Albert Camus – 10 dicembre 1957 – Discorso di accettazione del

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Albert Camus – 10 dicembre 1957 – Discorso di accettazione del
Albert Camus – 10 dicembre 1957 – Discorso di accettazione del premio Nobel
(Testo tradotto)
Sire, Madame, Altezze Reali, signore, signori,
Ricevendo il premio di cui la vostra libera Accademia ha voluto onorarmi, la mia grande
gratitudine era tanto più profonda quanto più misuravo fino a che punto la ricompensa
oltrepassava i miei meriti personali. Ogni uomo, e a maggior ragione ogni artista, desidera
ottenere dei riconoscimenti. Anch’io lo desidero, ma non mi è stato possibile apprendere la
vostra decisione senza confrontare la sua grande rinomanza con quello che io realmente sono, un
uomo quasi giovane, ricco soltanto dei suoi dubbi e di una opera ancora in cantiere, abituato a
vivere nella solitudine del lavoro o nel rifugio dell’amicizia, come potrebbe non apprendere con
una specie di panico una decisione che lo porta d’un colpo, solo e quasi ridotto a se stesso, al
centro di una luce sfolgorante? Con quale animo poteva ricevere quest’onore nell’ora in cui in
Europa altri scrittori, fra i più grandi, sono ridotti al silenzio e nel momento stesso in cui la sua
terra natale è tormentata da una continua sventura? Ho conosciuto questo smarrimento e questo
turbamento interiore. Per ritrovare la pace insomma ho dovuto rimettermi in regola con una sorte
troppo generosa. E poiché non potevo farlo facendo leva sui miei soli meriti ho trovato, come
aiuto, ciò che mi ha sostenuto nelle circostanze più difficili durante la mia vita: l’idea che mi son
creata della mia arte e della missione dello scrittore. Lasciate che in un sentimento di
riconoscenza e di amicizia vi dica, con la massima semplicità, quale sia questa idea.
Personalmente non potrei vivere senza la mia arte, ma non l’ho mai posta al di sopra di tutto: se
mi è necessaria, è invece perché non si estranea da nessuno e mi permette di vivere come sono al
livello di tutti. L’arte non è ai miei occhi gioia solitaria: è invece un mezzo per commuovere il
maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie
di tutti. L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più
universale. E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri si
accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte e questo suo esser diverso solo confessando la
sua somiglianza con tutti: l’artista si forma in questo rapporto perpetuo fra lui e gli altri, a mezza
strada fra la bellezza di cui non può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare. È
per questa ragione che i veri artisti non disprezzano nulla e si sforzano di comprendere invece di
giudicare: e se essi hanno un partito da prendere in questo mondo, non può essere altro che
quello di una società in cui, secondo il gran motto di Nietzsche, non regnerà più il giudice, ma il
creatore, sia esso lavoratore o intellettuale.
La missione dello scrittore è fatta ad un tempo di difficili doveri; per definizione, non può
mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono. O,
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in caso contrario, lo scrittore si ritrova solo e privo della sua arte. Tutti gli eserciti della tirannia
con i loro milioni di uomini non lo strapperanno alla solitudine anche e soprattutto se si adatterà
a tenere il loro passo. Ma il silenzio di un prigioniero sconosciuto ed umiliato all’altro capo del
mondo sarà sufficiente a trarre lo scrittore dal suo esilio, ogni volta, almeno, che arriverà, pur nei
privilegi della libertà, a non dimenticare questo silenzio e a divulgarlo con i mezzi dell’arte.
Nessuno di noi è abbastanza grande per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della sua
vita, ignorato o provvisoriamente celebre, imprigionato nella stretta della tirannia o per il
momento libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente
che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la
grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della libertà. Poiché la sua
vocazione è quella di riunire il maggior numero possibile di uomini, egli non può valersi della
menzogna e della schiavitù che, là dove regnano, fanno proliferare la solitudine. Qualunque
siano le nostre debolezze personali, la nobiltà del nostro mestiere avrà sempre le sue radici in due
difficili impegni: il rifiuto della menzogna e la resistenza all’oppressione.
Per più di vent’anni di storia folle, perduto e privo di soccorso, come tutti gli uomini della mia
età, nelle convulsioni del tempo, sono stato sorretto dal sentimento oscuro che scrivere era oggi
un onore, perché questo atto impegnava, e non impegnava a scrivere soltanto. Mi obbligava in
particolare a portare, come potevo e secondo le mie forze, con tutti quelli che vivevano la stessa
storia, la sventura e la speranza di cui eravamo partecipi. Questi uomini, nati all’inizio della
prima guerra mondiale, che hanno avuto vent’anni quando si installavano ad un tempo il potere
hitleriano e i primi processi rivoluzionari e che sono stati in seguito messi alla prova, per
completare la loro educazione, nella guerra di Spagna, nella seconda guerra mondiale,
nell’universo “concentrazionario”, nell’Europa della tortura e della prigione, debbono oggi
allevare i loro figli e le loro opere in un mondo minacciato dalla distruzione nucleare. Nessuno,
suppongo, può chieder loro di essere ottimisti. E sono convinto che dobbiamo comprendere, pur
senza abbandonare la lotta contro di loro, l’errore di quelli che, per troppa disperazione, hanno
rivendicato il diritto al disonore e si sono gettati a capofitto nel nichilismo del nostro tempo. Ma
è anche vero che la maggior parte di noi, nel mio paese e in Europa, hanno rifiutato questo
nichilismo e si sono messi alla ricerca di una legittimità; hanno dovuto costruirsi un’arte per
vivere in tempi calamitosi, per nascere una seconda volta e lottare poi a viso scoperto contro
l’istinto di morte sempre presente nella nostra storia.
Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il
mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse
più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga.
Erede di una storia corrotta in cui si fondono le rivoluzioni
fallite e le tecniche impazzite, la morte degli dei e le
ideologie portate al parossismo, in cui mediocri poteri, privi
ormai di ogni forza di convincimento, sono in grado oggi di
distruggere tutto, in cui l’intelligenza si è prostituita fino a
farsi serva dell’odio e dell’oppressione, questa generazione
ha dovuto restaurare, per se stessa e per gli altri, fondandosi
sulle sole negazioni, un po’ di ciò che fa la dignità di vivere
e di morire. Davanti ad un mondo minacciato di
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disintegrazione, sul quale i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per sempre il dominio
della morte, la nostra generazione sa bene che dovrebbe, in una corsa pazza contro il tempo,
restaurare fra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare di nuovo lavoro e
cultura e ricreare con tutti gli uomini un’arca di alleanza. Non è certo che essa possa mai portare
a buon fine questo compito immenso ma è certo che, in tutto il mondo, è già impegnata nella sua
doppia scommessa di verità e di libertà e che, all’occasione, saprà morire senza odio. Per questo
merita quindi di essere salutata e incoraggiata dovunque si trovi e soprattutto là dove si sacrifica.
È su di essa, comunque, che, certo del vostro assenso profondo, vorrei far ricadere l’onore che mi
avete fatto.
Nello stesso tempo, dopo aver proclamato la nobiltà del mestiere di scrivere, avrei ricollocato lo
scrittore al suo vero posto, non godendo lui di altri titoli all’infuori di quelli che divide con i suoi
compagni di lotta, vulnerabile ma ostinato, ingiusto e appassionato di giustizia, costruttore della
sua opera senza vergogna né orgoglio al cospetto di tutti, diviso sempre fra il dolore e la bellezza
votato infine a trarre dalla sua duplice esistenza le creazioni che ostinatamente tenta di edificare
in mezzo al moto distruttore della storia. Chi, dopo tutto ciò, potrebbe attendere da lui soluzioni
bell’e fatte e belle morali? La verità è misteriosa, sfuggente, sempre da conquistare. La libertà è
pericolosa, dura da vivere quanto esaltante. Dobbiamo marciare verso questi due obiettivi, con
fatica ma decisi, ben consci dei nostri errori in un così lungo cammino. Quale scrittore dunque
oserebbe, in buona coscienza, farsi predicatore di virtù? Quanto a me devo dire una volta di più
che non sono niente di tutto questo. non ho mai potuto rinunciare alla luce, alla felicità di
esistere, alla vita libera in cui sono cresciuto. Ma benché questa nostalgia spieghi molti dei miei
errori e delle mie colpe, essa mi ha aiutato senza dubbio a comprendere meglio il mio mestiere,
mi aiuta ancor oggi a tenermi, ciecamente, vicino a tutti quegli uomini silenziosi che non
sopportano nel mondo una vita che per loro è fatta soltanto del ricordo o del ritorno di brevi e
libere gioie.
Ricondotto così a ciò che realmente sono, ai miei limiti, ai miei doveri, alla mia difficile fede, mi
sento più libero di testimoniarvi, per finire, l’importanza e la generosità del premio che mi avete
conferito; più libero di dirvi anche che vorrei riceverlo come un omaggio reso a tutti quelli che,
combattendo la stessa battaglia, non ne hanno ricevuto alcun privilegio, ma hanno invece
conosciuto sventura e persecuzione. Non mi resta altro che ringraziarvi dunque dal profondo del
cuore e fare a voi pubblicamente, come testimonianza personale di gratitudine, la stessa vecchia
promessa di fedeltà che ogni vero artista, ogni giorno, fa a se stesso, in silenzio.
From Les Prix Nobel en 1957, Editor Göran Liljestrand, [Nobel Foundation], Stockholm, 1958
Copyright © The Nobel Foundation 1957
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Giornalista o scrittore. Sempre uomo in rivolta
di Dario Olivero
È già un uomo in rivolta Albert Camus quando scrive il manifesto sulla
libertà di stampa che pubblichiamo per la prima volta in Italia in queste
pagine. È il 25 novembre 1939, Hitler ha invaso la Polonia, la Seconda
guerra mondiale è cominciata da due mesi. Camus ha ventisei anni, ha
pubblicato due raccolte di racconti e soprattutto un´inchiesta sulla
miseria della Kabilya su Alger républicain, prima di fondare con Pascal
Pia Le Soir républicain, che dal 27 agosto di quell´anno combatte ogni
giorno contro la censura introdotta nell´Algeria francese. Ma quello per
la libertà di stampa è solo uno dei fronti sui quali Camus è in rivolta.
Dall´anno prima e per tutto il periodo in cui lavorerà al nuovo giornale
(che chiuderà il gennaio dell´anno successivo), sui taccuini che ha
iniziato a tenere compare, si sviluppa e si conclude il suo primo romanzo, Lo straniero.
Di giorno caporedattore, di notte scrittore. Di giorno riempie le colonne con le notizie che
faticosamente riesce a dare, mentre lascia bianche quelle con le notizie censurate, un atto di
denuncia, perché «nessuna forza al mondo può fare accettare a un uomo di servire la menzogna».
Di notte a confrontarsi con la sua creatura letteraria, questo strano uomo che con lo stesso stato
d´animo ama una donna, assiste alla morte della madre, uccide, viene processato e subisce la
condanna a morte. Di giorno la rivolta, di notte l´assurdo. Di giorno la vita ha un senso, di notte
non ne ha.
Per il resto dei suoi anni Albert Camus combatterà contro questa contraddizione. Si può essere
uomini giusti se nulla ha senso? Può Sisifo continuare a portare il suo masso sulla cima della
montagna sapendo che una volta arrivato il masso rotolerà di nuovo giù? Ci si può ribellare
sapendo che non c´è una causa superiore a cui votarsi? E infine, si può essere giornalisti liberi
quando non c´è libertà? Camus ha risposto nell´unico modo che sentiva possibile: agendo con
l´ostinazione dell´uomo che si rivolta «di fronte a ciò che lo nega». È l´ostinazione del
giornalista che viene fuori da questo articolo sulla libertà di stampa ritrovato da Le Monde in un
archivio di Aix-en-Provence e di cui non si sapeva nulla fino a oggi. Il giornalista che si batte per
nazionalizzare l´industria bellica perché la guerra non sia decisa da interessi privati, contro il
razzismo dei pieds noir, i coloni francesi in Algeria, e dei governi che continuano a opprimere
«quelli che hanno il naso come non dovrebbero avere o parlano una lingua che non dovrebbero
parlare».
Tutto questo mentre contemporaneamente cresceva nascosto dentro di lui lo scrittore, il filosofo.
Racconta Meursault, voce narrante de Lo straniero, mentre si svolge il suo processo e guarda
verso i giornalisti in aula: «Avevano già la penna in mano. Avevano tutti la stessa aria
indifferente e un po´ ironica. Tuttavia uno di loro, molto più giovane degli altri, aveva lasciato la
penna appoggiata sul tavolo e mi guardava. Nella sua faccia un po´ asimmetrica non vedevo che
i suoi occhi, molto chiari, che mi esaminavano attentamente, senza esprimere nulla che fosse
definibile. E ho avuto l´impressione strana di essere guardato da me stesso».
(Da: La Repubblica del 6 maggio 2012)
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MANIFESTO PER LA LIBERTÀ DI STAMPA
La libertà di stampa non è che uno dei volti della libertà tout court. Lo scriveva Albert Camus il
25 novembre del 1939 quando la Seconda guerra mondiale era scoppiata da due mesi e la
censura militare rendeva impossibile il lavoro del giornalista. Un inedito ritrovato negli
Archives Nationales d’Outre-mer di Aix En Provence e pubblicato da Le Monde il 18 marzo.
Una riflessione attualissima di uno scrittore dall'animo profondamente libertario.
Albert Camus, Manifesto per la libertà di stampa
Oggigiorno è difficile parlare della libertà di stampa senza essere tacciati di stravaganza, essere
sospettati di essere Mata Hari, o vedersi incriminare con l' accusa di essere il nipotino di Stalin.
Oggigiorno è difficile parlare della libertà di stampa senza essere tacciati di stravaganza, essere
sospettati di essere Mata Hari, o vedersi incriminare con l' accusa di essere il nipotino di Stalin.
