Albert Camus – 10 dicembre 1957 – Discorso di accettazione del
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Albert Camus – 10 dicembre 1957 – Discorso di accettazione del
Albert Camus – 10 dicembre 1957 – Discorso di accettazione del premio Nobel (Testo tradotto) Sire, Madame, Altezze Reali, signore, signori, Ricevendo il premio di cui la vostra libera Accademia ha voluto onorarmi, la mia grande gratitudine era tanto più profonda quanto più misuravo fino a che punto la ricompensa oltrepassava i miei meriti personali. Ogni uomo, e a maggior ragione ogni artista, desidera ottenere dei riconoscimenti. Anch’io lo desidero, ma non mi è stato possibile apprendere la vostra decisione senza confrontare la sua grande rinomanza con quello che io realmente sono, un uomo quasi giovane, ricco soltanto dei suoi dubbi e di una opera ancora in cantiere, abituato a vivere nella solitudine del lavoro o nel rifugio dell’amicizia, come potrebbe non apprendere con una specie di panico una decisione che lo porta d’un colpo, solo e quasi ridotto a se stesso, al centro di una luce sfolgorante? Con quale animo poteva ricevere quest’onore nell’ora in cui in Europa altri scrittori, fra i più grandi, sono ridotti al silenzio e nel momento stesso in cui la sua terra natale è tormentata da una continua sventura? Ho conosciuto questo smarrimento e questo turbamento interiore. Per ritrovare la pace insomma ho dovuto rimettermi in regola con una sorte troppo generosa. E poiché non potevo farlo facendo leva sui miei soli meriti ho trovato, come aiuto, ciò che mi ha sostenuto nelle circostanze più difficili durante la mia vita: l’idea che mi son creata della mia arte e della missione dello scrittore. Lasciate che in un sentimento di riconoscenza e di amicizia vi dica, con la massima semplicità, quale sia questa idea. Personalmente non potrei vivere senza la mia arte, ma non l’ho mai posta al di sopra di tutto: se mi è necessaria, è invece perché non si estranea da nessuno e mi permette di vivere come sono al livello di tutti. L’arte non è ai miei occhi gioia solitaria: è invece un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie di tutti. L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più universale. E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte e questo suo esser diverso solo confessando la sua somiglianza con tutti: l’artista si forma in questo rapporto perpetuo fra lui e gli altri, a mezza strada fra la bellezza di cui non può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare. È per questa ragione che i veri artisti non disprezzano nulla e si sforzano di comprendere invece di giudicare: e se essi hanno un partito da prendere in questo mondo, non può essere altro che quello di una società in cui, secondo il gran motto di Nietzsche, non regnerà più il giudice, ma il creatore, sia esso lavoratore o intellettuale. La missione dello scrittore è fatta ad un tempo di difficili doveri; per definizione, non può mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono. O, 1 in caso contrario, lo scrittore si ritrova solo e privo della sua arte. Tutti gli eserciti della tirannia con i loro milioni di uomini non lo strapperanno alla solitudine anche e soprattutto se si adatterà a tenere il loro passo. Ma il silenzio di un prigioniero sconosciuto ed umiliato all’altro capo del mondo sarà sufficiente a trarre lo scrittore dal suo esilio, ogni volta, almeno, che arriverà, pur nei privilegi della libertà, a non dimenticare questo silenzio e a divulgarlo con i mezzi dell’arte. Nessuno di noi è abbastanza grande per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della sua vita, ignorato o provvisoriamente celebre, imprigionato nella stretta della tirannia o per il momento libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della libertà. Poiché la sua vocazione è quella di riunire il maggior numero possibile di uomini, egli non può valersi della menzogna e della schiavitù che, là dove regnano, fanno proliferare la solitudine. Qualunque siano le nostre debolezze personali, la nobiltà del nostro mestiere avrà sempre le sue radici in due difficili impegni: il rifiuto della menzogna e la resistenza all’oppressione. Per più di vent’anni di storia folle, perduto e privo di soccorso, come tutti gli uomini della mia età, nelle convulsioni del tempo, sono stato sorretto dal sentimento oscuro che scrivere era oggi un onore, perché questo atto impegnava, e non impegnava a scrivere soltanto. Mi obbligava in particolare a portare, come potevo e secondo le mie forze, con tutti quelli che vivevano la stessa storia, la sventura e la speranza di cui eravamo partecipi. Questi uomini, nati all’inizio della prima guerra mondiale, che hanno avuto vent’anni quando si installavano ad un tempo il potere hitleriano e i primi processi rivoluzionari e che sono stati in seguito messi alla prova, per completare la loro educazione, nella guerra di Spagna, nella seconda guerra mondiale, nell’universo “concentrazionario”, nell’Europa della tortura e della prigione, debbono oggi allevare i loro figli e le loro opere in un mondo minacciato dalla distruzione nucleare. Nessuno, suppongo, può chieder loro di essere ottimisti. E sono convinto che dobbiamo comprendere, pur senza abbandonare la lotta contro di loro, l’errore di quelli che, per troppa disperazione, hanno rivendicato il diritto al disonore e si sono gettati a capofitto nel nichilismo del nostro tempo. Ma è anche vero che la maggior parte di noi, nel mio paese e in Europa, hanno rifiutato questo nichilismo e si sono messi alla ricerca di una legittimità; hanno dovuto costruirsi un’arte per vivere in tempi calamitosi, per nascere una seconda volta e lottare poi a viso scoperto contro l’istinto di morte sempre presente nella nostra storia. Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga. Erede di una storia corrotta in cui si fondono le rivoluzioni fallite e le tecniche impazzite, la morte degli dei e le ideologie portate al parossismo, in cui mediocri poteri, privi ormai di ogni forza di convincimento, sono in grado oggi di distruggere tutto, in cui l’intelligenza si è prostituita fino a farsi serva dell’odio e dell’oppressione, questa generazione ha dovuto restaurare, per se stessa e per gli altri, fondandosi sulle sole negazioni, un po’ di ciò che fa la dignità di vivere e di morire. Davanti ad un mondo minacciato di 2 disintegrazione, sul quale i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per sempre il dominio della morte, la nostra generazione sa bene che dovrebbe, in una corsa pazza contro il tempo, restaurare fra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare di nuovo lavoro e cultura e ricreare con tutti gli uomini un’arca di alleanza. Non è certo che essa possa mai portare a buon fine questo compito immenso ma è certo che, in tutto il mondo, è già impegnata nella sua doppia scommessa di verità e di libertà e che, all’occasione, saprà morire senza odio. Per questo merita quindi di essere salutata e incoraggiata dovunque si trovi e soprattutto là dove si sacrifica. È su di essa, comunque, che, certo del vostro assenso profondo, vorrei far ricadere l’onore che mi avete fatto. Nello stesso tempo, dopo aver proclamato la nobiltà del mestiere di scrivere, avrei ricollocato lo scrittore al suo vero posto, non godendo lui di altri titoli all’infuori di quelli che divide con i suoi compagni di lotta, vulnerabile ma ostinato, ingiusto e appassionato di giustizia, costruttore della sua opera senza vergogna né orgoglio al cospetto di tutti, diviso sempre fra il dolore e la bellezza votato infine a trarre dalla sua duplice esistenza le creazioni che ostinatamente tenta di edificare in mezzo al moto distruttore della storia. Chi, dopo tutto ciò, potrebbe attendere da lui soluzioni bell’e fatte e belle morali? La verità è misteriosa, sfuggente, sempre da conquistare. La libertà è pericolosa, dura da vivere quanto esaltante. Dobbiamo marciare verso questi due obiettivi, con fatica ma decisi, ben consci dei nostri errori in un così lungo cammino. Quale scrittore dunque oserebbe, in buona coscienza, farsi predicatore di virtù? Quanto a me devo dire una volta di più che non sono niente di tutto questo. non ho mai potuto rinunciare alla luce, alla felicità di esistere, alla vita libera in cui sono cresciuto. Ma benché questa nostalgia spieghi molti dei miei errori e delle mie colpe, essa mi ha aiutato senza dubbio a comprendere meglio il mio mestiere, mi aiuta ancor oggi a tenermi, ciecamente, vicino a tutti quegli uomini silenziosi che non sopportano nel mondo una vita che per loro è fatta soltanto del ricordo o del ritorno di brevi e libere gioie. Ricondotto così a ciò che realmente sono, ai miei limiti, ai miei doveri, alla mia difficile fede, mi sento più libero di testimoniarvi, per finire, l’importanza e la generosità del premio che mi avete conferito; più libero di dirvi anche che vorrei riceverlo come un omaggio reso a tutti quelli che, combattendo la stessa battaglia, non ne hanno ricevuto alcun privilegio, ma hanno invece conosciuto sventura e persecuzione. Non mi resta altro che ringraziarvi dunque dal profondo del cuore e fare a voi pubblicamente, come testimonianza personale di gratitudine, la stessa vecchia promessa di fedeltà che ogni vero artista, ogni giorno, fa a se stesso, in silenzio. From Les Prix Nobel en 1957, Editor Göran Liljestrand, [Nobel Foundation], Stockholm, 1958 Copyright © The Nobel Foundation 1957 3 Giornalista o scrittore. Sempre uomo in rivolta di Dario Olivero È già un uomo in rivolta Albert Camus quando scrive il manifesto sulla libertà di stampa che pubblichiamo per la prima volta in Italia in queste pagine. È il 25 novembre 1939, Hitler ha invaso la Polonia, la Seconda guerra mondiale è cominciata da due mesi. Camus ha ventisei anni, ha pubblicato due raccolte di racconti e soprattutto un´inchiesta sulla miseria della Kabilya su Alger républicain, prima di fondare con Pascal Pia Le Soir républicain, che dal 27 agosto di quell´anno combatte ogni giorno contro la censura introdotta nell´Algeria francese. Ma quello per la libertà di stampa è solo uno dei fronti sui quali Camus è in rivolta. Dall´anno prima e per tutto il periodo in cui lavorerà al nuovo giornale (che chiuderà il gennaio dell´anno successivo), sui taccuini che ha iniziato a tenere compare, si sviluppa e si conclude il suo primo romanzo, Lo straniero. Di giorno caporedattore, di notte scrittore. Di giorno riempie le colonne con le notizie che faticosamente riesce a dare, mentre lascia bianche quelle con le notizie censurate, un atto di denuncia, perché «nessuna forza al mondo può fare accettare a un uomo di servire la menzogna». Di notte a confrontarsi con la sua creatura letteraria, questo strano uomo che con lo stesso stato d´animo ama una donna, assiste alla morte della madre, uccide, viene processato e subisce la condanna a morte. Di giorno la rivolta, di notte l´assurdo. Di giorno la vita ha un senso, di notte non ne ha. Per il resto dei suoi anni Albert Camus combatterà contro questa contraddizione. Si può essere uomini giusti se nulla ha senso? Può Sisifo continuare a portare il suo masso sulla cima della montagna sapendo che una volta arrivato il masso rotolerà di nuovo giù? Ci