le favole - Giovanna Righini Ricci

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le favole - Giovanna Righini Ricci
LE FAVOLE
Giovanna Righini Ricci oltre a romanzi per ragazzi, ha scritto una serie di favole appassionanti e di
successo, diffuse anche dalla RAI, nella rubrica La Radio per le scuole 84.
Della scrittrice ravennate abbiamo la raccolta: I figli di Kira 85, successivamente rimodellata e ampliata
nelle edizioni “Il Capitello” col titolo: Un rifugio in fondo al mare 86, e sempre per quest’ultimo editore
abbiamo l’albo Platone cane dormiglione 87, per le prime classi della scuola primaria; oltre, poi, al
volume Gli animali e l’uomo 88, che raccoglie racconti di autori italiani e stranieri «sul legame di
solidarietà, affetto, dedizione e a volte di amore-odio che spesso si crea tra bestie e uomini, in cui
vengono analizzati i risvolti psicologici, affettivi che questo rapporto comporta» 89.
Premesso che la favola è narrazione a schema fisso con protagonisti animali, non molto articolata,
generalmente con due personaggi, con la morale espressa in coda al racconto…, quelle di Giovanna
Righini Ricci sono caratterizzate dall’ariosità del racconto e dalla capacità di far leva sull’effetto
emotivo prodotto, quasi come voler richiamare situazioni penose, per smuovere i sentimenti umani;
dunque sono per metà favole e per l’altra metà racconti e fiabe.
Giovanna Righini Ricci è come se mostrasse con la sua produzione la presenza nel mondo sia del male
sia del bene, tenendosi sempre ben lontana dalle atmosfere patinate; le vicende narrate hanno, infatti,
un carico esperienziale tale da sciorinare senza infingimenti la complessità del reale; nello stesso tempo
le storie stimolano la resistenza attiva del lettore; nel senso che di fronte alle aberrazioni umane e
sociali, l’Autrice spinge l’individuo a non abiurare e non scoraggiarsi; infatti, i racconti dell’Autrice
tendono ad affinare il coraggio individuale; e contrariamente all’idea dell’inutilità di un gesto solitario,
l’Autrice ne afferma tutto il suo valore, perché è convinta che l’oceano è formato dalla somma di
singole gocce.
Ma torniamo ai testi. Nella letteratura per l’infanzia ci sono stati già esempi di animali protagonisti;
basterà ricordare: Le memorie di un pulcino (1875) di Ida Baccini (1850-1911) o i più celebri I libri
della giungla (1893-1895) di Rudyard Kipling (1865-1936), La carica dei 101 (1956) di Dodie Smith
(1896-1990), o ancora la celeberrima La gabbianella e il gatto (1996) di Luis Selpùveda (1949), per
non parlare di Grogh, storia di un castoro (1952) di Alberto Manzi (1924-1997).
I figli di Kira, oltre a dare il titolo alla raccolta, è tra le favole più avvincenti e ben articolate scritte da
Giovanna Righini Ricci. Narra la storia di una famiglia di cani randagi costituita da Kira, la madre, e da
tre cuccioli: Bobo, Tobo e Zibo, rispettivamente: affettuoso, debole, prepotente. Vivono nei pressi di un
camping vicino al mare, passando inverni di penuria. Zibo incontra una cagnetta da salotto (con
vestitino e scarpette) e viene scacciato perché sporco; in lui cresce la rabbia d’essere diverso e un
desiderio di riscatto. Un atto di ribellione lo porta a fuggire e andare incontro al suo destino: viene
84
Il primo racconto sceneggiato è stato trasmesso il 26 novembre 1969, indirizzato al primo ciclo della scuola elementare
(1° e 2° classe): Duna, la cangurina tutta azzurra. Per la scheda editoriale, cfr. “La Radio per le Scuole”, ottobre-dicembre,
n. 1, ERI – Ed. RAI Radiotelevisione italiana, Roma 1969, p. 54.
Il secondo racconto è trasmesso l’1 aprile 1970, indirizzato a tutte le classi delle scuola elementari: Sigfrido, asinello
giocherellone. Per la scheda editoriale, cfr. “La Radio per le Scuole”, marzo-maggio, n. 3, ERI – Ed. RAI Radiotelevisione
italiana, Roma 1970, p. 32. Il terzo racconto è trasmesso il 29 aprile del 1970, per tutte le classi delle scuole elementari:
Fipo, pinguino bugiardo. Per la scheda editoriale, cfr. “La Radio per le Scuole”, marzo-maggio, n. 3, cit., p. 58.