Eppure, questa libertà tra le altre non è che uno dei volti della libertà tout court e si capirà la
nostra ostinazione a difenderla se si è disposti ad ammettere che non c' è altro modo di vincere
davvero la guerra. Certo, ogni libertà ha i suoi limiti. Bisogna però che questi limiti siano
liberamente riconosciuti. Sugli ostacoli che oggi si oppongono alla libertà di pensiero, abbiamo
già detto tutto quello che abbiamo potuto e diremo ancora, fino alla nausea, tutto ciò che ci sarà
possibile dire. In particolare, non ci stupirà mai abbastanza, una volta assunto il principio della
censura, che la riproduzione di testi pubblicati in Francia e approvati dai censori della Francia
metropolitana sia vietata, per esempio, al Soir républicain (il quotidiano pubblicato ad Algeri di
cui all' epoca Camus era caporedattore ndr ). Il fatto che a questo riguardo un giornale dipenda
dall' umore o dalla competenza di un uomo dimostra meglio di ogni altra cosa il grado d'
incoscienza a cui siamo arrivati.
Uno dei buoni precetti di una filosofia degna di questo nome è di non profondersi in vane
lamentazioni di fronte a uno stato di fatto che non si può più evitare. Oggi in Francia non si pone
più il problema di capire come preservare le libertà della stampa. La questione è capire come,
davanti alla soppressione di quelle libertà, un giornalista possa rimanere libero. Il problema non
riguarda più la collettività, bensì l' individuo.
E, per l' appunto, ciò che ci piacerebbe definire qui sono le condizioni e i mezzi con cui, nel
contesto della guerra e delle sue schiavitù, la libertà possa essere non soltanto preservata ma
perfino manifestata. Detti mezzi sono quattro: la lucidità, l' opposizione, l' ironia e l' ostinazione.
La lucidità presuppone la resistenza agli impulsi dell' odio e al culto della fatalità. Nel mondo
della nostra esperienza è certo che tutto si possa evitare. La stessa guerra, che è un fenomeno
umano, può essere in ogni momento evitata o fermata con mezzi umani. È sufficiente conoscere
la storia degli ultimi anni della politica europea per sapere per certo che la guerra, qualsiasi
guerra, ha cause evidenti. Questa visione chiara delle cose esclude l' odio cieco e la disperazione
che lascia correre. Un giornalista libero, nel 1939, non dispera e lotta per ciò che crede vero
come se la sua azione potesse influire sul corso degli eventi. Non pubblica niente che possa
istigare all' odio o provocare la disperazione. Tutto questo è in suo potere.
Dinanzi alla marea crescente della stupidità è anche necessario opporre qualche rifiuto. Non c' è
coercizione al mondo che possa indurre una persona con un minimo di rettitudine ad accettare di
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essere disonesta. Ora, per poco che si conosca il meccanismo dell' informazione, è facile
accertarsi dell' autenticità di una notizia. Ed è a questo che un giornalista libero deve prestare
tutta la sua attenzione. Infatti, se non può dire tutto quello che pensa, gli è possibile non dire
quello che non pensa o che crede falso. Analogamente, un giornale libero si valuta tanto per
quello che dice quanto per quello che non dice. Questa libertà in negativo è di gran lunga la più
importante, se la si riesce a mantenere. Perché prelude all' avvento della vera libertà. Di
conseguenza, un giornale indipendente indica la fonte delle sue informazioni, aiuta il pubblico a
vagliarle, ripudia il lavaggio del cervello, evita le invettive, sopperisce con dei commenti all'
uniformazione delle informazioni e, in breve, serve la verità nell' umana misura delle sue forze.
Questa misura, per relativa che sia, gli permette almeno di rifiutare ciò che nessuna forza al
mondo potrebbe fargli accettare: servire la menzogna.
Veniamo ora all' ironia. Si può affermare in linea di principio che una persona che ha il gusto e i
mezzi per imporre la coercizione è impermeabile all' ironia. Non si immagina Hitler, giusto per
citare un esempio tra altri, fare uso dell' ironia socratica. Nondimeno l' ironia continua a essere
un' arma impareggiabile contro chi è troppo potente. Essa completa la resistenza, nel senso che
permette non già di respingere ciò che è falso ma, spesso, di dire ciò che è vero. Un giornalista
libero, nel 1939, non si fa troppe illusioni sull' intelligenza di quelli che lo opprimono. È
pessimista per quanto riguarda l' uomo. Una verità enunciata in tono dogmatico viene censurata
nove volte su dieci. La stessa verità detta scherzosamente, solo cinque volte su dieci. Questo
meccanismo illustra in modo abbastanza preciso le potenzialità dell' intelligenza umana. E spiega
anche come dei giornali francesi come Le Merleo Le Canard enchaîné riescano a pubblicare
regolarmente i coraggiosi articoli che sappiamo. Un giornalista libero, nel 1939, è dunque
necessariamente ironico, per quanto spesso lo sia suo malgrado. Ma la verità e la libertà, avendo
pochi amanti, con quei pochi sono molto esigenti.
È evidente che l' atteggiamento che abbiamo appena descritto non potrebbe essere sostenuto con
efficacia senza un minimo di ostinazione. Gli ostacoli alla libertà d' espressione sono molti. Ma
non sonoi più severia poter scoraggiare un animo saldo. Infatti le minacce, le sospensioni, i
procedimenti penali in Francia ottengono generalmente l' effetto opposto a quello voluto.
Tuttavia bisogna ammettere che degli ostacoli scoraggianti ci sono: la costanza nella stupidità, l'
ignavia organizzata, l' ottusità aggressivae via dicendo.È quella la grossa barriera che bisogna
riuscire a sfondare. L' ostinazione perciò diventa una virtù cardinale. Per un paradosso curioso
ma palese, essa passa così al servizio dell' obiettività e della tolleranza.
Ecco dunque un insieme di regole per preservare la libertà anche nella schiavitù. E dopo? ci si
chiederà. Dopo? Non facciamoci prendere dalla fretta. Se soltanto ogni francese fosse disposto a
sostenere nel suo raggio d' azione tutto ciò che ritiene vero e giusto, se volesse dare il suo piccolo
contributo al mantenimento della libertà, resistere all' abbandono e far conoscere la sua volontà,
allora e soltanto allora questa guerra sarebbe vinta nel senso profondo del termine. Sì, in questo
secolo è spesso a malincuore che uno spirito libero si esprime con ironia. Su cosa si ha voglia di
scherzare in questo mondo in fiamme? Ma la virtù dell' uomo è di conservarsi tale anche davanti
alla negazione dell' umanità. Nessuno vuole ricominciare tra venticinque anni la duplice
esperienza del 1914 e del 1939, perciò bisogna sperimentare un metodo completamente nuovo,
basato su giustizia e generosità. Ma queste non si esprimono che nei cuori già liberi e nelle menti
ancora lungimiranti. Formare questi cuori e queste menti, o piuttosto risvegliarli, è il compito
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insieme modesto e ambizioso che pertiene all' uomo indipendente. Bisogna attenervisi anche
senza vedere oltre. La storia potrà tener conto di questi sforzi oppure no, ma saranno stati fatti.
(Da: La Repubblica del 6 maggio 2012)
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IL GIORNALISMO DI CAMUS
di Marco Dotti
Lo stile senza realtà
«Tutto quel che di fatto degrada la cultura, accorcia le strade che portano alla schiavitù».
Chiacchiere inutili, miseri personalismi smerciati come fatti di rilevanza collettiva, lamentele di
direttori di quotidiani: tutto. Albert Camus era, su questo punto, chiaro e intransigente, ma
nell’articolo che scrisse per l’ultimo numero della rivista Caliban, fondata nel 1947 da Daniel
Bernstein e Jean Daniel, si spinse ancora più in là: individuò nella critica della stampa a mezzo
stampa e «in una società che tollera di essere distratta da un pugno di cinici saltimbanco, fregiati
del nome di artisti», il pericoloso movimento di apertura a un orizzonte di nuove, indefinite e per
ciò stesso potenzialmente più temibili schiavitù. Nel suo affondo, Camus non risparmiava colpi
contro gli scrittori che – osservava – «se avessero la minima stima del proprio mestiere, si
rifiuterebbero di scrivere dove capita», arrivando fino a suggerire loro di non scrivere più,
piuttosto che farlo «costi quel che costi».
Avendo avuto parte attiva nella stampa clandestina degli anni neri del collaborazionismo e
dell’occupazione nazista, e dunque conoscendo bene i meccanismi del più torvo mercimonio
intellettuale, tracciava un parallelo con la nascente società dello spettacolo, e lo faceva con un
po’ di retorica, comprensibile se calata nell’air du temps, ma mai ingenuamente. La società del
secondo dopoguerra, infatti, era particolarmente abile nel disattivare, per mezzo di una
caleidoscopica, narcisistica e autocompassionevole gratificazione dei sensi, ogni assunzione
concreta di responsabilità.
Lo stile della realtà
Che cosa muove tanti scrittori – si chiedeva Camus – a scrivere, sempre e comunque? Un nuovo
imperativo morale: la necessità di piacere. Ma se «bisogna piacere», per piacere sarà necessario
comunque «piegarsi». L’autogratificazione comporta la flessibilità totale, e la flessibilità, prima
che negli orari, nei modi e nelle forme del lavoro attiene a modi, tempi, disposizioni e correlate
indisposizioni dell’animo. Tutto il contrario del mestiere, del lavoro artigiano a cui, in fin dei
conti, Camus riconduceva la vita attiva della scrittura giornalistica, l’unica a cui, senza indugi,
applicasse l’epigrafe altrimenti banalizzante di «letteratura dell’impegno».
Stile e lavoro, cultura e dimensione materiale della stessa: la scrittura giornalistica era un
precipitato di stile nel lavoro, sollecitato da un richiamo della realtà, e per questo poteva dirsi
«impegnata». A impegnarla erano le cose stesse, i fatti se si vuole. Ma occasioni e fatti erano
simili a una pietra d’inciampo che, proprio come un ostacolo sempre mobile, doveva fornire
l’occasione, il pretesto per scrivere e prendere parte, senza alibi. Quando incontrò per la prima
volta André Bollier e il gruppo di lavoro di Combat – il giornale nato dal movimento di
resistenza creato da Henri Frenay nel 1941 – Camus si presentò dichiarando di avere alle spalle
un po’ di pratica giornalistica ma, soprattutto, «lavoro di impaginazione». Il lavoro di
impaginazione era fondamentale in un giornale clandestino, come ricorda Jacqueline LéviValensi nella sue nota di presentazione a Questa lotta vi riguarda (Bompiani, traduzione di
Sergio Arecco, 2010) la raccolta delle corrispondenze scritte tra il 1944 e il 1947 per Combat.
Fondamentale era la logistica, la capacità di intuire i problemi sul nascere, quella di ingegnarsi in
soluzioni tecniche, ma anche la disponibilità a comportarsi come redattori precisi, puntuali,
rigorosi. Combat, nel ’43, era redatto a Parigi, ma stampato clandestinamente a Lione. Il suo
direttore era ricercato dalla Gestapo e non ci si poteva distrarre un attimo. Il 17 luglio del 1944,
per esempio, la milizia fece irruzione nella stamperia di Lione, mentre si chiudeva il numero 58,
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l’ultimo stampato in clandestinità, uccidendo André Bollier, redattore, oltre che «partigiano»,
straordinariamente ostinato. Anche in tempi bui, e nonostante il fatto che ogni giorno
immergesse le mani nella materia più vile – ricorderà Jean Grenier – Camus mantenne una
visione straordinariamente «alta» del giornalismo, inteso come variante del lavoro artigiano, un
fare – come ha scritto in giorni a noi più vicini Richard Sennett – nel cui processo sono contenuti
pensiero e sentimento. Pazienza, silenzio, pudore, orgoglio per l’«oggetto» prodotto, ma
soprattutto ostinazione: queste le qualità «artigiane» che, nell’Algeria della fine degli anni ’30,
spinsero il venticinquenne Camus a profondere un impegno sempre maggiore nella militanza
giornalistica. Le stesse qualità le avrebbe ritrovate nella redazione di Combat, dove lavorò come
redattore capo, dal ’44 al ’47. Ma Combat non fu solo un giornale di resistenza. Accolse la sfida
del «dopo Liberazione» e, lunedì 21 agosto, in una Parigi non ancora sgombra di nazisti, uscì
dalla clandestinità. Il numero impresso sulla testata era il «59», la tiratura molto alta per l’epoca,
gli obiettivi gli stessi indicati da Henri Frenay al momento della presentazione del primo numero:
battersi (combat) contro «l’anestesia del popolo francese». L’etica giornalistica di Camus nacque
da queste convergenze di tensioni, ideali e materiali, e dall’esigenza di opporsi al doppio polo di
un’alienazione giocata tra contagio e anestesia, tra inflazione e saturazione di messaggi e, in fin
dei conti, tra ambiguità e paure.Contrariamente a Raymond Aron, che dai suoi interventi e
dalle polemiche sulla stampa quotidiana ambiva a trarre sempre nuova autorevolezza – con la
consueta e lucida perfidia Charles De Gaulle di lui arrivò a dire: «è professore a Le Figaro e
giornalista al Collège de France». E Sartre, che aveva una visione strumentale della stampa,
riteneva che per Camus il giornalismo non avesse mai rappresentato un «esilio» bensì un
«regno», parole che compaiono in un titolo dello scrittore francese datato 1957. Nel 1938,
quando Camus iniziò le prime collaborazioni in Algeria, ad attrarlo non fu solo la necessità di
esprimersi in una forma adatta a incrociare la realtà esacerbata di un paese diviso tra colonizzati
e ragion di Stato, ma anche, se non soprattutto, la «virtù artigiana» del lavoro in redazione. La
virtù – avrebbe poi scritto nelle pagine dell’Uomo in rivolta – non può mai «scindersi dal reale,
senza divenire principio di male», eppure al tempo stesso, e qui sta il paradosso, non può
neppure «identificarsi assolutamente con il reale senza negare se stessa». Pur preso da questi due
corni del dilemma, Camus non avrebbe ceduto mai al cinismo, affidandosi casomai
all’inquietudine, sorta di doppio di quella «amarezza» tipica dei redattori che, dopo una giornata
e una notte di lavoro, si sentono svuotati e in preda a una «coscienza sovraesposta al sentimento
dell’effimero». Non c’è pensiero – secondo Camus – che possa esimersi dal passare per la cruna
dell’ago della realtà, una realtà che, allora, non era certo meno drammatica o complessa di
quanto lo sia oggi. In un bel profilo del Camus giornalista contenuto in Resistere all’aria del
tempo (traduzione di Caterina Pastura, Mesogea, Messina 2009), Jean Daniel, ricorda come,
arrivato negli anni ’30 a Parigi dall’Algeria, il futuro autore dello Straniero e vincitore del Nobel
nel ’57, avesse stretto amicizia con un gruppo di tipografi che, dalla redazione di Paris-Soir, lo
avrebbero accompagnato in tutte le avventure importanti della sua esistenza.
