Dai Trattati a Lisbona - Dipartimento di Scienze Sociali ed
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Dai Trattati a Lisbona - Dipartimento di Scienze Sociali ed
Andrea Simoncini Le politiche comunitarie per lo sviluppo delle risorse umane Una lettura evolutiva Dai Trattati di Roma alla Strategia di Lisbona Ottobre 2010 Dai Trattati di Roma alla Strategia di Lisbona © 2010 Andrea Simoncini. Tutti i diritti riservati. E' vietato riprodurre il contenuto di questo testo senza autorizzazione Indice Pag. Introduzione 3 1) Dalla firma dei Trattati alla prima metà degli anni Ottanta 1.1. Lo scenario postbellico e la firma dei Trattati di Roma 1.2 Il Trattato CEE 1.3. La formazione professionale e la CEE 1.3.1. Gli anni ‘60 1.3.2. La politica di formazione professionale tra due crisi 1.3.3. La politica di formazione professionale e la disoccupazione giovanile 1.4. I Fondi Strutturali e i primi anni del Fondo Sociale europeo 1.4.1. Il Fondo sociale europeo negli anni ‘60 1.4.2. L’introduzione del sistema di risorse proprie nel bilancio comunitario 1.4.3. Un nuovo Fondo per la politica regionale: il FESR 1.4.4. Il Fondo sociale europeo dalle modifiche del 1977 alla riforma del 1983 1.5. L’impegno intergovernativo in materia di istruzione 1.6. Gli anni ’80 e la politica dei nuovi posti di lavoro 2) Dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Amsterdam 2.1. L’Atto Unico Europeo e la politica sociale 2.2. Il “Primo Pacchetto Delors” e la Programmazione 1989-1993 5 6 8 9 10 12 13 13 14 16 18 19 21 2.5. La difficile eredità della Commissione Delors: il Trattato di Amsterdam 24 25 28 29 31 32 35 36 41 43 3) Dal Processo di Lussemburgo alla Strategia di Lisbona 3.1. Dalla Strategia Europea per l’Occupazione verso l’integrazione debole 3.2. La Programmazione 2000-2006 3.3. Il processo di Copenhagen 3.4. Il nuovo Programma d’azione per l’apprendimento permanente 3.5. Cenni sulla Programmazione 2007-2013 45 50 54 57 59 Conclusioni 65 Bibliografia 66 2.2.1. Le iniziative comunitarie 2.3. I Programmi di azione comunitaria 2.4. Il programma di azione delle Commissioni Delors 2.4.1. Dai Memorandum al Libro Bianco: una nuova idea di sviluppo per l’Europa 2.4.2. Il Trattato di Maastricht 2.4.3. Il “Secondo Pacchetto Delors” e la Programmazione 1994-1999 2.4.4. I Programmi comunitari 2 Introduzione Europa/ le lotte di classe Europa/ la difesa del posto Europa/ per i tuoi interessi/ per i figli e noi stessi/ per chi c’è e chi è disperso, Europa. Rino Gaetano, Metà Africa, metà Europa, 1980 Le politiche europee per lo sviluppo delle risorse umane hanno compiuto nel 2007 i cinquant’anni dalla firma dei Trattati di Roma che in qualche modo ne segnarono l’impulso iniziale. Un cinquantennio più felice rispetto al suo cinquantenario, che cade in un momento segnato dalle incertezze politiche, sociali ed economiche mondiali che frenano l’attuale fase della costruzione europea, ma che, proprio per questo, sollecitano l’attenzione e il dibattito sul senso e le prospettive dell’Unione e del suo modello di sviluppo. Le politiche d’istruzione e di formazione professionale dell’Unione sono una materia che merita di essere indagata non solo per dare visione di profondità ad uno degli ambiti di intervento comunitario che più direttamente incide sul benessere dei cittadini, ma anche perché il percorso evolutivo di queste politiche, mette in luce la filigrana del più complessivo percorso di integrazione europea. Di pari passo con il mutare dei presupposti, delle ragioni, delle prospettive e dei traguardi dell’integrazione europea e della sua configurazione istituzionale, da mercato unico a spazio socioeconomico sino alla soglia non varcata dell’integrazione, le politiche per l’istruzione, la formazione e il lavoro hanno avuto una loro genesi e un loro progredire in rapporto a cambiamenti strutturali, condizioni congiunturali e impulsi ideali che hanno di volta in volta ispirato le scelte europeiste degli Stati membri. Così gli investimenti in formazione sono andati trasformandosi da interventi ridistributivi e compensativi di crisi o fallimenti di mercato di natura geografica o settoriale a fattore strategico di investimento e di crescita sociale ed economica, all’interno di un quadro integrato di politiche orientate allo sviluppo sostenibile. Il presente lavoro, attraverso una ricognizione storica che non ha propositi di ricostruzione esaustiva, intende di rintracciare quel filo rosso che partendo dai Trattati di Roma conduce alla Strategia di Lisbona, come momento di maggiore elaborazione di un modello europeo di sviluppo e di crescita sociale ed economica, attraverso tre tappe fondamentali: 3 • La firma dei Trattati di Roma che hanno dato avvio alle prime misure di formazione di lavoratori a rischio di disoccupazione e al Fondo Sociale europeo come strumento finanziario preposto a questi interventi (capitolo primo); • La firma del Trattato di Maastricht, che estendendo le competenze dell’Unione, segna una tappa fondamentale nella revisione del ruolo delle politiche comunitarie per lo sviluppo delle risorse umane, caratterizzandole in modo molto più ampio e strategico all’interno di un mix integrato di politiche come fattore di competitività, di crescita e di occupazione (capitolo secondo); • La nascita della Strategia Europea dell’Occupazione e il suo confluire all’interno della Strategia di Lisbona che segna una fase nuova di elaborazione e attuazione di un quadro unitario di politica europea orientata su l’obiettivo di sviluppo dell’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo (capitolo terzo). 4 Capitolo 1 L’Europe ne se fera pas d’un coup, ni dans une construction d’ensamble: elle se fera par des réalisations concrètes créant d’abord une solidarité de fait. Robert Schuman, 1950 1) Dalla firma dei Trattati alla prima metà degli anni Ottanta 1.1. Lo scenario postbellico e la firma dei Trattati di Roma. I Trattati di Roma rappresentano il blocco di partenza di quel lento percorso d’integrazione economica e politica che in un cinquantennio ha interessato un numero progressivamente crescente di Stati europei, un percorso che rimane a tutt’oggi un processo ed una sfida politica, sociale e culturale in divenire. Eppure anche i Trattati di Roma sono stati il frutto di un lungo e faticoso percorso che se da un lato non costituisce materia del presente lavoro, non di meno occorre tenere in giusta considerazione. I Trattati sono stati l’inizio di «una formidabile avventura collettiva», come l’ha definita Jacques Delors, ma al tempo stesso un punto d’approdo. Le Comunità Europee sono nate con generazioni che hanno vissuto la Grande Guerra, la crisi del ’29 e la nascita del cosiddetto Stato sociale1, le aberrazioni di un’Europa ferita dalla follia del Neue Ordnung e il successivo declino dell’egemonia economica e politica europea nella storia mondiale; generazioni eredi di una precedente tradizione europeista già consolidata2 che hanno maturato importanti momenti di riflessione e ispirazione unitaria, come il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, le lezioni di Chabod sull’idea di Nazione e l’idea d’Europa, L’Europe en jeu di Denis De Rougemont o l’attivismo culturale dell’austriaco Richard Coudenhove-Kalergi. L’idea di un’Europa unita e pacifica è di certo precedente al 1957, anno della firma dei due Trattati istitutivi rispettivamente della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità 1 «Nel XIX secolo, in tempo di pace, la spesa statale era generalmente inferiore, talvolta di gran lunga, al dieci per cento del reddito nazionale. […] Negli anni ’50 sia in Europa occidentale che negli Stati Uniti essa rimase compresa tra il venti e il trenta per cento del reddito nazionale, a seconda della dimensione dell’impresa pubblica, per salire in seguito al trenta o quaranta per cento e più» (Cameron, 1993: 534-535). 2 Basti pensare alla politica dell’equilibrio di Metternich da un lato e alla Giovine Europa mazziniana o agli Stati Uniti d’Europa del Cattaneo dall’altro; basti pensare ancora al tentativo di Aristide Briand di dare vita agli Stati Uniti d’Europa. 5 Europea per l’Energia Atomica (CEEA, comunemente definita EURATOM), tuttavia una triplice esigenza rendeva finalmente maturi i tempi: • un’esigenza di pace, imperativa all’indomani della seconda guerra mondiale e dei suoi orrori, quando nacque il celebre monito «mai più questo»; • un’esigenza economica, dettata dalla necessità di ricostruire e restituire benessere ad un continente devastato dalla guerra senza poter contare più sull’egemonia mondiale; • un’esigenza politica di unità resasi impellente in ragione del nuovo equilibrio postbellico che consegna allo scenario mondiale un’Europa materialmente e umanamente distrutta e politicamente divisa nelle contrapposte sfere di influenza russa e americana. Per quello che riguarda la situazione demografica e sociale nei sei paesi aderenti alla CEE (Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda e Lussemburgo) i dati storici di quel periodo rivelano come la percentuale dei disoccupati sulla popolazione attiva si attestasse, fatta eccezione per l’Italia (8,2%, dato al 1951), su valori contenuti. Alla fine degli anni Cinquanta, la disoccupazione non era (né lo sarà fino ai primi anni Settanta) un fenomeno generalizzato e questo è un dato che occorre tenere presente per comprendere la genesi e l’evoluzione delle politiche di istruzione e di formazione professionale della Comunità europea. Parallelamente ai mutamenti politici dell’Europa, che facevano da sfondo alla nascita della CEE, si è verificata, negli anni, un’evoluzione sociale ed economica - di cui la disoccupazione ha rappresentato il fenomeno macroscopico di maggiore entità - che ha contribuito a condizionare l’evoluzione, le ragioni e i termini dell’integrazione europea. 1.2. Il Trattato CEE. Il Trattato che istituisce la Comunità Economia Europea costituisce una tappa fondamentale del processo d’integrazione dal momento che, a tutt’oggi, costituisce la base dell’attuale Trattato istitutivo dell’Unione Europea. A seguito del fallimento del progetto di collaborazione militare (CED) per l’opposizione della Francia nel 1954, i Governi dei sei paesi fondatori, assodata l’impossibilità di un’integrazione di carattere politico, si avviarono a stringere un legame di carattere squisitamente economico. Questa soluzione trovava ispirazione nella cosiddetta opzione «funzionalista», emersa nella dichiarazione Shumann, secondo la quale la federazione politica poteva essere conseguita attraverso la progressiva creazione di «istituzioni sovranazionali settoriali»3. Il Trattato CEE, infatti, «contenendo soltanto l’indicazione degli obiettivi finali e di 3 In tal senso il diretto precedente dei due trattati firmati a Roma è il Trattato che istituisce la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, ispirato da Jean Monnet che insieme a Shumann è considerato ideatore e promotore politico delle Comunità europee. 6 taluni intermedi senza indicare esattamente i tempi di realizzazione e i contenuti della legislazione necessaria per attuarli, non poteva che essere almeno in gran parte “un Trattato di procedure”, delle quali dovevano essere protagoniste le Istituzioni comunitarie. In altre parole si trattava di un Trattato “quadro”, in cui il trinomio Istituzioni-procedure-obiettivi prefigurava una struttura di negoziato permanente, che sarà poi la caratteristica peculiare dei decenni comunitari a venire» (Olivi, 1995: 50). Rispetto agli altri Trattati «per pervenire all’integrazione economica […] erano necessarie imponenti armonizzazioni o unificazioni legislative, onde dar luogo a «politiche comuni» da gestire a livello europeo, politiche che dovevano includere tutti i grandi settori della vita economica e sociale […]. Il trasferimento progressivo […] della sovranità si doveva effettuare nell’ambito di una struttura di «negoziato permanente» costituita dal sistema delle Istituzioni […]. Ancorché chiaramente insoddisfacente dal punto di vista federalistico, l’acquisizione successiva di porzioni di potere “sovranazionale” a livello istituzionale comunitario, ha garantito sinora l’ottenimento del massimo di coesione con il minimo di traumi politici» (Olivi, 1995: 50-51). Il «primo cominciamento» dell’integrazione europea è dunque di natura eminentemente economica4 ma lascia intendere, in virtù della sua struttura, la necessità di un’integrazione che, prendendo piede dagli impegni concreti assunti in ambito di mercato comune, proceda verso un «coordinamento delle politiche» anche in settori di carattere non strettamente economico, al fine di accompagnare la nascita di un mercato comune o ammortizzarne gli eventuali squilibri5. Rispetto alle politiche settoriali oggetto del presente lavoro, il Trattato CEE non contempla impegni espliciti alla cooperazione in materia d’istruzione, sebbene contenga già riferimenti a interventi di chiara attinenza con i sistemi educativi (ad esempio, il diritto alla libera prestazione dei servizi e al mutuo riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche6). Per quanto attiene invece il settore delle politiche della formazione professionale, la politica sociale sancita dagli artt. 117-128 del Trattato, prevede l’adozione di una politica comune in materia di formazione «che possa contribuire allo sviluppo armonioso sia delle economie nazionali sia del mercato comune». In termini di dettaglio, rivestono importanza centrale i due articoli 117 e 118. Il primo traccia la cornice propositiva degli obiettivi: «Gli Stati membri convengono sulla necessità di promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della mano d’opera 4 L’articolo 2 del Trattato CEE ne sancisce gli obiettivi generali: «La Comunità ha il compito, mediante l’istituzione di un mercato comune e il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, di promuovere nell’intera Comunità uno sviluppo armonioso delle attività economiche, un’espansione continua ed equilibrata, un aumento della stabilità, un incremento del tenore di vita e più strette reazioni tra gli Stati che la compongono». 5 Si pensi ad esempio alla politica comune nel settore dell’agricoltura (PAC), con particolare riferimento alla politica di sostegno dei prezzi (a fronte di produzioni eccedenti), che, negli anni, ha assorbito la parte maggioritaria del bilancio annuale della CEE. 6 Il diritto di stabilimento stabilisce la libertà di esercizio delle professioni sull’intero territorio comunitario e si fonda sul principio generale di cui all’articolo 7 del Trattato che vieta «ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità». In sintonia con questo principio, il primo paragrafo dell’articolo 57 stabilisce che: «Al fine di agevolare l’accesso alle attività non salariate e l’esercizio di queste, il Consiglio […] stabilisce […] direttive intese al reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli». 7 che consenta la loro parificazione nel progresso. Gli Stati membri ritengono che una tale evoluzione risulterà sia dal funzionamento del mercato comune, che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi sociali, sia dalle procedure previste dal presente trattato e dal ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative». Il secondo, invece, stabilisce le materie e gli ambiti operativi su cui avviare l’azione politica «[…] La Commissione ha il compito di promuovere una stretta collaborazione tra gli Stati membri nel campo sociale, in particolare per le materie riguardanti: • l’occupazione, • il diritto al lavoro e le condizioni di lavoro, • la formazione e il perfezionamento professionale, • la sicurezza sociale, • la protezione contro gli infortuni e le malattie professionali, • l’igiene del lavoro, • il diritto sindacale e le trattative collettive tra datori di lavoro e lavoratori». Dal dettato degli articoli e dalla collocazione stessa della formazione professionale in un capitolo dedicato alla politica sociale, è possibile ricavare il significato e la funzione politica che il Trattato attribuiva alla formazione professionale, intesa come strumento di tutela sociale per accompagnare i processi di mobilità e di riqualificazione dei lavoratori. Considerata alla stregua della protezione dagli infortuni e dalle malattie professionali o dell’igiene del lavoro, la formazione professionale ripone la sua funzione privilegiata nella protezione delle fasce più deboli del mercato del lavoro senza pertanto agganci o interpolazioni con le politiche di investimento, né con le politiche dell’istruzione che, peraltro, non figurano né nel capitolo sociale, né altrove nel Trattato. Questo scarto esistente tra formazione professionale e istruzione caratterizzerà per almeno venti anni lo sviluppo delle politiche comunitarie in questi due settori, dal momento che la prima, riconosciuta sin dall’inizio come ambito d’intervento e d’interesse comunitario, supportato peraltro da un impegno economico congiunto (il Fse), ha avuto un’evoluzione interna alle istituzioni comunitarie, mentre le politiche per l’istruzione hanno a lungo avuto una gestione discontinua e di tipo intergovernativo. 1.3. La formazione professionale e la CEE Nei primi anni ’60 in cinque dei sei Paesi della Comunità il livello d’occupazione era ancora elevato; in Germania e nei Paesi Bassi, addirittura, la penuria di manodopera era concausa della instabilità dei costi e dei prezzi. Per contro, in Italia si registrava un livello di disoccupazione strutturale persistente. La formazione professionale, in sintonia con tali fabbisogni, era impegnata 8 essenzialmente come strumento compensativo per interventi specifici di sostegno ai lavoratori socialmente più vulnerabili di fronte all’evoluzione dei fabbisogni tecnici e tecnologici, attraverso azioni di qualificazione, riqualificazione o riconversione. La formazione professionale e il suo strumento finanziario più importante (il Fondo Sociale Europeo) trovavano ragion d’essere all’interno di quello che si può considerare il nucleo originale della politica di coesione economica e sociale della Comunità, promuovendo azioni tese a favorire le politiche di mobilità e il riequilibrio del mercato del lavoro. A tal proposito, vista la connessione tra la politica di formazione professionale e le istanze economiche e sociali, sembra utile esemplificare l’evolversi della funzione che si è andata attribuendo alla formazione professionale nei primi venti anni di integrazione europea. 1.3.1. Gli anni ‘60 Il 2 aprile 1963 il Consiglio adottava la Decisione relativa alla determinazione dei principi generali per l’attuazione di una politica comune di formazione professionale (GUCE 063 del 20/04/1963). Il documento, determinando in via preliminare il proprio ambito di azione, sanciva che «per politica comune di formazione professionale s’intende una coerente e progressiva azione comune che implichi, da parte di ciascuno Stato membro, la definizione di programmi e assicuri realizzazioni che siano conformi ai presenti principi generali e alle disposizioni di applicazione che ne deriveranno» (GUCE 063 del 20/04/1963: 1). L’impegno, assunto in questi termini dagli Stati membri, apre le porte non solo alle prime azioni congiunte, ma sancisce la concorde volontà di attuare politiche nazionali che si ispirino direttamente a principi comunemente accolti, creando, in tal modo, i presupposti per un ravvicinamento delle politiche nazionali di formazione professionale. La rilevanza di questa decisione, dunque, risiede eminentemente nell’aver reso istituzionalmente operativo l’art. 128 del Trattato CEE, tracciando il solco in cui si va ad incanalare tutta l’evoluzione della politica e della programmazione europea di formazione professionale. In applicazione della Decisione la Commissione adottava i primi due programmi di azione in materia di politica comune di formazione professionale (uno generale, l’altro specifico per il settore agricolo). I due programmi cofinanziati con le risorse del Fondo Sociale europeo prevedono due livelli di intervento: • un serie di misure di breve termine volte a favorire la mobilità delle riserve di manodopera esistenti nell’ambito della Comunità tra i vari paesi e tra i diversi settori economici (come ad esempio le misure di formazione di manodopera non qualificata, indennità di disoccupazione e sostegno alla mobilità geografica in favore dei lavoratori italiani colpiti da licenziamento a causa della riorganizzazione dell’industria dello zolfo); 9 • una serie di misure di medio e lungo termine (ad esempio l’elaborazione un elenco comunitario delle cognizioni e attitudini richieste per l’esercizio della professione del tornitore, nell’ottica del reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali7). L’esemplificazione delle azioni intraprese (in particolare quelle a breve termine) permette di cogliere la natura compensativa dei provvedimenti mentre il raffronto tra le esigenze a cui tali azioni rispondono e il peso effettivo della risposta, mette a nudo il carattere essenzialmente accessorio ed estemporaneo di queste operazioni: la politica comune di formazione professionale negli anni ’60 si caratterizzava per la forte contraddizione tra la domanda crescente di formazione provocata dall’incipiente dimensione di massa dei sistemi formativi e dagli effettivi bisogni di un mercato comune in espansione, e la risposta in termini di programmi e di interventi quantitativamente e qualitativamente inadeguata. Peraltro gli Stati membri si rendevano progressivamente conto che un rapido ritmo di sviluppo non confermava affatto le attese di piena occupazione e gli squilibri territoriali, caratterizzati da sacche di disoccupazione e penuria di manodopera, ponevano in evidenza l’esigenza di strumenti e programmi di più ampia portata. 1.3.2. La politica di formazione professionale a cavallo tra due crisi Al termine degli anni ’60, la domanda di formazione iniziava a non essere più legata esclusivamente a esigenze di riqualificazione professionale: una crescente domanda di educazione come istanza di mobilità sociale proveniva sia dalla massa di giovani che si riversavano nella scuola sia da parte degli adulti. I governi da parte loro non riuscirono a fare fronte all’onda d’urto provocata da una vera e propria esplosione educativa. La dilaniante contraddizione tra mezzi e contenuti propri di sistemi scolastici di stampo elitario e la vocazione democratica della domanda educativa ha condotto ad una crisi strutturale dei sistemi formativi che ha trovato la sua valvola di sfogo nei movimenti studenteschi del ’68. Il peso politico di quei fermenti fu notevole. Uno dei primi documenti comunitari che risente di quella temperie sono gli Orientamenti generali per l’elaborazione di un programma di attività a livello comunitario in materia di formazione professionale (GUCE 081 del 12/08/1971), adottati dal Consiglio nel luglio del 1971. Il documento parte da due considerazioni generali. La prima è un’autocritica all’inconsistenza quantitativa e qualitativa delle azioni svolte sino ad allora, in particolare per carenza di una metodologia di attuazione dei Principi generali del ‘63, per una scarsa distinzione tra obiettivi a breve e a lungo termine e per l’insufficienza dei mezzi finanziari disponibili. La seconda è la constatazione del cambiamento dei bisogni formativi rispetto all’inizio del mercato comune, laddove si legge che «le preoccupazioni dominanti che prevalgono 7 Cfr «Schema europeo per la formazione di operai qualificati su macchine utensili» (GUCE L219 del 05/10/1970). 