4 ennio amodio il penalista sullo schermo del cinema italiano
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4 ennio amodio il penalista sullo schermo del cinema italiano
La Rivista del Consiglio Notizie e commenti Anno 2015 4 ENNIO AMODIO IL PENALISTA SULLO SCHERMO DEL CINEMA ITALIANO (*) 1. Se si esclude il bel film di Michele Placido sull’impegno civile e il sacrificio di Giorgio Ambrosoli (1), si può ben dire che il cinema italiano abbia sempre relegato gli avvocati in un angolo poco illuminato in cui la loro professione è rappresentata in modo caricaturale o distorto. È vero che, nel confronto con la produzione americana, il lavoro dei nostri registi e sceneggiatori per il grande schermo rende evidente un vero e proprio «disamore» per tutti gli argomenti giudiziari (2), tanto poco numerose sono le pellicole sui temi della giustizia, per di più quasi sempre non interessate a capire le tensioni e i conflitti che animano la scena del processo penale. In questo quadro già di per sé desolante, l’attenzione dedicata dal nostro cinema alla figura del difensore, e soprattutto al penalista, appare non solo quantitativamente ridotta, ma pesantemente afflitta da visuali preconcette che ne azzerano il tasso di credibilità. Non si vuol certo dire che il legal film debba risolversi artisticamente in una copia dal vero, come se codici e prassi giudiziarie dovessero costituire il rigido copione dei plot narrativi. La cinepresa deve potersi muovere con piena libertà di raccontare gli eventi, anche con finalità di critica sociale ovvero per dare risalto ai drammi che si consumano nelle udienze penali. Quando però lo schermo deforma grossolanamente la realtà, il suo contributo si riduce alla messa in scena di figure di cartapesta che suscitano il sorriso o stimolano il biasimo senza aiutare a comprendere come funziona effettivamente la giustizia in un determinato momento storico. 2. In un primo gruppo di film degli anni Cinquanta e Sessanta, il penalista è raccontato in una chiave cosı̀ farsesca e caricaturale da aver indotto un autorevole sociologo del diritto ad escludere queste opere dalla sua indagine sulla (*) Questo scritto anticipa alcuni temi svolti più ampiamente nel volume Estetica della giustizia penale, di prossima pubblicazione. (1) Un eroe borghese, 1935. Per una sintesi v. R. DANOVI, Processo al buio, Lezioni di etica in venti film, Milano, 2009, p. 191. (2) G. VITIELLO, Perche´ non esiste un courtroom drama italiano, in In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, a cura di G. VITIELLO, 2013, p. 13. 44 La Rivista del Consiglio Notizie e commenti Anno 2015 giustizia nel cinema italiano (3). Si è però rilevato, in senso contrario, che la produzione di quegli anni riflette i moduli della commedia all’italiana che ha le sue radici nel carattere nazionale e si raccorda quindi al profilo dell’italiano medio (4). È quindi utile guardare a questo cinema, pur tenendo conto di tutte le sue profonde distorsioni, per comprendere come sia stato possibile costruire ritratti del penalista manifestamente incongrui. Esemplare è la figura del difensore, impersonato da Vittorio De Sica, in uno degli episodi del film Altri tempi (1952), di Alessandro Blasetti, Il processo a Frine. L’imputata è una popolana cui viene addebitato l’avvelenamento del marito e della suocera. In udienza l’avvocato si esibisce nella sua veste di funambolo della parola, secondo la più logora rappresentazione radicata nella cultura di massa. Si assiste cosı̀ alla trasgressione di elementari regole dell’etica forense quando il difensore chiede, forse anche per un moto di sfida, di condannare la sua cliente all’ergastolo, mentre il pubblico presente sottolinea in modo chiassoso la sua ritenuta inidoneità ad esercitare la difesa: «Avvoca’... lasciate perdere, che la figliola sta già inguaiata...», «Avvoca’ mo’ vi ci mettere pure voi, ma per favore!». Tutta la sequenza dibattimentale si decompone sempre più fino a rinnegare qualsiasi