85
G. RIGHINI RICCI, I figli di Kira, Edizioni Massimo, Milano 1983.
86
G. RIGHINI RICCI, Un rifugio in fondo al mare, Il Capitello, Torino 1994.
87
G. RIGHINI RICCI, Platone cane dormiglione, Il Capitello, Torino 1982.
88
G. RIGHINI RICCI (a cura di), Gli animali e l’uomo, Bruno Mondadori, Milano 1980.
89
D. GIANCANE, Educare con la letteratura: l’itinerario narrativo di Giovanna Righini Ricci, cit., p. 25.
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catturato, diventa cavia di laboratorio e muore. Prima di morire ricorda le parole della madre: «Meglio
la fame in libertà che una ricca schiavitù» 90.
Tobo invece dopo una mareggiata è salvato e adottato da una famiglia; vive in città conducendo una
vita semplice; infine, Bobo, dopo aver salvato una bambina, è addestrato e finisce per diventare guida
per un cieco.
L’anima di Kira guarda i suoi figli che in diversi modi hanno ottenuto quello che desideravano: Zobo,
l’irascibile, che voleva bruciare le tappe, ha quello che cercava: un vestito e delle scarpette nel paradiso
dei cani; Tobo si accontenta di quello che la vita gli riserva senza chiedere altro; Bobo (il più docile) è
felice di prodigarsi per il prossimo, certo di fare felice anche la madre qualora lo guardasse dall’al di là.
Ed è contenta anche Kira che si specchia nella felicità dei figli:
«Mamma Kira lo vedeva [vedeva Bobo sistemato]! Dal paradiso dei cani accanto al suo Dober, lo
fissava, orgogliosa, con occhi dolci e selvaggi. Poi volgeva lo sguardo verso il grasso Tobo, che
correva per il praticello assieme alla bianca Lilla, innamorato e felice; infine sorrideva a Zobo, che
saltellava nella vasta prateria, eternamente cucciolo, con gli scarpini rossi danzanti nell’aria» 91.
Una specie di compensazione: nell’al di là ognuno ottiene quello che spera in vita. E la mamma Kira,
come per natura, non chiede niente per sé perché si riflette nella contentezza della sua prole.
È una favola scritta con grande misura, con le tre figure di cani sovrapponibili a tipi umani: si
condannano indirettamente gli atteggiamenti eccessivi o le risposte violente, come per dire che il male
compiuto è un boomerang, che spesso ricade su chi lo compie. Si esalta invece il soggetto modesto che
si accontenta, perché nella semplicità è racchiusa la ricchezza della vita.
Ma c’è alla base anche, com’è tipico nella scrittrice, una sottile religiosità, una visione della vita che
contempla la dimensione ontologica, grazie alla quale si ha la speranza di credere in una dimensione
provvidenziale.
Spiridione, riccio scontento è una favola che punta un tema comune nei soggetti in formazione: il
sentimento dell’accettazione di sé.
Quando la personalità deve formarsi, il soggetto mostra tutta la sua vulnerabilità; ogni persona altro da
sé diventa un modello, perché vista con forme più definite delle proprie; e ciò non perché lo sia
veramente, ma perché c’è alla base un’insicurezza che deriva dalle trasformazioni in atto della propria
mente e del proprio corpo.
E così Spiridione: Madre Natura gli ha dato tutto per essere felice…, ma gli manca una pelliccia. Le
esperienze invece gli mostrano quanto sia efficace il suo mantello di spine per difendersi dai serpenti,
dall’attacco di cani e in particolare dai cacciatori, che rastrellano proprio gli animali con pelliccia. A
questo punto Spiridione rimodula i parametri interpretativi e finalmente si vede bello per quello che è;
alla fine vede la sua ombra proiettata:
«La sua ombra lo seguiva ora, tonda, irta e sempre più consistente, perché Spiridione sceglieva a bella
posta le zone più scoperte per potersela guardare, di sottecchi, pensando: – Non è niente male, questa
mia ombra! Proprio niente male!»92.
Sono le esperienze, specialmente quelle negative, che aiutano la crescita e a far capire il valore sia di
ciò che si è avuto in dono sia dell’unicità di ogni essere vivente; insomma ognuno è bello per com’è (o
per come è stato creato: il mio naso sta bene sul mio viso e meno bene sul volto di un altro).
Una bella favola che inquadra la vita nel suo comporsi mentre corre incontro agli eventi e chissà che
non sia anche una sorta di manifesto contro le idiozie di quanti corrono dietro la chirurgia estetica!
90
G. RIGHINI RICCI, I figli di Kira, cit., p. 23.
Ivi, p. 28.
92
G. RIGHINI RICCI, Un rifugio in fondo al mare, cit., p. 31.
91
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Non solo, ma nel percorso esperienziale di Spiridione vi è pure l’importanza dell’amicizia e
dell’altruismo: sono due sentimenti che il protagonista mostra di avere per il topino Olindo, senza il cui
rimando affettivo il processo di autocoscienza non ci sarebbe stato con la stessa pregnanza.