si può ribellare sapendo che non c´è una causa superiore a cui votarsi? E infine, si può essere giornalisti liberi quando non c´è libertà? Camus ha risposto nell´unico modo che sentiva possibile: agendo con l´ostinazione dell´uomo che si rivolta «di fronte a ciò che lo nega». È l´ostinazione del giornalista che viene fuori da questo articolo sulla libertà di stampa ritrovato da Le Monde in un archivio di Aix-en-Provence e di cui non si sapeva nulla fino a oggi. Il giornalista che si batte per nazionalizzare l´industria bellica perché la guerra non sia decisa da interessi privati, contro il razzismo dei pieds noir, i coloni francesi in Algeria, e dei governi che continuano a opprimere «quelli che hanno il naso come non dovrebbero avere o parlano una lingua che non dovrebbero parlare». Tutto questo mentre contemporaneamente cresceva nascosto dentro di lui lo scrittore, il filosofo. Racconta Meursault, voce narrante de Lo straniero, mentre si svolge il suo processo e guarda verso i giornalisti in aula: «Avevano già la penna in mano. Avevano tutti la stessa aria indifferente e un po´ ironica. Tuttavia uno di loro, molto più giovane degli altri, aveva lasciato la penna appoggiata sul tavolo e mi guardava. Nella sua faccia un po´ asimmetrica non vedevo che i suoi occhi, molto chiari, che mi esaminavano attentamente, senza esprimere nulla che fosse definibile. E ho avuto l´impressione strana di essere guardato da me stesso». (Da: La Repubblica del 6 maggio 2012) 4 MANIFESTO PER LA LIBERTÀ DI STAMPA La libertà di stampa non è che uno dei volti della libertà tout court. Lo scriveva Albert Camus il 25 novembre del 1939 quando la Seconda guerra mondiale era scoppiata da due mesi e la censura militare rendeva impossibile il lavoro del giornalista. Un inedito ritrovato negli Archives Nationales d’Outre-mer di Aix En Provence e pubblicato da Le Monde il 18 marzo. Una riflessione attualissima di uno scrittore dall'animo profondamente libertario. Albert Camus, Manifesto per la libertà di stampa Oggigiorno è difficile parlare della libertà di stampa senza essere tacciati di stravaganza, essere sospettati di essere Mata Hari, o vedersi incriminare con l' accusa di essere il nipotino di Stalin. Oggigiorno è difficile parlare della libertà di stampa senza essere tacciati di stravaganza, essere sospettati di essere Mata Hari, o vedersi incriminare con l' accusa di essere il nipotino di Stalin. Eppure, questa libertà tra le altre non è che uno dei volti della libertà tout court e si capirà la nostra ostinazione a difenderla se si è disposti ad ammettere che non c' è altro modo di vincere davvero la guerra. Certo, ogni libertà ha i suoi limiti. Bisogna però che questi limiti siano liberamente riconosciuti. Sugli ostacoli che oggi si oppongono alla libertà di pensiero, abbiamo già detto tutto quello che abbiamo potuto e diremo ancora, fino alla nausea, tutto ciò che ci sarà possibile dire. In particolare, non ci stupirà mai abbastanza, una volta assunto il principio della censura, che la riproduzione di testi pubblicati in Francia e approvati dai censori della Francia metropolitana sia vietata, per esempio, al Soir républicain (il quotidiano pubblicato ad Algeri di cui all' epoca Camus era caporedattore ndr ). Il fatto che a questo riguardo un giornale dipenda dall' umore o dalla competenza di un uomo dimostra meglio di ogni altra cosa il grado d' incoscienza a cui siamo arrivati. Uno dei buoni precetti di una filosofia degna di questo nome è di non profondersi in vane lamentazioni di fronte a uno stato di fatto che non si può più evitare. Oggi in Francia non si pone più il problema di capire come preservare le libertà della stampa. La questione è capire come, davanti alla soppressione di quelle libertà, un giornalista possa rimanere libero. Il problema non riguarda più la collettività, bensì l' individuo. E, per l' appunto, ciò che ci piacerebbe definire qui sono le condizioni e i mezzi con cui, nel contesto della guerra e delle sue schiavitù, la libertà possa essere non soltanto preservata ma perfino manifestata. Detti mezzi sono quattro: la lucidità, l' opposizione, l' ironia e l' ostinazione. La lucidità presuppone la resistenza agli impulsi dell' odio e al culto della fatalità. Nel mondo della nostra esperienza è certo che tutto si possa evitare. La stessa guerra, che è un fenomeno umano, può essere in ogni momento evitata o fermata con mezzi umani. È sufficiente conoscere la storia degli ultimi anni della politica europea per sapere per certo che la guerra, qualsiasi guerra, ha cause evidenti. Questa visione chiara delle cose esclude l' odio cieco e la disperazione che lascia correre. Un giornalista libero, nel 1939, non dispera e lotta per ciò che crede vero come se la sua azione potesse influire sul corso degli eventi. Non pubblica niente che possa istigare all' odio o provocare la disperazione. Tutto questo è in suo potere. Dinanzi alla marea crescente della stupidità è anche necessario opporre qualche rifiuto. Non c' è coercizione al mondo che possa indurre una persona con un minimo di rettitudine ad accettare di 5 essere disonesta. Ora, per poco che si conosca il meccanismo dell' informazione, è facile accertarsi dell' autenticità di una notizia. Ed è a questo che un giornalista libero deve prestare tutta la sua attenzione. Infatti, se non può dire tutto quello che pensa, gli è possibile non dire quello che non pensa o che crede falso. Analogamente, un giornale libero si valuta tanto per quello che dice quanto per quello che non dice. Questa libertà in negativo è di gran lunga la più importante, se la si riesce a mantenere. Perché prelude all' avvento della vera libertà. Di conseguenza, un giornale indipendente indica la fonte delle sue informazioni, aiuta il pubblico a vagliarle, ripudia il lavaggio del cervello, evita le invettive, sopperisce con dei commenti all' uniformazione delle informazioni e, in breve, serve la verità nell' umana misura delle sue forze. Questa misura, per relativa che sia, gli permette almeno di rifiutare ciò che nessuna forza al mondo potrebbe fargli accettare: servire la menzogna. Veniamo ora all' ironia. Si può affermare in linea di principio che una persona che ha il gusto e i mezzi per imporre la coercizione è impermeabile all' ironia. Non si immagina Hitler, giusto per citare un esempio tra altri, fare uso dell' ironia socratica. Nondimeno l' ironia continua a essere un' arma impareggiabile contro chi è troppo potente. Essa completa la resistenza, nel senso che permette non già di respingere ciò che è falso ma, spesso, di dire ciò che è vero. Un giornalista libero, nel 1939, non si fa troppe illusioni sull' intelligenza di quelli che lo opprimono. È pessimista per quanto riguarda l' uomo. Una verità enunciata in tono dogmatico viene censurata nove volte su dieci. La stessa verità detta scherzosamente, solo cinque volte su dieci. Questo meccanismo illustra in modo abbastanza preciso le potenzialità dell' intelligenza umana. E spiega anche come dei giornali francesi come Le Merleo Le Canard enchaîné riescano a pubblicare regolarmente i coraggiosi articoli che sappiamo. Un giornalista libero, nel 1939, è dunque necessariamente ironico, per quanto spesso lo sia suo malgrado. Ma la verità e la libertà, avendo pochi amanti, con quei pochi sono molto esigenti. È evidente che l' atteggiamento che abbiamo appena descritto non potrebbe essere sostenuto con efficacia senza un minimo di ostinazione. Gli ostacoli alla libertà d' espressione sono molti. Ma non sonoi più severia poter scoraggiare un animo saldo. Infatti le minacce, le sospensioni, i procedimenti penali in Francia ottengono generalmente l' effetto opposto a quello voluto. Tuttavia bisogna ammettere che degli ostacoli scoraggianti ci sono: la costanza nella stupidità, l' ignavia organizzata, l' ottusità aggressivae via dicendo.È quella la grossa barriera che bisogna riuscire a sfondare. L' ostinazione perciò diventa una virtù cardinale. Per un paradosso curioso ma palese, essa passa così al servizio dell' obiettività e della tolleranza. Ecco dunque un insieme di regole per preservare la libertà anche nella schiavitù. E dopo? ci si chiederà. Dopo? Non facciamoci prendere dalla fretta. Se soltanto ogni francese fosse disposto a sostenere nel suo raggio d' azione tutto ciò che ritiene vero e giusto, se volesse dare il suo piccolo contributo al mantenimento della libertà, resistere all' abbandono e far conoscere la sua volontà, allora e soltanto allora questa guerra sarebbe vinta nel senso profondo del termine. Sì, in questo secolo è spesso a malincuore che uno spirito libero si esprime con ironia. Su cosa si ha voglia di scherzare in questo mondo in fiamme? Ma la virtù dell' uomo è di conservarsi tale anche davanti alla negazione dell' umanità. Nessuno vuole ricominciare tra venticinque anni la duplice esperienza del 1914 e del 1939, perciò bisogna sperimentare un metodo completamente nuovo, basato su giustizia e generosità. Ma queste non si esprimono che nei cuori già liberi e nelle menti ancora lungimiranti. Formare questi cuori e queste menti, o piuttosto risvegliarli, è il compito 6 insieme modesto e ambizioso che pertiene all' uomo indipendente. Bisogna attenervisi anche senza vedere oltre. La storia potrà tener conto di questi sforzi oppure no, ma saranno stati fatti. (Da: La Repubblica del 6 maggio 2012) 7 IL GIORNALISMO DI CAMUS di Marco Dotti Lo stile senza realtà «Tutto quel che di fatto degrada la cultura, accorcia le strade che portano alla schiavitù». Chiacchiere inutili, miseri personalismi smerciati come fatti di rilevanza collettiva, lamentele di direttori di quotidiani: tutto. Albert Camus era, su questo punto, chiaro e intransigente, ma nell’articolo che scrisse per l’ultimo numero della rivista Caliban, fondata nel 1947 da Daniel Bernstein e Jean Daniel, si spinse ancora più in là: individuò nella critica della stampa a mezzo stampa e «in una società che tollera di essere distratta da un pugno di cinici saltimbanco, fregiati del nome di artisti», il pericoloso movimento di apertura a un orizzonte di nuove, indefinite e per ciò stesso potenzialmente più temibili schiavitù. Nel suo affondo, Camus non risparmiava colpi contro gli scrittori che – osservava – «se avessero la minima stima del proprio mestiere, si rifiuterebbero di scrivere dove capita», arrivando fino a suggerire loro di non scrivere più, piuttosto che farlo «costi quel che costi». Avendo avuto parte attiva nella stampa clandestina degli anni neri del collaborazionismo e dell’occupazione nazista, e dunque conoscendo bene i meccanismi del più torvo mercimonio intellettuale, tracciava un parallelo con la nascente società dello spettacolo, e lo faceva con un po’ di retorica, comprensibile se calata nell’air du temps, ma mai ingenuamente. La società del secondo dopoguerra, infatti, era particolarmente abile nel disattivare, per mezzo di una caleidoscopica, narcisistica e autocompassionevole gratificazione dei sensi, ogni assunzione concreta di responsabilità. Lo stile della realtà Che cosa muove tanti scrittori – si chiedeva Camus – a scrivere, sempre e comunque? Un nuovo imperativo morale: la necessità di piacere. Ma se «bisogna piacere», per piacere sarà necessario comunque «piegarsi». L’autogratificazione comporta la flessibilità totale, e la flessibilità, prima che negli orari, nei modi e nelle forme del lavoro attiene a modi, tempi, disposizioni e correlate indisposizioni dell’animo. Tutto il contrario del mestiere, del lavoro artigiano a cui, in fin dei conti, Camus riconduceva la vita attiva della scrittura giornalistica, l’unica a cui, senza indugi, applicasse l’epigrafe altrimenti banalizzante di «letteratura dell’impegno». Stile e lavoro, cultura e dimensione materiale della stessa: la scrittura giornalistica era un precipitato di stile nel lavoro, sollecitato da un richiamo della realtà, e per questo poteva dirsi «impegnata». A impegnarla erano le cose stesse, i fatti se si vuole. Ma occasioni e fatti erano simili a una pietra d’inciampo che, proprio come un ostacolo sempre mobile, doveva fornire l’occasione, il pretesto per scrivere e prendere parte, senza alibi. Quando incontrò per la prima volta André Bollier e il gruppo di lavoro di Combat – il giornale nato dal movimento di resistenza creato da Henri Frenay nel 1941 – Camus si presentò dichiarando di avere alle spalle un po’ di pratica giornalistica ma, soprattutto, «lavoro di impaginazione». Il lavoro di impaginazione era fondamentale in un giornale clandestino, come ricorda Jacqueline LéviValensi nella sue nota di presentazione a Questa lotta vi riguarda (Bompiani, traduzione di Sergio Arecco, 2010) la raccolta delle corrispondenze scritte tra il 1944 e il 1947 per Combat. Fondamentale era la logistica, la capacità di intuire i problemi sul nascere, quella di ingegnarsi in soluzioni tecniche, ma anche la disponibilità a comportarsi come redattori precisi, puntuali, rigorosi. Combat, nel ’43, era redatto a Parigi, ma stampato clandestinamente a Lione. Il suo direttore era ricercato dalla Gestapo e non ci si poteva distrarre un attimo. Il 17 luglio del 1944, per esempio, la milizia fece irruzione nella stamperia di Lione, mentre si chiudeva il numero 58, 8 l’ultimo stampato in clandestinità, uccidendo André Bollier, redattore, oltre che «partigiano», straordinariamente ostinato. Anche in tempi bui, e nonostante il fatto che ogni giorno immergesse le mani nella materia più vile – ricorderà Jean Grenier – Camus mantenne una visione straordinariamente «alta» del giornalismo, inteso come variante del lavoro artigiano, un fare – come ha scritto in giorni a noi più vicini Richard Sennett – nel cui processo sono contenuti pensiero e sentimento. Pazienza, silenzio, pudore, orgoglio per l’«oggetto» prodotto, ma soprattutto ostinazione: queste le qualità «artigiane» che, nell’Algeria della fine degli anni ’30, spinsero il venticinquenne Camus a profondere un impegno sempre maggiore nella militanza giornalistica. Le stesse qualità le avrebbe ritrovate nella redazione di Combat, dove lavorò come redattore capo, dal ’44 al ’47. Ma Combat non fu solo un giornale di resistenza. Accolse la sfida del «dopo Liberazione» e, lunedì 21 agosto, in una Parigi non ancora sgombra di nazisti, uscì dalla clandestinità. Il numero impresso sulla testata era il «59», la tiratura molto alta per l’epoca, gli obiettivi gli stessi indicati da Henri Frenay al momento della presentazione del primo numero: battersi (combat) contro «l’anestesia del popolo francese». L’etica giornalistica di Camus nacque da queste convergenze di tensioni, ideali e materiali, e dall’esigenza di opporsi al doppio polo di un’alienazione giocata tra contagio e anestesia, tra inflazione e saturazione di messaggi e, in fin dei conti, tra ambiguità e paure.Contrariamente a Raymond Aron, che dai suoi interventi e dalle polemiche sulla stampa quotidiana ambiva a trarre sempre nuova autorevolezza – con la consueta e lucida perfidia Charles De Gaulle di lui arrivò a dire: «è professore a Le Figaro e giornalista al Collège de France». E Sartre, che aveva una visione strumentale della stampa, riteneva che per Camus il giornalismo non avesse mai rappresentato un «esilio» bensì un «regno», parole che compaiono in un titolo dello scrittore francese datato 1957. Nel 1938, quando Camus iniziò le prime collaborazioni in Algeria, ad attrarlo non fu solo la necessità di esprimersi in una forma adatta a incrociare la realtà esacerbata di un paese diviso tra colonizzati e ragion di Stato, ma anche, se non soprattutto, la «virtù artigiana» del lavoro in redazione. La virtù – avrebbe poi scritto nelle pagine dell’Uomo in rivolta – non può mai «scindersi dal reale, senza divenire principio di male», eppure al tempo stesso, e qui sta il paradosso, non può neppure «identificarsi assolutamente con il reale senza negare se stessa». Pur preso da questi due corni del dilemma, Camus non avrebbe ceduto mai al cinismo, affidandosi casomai all’inquietudine, sorta di doppio di quella «amarezza» tipica dei redattori che, dopo una giornata e una notte di lavoro, si sentono svuotati e in preda a una «coscienza sovraesposta al sentimento dell’effimero». Non c’è pensiero – secondo Camus – che possa esimersi dal passare per la cruna dell’ago della realtà, una realtà che, allora, non era certo meno drammatica o complessa di quanto lo sia oggi. In un bel profilo del Camus giornalista contenuto in Resistere all’aria del tempo (traduzione di Caterina Pastura, Mesogea, Messina 2009), Jean Daniel, ricorda come, arrivato negli anni ’30 a Parigi dall’Algeria, il futuro autore dello Straniero e vincitore del Nobel nel ’57, avesse stretto amicizia con un gruppo di tipografi che, dalla redazione di Paris-Soir, lo avrebbero accompagnato in tutte le avventure importanti della sua esistenza. La carta non è il territorio Un linotipista ricorderà come Camus amasse scendere ai piani bassi, sporcarsi con l’inchiostro del banco di composizione, controllare i caratteri. L’artigiano Lemaître, poi, ne ricorda il sorriso e l’atteggiamento di partecipazione al lavoro comune: «sapevamo che gli piaceva trovarsi davanti alle pagine, alle righe di piombo. Era innamorato. È vero che là dentro si trovava una specie di eccitazione: l’odore dell’inchiostro, della carta umida di stampa, ci piaceva sentirlo come il pellettiere ama sentire l’odore del cuoio. Camus stava più spesso al banco di composizione che in redazione». Anni dopo, congedandosi da Combat e preannunciandone la 9 chiusura, Camus avrebbe ribadito, a chi rimproverava al giornale un sostanziale fallimento, che anche certe sconfitte possono rivelarsi alla lunga un successo. «Non è scomparso, Combat» – scriveva. Non è scomparso se – come documenta l’attualità sconcertante di alcuni articoli sulla stampa raccolti nel volume di Bompiani – il giornale può rappresentare ancora, nell’immaginario collettivo, «la cattiva coscienza di alcuni giornalisti.» E Camus continuava: «fra i milioni di lettori che hanno abbandonato la stampa francese, ci sarà chi lo ha fatto perché ha condiviso a lungo la nostra esigenza. Abbiamo fatto per due anni un giornale di un’indipendenza assoluta e non ha mai disonorato nessuno. Non chiedevo di meglio. Tutto, prima o poi, dà frutti. È una questione di scelta». Di scelta e di stile, anche nella fine. Stile che i tanti “nuovi”, solerti direttori di testata, nelle loro scelte e , soprattutto, nella loro inevitabile fine, evidentemente non conoscono. [da il manifesto, 28 novembre 2010 ] 10 IL GIORNALISMO CLANDESTINO - COMBAT Combat fu il più importate giornale della Resistenza francese negli anni bui dell’occupazione tedesca sostenuta del governo collaborazionista di Pétain e della Milice criminale di Josef Darnard. Molti di coloro che si occupavano della redazione, della stampa, e della distribuzione clandestina del giornale, pagarono con la vita, con la tortura e con la deportazione nei lager nazisti, il loro impegno civile. Lo stesso Camus, che dal ‘42 al ’44 visse a Parigi e dintorni, sotto falso nome e ricercato dalla Gestapo, nella primavera del ’44 sfuggì fortunosamente alla cattura. Il Combat di quegli anni fu un giornale libero, senza padri né padroni, e, pur appartenendo idealmente alla sinistra, non divenne mai l’organo di nessun partito. Questo sino al ‘48 quando, per divergenze di idee tra i componenti che lo avevano creato, Camus , Pascal Pia, Marcel Gimont e Albert Olivier, il giornale perse il suo slancio rivoluzionario e non ebbe più nulla a che vedere con gli anni storici in qui Camus fu prima il redattore capo e poi, per un brevissimo periodo il direttore. Ma chi fu in realtà Camus, e quali furono le sue doti di giornalista? Sarebbe troppo lungo raccontare la sua storia, possiamo però dire, che ciò che fu l’autore de ‘Lo straniero’ lo si può intuire leggendo i suoi libri, o il suo discorso tenuto nel 1957 durante la consegna del premio Nobel, e soprattutto leggendo i suoi articoli su Combat che sono, per loro lucidità e per la loro assoluta chiarezza, uno sprone per coloro che pensano al giornalismo come ad un mezzo etico e come ad un impegno civile. La lucidità e la chiarezza della sua scrittura è legata ad una forte sensibilità umana e ad una capacità naturale di trasferire i propri pensieri e il proprio sguardo del mondo nelle parole, per poi metterle, per mezzo della scrittura, al servizio dell’umanità intera. Nei suoi articoli, che troviamo in questo esaltante libro, incontriamo lo sdegno per i morti massacrati senza ragione dalla polizia nazista e dai traditori delle Milizie; incontriamo le immagini delle fasi cruente ed eroiche della liberazione di Parigi; si sente la speranza scalpitante dopo cinque anni di terribile occupazione nazista e si odono anche, dopo pochi mesi dalla liberazione di Parigi, i primi echi delle delusioni che infrangono istanze di libertà e di eguaglianza alle quali la voce di Camus dava voce e concretezza. I titoli di questi articoli sono incendi che resistono ‘all’aria del tempo’: ‘ La lotta continua’, ‘Hanno fucilato dei francesi per tre ore’, ‘Sarete giudicati sulla base delle vostre azioni’, ‘Il tempo del disprezzo’, ‘Dalla Resistenza alla Rivoluzione’. E ce n’è un altro del luglio del ’44, quando ancora Parigi era soggiogata dal nazismo, ‘La professione del giornalista’. Questo è il titolo di un piccolo box dove in poche parole Camus delinea la sua concezione di giornalismo: “Il giornalismo clandestino è onorevole perché è una buona prova di indipendenza. È buono e sano finché ciò che dice dell’attualità politica è pericoloso. Se c’è una cosa che non vogliamo rivedere mai più, è l’immunità dietro la quale hanno trovato copertura tanti atti di codardia, tante collusioni nefaste”. Sembra che parli delle circostanze politiche attuali. Un’altra cosa importante in Camus è la sua perseveranza nel voler assolutamente mettere la passione al centro del giornalismo: “Ho cercato in particolare di rispettare le parole che scrivevo, giacché, per mezzo di esse, rispettavo coloro che le potevano leggere e che non volevo ingannare. (…) Dai miei primi articoli fino al mio ultimo libro io ho tanto, e forse troppo scritto, solo perché non posso fare a meno di partecipare alla vita di tutti i giorni e di schierarmi dalla parte di coloro chiunque essi siano, che vengono umiliati e offesi. (…) mi pare che non si possa sopportare quest’idea, e colui che non può sopportarla non può neppure addormentarsi in una 11 torre. Non per virtù, ma per