barlume di plausibilità della scena processuale e l’arringa si infila in un banale gioco di parole: poiché la legge impone di assolvere i minorati psichici, «perché non dovrebbe essere assolta una maggiorata fisica come questa formidabile creatura?». Il processo sfocia nella risata che conferma come la scena giudiziaria sia solo un fondale preso a prestito per esaltare la vuotaggine del pomposo avvocato. La galleria dei vizi della classe forense si accresce poi di un altro capitolo nella immagine del penalista che, in uno degli episodi di Un giorno in pretura (1953), di Steno, assiste un giovane che è accusato di aver rubato e mangiato un gatto. Qui viene censurata la presunta inclinazione dell’avvocato, da sempre coltivata nella credenza popolare, a dilatare i tempi e i naturali confini della causa. Nel film il difensore non si ferma davanti all’esiguità del fatto addebitato al cliente e protrae senza costrutto l’arringa fino a quando, preso atto della condanna, esclama: «se serve, porterò questo gatto in cassazione... habent sua sidera lites». Anche in Hanno rubato un tram (1954), di Aldo Fabrizi, è riproposto lo stereotipo di ascendenza popolare dell’arringa inutilmente verbosa che nel film (3) V. TOMEO, Il giudice sullo schermo. Magistratura e polizia nel cinema italiano, Bari, 1973, p. 197. (4) G. VITIELLO, op. cit., p. 21. 45 Notizie e commenti La Rivista del Consiglio Anno 2015 viene infarcita persino da riferimenti a tagliatelle e tortellini. Per la parte dell’avvocato il regista sceglie un noto venditore ambulante di Bologna che riproduce nell’arena giudiziaria le grida sguaiate in uso nel mercato della città emiliana. Un accostamento assai significativo tra attore e personaggio che la dice lunga sul grado di considerazione riservato dalla cultura cinematografica di quel tempo al lavoro del penalista. Alla cupidigia di denaro degli avvocati è dedicato invece un altro episodio di Un giorno in pretura nel quale un difensore di ufficio, comodamente seduto in udienza e impegnato nella lettura del giornale, rifiuta di prestare la sua assistenza ad un imputato che si rivolge a lui per essere difeso, confessando però di non avere soldi per pagare l’onorario richiesto a tambur battente dal troppo indaffarato professionista. È un velenoso ritratto di vita giudiziaria costruito sul falso presupposto del diritto del difensore d’ufficio di pretendere il pagamento del compenso, regime privo di qualsiasi riscontro nella disciplina dell’istituto al tempo in cui il film è stato girato. Ma tant’è: il romanzo popolare della bramosia di denaro degli avvocati basta ad offrire una base per la scrittura cinematografica. L’immagine più devastante è però quella che emerge nei film di questo periodo in cui il difensore rinnega il suo obbligo di fedeltà al cliente e si adopera quindi per farlo condannare. Questo paradosso ha forse origine nell’adagio popolare che scarica sull’avvocato la responsabilità per la sconfitta in sede processuale e viene espresso in una formula del tipo: «il mio legale mi ha fatto condannare». Da qui la strampalata raffigurazione cinematografica di un difensore che tradisce la sua missione e fa di tutto per condurre il suo cliente al rovinoso traguardo della dichiarazione di colpevolezza. Questo modello di penalista patologicamente proteso a scavare la fossa al cliente si ritrova nel film Buonanotte... avvocato (1959), di Giorgio Bianchi. Un legale, ben attento a farsi versare 250 mila lire in contanti prima dell’udienza, insiste nel voler prendere la parola anche se il pubblico ministero ha chiesto l’assoluzione dell’imputato per insufficienza di prove. Ne scaturisce cosı̀ una difesa disastrosa in cui prima l’avvocato mette in rilievo che il suo assistito ha una faccia da ladro e poi ne sottolinea l’incapacità a delinquere proprio perché «la gente quando lo vede mette subito la mano al portafoglio» (5). Alla fine conclude con uno sgangherato ‘‘colpo d’ala’’ che non sottrae il cliente alla condanna: «chiedo l’assoluzione con formula piena perché la faccia non costituisce reato». (5) V. il testo dell’arringa in G. ZICCARDI, Il diritto al cinema, Milano, 2010, p. 100. 