Ina, la delfina è la storia di un delfino, Uro, gravemente ammalato. La madre Ina e l’anziana delfina
Cira si rivolgono ad un’orca per guarirlo; questa non ci riesce, allora spingono l’ammalato verso una
baleniera; i marinai lo imbarcano, il medico di bordo gli pratica delle incisioni e lo salva. Quando la
barca s’affretta a lasciare le acque artiche per l’incipiente inverno, i due delfini la scortano con salti di
gioia per ringraziare:
«Il mare è ora cupo e fremente e i ghiacci avanzano, l’uno stretto all’altro in drappello minaccioso
mentre il vento gelido del Polo spazza il cielo. La nave bianca ha già levato l’ancora e tutti i matinai
brillano di allegria negli occhi: si ritorna a casa, finalmente! […]
Pulsano i motori, vibra la nave, da cima a fondo, impaziente di prendere il mare.
- Addio, delfini! Alla prossima primavera! - Esclama il rosso Hans, e ha una strana raucedine
nella voce, mentre la baleniera spicca la sua corsa.
Il cerchio dei delfini ricama per un po’ l’orizzonte; poi la nave aumenta l’andatura e uno, due, dieci di
essi si staccano, dileguano fra le onde; ora la superficie del mare è di livido acciaio.
- È finita per loro! Addio scorpacciate a sbafo! - Commenta il vecchio marinaio dalla pipa.
- Ehi, ragazzi: guardate là! - Esclama a un tratto Ivan.
- Cosa sono?... due lastre di ghiaccio… non sono due delfini!
- Filano a tutto vapore!
- Che polmoni, ragazzi! Sembrano locomotive!
I tre si incantano a guardare le due sagome snelle che continuano a seguire la scia della nave e, ora che
si sono avvicinati fino a scorgere le persone ritte a prua, balzano in alto, sempre più in alto, con il muso
ridente, in un addio appassionato; e, nella grazia di quei loro perfetti balzi acrobatici, lenti e possenti
quelli di Ina, esuberanti e pieni di entusiasmo quelli di Uro, c’è un muto ringraziamento.
- Che si fa, qui, con le mani in mano? - Esclama aspramente il capitano, sopraggiungendo dal
boccaporto.
- Là, signor Capitano: guardi quei due delfini!
- È la madre che ha portato da noi suo figlio!
- È guarito perfettamente!
- Bene, va bene, ho capito. Adesso però tutti sottocoperta, perché qui fra poco si balla! – Borbotta
con fare brusco il capitano e i tre, se pure a malincuore, obbediscono. Rimasto solo, sul ponte ormai
spazzato da raffiche gelide, il capitano fissa di nuovo il mare dove stanno ormai dileguandosi le due
sagome snelle, poi leva furtivamente la mano, in segno di saluto. Quindi si guarda attorno, timoroso di
essere stato scorto da qualcuno, e scende piano piano sotto coperta anche lui»93.
Una storia bellissima, che, al di là di alcuni aspetti divulgativi, rintracciabili nei nomi scientifici
richiamati, è avvincente per la rappresentazione dell’istinto materno e per il meraviglioso album del
creato. Vi è un ambientalismo non gridato, che affonda le radici nell’amore della scrittrice per tutti gli
essere viventi.
C’è un’apertura di credito verso l’uomo, che se mosso da sentimenti autentici, può essere il guardiano
della sopravvivenza del mondo.
Kama, lama nemico del tuono è un racconto che mostra la bellezza e i pericoli della crescita. Sono temi
già presenti in Kira, qui però segnaliamo il lieto fine. Kama è un lama delle Ande, intestardito a cercare
il luogo dove si nasconde il tuono. E la ricerca diventa un viaggio d’iniziazione, con ostacoli e prove da
93
G. RIGHINI RICCI, I figli di Kira, cit., pp. 56-57.
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superare: il lama fugge dagli uomini che vogliono asservirlo, da un puma… fino a quando non decide
di tornare a casa. La narrazione ha uno scatto in avanti spazio-temporale; Kama è adulto, esperto del
mondo e si adegua, godendo, di ciò che la vita gli offre, consapevole e pago di aver raggiunto la
serenità.
La vita sta dunque nell’acquisire esperienze, nel viaggio, nell’attraversamento di un altrove, ma con nel
cuore il desiderio di ritornare, affinchè nella raggiunta tranquillità e nella pienezza psicologica si possa
mettere la propria esperienza al servizio degli altri.
Roc, l’aquilotto dei picchi nevosi è una favola dolcissima che presenta la natura nella sua ambivalenza
di bellezza e crudeltà. I genitori di Roc sono uccisi da uno stormo di cicogne migratrici:
«Un tramonto purpureo indugiava sulle cime nevose; l’aquilotto, ritto sull’orlo del nido, fissava
sgomento il cielo dove erano spariti i suoi genitori e una collera sorda si faceva strada nel suo cuore
selvaggio: - Perché dunque ancora non vengono?! Io ho fame, ho fame - gemeva» 94.