una sorte di intolleranza quasi organica, che si prova o non si prova. Da parte mia ne vedo molti che non la provano, ma non posso invidiare il loro sonno.” La difesa di chi è ‘muto’, perché non ha la possibilità di giungere al pensiero verbale della ribellione e di farsi ascoltare, diviene per Camus un imperativo categorico. Di questo suo modo di essere e di pensare egli era ben cosciente. Camus per sua natura, per “l’onore”, così egli chiamava la propria immagine interna, ha sempre ‘dovuto’ stare, fuori dalla torre d’avorio ideologica che parla con il gergo diaccio della ragione per annullare la verità e la realtà umana dell’altro da sé. E tutto questo egli lo faceva per vivere la realtà vera, e quindi politica. Quando Camus parla di questa “sorte di intolleranza quasi organica, che si prova o non si prova.” dice anche della solitudine scelta per l’impossibilità di aderire a qualcosa che gli ripugna e che fa nascere dentro di sé la ribellione. Una ribellione che non scaturisce da una reazione puramente mentale ma da ‘qualcosa di organico’ perché in Camus non esiste la scissione tra mente e corpo. La sua ribellione, la sua reazione all’inumano, la sua lotta continua contro tutto ciò che mascherato dalla ‘ragione’ lo portò sempre ad assumere posizioni scomode, come quando, nel plauso generale, egli si schierò immediatamente sia contro coloro che buttarono la bomba su Hiroshima e Nagazaki, sia contro coloro che non reagirono a quella carneficina. Camus dopo aver deprecato con sdegno la posizione della stampa entusiasta per i lanci della bomba atomica scrive: “ Noi riassumeremo il nostro pensiero in una sola frase: la civiltà meccanica è appena giunta al suo ultimo grado di barbarie.(…) Dinnanzi alle terrificanti prospettive che si aprono agli occhi dell’umanità, ci convinciamo ancor meglio che quella della pace è l’unica battaglia che valga la pena di combattere. Non è più una preghiera, è un ordine che deve sospingere i popoli contro i governi, l’ordine di scegliere definitivamente tra l’inferno e la ragione” . Non vi fu nessuno che come lui fu capace di ribellarsi al pensiero comune che vedeva nella strage di migliaia di bambini, di donne e di uomini solo un ‘buon modo di arrivare alla pace con il Giappone’. È questo modo di esercitare l’arte dello scrivere che ha fatto di Camus un ‘giornalista clandestino’ che può insegnare ancora molto, oggi, e questo libro ne è la dimostrazione, a chi vuole scrivere per raccontare dell’invisibile istinto di morte. 12 COMBAT - ARTICOLI Questi articoli vennero scritti dallo scrittore francese per rispondere a due problemi che lo premevano. La prima risposta, di ordine pratico, fu quella di dare una mano al giornale Combat che stava rischiando la chiusura; la seconda, nobile, fu per lanciare un grido di allarme e di protesta contro il dominio del terrore che si stava instaurando nel mondo e contro la legittimazione dell’omicidio che lo sottendeva. I testi disegnano le inquietudini di Albert Camus in quel periodo storico in cui le speranze di pace e di un rinnovamento radicale della società dell’immediato dopoguerra si andavano via via appannando. I suoi articoli, oltre ad essere assolutamente attuali, rivelano le fonti della crisi sistemica che stiamo vivendo. 1) Verso il dialogo 30 novembre 1946 Sì, si dovrà alzare la voce. Mi sono ben guardato, fino ad ora, dal fare appello alle mozioni degli affetti. Quello che ci fa a brandelli, oggi, è una logica della storia che abbiamo creato noi di sana pianta, i cui nodi finiranno per soffocarci. Non sono certo i sentimenti a poter tranciare i nodi di una logica insensata, vi potrà riuscire soltanto una ragione che ragioni nei limiti a essa consentiti. Ma, non vorrei, in definitiva, lasciar credere che il futuro del mondo possa fare a meno della forza della nostra indignazione e del nostro amore. So bene che all’umanità sono indispensabili grandi motivazioni per mettersi in marcia, e che è difficile mobilitarsi per una lotta i cui obbiettivi sono tanto limitati e i margini di speranza sono poco credibili. Ma non è questione, qui, di trascinare con sé l’umanità. L’essenziale, anzi, è che non si senta affatto trascinata e sappia bene ciò che sta facendo. Salvare quanto può essere ancora salvato, per rendere il futuro quantomeno credibile, ecco la grande motivazione, la passione e il sacrificio richiesti. Il che esige soltanto che ci vi si rifletta e si decida chiaramente se vale la pena aggiungere dell’altro al dolore umano per scopi sempre meno definibili, se vale la pena accettare che il mondo si riempia di armi e che il fratello uccida di nuovo il fratello, o se vale la pena invece, demandare ad altre generazioni, armate meglio di noi, l’opportunità che si presenteranno loro. Per parte mia, credo di essere quasi sicuro della mia scelta. E, proprio perché ho scelto, mi è sembrato giusto parlare, dire che non mi schiererei mai in alcun modo con chi, chiunque sia, sposi la logica dell’omicidio, e trarne le necessarie conseguenze. La cosa è decisa e quindi, per oggi, mi fermerò. Ma prima vorrei che si capisse bene qual è lo spirito che mi ha fatto parlare fin qui. Ci si chiede di amare o di detestare questo o quel paese, questo o quel popolo. Ma siamo in tanti ad avvertire anche troppo bene le nostre somiglianze con l’umanità intera per accettare questa 13 scelta. Il modo giusto per amare il popolo russo, riconoscendo quello che non ha mai cessato di essere, vale a dire il lievito del mondo di cui parlano Tolstoj e Gorki, non è augurargli imprese degne di tale potenza: è fare in modo di risparmiargli, dopo tutte le prove attraversate, un nuovo e terribile tributo di sangue. E la stessa cosa vale per il popolo americano e per l’infelice Europa. È questo il tipo di verità elementare da non dimenticare nella furia delle nostre giornate. Sì, oggi vanno combattuti la paura e il silenzio, e con essi la separazione delle persone e delle anime che quelli comportano. Vanno difesi anche il dialogo e la comunicazione universale e reciproca fra gli uomini. La subalternità, l’ingiustizia e la menzogna sono i flagelli che ostacolano la comunicazione universale e proibiscono il dialogo. Ecco perché dobbiamo respingerle. Sennonché quei flagelli sono oggi la sostanza stessa della storia e, pertanto, molti li considerano come mali necessari. È vero, infatti, che non possiamo sfuggire alla storia, poiché vi siamo immersi fino al collo, ma è anche vero che possiamo tentare di lottare, all’interno della storia, per preservare quel fattore umano che sembra non appartenerle. Ecco tutto quello che volevo dire. E, in ogni caso, vedrò di puntualizzare il mio modo di pensare e il senso di questa serie di articoli con un ragionamento sul quale, prima di concludere, vorrei che si riflettesse con spirito di lealtà. Una grande esperienza subordina tutte le nazioni del mondo agli imperativi della potenza e del dominio. Non dirò che bisogna impedire o incoraggiare questa esperienza. Non ha certo bisogno che l’assecondiamo e, d’altra parte, essa si disinteressa del fatto che si tenti di ostacolarla. L’esperienza quindi continuerà. Porrò semplicemente una domanda: che cosa accadrà se l’esperienza fallisce, se viene smentita la logica della storia alla quale molte persone si lasciano comunque andare? Cosa succederà se, malgrado due o tre guerre, malgrado il sacrificio di alcune generazioni e di non pochi valori, i nostri nipoti, ammesso che esistano, si troveranno isolati dalla società universale? Accadrà che i sopravvissuti a quell’esperienza non avranno nemmeno più la forza di essere i testimoni della loro stessa agonia. Dato che dunque l’esperienza continua, ed è inevitabile che continui ancora, non sarà male che un certo numero di persone si prendano il compito di salvaguardare , nel corso della vicenda apocalittica che ci attende, quella modesta proprietà razionale che, senza pretendere di risolvere tutto, sarà sempre in grado, in qualunque momento, di dare un senso alla vita di tutti i giorni. L’essenziale è che questi uomini valutino bene, e una volta per tutte, il prezzo che dovranno pagare. E adesso posso davvero concludere. In un momento simile, la cosa che mi sembra più auspicabile è che in un mondo devastato dal crimine si cominci a riflettere sul crimine stesso e a fare delle scelte. Nel qual caso ci divideremmo fra chi accetta a rigore di far lega con i criminali o con il loro complici, e chi si ribella con tutte le suo forze ad un’idea del genere. E, dato che la terribile divisione esiste, sarà comunque un passo avanti portarla alla luce. Attraverso i cinque continenti, negli anni a venire, verrà ingaggiata un’interminabile lotta senza quartiere fra la violenza e la parola. È vero che le possibilità della prima sono mille volte superiori rispetto a quelle della seconda. Ma ho sempre pensato che se chi spera nella condizione umana è un pazzo, chi dispera negli eventi è un vile. 14 E ormai, l’unico motivo d’onore sarà ingaggiare questa formidabile scommessa che deciderà, una buona volta, se le parole sono più forti delle pallottole. 2) Il mondo va in fretta 27 novembre 1946 È a tutti evidente che il pensiero politico si trova sempre più scavalcato dagli eventi. I francesi, ad esempio, hanno iniziato la guerra del 1914 con i mezzi della guerra del 1870 e la guerra del 1939 con quelli del 1918. Il modo anacronistico di pensare non è comunque una specialità francese. Basterà qui sottolineare che, in pratica, le grandi politiche odierne presumono di risolvere l’avvenire del mondo con i principi formatisi nel XVIII secolo per quanto riguarda il liberalismo capitalista, e nel XIX per quanto riguarda il socialismo, cosiddetto scientifico. Nel primo caso, un pensiero nato nei primi anni dell’industrialismo moderno e nel secondo caso una dottrina contemporanea dell’evoluzionismo darwiniano e dell’ottimismo renaniano si propongono di modellare l’epoca della bomba atomica. delle brusche mutazioni e del nichilismo. Nulla potrebbe illustrare meglio lo scarto più rovinoso che si apre fra il pensiero politico e la realtà storica. Beninteso, lo spirito è sempre in ritardo sul mondo. La storia corre mentre lo spirito medita. Ma il ritardo inevitabile oggi si aggrava di pari passo con l’accelerazione storica. Il mondo negli ultimi cinquant’anni è cambiato molto di più di quanto sia cambiato nei duecento anni precedenti. E lo vediamo, oggi, accanirsi a risolvere problemi dei confini quando tutti i popoli sanno che i confini, oggi, sono entità astratte. È ancora e sempre il principio delle nazionalità che ha fatto finta di regnare alla Conferenza dei Ventuno.