46 La Rivista del Consiglio Notizie e commenti Anno 2015 Anche nel film Il bigamo (1955), di Luciano Emmer, un avvocato approssimativo e pasticcione «fa condannare» il suo assistito, ingiustamente accusato di molestie sessuali da una mitomane. E in una pellicola del 1963 di Sergio Corbucci, Il giorno piu` corto, un penalista, che rivelerà nel finale la sua follia, contribuisce a fa dichiarare la responsabilità di due soldati accusati di diserzione. È ben evidente, quindi, che la commedia all’italiana ha scritto pagine tutt’altro che esaltanti sul ruolo del difensore penale nel cinema di casa nostra. Finisce per prevalere l’immagine della macchietta attinta dal sentimento popolare. Atleta della parola, sempre pronto a spremere il cliente e comunque cosı̀ impreparato e incapace da causare l’esito infausto del processo. Questo il ritratto del difensore penale. Persino ai personaggi di contorno come i brigadieri e i marescialli che affollano la scena giudiziaria, il nostro cinema riserva uno sguardo benevolo (6), pur non rinunziando agli spunti caricaturali. Per non dire dei giudici che sono raffigurati con l’attenzione richiesta dalla loro delicata funzione, come nel famoso film di Pietro Germi In nome della legge (1949). Per l’avvocato penalista, invece, il giudizio del grande schermo è impietoso e tombale. Egli diventa il capro espiatorio di tutti i mali della giustizia perché cosı̀ ha decretato l’imperativo desunto dai luoghi comuni che circolano nei salotti borghesi e tra i tavolini dei bar, forse anche perché sorretti dalla persuasione occulta proveniente dalle cronache giudiziarie della stampa e della televisione sempre pronte ad inchinarsi a un pubblico ministero, ma assai poco propense a perdonare il difensore anche per il più piccolo inciampo. 3. Archiviata la vena farsesca della commedia all’italiana, il nostro cinema si avvia negli anni Settanta verso una più consapevole lettura del mondo giudiziario. La cinepresa si orienta però soprattutto verso il fronte dell’azione di polizia con Indagini di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), di Elio Petri, e Confessione di un commissario al Procuratore della Repubblica (1971), di Damiano Damiani in cui l’analisi dei metodi per combattere la criminalità è condotta in chiave problematica nella consapevolezza del possibile conflitto tra rigore della legge e ragioni di efficienza del potere investigativo. Anche con riguardo al ruolo del giudice, la scrittura cinematografica mostra di saper affrontare nella giusta prospettiva le tensioni anche di ordine morale che scaturiscono dai limiti conseguenti alla disciplina dei mezzi di prova rispet(6) G.B. FATELLI, Dal mito alla realta`, andata e ritorno, in Regole e funzioni. Il sistema giudiziario nelle fiction cinetelevisiva, a cura di A. PITASI, Milano, 2010, p. 32. 47 Notizie e commenti La Rivista del Consiglio Anno 2015 to alle esigenze di «giustizia sostanziale» che spingono verso la punizione di esponenti di una società irrimediabilmente corrotta. Il film In nome del popolo italiano (1971), di Dino Risi, offre il ritratto di un giudice che distrugge la prova dell’innocenza di un imputato ritenuto portatore dell’intrinseco disvalore derivante dalla sua appartenenza ad una classe di corrotti, mentre in Detenuto in attesa di giudizio (1977), Nanni Loy affronta il tema drammatico della carcerazione preventiva. Nonostante questo apprezzabile impegno, l’analisi del ruolo del penalista non fa alcun passo in avanti. Continua a trionfare l’immagine negativa di un professionista che, pur essendo ormai affrancato dalla maschera caricaturale elaborata dalla commedia giudiziaria, viene ritratto senza toga, fuori dalla sede naturale delle udienze dibattimentali e presentato come controfigura del cliente, vero fiancheggiatore del mondo criminale. Il