] N[azionale] - la Commissione sopraccennata - diede quale disposizione che anche a Cesena si formasse una zona dove inviare, per il momento, armi e vettovaglie, in attesa di ordini che avremmo ricevuti. A proposito dell’esecutivo militare del F[ronte] N[azionale] feci subito rimarcare che non era prudente nutrire troppe illusioni su quello stuolo di alti ufficiali e che d’altra parte non si poteva pensare, per le nostre montagne e le nostre forze, di occupare in maniera stabile una zona (era la fine di settembre; la Campigna è una foresta senza una casa e assolutamente senza risorse alimentari per conseguenza, mentre la neve vi è alta dalla metà di ottobre alla fine di aprile, vicinissima a strade di importanza vitale per i tedeschi e altre che l’attraversano, di minore importanza, ma grandemente camionabili), fosse anche la Campigna, perché non potevamo pensare di avere un esercito quale gli ufficiali speravano; bensì la guerriglia dovevamo organizzare, cioè una guerra nella quale gli ufficiali borghesi, e tanto meno quanto più alti essi sono, non capiscono nulla e non possono perciò farla di conseguenza. Era meglio puntare su dei buoni compagni, operai ma di salda fede e pronti ai sacrifici, e mettere questi a capo di gruppi mobili e di battaglioni. L’esperienza della Cina, di Spagna e di tutti gli altri paesi europei era là per qualche cosa. Non esclusi a priori che qualche ufficiale potesse diventare guerrigliero, ma mi opposi recisamente a che il criterio che formava quell’Esecutivo militare fosse realizzabile per la nostra regione e mettevo in guardia contro questo voler un esercito regolare. (...) e’ vero che si parlava di soldati a migliaia con carri armati, artiglieria, ecc., ma se ne parlava solamente. Mi fu ribadito che esistevano larghe possibilità, che si farebbero baracche e ci manderebbero rifornimenti (da tener conto che in meno di quindici giorni poteva cadere un metro e più di neve), che erano ufficiali dei partiti del F[ronte] N[azionale] fra i quali un capitano dei nostri, pratici di guerra e di guerriglia (il nostro capitano diceva di essere stato al Quartier generale di Tito) e che perciò si poteva aver fiducia in loro o almeno lasciar loro il tempo materiale per pronunciarsi. Risposi che a mio avviso dovevamo incominciare subito ad organizzare la guerriglia secondo i nostri metodi senza per questo rompere con il F[ronte] N[azionale] ed i suoi ufficiali, e se questi non fossero arrivati ad una soddisfacente soluzione non vi era nulla di più facile che mettere i nostri gruppi a disposizione dell’Esecutivo del F[ronte] N[azionale]. Comunque il mio punto di vista non prevalse e mentre gli ufficiali svolgevano le loro ispezioni e davano la loro risposta io fui delegato dal Comitato [del Fronte nazionale] di Cesena per andare in montagna alla ricerca di una zona, tra quella di Forlì e quella che doveva essere di Rimini, per mettere in pratica le istruzioni ricevute dalla Federazione [del partito comunista] e rifarci del tempo perso (era la fine di settembre). (Dal Rapporto generale sull’attività militare in Romagna fino al 15 maggio 1944 di Ilario Tabarri (Pietro Mauri) In: L’8.a brigata Garibaldi nella resistenza / Istituto storico provinciale della resistenza Forlì. – Milano : La Pietra, 1981) A Pieve di Rivoschio ha inizio l’organizzazione di un gruppo affidatomi dai compagni di Cesena in collaborazione più tardi di quelli di Forlì. Quivi si cercò di collaborare con altri partiti come quello repubblicano. Sinceramente io e il compagno Pietro [Ilario Tabarri] ci mettemmo all’opera per realizzare la collaborazione, e a tale scopo andammo alle ricerche del tanto nominato Gruppo di Macrelli [Cino] che in realtà morì prima di nascere, della quale morte i suoi capi (Macrelli e simili) non si preoccuparono di fargli le onoranze funebre. Invano noi ci portammo molto lontano per rintracciare il gruppo inesistente con il suo capo che nel frattempo si era ben nascosto. E da questo momento ci buttammo con tutte le nostre forze alla costituzione di questo gruppo che malgrado le grande difficoltà riuscimmo a organizzarlo e sempre rinforzarlo soggetti a tutte le alternative che si possono avere all’inizio. (Dalla Relazione di Salvatore Auria - ISRFC Archivio 8a. brig. Garibaldi, 3 1A/1522) E c’era questo comitato unitario no? In embrione, che poi diventerà il comitato di liberazione nazionale. Allora ancora non lo era. Quindi nel partito [comunista] invece si stava intanto facendo questo lavoro di formazione di gruppi armati per (...) la resistenza e la liberazione del paese. Nel settembre si fece questo lavoro di organizzazione della struttura che chiamiamola militare. Nel novembre ci fu la decisione di fare le prime basi della resistenza partigiana in montagna. Io il 2 di novembre con altri due compagni, uno di coso... uno di Forlimpopoli (...) e un compagno di Ronta fummo inviati nella zona di Pieve di Rivoschio per istituire lì la prima base di resistenza. La prima base partigiana. Perché a Pieve di Rivoschio? Perché a Pieve di Rivoschio avevamo avuto notizie che si trova... c’erano già... che ci si trovano un gruppo di ex prigionieri di guerra che durante l’8 settembre erano scappati dal campo di concentramento di Arezzo. Si trattava di jugoslavi, cecoslovacchi, polacchi, sovietici... stranieri in maniera particolare che scappati nel campo di concentramento di Arezzo, avevano vissuto e vivevano nelle zone della collina, dell’Appennino no? E vivevano con l’appoggio della popolazione e si erano concentrati nella zona di Pieve di Rivoschio. (...) e inoltre (...) era una zona che tra la popolazione sapevamo c’erano degli elementi antifascisti sui quali... su cui si poteva contare (...) Questo fu fatto per tutto il mese di novembre diciamo e per tutto... i primi dieci giorni di dicembre. Perché l’11-12 dicembre, a seguito di una spiata (...) ci fu la prima... il