(1) Dobbiamo tenerne conto nella nostra analisi della realtà storica. Noi concentriamo oggi i nostri ragionamenti sul problema tedesco, che è un problema secondario in rapporto allo choc imperiale che ci minaccia. Tuttavia, se domani prospettassimo soluzioni internazionali in funzione del problema russo-americano, rischieremmo di vederci di nuovo sorpassati. Lo stesso choc imperiale è già in procinto di passare in secondo piano rispetto allo choc culturale. E infatti, da ogni parte, le culture colonizzate fanno sentire la loro voce (2). Entro dieci anni, entro cinquant’anni, sarà messo in discussione il primato della cultura occidentale. Occorre quindi pensare in questi termini e aprire il Parlamento mondiale alle altre culture, affinché la sua legge diventi veramente universale, e universale l’ordine che essa sancisce. I problemi posti oggi al diritto di veto sono fasulli poiché le maggioranze o le minoranze in contrasto tra loro all’O.N.U. sono fasulle. L’U.R.S.S. avrà sempre il diritto di rifiutare la legge della maggioranza finché questa sarà una maggioranza di ministri, e non una maggioranza di popoli rappresentati dai loro delegati e finché tutti i popoli, appunto, non vi saranno equamente rappresentati. Il giorno in cui tale maggioranza avrà un senso, ognuno dovrà rispettare o rifiutarne la legge, ovvero dichiarare apertamente la propria volontà di dominio. Così, se prendessimo coscienza dell’accelerazione del mondo, potremmo trovare il modo adeguato di porre il problema economico attuale. Nel 1930, non si affrontava più il problema del socialismo come si faceva nel 1848. All’abolizione della proprietà era subentrata la tecnica della messa in comune dei mezzi di produzione. E questa tecnica, in effetti, oltre a risolvere 15 contemporaneamente il destino della proprietà, teneva conto della scala superiore in base alla quale si misurava il problema economico. Sennonché, dopo il 1930, la scala si è ulteriormente accresciuta. E, dato che, la soluzione politica o sarà internazionale, o non ci sarà affatto, così la soluzione economica deve tener conto innanzitutto dei mezzi di produzione internazionali: petrolio, carbone e uranio. Se collettivizzazione ci dev’essere, essa deve guardare alle risorse che sono indispensabili a tutti e che, in effetti, non devono essere proprietà esclusiva di nessuno. Il resto, tutto il resto, dipende dal discorso elettorale. Agli occhi di alcuni queste prospettive sono utopiche, ma per tutti coloro che rifiutano di accettare l’eventualità di una guerra si tratta di un complesso di prìncipi che è opportuno affrontare e difendere senza alcuna riserva. Quanto a conoscere le strade che possono avvicinarci ad una simile visione delle cose, esse sono inimmaginabili senza l’unità tra i vecchi socialisti e gli uomini che oggi, percorrono in solitudine le strade del mondo. In ogni caso, è possibile rispondere ancora, e per l’ultima volta, all’accusa di utopia. Per noi, infatti, il fatto è semplice: o sarà l’utopia o sarà la guerra, una guerra preparata secondo i modi di pensare vetusti. Il mondo attuale deve scegliere fra il pensiero politico anacronistico e il pensiero utopico. Il pensiero anacronistico rischia di portarci alla rovina. E, considerata la nostra (e la mia), diffidenza, il senso di realtà ci obbliga quindi ad acconsentire all’utopia relativa. Quando essa sarà integrata nella storia, al pari di molte altre utopie dello stesso genere, non si potrà immaginare altra realtà possibile. Tant’è che la storia non è altro che lo sforzo disperato degli uomini per dare corpo ai più luminosi dei loro sogni. (1) Il 29 luglio del 1946 alle ore 16,30, si inaugura a Parigi, nel Palazzo del Lussemburgo, nelle sale dell’ex Senato Francese, la Conferenza dei 21, con un discorso inaugurale del Presidente del Consiglio francese, George Bidault, iniziato con un saluto a nome del popolo francese e del governo ai delegati delle Nazioni Unite ed amiche, convenuti a Parigi per la prima grande conferenza che deve discutere la sistemazione del mondo dopo la guerra. (2) Ad esempio il movimento culturale négritude sviluppatosi nella prima metà del XX secolo nelle colonie francofone. Fra i precursori del concetto di negritudine si cita in genere René Maran, autore di Batouala. Il termine négritude fu usato per la prima volta da Aimé Césaire nel 1935, nel terzo numero della rivista L’Etudiant Noir. Césaire rivendicava l’identità e la cultura nera contro quella francese, percepita come strumento di oppressione da parte dell’amministrazione coloniale. Il concetto fu poi ripreso da molti altri autori. Fra questi spicca Léopold Sédar Senghor, che in Canti d’ombra (Chants d’ombre, 1945) arricchì l’idea di negritudine opponendo la “ragione ellenica” all'”emozione nera”. 3) Un nuovo contratto sociale Riassumo. La sorte degli esseri umani di tutte le nazioni non si risolverà prima che si risolva il problema della pace e dell’organizzazione mondiale. In nessuna parte del globo avrà luogo una rivoluzione efficace prima che sia realizzata questa rivoluzione pacifica. Quant’altro si dice in Francia, oggi, è insignificante o interessato. Mi spingerò persino oltre. Finché non si creerà la pace, non solo non si cambierà stabilmente il modello di proprietà in nessuna parte del globo, ma non troveranno soluzione nemmeno i problemi più semplici, come quello del pane quotidiano, della grande fame che torce i ventri degli europei e del carbone. 16 Qualunque pensiero riconosca lealmente la propria incapacità di giustificare la menzogna e l’omicidio non può che giungere, per quanto poco si curi della verità, a questa conclusione. Dunque non gli resta quindi che conformarsi tranquillamente a un ragionamento come il nostro. Il suddetto pensiero dovrà così riconoscere: 1° che la politica interna, considerata in sé e per sé, è una faccenda del tutto secondaria e per certi versi impensabile; 2° che l’unico problema è la creazione di un ordine internazionale in grado di assicurare finalmente forme strutturali durevoli che diano il senso della rivoluzione; 3° che all’interno delle nazioni esistono solamente problemi amministrativi, da regolare in maniera provvisoria, e nel modo migliore possibile, in attesa di una regolamentazione politica più efficace perché più generale. Andrà detto, per esempio, che la Costituzione francese non può essere valutata se non in funzione del servizio che rende o non rende, ad un ordine internazionale fondato sulla giustizia e sul dialogo. Da questo punto di vista, va condannata l’indifferenza della nostra Costituzione alle più semplici libertà dell’uomo. Andrà riconosciuto che l’organizzazione provvisoria del vettovagliamento è dieci volte più importante del problema delle nazionalizzazioni o delle statistiche elettorali. Le nazionalizzazioni in un solo paese non potranno essere durevoli. E se il vettovagliamento può essere regolato sul solo piano nazionale, ecco che assume un carattere di urgenza e impone il ricorso a espedienti, sia pure provvisori. Tutto ciò può finalmente dotare il nostro giudizio sulla politica interna il criterio che finora mancava. Trenta editoriali de l’Aube avranno un bell’opporsi ogni mese a trenta editoriali de l’Humanité: in ogni caso non riusciranno a farci dimenticare che i due giornali, con i partiti che rappresentano e gli uomini che li dirigono, hanno accettato senza referendum l’annessione di Briga e Tenda(1), e che agendo in questo modo, si sono trovati uniti, nei confronti della democrazia internazionale, in un’unica impresa di distruzione. Non importa se con cattiva o buona volontà, Bidault e Thorez si schierano così, in egual misura, a favore del principio della dittatura internazionale. Per cui, checché se ne possa pensare, finiscono per rappresentare nella nostra politica non già la realtà bensì l’utopia più sciagurata. Si, dobbiamo minimizzare l’importanza della politica interna. Non si guarisce la peste con i rimedi che si applicano ai raffreddori di testa. Una crisi che sta dilaniando il mondo intero deve essere risolta su scala universale. L’ordine per tutti, affinché diminuisca per ciascuno il peso della miseria e della paura: ecco oggi, secondo logica, il nostro obbiettivo. Il che richiede, tuttavia, un’azione e una quantità di sacrifici, in altre parole uomini che siano all’altezza. E se oggi ci sono molti uomini i quali, che segreto del proprio cuore, maledicono la violenza e i massacri, non ce ne sono molti disposti a riconoscere che questo li obbliga a riconsiderare il loro pensiero o la loro azione. Coloro che vorranno fare simile sforzo troveranno comunque una speranza fondata e un codice di comportamento. 17 Ammetteranno di non potersi aspettare granché dagli attuali governi, dato che questi vivono e agiscono secondo princìpi criminali. L’unica speranza risiede nella più grande delle penitenze, quella che consiste nel riprendere le cose all’ inizio onde ricostruire una società viva all’interno di una società condannata a morte. Bisogna quindi che tali uomini, uno a uno, stabiliscano di nuovo fra loro, all’interno e al di là dei confini, un nuovo contratto sociale che li unisca sulla base dei princìpi più ragionevoli. Il movimento per la pace di cui ho parlato dovrebbe potersi articolare, all’interno delle nazioni, su comunità di lavoro e, al di là dei confini, su comunità di meditazione: le prime, secondo contratti graduali sul modello cooperativo, allevierebbero la fatica del maggior numero possibile di individui; le seconde proverebbero a individuare i valori in base ai quali vivrà quest’ordine internazionale, sostenendone nel contempo la sua causa in ogni occasione. Più in dettaglio, il compito delle seconde sarebbe quello di contrapporre parole chiare alle babele del terrore, e d’individuare al stesso tempo i valori indispensabili ad un mondo pacificato. I suoi primi obbiettivi potrebbero essere un codice di giustizia internazionale il cui primo articolo sarebbe l’abolizione generale della pena di morte e una messa in chiaro dei princìpi necessari a ogni cultura del dialogo. Il lavoro risponderebbe ai bisogni di un’epoca che non sta trovando in alcuna filosofia le giustificazioni indispensabili alla sete di amicizia che brucia oggi le anime dell’occidente. È comunque evidente che non si tratterebbe di edificare una nuova ideologia, si tratterebbe soltanto di ricercare uno stile di vita. Ecco qui, in ogni caso, alcuni motivi di riflessione, sui quali, tenendo presente il quadro degli articoli in corso, non posso dilungarmi. Per parlare più concretamente, diciamo che le persone che decidessero di opporre, in ogni circostanza, l’esempio al potere, la dialettica al dominio, il dialogo all’insulto, ed il semplice onore alla furberia; che rifiutassero tutti i vantaggi della società attuale, ed accettassero soltanto i doveri e gli impegni che li legano agli altri esseri umani; che si impegnassero ad orientare prima di tutto l’insegnamento, poi la stampa e l’opinione pubblica, secondo le indicazioni di cui si è discusso fin qui, quegli uomini non agirebbero assecondando l’utopia – lo prova l’evidenza – ma il più onesto realismo. Essi preparerebbero i futuro e, di conseguenza, farebbero cadere, fin da oggi, alcuni dei muri che ci opprimono. Se il realismo è l’arte di tener conto, al tempo stesso, del presente e del futuro, di ottenere il più sacrificando il meno, come non vedere che essi si schiererebbero dalla parte alla realtà più rivelatrice? Non so se persone del genere si materializzeranno, oppure no. È probabile che la maggior parte di esse in questo momento stia riflettendo, e ciò è bene. Ma una cosa è certa : l’efficacia della loro azione non potrà andare disgiunta dal coraggio con cui accetteranno di rinunciare, nell’immediato, a determinati sogni per puntare esclusivamente all’essenziale, cioè a salvare vite umane. E, una volta arrivati a questo punto, si dovrà, forse, prima di concludere, alzare la voce. (1)I trattati di Parigi tra le potenze vincitrici previdero la cessione dall’Italia alla Francia delle città di Briga e Tenda. 