10 attualmente nel settore della formazione professionale sono alquanto diverse da quelle esistenti all’inizio del mercato comune. Lo sviluppo economico, sociale, tecnico e pedagogico negli Stati membri induce gli ambienti responsabili a porre i problemi della formazione in termini nuovi, a considerare lo sviluppo dei sistemi di insegnamento e le misure di orientamento e di informazione professionale secondo modalità più adatte alle aspirazioni e alle capacità dei lavoratori, tenendo conto della struttura dei posti di lavoro offerti». Sulla base di queste considerazioni generali, il documento individua, come obiettivo finale, una «vera politica comune» di formazione professionale da « inserirsi in una politica dell’occupazione sempre più attiva a livello comunitario di cui il Fondo Sociale Europeo è uno degli strumenti». Di lì a tre anni i Capi di Stato e di Governo varavano il Programma di azione sociale (GUCE C13 del 12/02/1974). In quel torno di tempo, a seguito dell’introduzione del regime di risorse proprie della Comunità, era intervenuta la prima riforma del FSE e al vertice di Parigi erano stati sanciti i nuovi campi d’azione comuni non previsti dai Trattati: la politica regionale, la politica dell’ambiente e la politica dell’energia. Come si legge nel preambolo del Programma sociale, in quella sede i Capi di Stato e di Governo si sono trovati concordi nell’affermare «che l’espansione economica non è un fine a sé stante, ma deve tradursi in un miglioramento della qualità come del tenore di vita;» e che «un’azione vigorosa nel campo sociale riveste per essi un’importanza pari a quella della realizzazione dell’unione economica e monetaria ed hanno invitato le istituzioni delle Comunità a stabilire un programma d’azione sociale che preveda misure concrete e i mezzi corrispondenti, segnatamente nel quadro del Fondo Sociale Europeo […]» (GUCE C13 del 12/02/1974: 1). Il Programma di azione sociale rappresenta un importante punto di approdo di un periodo caratterizzato, come si è visto, da un grande fermento in materia di formazione professionale, sia perché raccoglie i frutti di quindici anni di dibattiti ed iniziative politiche, sia perché coincide con la conclusione di un ciclo, quello della piena occupazione (e con un modo di intendere e gestire la formazione professionale come ammortizzatore di situazioni specifiche di squilibrio economico e sociale). Eppure lo sforzo appezzabile di analisi e di rinnovamento del Programma non teneva inevitabilmente conto della congiuntura economica e politica che di lì a poco avrebbe mutato radicalmente le coordinate sociali di riferimento: il limite programmatorio del documento non riguarda pertanto le sue misure specifiche o le azioni adottate, quanto piuttosto la sua debolezza strutturale di fronte ai nuovi scenari che si venivano delineando all’indomani del primo shock petrolifero. Il ristagno economico e l’impennata inflazionistica facevano crescere vertiginosamente il tasso disoccupazione (ed in particolare la disoccupazione giovanile) su livelli mai conosciuti sino ad allora. 11 1.3.3. La politica di formazione professionale e la disoccupazione giovanile A partire dall’anno del primo shock petrolifero, ma in modo ancora più vistoso negli anni successivi, la disoccupazione diveniva un fenomeno non più localizzato in determinate regioni e s’imponeva all’attenzione dei governanti come problema diffuso e generalizzato in tutti i paesi della Comunità, anche quelli ad economia forte. In particolare le cifre mettevano in evidenza che una importante quota di disoccupazione era costituita da giovani al di sotto dei 25 anni di età. Nel 1977 oltre due milioni di giovani erano alla ricerca di un posto di lavoro. Questo fenomeno presentava aspetti congiunturali, in considerazione degli effetti negativi della crisi economica che aveva ridotto pesantemente il tasso di occupazione, ma mostrava anche e soprattutto nodi di carattere strutturale per via del forte incremento demografico della popolazione attiva associato alla contraddittoria politica di scolarizzazione di massa condotta sino ad allora. Da una parte, dunque, la stagnazione economica e l’incertezza monetaria frenavano la crescita e conseguentemente l’occupazione; dall’altra, la contraddizione tra il tipo di formazione obsoleta offerta ai giovani dai sistemi formativi e la richiesta di competenze professionali e abilità operative adeguate alle nuove realtà produttive e organizzative delle imprese, creava oggettive difficoltà a soddisfare le attese dei giovani scolarizzati e ingenerava nei giovani non qualificati una diffusa sfiducia nelle opportunità offerte dalla formazione. In sintonia con i dibattiti e gli impulsi di riforma avviati a livello nazionale, la disoccupazione giovanile diviene, da subito, ambito d’interesse anche a livello comunitario e l’urgenza di dare una risposta immediata al problema della qualificazione giovanile, implicò, per la prima volta a livello comunitario, il tentativo di riconsiderare la questione della formazione professionale nell’ambito più ampio e globale della politica d’istruzione. Nel 1976, infatti, il Consiglio e i Ministri della Pubblica Istruzione approvavano il primo Programma nel settore dell’istruzione (GUCE C38 del 19/02/1976), le cui misure specifiche da adottare venivano riprese nella Risoluzione del dicembre 1976 (GUCE C308 del 30/12/1976). L’importanza delle iniziative intraprese a livello europeo nella seconda metà degli anni ’70, al di là della parzialità dei risultati a breve termine, consiste nel primo tentativo di ampliare l’ambito e le implicazioni di un discorso formativo, di cui la formazione professionale facesse legittimamente parte. Inizia, infatti, ad affiorare, ancorché in modo incipiente, un’idea nuova ed innovativa del ruolo della formazione professionale nelle politiche del lavoro e nell’ambito dei sistemi formativi. Le iniziative legislative di quegli anni, sia a livello nazionale sia a livello comunitario, intese alla riqualificazione della forza lavoro, ne sono almeno a parole una conferma8. 8 A titolo esemplificativo l’art. 1 della Legge quadro italiana 845/78 definisce in questo modo le finalità della formazione professionale: «La formazione professionale, strumento della politica attiva del lavoro, si svolge nel quadro degli obiettivi della programmazione economica e tende a favorire l’occupazione, la produzione e l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro in armonia con il progresso scientifico e tecnologico» (GURI 362 del 30/12/1978: 1). 12 La formazione professionale, da misura di ammortizzatore degli squilibri provocati dall’innovazione, acquisisce dignità e credibilità tale per potersi inserire a pieno titolo nel quadro della programmazione economica: in questo senso, comincia a configurarsi come strumento attivo per l’occupazione. Questo capovolgimento di prospettiva può essere considerato a tutti gli effetti uno dei pilastri storici di quella che già allora veniva definita la «società dell’apprendimento». 1.4. I Fondi Strutturali e i primi anni del Fondo sociale europeo Uno degli impegni assunti dagli Stati membri con la firma del Trattato di Roma era quello di assicurare lo sviluppo armonioso, economico e sociale della Comunità e, in funzione di questo principio, sin dai primi anni vennero creati gli strumenti finanziari per dare corpo e sostanza alla politica sociale e alla riduzione delle disparità regionali nell’ambito della politica agricola comune. L’istituzione del Fondo Sociale Europeo (FSE) era prevista e regolamentata dal Trattato stesso (art. 3 e artt. 123-128), mentre il Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia Agricola (FEOGA), previsto dall’art. 40 per il finanziamento della PAC, venne creato nel 1962. 1.4.1. Il Fondo sociale europeo negli anni ‘60 Il FSE nasce con lo scopo di migliorare le possibilità occupazionali dei lavoratori all’interno del mercato comune contribuendo in tal modo alla crescita del loro tenore di vita, attraverso la promozione della mobilità geografica e professionale e di nuove opportunità di lavoro. Nell’intenzione dei firmatari del Trattato CEE, Il FSE nasceva come strumento di sostegno a cosiddette aree o situazioni di crisi o in ritardo di sviluppo, con particolare riferimento alle regioni meridionali italiane, che più delle altre rischiavano di subire il contraccolpo dell’allargamento del Mercato Comune. Il criterio di assegnazione dei fondi era stabilito dall’articolo 125 del Trattato e prevedeva, su richiesta di uno Stato membro, un rimborso del 50% delle spese sostenute dallo Stato o da un organismo di diritto pubblico: • per assicurare ai lavoratori una nuova occupazione produttiva mediante la rieducazione professionale o le indennità di nuova sistemazione; • per concedere ai lavoratori sussidi di disoccupazione per permettere loro di conservare lo stesso livello di retribuzione in attesa di essere pienamente occupati. Alla prova dei fatti, il Fondo così regolamentato non si rivelava un efficace strumento di politica di riequilibrio regionale. Il meccanismo del rimborso, infatti, subordinava l’intervento alla capacità di iniziativa e di spesa da parte degli Stati membri. Di conseguenza, la volontà di perseguire una solidarietà finanziaria, intesa a proteggere le regioni e le categorie di lavoratori maggiormente 13 esposte alla disoccupazione veniva ostacolata dalla minore capacità finanziaria e amministrativa degli Stati e delle regioni maggiormente depresse. Problemi aggiuntivi derivavano poi anche dalla carenza infrastrutturale di queste regioni. Gli aiuti elargiti, infatti, riguardavano le spese di formazione, il sostegno al reddito e il mantenimento dei tirocinanti, le spese generali, ma non prevedevano né la creazione di nuovi centri di formazione professionale né, soprattutto, il miglioramento qualitativo e organizzativo di quelli già esistenti. Ne conseguiva che l’inadeguatezza delle infrastrutture penalizzava le regioni più bisognose nell’accesso ai contributi, per il semplice fatto che non erano in grado di intraprendere autonomamente progetti sostenibili. Se a tutto questo si aggiunge la rigidità dei termini e delle condizioni di assegnazione di finanziamento e la ristrettezza dei beneficiari (venivano finanziate solo azioni promosse dallo Stato o da enti pubblici in favore dei lavoratori dipendenti disoccupati o sotto-occupati), ci si può rendere conto di quanto l’azione del FSE negli anni ’60 fosse scarsamente incisiva proprio nelle regioni che avrebbero dovuto esserne le maggiori beneficiarie9. 1.4.2. L’introduzione del sistema di risorse proprie nel bilancio comunitario La Conferenza dell’Aia del 1969 rappresenta una delle tappe fondamentali della storia della Comunità Europea. Dopo un periodo di incertezza politica, i governanti degli Stati membri decisero che, per mantenere fede agli obiettivi sanciti nel Trattato di Roma era necessario proseguire sulla via dell’integrazione. Si dichiararono pertanto favorevoli alla realizzazione di quell’unione economica e monetaria a lungo osteggiata dalla Francia e si accordarono su decisioni importanti, come lo stanziamento di risorse proprie della Comunità e la regolamentazione della politica agricola comune. La revisione del finanziamento del bilancio comunitario s’imponeva come problema prioritario e i motivi che rendevano opportuna l’adozione di un sistema di risorse proprie erano molteplici: • Il Trattato di fusione, firmato nel 1965 ed entrato in vigore due anni dopo, con il quale venivano unificate le istituzioni delle tre Comunità (CECA, CEE, EURATOM), imponeva un’armonizzazione dei bilanci; • L’impegno di realizzare un’unione economica e monetaria presupponeva un ampliamento del raggio d’azione della Comunità; • La revisione dei meccanismi di finanziamento comunitario era l’occasione per procedere ad un riequilibrio degli oneri finanziari degli Stati membri, rettificando alcune sperequazioni e ripartendo i contributi finanziari in maniera più conforme al prodotto nazionale dei vari Stati membri; 9 Il risultato più significativo che si ricava da un primo bilancio complessivo dell’attività del FSE nel periodo 19621975 è che la Germania Federale aveva usufruito di quasi il 42% delle risorse stanziate, rispetto al 37% percepito dall’Italia. 14 • I primi risultati ottenuti dai Fondi strutturali e la volontà di perseguire una concreta politica strutturale con un incremento quantitativo e qualitativo della stessa (nasceva in quegli anni l’idea di finanziare la politica regionale attraverso l’istituzione di un fondo ad hoc) era totalmente incompatibile con il sistema del rimborso. La decisione del Consiglio del 21 aprile 1970 (GUCE L94 del 28/04/1970) accoglieva gli accordi raggiunti durante il vertice dell’Aia e stabiliva che il finanziamento del bilancio passasse, tra il 1970 ed il 1975, dal sistema basato su contributi nazionali ad un sistema basato su «risorse proprie». Un cambiamento di questa portata non poteva non avere stretti legami con la riforma delle politiche strutturali, che, come si è visto, erano fortemente condizionate dalle forme di disponibilità finanziaria della Comunità e dalle relative procedure di finanziamento. Avvalendosi delle possibilità offerte dall’art. 12610 del Trattato di Roma, il Consiglio, allo scadere del periodo transitorio, decideva di mettere mano alla riforma del FSE, adottando nel febbraio del 1971 la Decisione n. 66 (GUCE L28 del 04/02/1971), che definisce i nuovi compiti del FSE11. In base a tale decisione, il Fondo interviene a favore delle persone appartenenti alla popolazione attiva che «dopo aver beneficiato di una misura di competenza del Fondo sono destinate ad esercitare un’attività subordinata» (art. 3); in casi particolari, il Fondo veniva esteso anche a favore di chi fosse destinato ad esercitare un’attività non subordinata12. Il meccanismo del rimborso veniva finalmente accantonato: la nuova normativa, infatti, nell’intento di collegare la natura degli interventi agli obiettivi dell’azione comunitaria, imponeva agli operatori la presentazione di un progetto e subordinava in tal modo la concessione del contributo ad un’approvazione preventiva del progetto stesso. Allo scopo di aumentarne il valore di impatto, il nuovo FSE disponeva di una riserva di stanziamento (pari al 5%) per promuovere e sostenere studi preparatori ed esperienze pilota per agevolare la Commissione nella scelta dei settori d’intervento e per favorire lo sviluppo e la diffusione delle tecniche e delle provvidenze più efficaci. 10 Art. 126: «Allo scadere del periodo transitorio, il Consiglio, su parere della Commissione e previa consultazione del Comitato Economico e Sociale dell’Assemblea, può: a) a maggioranza qualificata, disporre che non siano più concessi, in tutto o in parte, i contributi di cui all’art. 125; b) all’unanimità, determinare i nuovi compiti che possono essere affidati al Fondo, nel quadro del suo mandato, qual è definito dall’art. 123». 11 I regolamenti di applicazione della Decisione relativa alla riforma del Fondo Sociale Europeo sono in ordine cronologico: 2396/71, 2397/71, 2398/71, in GUCE L294 del 10/11/1971; 858/72, 165/72, in GUCE L101 del 28/04/1972. Di questi il regolamento 2396/71 è senz’altro il più importante, dal momento che specifica il campo di applicazione del FSE in relazione ad alcune categorie svantaggiate nell’accesso all’impiego: anziani, donne di età superiore ai 35 anni, giovani di età inferiore ai 25 anni, disabili. 12 Cfr regolamento 2398/71 (agricoltori e disabili). 15 Il nuovo Fondo rispetto a quello operante negli anni precedenti presenta aspetti innovativi tali da renderlo uno strumento più flessibile e mirato: più flessibile, perché in grado di finanziare una più ampia gamma di operazioni e beneficiari sulla base di criteri stabiliti a livello comunitario; più mirato, in funzione della possibilità di decidere in anticipo come spendere le proprie risorse e garantire una concentrazione del sostegno finanziario nelle aree e nei settori maggiormente bisognosi. Il Fondo si dota infine di una maggior capacità di intervento e questo è un fatto di notevole importanza, dal momento che il progressivo incremento della dotazione di bilancio condizionerà, nel corso dei decenni successivi, l’orientamento delle politiche nazionali non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche e soprattutto da un punto di vista qualitativo, spostando progressivamente il baricentro dell’orientamento politico dal piano delle politiche nazionali ad un piano di indirizzo europeo. 1.4.3. Un nuovo fondo per la politica regionale: il FESR L’arretratezza quantitativa e qualitativa delle infrastrutture e dei sistemi amministrativi, come rilevato, aveva pesantemente condizionato le regioni meno sviluppate della Comunità nell’accesso ai finanziamenti durante gli anni ’60, finendo per indebolire l’efficacia delle azioni condotte dai Fondi strutturali in quegli anni. Durante il vertice dei Capi di Stato e di Governo del 1972, tenutosi a Parigi venne riconosciuta la precedenza all’obiettivo di rimediare, nella Comunità, agli squilibri strutturali e regionali, in quanto pregiudiziali alla realizzazione dell’unione economica e monetaria attraverso la creazione di un nuovo strumento finanziario: il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR). Il regolamento per la gestione del FESR, analogamente agli altri fondi strutturali, ha subito successive riforme e modifiche sia in ragione dei risultati raggiunti e dei limiti emersi in fase attuativa sia per adattarlo al mutare delle condizioni politiche ed economiche, senza tuttavia modificare sostanzialmente i principi di fondo da cui è nato. Questo, almeno in parte, lo differenzia dalle programmazioni del FSE che, invece, nel corso degli anni hanno subito un’evoluzione significativa. Senza entrare nello specifico delle tappe storiche che hanno segnato la regolamentazione del FESR, in questa sede varrà piuttosto la pena annotare alcune riflessioni sulle maggiori innovazioni introdotte dal FESR nell’ambito della politica strutturale. La politica regionale, sin dalle sue prime esperienze, si basava su due principi generali: la concentrazione delle risorse e l’addizionalità degli interventi comunitari. Il primo è un principio implicito della politica di coesione regionale che nasce per rimediare agli squilibri in seno alla Comunità e comporta un’allocazione delle risorse commisurata ai fabbisogni più urgenti a livello di sviluppo regionale. Questo principio viene via via assumendo un’importanza strategica 16 fondamentale finché non diventa, alla fine degli anni ’80, un’idea comune a tutta la politica strutturale. Quello della concentrazione delle risorse, in conseguenza della necessità di ottimizzare le risorse e massimizzarne l’impatto, diviene un principio che non si limita più all’ambito territoriale, ma opera anche per orientare scopi, mezzi e strumenti dell’azione comunitaria: è sulla scorta di questo principio che nasce il concetto di priorità, a cui sono connessi gli obiettivi dei fondi strutturali. Il principio di addizionalità stabilisce che le risorse impiegate a livello comunitario sono contributi aggiuntivi per azioni prioritarie e strategiche all’interno di un quadro comunitario di sostegno: in quanto tali, non possono essere sostitutive degli interventi nazionali ma complementari ad essi. Questo principio ha due implicazioni importanti: da un lato, garantisce la concentrazione delle risorse e la natura allocativa degli interventi, dall’altro dovrebbe impedire che gli Stati membri decurtino le proprie dotazioni d’investimento in misura di ciò che ricevono dai fondi europei. Questo principio, che ha avuto per lungo tempo difficile attuazione, soprattutto in relazione alla difficoltà di verifica, costituisce un tratto distintivo del FESR, che, al pari del principio di concentrazione, si è andato estendendo all’intera programmazione della politica comunitaria di coesione. A ulteriore conferma del contributo di innovazione che il FESR ha portato alle politiche strutturali, occorre richiamare altri due principi fondamentali, la programmazione e la partnership, i quali pur non essendo espressamente citati nei regolamenti fino al 1984, hanno avuto nell’ambito della gestione delle risorse FESR uno dei terreni di coltura più fertili. Come rileva L. Monti, tra questi due principi esiste una forte interrelazione, giacché «la partnership trova una pratica applicazione solo in presenza di un’idonea programmazione». Proprio i primi anni di programmazione del FESR hanno permesso di mettere in luce la necessità di implementare questa sinergia. Con queste parole L. Monti commenta la terza fase di gestione del FESR, che ha preso avvio nel 1985 con il Regolamento n. 178 del 19 giugno 1984 e si è conclusa nel 1988: «Tale regolamento abbandona il modello della ripartizione delle quote fisse, introducendo delle forcelle, con una soglia minima e una massima per ogni singolo stato membro. La concessione dei contributi è, dunque, legata al numero e alla qualità dei progetti presentati dagli stati membri (il FESR non opera, infatti, direttamente, ma quale strumento di sostegno alla politica regionale) e garantisce comunque ad ogni stato membro un ammontare minimo delle risorse. La qualità dei progetti è commisurata all’intensità di alcuni parametri, come il livello di disoccupazione strutturale della regione interessata dall’intervento e alla sussistenza di alcune priorità. I progetti vengono analizzati dallo stato membro e dalle autorità regionali e trasmessi a Bruxelles per il finanziamento. Possono, così, essere presentati programmi comunitari, programmi nazionali di interesse comunitario, singoli progetti e studi. Questo sistema di gestione indiretta delle risorse ha sollevato qualche perplessità, in 17 quanto non favorirebbe un intervento coordinato sul territorio della Comunità. L’individuazione dei progetti, infatti, viene effettuata […] dai singoli stati, seguendo logiche proprie e tra loro difformi. Anomalia questa […] superata negli anni recenti con l’introduzione di una politica di coordinamento tra gli stati membri e l’affermazione del principio della programmazione, che supera l’approccio per progetti sino a quel momento prevalente» (Monti, 1996: 223-224). 