L’aquilotto è salvato da una guardia forestale che dopo averlo curato lo libera in montagna. Il racconto
si conclude con la bellissima immagine in cui Roc vola con a fianco un’aquila che le si avvicina per
formare sicuramente una nuova famiglia:
«La guardia forestale, che esplorava con il suo cannocchiale i picchi nevosi e le pendici dei monti, vide
improvvisamente due superbe aquile nere incontrarsi nel cielo e quindi puntare insieme verso il sole,
con un volo così impetuoso che sembrava volessero trafiggere il rosso astro splendente» 95.
Violenza e bellezza rispetto a cui l’uomo può solo fare la sua parte, essere sponda per permettere alla
vita di rifondarsi.
Un rifugio in fondo al mare è un altro racconto struggente; i protagonisti sono due giovani trichechi che
nel mare artico vengono uccisi dai cacciatori, proprio mentre si dichiarano di vivere insieme; le madri,
come ultimo gesto d’amore, inabissano i figli in un rifugio di pace e di silenzio.
«Le due madri levarono il capo al rumore degli spari, videro cadere i figli e, incuranti del pericolo, si
precipitarono verso di loro, ansimando. Li scossero disperatamente, senza capire, mentre sull’altura
apparivano, immensi nelle loro pellicce, due uomini con il fucile al petto. Uno di essi allungò il passo e
disse con voce allegra:
- Finalmente una bella provvista di carne fresca, dopo tanto pesce affumicato! -.
Si diressero senza fretta verso le loro prede, mentre le due madri tentavano ancora di sollevare i corpi
inerti. A un tratto la madre di Dvorac li vide venire, con i lunghi stivali rimbombanti sul ghiaccio.
Allora, rapida come il baleno, afferrò il corpo del figlio e si mise a trascinarlo disperatamente verso
l’acqua; raggiunse il mare e vi si inabissò, con il corpo di Dvorac stretto al petto. Anche la madre di
Sura fece un guizzo improvviso, a pochi passi dai cacciatori e, prima che questi, immobilizzati dallo
stupore, avessero il tempo di imbracciare il fucile, si era già tuffata ed era sparita tra i flutti, con il
corpo della figlia.
- Ma dove vanno?
- Uccidiamole! Altrimenti addio carne fresca!
- Troppo tardi: sono già sott’acqua!
Le due tricheche erano irraggiungibili ormai: calavano pian piano, piangendo, verso il fondo e
cercavano, secondo l’usanza del loro branco, nei verdi abissi marini, dove nessun uomo sarebbe giunto
mai, un rifugio di pace e di silenzio per Dvorac e Sura» 96.
Un gesto paradigmatico dell’amore materno, con a fianco un nitido quadro della violenza gratuita e
spesso senza confini dell’uomo sugli animali (il racconto potrebbe essere un bel manifesto animalisti).
94
G. RIGHINI RICCI, Un rifugio in fondo al mare, cit., p. 35.
Ivi, p. 39.
96
G. RIGHINI RICCI, I figli di Kira, cit., pp. 82-83.
95
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Djanga, elefantessa protestataria è una favola dall’anelito civile. Gli elefanti, vessati dal duro lavoro,
decidono di sparire per spingere gli sfruttatori a concedere ritmi più “umani”. Ritornano per lavorare
meno e meglio, diventando esempi di civiltà; ricorda evidentemente il celebre ammutinamento dei
plebei di Roma sul Monte Sacro per opporsi alle angherie dei patrizi. La storia docet; ma quanto
insegna oggi?
Helloìsa, Fenicottera rosa è una favola che mostra quanto possa pesare a volte il pregiudizio di
ritenersi superiori. È il caso del fenicottero rosa rispetto al pellicano; quando però il cucciolo del
fenicottero, solo e bisognoso, è aiutato dall’umile pellicano, il regale fenicottero capisce quanto sia
importante la reciprocità: non siamo fatti per vivere da soli ma per vivere in comunità e nella
scambievolezza.
È un racconto calibrato sui toni della grazia e dell’eleganza e che manifesta chiaramente la ideale
contrarietà ad ogni forma di discriminazione.
In Polòk, castoro infaticabile ritorna la mano violenta dell’uomo sulla natura. Polòk e Dinka, due
castorini, si vedono uccidere i loro genitori. Ma nella tragedia la vita continua, per fortuna, con la
speranza che poggia sull’amore, che dà la forza di ricominciare. I due protagonisti si allontanano per
rifarsi una vita: il fardello delle esperienze è sopportato proprio grazie al loro sentimento di
condivisione e di reciproco sostegno:
«Dinka, per te costruirò cento, mille case e tutte diverse: una di fiori di licheni, una di muschio, una di
foglie, una di fuscelli, una di sassolini…
E cantava, accompagnandosi con il battito allegro della coda: tap, tap, tap! Allora Dinka si metteva
all’opera, nella sua bella casa, e rispondeva: tip, tip, tip, allegramente, perché ora le piaceva lavorare.