La carta non è il territorio
Un linotipista ricorderà come Camus amasse scendere ai piani bassi, sporcarsi con l’inchiostro
del banco di composizione, controllare i caratteri. L’artigiano Lemaître, poi, ne ricorda il sorriso
e l’atteggiamento di partecipazione al lavoro comune: «sapevamo che gli piaceva trovarsi
davanti alle pagine, alle righe di piombo. Era innamorato. È vero che là dentro si trovava una
specie di eccitazione: l’odore dell’inchiostro, della carta umida di stampa, ci piaceva sentirlo
come il pellettiere ama sentire l’odore del cuoio. Camus stava più spesso al banco di
composizione che in redazione». Anni dopo, congedandosi da Combat e preannunciandone la
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chiusura, Camus avrebbe ribadito, a chi rimproverava al giornale un sostanziale fallimento, che
anche certe sconfitte possono rivelarsi alla lunga un successo. «Non è scomparso, Combat» –
scriveva. Non è scomparso se – come documenta l’attualità sconcertante di alcuni articoli sulla
stampa raccolti nel volume di Bompiani – il giornale può rappresentare ancora, nell’immaginario
collettivo, «la cattiva coscienza di alcuni giornalisti.» E Camus continuava: «fra i milioni di
lettori che hanno abbandonato la stampa francese, ci sarà chi lo ha fatto perché ha condiviso a
lungo la nostra esigenza. Abbiamo fatto per due anni un giornale di un’indipendenza assoluta e
non ha mai disonorato nessuno. Non chiedevo di meglio. Tutto, prima o poi, dà frutti. È una
questione di scelta». Di scelta e di stile, anche nella fine. Stile che i tanti “nuovi”, solerti direttori
di testata, nelle loro scelte e , soprattutto, nella loro inevitabile fine, evidentemente non
conoscono.
[da il manifesto, 28 novembre 2010 ]
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IL GIORNALISMO CLANDESTINO - COMBAT
Combat fu il più importate giornale della Resistenza francese negli anni bui dell’occupazione
tedesca sostenuta del governo collaborazionista di Pétain e della Milice criminale di Josef
Darnard. Molti di coloro che si occupavano della redazione, della stampa, e della distribuzione
clandestina del giornale, pagarono con la vita, con la tortura e con la deportazione nei lager
nazisti, il loro impegno civile. Lo stesso Camus, che dal ‘42 al ’44 visse a Parigi e dintorni, sotto
falso nome e ricercato dalla Gestapo, nella primavera del ’44 sfuggì fortunosamente alla cattura.
Il Combat di quegli anni fu un giornale libero, senza padri né padroni, e, pur appartenendo
idealmente alla sinistra, non divenne mai l’organo di nessun partito. Questo sino al ‘48 quando,
per divergenze di idee tra i componenti che lo avevano creato, Camus , Pascal Pia, Marcel
Gimont e Albert Olivier, il giornale perse il suo slancio rivoluzionario e non ebbe più nulla a che
vedere con gli anni storici in qui Camus fu prima il redattore capo e poi, per un brevissimo
periodo il direttore.
Ma chi fu in realtà Camus, e quali furono le sue doti di giornalista? Sarebbe troppo lungo
raccontare la sua storia, possiamo però dire, che ciò che fu l’autore de ‘Lo straniero’ lo si può
intuire leggendo i suoi libri, o il suo discorso tenuto nel 1957 durante la consegna del premio
Nobel, e soprattutto leggendo i suoi articoli su Combat che sono, per loro lucidità e per la loro
assoluta chiarezza, uno sprone per coloro che pensano al giornalismo come ad un mezzo etico e
come ad un impegno civile. La lucidità e la chiarezza della sua scrittura è legata ad una forte
sensibilità umana e ad una capacità naturale di trasferire i propri pensieri e il proprio sguardo del
mondo nelle parole, per poi metterle, per mezzo della scrittura, al servizio dell’umanità intera.
Nei suoi articoli, che troviamo in questo esaltante libro, incontriamo lo sdegno per i morti
massacrati senza ragione dalla polizia nazista e dai traditori delle Milizie; incontriamo le
immagini delle fasi cruente ed eroiche della liberazione di Parigi; si sente la speranza scalpitante
dopo cinque anni di terribile occupazione nazista e si odono anche, dopo pochi mesi dalla
liberazione di Parigi, i primi echi delle delusioni che infrangono istanze di libertà e di
eguaglianza alle quali la voce di Camus dava voce e concretezza.
I titoli di questi articoli sono incendi che resistono ‘all’aria del tempo’: ‘ La lotta continua’,
‘Hanno fucilato dei francesi per tre ore’, ‘Sarete giudicati sulla base delle vostre azioni’, ‘Il
tempo del disprezzo’, ‘Dalla Resistenza alla Rivoluzione’.
E ce n’è un altro del luglio del ’44, quando ancora Parigi era soggiogata dal nazismo, ‘La
professione del giornalista’. Questo è il titolo di un piccolo box dove in poche parole Camus
delinea la sua concezione di giornalismo: “Il giornalismo clandestino è onorevole perché è una
buona prova di indipendenza. È buono e sano finché ciò che dice dell’attualità politica è
pericoloso. Se c’è una cosa che non vogliamo rivedere mai più, è l’immunità dietro la quale
hanno trovato copertura tanti atti di codardia, tante collusioni nefaste”. Sembra che parli delle
circostanze politiche attuali.
Un’altra cosa importante in Camus è la sua perseveranza nel voler assolutamente mettere la
passione al centro del giornalismo: “Ho cercato in particolare di rispettare le parole che scrivevo,
giacché, per mezzo di esse, rispettavo coloro che le potevano leggere e che non volevo
ingannare. (…) Dai miei primi articoli fino al mio ultimo libro io ho tanto, e forse troppo scritto,
solo perché non posso fare a meno di partecipare alla vita di tutti i giorni e di schierarmi dalla
parte di coloro chiunque essi siano, che vengono umiliati e offesi. (…) mi pare che non si possa
sopportare quest’idea, e colui che non può sopportarla non può neppure addormentarsi in una
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torre. Non per virtù, ma per una sorte di intolleranza quasi organica, che si prova o non si prova.
Da parte mia ne vedo molti che non la provano, ma non posso invidiare il loro sonno.”
La difesa di chi è ‘muto’, perché non ha la possibilità di giungere al pensiero verbale della
ribellione e di farsi ascoltare, diviene per Camus un imperativo categorico. Di questo suo modo
di essere e di pensare egli era ben cosciente. Camus per sua natura, per “l’onore”, così egli
chiamava la propria immagine interna, ha sempre ‘dovuto’ stare, fuori dalla torre d’avorio
ideologica che parla con il gergo diaccio della ragione per annullare la verità e la realtà umana
dell’altro da sé. E tutto questo egli lo faceva per vivere la realtà vera, e quindi politica.
Quando Camus parla di questa “sorte di intolleranza quasi organica, che si prova o non si prova.”
dice anche della solitudine scelta per l’impossibilità di aderire a qualcosa che gli ripugna e che fa
nascere dentro di sé la ribellione. Una ribellione che non scaturisce da una reazione puramente
mentale ma da ‘qualcosa di organico’ perché in Camus non esiste la scissione tra mente e corpo.
La sua ribellione, la sua reazione all’inumano, la sua lotta continua contro tutto ciò che
mascherato dalla ‘ragione’ lo portò sempre ad assumere posizioni scomode, come quando, nel
plauso generale, egli si schierò immediatamente sia contro coloro che buttarono la bomba su
Hiroshima e Nagazaki, sia contro coloro che non reagirono a quella carneficina. Camus dopo
aver deprecato con sdegno la posizione della stampa entusiasta per i lanci della bomba atomica
scrive: “ Noi riassumeremo il nostro pensiero in una sola frase: la civiltà meccanica è appena
giunta al suo ultimo grado di barbarie.(…) Dinnanzi alle terrificanti prospettive che si aprono
agli occhi dell’umanità, ci convinciamo ancor meglio che quella della pace è l’unica battaglia
che valga la pena di combattere. Non è più una preghiera, è un ordine che deve sospingere i
popoli contro i governi, l’ordine di scegliere definitivamente tra l’inferno e la ragione” .
Non vi fu nessuno che come lui fu capace di ribellarsi al pensiero comune che vedeva nella
strage di migliaia di bambini, di donne e di uomini solo un ‘buon modo di arrivare alla pace con
il Giappone’.
È questo modo di esercitare l’arte dello scrivere che ha fatto di Camus un ‘giornalista
clandestino’ che può insegnare ancora molto, oggi, e questo libro ne è la dimostrazione, a chi
vuole scrivere per raccontare dell’invisibile istinto di morte.
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COMBAT - ARTICOLI
Questi articoli vennero scritti dallo scrittore francese per rispondere a due problemi che lo
premevano. La prima risposta, di ordine pratico, fu quella di dare una mano al giornale Combat
che stava rischiando la chiusura; la seconda, nobile, fu per lanciare un grido di allarme e di
protesta contro il dominio del terrore che si stava instaurando nel mondo e contro la
legittimazione dell’omicidio che lo sottendeva. I testi disegnano le inquietudini di Albert Camus
in quel periodo storico in cui le speranze di pace e di un rinnovamento radicale della società
dell’immediato dopoguerra si andavano via via appannando. I suoi articoli, oltre ad essere
assolutamente attuali, rivelano le fonti della crisi sistemica che stiamo vivendo.
1) Verso il dialogo
30 novembre 1946
Sì, si dovrà alzare la voce. Mi sono ben guardato, fino ad ora,
dal fare appello alle mozioni degli affetti. Quello che ci fa a
brandelli, oggi, è una logica della storia che abbiamo creato noi
di sana pianta, i cui nodi finiranno per soffocarci. Non sono
certo i sentimenti a poter tranciare i nodi di una logica
insensata, vi potrà riuscire soltanto una ragione che ragioni nei
limiti a essa consentiti. Ma, non vorrei, in definitiva, lasciar
credere che il futuro del mondo possa fare a meno della forza
della nostra indignazione e del nostro amore. So bene che
all’umanità sono indispensabili grandi motivazioni per mettersi
in marcia, e che è difficile mobilitarsi per una lotta i cui
obbiettivi sono tanto limitati e i margini di speranza sono poco
credibili. Ma non è questione, qui, di trascinare con sé
l’umanità. L’essenziale, anzi, è che non si senta affatto
trascinata e sappia bene ciò che sta facendo.
Salvare quanto può essere ancora salvato, per rendere il futuro
quantomeno credibile, ecco la grande motivazione, la passione
e il sacrificio richiesti. Il che esige soltanto che ci vi si rifletta e si decida chiaramente se vale la
pena aggiungere dell’altro al dolore umano per scopi sempre meno definibili, se vale la pena
accettare che il mondo si riempia di armi e che il fratello uccida di nuovo il fratello, o se vale la
pena invece, demandare ad altre generazioni, armate meglio di noi, l’opportunità che si
presenteranno loro.
Per parte mia, credo di essere quasi sicuro della mia scelta. E, proprio perché ho scelto, mi è
sembrato giusto parlare, dire che non mi schiererei mai in alcun modo con chi, chiunque sia,
sposi la logica dell’omicidio, e trarne le necessarie conseguenze. La cosa è decisa e quindi, per
oggi, mi fermerò. Ma prima vorrei che si capisse bene qual è lo spirito che mi ha fatto parlare fin
qui.
Ci si chiede di amare o di detestare questo o quel paese, questo o quel popolo. Ma siamo in tanti
ad avvertire anche troppo bene le nostre somiglianze con l’umanità intera per accettare questa
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scelta. Il modo giusto per amare il popolo russo, riconoscendo quello che non ha mai cessato di
essere, vale a dire il lievito del mondo di cui parlano Tolstoj e Gorki, non è augurargli imprese
degne di tale potenza: è fare in modo di risparmiargli, dopo tutte le prove attraversate, un nuovo
e terribile tributo di sangue. E la stessa cosa vale per il popolo americano e per l’infelice Europa.
È questo il tipo di verità elementare da non dimenticare nella furia delle nostre giornate.
Sì, oggi vanno combattuti la paura e il silenzio, e con essi la separazione delle persone e delle
anime che quelli comportano. Vanno difesi anche il dialogo e la comunicazione universale e
reciproca fra gli uomini. La subalternità, l’ingiustizia e la menzogna sono i flagelli che
ostacolano la comunicazione universale e proibiscono il dialogo. Ecco perché dobbiamo
respingerle. Sennonché quei flagelli sono oggi la sostanza stessa della storia e, pertanto, molti li
considerano come mali necessari. È vero, infatti, che non possiamo sfuggire alla storia, poiché
vi siamo immersi fino al collo, ma è anche vero che possiamo tentare di lottare, all’interno della
storia, per preservare quel fattore umano che sembra non appartenerle. Ecco tutto quello che
volevo dire. E, in ogni caso, vedrò di puntualizzare il mio modo di pensare e il senso di questa
serie di articoli con un ragionamento sul quale, prima di concludere, vorrei che si riflettesse con
spirito di lealtà.