1.4.4. Il Fondo sociale europeo dalle modifiche del 1977 alla riforma del 1983 Sulla base della clausola di riesame del regolamento del 1971, sei anni più tardi il Consiglio adotta le proposte della Commissione che modificano compiti e funzionamento del Fondo sociale europeo. Le novità di maggior momento vengono introdotte con la Decisione n. 801 che amplia lo spettro di intervento a sostegno dell’occupazione estendendo la pertinenza delle iniziative del Fondo dai soli lavoratori subordinati ai lavoratori autonomi e allarga la platea dei soggetti attuatori dagli organismi di diritto pubblico agli istituti o enti di diritto privato: con queste modifiche il FSE, strutturato per essere lo strumento privilegiato delle politiche dell’occupazione nelle mani delle Istituzioni europee, inizia ad avere come interlocutore diretto, oltre agli Stati membri, anche le parti economiche e sociali che costituiscono il tessuto connettivo delle realtà territoriali su cui vertono gli interventi. Su un solco aperto dal nascente FESR, inizia a delinearsi l’idea di coinvolgere all’interno della programmazione un numero sempre maggiore di soggetti diversificati, con lo scopo di garantire più incisività e sostenibilità agli interventi. Sempre la Decisione n. 801 introduce per la prima volta criteri di riparto e allocazione delle risorse e delle intensità di finanziamento tenendo conto dell’ampiezza dei problemi dell’occupazione e della capacità economica delle regioni in cui le operazioni vengono realizzate. Gli effetti di questa nuova politica allocativa delle risorse riesce finalmente a invertire la concentrazione finanziaria registrata nel decennio precedente: l’intervento del fondo, infatti, risulta maggiormente concentrato nelle regioni più arretrate (Italia, 30-40%) o in declino (Regno Unito, 20-25%)) della Comunità e la Germania che nella prima fase di gestione aveva avuto accesso a oltre il 40% delle risorse, si va attestando su valori decisamente ridimensionati (non oltre il 10%). Nonostante l’importante incremento di risorse del FSE nel periodo 1978-1982 (dai 620 milioni di ecu del 1978 a oltre un miliardo e mezzo del 1982), l’aggravamento continuo della situazione occupazionale e in particolare di quella giovanile spingono il Consiglio, nel 1983, a adottare nuove norme che disciplinano i compiti del FSE, attribuendo carattere prioritario alle misure a favore dei giovani e delle zone afflitte da lungo tempo da un elevato tasso di disoccupazione. Le modifiche introdotte rappresentano un’ulteriore e importante evoluzione per il Fondo che nato in sostanza come dispositivo finanziario di sussidio di disoccupazione e mobilità dei lavoratori, assume ora il 18 carattere di strumento delle politiche a favore dell’occupazione rivolto ad una più ampia ed eterogenea platea di target, in particolare: • ai giovani di età inferiore ai 25 anni, disoccupati, le cui possibilità di trovare un’occupazione sono particolarmente ridotte per mancanza di formazione o formazione inadeguata (il 75% delle risorse finanziarie del Fondo è riservato a questa categoria); • a persone di età superiore ai 25 anni (disoccupati e/o sotto-occupati, donne, disabili, migranti, occupati in piccole e medie imprese); • a persone che intendono esercitare l’attività di formatore, esperto in orientamento professionale o in collocamento, agente di sviluppo. Inoltre, il Fondo, come nella precedente gestione, continua a mantenere una quota di risorse (il 5%) per il finanziamento di progetti pilota a carattere esplorativo e dimostrativo o di studi volti a valutare l’efficacia degli interventi e a facilitare la diffusione e lo scambio delle buone prassi. 1.5. L’impegno intergovernativo in materia di istruzione La differente priorità attribuita alla formazione e all’istruzione nell’ambito del Trattato di Roma rende evidenza in modo esplicito della tradizionale riluttanza dei Paesi a far rientrare la politica di istruzione in un ambito sovranazionale e la difficoltà di approfondire e promuovere un processo di integrazione culturale in grado di conciliare la dimensione europea con le specificità e gli indirizzi dei sistemi nazionali. Da questo punto di vista, le implicazioni di una politica europea di istruzione pongono questo settore in relazione con il versante politico dell’integrazione europea più di quanto non avvenga per la politica di formazione professionale, tradizionalmente legata al versante economico. La conseguenza della frattura operata a livello di politiche europee tra istruzione e formazione professionale, due settori almeno idealmente limitrofi, ha comportato che mentre la politica di formazione professionale ha mantenuto un’evoluzione interna ai processi decisionali delle Istituzioni europee, la politica di istruzione si è basata, con alterne vicende fino a Maastricht, su iniziative di stampo intergovernativo. Dopo tentativi e proposte nella prima metà degli anni ’60 andati falliti sotto i colpi del Generale De Gaulle, ostile a qualsiasi progetto federale europeo13, occorrerà attendere l’onda d’urto dei movimenti studenteschi per trovare i temi dell’istruzione all’ordine del giorno dell’agenda politica europea. 13 Il vertice di Bonn del 1961 aveva avanzato la proposta di creare un Consiglio dei Ministri dell’Educazione Nazionale, con lo scopo di «istituzionalizzare» la politica dell’istruzione a livello europeo nel quadro di più ampio progetto di approfondimento dell’integrazione politica europea, caldeggiato dall’allora presidente della Commissione, Hallstein. 19 La necessità di dare risposte concrete, di fronte all’incalzare della protesta studentesca, all’inadeguatezza dei sistemi formativi e alle nuove istanze sociali, non mancò di farsi sentire neppure in sede comunitaria. Nel corso della conferenza dell’Aia del 1969 il problema educativo emerse come prioritario14 sollecitando l’interessamento e l’intervento dei Ministri dei Paesi della Comunità. In quella sede venne presa la decisione di convocare la Prima Conferenza dei Ministri dell’Istruzione dei sei Paesi membri che si tenne a Bruxelles nel novembre del 1971. Il carattere intergovernativo delle iniziative e la conseguente lentezza dei processi decisionali facevano sì che il dibattito progredisse sulla scia di proposte individuali come quella del sociologo Dahrendorf, allora nelle vesti di commissario europeo, che nel 1973 presentò un documento personale intitolato Programma di lavoro nel campo della Ricerca, Scienza e Educazione15. Con questo documento il sociologo tedesco intendeva promuovere una riflessione sugli obiettivi di breve e medio termine per rendere perseguibile una politica culturale di dimensione europea. L’anno successivo a conclusione della seconda conferenza dei Ministri della Pubblica Istruzione dei Paesi membri, vennero adottate due risoluzioni in cui traspaiono alcune delle proposte avanzate da Dahrendorf. Nella prima erano enunciati i principi della cooperazione in materia formativa, e cioè l’armonizzazione delle politiche educative in corrispondenza delle politiche economiche; la considerazione delle differenze nei vari sistemi educativi; la ricerca di un coordinamento attraverso la raccolta di documentazione statistica; la cooperazione tra istituti universitari intesa a facilitare la mobilità degli insegnanti, degli studenti e dei ricercatori. La seconda risoluzione riguardava il diritto di stabilimento e il riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche. Anche se le delibere di quella conferenza ebbero, come la precedente, un carattere interlocutorio, non prevedendo un vero e proprio programma di impegni e scadenze, aprivano di fatto la strada al Primo programma d’azione nel settore dell’istruzione (GUCE C038 del 19/02/1976)16. Questo programma, che può considerarsi a tutti li effetti come il primo contributo ad una politica per l’istruzione di respiro europeo, riveste 14 La Conferenza dell’Aia era stata preceduta, un mese prima, da un’importante dichiarazione dell’allora Ministro francese dell’Educazione Nazionale, O. Guichard, in cui si affermava: «Se l’Europa è diventata una realtà di destini, questo destino comune sarà in gran parte il frutto di quanto avremo o non avremo fatto nel campo dell’istruzione e della cultura […]. L’approfondimento della nostra Comunità Europea esige che essa non si limiti soltanto all’amministrazione di uomini e cose del tempo presente, bensì che essa si consacri anche a preparare un avvenire comune, cioè educare e formare coloro che saranno i responsabili dell’Europa. […] Una politica europea della pubblica istruzione è indispensabile perché le società europee sono alle prese con gli stessi problemi. Studiandoli in comune, sarebbe possibile reperire mezzi adeguati alla loro misura e soluzioni comuni impedirebbero l’irreparabile divergenza delle nostre strade» (in Ferraro Bertolotto, 1978: 33). 15 Il documento è pubblicato in Boll. CE, suppl. 10/1973. 16 Il documento aveva lo scopo prioritario di definire gli obiettivi fondamentali dell’azione comunitaria, in particolare: • la formazione professionale e culturale dei cittadini migranti; • maggiori possibilità per il riconoscimento accademico dei titoli e dei periodi di studio; • l’intensificazione dei contatti tra i sistemi di istruzione e formazione in Europa; • la promozione della mobilità dei docenti, degli studenti e dei ricercatori; • l’insegnamento delle lingue; • le pari opportunità in materia d’accesso all’istruzione. 20 un’importanza rilevante nella storia della cooperazione europea in materia di istruzione e formazione perché ha contribuito a creare le premesse per l’avvio degli specifici Programmi di azione comunitaria attuati a partire dal 1986 che tanta parte hanno avuto e continuano ad avere nel processo di integrazione culturale e politica dell’Europa. 1.6. Gli anni ’80 e la politica dei nuovi posti di lavoro Nella prima metà degli anni ’80 il tasso di disoccupazione nella Comunità prosegue la sua ascesa iniziata all’indomani del primo shock petrolifero. Sebbene un’analisi confacente di questo fenomeno non rientri nello scopo del presente lavoro, tuttavia sembra utile tratteggiare le scelte politiche nazionali in materia di occupazione in quegli anni, al fine di rendere idea dei mutamenti occorsi a livello economico e sociale rispetto agli anni ’60. Nei primi anni ’80, la gravità della situazione economica e i conflitti sociali che questa innescava, hanno spinto i governi nazionali ad ripensare le tradizionali misure di sostegno all’occupazione: le misure attuate sino ad allora erano state sempre e solo misure di protezione sociale in funzione anticiclica, legate cioè ad una logica di alternanza, nell’economia capitalistica, di fasi di sviluppo e fasi di contrazione: ma l’intreccio di una grave recessione e di una ripida inflazione metteva in crisi i tradizionali orientamenti delle politiche economiche. La preponderante percentuale di disoccupazione giovanile, se da un lato ha catturato l’attenzione sull’inadeguatezza dei sistemi formativi tradizionali favorendo la promozione d’importanti iniziative di raccordo o alternanza tra formazione e lavoro, dall’altro ha indotto ad un atteggiamento attendista, legato alla convinzione che si potesse contare su fattori inerziali, primo tra tutti, il decremento demografico, previsto per la metà degli anni ‘90. I provvedimenti connessi alla disoccupazione giovanile di quegli anni, infatti, erano intesi o ad affiancare questa strategia dilatoria, come ad esempio il prolungamento dell’obbligo scolastico (che se da un lato rispondeva alla necessità aumentare i livelli di scolarizzazione e promuovere la riqualificazione di massa dei giovani, dall’altro comportava come conseguenza diretta una maggiore ritenzione dei sistemi formativi) o ad ammorbidirne l’attrito sociale attraverso incentivi alle imprese per l’occupazione giovanile o dispendiose politiche di prepensionamento. Altro fattore inerziale su cui gli indirizzi neoliberisti di quegli anni facevano gran conto era la ripresa economica. Fu in quegli anni che s’iniziarono ad avviare i primi programmi di riconversione e ristrutturazione industriale, apparsi necessari sin dai primi anni ’70. Tuttavia, apparve chiaro sin da subito che riconversione industriale e investimenti di razionalizzazione volevano dire una drastica contrazione della base occupazionale del settore industriale. Le speranze dei politici e le previsioni degli economisti guardavano alla salvifica espansione del settore terziario. 21 In relazione a queste previsioni presero forma i più importanti provvedimenti di natura strutturale in materia d’occupazione degli anni ‘80. L’incipiente necessità di alleggerire il costo del lavoro, in base ai valori dettati dalla concorrenza, e di introdurre una maggiore flessibilità e mobilità nel mercato del lavoro, diede il via a nuove tipologie contrattuali: contratti part-time, contratti a termine, assunzioni nominative, contratti di formazione e lavoro. Ma, negli anni ’80, la politica per l’occupazione di maggior peso, i Paesi europei l’hanno condotta nel settore del pubblico impiego. Gli occupati in questo settore, nell’ambito dell’Unione Europea, sono stati cinque milioni. I governi, in poche parole, dovendo scegliere tra sussidi di disoccupazione di massa e un’espansione della pubblica amministrazione, hanno preferito assumere la forza lavoro espulsa dall’industria agendo come datori di lavoro di ultima istanza. Gli Stati, in quel periodo, hanno profuso le proprie risorse per attuare una vera e propria politica di assunzioni dirette. I primi bilanci delle iniziative finora descritte furono indubbiamente positivi, se non altro, fino a quando non si sono esaurite le risorse a disposizione. Le riconversioni industriali, la progressiva diminuzione dei prezzi delle materie prime e il conseguente tamponamento dell’inflazione hanno creato i presupposti per la ripresa economica. Ma l’eredità lasciata dagli anni ’80 non è per nulla confortante. La ripresa, infatti, è durata il tempo di rendersi conto che i bilanci statali non reggevano al confronto con le spese intraprese: l’elevata spesa sociale, i prepensionamenti, i sussidi di disoccupazione e gli aiuti alle grandi imprese, un apparato burocratico pletorico hanno aumentato esponenzialmente deficit e debito pubblico e appesantito i costi sociali del lavoro. I governi nazionali ben presto si sono visti costretti a impegnarsi in politiche di rigore, riducendo pesantemente il numero di assunzioni pubbliche e avviando progetti di «razionalizzazione» del sistema di welfare. Le innovazioni e le riconversioni produttive hanno sollevato i Paesi europei dalla condizione di arretratezza in cui versavano durante gli anni ’70 ma la globalizzazione dell’economia e della finanza finiva per esporre gli Stati economicamente più deboli o instabili ai rischi di fuga dei capitali e di speculazione monetaria. Per quanto concerne la politica dell’occupazione poi, l’unico cambiamento persistente, conseguenza diretta delle misure a favore dell’occupazione giovanile e dell’incipiente decremento demografico, è stato il visibile innalzamento dell’età media della popolazione dei disoccupati. Il settore terziario, infine, su cui si riponevano le speranze degli anni ’80 è andato incontro, a partire dai primi anni ’90, ad una «ristrutturazione molto simile a quella attraversata dai settori manufatturieri nel decennio precedente» (OIL, 1993: 19-20). Tutti queste trasformazioni hanno rivoluzionato il concetto stesso di lavoro, nei contenuti, nella dimensione sociale, nella dimensione individuale (in rapporto alle biografie e ai tempi di vita delle 22 persone). Questo cambiamento copernicano segna il confine tra la politica per l’occupazione degli anni ’80 e quella degli anni ’90. 23 Capitolo 2 La volontà politica, per sostanziale che sia, non vale niente senza solide istituzioni. (Jacques Delors, 1997) 2) Dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Amsterdam 2.1. L’Atto Unico Europeo e la politica sociale. La firma dell’Atto Unico Europeo (AUE), avvenuta il 17 febbraio 1986 a seguito di un lungo percorso politico avviato all’inizio degli anni ’70 con i vertici di Parigi e segnato da ripetuti arresti e faticosi compromessi, segna una fase di svolta nella storia della Comunità Europea per due motivi essenziali: • Innanzitutto, il nuovo trattato introduce novità immediatamente visibili, come l’estensione dei settori d’intervento della Comunità, l’impegno di completare il mercato unico entro il 1992 e alcune modifiche anche sostanziali di carattere istituzionale. • In secondo luogo, con l’Atto Unico si inaugura quel periodo che va dal 1985 al 1994 durante il quale le Commissioni presiedute dall’economista francese Jacques Delors impressero una notevole accelerazione al processo d’integrazione europea animando un dialogo sociale a livello comunitario capace di aggregare il carattere prioritario dell’integrazione economica intorno alla visione sociale della costruzione europea, ritenendo i fattori economici e quelli sociali come componenti inscindibili di un unico modello politico e culturale di sviluppo. L’art. 23 dell’AUE introduce ex-novo nel Trattato CEE il Titolo V sulla «Coesione economica e sociale». Questo titolo, composto di cinque articoli ha l’importanza di istituzionalizzare la politica comunitaria di coesione economica e sociale: il compimento del mercato unico e il progresso dell’integrazione europea venivano organicamente raccordati. L’obiettivo di superare le differenze strutturali tra le regioni europee, necessitava tuttavia di maggiore e rinnovata solidarietà e cooperazione. Non più un semplice sostegno alle politiche nazionali, bensì politiche e meccanismi istituzionalizzati ad un livello sovranazionale, volti a creare le condizioni favorevoli per uno 24 sviluppo armonioso ed equilibrato della Comunità nel suo complesso. A tale proposito l’art. 130A costituisce l’esplicito riconoscimento e il fondamento giuridico della politica regionale comunitaria, che nel Trattato di Roma invece era formulata solamente in termini impliciti. L’articolo, infatti, stabilisce che «per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme della Comunità, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica e sociale». Lo stesso articolo prosegue chiarendo l’obiettivo istituzionale della Comunità consistente nel «ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e il ritardo delle regioni meno favorite». Il valore della solidarietà viene fatto proprio dai singoli Paesi. L’articolo 130B, infatti, chiarisce che gli Stati membri hanno l’obbligo di coordinare la loro politica economica con quella comunitaria al fine di realizzare gli obiettivi riconosciuti dall’art. 130A e consistenti sia nello sviluppo armonico della Comunità sia nel superamento delle disparità regionali. In particolare, la disposizione contenuta nell’art. 130B prosegue indicando anche gli strumenti finanziari atti a favorire il perseguimento dei suddetti obiettivi e cioè i fondi a finalità strutturale (FEOGA, FSE, FESR) e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI). Per avere un’idea del peso che questo settore andava assumendo nell’ambito delle politiche comunitarie, si pensi al fatto che tra il 1988 e il 1992 l’ammontare dei fondi strutturali è passato dal 17% al 27% dell’intero bilancio comunitario. Tuttavia, il pur cospicuo aumento delle risorse non poteva risolvere, da solo, problemi di natura strutturale di cui soffrivano molte regioni del territorio comunitario. A tal fine, l’art. 130D auspicava una riforma complessiva dei fondi strutturali che potesse razionalizzare gli interventi di coesione e rafforzarne al contempo l’efficacia. 2.2. Il “Primo Pacchetto Delors” e la Programmazione 1989-1993 Prima ancora della ratifica dell’Atto Unico, la Commissione Delors, il 18 febbraio 1987, presentava al Parlamento europeo un programma di lavoro intitolato Portare l’Atto Unico al successo (Boll. CE, suppl. 1/87) e passato alla storia come «Primo Pacchetto Delors». Il documento, prendendo atto degli impegni assunti in sede di Consiglio europeo e al contempo delle difficoltà di bilancio emerse nel recente passato, lanciava un ambizioso complesso di proposte intese a dotare la Comunità delle risorse necessarie per realizzare le riforme indispensabili e tradurre in realtà l’AUE. Proprio l’Atto Unico, infatti, apriva la via a nuove frontiere e nuovi obiettivi, che lo stesso Delors riassume in sei punti nell’esordio del documento: • la realizzazione di un grande mercato senza frontiere; • la coesione economica e sociale; • una politica comune di sviluppo scientifico e tecnologico; • il rafforzamento del Sistema Monetario Europeo (SME); 25 • il perseguimento di una dimensione sociale europea; • un’azione coordinata in materia d’ambiente. La necessità di avviare un ampliamento delle politiche di competenza comunitaria comportava che si giungesse a meccanismi più efficaci ed efficienti di composizione e gestione del bilancio e ad un accordo sull’aumento delle risorse proprie che trovò concordi i Capi di Stato e di Governo durante il Consiglio europeo di Bruxelles del 198817. Il rinnovato assetto costitutivo e finanziario della Comunità europea e l’esperienza dei Programmi Integrati Mediterranei (PIM) introdotti per sostenere l’entrata dei nuovi Paesi mediterranei18, fanno da sfondo ad uno dei cambiamenti di maggior rilievo nella storia dei Fondi strutturali e del Fondo sociale in particolare. Con i Regolamenti n. 2052 e 4253, noti rispettivamente come Regolamento-quadro e Regolamento di coordinamento (GUCE L185 del 15/07/1988 e GUCE L374 del 31/12/1988) il Consiglio varava una riforma complessiva dei Fondi con l’intento di dare vita ad una vera e propria politica strutturale comunitaria. Sino ad allora, infatti, i Fondi finanziavano singoli progetti presentati da ciascuno Stato membro e concepiti nell’ambito di programmi di propria esclusiva competenza. Le misure della politica strutturale, se di questo si può parlare fino alla riforma del 1988, si erano tradotte in una ridistribuzione territoriale «a macchia di leopardo», spesso incoerente per il suo carattere disseminativo e per la mancanza di una pianificazione adeguata alle reali priorità: la connessa impossibilità di verificare e tesaurizzare le esperienze significative, limitava l’impatto dell’azione strutturale a singoli casi d’intervento. I limiti di una programmazione annuale, per di più, restringevano fortemente la portata e l’efficacia dei progetti cofinanziati. Con la riforma dei Fondi del 1988 si chiude la stagione dei progetti e si apre quella dei programmi19. A questo scopo, il Regolamento-quadro, nei primi due articoli, individua cinque obiettivi prioritari della politica strutturale e specifica i fondi atti a perseguirli: • Obiettivo 1: promuovere lo sviluppo e l’adeguamento delle regioni in ritardo di sviluppo (FEOGA, FESR, FSE); 17 Veniva deciso altresì il raddoppio in termini reali entro il 1993 dei fondi strutturali per adeguare i mezzi alle nuove ambizioni della politica di coesione economica e sociale (cfr Capitolo 3). Per contro, veniva intrapresa una politica di compressione delle politiche agricole, che non avrebbero potuto più superare i due terzi delle uscite di bilancio. 