Sopra le loro teste passava una brezza già tiepida e sospingeva davanti a sé le ultime nuvole»97.
Zibesti, leone pacifista è una favola che punta il problema della diversità. Zibesti è un leoncino che non
mangia carne, è dunque deriso, ma principalmente non ha scampo alla morte. Il racconto però è a lieto
fine perché il leoncino è raccolto da una guardia del Parco nazionale e nutrito.
«- Sei proprio sicuro che sia un leoncino?!
Zibesti li fissava, tranquillo, con i grandi occhi chiari. Lo sollevarono delicatamente, lo issarono sulla
jeep, lo coprirono con una stuoia; Zibesti, sazio e sereno, li lasciò fare; poi, ascoltò, già prossimo al
sonno, il ronzio del motore che scoppiettò, ruggì, mentre la camionetta riprendeva la sua corsa, sotto gli
sguardi candidi di un’intera famiglia di gazzelle, attraverso il Parco Nazionale.
- Un leone che lecca frittelle! Che degradazione, per la sua razza! – risero ancora i due.
Ma Zibesti non si offese: Zibesti dormiva placidamente» 98.
La chiusa è altrettanto dolce con l’indicazione indiretta che se non cresce l’adeguata comprensione e il
rispetto dell’altro con tutte le sue peculiarità, è difficile che il “diverso” possa farcela; dunque,
l’Autrice rimanda la palla a Noi, alla civiltà degli uomini e degli Stati.
Carolina, ostrica sognatrice è un racconto in cui troviamo un’ostrica che vuol fare esperienze, ma
essendo giovane, dunque vulnerabile, cade vittima inconsapevole delle false galanterie di un granchio.
Leggiamo la parte finale della favola; Carolina racconta alle sorelle le avventure compiute dopo essersi
allontanata da casa:
« - Era tutto meraviglioso; la sabbia d’oro, il sole di fuoco, il fiume azzurro, le palme carezzate dal
vento… che sogno, sorelline mie! - Racconta Carolina, tutta eccitata: - E poi ho incontrato Doddone,
un granchio così bello, così gentile… se sapeste! Mi ha accompagnata a bere l’acquadolce del fiume, a
toccare le pepite d’oro, a passeggiare sulla barriera dei coralli rosa; e, la sera, siamo andati al banco
97
98
G. RIGHINI RICCI, Un rifugio in fondo al mare, cit., p. 81.
Ivi, p. 93.
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delle alghe portoricane, un localino così suggestivo, con mille lucciole in abito da sera e una piovra
tentacolare che suonava infiniti strumenti… oh, sorelline mie, come ero felice…! Al ritorno abbiano
vagato, fianco a fianco sotto la luna piena…
- E poi…?
- Racconta, Carolina!
- Devi dirci tutto!
- Su, parla dunque!
- … E poi io ho detto che volevo tornare qui da voi, allo scoglio…
- Tornare…?
- Allo scoglio…?!
- Che sciocca!
- Cos’ha detto Doddone?
- Beh, Doddone era molto dispiaciuto. Mi ha pregata, scongiurata di rimanere insieme a lui…
- Allora?
- Racconta!
- Non farci restare sulle spine, Carolina!
- Oh, sorelline mie, arrossisco ancora tutta al pensiero… Doddone mi ha stretto in un lungo
abbraccio… forte forte… così… con le sue chele possenti… ehi, un momento… apettate… la
perla! Dove ho messo la mia perla? Ph, povera me: Dodone mi ha rubato la perla!!!» 99.
Come a dire che la natura non facit saltus, e che la fase delicata della crescita in cui cambia il proprio
corpo e ci si dispone al mondo degli adulti è così delicata che per attraversarla è necessario un ambiente
ideale, l’adeguata attenzione degli adulti, la misura del soggetto in formazione.
La rivolta della collina è un sogno ad occhi aperti di vivere in un mondo senza cacciatori né cacciati;
un mondo in cui tutti gli esseri viventi sono rispettati, ristabilendo un equilibrio naturale. Un sogno che
porta i cacciatori a dire:
«Per me, ne ho abbastanza della caccia!
Parola mia, mi gioco a carte il fucile!
Io lo cedo per una pinta di birra!
Fu così che da allora gli uomini, senza saperlo, impararono a rispettare gli innocenti abitanti della
collina, i quali mai avrebbero osato sperare di poter vivere, in santa pace, il resto dei loro giorni e di
morire di vecchiaia!»100.