primo a muoversi su questa lunghezza d’onda è il regista Pasquale Squitieri che nel film I guappi (1974) propone la storia strampalata di un giovane, cresciuto in ambiente camorristico, che si laurea e indossa la toga per esercitare la professione in ossequio ai più nobili principi, ma finisce invece ingabbiato dalla camorra in un ruolo di sostegno alla cosca. Analogamente in L’avvocato della mala (1977), di Alberto Marras, il penalista viene raffigurato nell’adempimento di un incarico illecito che gli fa assumere la veste di ricettatore impegnato nella vendita di quadri rubati. E un altro ‘‘servizio speciale’’, manifestamente estraneo alle funzioni tipiche della professione forense, è quello affidato ad un avvocato, nemmeno iscritto all’Albo, protagonista del film La mazzetta (1978), di Sergio Corbucci, al quale si chiede di rintracciare la figlia di un pericoloso boss, scomparsa portando con sé importanti documenti. Certamente meno denso di negatività è il personaggio dell’opera di Pasquale Squitieri intitolata L’avvocato De Gregorio (2003). È un film che vuole raccontare il percorso di redenzione di un professionista radiato dall’Albo che, ad un certo punto, riesce a scoprire i colpevoli di un infortunio nel quale ha trovato la morte un operaio che lavorava in nero. Questo personaggio non incarna però la figura del difensore che si batte contro la pubblica accusa per l’innocenza di un imputato, ma è schierato nel processo a tutela della parte civile e, soprattutto, ha alle sue spalle un passato poco virtuoso. Il messaggio sembra dunque quello che fa pensare ad un intrinseco disvalore della professione di penalista. Essa può «emendarsi» solo quando l’avvocato compie le «vere buone azioni» consistenti nell’assistere persone offese dal reato, collaborando cosı̀ con il pubblico ministero al fine di far applicare la giusta pena ai colpevoli. Questo tema è ripreso anche nel film Il silenzio intorno (2005), di Dodo 48 La Rivista del Consiglio Notizie e commenti Anno 2015 Fiori, in cui un giovane praticante uscito da una comunità di tossicodipendenti cerca di riconquistare il suo equilibrio lavorando all’interno di uno studio legale, ma non ci riesce e alla fine ripiomba nella spirale della droga. Anche qui la metafora è ben trasparente: il penalista si libera del suo peccato di origine se fa una scelta di vita in favore di nuovi valori, ma spesso non vi riesce perché la sua natura è più incline al male che al bene. Non credo che questo bilancio possa essere tacciato di inattendibilità per eccessivo pessimismo. La verità è che anche negli anni più recenti non c’è una sola pellicola di produzione italiana in cui il penalista sia ritratto nel suo ruolo istituzionale di difensore impegnato nel sottrarre l’imputato al rischio di una sentenza ingiusta. Per il cinema italiano la toga dell’avvocato che opera nel processo penale nasconde sempre sotto le sue pieghe sbandati, emarginati o sconfitti. Eppure, anche a prescindere dalle splendide figure dei professionisti in prima linea nei processi di grande risonanza mediatica, almeno dall’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1989 la professione del penalista lascia percepire una grande ricchezza di sfaccettature che ben possono offrire allo schermo l’occasione per indagare sulla realtà della nostra giustizia penale. Ed è quindi davvero sconcertante che a fronte del dilatarsi dell’alveo processuale penale nel quale ormai confluisce tutto l’universo delle problematiche sociali, dalla violenza in famiglia alla corruzione, dalla malasanità ai conflitti tra ecologia ed esigenze produttive dell’industria fino ai gravissimi reati di criminalità organizzata, gli autori del nostro cinema abbiano girato la testa da un’altra parte senza interrogarsi sui nodi e sui conflitti che emergono dalle vicende processuali. È il segno di un conformismo culturale assai deplorevole. Non osando entrare nel recinto certamente complesso del potere giudiziario per mettere a nudo l’operare di una magistratura sempre più forte e imperscrutabile, il nostro cinema ha prima scelto di adeguarsi alla logora formula di conio popolare del difensore manutengolo della criminalità e poi, negli ultimi trent’anni, ha preferito stare in silenzio. 