Una grande esperienza subordina tutte le nazioni del mondo agli imperativi della potenza e del
dominio. Non dirò che bisogna impedire o incoraggiare questa esperienza. Non ha certo bisogno
che l’assecondiamo e, d’altra parte, essa si disinteressa del fatto che si tenti di ostacolarla.
L’esperienza quindi continuerà. Porrò semplicemente una domanda: che cosa accadrà se
l’esperienza fallisce, se viene smentita la logica della storia alla quale molte persone si lasciano
comunque andare? Cosa succederà se, malgrado due o tre guerre, malgrado il sacrificio di alcune
generazioni e di non pochi valori, i nostri nipoti, ammesso che esistano, si troveranno isolati
dalla società universale? Accadrà che i sopravvissuti a quell’esperienza non avranno nemmeno
più la forza di essere i testimoni della loro stessa agonia.
Dato che dunque l’esperienza continua, ed è inevitabile che continui ancora, non sarà male che
un certo numero di persone si prendano il compito di salvaguardare , nel corso della vicenda
apocalittica che ci attende, quella modesta proprietà razionale che, senza pretendere di risolvere
tutto, sarà sempre in grado, in qualunque momento, di dare un senso alla vita di tutti i giorni.
L’essenziale è che questi uomini valutino bene, e una volta per tutte, il prezzo che dovranno
pagare.
E adesso posso davvero concludere. In un momento simile, la cosa che mi sembra più
auspicabile è che in un mondo devastato dal crimine si cominci a riflettere sul crimine stesso e a
fare delle scelte.
Nel qual caso ci divideremmo fra chi accetta a rigore di far lega con i criminali o con il loro
complici, e chi si ribella con tutte le suo forze ad un’idea del genere. E, dato che la terribile
divisione esiste, sarà comunque un passo avanti portarla alla luce. Attraverso i cinque continenti,
negli anni a venire, verrà ingaggiata un’interminabile lotta senza quartiere fra la violenza e la
parola. È vero che le possibilità della prima sono mille volte superiori rispetto a quelle della
seconda. Ma ho sempre pensato che se chi spera nella condizione umana è un pazzo, chi dispera
negli eventi è un vile.
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E ormai, l’unico motivo d’onore sarà ingaggiare questa formidabile scommessa che deciderà,
una buona volta, se le parole sono più forti delle pallottole.
2) Il mondo va in fretta
27 novembre 1946
È a tutti evidente che il pensiero politico si trova sempre più scavalcato dagli eventi. I francesi,
ad esempio, hanno iniziato la guerra del 1914 con i mezzi della guerra del 1870 e la guerra del
1939 con quelli del 1918. Il modo anacronistico di pensare non è comunque una specialità
francese. Basterà qui sottolineare che, in pratica, le grandi politiche odierne presumono di
risolvere l’avvenire del mondo con i principi formatisi nel XVIII secolo per quanto riguarda il
liberalismo capitalista, e nel XIX per quanto riguarda il socialismo, cosiddetto scientifico. Nel
primo caso, un pensiero nato nei primi anni dell’industrialismo moderno e nel secondo caso una
dottrina contemporanea dell’evoluzionismo darwiniano e dell’ottimismo renaniano si
propongono di modellare l’epoca della bomba atomica. delle brusche mutazioni e del nichilismo.
Nulla potrebbe illustrare meglio lo scarto più rovinoso che si apre fra il pensiero politico e la
realtà storica.
Beninteso, lo spirito è sempre in ritardo sul mondo. La storia corre mentre lo spirito medita. Ma
il ritardo inevitabile oggi si aggrava di pari passo con l’accelerazione storica. Il mondo negli
ultimi cinquant’anni è cambiato molto di più di quanto sia cambiato nei duecento anni
precedenti. E lo vediamo, oggi, accanirsi a risolvere problemi dei confini quando tutti i popoli
sanno che i confini, oggi, sono entità astratte. È ancora e sempre il principio delle nazionalità che
ha fatto finta di regnare alla Conferenza dei Ventuno.(1)
Dobbiamo tenerne conto nella nostra analisi della realtà storica. Noi concentriamo oggi i nostri
ragionamenti sul problema tedesco, che è un problema secondario in rapporto allo choc imperiale
che ci minaccia. Tuttavia, se domani prospettassimo soluzioni internazionali in funzione del
problema russo-americano, rischieremmo di vederci di nuovo sorpassati. Lo stesso choc
imperiale è già in procinto di passare in secondo piano rispetto allo choc culturale. E infatti, da
ogni parte, le culture colonizzate fanno sentire la loro voce (2). Entro dieci anni, entro
cinquant’anni, sarà messo in discussione il primato della cultura occidentale. Occorre quindi
pensare in questi termini e aprire il Parlamento mondiale alle altre culture, affinché la sua legge
diventi veramente universale, e universale l’ordine che essa sancisce.
I problemi posti oggi al diritto di veto sono fasulli poiché le maggioranze o le minoranze in
contrasto tra loro all’O.N.U. sono fasulle. L’U.R.S.S. avrà sempre il diritto di rifiutare la legge
della maggioranza finché questa sarà una maggioranza di ministri, e non una maggioranza di
popoli rappresentati dai loro delegati e finché tutti i popoli, appunto, non vi saranno equamente
rappresentati. Il giorno in cui tale maggioranza avrà un senso, ognuno dovrà rispettare o
rifiutarne la legge, ovvero dichiarare apertamente la propria volontà di dominio.
Così, se prendessimo coscienza dell’accelerazione del mondo, potremmo trovare il modo
adeguato di porre il problema economico attuale. Nel 1930, non si affrontava più il problema del
socialismo come si faceva nel 1848. All’abolizione della proprietà era subentrata la tecnica della
messa in comune dei mezzi di produzione. E questa tecnica, in effetti, oltre a risolvere
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contemporaneamente il destino della proprietà, teneva conto della scala superiore in base alla
quale si misurava il problema economico. Sennonché, dopo il 1930, la scala si è ulteriormente
accresciuta. E, dato che, la soluzione politica o sarà internazionale, o non ci sarà affatto, così la
soluzione economica deve tener conto innanzitutto dei mezzi di produzione internazionali:
petrolio, carbone e uranio. Se collettivizzazione ci dev’essere, essa deve guardare alle risorse che
sono indispensabili a tutti e che, in effetti, non devono essere proprietà esclusiva di nessuno. Il
resto, tutto il resto, dipende dal discorso elettorale.
Agli occhi di alcuni queste prospettive sono utopiche, ma per tutti coloro che rifiutano di
accettare l’eventualità di una guerra si tratta di un complesso di prìncipi che è opportuno
affrontare e difendere senza alcuna riserva. Quanto a conoscere le strade che possono avvicinarci
ad una simile visione delle cose, esse sono inimmaginabili senza l’unità tra i vecchi socialisti e
gli uomini che oggi, percorrono in solitudine le strade del mondo.
In ogni caso, è possibile rispondere ancora, e per l’ultima volta, all’accusa di utopia. Per noi,
infatti, il fatto è semplice: o sarà l’utopia o sarà la guerra, una guerra preparata secondo i modi di
pensare vetusti. Il mondo attuale deve scegliere fra il pensiero politico anacronistico e il
pensiero utopico. Il pensiero anacronistico rischia di portarci alla rovina. E, considerata la nostra
(e la mia), diffidenza, il senso di realtà ci obbliga quindi ad acconsentire all’utopia relativa.
Quando essa sarà integrata nella storia, al pari di molte altre utopie dello stesso genere, non si
potrà immaginare altra realtà possibile. Tant’è che la storia non è altro che lo sforzo disperato
degli uomini per dare corpo ai più luminosi dei loro sogni.
(1) Il 29 luglio del 1946 alle ore 16,30, si inaugura a Parigi, nel Palazzo del Lussemburgo, nelle sale dell’ex Senato
Francese, la Conferenza dei 21, con un discorso inaugurale del Presidente del Consiglio francese, George Bidault,
iniziato con un saluto a nome del popolo francese e del governo ai delegati delle Nazioni Unite ed amiche, convenuti
a Parigi per la prima grande conferenza che deve discutere la sistemazione del mondo dopo la guerra.
(2) Ad esempio il movimento culturale négritude sviluppatosi nella prima metà del XX secolo nelle colonie
francofone. Fra i precursori del concetto di negritudine si cita in genere René Maran, autore di Batouala. Il termine
négritude fu usato per la prima volta da Aimé Césaire nel 1935, nel terzo numero della rivista L’Etudiant Noir.
Césaire rivendicava l’identità e la cultura nera contro quella francese, percepita come strumento di oppressione da
parte dell’amministrazione coloniale. Il concetto fu poi ripreso da molti altri autori. Fra questi spicca Léopold Sédar
Senghor, che in Canti d’ombra (Chants d’ombre, 1945) arricchì l’idea di negritudine opponendo la “ragione
ellenica” all'”emozione nera”.
3) Un nuovo contratto sociale
Riassumo. La sorte degli esseri umani di tutte le nazioni non si risolverà prima che si risolva il
problema della pace e dell’organizzazione mondiale. In nessuna parte del globo avrà luogo una
rivoluzione efficace prima che sia realizzata questa rivoluzione pacifica. Quant’altro si dice in
Francia, oggi, è insignificante o interessato. Mi spingerò persino oltre. Finché non si creerà la
pace, non solo non si cambierà stabilmente il modello di proprietà in nessuna parte del globo, ma
non troveranno soluzione nemmeno i problemi più semplici, come quello del pane quotidiano,
della grande fame che torce i ventri degli europei e del carbone.
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Qualunque pensiero riconosca lealmente la propria incapacità di giustificare la menzogna e
l’omicidio non può che giungere, per quanto poco si curi della verità, a questa conclusione.
Dunque non gli resta quindi che conformarsi tranquillamente a un ragionamento come il nostro.
Il suddetto pensiero dovrà così riconoscere: 1° che la politica interna, considerata in sé e per sé, è
una faccenda del tutto secondaria e per certi versi impensabile; 2° che l’unico problema è la
creazione di un ordine internazionale in grado di assicurare finalmente forme strutturali durevoli
che diano il senso della rivoluzione; 3° che all’interno delle nazioni esistono solamente problemi
amministrativi, da regolare in maniera provvisoria, e nel modo migliore possibile, in attesa di
una regolamentazione politica più efficace perché più generale.
Andrà detto, per esempio, che la Costituzione francese non può essere valutata se non in
funzione del servizio che rende o non rende, ad un ordine internazionale fondato sulla giustizia e
sul dialogo. Da questo punto di vista, va condannata l’indifferenza della nostra Costituzione alle
più semplici libertà dell’uomo. Andrà riconosciuto che l’organizzazione provvisoria del
vettovagliamento è dieci volte più importante del problema delle nazionalizzazioni o delle
statistiche elettorali. Le nazionalizzazioni in un solo paese non potranno essere durevoli. E se il
vettovagliamento può essere regolato sul solo piano nazionale, ecco che assume un carattere di
urgenza e impone il ricorso a espedienti, sia pure provvisori.
Tutto ciò può finalmente dotare il nostro giudizio sulla politica interna il criterio che finora
mancava. Trenta editoriali de l’Aube avranno un bell’opporsi ogni mese a trenta editoriali de
l’Humanité: in ogni caso non riusciranno a farci dimenticare che i due giornali, con i partiti che
rappresentano e gli uomini che li dirigono, hanno accettato senza referendum l’annessione di
Briga e Tenda(1), e che agendo in questo modo, si sono trovati uniti, nei confronti della
democrazia internazionale, in un’unica impresa di distruzione. Non importa se con cattiva o
buona volontà, Bidault e Thorez si schierano così, in egual misura, a favore del principio della
dittatura internazionale. Per cui, checché se ne possa pensare, finiscono per rappresentare nella
nostra politica non già la realtà bensì l’utopia più sciagurata.
Si, dobbiamo minimizzare l’importanza della politica
interna. Non si guarisce la peste con i rimedi che si
applicano ai raffreddori di testa. Una crisi che sta
dilaniando il mondo intero deve essere risolta su scala
universale. L’ordine per tutti, affinché diminuisca per
ciascuno il peso della miseria e della paura: ecco oggi,
secondo logica, il nostro obbiettivo. Il che richiede,
tuttavia, un’azione e una quantità di sacrifici, in altre
parole uomini che siano all’altezza. E se oggi ci sono
molti uomini i quali, che segreto del proprio cuore,
maledicono la violenza e i massacri, non ce ne sono
molti disposti a riconoscere che questo li obbliga a
riconsiderare il loro pensiero o la loro azione. Coloro
che vorranno fare simile sforzo troveranno comunque
una speranza fondata e un codice di comportamento.
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Ammetteranno di non potersi aspettare granché dagli attuali governi, dato che questi vivono e
agiscono secondo princìpi criminali. L’unica speranza risiede nella più grande delle penitenze,
quella che consiste nel riprendere le cose all’ inizio onde ricostruire una società viva
all’interno di una società condannata a morte. Bisogna quindi che tali uomini, uno a uno,
stabiliscano di nuovo fra loro, all’interno e al di là dei confini, un nuovo contratto sociale che li
unisca sulla base dei princìpi più ragionevoli.
Il movimento per la pace di cui ho parlato dovrebbe potersi articolare, all’interno delle nazioni,
su comunità di lavoro e, al di là dei confini, su comunità di meditazione: le prime, secondo
contratti graduali sul modello cooperativo, allevierebbero la fatica del maggior numero possibile
di individui; le seconde proverebbero a individuare i valori in base ai quali vivrà quest’ordine
internazionale, sostenendone nel contempo la sua causa in ogni occasione.