primo rastrellamento (...) quel po’ di resistenza per la verità che fu fatto fu fatto dagli jugoslavi che erano quasi tutti ex partigiani, cioè partigiani che avevano combattuto in Jugoslavia e erano stati trasportati in Italia (...) riuscimmo a salvare le armi. (Leopoldo Lucchi 1984) Mentre si discuteva sulla natura e sugli obiettivi da dare alle formazioni armate partigiane che si andavano costituendo nelle due basi di Cusercoli e di Pieve di Rivoschio, il tentativo di trasformare il Fronte nazionale in Comitato di liberazione nazionale entrò in crisi. L’unione dei lavoratori, in una riunione tenutasi nello studio dell’avvocato Alberto Comandini, il 18 ottobre, comunicò la propria volontà di abbandonare la lotta armata, non potendosi riconoscere in una lotta condotta a fianco degli eserciti alleati, sostenitori della monarchia. Una posizione che porterà, prima, alla scissione della componente repubblicana dell’ULI, favorevole all’intervento armato e poi, il 16 gennaio 1944, al suo scioglimento. A Cesena il CLN cessò di esistere anche come lavoro dopo il 12 settembre. (...) Di Forlì si sapeva che (...) tiravano avanti il sempre più defunto esecutivo militare del F[ronte] N[azionale] perdendosi in molte chiacchiere e credendo fosse una vittoria (per diversi compagni dello stesso Federale [del partito comunista]) il solo fatto di averlo mantenuto in vita anche quando bisognava dargli una spinta perché morisse prima. (...) Contatti si potevano ugualmente mantenere pur organizzando gruppi di nostra iniziativa; era anzi un lavoro da farsi per trascinare quei riluttanti dimostrando ciò che era fattibile anche senza la loro partecipazione. Quindi il mio augurio di morte va solamente all’Esecutivo militare del F[ronte N[azionale] dal quale si dovevano aspettare ordini; e non inviando tali ordini io vi vedevo solo un impedimento ed una perdita di tempo prezioso: Infatti tale esecutivo morì, nonostante tutte le iniezioni prolungatrici dei nostri compagni, e noi dovemmo iniziare il lavoro molto più tardi ed egualmente da soli. A Cesena il F[ronte] N[azionale] era deceduto in forma legale fin dal 12 settembre e tale problema si porrà di nuovo solo molto più tardi. (Dal Rapporto generale sull’attività militare in Romagna fino al 15 maggio 1944 di Ilario Tabarri (Pietro Mauri) In: L’8.a brigata Garibaldi nella resistenza / Istituto storico provinciale della resistenza Forlì. – Milano : La Pietra, 1981) [Forlì] 18 [ottobre] = Si produce una crisi nel Comitato Politico Romagnolo del fronte di resistenza (...) Dopo una riunione ottenuta a Cesena i rappresentanti dell’U.L.I. escono dalla lotta comune. La crisi si riflette nel Comitato Militare Romagnolo, composto dal ten. col. Di Lorenzo, monarchico, dal Maggiore di S.M. Giusto Tolloy e da un capitano. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) … in questo periodo c’è una divisione: il Comitato di Liberazione nazionale (CLN) non vede la partecipazione del PRI e degli azionisti, perché questi partiti non volevano entrare nel CLN perché c’erano i monarchici. (Leopoldo Lucchi in: Alcuni anni della nostra storia : testimonianze sulla resistenza / a cura degli studenti della classe II E dell’Istituto Tecnico Commerciale di Cesena, [1973?]) Direi era facile parlare per stare fuori dall’equivoco. Per esempio, i comunisti, organizzarono subito dopo l’8 settembre… organizzarono uno sciopero all’Arrigoni e qui fu facile ai nostri, che fra l’altro non erano dei combattenti (…) Erano degli aderenti però facevano un po’ la vita comoda. “Sì, han ragione” [diceva] Tolloy [Giusto], “han ragione... Ma cosa volete andare a fare uno sciopero” dice “nella clandestinità come siamo...”, eccetera “Chi volete che...” eccetera “Voi esponete della gente che poi dopo li cacciano in galera…” e qua e là ed era facile, faceva presa facile... Di quelli che non avevano... “Me... sono sempre giustificato...” Come era facile per esempio dire (...) “Ma che andiamo a fare noi. La guerra è immorale, (...) la guerra che (...) ha dichiarato il re, Badoglio...” eccetera “contro la Germania. Che ieri erano alleati. Oggi... oggi si proclamano...” eccetera. “Una cosa immorale. Una cosa che non ha dignità. Non hanno dignità questa gente che vuole essere sempre a capo...” eccetera. Quindi, qui ci fu un equivoco abbastanza forte e la nostra linea che prese il nostro gruppo fu proprio quella della, della contestazione che era facilissima e che attaccava benissimo. Mentre invece (…) Il partito [l’ULI] era contro la dichiarazione di guerra contro la Germania “Dalla sera alla mattina passi da una parte all’altra, sei traditore...” eccetera. E su questo qui ci fu da discutere molto. (Ferruccio (Rino) Biguzzi - 1999) Noi ci trovammo un po’ in difficoltà, perché dal 25 luglio all’8 settembre l’ULI entrò a far parte del Comitato di Liberazione [del Fronte Nazionale]: I Comitati di Liberazione sorsero dopo l’8 settembre. Dopo l’8 settembre l’ULI decise di staccarsi dal Comitato di Liberazione. Dissero che lottare contro i tedeschi e non lottare contemporaneamente contro il governo Badoglio era un’assurdità, dissero che secondo loro bisognava combattere i tedeschi e nello stesso tempo gli alleati o per lo meno non proteggerli, perché gli alleati sostenevano il governo Badoglio, il quale sosteneva la monarchia. In altri termini loro affermavano che per combattere i tedeschi ci doveva essere una ragione valida, però ad una condizione: che la lotta contro i tedeschi fosse fatta da un esercito di repubblicani e non da un esercito monarchico, quale era ancora allora il governo Badoglio. Erano concetti moralistici, però nascondevano una preoccupazione: era quella di staccarsi dai concetti del Comitato di Liberazione. Allora quelli del Comitato di Liberazione si trovarono un po’ a disagio, continuarono l’azione con la partecipazione dei comunisti, dei democratici cristiani, che allora