4. Si poteva percorrere una strada diversa? La risposta affermativa viene da una fonte autorevolissima della cultura cinematografica di casa nostra. Federico Fellini, in una lettera inviata all’amico avvocato riminese «Titta» Benzi, ha tracciato le linee di un’opera da dedicare alla difesa penale mostrando di saper compiere una fine introspezione della realtà professionale forense, sottratta alla lente deformante dei luoghi comuni. La lettera del grande maestro, inserita in un volume di memorie dello stesso 49 Notizie e commenti La Rivista del Consiglio Anno 2015 Benzi (7), è stata ripubblicata e commentata in un volume di Giovanni Ziccardi dedicato alla giustizia sullo schermo (8). È una testimonianza di straordinario interesse che scardina con pochi rilievi tutto il cumulo delle false credenze cresciute attorno all’avvocato penalista. Fellini fissa in primo luogo una premessa che sfata il mito del courtroom drama stravisto nelle fiction americane. Egli pensava ad un film «su un avvocato anche modesto, ma vero, autentico. Che non fosse come quel ‘‘panzone’’ di Perry Mason che le cause le vinceva tutte. Un avvocato che sapesse anche perderle». Poi comincia a puntare lo sguardo sul vissuto professionale, come se conoscesse dall’interno l’animo del penalista. E chiede all’amico avvocato, a proposito dei clienti: «ne ricevi qualcuno di notte? Qualcuno che non vuol farsi vedere?». Si interroga anche sulle virtù richieste dall’arte forense: «preparazione? Facondia? Furbizia? Senso psicologico? Umanità? Spregiudicatezza? Ribalderia? Gigioneria?». Infine fa la rassegna dei vizi: «troppo sentimentale? o al contrario troppo cinico? Arraffi tutto, non sei capace di rinunciare al cliente? ». C’è una prodigiosa sensibilità in questa analisi che non trascura di affacciarsi pure al tema del conflitto tra legalità e interesse difensivo dell’imputato. Fellini chiede all’amico: «raccontami con la spregiudicatezza che ti distingue un tipico caso di sentenza vittoriosa ma completamente ingiusta». La lettera prosegue sollecitando risposte sul tema dei rapporti con i magistrati, per sapere come essi vengono blanditi e corteggiati. E, dopo aver fatto cenno alla tipologia dei clienti e al problema del pagamento dell’onorario («ti è capitato qualche volta di commuoverti e di non farti pagare la parcella?»), sa far balenare nel finale una sequenza di immagini di un realismo davvero magico che mette in primo piano la solitudine del difensore. L’avvocato è in trasferta in una città che non ha scelto perché è la sede del tribunale davanti al quale dovrà discutere l’indomani la causa in difesa del suo assistito. In una carrellata virtuale si scorgono la stazione, una piazza sconosciuta, il ristorante e l’albergo. La tensione della vigilia sale sempre più e si stempera solo quando alla sera l’avvocato rilegge la scaletta preparata per la discussione davanti allo specchio, proprio come l’attore che deve debuttare sul palcoscenico. Questo sı̀ che è un frammento di autentica vita professionale, che fa apparire, per contrasto, come ingannevoli sovrastrutture tanto la sfilata delle mac(7) Pantache`di, Guaraldi editore, 1995. (8) Op. cit., p. 105. 50 La Rivista del Consiglio Notizie e commenti Anno 2015 chiette della commedia all’italiana, quanto i difensori presentati come controfigure dei criminali nel cinema degli anni Settanta. Bastava quindi a registi e sceneggiatori dei nostri film bruciare nel fuoco di un camino la raccolta di cartoline ingiallite con ritratti di avvocati confezionati con l’approssimazione di un naif per procedere invece a una lettura realistica del mondo forense. Proprio come ha fatto Federico Fellini regalandoci la più bella pellicola virtuale sul penalista italiano. 51