Più in dettaglio, il compito delle seconde sarebbe quello di contrapporre parole chiare alle babele
del terrore, e d’individuare al stesso tempo i valori indispensabili ad un mondo pacificato. I suoi
primi obbiettivi potrebbero essere un codice di giustizia internazionale il cui primo articolo
sarebbe l’abolizione generale della pena di morte e una messa in chiaro dei princìpi necessari a
ogni cultura del dialogo. Il lavoro risponderebbe ai bisogni di un’epoca che non sta trovando in
alcuna filosofia le giustificazioni indispensabili alla sete di amicizia che brucia oggi le anime
dell’occidente. È comunque evidente che non si tratterebbe di edificare una nuova ideologia, si
tratterebbe soltanto di ricercare uno stile di vita.
Ecco qui, in ogni caso, alcuni motivi di riflessione, sui quali, tenendo presente il quadro degli
articoli in corso, non posso dilungarmi. Per parlare più concretamente, diciamo che le persone
che decidessero di opporre, in ogni circostanza, l’esempio al potere, la dialettica al dominio, il
dialogo all’insulto, ed il semplice onore alla furberia; che rifiutassero tutti i vantaggi della società
attuale, ed accettassero soltanto i doveri e gli impegni che li legano agli altri esseri umani; che si
impegnassero ad orientare prima di tutto l’insegnamento, poi la stampa e l’opinione pubblica,
secondo le indicazioni di cui si è discusso fin qui, quegli uomini non agirebbero assecondando
l’utopia – lo prova l’evidenza – ma il più onesto realismo. Essi preparerebbero i futuro e, di
conseguenza, farebbero cadere, fin da oggi, alcuni dei muri che ci opprimono. Se il realismo è
l’arte di tener conto, al tempo stesso, del presente e del futuro, di ottenere il più sacrificando il
meno, come non vedere che essi si schiererebbero dalla parte alla realtà più rivelatrice?
Non so se persone del genere si materializzeranno, oppure no. È probabile che la maggior parte
di esse in questo momento stia riflettendo, e ciò è bene. Ma una cosa è certa : l’efficacia della
loro azione non potrà andare disgiunta dal coraggio con cui accetteranno di rinunciare,
nell’immediato, a determinati sogni per puntare esclusivamente all’essenziale, cioè a salvare vite
umane. E, una volta arrivati a questo punto, si dovrà, forse, prima di concludere, alzare la voce.
(1)I trattati di Parigi tra le potenze vincitrici previdero la cessione dall’Italia alla Francia delle città di Briga e Tenda.
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4) Il secolo della paura
19 novembre 1946
Il XVII secolo è stato il secolo delle
matematiche; il XVIII quello delle scienze
fisiche; e il XIX quello della biologia. Il
nostro secolo è il secolo della paura.
Mi si dirà che la paura non è una scienza. Ma,
innanzitutto la scienza c’entra pur qualcosa,
poiché i suoi ultimi progressi teorici l’hanno
portata a negare se stessa (Parla delle bombe
sganciate su Hiroshima e Nagasaki N.d.R.)e
poiché i suoi perfezionamenti pratici
minacciano di distruggere il modo intero.
Inoltre, se la paura in se stessa non può essere
considerata una scienza, non v’è alcun dubbio sul fatto che sia comunque una tecnica.
Ciò che colpisce maggiormente, in effetti, nel mondo in cui viviamo, è innanzitutto, e in
generale, il fatto che la stragrande degli uomini (salvo i credenti di tutte le specie) sono privati
del proprio futuro. Non c’è vita degna di questo nome senza una proiezione nel futuro, senza una
prospettiva di evoluzione e di progresso. Vivere contro un muro, è la vita dei cani. Ebbene, gli
uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle università, hanno
vissuto e vivono sempre più come cani.
Naturalmente, non è la prima volta che gli uomini si trovano davanti un avvenire materialmente
murato. Di solito, però, ne sono usciti vittoriosi grazie alla parola e al grido. Fanno appello ad
altri valori, in grado di procurare loro una speranza. Oggi, nessuno parla più (salvo chi si ripete).
Il mondo, infatti, ci sembra guidato da forze cieche e sorde che non sono disposte ad
ascoltare le grida di avvertimento, né i consigli, né le suppliche. In noi qualcosa è stato
distrutto dallo spettacolo degli anni che abbiamo appena trascorso. E questo qualcosa è
quell’eterna fiducia nell’essere umano, che ci ha sempre fatto credere di poter ricevere
dall’altro da sé stimoli umani semplicemente parlandogli il linguaggio dell’umanità. Abbiamo
visto mentire, avvilire, uccidere, deportare, torturare, e ogni volta è stato impossibile persuadere
chi lo faceva a non farlo, perché era sicuro di sé e perché non si convince un’astrazione, ovvero il
rappresentante di un’ideologia.
Il lungo dialogo tra uomini è bloccato. E, beninteso, un uomo che non si può convincere è un
uomo che mette paura. Il che fa sì che accanto a persone che non parlano perché lo giudicano
inutile si è estesa e si estende un’immensa congiura del silenzio, accettata da chi trema di paura
e trova delle buone ragioni per nascondere a se stesso il tremore, e provocata da chi ha interesse
a farlo.
“Non dovete parlare dell’epurazione degli artisti in Russia, perché farebbe gioco alla reazione.”
“Dovete tacere sul sostegno a Franco da parte degli Anglosassoni, perché questo favorirebbe il
comunismo.” Dicevo, per l’appunto, che la paura è una tecnica.
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Tra la paura molto generica di una guerra che il mondo intero va preparando e la paura tutta
particolare delle ideologie omicide, è pertanto verissimo che viviamo nel terrore. Viviamo nel
terrore perché la persuasione non è più possibile, perché l’uomo è stato interamente consegnato
alla storia e non può più volgersi verso quella parte di sé, non meno vera della parte
consegnata alla storia, che ritrova al cospetto della bellezza del mondo e dei volti; perché
viviamo nel mondo dell’astrazione, quello dei carnefici e delle macchine, delle idee assolute e
del messianismo privo di sfumature.
Ci sentiamo soffocare in mezzo alla gente che crede di avere assolutamente ragione, sia che si
tratti delle sue macchine o delle sue idee. E per chi non può vivere che nel dialogo e
nell’amicizia degli esseri umani, questo silenzio è la fine del mondo.
Per uscire dalla condizione di terrore,
occorrerebbe poter riflettere e agire
seguendo il proprio ragionamento. Il
clima di terrore non è certo il più
favorevole al ragionamento. Sono del
parere, comunque, che si debba
biasimare la paura, considerarla uno
degli elementi della situazione e
cercare di rimediarvi. Non esiste
nulla di più importante. La cosa,
infatti, riguarda il destino di un gran
numero di Europei i quali, sazi di
violenze e di menzogne, delusi nelle
loro più grandi speranze, provano
ripugnanza all’idea di uccidere i propri simili, fosse anche per convincerli, così come provano
pari ripugnanza all’idea di venire convinti nella medesima maniera. È tuttavia questa
l’alternativa di fronte alla quale si viene a trovare una grande massa di esseri umani in Europa,
che non appartengono a nessun partito, o che si sentono a disagio in quello che si sono scelti,
che dubitano che in Russia si sia realizzato il socialismo, e in America il liberalismo, che
assicurano sì ai russi e agli americani il diritto di affermare le loro rispettive verità, ma rifiutano
loro il diritto di imporle con l’omicidio, individuale o collettivo. Tra i potenti di oggi ci sono
individui senza regno. I quali non potranno far riconoscere (non dico far trionfare, solo far
riconoscere) il proprio punto di vista, e potranno ritrovare la loro patria solo quando avranno
preso coscienza di ciò che vogliono e lo dichiareranno con semplicità e forze sufficienti perché le
loro parole possano sprigionare un fascio di energie. E se il clima di paura non li farà ragionare
nel modo giusto, allora dovremmo, per prima cosa, mettersi in regola con la paura.
Per mettersi in regola con la paura, occorre vedere cosa essa significa, e che cosa rifugge. Essa
significa e rifugge la stessa realtà di fatto: un mondo in cui si legittima l’omicidio e dove si
considera futile la vita umana. Ecco il principale problema politico di oggi.
E, prima di proseguire con il resto, è necessario prendere posizione in rapporto a tale problema.
Prima di avviare qualsiasi costruzione ideale, oggi vanno poste due domande: “Sì o no? Volete
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voi, direttamente o indirettamente, essere uccisi o violentati?” “Sì o no, volete voi, direttamente
o indirettamente, ammazzare e violentare?” Tutti coloro che risponderanno no alle due
domande si troveranno automaticamente coinvolti in una serie di conseguenze che devono
modificare il loro modo di porre il problema. Il mio programma è individuare soltanto due o tre
di tali conseguenze. Nell’attesa, il lettore di buona volontà può incominciare ad interrogarsi e a
rispondere.
5) Salvare i corpi
Dopo che ho detto, una volta, di non riuscire più ad ammettere, dopo l’esperienza di questi ultimi
due anni, alcuna verità che potesse costringermi, direttamente o indirettamente, a far condannare
a morte un uomo, alcune persone che stimavo mi hanno talvolta fatto notare che coltivavo
un’utopia, che non c’era verità politica tale da non poterci condurre un giorno a quegli estremi, e
che occorreva dunque o correre il rischio di simili estremi o accettare il mondo così com’era.
L’argomento veniva adotto con forza. Ma credo innanzitutto che ci mettessero così tanta forza
unicamente perché non riuscivano a immaginare la morte degli altri. È una stranezza del nostro
secolo. Così come ci si ama per telefono e si lavora non più sulla materia, ma sulla macchina,
oggi si uccide e si è uccisi per procura. Ci guadagna la pulizia, ma la conoscenza ci perde.
Tuttavia questo argomento ha un’altra forza, per quanto indiretta: esso pone il problema
dell’utopia. Insomma, le persone come me non vorrebbero un mondo nel quale non ci si uccide
più, (non siamo così pazzi!), ma un mondo un cui non sia legittimato l’omicidio. E qui di fatto,
siamo mesi di fronte tanto all’utopia che alla contraddizione. Poiché viviamo, per l’appunto, in
un mondo in cui l’omicidio è legittimato, e dobbiamo cambiarlo se non vogliamo più omicidi.
Sembra però che non lo si possa cambiare senza esporsi all’eventualità dell’omicidio. L’omicidio
ci rimanda dunque all’omicidio e continueremo così a vivere nel terrore, sia che si accetti la cosa
con rassegnazione, sia che la si voglia annullare con mezzi che la sostituiranno con un altro
terrore.
Tutti, a mio avviso, dovrebbero riflettere su questo. Ciò che più colpisce in mezzo alle
polemiche, alle minacce e agli scatti di violenza, è infatti la buona volontà di tutti. Tutti, con
l’eccezione di alcuni imbroglioni, dalla destra alla sinistra, sono convinti che la loro verità sia
fatta apposta per dar luogo all’umana felicità. Ciononostante, la confluenza della buona volontà
di tutti ha come risultato questo mondo infernale nel quale degli uomini sono ancora uccisi,
minacciati, deportati, in cui si prepara la guerra, e dove basta dire una parola per essere insultato
o traditi all’istante.
Che cosa concluderne? Che se persone come noi vivono nella contraddizione, essi non sono i soli
a farlo, e che chi che li accusa di utopia vive a sua volta coltivando un’utopia, senza dubbio
differente, ma in definitiva non meno dispendiosa.
Occorre dunque ammettere che il rifiuto di legittimare l’omicidio ci obbliga a riconsiderare la
nostra nozione dell’utopia. A tale riguardo pare si possa dire quanto segue : l’utopia è ciò che è
in contraddizione con la realtà. Da questo punto di vista, sarebbe del tutto utopico voler che
nessuno ammazzi nessuno. Sarebbe l’utopia assoluta. Tuttavia esiste un’utopia di secondo
livello, meno forte; chiedere che l’omicidio non sia più legittimato. D’altronde, sia l’ideologia
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marxista sia l’ideologia capitalista, basate entrambi sull’idea di progresso, convinte entrambe che
l’applicazione dei loro principi debba garantire fatalmente l’equilibrio della società, sono utopie
di un livello molto più forte. E per di più, stanno per costarci un prezzo altissimo.
Possiamo concluderne che, in pratica, la lotta che s’ingaggerà negli anni a venire non sarà tra le
forze dell’utopia e quelle della realtà, ma tra utopie differenti che cercano un’assimilazione con
la realtà , utopie tra le quali si tratterà solo di scegliere le meno costose. E sono convinto che non
possiamo più nutrire la ragionevole speranza di salvare tutto, ma che possiamo proporci
perlomeno di salvare i corpi, in modo che il futuro resti un futuro possibile.
Dunque il fatto di rifiutare la legittimazione dell’omicidio non è evidentemente più utopico degli
atteggiamenti realistici di oggi. Tutto sta a sapere se essi costano un prezzo più o meno alto. È
comunque un problema che dobbiamo risolvere. E scusate se penso di poter essere utile
definendo, in rapporto all’utopia, le condizioni necessarie per placare gli uomini e le nazioni.
Il mio ragionamento, a condizione che la si faccia senza paura e senza presunzione, può
contribuire a creare le condizioni di un pensiero giusto e di un accordo provvisorio fra chi non
vuole essere né vittima, né carnefice.
Beninteso, non si tratterà, negli articoli che seguiranno, di definire una posizione assoluta, ma
soltanto di correggere alcune nozioni oggi travisate e provare a porre il problema dell’utopia nel
modo più corretto possibile. Si tratterà, insomma, di definire le condizioni di un pensiero politico
modesto, ossia depurato da ogni messianismo e spogliato della nostalgia del paradiso terrestre.
6) La rivoluzione travestita
Combat: 25 novembre 1946
Dall’agosto 1944, tutti i francesi parlano di rivoluzione – e sempre sinceramente, non ci sono
dubbi in proposito. La sincerità, tuttavia, non è una virtù in sé. Ci sono sincerità così confuse da
essere peggiori delle menzogne.