si chiamavano popolari, del Partito repubblicano, del Partito d’azione ed anche dei liberali. L’ULI rimase fuori dal Comitato di Liberazione, non collaborò col Comitato di Liberazione e assunse un atteggiamento di attesa fino alla liberazione di Roma, che avvenne nel giugno del ‘44. In quell’occasione chiesero di entrare nel Comitato di Liberazione e i comunisti furono d’accordo. Io non ero d’accordo, tanto è vero che a Cesena non sono entrati nel Comitato di Liberazione, ma la guerra era conclusa. (Arrigo Manuzzi in: Alcuni anni della nostra storia : testimonianze sulla resistenza / a cura degli studenti della classe II E dell’Istituto Tecnico Commerciale di Cesena, [1973?]) Da questo momento, sino al gennaio/febbraio 1944, quando il CLN ritornerà ad essere nuovamente operante, il partito comunista si dovrà assumere la piena responsabilità della prosecuzione della lotta armata, creando al suo interno una struttura militare autonoma: il Comitato militare romagnolo. Su tale scelta influì anche l’arrivo in Romagna di Antonio Carini (Orsi), inviato dal Comando generale delle brigate Garibaldi proprio per coordinare la resistenza armata. Nello stesso periodo, verso la fine di ottobre, si stabilì a Bologna Ilio Barontini (Dario), anch’egli inviato del comando delle brigate Garibaldi, con il compito di coordinare la lotta armata in tutta la regione. E’ il periodo [ottobre 1943] in cui Orsi [Antonio Carini] viene in Romagna quale funzionario militare inviato dal centro. La sua prima preoccupazione è quella della costituzione del Comando militare romagnolo. E’ anche grazie alla sua venuta che si dà decisamente il via alla questione militare indipendentemente dalla partecipazione al F[ronte] N[azionale]. (...) viene a trovarmi e mi propone di far parte di quel comitato e di esserne addirittura il responsabile (...) Orsi rimase sino ai primi di dicembre il funzionario al di sopra del comitato e suo coadiuvatore. (...) Per completare il Comitato furono richieste alle Federazioni di Forlì e Ravenna due elementi che in base alle indicazioni delle federazioni stesse fossero i migliori per il compito militare che dovevamo assolvere. (...) Tutto era da fare. L’organizzazione di Ravenna, inadatta, si doveva trasformare in GAP per quello che era possibile. A Forlì bisognava affrontare a fondo il problema della montagna. (Dal Rapporto generale sull’attività militare in Romagna fino al 15 maggio 1944 di Ilario Tabarri (Pietro Mauri) In: L’8.a brigata Garibaldi nella resistenza / Istituto storico provinciale della resistenza Forlì. – Milano : La Pietra, 1981) Nonostante l’inesperienza, le incertezze, le discussioni e le crisi, il movimento di resistenza continuò a svilupparsi. Si raccolsero armi e vettovaglie. … la mia mamma aveva le camere ammobiliate e avevamo due ufficiali che poi [dopo l’8 settembre] scapparono, naturalmente e mi lasciarono due rivoltelle che poi consegnai, dopo (…) c’ho anche della corrispondenza [con questi due ufficiali], erano di Rieti, un ufficiale che mi scriveva diceva “Mi raccomando le macchine fotografiche… le due macchine fotografiche che poi più avanti passerò a prenderle…” erano le due rivoltelle. Sé che me a tengh a lè du rivolteli… (Ferruccio (Rino) Biguzzi – 1999) … un giorno arrivò un camion di tedeschi, erano in due dentro e nel fare la curva dove c’era il distributore della benzina, vicino al ponte vecchio... E sì, non fecero bene la curva, e andarono nel muricciolo della... C’era la lavanderia lì. Lavavano tutte le donne... Allora arrivo lì e Imolesi vide c’era il parabello... il paraballum, dentro e “Dai Dino, ciapa!” u m’ e’ daset e lo portai, che io avevo la zia dove abito adesso [in via Buozzi] e lo andai a nascondere no? Lo portai lì per tre o quattro giorni. Ci stava una tedesca lì a girare, chiedere... chiedere chi l’aveva portato via, ”Vengono... li fucilano!” (...) in quei giorni lì (...) 8-10 giorni dopo l’8 settembre, il 16-17. (...) Noi avevamo quindi nascosto le armi (...) avevamo nascosto un’infinità di armi. Una volta le dovevamo mandare su a portarle verso a Pieve di Rivoschio, Dovevamo portar[l]e lassù (...) arriviamo a Borello e c’erano i primi fascisti e mi ricordo che Rino con una mitragliatrice si mise in mezzo alla strada. (...) [Rino] era di Forlì. L’autista del camion era Imolesi Ubaldo, l’autista era sempre lui. (...) Andammo fino... Non andammo molto lontano fino a Linaro (...) e poi lo scaricarono. Lì poi c’era anche... che era uno di quelli che l’avevano preso che era in prigione con Primo Romagnoli ed altri, di Case Finali, Pirulon, a i giami ad (...) soranom.. Grand… [Pio (Attilio) Fusconi] che era in prigione anche lui. (Dino Amadori - 1999) I tedeschi, appena arrivarono in Italia, mi ricordo che a S. Giorgio fecero una festa da ballo, poteva essere il ‘43, ballavano e si erano ubriacati e avevano messo le pistole nelle giberne attaccate su... io, Sirri Primo e Pippo [Giuseppe Fusconi], mi sembra, abbiamo portato via due pistole. (Ferdinando (Delio) Della Strada - dattiloscritto 1984) Nella caserma di Cesena, eravamo io e [Od]Dino Montanari e abbiamo preso 7 o 8 pistole. (Giorgini Dino – dattiloscritto 1983) Nel 1943, ero sorvegliante nel reparto “naturali” dello stabilimento Arrigoni, dove, sotto la direzione del compagno Bucci [Quinto], raccoglievo soldi tra le operaie da inviare alle formazioni partigiane e con l’aiuto di altre mie compagne di lavoro riuscivo a mettere da parte prodotti alimentari lavorati nell’azienda, destinati anch’essi ai partigiani. (...) Il denaro raccolto all’Arrigoni non lo consegnavamo tutto. A volte ci serviva per comprare medicinali. Di questi ne mandammo su in montagna tre valigie un poco per volta. Un giorno, per caso, sentii il dottor Santini [Arturo] fare dei discorsi che simpatizzavano con la lotta dei partigiani. Così capii che potevo tentare di acquistare i medicinali, tanto