18 4) Il secolo della paura 19 novembre 1946 Il XVII secolo è stato il secolo delle matematiche; il XVIII quello delle scienze fisiche; e il XIX quello della biologia. Il nostro secolo è il secolo della paura. Mi si dirà che la paura non è una scienza. Ma, innanzitutto la scienza c’entra pur qualcosa, poiché i suoi ultimi progressi teorici l’hanno portata a negare se stessa (Parla delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki N.d.R.)e poiché i suoi perfezionamenti pratici minacciano di distruggere il modo intero. Inoltre, se la paura in se stessa non può essere considerata una scienza, non v’è alcun dubbio sul fatto che sia comunque una tecnica. Ciò che colpisce maggiormente, in effetti, nel mondo in cui viviamo, è innanzitutto, e in generale, il fatto che la stragrande degli uomini (salvo i credenti di tutte le specie) sono privati del proprio futuro. Non c’è vita degna di questo nome senza una proiezione nel futuro, senza una prospettiva di evoluzione e di progresso. Vivere contro un muro, è la vita dei cani. Ebbene, gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle università, hanno vissuto e vivono sempre più come cani. Naturalmente, non è la prima volta che gli uomini si trovano davanti un avvenire materialmente murato. Di solito, però, ne sono usciti vittoriosi grazie alla parola e al grido. Fanno appello ad altri valori, in grado di procurare loro una speranza. Oggi, nessuno parla più (salvo chi si ripete). Il mondo, infatti, ci sembra guidato da forze cieche e sorde che non sono disposte ad ascoltare le grida di avvertimento, né i consigli, né le suppliche. In noi qualcosa è stato distrutto dallo spettacolo degli anni che abbiamo appena trascorso. E questo qualcosa è quell’eterna fiducia nell’essere umano, che ci ha sempre fatto credere di poter ricevere dall’altro da sé stimoli umani semplicemente parlandogli il linguaggio dell’umanità. Abbiamo visto mentire, avvilire, uccidere, deportare, torturare, e ogni volta è stato impossibile persuadere chi lo faceva a non farlo, perché era sicuro di sé e perché non si convince un’astrazione, ovvero il rappresentante di un’ideologia. Il lungo dialogo tra uomini è bloccato. E, beninteso, un uomo che non si può convincere è un uomo che mette paura. Il che fa sì che accanto a persone che non parlano perché lo giudicano inutile si è estesa e si estende un’immensa congiura del silenzio, accettata da chi trema di paura e trova delle buone ragioni per nascondere a se stesso il tremore, e provocata da chi ha interesse a farlo. “Non dovete parlare dell’epurazione degli artisti in Russia, perché farebbe gioco alla reazione.” “Dovete tacere sul sostegno a Franco da parte degli Anglosassoni, perché questo favorirebbe il comunismo.” Dicevo, per l’appunto, che la paura è una tecnica. 19 Tra la paura molto generica di una guerra che il mondo intero va preparando e la paura tutta particolare delle ideologie omicide, è pertanto verissimo che viviamo nel terrore. Viviamo nel terrore perché la persuasione non è più possibile, perché l’uomo è stato interamente consegnato alla storia e non può più volgersi verso quella parte di sé, non meno vera della parte consegnata alla storia, che ritrova al cospetto della bellezza del mondo e dei volti; perché viviamo nel mondo dell’astrazione, quello dei carnefici e delle macchine, delle idee assolute e del messianismo privo di sfumature. Ci sentiamo soffocare in mezzo alla gente che crede di avere assolutamente ragione, sia che si tratti delle sue macchine o delle sue idee. E per chi non può vivere che nel dialogo e nell’amicizia degli esseri umani, questo silenzio è la fine del mondo. Per uscire dalla condizione di terrore, occorrerebbe poter riflettere e agire seguendo il proprio ragionamento. Il clima di terrore non è certo il più favorevole al ragionamento. Sono del parere, comunque, che si debba biasimare la paura, considerarla uno degli elementi della situazione e cercare di rimediarvi. Non esiste nulla di più importante. La cosa, infatti, riguarda il destino di un gran numero di Europei i quali, sazi di violenze e di menzogne, delusi nelle loro più grandi speranze, provano ripugnanza all’idea di uccidere i propri simili, fosse anche per convincerli, così come provano pari ripugnanza all’idea di venire convinti nella medesima maniera. È tuttavia questa l’alternativa di fronte alla quale si viene a trovare una grande massa di esseri umani in Europa, che non appartengono a nessun partito, o che si sentono a disagio in quello che si sono scelti, che dubitano che in Russia si sia realizzato il socialismo, e in America il liberalismo, che assicurano sì ai russi e agli americani il diritto di affermare le loro rispettive verità, ma rifiutano loro il diritto di imporle con l’omicidio, individuale o collettivo. Tra i potenti di oggi ci sono individui senza regno. I quali non potranno far riconoscere (non dico far trionfare, solo far riconoscere) il proprio punto di vista, e potranno ritrovare la loro patria solo quando avranno preso coscienza di ciò che vogliono e lo dichiareranno con semplicità e forze sufficienti perché le loro parole possano sprigionare un fascio di energie. E se il clima di paura non li farà ragionare nel modo giusto, allora dovremmo, per prima cosa, mettersi in regola con la paura. Per mettersi in regola con la paura, occorre vedere cosa essa significa, e che cosa rifugge. Essa significa e rifugge la stessa realtà di fatto: un mondo in cui si legittima l’omicidio e dove si considera futile la vita umana. Ecco il principale problema politico di oggi. E, prima di proseguire con il resto, è necessario prendere posizione in rapporto a tale problema. Prima di avviare qualsiasi costruzione ideale, oggi vanno poste due domande: “Sì o no? Volete 20 voi, direttamente o indirettamente, essere uccisi o violentati?” “Sì o no, volete voi, direttamente o indirettamente, ammazzare e violentare?” Tutti coloro che risponderanno no alle due domande si troveranno automaticamente coinvolti in una serie di conseguenze che devono modificare il loro modo di porre il problema. Il mio programma è individuare soltanto due o tre di tali conseguenze. Nell’attesa, il lettore di buona volontà può incominciare ad interrogarsi e a rispondere. 5) Salvare i corpi Dopo che ho detto, una volta, di non riuscire più ad ammettere, dopo l’esperienza di questi ultimi due anni, alcuna verità che potesse costringermi, direttamente o indirettamente, a far condannare a morte un uomo, alcune persone che stimavo mi hanno talvolta fatto notare che coltivavo un’utopia, che non c’era verità politica tale da non poterci condurre un giorno a quegli estremi, e che occorreva dunque o correre il rischio di simili estremi o accettare il mondo così com’era. L’argomento veniva adotto con forza. Ma credo innanzitutto che ci mettessero così tanta forza unicamente perché non riuscivano a immaginare la morte degli altri. È una stranezza del nostro secolo. Così come ci si ama per telefono e si lavora non più sulla materia, ma sulla macchina, oggi si uccide e si è uccisi per procura. Ci guadagna la pulizia, ma la conoscenza ci perde. Tuttavia questo argomento ha un’altra forza, per quanto indiretta: esso pone il problema dell’utopia. Insomma, le persone come me non vorrebbero un mondo nel quale non ci si uccide più, (non siamo così pazzi!), ma un mondo un cui non sia legittimato l’omicidio. E qui di fatto, siamo mesi di fronte tanto all’utopia che alla contraddizione. Poiché viviamo, per l’appunto, in un mondo in cui l’omicidio è legittimato, e dobbiamo cambiarlo se non vogliamo più omicidi. Sembra però che non lo si possa cambiare senza esporsi all’eventualità dell’omicidio. L’omicidio ci rimanda dunque all’omicidio e continueremo così a vivere nel terrore, sia che si accetti la cosa con rassegnazione, sia che la si voglia annullare con mezzi che la sostituiranno con un altro terrore. Tutti, a mio avviso, dovrebbero riflettere su questo. Ciò che più colpisce in mezzo alle polemiche, alle minacce e agli scatti di violenza, è infatti la buona volontà di tutti. Tutti, con l’eccezione di alcuni imbroglioni, dalla destra alla sinistra, sono convinti che la loro verità sia fatta apposta per dar luogo all’umana felicità. Ciononostante, la confluenza della buona volontà di tutti ha come risultato questo mondo infernale nel quale degli uomini sono ancora uccisi, minacciati, deportati, in cui si prepara la guerra, e dove basta dire una parola per essere insultato o traditi all’istante. Che cosa concluderne? Che se persone come noi vivono nella contraddizione, essi non sono i soli a farlo, e che chi che li accusa di utopia vive a sua volta coltivando un’utopia, senza dubbio differente, ma in definitiva non meno dispendiosa. Occorre dunque ammettere che il rifiuto di legittimare l’omicidio ci obbliga a riconsiderare la nostra nozione dell’utopia. A tale riguardo pare si possa dire quanto segue : l’utopia è ciò che è in contraddizione con la realtà. Da questo punto di vista, sarebbe del tutto utopico voler che nessuno ammazzi nessuno. Sarebbe l’utopia assoluta. Tuttavia esiste un’utopia di secondo livello, meno forte; chiedere che l’omicidio non sia più legittimato. D’altronde, sia l’ideologia 21 marxista sia l’ideologia capitalista, basate entrambi sull’idea di progresso, convinte entrambe che l’applicazione dei loro principi debba garantire fatalmente l’equilibrio della società, sono utopie di un livello molto più forte. E per di più, stanno per costarci un prezzo altissimo. Possiamo concluderne che, in pratica, la lotta che s’ingaggerà negli anni a venire non sarà tra le forze dell’utopia e quelle della realtà, ma tra utopie differenti che cercano un’assimilazione con la realtà , utopie tra le quali si tratterà solo di scegliere le meno costose. E sono convinto che non possiamo più nutrire la ragionevole speranza di salvare tutto, ma che possiamo proporci perlomeno di salvare i corpi, in modo che il futuro resti un futuro possibile. Dunque il fatto di rifiutare la legittimazione dell’omicidio non è evidentemente più utopico degli atteggiamenti realistici di oggi. Tutto sta a sapere se essi costano un prezzo più o meno alto. È comunque un problema che dobbiamo risolvere. E scusate se penso di poter essere utile definendo, in rapporto all’utopia, le condizioni necessarie per placare gli uomini e le nazioni. Il mio ragionamento, a condizione che la si faccia senza paura e senza presunzione, può contribuire a creare le condizioni di un pensiero giusto e di un accordo provvisorio fra chi non vuole essere né vittima, né carnefice. Beninteso, non si tratterà, negli articoli che seguiranno, di definire una posizione assoluta, ma soltanto di correggere alcune nozioni oggi travisate e provare a porre il problema dell’utopia nel modo più corretto possibile. Si tratterà, insomma, di definire le condizioni di un pensiero politico modesto, ossia depurato da ogni messianismo e spogliato della nostalgia del paradiso terrestre. 