Non si tratta per noi, oggi, di parlare il linguaggio del cuore, si tratta solo di pensare in modo
chiaro. Sul piano ideale, la rivoluzione è un cambiamento delle istituzioni politiche ed
economiche, volto a far trionfare la libertà e la giustizia nel mondo. Sul piano pratico, è l’insieme
degli avvenimenti storici, spesso rovinosi, prodotti da quei fortunati mutamenti.
Possiamo dire, oggi, che la parola “rivoluzione” venga usata nel suo senso classico? Quando nel
nostro paese le persone sentono parlare di rivoluzione, ammesso che mantengano il sangue
freddo, pensano ad un cambiamento del sistema di proprietà (in genere la messa in comune dei
mezzi di produzione) ottenuto, o con una legislazione basata sulle leggi della maggioranza, o con
una presa del potere da parte di una minoranza.
È facile notare come questo complesso di nozioni non abbia alcun senso nelle attuali circostanze
storiche. Da una parte, la presa di potere tramite la violenza è un’idea romantica che il progresso
degli armamenti ha reso illusoria. L’apparato repressivo di un governo ha dalla sua parte tutta la
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forza dei carri armati e degli aerei cosicché, per equilibrarla, bisognerebbe avere altrettanti carri
armati e aerei. Il 1789 e il 1917 sono ancora delle date, ma non sono più degli esempi
proponibili.
Ammesso che la presa del potere sia comunque possibile, attraverso le armi o la legge, avrebbe
efficacia soltanto se la Francia (o l’Italia, o la Cecoslovacchia) potesse essere messa fra parentesi
e isolata dal mondo. Infatti nella nostra storia attuale, cioè nel 1946, una modifica del regime di
proprietà comporterebbe, per esempio, ripercussioni tali sui crediti americani che la nostra
economia si troverebbe mortalmente minacciata. Una rivoluzione di destra, a sua volta, non
avrebbe maggiori possibilità di successo, a causa dell’ipoteca parallela con la quale la Russia, ci
condiziona tramite milioni di elettori comunisti e con la sua posizione di massima potenza
continentale. La verità che – e me ne scuso – vorrei mettere in chiaro, giacché tutti la conoscono
senza dirla, è che non siamo liberi, in quanto Francesi, di essere rivoluzionari. O perlomeno non
possiamo più essere dei rivoluzionari solitari perché non sussistono più, oggi, nel mondo,
politiche conservatrici o socialiste che si possano sviluppare sul solo piano nazionale.
Per cui possiamo parlare soltanto di rivoluzione internazionale. Proprio così:, la rivoluzione si
farà su scala internazionale o non si farà. Ma ancora, qual è il senso di questa frase? Ci fu un
tempo in cui si pensava che la riforma internazionale si sarebbe fatta congiungendo o
sincronizzando più rivoluzioni nazionali; un’addizione di miracoli, in qualche modo. Oggi, se la
precedente analisi è corretta, è possibile pensare solamente all’estensione di una rivoluzione che
si è già compiuta. È una cosa che Stalin ha visto molto bene ed è la spiegazione più benevola che
si possa dare della sua politica (l’altra è quella di negare alla Russia il diritto di parlare in nome
della rivoluzione).
Il che porta a considerare l’Europa e l’Occidente come una
sola nazione in cui un’importante minoranza bene armata
potrebbe vincere e lottare per prendere alla fine il potere. Ma
siccome le forze conservatrici (nella fattispecie gli Stati Uniti)
sono altrettanto bene armati, è facile dedurre che la nozione di
rivoluzione viene oggi sostituita da quella di guerra
ideologica. Per essere più precisi, la rivoluzione internazionale
rappresenta oggi un rischio, estremo, di guerra totale. Ogni
rivoluzione futura sarà una rivoluzione straniera. Comincerà
con un’occupazione militare oppure, il che equivale alla stessa cosa, con un ricatto che comporta
l’occupazione. E avrà senso soltanto a partire dalla vittoria definitiva dell’occupante sul resto del
mondo.
All’interno delle nazioni le rivoluzioni costano già un prezzo molto alto. Tuttavia, in
considerazione del progresso che sembrano promettere, generalmente si accetta la necessità di
costi simili. Oggi, il prezzo di una la guerra ai danni dell’umanità deve essere obbiettivamente
valutata in rapporto al progresso che ci si potrebbe attendere in seguito alla presa del potere
mondiale da parte della Russia o dell’America. E credo sia di capitale importanza il fatto che se
ne pesino le due cose e che, per una volta, si guardi con un po’ di immaginazione cosa ne
diventerebbe di un pianeta, sul cui conto vanno già messi circa trenta milioni di cadaveri, dopo
un cataclisma che ci costerebbe dieci volte tanto.
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Tengo a sottolineare che il mio modo di ragionare è obbiettivamente corretto. Esso prende in
considerazione soltanto la valutazione della realtà, senza comportare per il momento giudizi
ideologici o sentimentali. Anche se, in ogni caso, dovrebbe far riflettere chi parla di rivoluzione
con troppa superficialità. Quello che implica oggi la parola rivoluzione deve essere accettato in
blocco o rifiutato in blocco. Se lo accettiamo, dobbiamo riconoscerci responsabili in piena
coscienza della guerra a venire. Se lo rifiutiamo, dobbiamo o dichiaraci a favore dello status quo
– il che corrisponde all’utopia totale, dal momento che vi si presuppone l’immobilità della storia
– o rinnovare il contenuto della parola rivoluzione – il che implica un’adesione a quella che
chiamerò l’utopia relativa.
Dopo aver soppesato un po’ la questione , mi sembra di poter dire che chi desidera oggi
cambiare efficacemente il mondo, debba scegliere fra le prossime fosse comuni, cioè il sogno
impossibile di una storia completamente bloccata, e l’accettazione di un’utopia relativa che lasci
una possibilità sia all’agire sia agli uomini. Non è tuttavia difficile rendersi conto che questa
utopia relativa è l‘unica strada possibile, l’unica ispirata al senso di realtà. Esamineremo in un
prossimo articolo in che cosa consista questa fragile possibilità, l’unica che ci potrebbe salvare
dalle fosse comuni.
7) Democrazia e dittature internazionali
26 novembre 1946
Oggi sappiamo che non ci sono più isole e che i
confini sono effimeri. Sappiamo che in un mondo in
accelerazione costante, nel quale si attraversa
l’Atlantico in meno di un giorno, in cui Mosca parla
con Washington in poche ore, siamo condannati alla
solidarietà o, a seconda dei casi, alla complicità. Ciò
che abbiamo imparato nel corso degli anni ‘40, è che
l’ingiuria fatta ad uno studente di Praga colpiva
contemporaneamente l’operaio di Clichy; che il
sangue sparso da qualche parte lungo le rive di un fiume del Centro Europa avrebbe condotto un
contadino del Texas a versare il proprio sul suolo di quelle Ardenne che vedeva per la prima
volta. Non c’era e non c’è più in questo mondo, una sola sofferenza isolata, una sola tortura, che
non si ripercuota sulla nostra vita di tutti i giorni.
Molti Americani vorrebbero continuare a vivere chiusi nella loro
società che trovano buona. Molti Russi vorrebbero, forse, continuare
a proseguire l’esperienza statalistica prescindendo dal mondo
occidentale. Non lo possono e non lo potranno fare mai più. Così
come nessun problema economico, per quanto secondario possa
apparire, può oggi essere risolto al di fuori della solidarietà
internazionale. Il pane dell’Europa è a Buenos Aires e le macchine
utensili della Siberia vengono fabbricate a Detroit. Oggi, la tragedia è
collettiva.
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Sappiamo dunque tutti, senza ombra di dubbio, che il nuovo ordine di cui andiamo in cerca non
può essere soltanto nazionale o continentale, né tantomeno occidentale o orientale. Dev’essere
universale, non è più possibile attendersi soluzioni parziali o concessioni. Quello che stiamo
vivendo è uno stato di compromesso: in altri termini l’angoscia per l’oggi è l’omicidio per il
domani. E nel frattempo la velocità della storia e del mondo accelera. I ventuno sordi, futuri
criminali di guerra, che discutono oggi di pace* scambiano i loro monotoni dialoghi
tranquillamente seduti al centro di uno rapido che li sta precipitando verso l’abisso, a mille
chilometri all’ora. Si, l’ordine universale è il solo problema del momento: un problema che va
ben oltre le dispute sulla costituzione e sulla legge elettorale, e che esige da noi tutte le risorse
della nostra intelligenza e della nostra volontà.
Quali sono oggi i modi per raggiungere l’unità del mondo, per realizzare questa rivoluzione
internazionale per la quale le risorse in uomini, le materie prime, i mercati commerciali e le
ricchezze spirituali potranno trovare una più equa distribuzione? Io ne vedo soltanto due, due
modi che tracciano la nostra ultima alternativa. Il mondo può essere unificato, dall’alto, come ho
detto ieri, da un solo Stato più potente degli altri. La Russia o l’America possono aspirare a tale
ruolo. Non ho nulla da obiettare, e nessuna delle persone che conosco ha nulla da obiettare in
merito all’idea, difesa da molti, che la Russia o l’America abbiano i mezzi per dominare e
unificare questo mondo secondo gli schemi della loro società. Mi oppongo però all’idea, in
quanto francese, e più ancora in quanto mediterraneo. Ma non terrò alcun conto della mia ripulsa
sentimentale.
Ecco la nostra unica obiezione, così come l’ho delineata nel mio ultimo articolo: l’unificazione
non può essere fatta senza la guerra o, perlomeno, senza un rischio estremo di guerra. E
ammetterò ancora, anche se non ci credo, che la guerra possa non essere atomica. Cionondimeno
la guerra di domani lascerebbe l’umanità talmente mutilata e a tal punto impoverita, che l’idea
stessa di un ordine risulterebbe definitivamente anacronistica. Marx poteva giustificare, come ha
fatto, la guerra del 1870, perché era la guerra del fucile Chassepot , ed era localizzata. Nelle
prospettive del marxismo, centomila morti non sono niente, in effetti, in cambio della felicità di
centinaia di milioni di persone. Ma la morte sicura di centinaia di milioni di persone, per la
felicità supposta di coloro che restano, è un prezzo troppo alto. Il progresso vertiginoso degli
armamenti, fatto storico ignorato da Marx, obbliga a porre in modo nuovo il problema dei fini e
dei mezzi.
Rifugio antiatomico in America
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E il mezzo, qui, manderebbe in pezzi il fine. Qualunque sia il fine desiderato, per quanto elevato
e necessario esso sia, che voglia o meno promuovere la felicità degli uomini, che voglia onorare
la giustizia oppure la libertà, il mezzo impiegato per raggiungerlo rappresenta un rischio così
definitivo, così sproporzionato come grandezza rispetto alle possibilità di successo, che ci
rifiutiamo obbiettivamente di correrlo. Occorre dunque ritornare al secondo modo idoneo ad
assicurare l’ordine universale: il reciproco accordo di tutte le parti in causa. Non ci
domanderemo se sia possibile, considerando qui che è per l’appunto l’unico possibile. Ci
domanderemo piuttosto in che cosa consista.
L’accordo di tutte parti ha un nome: democrazia internazionale. Tutti naturalmente ne parlano,
all’O.N.U. Ma cos’è la democrazia internazionale? È una democrazia che è internazionale. Spero
mi si perdoni qui il truismo, dato che le verità più evidenti sono anche le più mistificate.
Che cos’è la democrazia nazionale o internazionale? È una forma di società in cui la legge è al di
sopra dei governi, essendo a legge espressione della volontà di tutti e rappresentata da un corpo
legislativo. È questo che cercano di istituire oggi? In effetti ci stanno preparando una legge
internazionale. Ma questa legge è fatta o disfatta dai governi, vale a dire dall’esecutivo. Ci
troviamo quindi a vivere in un regime di dittatura internazionale. L’unico modo per uscirne è
porre la legge internazionale al di sopra dei governi, ossia fare una tale legge, disporre di un
parlamento, formare questo parlamento attraverso elezioni mondiali alle quali parteciperanno
tutti i popoli. E, dato che non abbiamo questo parlamento, l’unica via è quella di resistere alla
dittatura internazionale su un piano internazionale e con mezzi che non siano in contraddizione
con il fine perseguito.
*Il 29 luglio del 1946 alle ore 16,30, si inaugura a Parigi, nel Palazzo del Lussemburgo, nelle sale dell’ex Senato
Francese, la Conferenza dei 21, con un discorso inaugurale del Presidente del Consiglio francese, George Bidault,
iniziato con un saluto a nome del popolo francese e del governo ai delegati delle Nazioni Unite ed amiche, convenuti
a Parigi per la prima grande conferenza che deve discutere la sistemazione del mondo dopo la guerra.
8) Il socialismo mistificato
21 novembre 1946
Se ammettiamo che lo stato di terrore, dichiarato o
meno, in cui viviamo da dieci anni non è ancora
cessato, e che esso è la causa più grave del disagio in
cui versano gli uomini e le nazioni, dobbiamo
considerare che cosa sia possibile opporre al terrore.
Il che pone il problema del socialismo occidentale.
Poiché il terrore si legittima solo se si ammette il
principio: “Il fine giustifica i mezzi”. E tale principio
è ammissibile solo se si pone l’efficacia di un’azione
quale fine assoluto, come avviene nelle ideologie nichiliste (tutto è permesso, ciò che conta è
riuscire), (1). o nelle filosofie che fanno della storia un fattore assoluto (Hegel, poi Marx: poiché
il fine è la società senza classi, qualunque mezzo porta alla sua realizzazione è consentito) .