necessari, nella sua farmacia. Infatti tutto andò bene e i nostri feriti ebbero maggiori possibilità di curarsi e guarire. (Maria Turci in: Donne di Cesena contro il fascismo. - Cesena, 1975) 13 Ottobre 1943 - Un nascondiglio alla Caserma Masini, ove erano state riposte e murate una buona quantità d’armi, è stato scoperto per delazione. I tedeschi hanno asportato tutto. E’ stato imprigionato anche il maresciallo Antonelli [Lorenzo]. Ma quante armi in giro, o trafugate, o portate nelle case da ex militari! Tutte però accuratamente nascoste. Uno dopo l’altro, appaiono anche qui a Cesena, severissimi bandi tedeschi, per la restituzione di armi e materiale militare italiano. La popolazione tace, ma pochi restituiscono. Si inizia nelle nostre colline o campagne il fenomeno dei “resistenti” clandestini, per lo più originato dai rastrellamenti tedeschi con l’invio in Germania di uomini. (Dal diario di don Leo Bagnoli - Cesena) Si diede aiuto ai prigionieri di guerra liberati dopo l’8 settembre. Abbiam tenuto… ho tenuto degli inglesi a casa... degli ufficiali. Uno (…) me l’ha portato il dottore di San Zaccaria. E’ stato qui 5 o 6 giorni e poi l’ho spedito [L’ha mandato in montagna?] No. Si imbarcava andava ancora (...) a là con gli inglesi, ancora. Perché io, a là da questa famiglia [i Valentini], a coso... a Pieve Quinta, lì, c’era uno che aveva il contatto con gli inglesi che lui trasmetteva... e alora io, tramite questo Mario che era quello della famiglia... Aveva la radio trasmittente che trasmetteva agli inglesi. Alora, io quando c’avevo qualche inglese qui Alora andavo là. Ci dicevo “Io c’ho così e così” e loro mi dice “Alora il tal giorno, la tala nota portalo qui”. E dopo di lì li imbarcavo. Il primo lo imbarcai a Cervia. Dopo ne venne altri due, un tenente e un capitano. Li tenni qui in casa cinque-sei giorni, sette-otto giorni, mi sembra... E poi anche quelli... Lo comunicai a lui a laggiù. Dico “C’è così e così e così” “Ah, va bene e ‘lora tu, la tala notte, tu li porti qui”. Che avevamo un posto lì, in una strada un po’ remota. Mi ricordo che pioveva un’acua quella notte. Un’acua! E li scaricai lì e quelli li imbarcarono a coso... a Rimini, li imbarcarono. Dopo... ne venne un’altro ancora. Du o un? Pia Raffoni (la moglie): Du. Du. Uno era il cugino di Ciorcill [Winston L. S. Churchil], di Ciorcill era. Che anzi venne Biagini [Oddo Biasini], l’onorevole. Venne tre o quattro volte qui a casa mia per trovarlo. Biagini parlava un po’ l’inglese (...) e lui per mezzo poi di Nello [Della] Strada (...) era amico con Nello. E alora disse con Nello “Senti con Fusconi se ha piacere, [se] vuole che ci vada io là a vedere questi inglesi”. E alora “Sì” dico io “può venire quanto vuole”. E alora d’ogni tanto veniva,uno, due... due o tre volte... [Oddo Biasini] Era nella brigata Mazzini. E alora, dunque, l’ultimo inglese ce l’aveva... era un repubblicano, stava a Cesena... Alora non sapevano dove sbattersi, dove metterli non sapevano e alora vennero da me. Io ho detto “No...non voglio saper più niente, non ne voglio più., Non voglio impazzire più...” E allora venne “Va là, va là… Io non so dove metterlo... tu...” [Voi li tenvate in casa?] In casa. In casa. No? Stavano qui in casa. [Non eravate controllati?] Mo no. E alora anche l’ultimo dis “Mo portalo giù via. Ma basta che sia uno che non voglia girare. Che dove lo metto stia lì”. “Ti garantisco che non si muove...” E alora me lo portò giù questo ufficiale e lo metto lì in casa mia e dopo un po’ lo porto al suo destino anche lui, là a Pieve Quinta e loro lo imbarcarono a Rimini. Anche quello lo imbarcarono. (Aldo (Lorenzo) Fusconi – 1983) Tino: Cleta cosa ch’a m’arcord e’ fot vers i queng ad setembar de’ quarentatré. L’arivet... E’ mi ba’ l’aveva un furgon a tre rodi, un Benelli... l’arivet a ca’ ona sera, l’aveva quatar inglis ch’u j aveva tolt só sota a Cas-cion. Ch’j i aveva... Un u i get “Ma a là u j è quatar... quatar parsunir che i fa fadiga a caminé...” e alora u i carga, u i tó só. Ui purtet a ca’ a la sera. Quand l’arivet a sami tot a ca’ sua [di Vittorio (Quarto) Fusconi]. Quatar... quatar parsunir inglis. Tot… Tot la zenta i staseva acsé [incomprensibile] Quii che lé j i è stè un quarenta dé. E piò zovan u s’ ciameva Tom. A j ò int la ment i nom ad du. E piò zovan u s’ ciameva Tom. Ivan l’era e’ piò anzien. Tom l’era un [incomprensibile] grand. E infati lo e’ staset quarenta dé e e’ cambiva al ca’ tot i dé parché un dé l’andeva a magné da un e un dé l’andeva a magné da clet. (...) Dop, ch’a posa avé int la ment, di parsunir u i n’è stè djit. Sempra inglis. Dop l’avnet... u j era un tenent e un capiteni. J era dl’aviazion. I ciacareva una qualche parola d’italien. Ch’a l’avrò sempra int la ment. I staset ot dé in ca’ mia cius int una cambra. Vittorio: E’ prem rastrelament l’è stè Martlin ad Ronta... Martlin ad Ronta. Il saveva tot pó ch’e’ faseva la speja... il saveva tot... il saveva tot... E mi zé Aldo [Fusconi] una sera l’era int e’ circul, “Martlin” (...) u i scapet ad dì “guerda che lo l’è stè quel che e’ mandet i tedesch a Ronta prema”. Tino : Quatar personi... J i è stè trop. Trop, Quarenta dé! E la prema volta quand j avnet zó [i fascisti]. Qua zó l’arivet un, e’ get “Guardì che a Ronta u j è i fasesta”. I s’era farmè ad ciora, a zarchè Fusconi. Parché int e’ borgh ad Ronta prema u j è una fameja ch’la fa di Fusconi. Però la n’à gnint a che fè cun i Fusconi ch’u j era a Ronta sgonda. Enzi che e’ mi ba’ l’aveva ste furgon a tre rodi, quand che j arivet zó a dì “Ad ciora u j è i fasesta!” int e’ cutar ad Pelo l’era pin ad ermi e i fars du tri svel cun ste furgon a purtè via sta glj ermi. E po’ a qua zó j arivet int al quatr e mez al zenqv de’ dopmezdè. I milit, l’era i milit, che a j ò int la ment, che a là ad dria tra la Manghina e Renato u j era che pajer sempra int e’ mez, i paset tot e’ pajer a sfrucì par avdei s’u j