Fipo, pinguino bugiardo è la favola drammatizzata trasmessa dalla RAI. È la storia di un pinguino
bugiardo, catturato e portato in uno zoo, dove allieta la vita di tutti gli animali con le sue storie
inventate:
«Se qualcuno vi dicesse che un pinguino può ridare gioia ai compagni prigionieri in un giardino
zoologico ci credereste? Forse pensate che ciò non sia possibile perché nessun animale è felice nello
zoo; eppure una volta c’è stato un pinguino che è riuscito a ridare gioia a tutti i suoi compagni, perché –
strano a dirsi – era un pinguino bugiardo: affermava di aver vissuto episodi avventurosi, frutto soltanto
della sua fantasia. Se questo pinguino fosse stato un uomo lo avremmo detto “uno scrittore”, che “sa
narrare con meraviglia i fatti più incredibili”»101.
99
G. RIGHINI RICCI, I figli di Kira, cit., pp. 159-160.
Ivi, p. 170.
101
In “La Radio per le Scuole”, marzo-maggio n. 3, cit., p. 58.
100
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Duna, la cangurina tutta azzurra è un’altra favola drammatizzata in cui si ripropone la tragedia degli
animali uccisi per mano degli uomini, e ritorna il motivo di diventare subito adulti per i più piccoli per
sopravvivere.
Da ricordare, infine, Platone cane dormiglione, un albo illustrato da Renata Perez che racconta
l’affascinante storia di un San Bernardo che, lasciato dal nonno in montagna, compie un salvataggio di
un bambino rimasto sotto la neve. Una storia a lieto fine, in cui l’enorme Platone riceve le feste senza
capirne le ragioni: le azioni buone sono compiute per istinto naturale. Il cane docet, dunque.
La Righini Ricci sciorina una serie di protagonisti col fine di accrescere nei più piccoli il rispetto della
Natura e delle sue leggi; è scritto nell’introduzione de I figli di Kira: «Questi ragazzi domani saranno
uomini e se sapranno comprendere qual è il vero ruolo di questo essere superiore sulla terra, allora ci
sarà speranza che la vita continui»102.
Sono racconti che subiscono tutti una torsione romanzesca (quasi alla Oscar Wilde). La narrazione,
infatti, si svolge con l’innesto continuo di vicende e avvenimenti che a loro volta aprendo all’irruzione
continua del meraviglioso, ne conferisce quasi una certa naturalezza.
Fatti narrati che lasciano presagire gli sviluppi della vicenda, senza comunque guastare gli effetti di
sorpresa.
Gli animali protagonisti pur essendo presentati nella loro vita di gruppo e nei loro inconfondibili
caratteri biologici, sono apertamente antropomorfizzati, specialmente per ciò che attiene i sentimenti,
mal celano, alla fine, la finalità di presentare degli assiomi valoriali.
Sono favole spesso cariche di pathos che spingono a far riflettere i bambini sia sui problemi di crescita
individuale, sia sulle dinamiche di gruppo. C’è nell’Autrice la convinzione che tutto si costruisce
lentamente, senza salti, per cui bisogna iniziare dal basso, da quando ancora i bambini sono adultodipendenti; e per dare buone basi, i piccoli hanno bisogno di esempi sani e universalmente riconosciuti.
Ha scritto Nobile che la Righini Ricci ha concorso ad «affrancare la letteratura rivolta al soggetto in
formazione da soffocanti ipoteche didascaliche e moraleggianti e da una comunicazione unidirezionale
e autoritaria, senza però abdicare alla sua responsabilità nei confronti delle giovani generazioni, sempre
fedele a un coerente impegno educativo»103.
Oggi al racconto autorevole, drammatico, commovente si preferisce l’enfatizzazione dell’ironia
corrosiva o l’umorismo disincantato. Il relativismo nichilistico ha preso evidentemente il sopravvento a
svantaggio della rappresentazione dei valori universali. Siamo ad un cambiamento epocale, le cui
manifestazioni si fanno sentire con i suoi effetti anche sul mondo del libro: il relativismo problematico
senza confini potrebbe ricadere sul pianeta libro, con le nefaste prospettive di contribuire a creare un
mondo di automi.
Le favole dell’Autrice romagnola costituiscono una piccola seminagione, per frenare l’espandersi dei
valori transeunti e per difendere quelli imperituri. Il giovane è l’uomo-artefice che potrebbe decidere di
plasmare in modo diverso il mondo.
Nelle favole l’Autrice, come nei suoi romanzi, come si è visto e detto anche in altra sede 104, sprigiona
una sincera tensione democratica, una forte istanza di giustizia e di equità sociale, un richiamo forte
all’autenticità nei rapporti umani, un’attenzione non manierata né ideologizzata per gli emarginati e per
tutte le forme di diversità, oltre ad un’attenzione particolare alle dinamiche psicologiche e volitive dei
bambini nel loro lento ma inesorabile processo di crescita e di formazione della personalità; e tutto ciò
non è detto in modo esplicito, ma lo si respira dagli avvenimenti e dalle storie avvincenti raccontate;
102
G. RIGHINI RICCI, I figli di Kira, cit., p. 9.
A. NOBILE, Prefazione a F. e G. MASINI, Giovanna Righini Ricci un autonomo progetto narrativo-educativo per
ragazzi, cit., p. 5.