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Ed ecco il problema che affligge, ad esempio i socialisti francesi, assaliti oggi da una quantità di
scrupoli. Perché hanno visto all’opera quella violenza e quell’oppressione di cui finora avevano
avuto fin qui un’idea alquanto astratta. E si sono chiesti se sia il caso, come vorrebbe la loro
filosofia, di accettare in prima persona l’esercizio della violenza, seppure provvisorio e per un
obiettivo comunque diverso. Un recente prefatore di Saint-Just (2), parlando di uomini che
avevano nutrito simili scrupoli, scrive, accentuando tutto il proprio disprezzo: «Hanno fatto
marcia indietro di fronte all’orrore». Non c’è niente di più vero. E comportandosi in questo modo
hanno avuto il merito di acquisire lo sdegno di spiriti abbastanza forti e superiori per convivere
senza batter ciglio nell’orrore. Ma hanno anche dato voce a quell’appello angosciato che si leva
da gente modesta come noi – gente che si conta a milioni – che fa comunque la materia stessa
della storia, e di cui bisognerà un giorno tener conto, malgrado tutte le manifestazioni di
disdegno.
Piuttosto, ci sembra più serio cercare di comprendere la contraddizione e la confusione nelle
quali si sono trovati i socialisti francesi. Da questo punto di vista, evidentemente non si è
riflettuto abbastanza sulla crisi di coscienza del nostro socialismo, così com’essa si è manifestata
in un recente congresso. È del tutto evidente che i nostri socialisti, sotto l’influenza di Léon
Blum, e più ancora sotto la minaccia degli eventi, hanno posto in cima alle loro preoccupazioni
alcuni problemi morali (il fine non giustifica tutti i mezzi) sui quali finora non si erano
soffermati.
Il loro legittimo desiderio è stato quello di fare riferimento ad alcuni principi che apparissero
superiori a quello dell’omicidio. Risulta comunque evidente che questi medesimi socialisti
intendono mantenere in vita la dottrina marxista; gli uni perché pensano che non si possa essere
rivoluzionari senza essere marxisti; gli altri, per una rispettabile fedeltà alla storia del partito, che
li induce a pensare a come non sia più possibile essere socialisti senza essere marxisti. L’ultimo
Congresso del partito ha messo in evidenza le due tendenze e il suo compito principale è stato
quello di cercare di conciarle. Sennonché non si può conciliare l’inconciliabile.
È chiaro, infatti, che se il marxismo è vero, e se esiste una logica della storia, il realismo politico
diventa legittimo. Ma è altrettanto chiaro che se i valori etici preconizzati dal partito socialista si
fondano sul diritto, allora il marxismo è assolutamente falso, proprio perché pretende di essere
assolutamente vero.
Da questo punto di vista, il famoso superamento del marxismo in senso idealistico e umanitario
non è altro che una presa in giro e un sogno senza esisto. Marx non può essere superato,
essendosi spinto fino all’esito in sé. I comunisti hanno fondate ragioni per utilizzare la menzogna
e la violenza che i socialisti rifiutano, e trovano le proprie ragioni in quegli stessi princìpi e in
quella stessa irrefutabile dialettica che i socialisti intendono comunque conservare. Nessuna
meraviglia se il Congresso socialista ha chiuso con la semplice giustapposizione di due posizioni
contraddittorie, la cui sterilità ha avuto una sanzione nelle ultime elezioni.
Per cui la confusione continua. Occorreva scegliere e i socialisti non hanno voluto o non hanno
potuto farlo.
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Non ho scelto questo esempio per sparare sui socialisti, ma per chiarire in quali paradossi si
dibattono. Per sparare sui socialisti bisognerebbe essere superiore a loro. E non è ancora il nostro
caso. Anzi, mi pare che la contraddizione sia comune a tutti coloro di cui ho parlato, tutti
desiderosi di una società che possa essere nello stesso tempo felice e degna, di un’umanità libera
di vivere in una condizione finalmente giusta, e tuttavia esitanti fra una libertà in cui sanno bene
che la giustizia finisce per essere intrappolata e una giustizia nella quale vedono bene che la
libertà è negata fin dal principio. Quest’ angoscia intollerabile è in genere oggetto di derisione
da parte di chi sa che cosa bisogna credere o fare. Io penso che, anziché irriderla, sia il caso di
farne oggetto di ragionamento e di discussione, di vedere che cosa essa significhi, di trovare il
motivo della condanna quasi totale che essa getta su un mondo che è il primo ad alimentarla e di
cogliere la fragile speranza che la sottende.
E la speranza sta appunto in questa contraddizione, perché essa costringe o costringerà i socialisti
alla scelta. O essi ammetteranno che il fine compensa i mezzi, e che dunque l’omicidio può
essere legittimato, oppure rinunceranno al marxismo come filosofia assoluta, limitandosi tener
conto della sua corrente critica, tuttora valida. Se optano per il primo corno del dilemma, la crisi
della società avrà fine e le situazioni si chiariranno chiarite. Se optano per il secondo,
dimostreranno che è giunto il tempo della fine delle ideologie, ovvero delle utopie assolute le
quali, nel processo storico distruggono se stesse con il prezzo altissimo che finiscono per pagare.
Occorrerà scegliere un’altra utopia, più modesta e meno rovinosa. O comunque il rifiuto di
legittimare l’omicidio obbliga a porre la questione.
Sì, la questione va posta, e nessuno, credo, oserà dare una risposta superficiale.
Albert Camus
(1) Nel suo dramma I giusti , Camus opera una rivisitazione de I demoni di Dostoiyevski, rappresentando il ribelle
nichilista che ha perduto ogni barlume di umanità, e che, in nome della Rivoluzione e dell’Organizzazione, è pronto
ad uccidere anche dei bambini:«Stepan. Non ho il cuore abbastanza tenero per queste sciocchezze. Il giorno che ci
decideremo a dimenticare i bambini, allora sì che saremo padroni del mondo e che la rivoluzione trionferà ».
(2) Louis Antoine Léon de Richebourg de Saint-Just, più noto come Louis Antoine de Saint-Just (Decize, 25
agosto 1767 – Parigi, 28 luglio 1794), è stato un rivoluzionario e politico francese. Fu tra i principali artefici del
Terrore durante la Rivoluzione francese. È considerato uno dei padri del socialismo.
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Combat clandestino, n. 58, Luglio 1944
Albert Camus
Sarete giudicati sulla base delle vostre azioni
Nel momento in cui si sta per affrontare la fase finale della lotta, Pétain (1) e Laval (2) si sono
adoperati per far sentire una volta di più le loro voci discordanti e per accreditate alla loro
politica comune un’apparente differenza di tono. Entrambi si sono rivolti al paese e, secondo la
loro tradizionale divisione del lavoro, Laval ha parlato della Germania, mentre Pétain ha finto di
parlare della Francia.
Ma per la verità parlavano tutti e due di tradimento. Semplicemente ne parlavano tutti e due con
un tono di tristezza, come se il tradimento fosse divenuto di colpo un tradimento lucido. La cosa
dura da due anni. Dal momento in cui ha gettato a Vichy le basi di un regime che ci ha fatto
mancare tutto salvo l’umiliazione e la vergogna, Pétain non ha mai smesso, con un gioco che
crede abile, di essere il simbolo più alto che abbiamo del compromesso e della confusione.
Ma quando impera il compromesso, è sufficiente parlar chiaro. Viviamo un’epoca in cui le
uniche risorse sono il coraggio e il linguaggio chiaro. E come sempre è la Resistenza francese a
dire le parole nelle quali la Francia si riconosce. E poiché è libera degli appelli, anche la
Resistenza lancia un appello supremo al popolo francese.
Gli dice che non c’è più tempo per riflettere, soppesare o valutare.
I secondi fini di Pétain, ammesso che ne abbia, le furbizie di Laval, sono ormai secondari: la
neutralità non è più possibile. È venuto il momento in cui gli uomini del nostro paese saranno
giudicati non sulla base delle loro intenzioni bensì dalle loro azioni, e dalle loro azioni
legittimate dalle loro parole. È questa la sola cosa giusta.
E la resistenza francese ci dice chiaramente che da cinque anni le parole e le azioni di Pétain e
Laval non hanno fatto altro che dividere la Francia, umiliare la Francia, uccidere una quantità di
francesi. Pétain e Laval hanno ormai disonorato la guerra e perciò saranno sottoposti a giudizio.
La Resistenza dice che viviamo un’epoca in cui le parole contano, in cui tutte le parole
comportano un impegno, soprattutto quando sono parole che decretano la condanna a morte dei
nostri fratelli, che insultano il nostro coraggio e che danno in pasto la carne stessa della Francia
al più implacabile dei nemici. Di fronte a chi chiama terroristi e assassini dei compatrioti, di
fronte a chi chiama onore ciò che è solo abdicazione, ordine ciò che è tortura, lealismo ciò che è
omicidio, non è possibile alcun compromesso.
La Resistenza vi dice che sul suolo francese non avete un governo e che non ne avete bisogno.
Siamo di gran lunga abbastanza forti per sopportare a denti stretti quanto ci opprime e ci
schiaccia; abbastanza forti per sostenere il pensiero dei nostri compagni imprigionati e torturati,
di cui non parliamo mai e su cui nondimeno spargiamo il silenzio della fratellanza; abbastanza
forti per tollerare la fame e l’omicidio. Non abbiamo bisogno di Vichy per regolare i nostri conti
con la vergogna. Non abbiamo bisogno di benedizioni ipocrite, abbiamo bisogno di uomini e di
coraggio; non abbiamo bisogno di soggiacere al culto della sofferenza, dobbiamo soltanto
dominarla. Per niente soli, anzi, con tutto un popolo, uniti contro una nazione depredata e un
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pugno di traditori senza onore. Non ci occorre una morale da confessori, ci occorre coraggio, e
non saranno certo gli apostoli di tutte le rinunce a fornircelo.
Francesi, la Resistenza vi lancia l’unico appello che dovete ascoltare. La guerra è diventata
guerra totale, la battaglia da combattere è ormai una sola. Nel momento in cui il meglio della
nazione si prepara al sacrificio non ci sentiremo certo tentati dal perdono. Tutto ciò che non è
con noi è contro di noi. Ormai in Francia esistono soltanto due partiti: la Francia di tutti e la
Francia di coloro che saranno distrutti per aver cercato di distruggerla.
(1) Pétain, Philippe (1856-1951). Maresciallo di Francia nel 1918, considerato il vincitore di Verdun, nel1934 è,
per alcuni mesi, ministro della Guerra. Vicino a Maurras e all’Action Française, nel 1939 diventa ambasciatore in
Spagna presso Franco. Vicepresidente del governo di Paul Reynaud nel marzo 1940 e, in seguito alle dimissioni del
primo ministro, presidente del Consiglio il 16 giugno 1940, Pétain chiede l’armistizio e diventa capo dello Stato
francese – organismo che, dopo il voto dell’Assemblea nazionale il 10 luglio 1940, sostituisce la Repubblica.
Fonda il governo di Vichy. Con il motto “Lavoro, Famiglia, Patria” pratica una politica di collaborazionismo
attivo, anche se il suo potere risulta indebolito dall’ascesa di Laval e dall’occupazione della zona libera (novembre
1942).
Fuggito a Sigmaringen, rientra in Francia nell’aprile 1945, dove è sottoposto a processo (23 luglio-l5 agosto).
Condannato a morte, la pena viene immediatamente commutata in ergastolo. Muore all’Île d’Yeu nel giugno 1951.
(2) Laval Pierre (1883-1945). Deputato socialista, poi “socialista indipendente”, più volte ministro della Terza
Repubblica e due volte presidente del Consiglio.
Costretto alle dimissioni nel 1936, torna al potere dopo la disfatta del 1940. Ministro di Stato nel governo Pétain, fa
votare dal Parlamento la revisione della Costituzione – che pone fine alla Repubblica – e svolge un ruolo
fondamentale al momento dell’istituzione del governo di Vichy di cui è vicepresidente. Acceso sostenitore del
collaborazionismo, è l’organizzatore nell’ottobre 1940 dell’incontro Pétain-Hitler a Montoire; arrestato su ordine
di Pétain – che lo sostituisce per alcuni mesi con Darlan (gennaio 1941-aprile 1942) – viene liberato dai tedeschi, i
quali fanno di lui l’uomo forte del governo di Vichy, ministro sia degli Interni sia dell’Informazione sia degli Esteri.
È noto che si dichiarò a favore della vittoria della Germania.
Fuggito a Sigmaringen con Pétain, poi in Austria, sarà arrestato, condannato a morte e, dopo un tentativo di
suicidio, fucilato il 15 ottobre 1945.
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Camus: lettera a un militante algerino
«Ho incontrato nella storia, da quando sono nell’età adulta, molti vincitori il cui volto mi
appariva ripugnante. Perché vi leggevo l’odio e la solitudine. Perché non erano niente se non
erano vincitori e per diventarlo dovevano ammazzare e sottomettere. Ma esiste un’altra razza di
uomini che ci aiuta a respirare, che ha sempre posto la propria esistenza e libertà solo nella
libertà e nella felicità di tutti, che trova quindi fin nelle sconfitte le ragioni per vivere e per
amare. Questi, anche se vinti, non saranno mai soli.»
Albert Camus, La Spagna nel cuore, 1954
Albert Camus scrisse questa lettera a Mohammed el Aziz Kessous, militante
e giornalista algerino come lui sempre in cerca di una terza via tra il
fanatismo coloniale francese e quello del Fronte di Liberazione Nazionale
algerino nell’ootobre del 1955.
Questo testo è inserito nella raccolta di scritti politici, curati da Vittorio
Giacopini, Mi rivolto dunque siamo, pubblicato da Elèutera
Un soldato francese di guardia in una strada a Oran,
nell’Algeria occidentale, 2 maggio 1962.
Mio caro Kessous,
ho trovato le sue lettere al mio ritorno dalle vacanze e temo che la mia approvazione arrivi
troppo in ritardo. Sento comunque il bisogno di confermargliela. Non farà fatica a credermi se le
dico che, in questo momento, soffro d’Algeria proprio come altri soffrono di polmoni. E dal 20
agosto sono vicino alla disperazione.