era dagli ermi. Quel l’è stè in chev utobar, a la fen d’utobar (...) de’ quarentatré. A sam a lé nun. Andesm ad dentar in ste gabinet e pó a mitesum e’ carnaz d’ad dentar. A santam a tiré, scarnazè, scarnazè... sin a che ch’j i da un spatas e il bota zó. Quand a s’ presentesum sti du burdel i s’ guardet int la faza. I s’ tastet... Aveva stal trapli [per uccelli] i m’ tulet al trapli, i li tiret via. E un chilz int e’ cul! I staset a lè. J i staset fin a sera terd, a pasè tot e’ borgh. (Tino Fusconi e Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998) S. martino le famiglie antifasciste rifugio di partigiani e militari inglesi, Carlet Monvec, Palunzen, i Pirpeval Antognoli... (Vittorio (Quarto) Fusconi - manoscritto 2001) Amedea: J inglis i durmiva in ca’ nostra (...) Lamberto: J inglis... u j era nenca un capiteni ad sberch... e’ capitet un capiteni ad sberch. Amedea: Ch’j era scapè d’in parson. Lamberto: J era scapè da e’ chemp ‘d concentrament. Amedea: I n’aveva tolt un pr’on. U n’aveva un Tibecia [Primo Ugolini], a n’avema un nun, i n’aveva un lou [i Fusconi]. In ca’. A i dasema da magné un ogni a ca’... Prema de’ front. Dop, j i eva dè al bicicleti, j andeva a spas. J i aveva instì tot. Un u n’ aveva piò i pia e’ puret. Tot scurghè sota. L’era tot scurghè, e’ sanguineva. E’ vniva un’infarmira a curei (...) e’ vniva zó un’infarmira da Cisena che u i quileva i pia. U i custudiva j pia (...) Vittorio: J era scapè da e’ chemp ad concentrament ad Verona. Uij purtet so e’ mi ze Aldo [Fusconi]. Ch’u j tulet só a qué a e’ Sevi. U ij purtet só, che quand l’arivet daventi a la butega e’ mi ba u i daset un cichet. E’ get “L’è impusebil che t’a n’ capesa gnint!” e’ get “T’vin só cun quatar inglis int e’ cason de’ furgon. Ma s’ it ciapa it fucila sobit!”. (...) J i è stè que quarenta dé. Amedea: Ah! J i è sté una masa! E nost l’era un mazler. Lamberto:Però quel ch’a degh me l’era un capiteni ‘d sberch, e’ capiteni ‘d sberch che e’ get che l’era e’ cusen ad Ciorcill [Winston L. S. Churchill]. Che Ciorcill alora l’era... l’era e’ generel dal forzi armedi inglesi. E Dop l’è pasé prem minestar. (…) Vittorio: …e’ prem rastrelament efetiv i l’à fat i tedesch a que [a Ronta seconda]. I s’ è sbagljè, j à circundè a Ronta prema… Parché [gli inglesi] j era sté nenca a Ronta prema (…) da Marlon e da Mulnaron. Un qualch dé j i è stè. (…) però un dé l’avnet zó Manuzzi, Dino Manuzzi e Bigini [Oddo Biasimi] (…) lou j è vnu zó un dé ch’j è ‘vnu lé a ca’ mia, ch’j à purtè dla roba e an e’ sò s’ j epa purt, nench di boch par aiuté sti inglis… Parché ciou! Chi quatar che lè j i è stè quarenta dé! U n’è stè cmé chjit ch’j è ste ad pasag (…) [Il giorno del rastrallameto] ch’j aveva circundè Ronta prema… inveci lou j era a ca’ sua [Dei Sama] (…) J era a ca’ sua ch’i puliva agli ermi int la cantinaza (…) Amedea: Quand j avnet zó j fascestar lou j era a ca’ nostra, alora j ciapet e’ fos… j andet vi là… i ciapet par la streda, no’ ch’u i purtes vi’ Aldo (…) Vittorio: Che dé ch’j era a Ronta prema e’ mi zé Aldo l’andeva só (…) pr andé… dove non lo so. L’avnet zó una dona e la i get “Guardì che a Ronta prema i l’à circondè...”. Alora lo l’avnet zó e int un mod o int un ent, cum la s’andes a n’ e’ sò, j era a lè ca’ sua int la cantena ch’i puliva agli ermi… u i tulet só e u i purtet via.. (Amedea Sama, Lamberto Sama, Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998) La famiglia Cucchi, a ospitato in casa militari inglesi, si erano affezionati e diedero al figlio di Lucchi Ottavio il nome di un militare Inglese (Vittorio (Quarto) Fusconi - manoscritto 2001) Io andavo in giro con la frutta, ero abbastanza libero [di muovermi], ero diretto a San Zaccaria. A Castiglione dove c’è il fiume vidi molta gente andare in su e in giù. Incontrai uno e gli chiesi cosa c’era. Mi rispose che c’erano cinque inglesi prigionieri di un campo di concentramento e da lì scappati, che non erano più capaci di camminare. Venivano da Verona e si erano guastati i piedi nel camminare. Disse uno “Sono lì che non vanno più, si danno in mano ai carabinieri”. Ma così tornavano ancora in mano ai tedeschi, quindi chiesi loro dove erano diretti “Rimini, San Marino...” [risposero]. Loro credevano che San Marino fosse libera, invece c’erano i tedeschi come qui. Chiesi se volevano venire con me a casa mia e poi, se volevano andare a San Marino... Risposero di sì e li caricai tutti e cinque portandoli a casa. Dopo si erano esposti troppo e alla sera cominciarono ad andare al bar, qui in giro rimasero 20-25 giorni. Questo successe in primavera, mi sembra [no, settembre-ottobre], dopo li portammo su in montagna... dopo 15-20 giorni che erano qui in giro fece un gran diluvio, andammo a vedere il nascondiglio delle armi ed era allagato. Quindi bisognava togliere le armi. Presi il furgone le caricai portandole in una cantina e questi inglesi mettevano a posto le armi, le asciugavano, ecc. (...) Dopo, questi inglesi giravano in qua e in là, ma era pericoloso e chiesi loro se volevano andare in montagna in brigata, furono d’accordo e un giorno li caricai e li portai su a Pieve. (...) Poi tenemmo degli [altri] ufficiali inglesi a casa, uno me lo portò il dottore di San Zaccaria, stette qui 5-6 giorni e poi si imbarcava con gli inglesi. A Pievequinta c’era uno che aveva contatto con gli inglesi, allora, tramite questo Mario, quando avevo qualche inglese andavo là. Mi diceva di portarlo lì il tal giorno e dopo si imbarcavano. Il primo si imbarcò a Cervia, dopo ne vennero altri due, un tenente e un capitano, li tenni in casa 7-8 giorni circa e poi tramite quello di Pievequinta una notte che pioveva fortissimo, li portai là e si imbarcarono a Rimini. Ne venne un altro, uno [che] era il cugino di Churcill [Winston L. S.]