6) La rivoluzione travestita Combat: 25 novembre 1946 Dall’agosto 1944, tutti i francesi parlano di rivoluzione – e sempre sinceramente, non ci sono dubbi in proposito. La sincerità, tuttavia, non è una virtù in sé. Ci sono sincerità così confuse da essere peggiori delle menzogne. Non si tratta per noi, oggi, di parlare il linguaggio del cuore, si tratta solo di pensare in modo chiaro. Sul piano ideale, la rivoluzione è un cambiamento delle istituzioni politiche ed economiche, volto a far trionfare la libertà e la giustizia nel mondo. Sul piano pratico, è l’insieme degli avvenimenti storici, spesso rovinosi, prodotti da quei fortunati mutamenti. Possiamo dire, oggi, che la parola “rivoluzione” venga usata nel suo senso classico? Quando nel nostro paese le persone sentono parlare di rivoluzione, ammesso che mantengano il sangue freddo, pensano ad un cambiamento del sistema di proprietà (in genere la messa in comune dei mezzi di produzione) ottenuto, o con una legislazione basata sulle leggi della maggioranza, o con una presa del potere da parte di una minoranza. È facile notare come questo complesso di nozioni non abbia alcun senso nelle attuali circostanze storiche. Da una parte, la presa di potere tramite la violenza è un’idea romantica che il progresso degli armamenti ha reso illusoria. L’apparato repressivo di un governo ha dalla sua parte tutta la 22 forza dei carri armati e degli aerei cosicché, per equilibrarla, bisognerebbe avere altrettanti carri armati e aerei. Il 1789 e il 1917 sono ancora delle date, ma non sono più degli esempi proponibili. Ammesso che la presa del potere sia comunque possibile, attraverso le armi o la legge, avrebbe efficacia soltanto se la Francia (o l’Italia, o la Cecoslovacchia) potesse essere messa fra parentesi e isolata dal mondo. Infatti nella nostra storia attuale, cioè nel 1946, una modifica del regime di proprietà comporterebbe, per esempio, ripercussioni tali sui crediti americani che la nostra economia si troverebbe mortalmente minacciata. Una rivoluzione di destra, a sua volta, non avrebbe maggiori possibilità di successo, a causa dell’ipoteca parallela con la quale la Russia, ci condiziona tramite milioni di elettori comunisti e con la sua posizione di massima potenza continentale. La verità che – e me ne scuso – vorrei mettere in chiaro, giacché tutti la conoscono senza dirla, è che non siamo liberi, in quanto Francesi, di essere rivoluzionari. O perlomeno non possiamo più essere dei rivoluzionari solitari perché non sussistono più, oggi, nel mondo, politiche conservatrici o socialiste che si possano sviluppare sul solo piano nazionale. Per cui possiamo parlare soltanto di rivoluzione internazionale. Proprio così:, la rivoluzione si farà su scala internazionale o non si farà. Ma ancora, qual è il senso di questa frase? Ci fu un tempo in cui si pensava che la riforma internazionale si sarebbe fatta congiungendo o sincronizzando più rivoluzioni nazionali; un’addizione di miracoli, in qualche modo. Oggi, se la precedente analisi è corretta, è possibile pensare solamente all’estensione di una rivoluzione che si è già compiuta. È una cosa che Stalin ha visto molto bene ed è la spiegazione più benevola che si possa dare della sua politica (l’altra è quella di negare alla Russia il diritto di parlare in nome della rivoluzione). Il che porta a considerare l’Europa e l’Occidente come una sola nazione in cui un’importante minoranza bene armata potrebbe vincere e lottare per prendere alla fine il potere. Ma siccome le forze conservatrici (nella fattispecie gli Stati Uniti) sono altrettanto bene armati, è facile dedurre che la nozione di rivoluzione viene oggi sostituita da quella di guerra ideologica. Per essere più precisi, la rivoluzione internazionale rappresenta oggi un rischio, estremo, di guerra totale. Ogni rivoluzione futura sarà una rivoluzione straniera. Comincerà con un’occupazione militare oppure, il che equivale alla stessa cosa, con un ricatto che comporta l’occupazione. E avrà senso soltanto a partire dalla vittoria definitiva dell’occupante sul resto del mondo. All’interno delle nazioni le rivoluzioni costano già un prezzo molto alto. Tuttavia, in considerazione del progresso che sembrano promettere, generalmente si accetta la necessità di costi simili. Oggi, il prezzo di una la guerra ai danni dell’umanità deve essere obbiettivamente valutata in rapporto al progresso che ci si potrebbe attendere in seguito alla presa del potere mondiale da parte della Russia o dell’America. E credo sia di capitale importanza il fatto che se ne pesino le due cose e che, per una volta, si guardi con un po’ di immaginazione cosa ne diventerebbe di un pianeta, sul cui conto vanno già messi circa trenta milioni di cadaveri, dopo un cataclisma che ci costerebbe dieci volte tanto. 23 Tengo a sottolineare che il mio modo di ragionare è obbiettivamente corretto. Esso prende in considerazione soltanto la valutazione della realtà, senza comportare per il momento giudizi ideologici o sentimentali. Anche se, in ogni caso, dovrebbe far riflettere chi parla di rivoluzione con troppa superficialità. Quello che implica oggi la parola rivoluzione deve essere accettato in blocco o rifiutato in blocco. Se lo accettiamo, dobbiamo riconoscerci responsabili in piena coscienza della guerra a venire. Se lo rifiutiamo, dobbiamo o dichiaraci a favore dello status quo – il che corrisponde all’utopia totale, dal momento che vi si presuppone l’immobilità della storia – o rinnovare il contenuto della parola rivoluzione – il che implica un’adesione a quella che chiamerò l’utopia relativa. Dopo aver soppesato un po’ la questione , mi sembra di poter dire che chi desidera oggi cambiare efficacemente il mondo, debba scegliere fra le prossime fosse comuni, cioè il sogno impossibile di una storia completamente bloccata, e l’accettazione di un’utopia relativa che lasci una possibilità sia all’agire sia agli uomini. Non è tuttavia difficile rendersi conto che questa utopia relativa è l‘unica strada possibile, l’unica ispirata al senso di realtà. Esamineremo in un prossimo articolo in che cosa consista questa fragile possibilità, l’unica che ci potrebbe salvare dalle fosse comuni. 7) Democrazia e dittature internazionali 26 novembre 1946 Oggi sappiamo che non ci sono più isole e che i confini sono effimeri. Sappiamo che in un mondo in accelerazione costante, nel quale si attraversa l’Atlantico in meno di un giorno, in cui Mosca parla con Washington in poche ore, siamo condannati alla solidarietà o, a seconda dei casi, alla complicità. Ciò che abbiamo imparato nel corso degli anni ‘40, è che l’ingiuria fatta ad uno studente di Praga colpiva contemporaneamente l’operaio di Clichy; che il sangue sparso da qualche parte lungo le rive di un fiume del Centro Europa avrebbe condotto un contadino del Texas a versare il proprio sul suolo di quelle Ardenne che vedeva per la prima volta. Non c’era e non c’è più in questo mondo, una sola sofferenza isolata, una sola tortura, che non si ripercuota sulla nostra vita di tutti i giorni. Molti Americani vorrebbero continuare a vivere chiusi nella loro società che trovano buona. Molti Russi vorrebbero, forse, continuare a proseguire l’esperienza statalistica prescindendo dal mondo occidentale. Non lo possono e non lo potranno fare mai più. Così come nessun problema economico, per quanto secondario possa apparire, può oggi essere risolto al di fuori della solidarietà internazionale. Il pane dell’Europa è a Buenos Aires e le macchine utensili della Siberia vengono fabbricate a Detroit. Oggi, la tragedia è collettiva. 24 Sappiamo dunque tutti, senza ombra di dubbio, che il nuovo ordine di cui andiamo in cerca non può essere soltanto nazionale o continentale, né tantomeno occidentale o orientale. Dev’essere universale, non è più possibile attendersi soluzioni parziali o concessioni. Quello che stiamo vivendo è uno stato di compromesso: in altri termini l’angoscia per l’oggi è l’omicidio per il domani. E nel frattempo la velocità della storia e del mondo accelera. I ventuno sordi, futuri criminali di guerra, che discutono oggi di pace* scambiano i loro monotoni dialoghi tranquillamente seduti al centro di uno rapido che li sta precipitando verso l’abisso, a mille chilometri all’ora. Si, l’ordine universale è il solo problema del momento: un problema che va ben oltre le dispute sulla costituzione e sulla legge elettorale, e che esige da noi tutte le risorse della nostra intelligenza e della nostra volontà. Quali sono oggi i modi per raggiungere l’unità del mondo, per realizzare questa rivoluzione internazionale per la quale le risorse in uomini, le materie prime, i mercati commerciali e le ricchezze spirituali potranno trovare una più equa distribuzione? Io ne vedo soltanto due, due modi che tracciano la nostra ultima alternativa. Il mondo può essere unificato, dall’alto, come ho detto ieri, da un solo Stato più potente degli altri. La Russia o l’America possono aspirare a tale ruolo. Non ho nulla da obiettare, e nessuna delle persone che conosco ha nulla da obiettare in merito all’idea, difesa da molti, che la Russia o l’America abbiano i mezzi per dominare e unificare questo mondo secondo gli schemi della loro società. Mi oppongo però all’idea, in quanto francese, e più ancora in quanto mediterraneo. Ma non terrò alcun conto della mia ripulsa sentimentale. Ecco la nostra unica obiezione, così come l’ho delineata nel mio ultimo articolo: l’unificazione non può essere fatta senza la guerra o, perlomeno, senza un rischio estremo di guerra. E ammetterò ancora, anche se non ci credo, che la guerra possa non essere atomica. Cionondimeno la guerra di domani lascerebbe l’umanità talmente mutilata e a tal punto impoverita, che l’idea stessa di un ordine risulterebbe definitivamente anacronistica. Marx poteva giustificare, come ha fatto, la guerra del 1870, perché era la guerra del fucile Chassepot , ed era localizzata. Nelle prospettive del marxismo, centomila morti non sono niente, in effetti, in cambio della felicità di centinaia di milioni di persone. Ma la morte sicura di centinaia di milioni di persone, per la felicità supposta di coloro che restano, è un prezzo troppo alto. Il progresso vertiginoso degli armamenti, fatto storico ignorato da Marx, obbliga a porre in modo nuovo il problema dei fini e dei mezzi. Rifugio antiatomico in America 25 E il mezzo, qui, manderebbe in pezzi il fine. Qualunque sia il fine desiderato, per quanto elevato e necessario esso sia, che voglia o meno promuovere la felicità degli uomini, che voglia onorare la giustizia oppure la libertà, il mezzo impiegato per raggiungerlo rappresenta un rischio così definitivo, così sproporzionato come grandezza rispetto alle possibilità di successo, che ci rifiutiamo obbiettivamente di correrlo. Occorre dunque ritornare al secondo modo idoneo ad assicurare l’ordine universale: il reciproco accordo di tutte le parti in causa. Non ci domanderemo se sia possibile, considerando qui che è per l’appunto l’unico possibile. Ci domanderemo piuttosto in che cosa consista. L’accordo di tutte parti ha un nome: democrazia internazionale. Tutti naturalmente ne parlano, all’O.N.U. Ma cos’è la democrazia internazionale? È una democrazia che è internazionale. Spero mi si perdoni qui il truismo, dato che le verità più evidenti sono anche le più mistificate. Che cos’è la democrazia nazionale o internazionale? È una forma di società in cui la legge è al di sopra dei governi, essendo a legge espressione della volontà di tutti e rappresentata da un corpo legislativo. È questo che cercano di istituire oggi? In effetti ci stanno preparando una legge internazionale. Ma questa legge è fatta o disfatta dai governi, vale a dire dall’esecutivo. Ci troviamo quindi a vivere in un regime di dittatura internazionale. L’unico modo per uscirne è porre la legge internazionale al di sopra dei governi, ossia fare una tale legge, disporre di un parlamento, formare questo parlamento attraverso elezioni mondiali alle quali parteciperanno tutti i popoli. E, dato che non abbiamo questo parlamento, l’unica via è quella di resistere alla dittatura internazionale su un piano internazionale e con mezzi che non siano in contraddizione con il fine perseguito. *Il 29 luglio del 1946 alle ore 16,30, si inaugura a Parigi, nel Palazzo del Lussemburgo, nelle sale dell’ex Senato Francese, la Conferenza dei 21, con un discorso inaugurale del Presidente del Consiglio francese, George Bidault, iniziato con un saluto a nome del popolo francese e del governo ai delegati delle Nazioni Unite ed amiche, convenuti a Parigi per la prima grande conferenza che deve discutere la sistemazione del mondo dopo la guerra. 