Supporre che i francesi d’Algeria possano adesso dimenticare i massacri di Philippeville e di
altre località, vuol dire non capire niente del cuore umano. Supporre viceversa che la repressione,
una volta scatenata, possa generare tra le masse arabe fiducia e stima nei confronti della Francia,
è un altro genere di follia. Eccoci dunque messi gli uni contro gli altri, costretti a farci più male
possibile, implacabilmente. Quest’idea mi è insopportabile e sta avvelenando tutte le mie
giornate.
Eppure lei e io, così simili uno all’altro, con la stessa cultura, con le stesse speranze, amici
fraterni da tanto tempo, uniti nell’amore per la nostra terra, sappiamo che non siamo nemici e che
potremmo vivere felicemente, insieme, su questa terra che è la nostra. Perché è nostra, e non
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riesco a immaginarla senza di lei e senza i suoi fratelli, certamente non più di quanto voi possiate
separarla da me e da chi è come me.
E lei l’ha espresso benissimo, meglio di quanto avrei potuto dire io: siamo condannati a vivere
insieme. I francesi d’Algeria, e la ringrazio di aver ricordato che non erano tutti possidenti e
assetati di sangue, saranno in questo paese da più di un secolo e sono più di un milione. Tanto
basta a differenziare il problema algerino da quelli che esistono in Tunisia e in Marocco, dove
l’insediamento francese è relativamente scarso e più recente. Il “dato francese” non è eliminabile
in Algeria e il sogno che la Francia scompaia da un momento all’altro è semplicemente puerile.
D’altro canto, non esiste una ragione al mondo per cui nove milioni di arabi debbano vivere nella
propria terra come degli esclusi: il sogno di una massa araba cancellata per sempre, silenziosa e
asservita, è anch’esso delirante. I francesi hanno radici antiche e vitali nella terra d’Algeria e non
si può pensare di strapparle.
Ma questo, secondo me, non dà loro il diritto di tagliare le radici della cultura e della vita arabe.
Per tutta la vita ho difeso (e lei lo sa bene: questo mi è costato l’esilio dal mio paese) l’idea che
da noi fossero indispensabili riforme ampie e profonde. Non hanno voluto darmi retta, hanno
insistito nel sogno di potenza, che sempre si crede eterno e dimentica che la storia continua a
procedere, e le riforme sono diventate sempre più necessarie.
Quelle da lei indicate rappresentano in ogni caso un primo passo, indispensabile, che va fatto
senza indugio, con l’unica condizione che non lo si renda impossibile annegandolo prima nel
sangue francese o in quello arabo.
Ma affermare oggi questo, lo so per esperienza, vuol dire entrare nella no man’s land tra due
eserciti, e tra le pallottole mettersi a predicare che la guerra è un imbroglio e che il sangue, se in
certe occasioni fa avanzare la storia, la fa avanzare verso una barbarie e una miseria ancora più
grandi. Chi osa gridarlo con tutto il suo cuore, con tutta la sua pena, che risposta può aspettarsi di
sentire, al di là delle risate e del fragore ancora più intenso delle armi?
E tuttavia lo si deve urlare e, visto che lei si propone di farlo, non posso lasciarla affrontare
quest’azione folle e pure indispensabile senza esprimerle la mia solidarietà fraterna.
Sì, è essenziale conservare, per limitato che sia, lo spazio di un dialogo ancora possibile; è
essenziale ristabilire, Per vaga e precaria che sia, la distensione. Per questo è necessario che
ognuno sostenga la pacificazione tra i suoi. Gli imperdonabili massacri di civili francesi
provocano altre devastazioni altrettanto stupide nei confronti delle persone e dei beni del popolo
arabo.
Si direbbe che alcuni pazzi, in preda al furore, consapevoli di non potersi liberare da un
matrimonio forzato, abbiano deciso di stringersi in un abbraccio mortale. Costretti a vivere
insieme e incapaci di unirsi, hanno stabilito di morire insieme. Mentre ognuno rafforza con i
propri eccessi le ragioni e gli eccessi dell’altro, sul nostro paese si abbatte una tempesta mortale,
destinata a montare fino alla distruzione generale.
In questo continuo gioco al rilancio l’incendio si estende e domani l’Algeria sarà una terra di
rovine e di morti che nessuna forza, nessuna potenza al mondo sarà in grado, in questo secolo, di
rimettere in piedi.
Per questo è indispensabile mettere fine a una tale spirale, ed è appunto il compito che ci tocca, a
noi, arabi e francesi, ancora intenzionati a tenerci per mano. Noi francesi dobbiamo lottare per
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impedire che la repressione osi diventare collettiva e far sì che la legge francese conservi nel
nostro paese un senso generoso e limpido; per ricordare ai nostri gli errori e gli obblighi di una
grande nazione che non può, pena la sua decadenza, reagire al massacro xenofobo scatenando
una repressione di pari natura; per favorire infine l’avvento di riforme necessarie e decisive, che
avvieranno la comunità franco-araba dell’Algeria sulla strada dell’avvenire.
Voi arabi dovete, per parte vostra, dimostrare instancabilmente ai vostri che il terrorismo, quando
fa vittime tra la popolazione civile, oltre a far dubitare a ragione della maturità politica degli
uomini capaci di azioni simili, riesce solo a rafforzare gli elementi antiarabi, a valorizzare i loro
argomenti e a tappare la bocca all’opinione liberale francese, che invece potrebbe trovare e far
adottare una forma di conciliazione.
Qualcuno mi ribatterà, come fanno anche a lei, che la conciliazione è un fatto superato, che ora si
tratta di fare la guerra e di vincerla. Lei e io, invece, sappiamo che questa guerra sarà senza reali
vincitori e che, dopo come prima, ci toccherà ancora, e per sempre, convivere nella stessa terra.
Sappiamo che i nostri destini sono legati al punto che qualsiasi azione dell’uno comporta la
reazione dell’altro, che il crimine produce il crimine, che la pazzia risponde alla demenza, che
infine e soprattutto l’astensione dell’uno provoca la sterilità dell’altro.
Se voi democratici arabi falliste l’obiettivo della pacificazione, l’azione di noi liberali francesi
sarebbe fin d’ora destinata al fallimento. E se davanti al nostro dovere noi ci dimostrassimo
deboli, le vostre povere parole sarebbero trascinate nel vento e nelle fiamme di una guerra
spietata.
Ecco perché mi trova tanto solidale con quello che intende fare, mio caro Kessous. Le auguro, ci
auguro, buona fortuna. Voglio credere con tutte le mie forze che sui nostri campi, sulle nostre
montagne, sui nostri lidi trionfi la pace, che finalmente arabi e francesi, riconciliati nella libertà e
nella giustizia, s’impegnino insieme a dimenticare il sangue che oggi li divide. Quel giorno, noi
che siamo insieme esuli nell’odio e nella disperazione, ritroveremo insieme una patria.
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HIROSHIMA – Albert Camus
Il bombardiere Enola Gay con equipaggio soddisfatto e
sorridente.
Enola Gay è il bombardiere B-29 Superfortress che il 6
agosto 1945, poco prima del termine della seconda
guerra mondiale, sganciò sulla città giapponese di
Hiroshima la prima bomba atomica della storia ad
essere stata utilizzata in guerra, soprannominata Little
Boy. A causa del suo ruolo nei bombardamenti atomici
di Hiroshima e Nagasaki, il suo nome è stato sinonimo
della controversia sui bombardamenti stessi. Enola Gay
è il nome della madre del pilota, Paul Tibbets.
«Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo
compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto.»
Horacio Verbitsky, da Un mundo sin periodistas
Certamente Albert Camus fu un giornalista molesto. La sua prosa appartiene a ciò che oggi
verrebbe chiamato “politicamente scorretto”. Oggi, come allora, sarebbe stato messo al margine
della cultura dominante sia dai nuovi Sartre che dai rinati Mauriac.
I suoi articoli apparsi su Combat prima e dopo la liberazione di Parigi, sono la testimonianza
della sua assoluta libertà di pensiero. Camus non ebbe mai nessun timore reverenziale. I primi
anni di vita avevano generato in lui un’irriverenza verso il potere oggi introvabile nel mondo del
giornalismo che sa sempre dove fermarsi per non urtare gli umori di quella casta, di quella lobby,
di quella chiesa.
Bastano alcuni titoli dei suoi articoli per comprendere da quale fuoco fosse temprato: A guerra
totale resistenza totale, Hanno fucilato francesi per tre ore, La notte della verità, Il tempo del
disprezzo.
Dal primo del marzo 1944, scritto in clandestinità, che incitava i francesi alla resistenza,
all’ultimo, del marzo del 1949 (che chiedeva di abolire una sentenza che ordinava di giustiziare
due fucilieri algerini rei di diserzione per essersi consegnati – nove anni prima, con l’esercito
francese allo sbando, insieme all’intero plotone, al nemico) Camus tenne sempre la schiena dritta
di fronte al mondo dell’assurdo che gli era ostile.
Fu sempre, fino all’ultimo minuto della sua troppo breve vita, un intellettuale contro: prima
contro il governo fantoccio di Pétain colluso con il nazifascismo, e poi contro politici, papi,
industriali, e i loro servi della propaganda giornalistica, che volevano restaurare lo stesso
identico sistema sociale e lo stesso “sistema filosofico” precedente a quella guerra che aveva
causato almeno cento milioni di morti.
Albert Camus non è riuscito a fermare l’ennesima restaurazione di un potere che trae la propria
origine dall’annullamento dell’altro da sé visto come facente parte di una natura da sfruttare.
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Ciò nonostante rimane, per tutti coloro che vogliono fare giornalismo, un fuoco acceso su un
lontano monte. Un fuoco da raggiungere prima che si spenga. Un fuoco al quale scaldarsi e
ravvivare per il prossimo sconosciuto viandante che avrà il coraggio di avventurarsi in quei
luoghi frequentati dalla verità.
(di Gian Carlo Zanon)
Questo articolo narra del suo solitario rifiuto alle
“ragioni di stato” che portarono a quella shoah
nipponica di cui nessuno parla più: Hiroshima e
Nagasaky.
Combat – 8 Agosto 1945, Editoriale di Albert
Camus
Il mondo è quello che è, cioè poca cosa. È quello
che, da ieri, ciascuno sa grazie al formidabile
concerto che la radio, i giornali e le agenzie di stampa hanno appena finito di organizzare a
proposito della bomba atomica. I fatti, soverchiati da una folla di commenti entusiasti, ci
insegnano che qualsiasi città di media importanza può essere totalmente rasa al suolo da una
bomba della grandezza di un pallone da football. Giornali americani, inglesi e francesi si
dilungano in eleganti dissertazioni sul futuro, il passato, gli inventori, il costo, la vocazione
pacifica e gli effetti bellici, le conseguenze politiche e anche il carattere indipendente della
bomba atomica1).
Noi riassumeremo il nostro pensiero in una sola frase: la civiltà meccanica è appena giunta al suo
ultimo grado di barbarie. Dovremo scegliere, in un futuro più o meno prossimo, tra il suicidio
collettivo e l’impiego intelligente delle conquiste scientifiche.
Nell’attesa, si può pensare che vi sia un certa indecenza a celebrare in questo modo una scoperta
che si pone prima di tutto al servizio del più formidabile accanimento distruttivo di cui l’uomo
abbia dato prova da secoli. Che in un mondo esposto a tutti gli strappi della violenza, incapace di
alcun controllo, indifferente alla giustizia e alla semplice felicità umana, la scienza si consacri
all’omicidio organizzato, nessuno ormai, a meno che non sia affetto da idealismo congenito,
troverà modo di stupirsi.
Scoperte del genere dovrebbero essere registrate, commentate per quello che sono, annunciate al
mondo affinché si abbia un’idea plausibile del proprio destino. Ma corredare queste terribili
rivelazioni con una letteratura pittoresca o caricaturale è davvero intollerabile.
Già si respirava male in questo mondo tormentato. Ed ecco che ci viene proposta una nuova
angoscia, che ha tutte le prerogative di essere definitiva. Sì, viene offerta all’umanità la sua
ultima possibilità. Dopotutto, potrebbe fungere da pretesto per un’edizione speciale. Ma, più
probabilmente, dovrebbe fungere da occasione per non poche riflessioni e molto silenzio.
Del resto, ci sono altre ragioni per accogliere con riserva il romanzo di fantascienza propostoci
dai giornali. Quando si vede redattore diplomatico dell’Agenzia Reuter annunciare che
l’invenzione rende caduchi i trattati o prescritte le stesse decisioni di Potsdam e sottolineare
come sia ormai indifferente che i russi trovino a Königsberg o la Turchia sui Dardanelli, non ci si
può trattenere dall’attribuire a questo bel concerto intenzioni estranee al disinteresse scientifico.
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Intendiamoci bene. Se i giapponesi capitolano dopo la distruzione di Hiroshima 2) e sotto il suo
effetto intimidatorio, noi ne siamo felici. Ma non intendiamo far discendere da una notizia tanto
grave altra decisione se non quella di perorare con ancora maggior forza la causa di una vera
organizzazione internazionale nella quale le grandi potenze non abbiano diritti superiori a quelli
delle piccole e medie nazioni e nella quale la guerra, flagello divenuto mortale per il solo effetto
dell’intelligenza umana, non dipenda più dagli appetiti o dalle dottrine politiche di questo o
quello Stato.
Davanti alle prospettive terrificanti che si aprono all’umanità, ci accorgiamo ancora di più che la
pace è la sola battaglia che meriti di essere combattuta. Non è più una supplica ma un ordine che
deve salire dai popoli ai governi, l’ordine di decidere definitivamente tra l’inferno e la ragione.
1)Effettivamente, la lettura dei giornali ha un che di edificante. Si tratta essenzialmente di articoli scientifici sulla
costruzione della bomba e sull’atomo.
2)Hiroshima viene bombardata il 6 agosto Nagasaki il 9 agosto. Questo articolo è dell’8 agosto.
Da “Questa lotta vi riguarda, corrispondenze per Combat 1944 – 1947 “- Prima edizione Bompiani – ottobre 2010
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