104
Cfr. C. RODIA, La narrazione formativa, Pensa Multimedia, Lecce 2010, pp. 161-176.
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anzi possiamo dire che le storie narrate sono funzionali a diffondere una volontà di egualitarismo
coscienziale.
La commozione che sprigionano molte storie, alla fine, il pianto provocato nel lettore, non hanno lo
scopo di originare un patetismo fine a se stesso, ma di creare un cerchio magico, entro il quale esaltare
e condividere sentimenti, un idem sentire, una consonanza che porta a rendersi parte (non marginale) di
un tutto. L’io della Righini Ricci si riconosce nella dimensione collettiva; sembra che dica che non si è
nati per restare soli; il progresso dell’umanità, tra l’altro, è avvenuto man mano che l’uomo ha saputo
consorziarsi (pensare agli Egizi).
Si sprigiona dalla narrazione la convinzione che l’uomo ha un patrimonio interiore al di là della razza o
della cultura, che lo rende unico; una unicità che è pure la ricchezza con cui si costruisce una comunità.
L’Autrice richiama sentimenti e valori che forse potrebbero essere ingombranti oggi, in cui prevale una
sorta di cinismo angosciante e di isolamento fisico e psicologico (nonostante il collegamento continuo
ai social network), ma proprio contro questa deriva è tanto pregnante il richiamo all’amicizia, alla
solidarietà, all’I care di milaniana memoria.
A noi sembra che ci sia, nelle favole della Righini Ricci, un richiamo profondo al valore dell’utopia,
questa dimensione tutta da costruire convenientemente per non far perdere alla vita il senso della realtà;
e innescare, di converso, un processo umano sensibile a sé, agli altri e al mondo che ci ospita,
proponendo uno stile teso alla cittadinanza attiva e attenzione alla salvaguardia del creato.
I racconti sono pervasi da una profonda religiosità, come si diceva, non apertamente dichiarata, ma che
si evince dalle atmosfere, dall’attenzione alle cose semplici, come ad esempio la trepidante
partecipazione per la sopravvivenza di un delfino o di un castoro… Una religiosità che non risiede
apertamente nella fede in Dio, ma nell’uomo (come immagine di Dio), che opera e si organizza nel
Qui, e che insieme, leopardianamente, si è meno soli (nella ricerca).
L’autrice lo dice a modo suo, come ci ha abituati anche con i romanzi, anche se qui (nelle favole) i
tocchi sono oltremodo delicati e avvincenti.
Il linguaggio con cui la Righini Ricci scrive è apparentemente spontaneo, perché alla base vi è una
omogeneità complessiva, frutto di una calibratura approfondita.
È da notare la scioltezza della scrittura che riesce a coniugare precisione e briosità, per non parlare
della forte tensione visiva, tale da creare scorci ambientali, situazioni che quasi il lettore se li vede
davanti agli occhi, scanditi comunque con una tenera gentilezza lontana da forme affettate di leziosità.
La scrittrice usa una serie di artifici narrativi che vanno: dall’espressione dell’io narrante, con cui opera
un trasfert di sentimenti e stili di vita, alla tecnica dell’immedesimazione, alla psicologia dei
personaggi…
Una serie di artifici che conferiscono spessore ai protagonisti delle varie storie, rendendo più ricco il
resoconto narrativo.
Centrale è nella scrittrice il meccanismo di far emergere gli attributi positivi o negativi dei vari
personaggi, che estratti dal protagonista di riferimento acquisiscono universalità, assurgendo a
paradigmi di un comportamento umano rispettoso di sé e degli altri.
Si può parlare di vera e propria denuncia, nelle fiabe di Giovanna Righini Ricci, dei difetti umani quali
la presunzione, l’insipienza, la vanagloria, la violenza gratuita e cieca dell’uomo sulla natura…
La narrazione dell’Autrice romagnola costruisce un universo immaginario, tutto tagliato sulla realtà. Le
conseguenze spazio-temporali hanno, infatti, dei nessi con la realtà.
Non vi è un riferimento specifico a fatti o a una geografia specifica, ma il lettore potrebbe
tranquillamente riconoscere luoghi e situazioni del mondo circostante (che i vari documentari mettono
con allarme sotto gli occhi di tutti).
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Vi è poi di caratteristico nella narrazione un itinerario circolare, in cui il movimento narrativo inizia
con i protagonisti nella fase infantile e termina con la dimensione adulta (è il caso de I figli di Kira o di
Duna, la cangurina tutta azzurra).