18 I Programmi Integrati Mediterranei (PIM), approvati nel 1985 (GUCE L197 del 23/07/1985) con l’obiettivo di «migliorare le strutture socio-economiche delle regioni meridionali della Comunità», rappresentano un primo tentativo di integrare interventi di varia natura, nazionali e comunitari nell’ambito di «un’impostazione programmata e pluriennale». 19 “L’elemento in questione da mettere in evidenza è rappresentato dall’evoluzione subita dal Fse che da strumento di finanziamento delle politiche nazionali assume una funzione di strumento inteso a favorire la convergenza programmatica a lungo termine tra obiettivi nazionali e finalità di ampiezza comunitaria” [Gagliardi, 2001: 31]. 26 • Obiettivo 2: riconversione di «regioni, regioni frontaliere, o parti di regioni (compresi i bacini d’occupazione e le comunità urbane) gravemente colpite dal declino industriale. (FESR e FSE); • Obiettivo 3: promuove la lotta contro la disoccupazione di lunga durata (FSE); • Obiettivo 4: facilitare l’inserimento professionale dei giovani (FSE); • Obiettivo 5: a) Obiettivo 5a: accelerare l’adeguamento delle strutture agrarie (FEOGA, sezione orientamento); b) Obiettivo 5b: promuovere lo sviluppo delle zone rurali (FEOGA, FESR, FSE). Il cambiamento della politica strutturale promosso dalla Commissione era veramente epocale, dal momento che segnava una netta cesura rispetto al passato sia dal punto di vista finanziario, dato il cospicuo aumento delle risorse impegnate, sia dal punto di vista di contenuto. I principi cardine della riforma sono: • la programmazione pluriennale; • il partenariato istituzionale, economico e sociale; • la complementarità degli interventi comunitari rispetto a quelli nazionali; • la concentrazione delle risorse su settori, aree e target maggiormente bisognosi. Nonostante i riferimenti alla fase programmatoria presenti nel Regolamento-quadro e la scansione del disegno programmatorio prevista dal Regolamento di coordinamento, non esiste una definizione univoca del principio della programmazione, che, in qualche modo, può essere considerata una metodologia complessa di gestione efficiente di risorse limitate fondata sui seguenti presupposti: • la conoscenza della realtà sulla quale si vuole intervenire; • la fissazione di precisi obiettivi che si intendono raggiungere; • la predisposizione di strumenti di valutazione e monitoraggio; • la possibilità di azioni di correzione20. 20 In via esemplificativa, è possibile individuare almeno cinque fasi principali di questo processo: la fase pianificatoria, elaborata a livello di singoli Stati membri e incentrata attorno ai piani di sviluppo regionale (PSR), in cui sono fissati obiettivi specifici e quantitativi, gli indicatori di impatto sull’ambiente e sull’occupazione, una tabella finanziaria delle risorse finanziarie nazionali e comunitarie; 2. la fase programmatoria dei Quadri Comunitari di Sostegno (QCS), approvati con decisione della Commissione in accordo con lo Stato membro interessato nel quadro della compartecipazione; 3. il processo attuativo incentrato sul programma operativo (PO) nell’ambito degli interventi programmati nel QCS; 4. la fase di monitoraggio e valutazione «al fine di rafforzare l’efficacia dei metodi d’intervento, per realizzare gli obiettivi e valutare l’impatto dei contributi»; 5. la fase di riprogrammazione attraverso possibilità di modificare e adattare i QCS in funzione delle nuove informazioni e dei risultati registrati durante il monitoraggio e la valutazione. 1. 27 Ulteriore principio è quello del partenariato che comporta la necessità di operare secondo un metodo di concertazione tra i diversi soggetti coinvolti nell’esecuzione dei Programmi, al fine di garantire il massimo di unitarietà, coerenza ed efficacia agli interventi. Nella pratica questo principio si traduce nel coinvolgimento delle parti sociali ed economiche oltre che delle autonomie locali: le prime in quanto espressione dei destinatari degli interventi, le seconde in quanto soggetti istituzionali maggiormente capaci di interpretare e rispondere ai reali bisogni del territorio. Degli altri due principi si è gia parlato al paragrafo 1.4.3. Infine vale la pena aggiungere che i quattro principi richiamati sono corollari di un quinto principio fondamentale che li assomma e ricomprende, ovvero il principio di sussidiarietà che sostanzia l’intervento dei fondi comunitari come livello sovraordinato di governo legittimato ad intervenire laddove e nella misura in cui i livelli nazionali da soli in bastano a dare risposte adeguate e commisurate ai fabbisogni economici e sociali. Infine, con specifico riferimento al Fondo sociale europeo occorre annotare come la progressiva evoluzione da ammortizzatore sociale a fondo di investimento destinato alla valorizzazione delle risorse umane trovi in questa programmazione una tappa decisiva grazie anche alla mobilitazione di un ammontare di risorse sino ad allora mai raggiunto (25,3 miliardi di ecu). La formazione professionale e più in generale la valorizzazione delle risorse umane, infatti, assurgono ad un ruolo strategico e trasversale a tutta la Programmazione, sulla scorta dell’idea che gli investimenti in formazione, inseriti in una strategia macroeconomica di sviluppo, garantiscono valore aggiunto in termini di innovazione, competitività e occupazione, e favoriscono l’avvio di processi virtuosi e dinamici di crescita. 2.2.1. Le iniziative comunitarie Un’altra importante novità nell’ambito della riforma dei Fondi strutturali del 1988 è costituita dalle Iniziative comunitarie. L’art. 11 del Regolamento di coordinamento stabilisce che «la Commissione può, di propria iniziativa […], decidere di proporre agli Stati membri di presentare richieste di contributo per azioni che rivestono un interesse particolare per la Comunità». Con tale decisione si è voluto assicurare allo strumento strutturale una maggiore incisività, potendo intervenire in aree più vaste di quelle nazionali o regionali previste dai QCS nazionali e consentendo la sperimentazione di nuove soluzioni e il confronto su più realtà nazionali: innovazione e transnazionalità degli interventi sono dunque i due aspetti distintivi di questi nuovi strumenti. Questi due principi mirano a garantire due obiettivi chiave nella prospettiva di ampliamento dell’integrazione europea. Da un lato, il carattere specifico e mirato degli interventi – tesi a «risolvere problemi che minacciano le condizioni dei suoi cittadini o ne frustrano le capacità di 28 accedere al benessere crescente offerto dal mercato interno» (COM (93) 282 def.: 2) – accresce la visibilità delle azioni della Comunità agli occhi dei suoi cittadini rafforzandone il sentimento di appartenenza e di identità europea. D’altro canto, la cooperazione transnazionale e lo sfruttamento congiunto delle conoscenze mirano a creare le condizioni migliori per la ricerca e la sperimentazione. La promozione della cooperazione e degli scambi di conoscenze tra coloro che nei vari Stati membri fronteggiano problemi analoghi, non solo è garanzia di una maggiore incisività ed efficacia delle azioni svolte ma sviluppa ampie e durature reti di scambio e confronto tra le diverse realtà locali, dando vita a un vero e proprio laboratorio permanente di dimensione europea per la ricerca, lo sviluppo e la diffusione di approcci e pratiche innovative. Per questo motivo, le Iniziative comunitarie e i Programmi di azione, pur assorbendo una quantità di risorse limitata hanno sviluppato e continuano a sviluppare un valore aggiunto complessivo considerevole e comunque sempre sovradimensionato rispetto all’efficacia e all’impatto dei singoli interventi, grazie proprio al valore culturale e al contenuto innovativo dei progetti21. 2.3. I Programmi di azione comunitaria Il primo Programma di Azione Comunitaria nel campo dell’istruzione del 1976 ha costituito una sorta di apripista di una pluralità di Programmi che la Commissione europea ha iniziato a promuovere in favore di un’ampia tipologia di destinatari (imprese, università, centri di ricerca, pubbliche amministrazioni, centri di formazione ecc.) attraverso lo sviluppo di azioni pilota, con funzioni esplorative e innovative22. Con la ratifica dell’Atto Unico Europeo e l’insediamento della Commissione Delors, al pari di quanto emerso per le politiche di coesione, anche i programmi comunitari hanno subìto un nuovo e importante impulso proprio sulla scorta del rilancio delle politiche europee per lo sviluppo delle risorse umane come parte integrante delle strategie comunitarie di sviluppo e di crescita economica e sociale. 21 Nel Libro Verde sulle iniziative comunitarie del 1993, facendo un bilancio dei primi progetti, la Commissione sostiene che «le iniziative comunitarie hanno riscosso interesse, generato idee e fornito un quadro di cooperazione in una misura del tutto superiore alle dimensioni delle risorse impegnate. A questo risultato, infatti, hanno concorso congiuntamente vari fattori: il carattere innovativo dell’iniziativa (INTERREG, PRISMA), la partecipazione, ad esempio, al più ristretto livello locale (LEADER), il carattere specificamente mirato riguardante target specifici (NOW, HORIZON), il raccordo con altre attività e politiche (ENVIREG, STRIDE) ecc» (COM (93) 282 def.: 7). 22 Sono di quegli anni i Progetti pilota per il passaggio dei giovani dalla scuola alla vita attiva, volti a promuovere lo scambio di esperienze tra gli insegnanti e tra gli amministratori di questo specifico settore; il Programma ARION, che promuoveva visite di studio per esperti nel settore educativo al fine di rafforzare la reciproca conoscenza dei sistemi scolastici; la rete d’informazione EURYDICE, volta a favorire la raccolta, lo scambio e la diffusione d’informazioni relative ai sistemi scolastici e alle attività comunitarie nel campo dell’istruzione. 29 Parallelamente alla riforma dei Fondi, vengono promossi una serie di programmi europei direttamente o indirettamente incentrati sull’istruzione e la formazione, caratterizzati al pari delle iniziative comunitarie dai principi dell’innovazione e della transnazionalità. La dimensione sperimentale e l’innovazione connotano sia il contenuto di programmi specifici23 sia l’impianto metodologico comune a tutti i programmi, le cui finalità e ricadute si proiettano oltre l’effetto a breve termine dei singoli interventi, in termini di sostenibilità, trasferibilità e impatto sui sistemi, sulle pratiche e sulla programmazione ordinaria. La transnazionalità, al pari del principio dell’innovazione, si presenta sia come elemento trasversale ai programmi e alle iniziative comunitarie sia come contenuto specifico che si concretizza nelle esperienze di mobilità. Dalla seconda metà degli anni ’80, il rinnovato impegno di completare il mercato unico per il 1992, fa sì che queste esperienze vengano sensibilmente ampliate dalla Commissione con il lancio di alcuni nuovi programmi che diverranno nel tempo veri e propri simboli dell’integrazione tra i popoli dell’Europa quali: • ERASMUS, per promuovere la mobilità di studenti e docenti universitari e sviluppare una vasta rete di cooperazione fra le università degli Stati membri; • GIOVENTÙ PER L’EUROPA, volto a migliorare, sviluppare e diversificare i progetti di scambio e mobilità dei giovani di età compresa tra i 15 e i 25 anni; • TEMPUS, per promuovere la mobilità transeuropea nell’insegnamento superiore; • LINGUA, per promuovere la conoscenza delle lingue straniere allo scopo di migliorare la comprensione e la solidarietà tra i popoli della Comunità, pur tutelando e conservando le diversità linguistiche e culturali dell’Europa. Come dimostreranno i fatti, di lì a qualche anno, questi nuovi programmi, unitamente alle altre esperienze analoghe previste nell’ambito del Programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico (SCIENCE), collocano le esperienze di mobilità europea in un contesto strategico ben più ambizioso e organico rispetto al passato. La novità dei programmi delle Commissioni Delors è costituita dalla volontà di non limitarsi a promuovere esperienze isolate di mobilità ma di raccordarle in un preciso 23 In questo contesto si collocano programmi quali: • COMETT, inteso a incentivare la cooperazione fra università e imprese per migliorare l’alta formazione in funzione delle nuove tecnologie; • EUROTECNET, per promuovere il confronto e la diffusione delle esperienze, la creazione di reti europee di progetti dimostrativi e di coordinamento delle ricerche in materia di formazione professionale collegata alle nuove tecnologie; • FORCE, per incoraggiare gli investimenti e promuovere le innovazioni e gli scambi di esperienze di formazione continua dei lavoratori in impresa. In sinergia con queste azioni, la Commissione ha promosso, nell’ambito del Programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico nato a seguito dell’AUE, anche il Programma DELTA (Development of European Learning trough Tecnological Advance), mirato a favorire uno sviluppo congiunto e la diffusione delle tecnologie avanzate dell’informazione e delle telecomunicazioni in materia di istruzione e formazione professionale. 30 disegno politico, teso a rafforzare e consolidare la cultura dell’interscambio e dell’interdipendenza dei popoli europei, nonché il senso di vicinanza, interesse e attiva adesione dei cittadini alla causa europea. Una politica di ampio respiro, volta all’eliminazione degli ostacoli della libera circolazione delle persone e delle idee, alla riduzione delle disparità regionali, all’integrazione tra sistema formativo e mondo del lavoro, al potenziamento della capacità delle imprese di rispondere ai mutamenti strutturali e tecnologici e di sfruttare le prospettive occupazionali di un mercato del lavoro di dimensione europea. In tal senso, i nuovi programmi promossi dalla Commissione non hanno incentivato una circolazione delle persone fine a sé stessa ma hanno contribuito ad europeizzare, attraverso la mobilità, i sistemi nazionali di istruzione, di formazione e di ricerca promuovendo un reale e tangibile processo di integrazione civile e culturale24. 2.4. Il programma di azione delle Commissioni Delors In seguito alla firma dell’Atto Unico, l’istruzione e la formazione professionale acquistano nuova rilevanza strategica nelle ambizioni politiche della Commissione europea, quali strumenti fondamentali per affrontare vecchi e nuovi problemi. Nella Comunicazione intitolata “Istruzione e formazione nella Comunità europea – Orientamenti a medio termine: 1989-92” si legge: «La nuova Commissione ha pertanto deciso di mettere l’istruzione e la formazione al primo posto delle sue priorità, al fine di promuovere un nuovo impegno comunitario che si traduca in investimenti nelle risorse umane destinati a migliorare le competenze, la creatività e la versatilità. Senza tali investimenti, ora e in futuro, sarà gravemente ostacolata la capacità per l’Europa di innovare, essere competitiva e creare ricchezza e prosperità per tutti i suoi cittadini. Mettere l’accento sulle risorse umane significa creare un ponte tra le varie strategie economiche e sociali; costituisce altresì un fattore chiave per la promozione della libera circolazione e gli scambi di idee, oltre alle quattro libertà (beni, servizi, capitale e persone) previste nel Trattato di Roma. Ciò è indispensabile affinché tutti i cittadini europei partecipino in modo più efficace alla configurazione e ai valori fondamentali della Comunità di fronte alle attuali sfide» (COM (89) 236 def.: 1). Il programma di azione della Commissione Delors si articola intorno ad un progetto macroeconomico di sviluppo in cui gli investimenti sulle risorse umane occupano un ruolo connettivo di sinergia con tutte le altre politiche d’intervento. 24 «I programmi comunitari, e in particolare Erasmus, hanno […] prodotto una nuova impostazione della cooperazione accademica internazionale in Europa. La creazione di uffici per le relazioni internazionali o europee presso le università costituisce un’ampia testimonianza dell’impegno istituzionale delle università e di altri istituti di istruzione superiore nel processo di europeizzazione dei loro programmi di studio e di insegnamento. Migliori accordi di riconoscimento accademico, migliori servizi di assistenza ed una maggiore cooperazione per le discipline con minore orientamento internazionale sono tutti i segni del nuovo sentimento di priorità di cui è investita la cooperazione europea» (COM (93) 183 def. : 6). 31 La formazione professionale, in virtù dei nuovi approcci metodologici e della sua accezione estesa a tutto l’arco della vita, viene accrescendo notevolmente raggio d’azione e aspettative: il suo compito, infatti, non si limita più all’adattamento eteronomo delle persone ai mutamenti del mercato del lavoro (funzione reattiva) e diviene sempre più la preparazione delle persone a saper promuovere e gestire autonomamente il cambiamento, ad accogliere con mente aperta la sfida della società dell’apprendimento (funzione proattiva). E forse anche di maggiore portata è il mutamento nella politica di istruzione rispetto al Programma d’azione del 1976. Il rilancio della dimensione europea dell’istruzione superiore, infatti, non è più solamente un auspicio, ma una necessità economica e politica. Il successo del mercato unico e il futuro stesso della Comunità, infatti, dipendono in ampia misura dalla capacità delle persone di sfruttare le opportunità di vivere e lavorare in altri Paesi della Comunità e di riconoscersi, comunicare e allacciare solidi rapporti di cooperazione. Peraltro, il modello stesso di lifelong learning, su cui si fonda la società dell’apprendimento, richiede competenze metodologiche e sociali di base e capacità di apprendimento autonomo e continuo, assottigliando progressivamente i confini tra formazione e istruzione. Al termine del suo mandato nel 1994 Delors consegnerà ai suoi cittadini un Europa decisamente cambiata negli indirizzi e nelle prospettive politiche e uno dei cambiamenti più visibili interessa proprio il ruolo delle politiche di sviluppo delle risorse umane come fattore di uno sviluppo economico, sociale e ambientale sostenibile. Il presente paragrafo si propone di ripercorrere sinteticamente questa evoluzione nel richiamo dei documenti politici di maggior rilievo, nella riflessone sulle novità introdotte dal Trattato di Maastricht e infine nell’analisi di riforma dei Regolamenti dei fondi strutturali e dei programmi comunitari del periodo 1994-1999. 2.4.1. Dai Memorandum al Libro Bianco: una nuova idea di sviluppo per l’Europa I tre memorandum del 1991, rispettivamente sull’istruzione, sulla formazione professionale e sull’insegnamento aperto e a distanza, prendono le mosse da una medesima constatazione espressa nelle rispettive introduzioni, secondo la quale gli anni ’90 presentano un orizzonte socioeconomico che tende ad accentuare i profondi mutamenti che hanno segnato il decennio precedente: mondializzazione delle attività economiche, ristrutturazione delle imprese e accentuazione della dimensione tecnologica. I progressi della scienza e della tecnologia e la loro applicazione nelle imprese, nelle amministrazioni e nella vita quotidiana costituiscono il maggiore incentivo a rafforzare il differenziale competitivo europeo attraverso gli investimenti sul capitale umano. Pertanto, oltre a costituire un volano per lo sviluppo e la competitività europea sul mercato globale, la valorizzazione delle risorse umane è tanto più importante e urgente se si prendono in 32 considerazione tre fattori chiave che costituiscono il principale oggetto di osservazione dei tre Memorandum: • la carenza di manodopera qualificata; • il trend di invecchiamento medio della popolazione attiva; • la necessità di una politica di coesione economica e sociale in cui l’istruzione e la formazione professionale giocano un ruolo decisivo di sviluppo solidale sia nel sostegno delle categorie svantaggiate sia nella convergenza della politica regionale. Sebbene ricorra a più riprese l’idea che adeguate politiche di istruzione e formazione professionale possono costituire una leva importante nella lotta, sia attiva sia preventiva, contro la disoccupazione e l’emarginazione sociale, il problema della disoccupazione in tutti e tre i documenti non riveste ancora carattere di assoluta e urgente priorità. Ma di lì a alcuni mesi lo scenario sociale ed economico dell’Europa stava drasticamente mutando. Nell’estate del 1993 erano ormai palesi i segni di una congiuntura economica ristagnante: la recessione, che colpiva le economie dei Paesi europei più deboli già dal 1991, non risparmiava ormai neppure Paesi come la Germania, alle prese con il processo di ricostruzione avviata nei nuovi Länder. Le ricorrenti crisi monetarie avevano dato vita a svalutazioni e attacchi speculativi alle valute europee, tali da minacciare la crisi del Sistema Monetario Europeo proprio alla vigilia dell’entrata in vigore della seconda fase dell’unione economica. Il ristagno finanziario produceva un pesantissimo riflesso sull’occupazione che dal 1992 riprendeva, dopo la parentesi della seconda metà degli anni ’80, una rapida e preoccupante traiettoria ascendente25. Nonostante il protagonismo politico e le ambizioni “federali” di Delors cominciassero nel 1993 a essere malviste non più solo da danesi e britannici26, le fosche previsioni economiche inducevano i Capi di Stato e di Governo a dare mandato alla Commissione di presentare per la fine di quell’anno un “Libro Bianco” su una strategia a medio termine per la crescita, la competitività e l’occupazione. La Commissione Delors rispondeva all’incarico con un vero e proprio programma politico di costruzione europea, volto a promuovere l’attuazione di un modello di sviluppo europeo alternativo a quello consolidato. Dopo un’approfondita analisi delle diverse forme della disoccupazione27 e 25 Nel 1993 la disoccupazione in Europa arrivava ad interessare quasi 16 milioni di persone. “In occasione del negoziato sull’Atto Unico, l’autorevolezza della Commissione come centro di analisi e proposta non fu messa in discussione da alcun governo e infatti la maggior parte degli emendamenti ai Trattati di Roma fu adottata a partire dai documenti della Commissione europea. Cinque anni dopo, l’autorevolezza della Commissione non fu soltanto messa in discussione, ma la grande maggioranza dei governi […] dichiarò esplicitamente che l’unione politica era affare degli Stati membri e non certo di un centro di analisi e di proposta sovranazionale. Iniziò, così, l’opera di demolizione della Commissione europea diretta in primo luogo contro l’eurocrazia di Bruxelles e quindi contro il potere di iniziativa ed esecutivo della Commissione.” (Dastoli – Majocchi – Santaniello, 1996: 34-35). 