. Anzi, venne Biasini [Oddo], l’onorevole, due o tre volte a casa mia a trovarlo, perché lui parlava un po’ l’inglese. Era amico con Nello Della Strada e chiese, Biasini, tramite lui, se avevo piacere che venisse a trovare questo inglese (...) L’ultimo inglese ce l’aveva un repubblicano di Cesena e non sapevano dove metterlo. Allora vennero da me. Io risposi che non volevo sapere più niente. Insistette perché non sapeva dove metterlo... Sì, allora dissi di sì, purché non fosse uno che girava ma che dove lo mettevo stava. Mi disse che garantiva che questo inglese non si sarebbe mosso e me lo portò giù. Era un ufficiale. Dopo un po’ lo portai a Pievequinta e lo imbarcarono a Rimini. (Fusconi Aldo - dattiloscritto 1983) ... eravamo a fine ottobre 1943 una giornata piovosa Aldo Fusconi col suo furgone fu bloccato da una Stafetta (Bucelli Quinta), e lo mise al corrente che era in atto un rastrellamento a Ronta. Cercavano i prigionieri inglesi che erano da tempo nascosti a Ronta, Ma per fortuna sbagliarono la casa circondarono la casa dei Fusconi [di Ronta prima] ma loro con gl'inglesi non centravano, perquisirono numerose case nella borgata, la casa Sbrighi e la casa merloni che nel essicatoio del tabacco cera un enorme falce martello. Da queste famiglie i prigionieri cerano stati pero quel giorno piovoso erano nella Borgata di Ronta II in casa di Sama Bruno assieme ai partigiani a pulire le armi che si erano Bagnate nel rifugio scavato dentro il pozzo nel podere dei Fratt. Bianchi. arrivo di corsa Aldo Fusconi li caricarono sul furgone vennero coperti di fieno e li porto in un posto sicuro, la mattina dopo li carico di nuovo e li porto nella zona di Pieve di Rivosc[h]io dove si stavano formando i primi nuclei partigiani che poi diverra la 8 Brigata Garibaldi Romagna. I fascisti al comando di pochi tedeschi quando giunsero a Ronta II non trovarono nessuno perquisirono le case dei Fusconi ma non trovarono traccia dei prigionieri e delle armi che erano state portate in un altro rifugio sempre nel podere dei Bianchi. Arrivò a casa nostra un maggiore inglese e rimase 28 giorni, ebbe contatti con i generali incontratosi nel podere Sbrighi (Palunzen) casa base dei GAP. (Vittorio (Quarto) Fusconi - manoscritto 2001) La seconda volta che vennero a Ronta i tedeschi [alle 16 e 30-17 del pomeriggio dello stesso giorno], dopo essere stati la prima volta a Ronta prima, erano accompagnati dal maresciallo dei carabinieri di Porta Fiume, Ugo Righi (detto e’ Frares). Bussarono alla porta degli Ugolini (Tibeccia) e chiesero dove fossero gli inglesi scappati. Il padre, Primo Ugolini, disse in dialetto che di inglesi non ce n’erano e questo diede modo al maresciallo Righi di dire ai tedeschi che questi erano italiani che non sapevano parlare nemmeno la loro lingua e chiese di poter parlare in dialetto (che i tedeschi non capivano) così poté dire che questa volta avevano avuto una spiata molto precisa, non come la prima (quando erano andati a Ronta prima) e che erano fortunati che questa volta c’era lui, che era con la resistenza e che li avvisava che mandassero via i prigionieri perché un’altra volta lui non ci sarebbe stato e avrebbero potuto mandare qualcun altro, dalla loro parte. Gli inglesi erano nascosti nel campo, che confinava con quello di una famiglia di repubblicani nazionalisti (che alcuni pensavano avessero simpatia per i fascisti) che era stata minacciata di non parlare. (Confidenza di Sergio (Oriano) Giovannini - 2002) 2 ottobre - Passano ancora, a piedi, soldati diretti nelle parti più lontane d’Italia. (...) Ieri alle ore 10 sono passati tre Slavi di Lubiana e si sono fermati in canonica fino alle 13,30, ripulendosi e lisciandosi ben bene, ma senza voler mangiare. Uno fa il pittore, l’altro il decoratore di vetri ed è persona distinta; il terzo è un fanciullo di 16 anni. Fatti prigionieri dai tedeschi durante la guerra con la Iugoslavia, poi liberati, poi ripresi dagli italiani per paura che si dessero alla macchia. Venivano da un campo di concentramento nella media Italia. Desiderando imbarcarsi presso Ravenna per l’Istria, hanno ascoltato a lungo la radio per conoscere se là comandano i tedeschi o i loro amici partigiani. Oggi alle ore 16 sono passati due abitanti del Sud-Africa, catturati dagli italiani a Tobruc e messi in libertà dal Campo di Padova dopo l’armistizio di Badoglio. Cercano per S. Marino di unirsi agli Inglesi, che avanzano a nord del Gargano e di Napoli. Puliti, ben messi, grassi. Sono di color bianco: si tratta di emigrati europei divenuti grandi proprietari di terreni coltivati dai neri che, ha dichiarato uno che parla l’Italiano, capiscono poco. (Dal diario di don Pietro Burchi - Gattolino) Si diede aiuto ai militari sbandati e qualora ne facessero richiesta, si organizzarono nelle fila partigiane. L’8 settembre mi ricordo che passavano i militari, poverini e che passavano e che cercavano gli abiti civili. Insomma mio zio [Ezio Casadei] diede via tutto. Neanche un paio di pantofole [rimase]. Che la mia nonna diceva “ ma tu non hai più i vestiti!” (…) Diede via tutto. (Saura Montesi - 2003) [Subito dopo l’8 settembre] la gente scappava… chiedevano vestiti… andavano dai contadini “Mi dia un paio di pantaloni per fare…” Perché l’esercito tedesco si era già mosso ma erano pattuglie, pattuglie che se trovavano dei soldati (…) li convogliavano “Adesso lei vada là…” ma dopo non lo controllavano più… questi scappavano via e… era un caos.. un caos che durò sette, otto giorni ma anche più. Ma quando poi l’esercito tedesco cominciò a organizzarsi e piantare [dei posti di blocco] alla porta delle città [e la] gente che scappava la convogliava… la portava in campo di concentramento... e allora la cosa si fece seria e quindi chi scappava, scappava con delle difficoltà non indifferenti e si nascondeva bene (…) c’era il pericolo di essere presi e mandati… mandati anche fuori. (Ferruccio (Rino) Biguzzi – 1999) Si aiutarono i renitenti a nascondersi. Avevamo dato rifugio a un giovane renitente