Rimane che per diventare adulti, l’eroe deve superare una serie di prove non solo per avere accesso al
mondo delle responsabilità adulte, ma per essere irrobustiti e avere la forza di proporsi con una certa
autonomia (paradigmatiche sono le storie di Djanga, elefantina protestataria, Roc, l’aquilotto dei
picchi nevosi).
I vari personaggi attraversano i vizi e i pregiudizi, si confrontano e si scontrano con essi e chi legge
segue l’eroe e vi si immedesima e ne soffre e prende coscienza, contestualmente, delle aberrazioni
umane, anche della violenza della natura e della necessità di dar vita ad un “consorzio umano” per
creare un mondo più vivibile e più sereno (esemplificativi sono a riguardo le due storie Ina, la delfina e
la drammatica Un rifugio in fondo al mare).
Vi è nelle favole una struttura romanzata, la meccanica favolistica provvede solo a enfatizzare, per
esteriorizzare su scenari meravigliosi le difficoltà interiori che i protagonisti devono risolvere prima
dell’happy end (non sempre garantito).
I lettori non possono che sublimare le qualità esemplate dai personaggi come Zibesti, Duna, Polòk,
Dinka..., che superano le difficoltà della vita (come fosse un processo iniziatico) per diventare adulti e
farcela nonostante le contrarietà della vita.
Spesso emerge (come in I figli di Kira o in Carolina. Ostrica sognatrice) uno svelamento nel racconto
esperienziale dei protagonisti, in cui l’eroe cerca una verità che in realtà l’ha sempre tenuta a portata di
mano (nella fattispecie, l’esperienza ha dato le coordinate di lettura). Alla fine v’è il chiarimento (non
detto, ma evidente dai fatti) che a volte per essere felice non è necessario inseguire sogni ambiziosi,
anzi in una prospettiva di intimismo quietista, la famiglia assurge a nucleo raccolto e tetragono alle
avversità del mondo esterno.
Le varie esperienze negative assolvono il compito di riportare ognuno (lettori compresi) ad una misura
di realtà, in cui il dinamismo energetico dei giovani, per evitare che scivolino verso eccessi, deve
svolgersi nell’ambito protetto e sorvegliato, quale quello della famiglia, dove l’essere muliebre può
continuare a guidarlo (forte di una consapevolezza spirituale più alta).
Anche nelle favole, come nei romanzi, l’Autrice si dispone, più che ad accogliere, ad anticipare l’eco
dei grandi dibattiti quale l’intercultura, l’integrazione del diverso, l’ecologismo…
Aspetti di sensibilità etico-sociale che sono alla base della produzione di Giovanna Righini Ricci e che
rappresentano una sorta di liquido amniotico in cui si muovono fatti e personaggi.
Nel complesso il corpus di favole ereditate dalla scrittrice è apertamente caratterizzato da tinte
progressiste, ancora oggi fondamentali da rispolverare e a cui dare cittadinanza.
La produzione fiabica ha ancora la facoltà di accendere l’immaginazione del lettore e turbare il suo
ordine psicologico per connetterlo ad una realtà da modificare e migliorare (come esempio si ricordi la
già citata favola di Djanga, elefantessa protestataria da cui emerge che lo sfruttamento e l’iniquità
allignano dove vi è divisione e isolamento umano).
Possiamo dire che a trovare spazio è spesso una visione drammatica dell’esistenza, in cui l’eterno
contrasto fra bene e male generalmente si risolve dopo un percorso di redenzione del colpevole (si
ricordi nella fattispecie Helloìsa, fenicottero rosa).
Un ultimo aspetto che vale la pena richiamare è il tema dell’ecologismo, sostanziato sia nelle storie di
mare sia in quelle ambientate in montagna; in entrambi i casi la natura è riprodotta nella sua bellezza
maestosa (tra abissi incontaminati e tra montagne innevate); e in questi grandi scenari cinematografici
l’Autrice sovrappone alla favola, la dimensione romanzata della descrizione visiva della natura
incontaminata, ma sempre minacciata dall’uomo (è il caso delle favole Un rifugio in fondo al mare e
Ina, la delfina).
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In entrambi gli ambienti, quello marino e quello alpino, gli scenari sono sempre quelli presi nella loro
natura incontaminata, di bellezza violenta, il cui livello di incontaminazione affinchè sia preservato
(visto che l’uomo ce l’ha solo in comodato) è necessario vigilare, frenando i vizi e le violenze
dell’uomo, spesso gratuiti o di origine hobbistica.
In questa maniera la letteratura per l’infanzia attraverso la Righini Ricci fa la sua parte sul versante
culturale ed educativo, certo che le emergenze del nostro pianeta impongono un’educazione ambientale
capace di orientare un nuovo modo di vivere il Qui, affinchè si comprenda sin dalla tenera età di abitare
in un villaggio globale, in cui ogni cosa, anche quella più nascosta del pianeta, è parte del tutto; ogni
cosa è interconnessa col mondo senza soluzione di continuità.
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