27 Le diverse forme della disoccupazione sono di natura: - congiunturale, connessa al rallentamento della crescita; 26 33 delle ragioni che ne hanno causato l’aumento incontrollato dal 1990, il Libro Bianco indica che “l’attuale modello di sviluppo della Comunità sta portando ad una combinazione subottimale di due delle sue grandi risorse, e cioè lavoro e natura […]. E’ necessario che la Comunità analizzi come promuovere la crescita economica in condizioni sostenibili, in un modo cioè che comporti una maggiore intensità occupazionale e una minore intensità di energia e un minor consumo di risorse naturali” (COM (93) 700 def. : 169). La doppia sfida disoccupazione/inquinamento, può ricevere risposte non contraddittorie valorizzando le ricchezze immateriali dell’Europa e creando le condizioni per uno sviluppo sostenibile. I legami tra protezione dell’ambiente e crescita dell’occupazione non si limitano allo sviluppo della cosiddetta industria verde, ritenuta uno dei futuri bacini di occupazione insieme a quello dei nuovi servizi sociali, ma mirano soprattutto ad avviare congiuntamente una trasformazione strutturale del sistema economico europeo mediante una riduzione del prelievo obbligatorio sul fattore lavoro, finanziata attraverso un aumento delle tasse che gravano sull’utilizzo delle risorse naturali e sui processi produttivi ad alto impatto ambientale. In tal senso le indicazioni del Libro Bianco mirano a tracciare un progetto di sviluppo solidale e sostenibile teso a rendere compatibili la crescita di un’economia competitiva nel nuovo contesto mondiale, la lotta alla disoccupazione e la protezione dell’ambiente . Inoltre, la necessità di trarre i massimi benefici dal completamento del mercato unico e soprattutto l’esigenza di rispondere alla sfida concorrenziale imposta dalla globalizzazione, hanno bisogno di essere supportati da una serie di investimenti infrastrutturali nei trasporti e nell’energia, oltre che nelle comunicazioni, per incrementare la razionalizzazione della distribuzione energetica e la dimensione europea degli scambi. Il Libro Bianco, presentandosi come un programma di rinnovamento del modello di sviluppo europeo inteso a orientare persino l’impianto delle politiche fiscali e di investimento degli Stati membri, imponeva, di fatto, un ripensamento complessivo in chiave europea di interessi economici e politici nazionali, mettendo in discussione storici equilibri di sovranità delle politiche nazionali e di organizzazione e produzione dei sistemi economici. Questo presupposto si scontrava con una ormai generalizzata indisponibilità da parte degli Stati membri a procedere oltre sulla via dell’integrazione. Da allora l’Europa segnava una significativa battuta di arresto, non senza conseguenze per il suo futuro: il Consiglio europeo di Bruxelles, ridimensionando lo spirito di fondo del progetto politico presentato dalla Commissione, preferiva mettere l’accento sulle priorità d’azione degli Stati membri in favore dell’occupazione secondo le “specificità istituzionali, legislative e contrattuali proprie a ciascuno”. - tecnologica, dovuta alla sfasatura tra velocità del progresso tecnico e la capacità di anticipare e prevedere le nuove esigenze; strutturale, derivante dall’alto costo del lavoro poco qualificato, dalla scarsa flessibilità del mercato del lavoro, da strutture occupazionali superate in relazione alla concorrenza da parte dei nuovi paesi in via di industrializzazione. 34 2.4.2. Il Trattato di Maastricht Senza dubbio, il Trattato sull’Unione Europea (TUE) firmato il 17 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993 ha costituito in misura significativa un approfondimento del processo di integrazione della Comunità, passando da un coordinamento limitato di particolari settori di politiche nazionali ad una vera e propria politica europea di coesione economica e sociale implicante l’adozione di politiche regionali e sociali a livello comunitario (Monti, 1996). Se si pone mente all’impatto che il trattato ha avuto sulle politiche nazionali e al coinvolgimento della cittadinanza stessa che ne ha fatto oggetto di opinione, l’importanza che questo evento ha rivestito nella storia della costruzione europea può essere considerata pari a quella dei Trattati istitutivi delle tre Comunità. Un risultato questo che, seppure non privo di inevitabili parzialità e compromessi, premiava, consacrava ed esauriva il lavoro e il dinamismo delle Commissioni Delors. Tra le novità più importanti, spiccano la ratifica del principio di sussidiarietà e l’introduzione del diritto di cittadinanza europea, il rafforzamento dei poteri delle istituzioni europee, il completamento dell’unione monetaria e l’estensione delle competenze politiche delegate dagli Stati membri alla ribattezzata Unione Europea. Nello specifico il quadro giuridico di riferimento in materia di istruzione e formazione subisce dei cambiamenti sostanziali in forza della centralità strategica che queste politiche erano venute assumendo nel disegno politico di integrazione e sviluppo economico e sociale della Comunità28. L’aver inserito nel Trattato un apposito capo (Titolo VIII, numero 3) rende possibile il rafforzamento dell’azione comunitaria in questi settori e l’integrazione dell’istruzione e della formazione all’interno di un disegno comprensivo delle politiche di sviluppo delle risorse umane. Il cambiamento investe eminentemente la funzione che la formazione e l’istruzione sono chiamate a svolgere, passando da un impegno accessorio e compensativo a un ruolo organico e attivo nei processi di sviluppo sociale, economico e politico dell’Unione, seppure nel dichiarato rispetto dell’autonomia e delle responsabilità nazionali nelle scelte dei programmi e dell’organizzazione della formazione. Per quanto attiene la formazione professionale, il Trattato (art. 127) recuperando e approfondendo la missione che le era già propria nell’Atto Unico Europeo, rafforza la politica di formazione orientandola a integrare le azioni degli Stati membri nel perseguimento di cinque grandi obiettivi: • l’adeguamento alle trasformazioni industriali, in particolare attraverso la formazione e la riconversione industriale; 28 L’art. 3 del Trattato recita che l’azione della Comunità comporta, tra l’altro, “un contributo ad un’istruzione e una formazione di qualità e al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri”. 35 • il miglioramento della formazione iniziale e continua, allo scopo di facilitare l’inserimento e il reinserimento sul mercato del lavoro; • la promozione dell’accesso alla FP e alla mobilità dei formatori e delle persone in formazione, in particolare dei giovani; • il sostegno alla cooperazione in materia di formazione tra istituti di insegnamento e di formazione e le aziende; • lo sviluppo dello scambio di informazioni e di esperienze sui problemi comuni dei sistemi di formazione degli Stati membri. Per quanto concerne le politiche educative, in forza del nuovo Trattato (art. 126), la Comunità assume la responsabilità di contribuire al miglioramento della qualità dell’istruzione in particolare attraverso: 1 lo sviluppo della dimensione europea dell’istruzione, segnatamente attraverso l’apprendimento e la diffusione delle lingue degli Stati membri; 2 la mobilità di studenti e insegnanti e il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio; 3 la cooperazione tra istituti di insegnamento; 4 lo scambio di informazioni e di esperienze su problemi comuni dei sistemi di istruzione degli Stati membri; 5 lo sviluppo di scambi di giovani e di animatori di attività socio-educative; 6 lo sviluppo dell’istruzione a distanza29. L’estensione della competenza comunitaria alle politiche educative segna una tappa storica fondamentale: la procedura di codecisione pone fine all’approccio intergovernativo che aveva dominato, fino ad allora, la politica di istruzione a livello comunitario, avvicinandola nella posizione giuridica e nella sinergia programmatoria al settore della formazione professionale. 2.4.3. Il “Secondo Pacchetto Delors” e la Programmazione 1994-1999 Subito a ridosso della firma del Trattato, la Commissione avanzava un complesso di misure strutturali e finanziarie per il periodo 1993-97 in un documento intitolato Dall’Atto Unico al dopo Maastricht: i mezzi per realizzare le nostre ambizioni (COM (92) 2000) che, analogamente al programma presentato all’indomani dell’Atto Unico, passa sotto il nome di «Secondo Pacchetto Delors». Il documento si incentrava su tre priorità: 29 L’articolo 126 riprende in buona parte le conclusioni espresse nel Memorandum sull’istruzione superiore del 1991. 36 • le relazioni esterne con i Paesi in via di sviluppo e con l’Europa centro-orientale rendevano indispensabile l’incremento della dotazione finanziaria; • La coesione economica e sociale imponeva un rinnovato impegno idoneo ai nuovi bisogni: a questo scopo la Commissione proponeva di concentrare gli interventi sulle regioni comunitarie in ritardo di sviluppo, aumentando di due terzi le risorse loro assegnate attraverso i Fondi strutturali, mentre le dotazioni destinate agli altri obiettivi avrebbero dovuto essere aumentate del 50%; si proponeva inoltre l’istituzione del Fondo di coesione deciso dal Consiglio Europeo di Maastricht; • La fragile competitività dell’industria europea, rispetto a quella americana e giapponese, richiedeva un aumento dell’impegno globale di ricerca e sviluppo. Per l’attuazione di questo programma la Commissione proponeva un incremento del massimale delle risorse proprie dall’1,20% all’1,37% del Prodotto interno comunitario nel periodo 1992-1997. Il Consiglio europeo riunito ad Edimburgo nel dicembre del 1992, ridimensionando la proposta della Commissione, decideva di limitare la progressione dall’1,37% all’1,27% nel periodo 19931999, ma accoglieva la ripartizione tra le macrocategorie di spesa. Benché il «secondo pacchetto Delors» uscisse ridimensionato dagli accordi di Edimburgo, tuttavia il risultato fu davvero importante se si tiene conto della difficile situazione politica e monetaria di quei mesi: la ripartizione delle spese risultava fedele alla proposta e veniva concordato un crescente impegno finanziario per una sicura dotazione a medio termine delle politiche di coesione della futura Unione30. Il conseguente negoziato di revisione dei Fondi Strutturali si concludeva nel 1993 con l’adozione da parte del Consiglio di sei regolamenti31. Il Regolamento quadro n. 2081 lasciava immutato il principio della concentrazione dell’azione comunitaria su 5 Obiettivi prioritari in parte, rivisti e adattati nel merito, per meglio rispondere ai compiti affidati alle politiche strutturali dopo Maastricht e in ragione delle mutate condizioni socioeconomiche: • L’Obiettivo 1 (cui veniva destinato il 70% delle risorse dei Fondi) era finalizzato a promuovere l’adeguamento strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo, attraverso aiuti alle imprese, investimenti infrastrutturali ed opere pubbliche. Il Fse in questo Obiettivo operava secondo un approccio integrato con gli altri fondi nel sostenere la crescita del capitale umano attraverso interventi che andavano dal rafforzamento dei sistemi di istruzione e formazione, al rafforzamento del potenziale umano per la ricerca, al 30 Il Consiglio europeo aveva stabilito che le risorse attribuite ai Fondi strutturali passassero da 20.135 milioni di Ecu nel 1994 a 27.400 nel 1999, con una previsione di impegno finanziario complessivo per la programmazione 1994-1999 di 141.471 milioni di Ecu, di cui 96.349 in favore delle regioni in ritardo di sviluppo. 31 Regolamenti nn. 2080, 2081, 2082, 2083, 2084, 2085 del 1993, GUCE L193 del 31/07/1993. 37 miglioramento della pubblica amministrazione locale, a politiche attive per l’occupazione (formazione, orientamento, incentivi all’assunzione, sostegno all’imprenditorialità), alla crescita della professionalità nel tessuto produttivo attraverso la formazione dei lavoratori occupati; • L’Obiettivo 2 era finalizzato a contribuire alla riconversione delle regioni o delle aree colpite dal declino industriale; • L’Obiettivo 3, riservato a tutti i territori dell’Unione esclusi dall’Obiettivo 1, aveva la finalità prioritaria di contrastare e prevenire la disoccupazione di lunga durata. A tal fine il Fse proponeva un approccio integrato in cui l’innalzamento delle competenze venisse accompagnato da misure di orientamento, informazione, assistenza all’impiego o all’autoimpiego, aiuti all’occupazione; • L’Obiettivo 4, anch’esso riservato a tutti i territori dell’Unione esclusi dall’Obiettivo 1, era inteso a sostenere la formazione continua dei lavoratori occupati, promuovendo una filosofia di approccio preventivo; • L’Obiettivo 5b era finalizzato a favorire lo sviluppo delle zone rurali; • L’Obiettivo 6 era finalizzato a promuovere lo sviluppo delle regioni a bassa densità demografica. Tra gli elementi di riforma che hanno caratterizzato la Programmazione 1994-1999, vale la pena citare quelli che, in modo più significativo hanno inteso rafforzare i principi ispiratori della programmazione, gestione e attuazione degli interventi: • Flessibilità dei criteri di zonizzazione: l’uso eccessivamente rigido di dati statistici aveva rappresentato nella precedente programmazione un impedimento all’individuazione di tutte le zone effettivamente colpite da fenomeni di declino industriale, rurale e del settore della pesca. Alla rigidità di criteri di ammissibilità basati esclusivamente sui dati statistici è subentrata una nuova procedura che consentiva alla Commissione, di concerto con gli Stati membri, un certo margine di valutazione; • Semplificazione della programmazione: la semplificazione dell’accesso ai finanziamenti dei Fondi costituisce un fattore chiave per la fruibilità degli stessi32. Allo scopo di semplificare le procedure decisionali in materia di programmazione e accelerare i tempi di approvazione, veniva introdotta per gli Stati membri la possibilità di presentare un documento unico di programmazione (DOCUP) contenente sia le informazioni di cui al piano di sviluppo sia le 32 L’Obiettivo 4, ad esempio, correlato con i continui mutamenti industriali derivanti dai processi di innovazione e sviluppo tecnologico, imponeva un approccio previsionale e preventivo ai problemi dell’occupazione, nonché un diretto coinvolgimento delle realtà produttive locali, fattori questi che non potevano fare a meno di una velocità e flessibilità di programmazione e di prontezza e affidabilità nell’erogazione dei finanziamenti. 38 domande di contributo richieste per l’approvazione di un programma operativo. Questa procedura permetteva di ridurre a due le fasi di programmazione, in quanto con una sola decisione la Commissione poteva fissare le priorità e decidere sul contributo da erogare. • Rafforzamento del partenariato sociale: sensibilizzare e coinvolgere le realtà produttive locali nell’ambito dei partenariati per la valorizzazione delle risorse umane diviene sempre più una necessità nella misura in cui si vanno moltiplicando e arricchendo i luoghi, le opportunità e le forme della formazione (formale, non formale e informale) nell’arco della vita attiva: il nuovo Regolamento quadro estendeva la partnership alle parti economiche e sociali designate dallo Stato membro a livello nazionale, regionale, locale. • Rafforzamento dell’attività di valutazione: veniva imposto l’obbligo agli Stati membri di corredare i Piani di sviluppo con una descrizione della situazione attuale, i principali risultati delle azioni intraprese nel corso del periodo di programmazione precedente, la descrizione della strategia prescelta e degli obiettivi specifici (quantificati, se la loro natura lo consente) e una valutazione dell’impatto atteso, al fine di assicurare che i vantaggi socioeconomici a medio termine corrispondessero ai finanziamenti previsti. Inoltre, il Fse si dotava finalmente di un sistema di monitoraggio dell’attuazione di programma. Con specifico riferimento all’attività del FSE, il Regolamento n. 2084, rispetto al periodo precedente, ampliava notevolmente il campo di applicazione del Fondo, sia in termini di azioni ammissibili, sia in termini di destinatari delle azioni stesse, prevedendo esplicitamente che si tenesse conto delle persone esposte al rischio di esclusione dal mercato del lavoro e rendendo più flessibili i criteri di ammissibilità. Il Fondo, infatti, si prefigge i seguenti obiettivi: • facilitare l’accesso al mercato del lavoro mediante azioni per l’inserimento professionale dei giovani, dei disoccupati esposti alla disoccupazione di lunga durata e promuovere l’integrazione delle persone esposte al rischio di esclusione dal mercato del lavoro; • promuovere la parità di opportunità sul mercato del lavoro; • sviluppare le competenze, le attitudini e le qualifiche professionali, in particolare facilitando l’adeguamento dei lavoratori e delle lavoratrici alle trasformazioni industriali e all’evoluzione dei sistemi di produzione, rafforzando il potenziale umano in materia di ricerca, scienza e tecnologia (limitatamente agli obb. 1, 2, 5b), rafforzando i sistemi dell’istruzione e della formazione (limitatamente all’ob.1) e contribuendo allo sviluppo attraverso la formazione di dipendenti della pubblica amministrazione (limitatamente all’ob. 1); • promuovere la creazione di posti di lavoro, favorendo la stabilità e la crescita dell’occupazione (limitatamente agli obb. 1, 2, 5b). 39 La categoria stessa dei disoccupati risultava ampliata comprendendo giovani disoccupati (il limite massimo di età veniva fissato in concertazione con ciascuno Stato membro), persone disoccupate da più di 12 mesi, persone disoccupate da minor tempo, ma considerate a rischio di esclusione (persone in età avanzata, portatori di handicap fisici o sociali, persone con scarse competenze), donne non occupate, a prescindere dall’età e dallo stato di disoccupazione. Con la Programmazione 1994-1999, il raggio di intervento del Fse si arricchisce, nella sua componente più sperimentale, anche attraverso l’apporto di due Programmi di iniziativa comunitaria dai contenuti spiccatamente innovativi e costruiti intorno al valore aggiunto della transnazionalità: • ADAPT, finalizzato ad accompagnare e a governare i cambiamenti industriali indotti dai nuovi modelli di produzione e dai cambiamenti del mercato; • OCCUPAZIONE, volto a favorire l’inserimento economico e sociale delle categorie dello svantaggio. Questa iniziativa si articolava in sottoprogrammi secondo i target di riferimento (now, volto a promuovere la pari opportunità per le donne sul mercato del lavoro; horizon, volto ad affrontare le cause dell'emarginazione dei portatori di handicap nell'accesso e nella partecipazione al mercato del lavoro; youthstart, finalizzato a promuovere l'inserimento nel lavoro o in forme riconosciute di istruzione o formazione, dei giovani di età inferiore ai 20 anni; integra, mirato ad aiutare le persone a rischio di emarginazione sociale). L’ampliamento del campo di azione del Fse, ha fatto sì che durante questo periodo di programmazione si siano prodotti impatti a diversi livelli che hanno riguardato per la prima volta non solo la platea dei destinatari ma anche il sistema dell’offerta sul versante del rafforzamento delle funzioni di governo e dell’integrazione tra istruzione, formazione professionale e lavoro. Dal lato del rafforzamento dei sistemi, si rilevano iniziative, per lo più sperimentali, che riguardano, la certificazione delle competenze e dei crediti formativi, la formazione per operatori e docenti, le iniziative di bilancio delle competenze, la riorganizzazione del sistema di erogazione dei servizi formativi, la realizzazione di un sistema di formazione continua. Dal lato dell’integrazione tra istruzione, formazione professionale e lavoro vengono avviate iniziative di alternanza tra percorsi, nonché introdotti o innovati modelli e metodologie formative quali i tirocini formativi e orientativi, i percorsi di inserimento lavorativo personalizzato, l’apprendistato e lo stage. Anche gli interventi diretti alle persone si sono differenziati in base all’ampia tipologia di destinatari coinvolti e al crescente numero di azioni ammissibili: le tipologie di intervento hanno via via assunto caratteristiche di maggiore articolazione e complessità, orientandosi verso progetti intesi a sviluppare percorsi di formazione, di orientamento, di inserimento lavorativo, di avvio all’imprenditorialità, attenti sia al fronte dell’offerta, sia a quello della domanda. Progetti complessi 40 spesso caratterizzati da una molteplicità di attori e di azioni che ne rendono più articolata e complessa la gestione e l’attuazione ma in grado di conseguire risultati di maggiore impatto e sostenibilità. Un ulteriore risultato e forse uno dei maggiori valori aggiunti conseguiti dal Fse in Italia è rappresentato dall’impatto positivo prodotto sulle amministrazioni nazionali e regionali responsabili della gestione del fondo medesimo. Si tratta di un ambito di ricaduta indiretto che ha prodotto, soprattutto nelle amministrazioni pubbliche strutturalmente e tradizionalmente più arretrate, un effetto estremamente positivo, avendo costretto questi soggetti ad adottare modalità di gestione innovative, fondate su un approccio per obiettivi programmatici, con un utilizzo delle risorse finanziario scadenzato secondo un calendario temporale definito. Dunque, le valutazioni condotte hanno messo in evidenza come un elevato numero di interventi messi in campo in questi ambiti abbia introdotto caratteristiche di innovatività che hanno portato ad anticipare e sperimentare progettualità e finalità della programmazione comunitaria 2000-2006. 2.4.4. I programmi comunitari Rispetto alle esperienze precedenti, importanti elementi di novità hanno caratterizzato i programmi comunitari Socrates e Leonardo da Vinci33, che hanno avuto avvio nel 1995. Innanzitutto, è mutato il quadro giuridico di riferimento: con il Trattato di Maastricht viene accordato all’Unione la responsabilità di contribuire allo sviluppo della qualità dell’istruzione e della formazione, nel rispetto delle specificità nazionali. Nel riorientare i propri strumenti programmatori da una funzione di stimolo ad un ruolo di governo dei processi, la Commissione disegna i nuovi programmi all’interno di un quadro più organico e integrato rispetto al passato, snellendo e razionalizzando i vari programmi, riducendone il numero e rafforzandone al contempo la massa critica e l’integrazione con gli altri strumenti di intervento. Nell’intento di ridurre la frammentazione e garantire agli interventi maggiore impatto ed economie di scala, i due nuovi programmi hanno assorbito e al contempo superato i numerosi programmi promossi negli anni ’80 dando vita, in questo modo, a strategie unitarie rispettivamente nel settore dell’istruzione e in quello della formazione professionale. Inoltre, l’apprendimento come processo che accompagna l’individuo nel corso di tutta la vita non costituisce più oggetto di un programma specifico, come era accaduto con il programma force, ma rappresenta, nei due nuovi programmi il costante quadro teorico di riferimento. Leonardo è il “Programma d’azione per l’attuazione di una politica di formazione professionale della Comunità”. Raccogliendo l’eredità delle esperienze maturate nei programmi comunitari della generazione precedente (COMETT, 33 EUROTECNET, FORCE, PETRA, LINGUA, IRIS), Rispettivamente in GUCE L87 del 20/04/1995 e GUCE L340 del 29/12/1994. 