alla leva, convinti che fosse un antifascista. Questi invece era una spia che denunciò la nostra casa ai fascisti. Poiché quel giovane (del quale non ricordo il nome) non conosceva molto bene la zona, sbagliò a dare le indicazioni ed i fascisti arrestarono un paesano [di Ronta] che invece non aveva mai collaborato in nessun modo con i partigiani. Prima di essere riconosciuto innocente fu picchiato e rinchiuso in carcere per un mese. (Norma Conti in: Donne di Cesena contro il fascismo. - Cesena, 1975) … io avevo le tessere false della Todt. Allora c’era la Todt. Tu andavi a lavorare alla Todt e ti davano un tesserino giallo con una UT grande (…) e i giovani con quella lì non andavano a fare il militare ed erano ricercate. Io… le facevo io quelle. Le stampavo con il timbro della Wermacht. Avevo il timbro della Wermacht (…) e cosa feci... che quando ci penso adesso dormendo… davo le tessere ai giovani. Ci davo il mio giornale clandestino e la tessera. Dopo l’8 settembre, quando i tedeschi fecero razzia e allora erano tutti sbandati e venne fuori la Todt (…) Queste tessere me le fornivano da Forlì, me le fornivano bianche e io, naturalmente, le maneggiavo, avevo un timbro della Wermacht che me l’avevano fornito da Forlì e anche il coso… il timbro per… il datario (…) loro c’avevan un’artista lì. (Ferruccio (Rino) Biguzzi - 1999) Vennero creati i primi gruppi partigiani nel ravennate e due basi a Cusercoli e a Pieve di Rivoschio e a metà ottobre, in montagna, ebbero inizio le prime azioni militari. Una sera in casa mia [a Gambettola] venne [A]uria [Salvatore], un compagno partigiano, chiedendo della tela per confezionare 20 tascapane per i partigiani che al sorgere della repubblichina erano costretti a salire in montagna per organizzare la lotta contro il rinascente fascismo. Per tutta la notte lavorammo. Lui tagliò ed io cucii a mano tutti i tascapane. La mattina il lavoro era terminato ed i partigiani poterono partire con i loro zaini sulle spalle. (Assunta Buda in: Donne di Cesena contro il fascismo. - Cesena, 1975) Abitavo allora a Monte Iottone e ricevetti l’incarico di mantenere i collegamenti con la pianura cesenate e di consegnare ai partigiani della montagna armi, munizioni, viveri e vestiario raccolti dalle staffette della bassa nei magazzini, nelle case, ma soprattutto all’Arrigoni, dove mi incontravo con i partigiani Gianni [Giovanni Amaducci], Ricci [Fabio], Nello [Della Strada], Rasi Luciano, Bucci Quinto e Casadei [Ezio]. Giravo sempre in bicicletta (...) Ero l’unica staffetta donna della zona, ma nel mio compito sono stata aiutata dai contadini che ospitavano i partigiani che mio marito accompagnava in montagna e nascondevano il materiale che io facevo giungere loro. Durante la mia attività ho trasportato con sporte che caricavo ai lati della bicicletta, dalla sola zona di Borgo Paglia a Monte Iottone, ben 7 quintali di pasta. Altro mio compito era quello di recapitare alla Teresa, giù in città, la corrispondenza dei partigiani che mandavano notizie ai familiari. (Iolanda Salvi (Stella) in: Donne di Cesena contro il fascismo. - Cesena, 1975) 1°) ottobre 1943 [la notte fra il 25 e il 26 ottobre] = uccisione di un capitano [tenente] tedesco a S. Sofia con recupero di importantissimi documenti riguardanti la linea “Gotica” trasmessi agli Alleati. Una pistola mitragliatrice recuperata. 2°) ottobre 1943 [4 novembre] = attacco in pieno giorno da parte di 6 partigiani a Sarsina. Restano padroni del paese per varie ore e non possono disarmare i carabinieri asserragliati nella caserma. Un carabiniere che sparava dalla finestra rimane ucciso ed un altro ferito. 3°) ottobre 1943 [12 ottobre] = disarmo della caserma dei carabinieri di Cusercoli. Recuperati 6 moschetti e 2 pistole. 4°) ottobre 1943 [fine ottobre] = respinto forte attacco tedesco alla base di un distaccamento in Val di Chiara. 3 tedeschi morti e vari feriti. Nessuna perdita da parte nostra. 5°) novembre 1943 = attacco ad una macchina tedesca sul Carnaio. Alcuni feriti. 6°) novembre 1943 = disarmo di 3 militi forestali a Ranchio. 7°) novembre 1943 [dopo il 16 novembre] = attacco ai pozzi di petrolio di Selvapiana. Un tedesco rimane ferito. I pozzi danneggiati. 8°) novembre 1943 [30 dicembre] = uccisione di un maresciallo tedesco a S. Sofia con recupero di una pistola mitragliatrice. 9°) novembre 1943 [16 novembre] = forte rastrellamento tedesco nella zona di Pieve di Rivoschio. I nostri si sganciano nessuna perdita. (Dal Bollettino militare unico delle azioni svolte dalla Brigata dalla sua formazione a tutto il mese di marzo del Comando VIII^ Brigata d’assalto Garibaldi “Romagna”. 17 settembre 1944 - ISRFC 3/13 0247) 12 novembre - Si dice che bande di ribelli abbiano tirato contro la caserma dei Carabinieri di Sarsina e perquisiti i passeggeri d’una corriera diretta a Firenze. (...) 25 novembre - I tedeschi hanno portato via il parroco di Pieve di Rivoschio nella diocesi di Sarsina, perché teneva in canonica uno o più ribelli armati. Non si sa dove sia, né se vive ancora. In quel paesetto, senza strada carrozzabile e relegato sui monti dalla parte di Linaro, i ribelli avevano occupata la casa del fascio. Si tratta di bande di uomini, per lo più comunisti e criminali o visionari, mal vestiti, nutriti, armati, guidati... E dire che molti (anche preti) vorrebbero che i giovani del 1925, che debbono andare sotto adesso, fuggissero con loro nei boschi. 