41 questo programma si propone come il “laboratorio europeo di innovazione” nel settore della formazione professionale in grado di portare un plusvalore alle azioni svolte ai livelli nazionali e consentire agli operatori e ai responsabili degli Stati membri di scambiare i rispettivi know-how e le rispettive esperienze al fine di mettere a punto nuovi approcci in materia di formazione professionale a livello di contenuti, di metodi, di metodologie ovvero di strumenti e di materiale di formazione. La strategia unitaria del programma è definita in un “Quadro comune di obiettivi” che possono essere così sintetizzati: • migliorare la qualità e la capacità innovativa dei sistemi di formazione professionale e di orientamento in Europa; • promuovere la formazione entro l’intero arco della vita attiva; • promuovere la formazione professionale iniziale; • sostenere e implementare la formazione continua; • adattare la formazione alle innovazioni tecnologiche e organizzative del mondo produttivo; • sostenere e rafforzare la cooperazione tra le università e le imprese; • sviluppare la formazione linguistica all’interno della formazione professionale; • promuovere pari opportunità di accesso alla formazione professionale da parte delle persone svantaggiate; • promuovere pari opportunità di accesso alla formazione professionale da parte di uomini e donne. Per raggiungere questi obiettivi il programma metteva in campo tre tipi di misure: • l’elaborazione, la messa a punto e la sperimentazione di progetti pilota transnazionali; • la realizzazione di programmi di collocamenti e scambi transnazionali per giovani in formazione, formatori e promotori di programmi; • studi e ricerche per lo sviluppo delle conoscenze in materia di formazione professionale. Il Programma Socrates, condividendo, al pari di Leonardo, l’ottica di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, eredita l’ambito operativo del programma Erasmus e lo estende a tutti i gradi e i livelli di istruzione. L’obiettivo primario del programma è di favorire la cooperazione tra le istituzioni scolastiche e formative degli Stati membri, al fine di migliorare la qualità dei sistemi di istruzione e di formazione e sostenere la progressiva integrazione culturale e sociale tra i cittadini dei diversi Paesi dell’Unione europea. Il programma, a tal fine, si articolava in sette sottoprogrammi: 42 • Erasmus, per azioni rivolte al mondo accademico, finalizzate alla cooperazione transnazionale fra le università e alla promozione della mobilità degli studenti; • Comenius per azioni rivolte alle istituzioni scolastiche attraverso la promozione di progetti educativi europei, la formazione continua degli insegnanti e misure in favore dell’integrazione culturale e sociale delle minoranze etniche; • Lingua per azioni “trasversali” per il miglioramento dell’apprendimento/insegnamento delle lingue straniere attraverso lo sviluppo di nuovi strumenti, la promozione di nuovi programmi di formazione degli insegnanti e la mobilità degli studenti; • Istruzione aperta e a distanza (IAD), per azioni finalizzate alla progettazione di modalità di istruzione a distanza supportate dalle nuove tecnologie educative, allo sviluppo della capacità dei fruitori ad utilizzare tali metodi e alla produzione di repertori dei servizi e dei prodotti già realizzati; • Educazione degli adulti (EDA), per azioni che hanno lo scopo di favorire la crescita della cultura e della cittadinanza europea e contribuiscono a migliorare l’offerta di opportunità formative nell’educazione degli adulti; • Scambi di informazioni ed esperienze sui sistemi e sulle politiche dell’istruzione, per la raccolta, analisi e diffusione di informazioni ed esperienze realizzate in ambito educativo, quali: l’analisi di questioni di politica dell’istruzione di interesse comune; eurydice, la rete europea nel settore dell’istruzione; arion, il programma di visite di studio per decisori nel settore dell’istruzione; naric, la rete di centri di informazione sul riconoscimento accademico dei titoli di studio; • Misure complementari, che permettono di realizzare attività relative alla cooperazione in campo educativo non previste all’interno degli altri settori del programma. 2.5. La difficile eredità della Commissione Delors: il Trattato di Amsterdam Il Consiglio europeo di Corfù del 1994 aveva all’ordine del giorno la designazione del successore di Jacques Delors. Il candidato sostenuto dall’asse franco-tedesco era il premier belga Jean Luc Dehaene, ma con motivazione palesemente politica, accusando Dehaene di essere un seguace dell’Europa federale, i britannici hanno bloccato la sua nomina. Nel successivo Consiglio di Bruxelles si è ripiegato sulla designazione di Jacques Santer, premier del Granducato di Lussemburgo, il più piccolo Stato dell’Unione, scelta che Olivi commenta in questo modo: “A prescindere dalla personalità di Santer (peraltro di livello) l’assenso di Major era stato ottenuto proprio perché la provenienza del candidato poteva in qualche modo – e ai limiti del ridicolo – 43 essere significativa della volontà di diminuire rango, prestigio e autorità della presidenza della Commissione dopo l’uscita di scena del detestato “federalista Delors” (Olivi, 1995: 451). Al di là della scelta del successore, era ormai chiaro che quella di Delors sarebbe comunque stata un’eredità difficile visto il progressivo raffreddamento dei rapporti tra il Consiglio e la Commissione, nato dalla diffidenza con cui cominciava ad esser vista la crescente ingerenza di quest’ultima nelle politiche nazionali. Il Libro Bianco in qualche modo, con la solidità tecnica e la forza politica di una proposta concreta di costruzione di un progetto federale europeo, aveva messo i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri di fronte alla preoccupante prospettiva di trasferire su un piano comunitario poteri, competenze e prerogative nazionali. Lo scenario di un’Europa allargata delle regioni e il conseguente indebolimento a doppia spinta (dal basso e dall’alto) dei poteri nazionali rappresenta probabilmente da allora e a tutt’oggi il maggior fattore di resistenza al proseguimento del processo di integrazione politica europea. E’ peraltro significativo che, nonostante la generalizzata resistenza ad accogliere le proposte formulate, il Libro Bianco abbia continuato a tenere banco, nel dibattito comunitario e, sebbene datata, rimanga ancora oggi agli atti la proposta forse più organica formulata per assicurare futuro e identità politica all’Unione europea. Nei mesi immediatamente successivi si sono susseguiti una serie di iniziative e documenti anche di importante rilievo che avevano nel Libro Banco il costante quadro di riferimento della riflessione e dell’azione a livello nazionale ed europeo (il Consiglio di Essen, il Libro Bianco “Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva” (COM (95) 590 def.), il “Patto di fiducia sul lavoro” (CSE (96) 1 def.), l’Anno europeo dell’istruzione e della formazione lungo tutto l’arco della vita). Tutte queste iniziative, spostando il baricentro dell’attenzione dalla malattia di una costruzione politica da completare e di un modello economico e sociale da ripensare al sintomo di una febbricitante disoccupazione, ha finito per rappresentare la via di fuga intergovernativa in un momento che vedeva aumentare le riserve nei confronti del trasferimento dei poteri ad organi sopranazionali. In questo modo da un lato si registrava l’accantonamento del modello di sviluppo proposto da Delors, che presupponeva un impegno di ben altra entità sulla via dell’integrazione, per altro verso si gettavano le basi intergovernative per una nuova convergenza sulle politiche di sviluppo delle risorse umane. La revisione del Trattato UE, firmato nell’ottobre del 1997 ad Amsterdam ed entrato in vigore nel 1999, annovera l’adozione di un nuovo capitolo (titolo VIII) con cui vengono attribuite agli organismi comunitari competenze specifiche nelle politiche per l’occupazione. I sei articoli che identificano questa nuova competenza, pur mantenendo fermo il principio della competenza primaria degli Stati membri, ponevano le basi per una Strategia Europea per l’Occupazione. 44 Capitolo 3 Non è facile che cambi veramente una società complessa. (Daniel Bell, 1967) 3) Dal Processo di Lussemburgo alla Strategia di Lisbona 3.1. Dalla Strategia Europea per l’Occupazione verso l’integrazione debole Sebbene il Trattato di Amsterdam entrasse in vigore nel 1999, vista la gravità della situazione occupazionale in Europa, su indicazione di tutti i Capi di Stato e di Governo dei paesi dell’Unione, le principali disposizioni previste dal nuovo Trattato in materia di lavoro per l’avvio di una Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), trovavano esecuzione immediata con le Conclusioni del Consiglio straordinario di Lussemburgo del novembre 1997. La SEO si poneva come obiettivo una significativa riduzione della disoccupazione a livello europeo nell’arco dei successivi cinque anni, mediante interventi sugli squilibri presenti nel mercato del lavoro dell’Unione: si trattava di promuovere la mobilitazione sistematica di tutte le politiche a sostegno dell’occupazione e di sviluppare una politica macroeconomica coordinata, nel quadro del mercato interno, che creasse le basi per una crescita duratura e un clima favorevole alla crescita dell’occupazione. Per il raggiungimento di questo obiettivo gli Stati membri si impegnavano a definire e realizzare un insieme di politiche coordinate, attraverso l’istituzione di un quadro di sorveglianza multilaterale rispetto a orientamenti comuni definiti a livello europeo (il cosiddetto “Processo di Lussemburgo”34), sulla falsa riga del metodo seguito per gli obiettivi di crescita, stabilità e convergenza economica. 34 Nello specifico il “Processo di Lussemburgo” era l’iter di programmazione e verifica delle politiche per l’occupazione, in base al quale gli Stati erano chiamati a pianificare misure di lotta alla disoccupazione in linea con gli orientamenti indicati a livello comunitario e a darne conto alla Commissione europea, la quale valutava le attività svolte ed i risultati conseguiti, fornendo poi delle raccomandazioni specifiche. Ogni anno nell’ambito di tale processo, la Commissione predisponeva i seguenti documenti: orientamenti per l’occupazione (Guidelines); relazione comune sull’occupazione (Joint Employment Report); raccomandazioni (Recommendations). Gli Stati membri invece presentavano annualmente, sulla base delle Guidelines, i Piani d’azione nazionali per l’occupazione (NAP). 45 I primi orientamenti annuali per l’occupazione sulla base dei quali gli Stati membri hanno elaborato i propri Piani di Azione Nazionale si basavano su quattro pilastri a loro volta articolati in linee guida: • Occupabilità: accrescere le capacità di trovare lavoro; • Imprenditorialità: sviluppare lo spirito imprenditoriale; • Adattabilità: favorire l’adeguamento ai mutamenti del mercato del lavoro; • Pari opportunità: rafforzare le politiche di uguaglianza delle opportunità per tutti. Orientamenti e linee guida da un anno all’altro erano soggetti a cambiamenti ed integrazioni, tuttavia la strategia di fondo e il metodo di lavoro che sottende questo processo di convergenza permaneva e permane tuttora sostanzialmente immutato. Una strategia di medio periodo i cui elementi portanti sono così riassumibili: • La gestione per obiettivi delle politiche per l’occupazione, basate cioè su finalità misurabili, definite e condivise; • L’approccio di benchmarking secondo il quale gli Stati membri hanno come termine di confronto e di obiettivo i Paesi che annualmente hanno dimostrato maggiore successo nel conseguire gli obiettivi prefissati in materia di occupazione; • Il processo di responsabilizzazione dagli attori istituzionali centrali e locali e dalle parti sociali rispetto alla loro effettiva capacità di assicurare le condizioni di contesto necessarie a consentire un incremento dell’occupabilità; • La centralità del lifelong learning nell’ambito delle politiche attive del lavoro. Con il processo di Lussemburgo è stato quindi avviato un metodo di convergenza tra i mercati del lavoro in cui le specificità locali si coniugano ad obiettivi comuni e ad un sistema di indicatori quali-quantitativi e di criteri di valutazione fissati e condivisi a livello di Unione europea. Questo approccio pone l’accento sulle competenze nazionali e lega gli Stati membri a rapportare le proprie politiche e i risultati ad un confronto continuo con le esperienze degli altri paesi. Una pratica questa definita “metodo di coordinamento aperto” che ha ricevuto rinnovato consenso e sostegno da parte del Consiglio di Lisbona del 2000, in quanto giudicata una modalità di intervento più flessibile dei tradizionali strumenti comunitari (quali ad esempio le direttive), in grado di tenere in maggiore considerazione caratteristiche e specificità politiche ed istituzionali proprie di ciascuno Stato membro. Nel quadro delle evoluzioni e delle successive integrazioni, che la politica europea per l’occupazione ha subito a partire da Lussemburgo, costituisce una componente fondamentale la cornice strategica complessiva fissata dai capi di Stato e di Governo a Lisbona nel marzo 2000. I 46 cosiddetti “pilastri” della SEO si integrano e orientano al raggiungimento dell’obiettivo principale della Strategia di Lisbona di fare dell’Europa entro il 2010 “l’economia basata sulla conoscenza più dinamica e competitiva del mondo, in grado di realizzare una crescita economica e sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro ed una migliore coesione sociale”. Il raggiungimento di questo obiettivo richiedeva una strategia globale di riforme strutturali e integrate negli ambiti dell’occupazione, dell’innovazione, delle riforme economiche, della coesione sociale e della sostenibilità ambientale (ambito introdotto nel successivo Consiglio europeo di Goteborg) basata su tre pilastri fondamentali: • Predisporre il passaggio verso un’economia e una società basate sulla conoscenza, migliorando le politiche in materia di società dell’informazione e R&S, nonché accelerando il processo di riforma strutturale ai fini della competitività e dell’innovazione e completando il mercato interno; • Modernizzare il modello sociale europeo investendo nelle persone e combattendo l’esclusione sociale; • Sostenere un contesto economico sano e le prospettive di crescita favorevoli, applicando un’adeguata combinazione di politiche macroeconomiche. L’adozione del metodo del coordinamento aperto come fattore unificante per diffondere le migliori pratiche e orientare ad una convergenza su obiettivi comuni, ha comportato la definizione di una serie di traguardi settoriali divenuti oggetto di osservazione e monitoraggio permanente, anche in vista del termine di revisione della Strategia previsto per il 2005. Gli obiettivi strategici ambiziosi e di grande portata alimentati dalla Strategia di Lisbona hanno agito da impulso imprimendo nuovo slancio alle politiche settoriali e rilanciando reali processi di integrazione, cooperazione, convergenza e mainstreaming. Nel settore delle politiche per l’inclusione si registrano le novità introdotte dall’Agenda sociale europea con il Consiglio europeo di Nizza del 2000 e l’applicazione del metodo del coordinamento aperto attraverso i Piani di Azione Nazionale per l’Inclusione. Anche per quanto concerne le politiche per l’istruzione e la formazione, si assiste all’avvio di un programma articolato di lavoro (“Istruzione e formazione 2010”) che, partendo dalla riflessione generale su obiettivi e priorità comuni dei futuri sistemi di istruzione e formazione in Europa, ha dato impulso al processo di cooperazione che va sotto il nome di Processo di Bruges-Copenhagen. La Strategia di Lisbona ha avuto il merito indiscusso di conferire maggiore unitarietà e convergenza all’azione comunitaria a partire dal riorientare l’utilizzo dei propri strumenti finanziari: nel caso del Fondo Sociale Europeo, ad esempio, il suo utilizzo si è agganciato in modo più diretto e mirato agli obiettivi della SEO, cessando di essere un mero programma di formazione professionale 47 per divenire strumento delle politiche europee per l’occupazione, la crescita economica e la coesione sociale e regionale. Nel 2002 si concludeva la prima fase della SEO e da una valutazione dei primi cinque anni di attuazione della Strategia, a livello comunitario e nei singoli Stati membri, e dei mutamenti economici, sociali e demografici che hanno interessato l’Europa nel corso degli anni, si giuneva alla revisione e ad una nuova formulazione delle linee guida per le politiche indirizzate agli Stati membri35. Nel 2003 si delineava quindi una nuova generazione di orientamenti, caratterizzati oltre che dalla semplificazione dei contenuti, da un passaggio dagli iniziali quattro pilastri, all’individuazione di tre obiettivi principali (Piena occupazione, Qualità e produttività del lavoro, Coesione e mercato del lavoro inclusivo) e dieci priorità trasversali agli obiettivi stessi. Tale processo di revisione, ha attribuito maggiore importanza all’osservazione delle riforme intraprese piuttosto che alla ulteriore modifica degli orientamenti. L’indicazione era di proseguire in modo organico su tutti i punti dell’Agenda di Lisbona, in particolare su ricerca e innovazione, istruzione e formazione, sviluppo del potenziale occupazionale delle politiche ambientali, riforma dei sistemi di protezione sociale. Un ulteriore e importante momento di revisione coincide con la valutazione di metà periodo dell’Agenda di Lisbona e con il confluire della SEO all’interno della più complessiva strategia di coordinamento delle politiche per la crescita e l’occupazione nell’Unione Europea. Il Consiglio europeo del marzo 2005, prendendo atto del parziale bilancio del percorso avviato per attuare la Strategia di Lisbona, si accinge alla sua revisione in un quadro ben diverso da quello che ne aveva visto il varo cinque anni prima. Molti presupposti e condizioni che avevano fondato quelle scelte non si sono avverati o sono cambiati: il quadro internazionale dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 e i successivi avvenimenti, il deludente andamento globale dell’economia europea e i bassi tassi di crescita, gli insufficienti investimenti in innovazione necessari a mantenere competitiva la base industriale e manifatturiera, di fronte alle sfide dell’economia della conoscenza, la crescita dei divari territoriali a seguito dei processi di allargamento. Tutto ciò ha contribuito a creare una situazione difficile, nella quale sono cresciute le tensioni tra gli Stati membri e i dubbi sul ruolo dell’Europa stessa, rimettendo in discussione faticosi e precari equilibri tra sovranità nazionale e dimensione europea. I più recenti avvenimenti, quali la mancata ratifica della Costituzione in Francia e Paesi Bassi ma 35 “In generale va comunque sottolineato come la politica europea per l’occupazione, avviata a Lussemburgo, abbia perseguito, quantomeno in questi primi anni d’avvio, un modello in gran parte fondato su interventi indirizzati a modificare le caratteristiche dell’offerta del lavoro e come abbia evitato di intervenire sul fronte della domanda, essendo ritenuto questo un ambito strettamente interrelato alle politiche economiche e monetarie perseguite dagli Stati membri e dalla BCE per il rispetto delle regole di stabilità assunte nell’ambito dell’Unione economica e monetaria. Ovviamente la politica dell’offerta di lavoro, nel medio periodo, ha comunque degli effetti positivi sulla crescita economica dunque sulla domanda globale, anche se, come è stato osservato, le politiche dell’offerta rischiano di fallire se non c’è un tasso di crescita sufficientemente elevato” (Gagliardi, 2001: 133). 48 anche il mancato accordo sulla definizione del futuro quadro finanziario dell’Unione sono gli esempi più eclatanti della difficoltà e complessità del momento storico che l’Europa sta attraversando. Ciò sembra ripercuotersi sui nuovi modelli di governance definiti nel Consiglio di Primavera del 2007. Laddove infatti si sfumano target e indicatori comuni, tende a prevalere il rinvio agli Stati membri delle scelte più significative, si introducono meccanismi che da un lato valorizzano le indubbie specificità nazionali e dall’altro indeboliscono nei fatti e rendono retoriche le ragioni che sostengono la validità di una dimensione europea in quanto tale. Ma in una fase in cui diviene sempre più importante agire strategie comuni su temi cruciali in grado di cogliere e sfruttare al massimo gli effetti della globalizzazione risulta assai pericoloso il venir meno della fiducia in un forte riferimento comunitario. In sintesi la rinnovata Strategia di Lisbona vede ridefiniti i suoi obiettivi su tre assi fondamentali: • Conoscenza e innovazione – motori di una crescita sostenibile (mantiene obiettivo generale di un livello di investimenti in R&S pari al 3%; si rilancia il VII Programma Quadro R&S; si annuncia la nuova iniziativa “i2000: Società europea dell’informazione”); • Uno spazio attraente per investire e lavorare (si rilancia il mercato interno dei servizi; si annuncia la riforma della disciplina degli Aiuti di Stato; si rilancia la necessità di politiche di sostegno alle PMI); • La crescita e l’occupazione al servizio della coesione sociale (si rilanciano l’Agenda sociale, le politiche per l’inclusione sociale, la SEO, la prosecuzione di “Istruzione e formazione 2010”, le politiche per i giovani). Parallelamente alla ridefinizione degli obiettivi, il Consiglio ha varato anche la modifica dei meccanismi di governance a partire da un nuovo strumento, gli Orientamenti Integrati per la Crescita e l’Occupazione (OICO), che ingloba i due elementi costitutivi della Strategia, vale a dire: gli indirizzi di massima per le politiche economiche (IMPE) e gli orientamenti per l’occupazione. Sulla base di questo documento triennale, gli Stati membri predispongono dei Piani nazionali di riforma, anch’essi a carattere triennale ma modificabili annualmente, che sintetizzano in un unico documento l’insieme delle relazioni nazionali esistenti: i Piani di Azione Nazionali, le relazioni Cardiff sulle riforme economiche, e tutte le relazioni settoriali legate al metodo aperto di coordinamento36. In conclusione, dalla presente ricognizione emerge un quadro complesso, animato da tendenze difformi e contrastanti. 36 Il Piano italiano in attuazione del rilancio della Strategia europea di Lisbona è il Piano per l’Innovazione, la Crescita e l’Occupazione, a titolarità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le politiche comunitarie (14 ottobre 2005). 49 Per un verso, si assiste con la Strategia di Lisbona al rafforzamento dell’integrazione delle politiche settoriali europee nel solco dell’impostazione funzionalista che l’Unione porta con sé dalla sua genesi storica; un’integrazione che si compone intorno ad un modello europeo di sviluppo economico e solidale, e si impone, con la massa critica degli strumenti di coesione, a quadro di riferimento delle scelte di indirizzo a livello nazionale. Per contro, la via dell’integrazione politica, interrotta con la fine del mandato di Delors, non sembra essere riuscita a trovare in oltre dieci anni le forze di volontà per essere perseguita o per essere abbandonata a vantaggio di un percorso alternativo credibile: il sospetto o il timore di fughe decisioniste simili a quelle intraprese dalle Commissioni del recente passato e gli scenari di incertezza economica e geopolitica che dominano lo scacchiere europeo hanno fatto spesso arretrare gli Stati membri su posizioni minimali e intergovernative, indebolendo progressivamente e massicciamente le istituzioni e il carattere istituzionale dei processi di decisione comunitaria. Quella che si delinea, nel complesso contesto sociale, economico e politico dell’Europa allargata è una contrapposizione di due forze uguali e contrarie che rischiano di esporre l’Unione europea ad un progetto di integrazione debole e comunque non duratura in rapporto alla dimensione degli impegni che si è irreversibilmente assunta. 3.2. La Programmazione 2000-2006 Nell’ambito del riesame della politica di coesione al termine del periodo di programmazione 1994/99, il Consiglio e la Commissione nei mesi di maggio e giugno 1999 adottano i nuovi regolamenti in materia di fondi strutturali: un nuovo regolamento quadro per la gestione dei fondi e un regolamento apposito per ciascun fondo strutturale37. Le innovazioni introdotte con la revisione del Trattato del 1997, l’avvio della Strategia dell’occupazione, la riforma della PAC e la prospettiva dell’allargamento avevano creato i presupposti per un processo di negoziazione lungo e impegnativo. Le proposte di riforma erano contenute nel documento della Commissione Agenda 2000 del marzo 1998, nel quale si ipotizzano le prospettive finanziarie delle politiche economiche della Comunità, per il periodo programmatorio 2000 – 2006. Per favorire la coesione economica e sociale, Agenda 2000 proponeva di realizzare una maggior concentrazione degli interventi dei Fondi, di attuare un sostegno strutturale agli Stati in fase di ingresso nell’UE. Tali orientamenti trovavano espressione anche nella proposta di nuovi Regolamenti per la riforma dei Fondi 37 Regolamento (CE) n.1260/1999 del Consiglio del 21 giugno 1999, recante disposizioni generali sui Fondi strutturali; Regolamento (CE) n.1784/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 luglio 1999, relativo al Fondo sociale europeo; Regolamento (CE) 1750/1999 della Commissione del 23 luglio 1999, recante disposizioni di applicazione del regolamento (CE) 1257/1999 del Consiglio sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del FEOGA; Regolamento (CE) n.1783/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 luglio 1999, relativo al FESR. 50 strutturali. Dopo un anno di negoziato, il Consiglio Europeo di Berlino del marzo 1999, decide di dotare i Fondi strutturali e il Fondo di coesione per il periodo 2000–2006 complessivamente di circa 213 miliardi di euro. I principi fondamentali elaborati nel 1988 continuano ad indirizzare le attività dei Fondi ed anzi vengono ulteriormente rafforzati rispetto al passato. Per accrescere l’efficienza e la visibilità della politica regionale, la Commissione si propone di accrescere la concentrazione dei Fondi strutturali, in termini • tematici, ovvero su campi d’intervento prioritari che favoriscono un’impostazione integrata dello sviluppo, evitando la frammentazione degli interventi; • territoriali, attraverso il contenimento della popolazione interessata dal FESR; • finanziari, attraverso una più diretta focalizzazione delle risorse a favore delle aree in cui il ritardo è maggiore; • strategici, attraverso la riduzione degli obiettivi prioritari. Rispetto al principio di programmazione, le procedure vengono almeno parzialmente riviste si mantiene il processo fondato sulla presentazione da parte degli Stati membri di Piani di sviluppo per Obiettivo integrati da una valutazione ex ante. I Piani presentati a seguito di un processo di negoziato tra Commissione e autorità nazionali danno luogo ai documenti di programmazione che, articolati in assi prioritari, prendono la veste di Quadri comunitari di sostegno (QCS) e Programmi operativi (PO) o di Documenti Unici di Programmazione (DOCUP), sottoposti ad approvazione da parte della Commissione. Infine, nell’ambito programmatico, il livello di definizione più operativa della programmazione (ad esempio definizione dei beneficiari, dei criteri di selezione, il piano finanziario distinto per misura) viene affidato al Complemento di programmazione, che in qualche modo, rispetto alla prospettiva top down degli altri documenti incarna l’azione bottom up, in quanto espressione della progettualità dei soggetti e degli operatori territoriali. Parimenti viene approfondito il principio del partenariato (attraverso indicazioni sul coinvolgimento dei partner sociali ed economici lungo tutto il processo di programmazione, attuazione, e valutazione), rinforzata l’addizionalità dei fondi (precisandone i meccanismi e la tempistica della verifica da parte della Commissione) e introdotto un nuovo principio che si può denominare della condizionalità che introduce meccanismi di attribuzione premiale di risorse aggiuntive sulla base di indicatori di performance finanziari, di efficacia e di qualità. Come anticipato, al fine di rafforzare e rendere più incisiva l’azione dei Fondi, gli Obiettivi prioritari vengono ridotti da sette a tre, di cui due regionali e un terzo orizzontale: • Obiettivo 1: promuovere lo sviluppo e l’adeguamento strutturale delle Regioni che presentano ritardi nello sviluppo; 51 • Obiettivo 2: favorire la riconversione economica e sociale delle zone con difficoltà strutturali; • Obiettivo 3: favorire l’adeguamento e l’ammodernamento delle politiche e dei sistemi di istruzione, formazione e occupazione. Viene altresì ridotto il numero delle iniziative comunitarie da tredici a quattro: • INTERREG, riguardante la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale diretta ad incentivare lo sviluppo e l’assetto armonioso ed equilibrato del territorio europeo (finanziata dal FESR); • URBAN, che promuove lo sviluppo urbano mediante la rigenerazione economica e sociale delle città e dei quartieri in crisi (finanziata dal FESR); • LEADER+, che sostiene lo sviluppo rurale attraverso iniziative di gruppi di azione locale (finanziata dal FEOGA); • EQUAL, che propone l’approccio integrato e la cooperazione transnazionale per la lotta alle discriminazioni e alle disuguaglianze presenti nel mondo del lavoro (finanziata dal FSE). Una novità importante introdotta con la Programmazione 2000-2006 è il sistema di nuove regole in tema di gestione e controllo dei contributi concessi nell'ambito dei fondi strutturali38. I Regolamenti provvedono a definire con maggiore precisione la divisione di responsabilità tra il livello comunitario e il livello nazionale: • alla Comunità spetta definire le priorità strategiche di intervento, il cui rispetto è verificato dalla Commissione • agli Stati membri e alle Regioni compete la responsabilità primaria in merito all’attuazione, alla valutazione e monitoraggio39 e al controllo. 38 Cfr Regolamento (CE) 1260/1999 del Consiglio del 21 giugno 1999 recante disposizioni generali sui Fondi strutturali (GUCE serie L n. 161/1 del 26 giu1999) e Regolamento (CE) 438/2001 della Commissione del 2 marzo 2001 recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1260/1999 del Consiglio. 39 Il nuovo regolamento attribuisce particolare rilevanza ai processi di valutazione e monitoraggio. In merito alla valutazione sono previsti tre momenti diversi per la realizzazione di attività di valutazione: ex ante, intermedia ed ex post; ciò in virtù della necessità di valutare gli interventi in vista della loro pianificazione, della loro revisione intermedia e di una stima del loro impatto. Alla valutazione si associa l’importanza delle attività di monitoraggio la cui rilevanza viene accresciuta, come si evince dalla previsione di adempimenti dettagliati e scadenzati, relativamente all’elaborazione dei sistemi di monitoraggio e alla comunicazione dei dati alla Commissione. Tali adempimenti impongono di fatto uno stretto e continuo confronto tra quanto previso in fase di programmazione e pianificazione e quanto realizzato: ciò ha implicato l’ottimizzazione di processi informativi interni alle Amministrazioni titolari di Intervento e l’implementazione di un sistema nazionale interoperativo di raccolta e interfaccia con la Commissione europea (MONITWEB). 52 In tale contesto si colloca la ridefinizione dei compiti del Comitato di Sorveglianza, dell’Autorità di Gestione e dell’Autorità di Pagamento dei Programmi operativi e in particolare il principio di distinzione dei ruoli e delle funzioni. Le principali novità introdotte vanno ad interessare principalmente i flussi di pagamento al fine si incoraggiare gli Stati membri a rendere più snelle e fluide le procedure di attuazione: • l’erogazione dei pagamenti in tre fasi: un primo acconto pari al 7% del contributo totale; pagamenti intermedi (fino a un totale massimo del 95%) a rimborso di spese effettivamente sostenute e documentate; saldo al ricevimento di tutta la documentazione attestante le spese sostenute, oltre alle relazioni annuali e finale del programma; • il disimpegno automatico delle risorse per cui non è stata presentata domanda di pagamento dopo due anni dalla data di impegno. Per quanto attiene nello specifico al Fondo sociale europeo, il tratto distintivo della Programmazione 2000-2006, peraltro già annunciato dalle tendenze più innovative di quella precedente, è rappresentato dal notevole ampliamento delle attività ammissibili. Questo elemento, associato ad un incremento massiccio della dotazione finanziaria ha consolidato la centralità e il protagonismo del Fondo Sociale nel quadro delle politiche regionali, nazionali e comunitarie di sviluppo delle risorse umane. In base al regolamento le azioni ammissibili vengono distinte in tre macrotipologie: • aiuti alle persone nel cui ambito sono comprese quelle attività dirette a sviluppare e migliorare le risorse umane, aumentando le possibilità di inserimento nel mercato del lavoro. Le azioni principali a sostegno delle persone riguardano soprattutto l’istruzione e la formazione professionale, l’orientamento, l’apprendistato, la formazione di base, l’insegnamento e l’aggiornamento delle conoscenze di base, gli aiuti all’occupazione, l’alta formazione. • lo sviluppo delle strutture e dei sistemi, volto ad aumentare l’efficacia delle attività dirette alle persone attraverso lo sviluppo ed il miglioramento dei sistemi di formazione professionale, di istruzione e dei servizi per l’impiego, compresa la formazione degli insegnanti, dei formatori e degli operatori. Gli interventi del FSE sono inoltre diretti a migliorare la conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa, incrementare le possibilità di accesso alla formazione e all’acquisizione di qualifiche, oltre che a sviluppare l’integrazione tra mercato del lavoro e istituti di istruzione, formazione e ricerca. • misure di accompagnamento quali la fornitura di servizi e strutture per l’assistenza a familiari, per permettere ai beneficiari di usufruire realmente delle azioni a loro favore; 53 iniziative intese ad agevolare interventi integrati per l’inserimento lavorativo, azioni di sensibilizzazione, informazione e pubblicità. I target di riferimento per l’elegibilità degli interventi comprendono tutta la popolazione attiva, senza distinzione di status tra occupati e disoccupati, tra settori di appartenenza, tra livelli di età od obiettivi. Con la programmazione 2000-2006 il FSE evolve a strumento di attuazione di una programmazione per aree prioritarie di policy, superando le modalità prevalenti del passato che operavano in una logica riparatoria e per gruppi di target concentrando la propria azione su interventi mirati a persone in condizioni di svantaggio o difficoltà lavorativa. In corso di attuazione si è progressivamente reso evidente come l’ampliamento del raggio di azione del Fondo, in termini di risorse, obiettivi e ambiti di intervento non si esauriva in una semplice operazione di “attualizzazione” dello strumento alla complessità e frammentarietà delle molteplici realtà economiche e sociali, ma si è venuta piuttosto traducendo in una revisione della propria missione. Il Fondo sociale europeo, infatti, associando l’impegno a favore di maggiori livelli di lavoro e dell’innalzamento degli standard di vita dei lavoratori, ha contribuito con i suoi interventi agli obiettivi fissati dalla Strategia Europea per l’Occupazione. In quest’ottica, il Fse anticipando il tratto distintivo della programmazione 2007-2013, è venuto assumendo un ruolo non più di mera natura finanziaria, ma anche e soprattutto strategico-politica. 3.3. Il processo di Copenhagen La Strategia di Lisbona non poteva non implicare la riaffermazione di una politica per le risorse umane che parta da un investimento sulle competenze e quindi sui sistemi di istruzione e formazione. La modernizzazione del modello sociale europeo, si fonda, in prima istanza, sulle leve dell’istruzione e della formazione “per vivere e lavorare nella società dei saperi”. In tal senso, il Consiglio europeo di Lisbona domandava ai ministri dell’istruzione degli Stati membri di avviare una riflessione generale sugli obiettivi futuri dei sistemi di istruzione basata sulle preoccupazioni e sulle priorità comuni, sempre nel rispetto delle diversità nazionali. Il Consiglio “Istruzione”, in ottemperanza al mandato conferitogli, il 12 febbraio 2001, ha adottato e sottoposto all’approvazione del Consiglio europeo di Stoccolma del marzo 2001, il rapporto “Istruzione e formazione in Europa: sistemi diversi, obiettivi comuni per il 2010. Il programma di lavoro sugli obiettivi futuri dei sistemi di istruzione e di formazione”. Si tratta del primo documento ufficiale che definisce un approccio europeo globale e coerente nei confronti delle politiche nazionali di istruzione e formazione nell’Unione europea, sulla base di tre obiettivi: 1 aumentare la qualità e l’efficacia dei sistemi di istruzione e formazione nell’Unione europea; 54 2 migliorare l’accessibilità di tutti i sistemi di istruzione e di formazione; 3 aprire al mondo esterno i sistemi di istruzione e formazione. Per portare a realizzazione il programma di lavoro prefissato, i Ministri dell’istruzione, riuniti a Copenhagen nel novembre del 2002, raccoglievano l’indicazione data a Bruges nel 2001 di rafforzare la cooperazione politica nei settori dell’istruzione e della formazione professionale in analogia con le misure adottate nell’ambito del Processo di Bologna per l’istruzione superiore40. Veniva in tal modo approvata una Dichiarazione sulla promozione di una maggiore cooperazione europea in materia di istruzione e formazione professionale e sullo stesso tema il Consiglio nel dicembre 2002 adottava una apposita risoluzione. In questa occasione i Ministri hanno fatto proprie le seguenti priorità, già evidenziate nel programma di lavoro approvato a Stoccolma: • un quadro unico per la trasparenza di competenze e qualifiche; • principi comuni per la validazione e certificazione dell’apprendimento formale, informale e non formale; • un sistema di trasferimento dei crediti per l’istruzione e la formazione professionale, ispirato al sistema ECTS adottato nell’ambito dell’istruzione superiore; • principi qualitativi comuni in materia di istruzione e formazione professionale, attraverso il Forum europeo sulla qualità; • orientamento professionale permanente, con l’obiettivo di rafforzare la dimensione europea dell’orientamento informativo e dei servizi di consulenza per consentire ai cittadini di fruire di un migliore acceso all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. La dichiarazione di Copenaghen, estendendo il metodo del coordinamento aperto alle materie dell’istruzione e della formazione professionale, conferisce al programma di lavoro un mandato per lo sviluppo concreto delle priorità definite a livello comunitario, inaugurando per la prima volta 40 Il Processo di Bologna è un processo di convergenza dei sistemi universitari a carattere europeo che si propone di realizzare uno Spazio Europeo dell'Istruzione Superiore. Vi partecipano al momento 46 paesi europei, con il sostegno di alcune organismi internazionali, tra cui la Commissione europea, il Consiglio d'Europa e l’UNESCO. L'obiettivo perseguito è i sistemi di istruzione superiore dei paesi europei e le singole istituzioni siano organizzati in maniera tale da garantire: • la trasparenza e leggibilità dei percorsi formativi e dei titoli di studio; • la possibilità concreta per studenti e laureati di proseguire agevolmente gli studi o trovare un'occupazione in un altro paese europeo; • una maggiore capacità di attrazione dell'istruzione superiore europea nei confronti di cittadini di paesi extra europei; • l'offerta di un'ampia base di conoscenze di alta qualità per assicurare lo sviluppo economico e sociale dell'Europa. Il processo non si propone l'armonizzazione dei sistemi, ma persegue il mantenimento della loro diversità, sia pur all'interno di una cornice comune e si impegna a costruire ponti tra Paesi e sistemi di istruzione diversi, mantenendone al contempo la specificità. 55 dalla firma del Trattato di Maastricht, uno spazio di azione politica a livello comunitario nel settore dell’istruzione. Nel dicembre 2004, a Maastricht, i Ministri dell’istruzione e della formazione di 32 Paesi europei, le parti sociali e la Commissione hanno fatto il punto dei progressi compiuti dall’adozione della Dichiarazione di Copenhagen ed hanno concordato di rafforzare ulteriormente la cooperazione, al fine di modernizzare i sistemi di istruzione e formazione per rendere l’economia europea più competitiva e offrire a tutti gli europei le competenze di cui hanno bisogno per una piena integrazione nella società della conoscenza, contribuendo alla creazione di posti di lavoro migliori e più numerosi. Ne è scaturito il Comunicato di Maastricht nel quale vengono riviste le priorità d’azione del processo per gli anni a venire: 1. rafforzare le priorità definite a Copenaghen; 2. sviluppare un quadro europeo per le qualifiche; 3. sviluppare e mettere in pratica un sistema europeo di trasferimento di crediti per la formazione professionale; 4. fare un’analisi dei bisogni di apprendimento dei formatori; 5. migliorare la portata e la qualità degli indicatori in materia di formazione professionale. Ad oggi i risultati più significativi ed esemplificativi del Processo di Copenhagen sono: • Europass - Il quadro comunitario per la trasparenza delle qualifiche e delle competenze, che raccoglie in un’unica cornice i dispositivi europei che si propongono di rendere più chiare e trasparenti le competenze acquisite a sostegno di percorsi di mobilità geografica e/o settoriale e del lifelong learning41: - il Curriculum Vitae che fornisce ai cittadini l’opportunità di presentare in modo chiaro e comprensibile informazioni relative alle loro qualifiche e competenze; - il Passaporto delle lingue che fornisce ai cittadini l’opportunità di presentare le loro competenze in campo linguistico secondo un quadro standardizzato di autovalutazione; - il Supplemento al diploma che attesta i titoli e le certificazioni rilasciate a seguito di un corso di studi effettuato in una Università o in un Istituto di istruzione superiore; - il Supplemento al certificato che descrive le qualificazioni che corrispondono ad un certificato di formazione professionale; - l’Europass-Mobility che attesta i percorsi europei in alternanza scuola-lavoro e i periodi di formazione effettuata in un paese diverso da quello nazionale. 41 Tutte le informazioni relative ai dispositivi Europass sono disponibili sul sito www.europass-italia.it. 56 La decisione prevede che tutti documenti siano disponibili on-line e su modelli cartacei e a tal fine viene costituito un network europeo di agenzie nazionali responsabili della promozione, del rilascio e del supporto all’utilizzo dei dispositivi. • Quadro Europeo delle Qualifiche (EQF) varato nel 2006 dalla Commissione europea con una Proposta di Raccomandazione. La Proposta intende fornire una descrizione comune dei vari livelli di qualificazione, aiutare gli Stati membri a prenderli a riferimento, facilitare i reciproci riconoscimenti e favorire la mobilità dei lavoratori. L’elemento chiave dell’EQF è l’insieme di otto livelli di riferimento che descrivono in termini di autonomia e responsabilità competenze, abilità e conoscenze degli apprendimenti indipendentemente dal sistema in cui sono state acquisite le qualifiche. 