12 dicembre - Alcune settimane fa i tedeschi sono andati contro i ribelli insediati a Rivoschio e dintorni e questi fuggirono senza combattere. Avevano catturato un fascista di Linaro, ma poi lo lasciarono per interposizione di un comune amico. (Dal diario di don Pietro Burchi - Gattolino) 14 novembre 1943, domenica - Primo incontro con i partigiani. Questa sera abbiamo avuto anche noi una di quelle sensazionali vicende che, finora, sentivamo solo raccontare o si leggevano sui giornali. Verso le 17, poco dopo la funzione domenicale quando la gente è abbastanza numerosa, alcuni sconosciuti in divisa di militi fascisti, vagano indifferenti per la nostra borgata. A notte inoltrata altri, armati, si uniscono a quelli, e intimano alla gente di andare e restare in casa. Sono partigiani. Noi di famiglia, attorno al fuoco, stiamo ascoltando il rumore di fuori per indagare quanto avviene. Secchi ordini di aprire; colpi alle porte. Azzardo spingere il capo allargando la fessura di una finestra nella sala; il lume di luna è chiarissimo. Una voce seccamente grida: “Chiudete quella finestra!” Continua per molto tempo il rumore di passi sul selciato e di colpi alle porte. Verso mezzanotte si ristabilisce il silenzio; ma nessuno osa uscire di casa. 15 novembre 1943, lunedì - Un milite deportato e rilasciato. Questa mattina ognuno è impaziente di raccontare quanto accadutogli durante la notte: chi si è nascosto, chi ha avuto la casa in subbuglio. Ma soprattutto rattrista il fatto che un nostro giovane milite, in servizio militare di leva, reduce dalla Russia, G.G., è stato preso mentre era a letto, e portato via dai partigiani. Altri militi, pure ricercati, sono riusciti a non farsi trovare. Più tardi sono tornati alcuni partigiani capeggiati da S.[alvatore Auria], meridionale; ma con intenzioni pacifiche. Sequestrano i gagliardetti dalla “casa del fascio”. Abbiamo modo di raccomandare il giovane deportato durante la notte, meritevole di ogni riguardo. Promettono che in serata sarà rilasciato. Si fanno diverse congetture. Ma questa sera quando lui è tornato davvero, abbiamo riempito la sua casa per ascoltare la strana avventura. Accanto alla sua mamma che piange dalla commozione, egli sembra soddisfatto dell’avvenuto che, dato il rispettoso trattamento ricevuto, si risolve in un terribile... spaghetto. 16 novembre 1943, martedì - Spedizione tedesca a Rivoschio. Verso le ore 10 lungo lo schienale oltre “le case di sopra” in frazione di San Romano, una lunga fila di tedeschi armati sale verso Rivoschio. Lassù i partigiani sono molti e vi hanno un centro organizzativo. E’ evidente lo scopo di quella spedizione. Dalle alture si osservano la colonna di fumo e i bagliori di fiamma di quella “casa del fascio” incendiata. Prima di mezzogiorno quattro tedeschi scendono anche qui a Linaro, ma non cercano nessuno. Più tardi si rivede, alla cima del “monte di casale”, la fila indiana di soldati che tornano verso San Romano. Alcuni portano a spalle qualche cosa che non si distingue: sembrano perfino dei feriti. E’ vivissimo il desiderio di conoscere che cosa sia successo lassù. Aspettiamo, ansiosi, una fanciulla, la C.M., mandata appositamente a Rivoschio, con la scusa di trovare alcuni suoi parenti. Tornata, racconta dello spavento di quei popolani; delle perquisizioni nelle case. Dice che non è avvenuto nessuno scontro armato; che nessun partigiano è stato rintracciato; che colonne di tedeschi ancor più copiose sono salite dall’altro versante. Riferisce soprattutto che alcuni uomini sono stati presi dai tedeschi, e, caricati di bagagli della truppa, sono stati costretti a seguirli. (...) Tra i deportati in quella spedizione è anche il parroco don Pietro Paternò che regge quella Pieve da oltre venticinque anni. (Dopo qualche giorno tutti quei deportati sono stati rimessi in libertà. Solo il parroco è stato trattenuto. Avviato in Germania, egli è stato internato nel campo di concentramento e di sterminio di Dachau. (Dal diario di don Luigi Giannessi - Linaro) Tutto ciò venne fatto segretamente e fu reso possibile solo grazie al favore della maggioranza della popolazione, che diede spontaneamente il proprio aiuto. Anche chi non collaborava direttamente con i partigiani, li proteggeva con il proprio silenzio e pur mantenedosi passivo, contribuiva comunque a boicottare il tentativo di restaurare il passato regime. Coloro che credevano nell’avvenire della nuova repubblica fascista o nell’invincibilità del suo alleato tedesco, ormai erano in pochi. I più speravano nella vittoria degli alleati e nella rapida fine della guerra. Il 25 luglio e l’8 settembre avevano operato una vera e propria rivoluzione nella testa degli italiani e determinato un nuovo modo di sentire. 28 settembre - Tutti, eccetto una minoranza, desiderano l’arrivo degli Inglesi, che oggi hanno conquistato Foggia. La ragione è che sperano di poter fare poi ognuno il proprio comodo, il povero spera di diventare ricco, chi mangia male di mangiare bene, chi lavora di non lavorare più, insomma l’amore verso gli Inglesi ha le sue radici sulla Mosca dei bolscevichi senza Dio. (Dal diario di don Pietro Burchi - Gattolino) A dir la verità, quei giovani che partecipavano intensamente a questa lotta di resistenza, erano allora una minoranza, e c’era la paura, il timore delle violenza e delle conseguenze. Comunque in linea di massima, le pattuglie partigiane erano formate soprattutto dai giovani. Non tutti i giovani, partecipando, avevano certe idee politiche, molti cercavano di nascondersi, di non subire le conseguenze del richiamo alle armi; quindi partecipavano passivamente e indirettamente alla lotta di resistenza. Tutto era affidato a delle organizzazioni che agivano clandestinamente e quindi non ci poteva essere la generalizzazione della partecipazione: non era una sollevazione popolare ma un’azione di convinti. (Roberto Lanzoni in: Alcuni anni della nostra storia : testimonianze sulla resistenza / a cura degli studenti della classe II E dell’Istituto Tecnico Commerciale di Cesena, [1973?]) Era maturato intanto, durante la guerra, questo odio per chi aveva colpa della guerra. (Enrico Onofri - 1984 I fascisti sono abbandonati al loro destino, il fascismo aveva imposto con la forza la sua dittatura, la grande maggioranza del popolo lo molla al proprio destino. (Lamberto (Bruno) Sama - dattiloscritto 1983)