3.4. Il nuovo Programma di azione per l’apprendimento permanente Il 24 novembre 2006 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea (GUUE L 327/45 del 24/11/2006) la Decisione che istituisce per il 2007-2013 il nuovo Programma d’azione per l’apprendimento permanente (meglio noto come “Programma Lifelong Learning”), che è andato a sostituire, unificandoli, i precedenti Comenius, Erasmus e Grundtvig e Leonardo da Vinci, comprendendo anche il nuovo Programma Trasversale ed il programma Jean Monnet. Dalla Valutazione intermedia dei precedenti programmi relativa agli ultimi 4 anni della Programmazione 2000-2006 era emersa l’esigenza comune di una maggiore semplificazione e chiarezza nelle regole e di un generale rafforzamento delle connessioni tra politiche e programmi. Successivamente, dalla procedura di Consultazione pubblica, si sono registrate chiare istanze di snellimento delle procedure gestionali e un maggiore decentramento delle azioni. Inoltre, le medesime valutazioni che hanno inciso sulla riforma degli strumenti di coesione (la crescente competitività, la globalizzazione dei mercati, la necessità di inclusione, le crescenti differenze, culturali e sociali di una Europa allargata) sono stati gli stimoli che hanno indotto la Commissione e gli Stati membri ad immaginare un nuovo dispositivo integrato nel campo dell’istruzione e della formazione lungo tutto l’arco della vita, che utilizzasse i programmi e le risorse a disposizione come strumenti per attuare politiche e strategie coerenti con gli obiettivi posti dal processo di Lisbona, in particolare per promuovere, all’interno della Comunità, gli scambi, la cooperazione e la mobilità tra i sistemi di istruzione e formazione. La scelta di riunire i Programmi già esistenti all’interno di un unico Programma quadro è dettata dalla volontà di creare maggiori sinergie tra i diversi ambiti di intervento, tra i livelli e tra le filiere dei sistemi e di rendere gli strumenti amministrativi più razionali, semplici ed efficienti. Degna di rilievo è la premessa della Decisione per la ricchezza dei richiami alle politiche di cooperazione interrelate con il Programma che vanno dalla Dichiarazione di Bologna (1999), per la 57 costruzione di uno spazio europeo dell’istruzione superiore, al Consiglio di Lisbona (2000), che pone l’obiettivo di massima competitività dell’economia europea entro il 2010, al Processo di Copenhagen (2002), che mira al rafforzamento della cooperazione europea in materia di Istruzione e Formazione Professionale, all’Agenda di Salonicco (2003), alla nuova Europa a 27 Stati membri (2007), per citare solo alcune delle principali strategie in campo. Alcuni dei temi di maggior rilievo di questo nuovo programma possono essere così sintetizzati: • valorizzazione delle diverse modalità di apprendimento in ambito educativo e formativo (formale, non formale ed informale); • attenzione alla promozione della parità tra uomini e donne e all’eliminazione delle ineguaglianze; • attenzione agli aspetti culturali ed al rispetto delle diversità e promozione del dialogo interculturale; • attenzione alle categorie svantaggiate e ai bisogni specifici di apprendimento di individui diversamente abili, anche attraverso azioni specifiche dedicate a tali beneficiari che prevedano sovvenzioni più elevate e l’utilizzo dei linguaggi gestuali e Braille a sostegno dell’apprendimento; • promozione di una cittadinanza attiva, del rispetto dei diritti dell’uomo e della democrazia e del rafforzamento della lotta contro ogni forma di esclusione; • attenzione alla complementarietà con il programma «Istruzione e formazione 2010» e con altre politiche, azioni e strumenti comunitari pertinenti; • maggiore coinvolgimento attivo degli Stati Membri (molte competenze e responsabilità vengono trasferite alle strutture nazionali, Ministeri e/o Agenzie operative). Il Programma è rivolto sia alle persone (studenti, insegnanti, formatori e lavoratori) sia alle istituzioni ed organizzazioni attive a vario titolo nei diversi ambiti della formazione permanente ed è articolato in 4 Programmi Settoriali, coordinati dagli Stati membri: • Comenius, che risponde alle esigenze delle persone e delle organizzazioni coinvolte nell’istruzione prescolastica e scolastica fino al termine degli studi secondari superiori (si prefigge l’obiettivo di coinvolgere in attività educative congiunte almeno 3 milioni di allievi nel corso della durata del programma stanziando almeno l’80% delle risorse in azioni di mobilità); • Erasmus, che risponde alle esigenze delle persone e delle organizzazioni coinvolte nell’istruzione superiore di tipo formale e nell’istruzione e formazione professionali di terzo livello, indipendentemente dalla lunghezza dei corsi o dalla qualifica, compresi i dottorati di ricerca (si prefigge l’obiettivo di raggiungere, entro il 2012, la partecipazione di almeno tre 58 milioni di persone alla mobilità studentesca, stanziando almeno l’80% delle risorse in azioni di mobilità); • Leonardo da Vinci, che risponde alle esigenze delle persone e delle organizzazioni coinvolte nell’istruzione e formazione professionali iniziale e continua (si prefigge l’obiettivo di raggiungere il numero di almeno 80.000 unità annue di tirocini in azienda entro al fine del programma, stanziando almeno il 60% delle risorse in azioni di mobilità); • Grundtvig, che risponde alle esigenze delle persone e delle organizzazioni coinvolte in ogni forma di istruzione degli adulti (si prefigge l’obiettivo di sostenere entro il 2013 una mobilità annua di almeno 7.000 perone coinvolte nell’istruzione degli adulti, stanziando almeno il 55% delle risorse in azioni di mobilità). Ai quattro Programmi settoriali se ne aggiungono due trasversali, coordinati dalla Commissione europea: • il Programma Trasversale, propriamente detto, è concepito per promuovere azioni di interesse comune a tutti e quattro i sottoprogrammi, sostenendone la cooperazione reciproca e promuovendo, nei vari paesi, la qualità e la trasparenza dei sistemi di istruzione e formazione (un’azione specifica è dedicata alla disseminazione dei risultati e delle buone prassi del programma); • il Programma Jean Monnet, che sostiene le istituzioni e le attività nel campo dell’integrazione europea, stimolando attività didattiche di ricerca e riflessione e l’eccellenza dell’insegnamento e della ricerca. Rispetto alla proposta avanzata dalla Commissione, che prevedeva una dotazione complessiva del Programma di 12 miliardi di euro, le risorse ammontano a circa 7 Meuro per l’intero periodo 2007-2013, un dotazione comunque superiore a quella destinato ai medesimi programmi nella precedente programmazione. Il Programma è aperto ai 27 Stati Membri dell’Unione europea, insieme ai paesi dello Spazio economico europeo (Norvegia, Islanda e Liechtenstein), oltre la Turchia in quanto paese candidato per il quale si applica la procedura di preadesione. Sulla base di accordi quadro o bilaterali, il Programma è aperto anche alla Confederazione Elvetica, alla Croazia, alla ex Repubblica jugoslava di Macedonia, oltre ai paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Serbia e Montenegro). A livello nazionale il Programma viene coordinato in parte dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in parte dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e Ricerca. Per l’implementazione operativa dei Programmi settoriali, i due ministeri hanno rispettivamente 59 nominato delle Agenzie Nazionali di riferimento. Per il Programma Leonardo da Vinci il supporto tecnico è realizzato dall’Agenzia Nazionale ISFOL, mentre per i Programmi Comenius, Erasmus e Grundrvig dall’Agenzia Nazionale ANSAS. 3.5. Cenni sul periodo di Programmazione 2007-2013 Con la presentazione della proposta sulle prospettive finanziarie42 e delle bozze dei nuovi Regolamenti nella prima metà del 2004, la Commissione dava avvio al negoziato per il nuovo periodo di programmazione 2007-2013 e, analogamente al periodo precedente, il negoziato non si annunciava di facile corso. Dopo la crisi istituzionale palesatasi a seguito dalla mancata ratifica della Costituzione, con l’esito negativo dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi e in seguito all’infruttuoso Consiglio Europeo di fine giugno 2005 nel quale non si era riusciti a raggiungere un accordo in merito alle prospettive finanziarie 2007-13, l’Unione si trovava, per l’ennesima volta, in una situazione di empasse. L’accordo di compromesso raggiunto in occasione del Consiglio del 16 dicembre 2005, che ridimensionava drasticamente la proposta della Commissione, se da un lato traccia un quadro di certezza indispensabile per affrontare il futuro settennio di programmazione allargata a 25 Stati (27, con l’ingresso di Romania e Bulgaria), per altro verso tradisce dubbi e debolezze dell’attuale fase storica dell’Unione. Il carattere distintivo della riforma dei Fondi Strutturali per il periodo 2007-2013 è dato dall’approccio programmatico più mirato al raccordo organico tra le politiche e le strategie d’intervento e in particolare al raccordo diretto con le priorità e gli ambiti di intervento della Strategia di Lisbona. In questo modo, la politica di coesione, sebbene si trovi ad operare in un quadro sociale, politico, geografico e culturale più vasto e complesso rispetto alla Programmazione 2000-2006, si pone traguardi più ambiziosi in termini di competitività, innovazione, riforme strutturali e occupazione. L’esigenza di concentrazione e verticalizzazione degli sforzi si rende tanto più necessaria per gli Stati membri storici, come l’Italia, che hanno visto restringersi percettibilmente la dotazione finanziaria complessiva dei Fondi. Per il raggiungimento di questi traguardi il settennio di programmazione, conferma tre strumenti finanziari rispetto ai quattro del precedente periodo43: • il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR); • il Fondo Sociale Europeo (FSE); • il Fondo di Coesione (FC)44. 42 Cfr "Costruire il nostro avvenire comune - Sfide e mezzi finanziari dell'Unione allargata 2007-2013" (COM(2004) 101 def.) e Terza Relazione intermedia sulla coesione: verso un nuovo partenariato per la crescita, l’occupazione e la coesione (COM (2005) 192). 43 Il FEOGA e lo SFOP che precedentemente erano compresi all’interno della politica di coesione, pur rimanendo dei fondi a finalità strutturale, vengono gestiti come fondi separati all’interno della politica di sviluppo rurale e non più all’interno del sistema dei fondi strutturali. 60 L’azione dei tre Fondi si ispira a una serie di principi generali di governance e attuazione, in parte ereditati dalle precedenti programmazioni in parte introdotti ex novo: • programmazione degli interventi; • concentrazione territoriale e tematica delle risorse rispetto alle priorità comunitarie; • complementarietà tra i fondi; • addizionalità dei contributi rispetto alle spese strutturali o ordinarie di uno Stato membro; • sussidiarietà nell’attuazione dei programmi (ruolo più incisivo di Regioni e soggetti locali); • proporzionalità dell’azione di controllo rispetto all’entità del contributo comunitario; • coerenza tra obiettivi e strumenti strategici; • partenariato tra Unione, Stati membri, autorità regionali, locali, cittadini, parti economiche sociali ed ogni altro organismo appropriato in rappresentanza della società civile; • semplificazione della struttura e delle fasi della programmazione (riduzione dei regolamenti e degli obiettivi; programmi mono-fondo; abrogazione delle misure per asse prioritario; abolizione del Complemento di programmazione; integrazione delle iniziative comunitarie all’interno della programmazione dei fondi). Alla luce dei citati cambiamenti, la politica regionale è stata ridisegnata attorno a tre nuovi obiettivi: • Obiettivo Convergenza [ex obiettivo 1]: accelerare la convergenza degli Stati membri e delle Regioni in ritardo di sviluppo migliorando le condizioni per la crescita e l'occupazione tramite l'aumento e il miglioramento della qualità degli investimenti in capitale fisico e umano, lo sviluppo dell'innovazione e della società della conoscenza, dell'adattabilità ai cambiamenti economici e sociali, la tutela e il miglioramento della qualità dell'ambiente e l'efficienza amministrativa (finanziato da Fondo di coesione, FESR, FSE); Territori ammissibili: Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. • Obiettivo Competitività regionale e occupazione [ex obiettivi 2 e 3]: rafforzare la competitività, l’attrattività delle Regioni e l'occupazione anticipando i cambiamenti 44 La struttura normativa si è semplificata con una considerevole riduzione dei Regolamenti. Il quadro regolamentare si compone infatti di: • un Regolamento generale: Regolamento (CE) n. 1083/2006 dell'11 luglio 2006; • il Regolamento FESR: Regolamento (CE) n. 1080/2006, del 5 luglio 2006; • il Regolamento FSE: Regolamento (CE) n. n. 1081/2006 del 5 luglio 2006; • il Regolamento FdC: Regolamento (CE) n. n. 1084/2006 del 5 luglio 2006; • un Regolamento che introduce il Gruppo europeo di cooperazione territoriale (EGTC). come strumento legale atto ad agevolare la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e/o interregionale: Regolamento (CE) n. n. 1082/2006 del 5 luglio 2006; • il Regolamento di attuazione dei Fondi: Regolamento (CE) n. 1828/2006 dell'8 dicembre 2006. 61 economici e sociali, inclusi quelli connessi all'apertura degli scambi mediante l'incremento e il miglioramento della qualità degli investimenti nel capitale umano, l'innovazione e la promozione della società della conoscenza, l'imprenditorialità, la tutela e il miglioramento dell'ambiente e il miglioramento dell'accessibilità, dell'adattabilità dei lavoratori e delle imprese e lo sviluppo di mercati del lavoro inclusivi (finanzia da FESR, FSE). Territori ammissibili: Tutte le Regioni escluse dal precedente Obiettivo, comprese la Sardegna in phasing in nell’Obiettivo Competitività e la Basilicata in phasing out dall’Obiettivo Convergenza. • Cooperazione territoriale europea [ex INTERREG]: rafforzare la cooperazione transfrontaliera mediante iniziative congiunte locali e regionali, la cooperazione transnazionale mediante azioni volte allo sviluppo territoriale integrato e la cooperazione interregionale e lo scambio di esperienze al livello territoriale. Territori ammissibili: i territori provinciali (NUTS III) situati lungo le diverse frontiere terrestri e marittime; ai fini della cooperazione interregionale, delle reti di cooperazione e dello scambio di esperienze è ammissibile l'intero territorio della Comunità. L’indirizzo prioritario di rafforzare, a livello comunitario, nazionale e regionale, la convergenza della politica di coesione agli obiettivi di sviluppo fissati dalla Strategia di Lisbona ha inciso sensibilmente nell’identificazione delle fasi e degli strumenti della programmazione che si possono sintetizzare in cinque tappe: • Gli Orientamenti Strategici della Comunità per la coesione rappresentano il quadro Strategico approvato dal Consiglio volto a delineare le priorità d’intervento della programmazione per tutti i Paesi dell’Unione. • Il Quadro di riferimento strategico nazionale che sostituisce il Quadro Comunitario di Sostegno della precedente programmazione, con un approccio più strategico e meno dettagliato, riferito più alle priorità di ciascun paese e alle principali leve per affrontare queste sfide che non alle specificità dell’implementazione45. • I Programmi Operativi: come per la programmazione 2000-2006, vi sono programmi operativi nazionali (PON) e regionali (POR) mono-fondo. Tale programmazione, a differenza della precedente, non prevede misure, ma solo assi prioritari. • La gestione dei programmi e selezione dei progetti: la gestione dei programmi e la selezione dei progetti è di competenza nazionale o regionale. 45 Cfr Quadro Strategico Nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013, presentato alla Commissione europea il 2 mazo 2007. 62 • Il follow-up strategico e dibattito annuale che indica come i programmi contribuiscono alla realizzazione delle priorità comunitarie e al raggiungimento degli obiettivi della strategia di Lisbona. Il dibattito avviene in occasione del Consiglio europeo di primavera e si basa su una relazione annuale della Commissione nei confronti degli Stati membri. In tale occasione, il Consiglio traccia una sorta di bilancio annuale sul contributo dei fondi strutturali al conseguimento degli obiettivi e delle priorità europee. Con riferimento al Fse si prevede una più diretta convergenza con le priorità dell’Unione in materia di occupazione ed inclusione sociale ponendo l’accento sulla piena occupazione e sulla qualità, produttività e competitività del lavoro, alla luce delle sfide legate all'allargamento dell'Unione e del fenomeno della globalizzazione economica. Il suo campo di applicazione è dato dagli obiettivi "Convergenza" (CONV e "Competitività regionale ed occupazione" (CRO) e le priorità nel quadro di questi due obiettivi sono le seguenti: • aumentare la capacità di adeguamento dei lavoratori e delle imprese, al fine di migliorare l’anticipazione e la gestione positiva dei cambiamenti economici; • migliorare le prospettive occupazionali delle persone in cerca di lavoro, delle persone non attive, delle donne e dei migranti; • rafforzare l'inclusione sociale delle persone svantaggiate ai fini della loro integrazione sostenibile nel mondo del lavoro e lottare contro la discriminazione; • potenziare il capitale umano promuovendo da un lato l’elaborazione e l’introduzione di riforme dei sistemi di istruzione e di formazione, e dall’altro attività di rete tra gli istituti di istruzione superiore, i centri di ricerca e tecnologici e le imprese; • promuovere partenariati, patti e iniziative, al fine di promuovere riforme nei settori dell’occupazione e dell’integrazione nei settori del mercato del lavoro. Nel quadro dell'obiettivo "Convergenza", il FSE sostiene anche le seguenti priorità: • potenziare gli investimenti in capitale umano, con riforme in materia di istruzione e formazione; aumentare la partecipazione nei settori dell'istruzione e della formazione lungo tutto l'arco della vita; sviluppare il potenziale umano nel settore della ricerca e dell'innovazione; • rafforzare la capacità e dell'efficacia istituzionali, allo scopo di contribuire al buon governo. Per concludere, le principali novità inerenti l’implementazione e attuazione del Fondo per questo periodo di programmazione possono essere così sintetizzate e riepilogate: 63 • concentrazione del Fondo nell’attuazione delle raccomandazioni e degli obiettivi comunitari, in materia di lavoro, inclusione sociale, istruzione, formazione, innovazione e ricerca e con particolare attenzione alle regioni con maggiore ritardo di sviluppo; • promozione della buona governance e del partenariato. Viene esplicitato l’obbligo per lo Stato Membro di coinvolgere il partenariato economico e sociale nella preparazione, attuazione e monitoraggio del FSE attraverso l’adeguata partecipazione delle Parti Sociali e delle Organizzazioni Non Governative (queste ultime in particolare in materia di inclusione sociale, parità di genere e pari opportunità); • parità tra uomini e donne e pari opportunità, attraverso la descrizione della modalità da seguire nelle varie fasi della programmazione e la promozione di una partecipazione bilanciata nella gestione dei programmi operativi; • diffusione dell’innovazione, attraverso la promozione e il mainstreaming di azioni innovative all’interno di ogni programma e il sostegno alle azioni transnazionali e/o interregionali mediante un approccio orizzontale o un asse prioritario dedicato all’interno di un programma operativo46; • la complementarietà tra FSE ed azioni finanziate da altri fondi comunitari; • la possibilità di finanziare azioni FESR entro il limite della clausola di flessibilità (10% del finanziamento comunitario di ciascun asse prioritario di un programma operativo e 15% per le misure intese a conseguire la priorità “inclusione sociale”); • gli indicatori contenuti nei programmi operativi devono avere carattere strategico, essere numericamente limitati e riflettere quelli impiegati nell’attuazione della SEO e nel contesto degli obiettivi comunitari in materia di inclusione sociale, istruzione e formazione; • le valutazioni del Fondo devono misurare il contributo del FSE all’attuazione della SEO e agli obiettivi comunitari in materia di inclusione sociale, non discriminazione, istruzione e formazione; • nei rapporti di esecuzione, oltre a quelli già previsti dal Regolamento Generale, sono richiesti elementi specifici per i Rapporti annuali e finale di esecuzione sui seguenti punti: dimensione di genere, migranti, minoranze, altre categorie svantaggiate, attività innovative, azioni transnazionali e/o interregionali; • Ad integrazione di quanto stabilito dal Regolamento Generale in materia di ammissibilità delle spese, per il FSE sono previste disposizioni specifiche47. 46 Le Regioni italiane hanno deciso di inserire nei propri programmi operativi regionali un asse prioritario dedicato alla transnazionalità. 47 Il Regolamento Fse indica le condizioni per l’ammissibilità di alcuni costi (IVA, indennità, costi indiretti forfettari e ammortamenti) e l’inammissibilità per altri (l’acquisto mobili, attrezzature, veicoli, infrastrutture, beni immobili e terreni; interessi passivi). 64 Conclusioni La Strategia di Lisbona, nella sua versione rinnovata, evidenzia una tensione dialettica tra due tendenze: da un lato l’impianto funzionalista di storica memoria continua a estendere per fasi progressive il proprio raggio integrazione delle politiche comunitarie; sul versante opposto gli Stati membri, in questa fase storica dominata dai processi di allargamento e dall’incertezza degli equilibri politici ed economici mondiali, sembrano accettare se non in qualche caso favorire la tendenza alla disgregazione delle istituzioni, o per lo meno all’indebolimento dei meccanismi e delle forme di decisione e di azione comunitaria a vantaggio di approcci improntati agli accordi o alle convergenze di tipo intergovernativo. Al di là della Costituzione, delle prospettive finanziarie, delle riforme di bilancio, dell’irrisolta questione del deficit democratico delle istituzioni europee, oggi la sfida si gioca proprio intorno a questa dialettica che dalle Commissioni Delors ad oggi non ha trovato un punto di equilibrio o sintesi e che per questo rischia di mettere in crisi l’intero bagaglio di integrazione sinora acquisito. Lo scontro di queste forze contrapposte si gioca ad un livello di difficile comprensione per i cittadini europei e l’effetto alone di questa distanza genera un senso di sfiducia di cui, in questi ultimi anni, si registrano a più riprese i sintomi diffusi. L’Unione europea, nata da uno storico compromesso ma a partire dai grandi ideali della pace, della democrazia, della libertà, dei diritti umani e civili, oggi si trova più che mai a dover ridiscutere e ridisegnare il proprio assetto istituzionale nonché il proprio ruolo geopolitico mondiale e a farlo con la stessa forza e lo stesso spirito che i suoi fondatori sono riusciti a infondere a questo progetto politico nel corso degli ultimi cinquant’anni se non vuole soccombere di fronte alle grandi sfide dell’epoca presente: sfide energetiche e ambientali, sfide demografiche e sociali, sfide economiche e produttive, sfide politiche e interculturali. 65 Bibliografia ANIDE 1996, La politica comunitaria della formazione professionale, a cura di D. Sertorio, Roma, SIPI editore. Cameron (1989) 1993, Storia economica del mondo, Bologna, Il Mulino. Chabod (1961) 1995, Storia dell’idea d’Europa, Bari, Laterza.. Club di Firenze 1996, Europa: l’impossibile status quo, Bologna, Il Mulino. 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