8) Il socialismo mistificato 21 novembre 1946 Se ammettiamo che lo stato di terrore, dichiarato o meno, in cui viviamo da dieci anni non è ancora cessato, e che esso è la causa più grave del disagio in cui versano gli uomini e le nazioni, dobbiamo considerare che cosa sia possibile opporre al terrore. Il che pone il problema del socialismo occidentale. Poiché il terrore si legittima solo se si ammette il principio: “Il fine giustifica i mezzi”. E tale principio è ammissibile solo se si pone l’efficacia di un’azione quale fine assoluto, come avviene nelle ideologie nichiliste (tutto è permesso, ciò che conta è riuscire), (1). o nelle filosofie che fanno della storia un fattore assoluto (Hegel, poi Marx: poiché il fine è la società senza classi, qualunque mezzo porta alla sua realizzazione è consentito) . 26 Ed ecco il problema che affligge, ad esempio i socialisti francesi, assaliti oggi da una quantità di scrupoli. Perché hanno visto all’opera quella violenza e quell’oppressione di cui finora avevano avuto fin qui un’idea alquanto astratta. E si sono chiesti se sia il caso, come vorrebbe la loro filosofia, di accettare in prima persona l’esercizio della violenza, seppure provvisorio e per un obiettivo comunque diverso. Un recente prefatore di Saint-Just (2), parlando di uomini che avevano nutrito simili scrupoli, scrive, accentuando tutto il proprio disprezzo: «Hanno fatto marcia indietro di fronte all’orrore». Non c’è niente di più vero. E comportandosi in questo modo hanno avuto il merito di acquisire lo sdegno di spiriti abbastanza forti e superiori per convivere senza batter ciglio nell’orrore. Ma hanno anche dato voce a quell’appello angosciato che si leva da gente modesta come noi – gente che si conta a milioni – che fa comunque la materia stessa della storia, e di cui bisognerà un giorno tener conto, malgrado tutte le manifestazioni di disdegno. Piuttosto, ci sembra più serio cercare di comprendere la contraddizione e la confusione nelle quali si sono trovati i socialisti francesi. Da questo punto di vista, evidentemente non si è riflettuto abbastanza sulla crisi di coscienza del nostro socialismo, così com’essa si è manifestata in un recente congresso. È del tutto evidente che i nostri socialisti, sotto l’influenza di Léon Blum, e più ancora sotto la minaccia degli eventi, hanno posto in cima alle loro preoccupazioni alcuni problemi morali (il fine non giustifica tutti i mezzi) sui quali finora non si erano soffermati. Il loro legittimo desiderio è stato quello di fare riferimento ad alcuni principi che apparissero superiori a quello dell’omicidio. Risulta comunque evidente che questi medesimi socialisti intendono mantenere in vita la dottrina marxista; gli uni perché pensano che non si possa essere rivoluzionari senza essere marxisti; gli altri, per una rispettabile fedeltà alla storia del partito, che li induce a pensare a come non sia più possibile essere socialisti senza essere marxisti. L’ultimo Congresso del partito ha messo in evidenza le due tendenze e il suo compito principale è stato quello di cercare di conciarle. Sennonché non si può conciliare l’inconciliabile. È chiaro, infatti, che se il marxismo è vero, e se esiste una logica della storia, il realismo politico diventa legittimo. Ma è altrettanto chiaro che se i valori etici preconizzati dal partito socialista si fondano sul diritto, allora il marxismo è assolutamente falso, proprio perché pretende di essere assolutamente vero. Da questo punto di vista, il famoso superamento del marxismo in senso idealistico e umanitario non è altro che una presa in giro e un sogno senza esisto. Marx non può essere superato, essendosi spinto fino all’esito in sé. I comunisti hanno fondate ragioni per utilizzare la menzogna e la violenza che i socialisti rifiutano, e trovano le proprie ragioni in quegli stessi princìpi e in quella stessa irrefutabile dialettica che i socialisti intendono comunque conservare. Nessuna meraviglia se il Congresso socialista ha chiuso con la semplice giustapposizione di due posizioni contraddittorie, la cui sterilità ha avuto una sanzione nelle ultime elezioni. Per cui la confusione continua. Occorreva scegliere e i socialisti non hanno voluto o non hanno potuto farlo. 27 Non ho scelto questo esempio per sparare sui socialisti, ma per chiarire in quali paradossi si dibattono. Per sparare sui socialisti bisognerebbe essere superiore a loro. E non è ancora il nostro caso. Anzi, mi pare che la contraddizione sia comune a tutti coloro di cui ho parlato, tutti desiderosi di una società che possa essere nello stesso tempo felice e degna, di un’umanità libera di vivere in una condizione finalmente giusta, e tuttavia esitanti fra una libertà in cui sanno bene che la giustizia finisce per essere intrappolata e una giustizia nella quale vedono bene che la libertà è negata fin dal principio. Quest’ angoscia intollerabile è in genere oggetto di derisione da parte di chi sa che cosa bisogna credere o fare. Io penso che, anziché irriderla, sia il caso di farne oggetto di ragionamento e di discussione, di vedere che cosa essa significhi, di trovare il motivo della condanna quasi totale che essa getta su un mondo che è il primo ad alimentarla e di cogliere la fragile speranza che la sottende. E la speranza sta appunto in questa contraddizione, perché essa costringe o costringerà i socialisti alla scelta. O essi ammetteranno che il fine compensa i mezzi, e che dunque l’omicidio può essere legittimato, oppure rinunceranno al marxismo come filosofia assoluta, limitandosi tener conto della sua corrente critica, tuttora valida. Se optano per il primo corno del dilemma, la crisi della società avrà fine e le situazioni si chiariranno chiarite. Se optano per il secondo, dimostreranno che è giunto il tempo della fine delle ideologie, ovvero delle utopie assolute le quali, nel processo storico distruggono se stesse con il prezzo altissimo che finiscono per pagare. Occorrerà scegliere un’altra utopia, più modesta e meno rovinosa. O comunque il rifiuto di legittimare l’omicidio obbliga a porre la questione. Sì, la questione va posta, e nessuno, credo, oserà dare una risposta superficiale. Albert Camus (1) Nel suo dramma I giusti , Camus opera una rivisitazione de I demoni di Dostoiyevski, rappresentando il ribelle nichilista che ha perduto ogni barlume di umanità, e che, in nome della Rivoluzione e dell’Organizzazione, è pronto ad uccidere anche dei bambini:«Stepan. Non ho il cuore abbastanza tenero per queste sciocchezze. Il giorno che ci decideremo a dimenticare i bambini, allora sì che saremo padroni del mondo e che la rivoluzione trionferà ». (2) Louis Antoine Léon de Richebourg de Saint-Just, più noto come Louis Antoine de Saint-Just (Decize, 25 agosto 1767 – Parigi, 28 luglio 1794), è stato un rivoluzionario e politico francese. Fu tra i principali artefici del Terrore durante la Rivoluzione francese. È considerato uno dei padri del socialismo. 28 Combat clandestino, n. 58, Luglio 1944 Albert Camus Sarete giudicati sulla base delle vostre azioni Nel momento in cui si sta per affrontare la fase finale della lotta, Pétain (1) e Laval (2) si sono adoperati per far sentire una volta di più le loro voci discordanti e per accreditate alla loro politica comune un’apparente differenza di tono. Entrambi si sono rivolti al paese e, secondo la loro tradizionale divisione del lavoro, Laval ha parlato della Germania, mentre Pétain ha finto di parlare della Francia. Ma per la verità parlavano tutti e due di tradimento. Semplicemente ne parlavano tutti e due con un tono di tristezza, come se il tradimento fosse divenuto di colpo un tradimento lucido. La cosa dura da due anni. Dal momento in cui ha gettato a Vichy le basi di un regime che ci ha fatto mancare tutto salvo l’umiliazione e la vergogna, Pétain non ha mai smesso, con un gioco che crede abile, di essere il simbolo più alto che abbiamo del compromesso e della confusione. Ma quando impera il compromesso, è sufficiente parlar chiaro. Viviamo un’epoca in cui le uniche risorse sono il coraggio e il linguaggio chiaro. E come sempre è la Resistenza francese a dire le parole nelle quali la Francia si riconosce. E poiché è libera degli appelli, anche la Resistenza lancia un appello supremo al popolo francese. Gli dice che non c’è più tempo per riflettere, soppesare o valutare. I secondi fini di Pétain, ammesso che ne abbia, le furbizie di Laval, sono ormai secondari: la neutralità non è più possibile. È venuto il momento in cui gli uomini del nostro paese saranno giudicati non sulla base delle loro intenzioni bensì dalle loro azioni, e dalle loro azioni legittimate dalle loro parole. È questa la sola cosa giusta. E la resistenza francese ci dice chiaramente che da cinque anni le parole e le azioni di Pétain e Laval non hanno fatto altro che dividere la Francia, umiliare la Francia, uccidere una quantità di francesi. Pétain e Laval hanno ormai disonorato la guerra e perciò saranno sottoposti a giudizio. La Resistenza dice che viviamo un’epoca in cui le parole contano, in cui tutte le parole comportano un impegno, soprattutto quando sono parole che decretano la condanna a morte dei nostri fratelli, che insultano il nostro coraggio e che danno in pasto la carne stessa della Francia al più implacabile dei nemici. Di fronte a chi chiama terroristi e assassini dei compatrioti, di fronte a chi chiama onore ciò che è solo abdicazione, ordine ciò che è tortura, lealismo ciò che è omicidio, non è possibile alcun compromesso. La Resistenza vi dice che sul suolo francese non avete un governo e che non ne avete bisogno. Siamo di gran lunga abbastanza forti per sopportare a denti stretti quanto ci opprime e ci schiaccia; abbastanza forti per sostenere il pensiero dei nostri compagni imprigionati e torturati, di cui non parliamo mai e su cui nondimeno spargiamo il silenzio della fratellanza; abbastanza forti per tollerare la fame e l’omicidio. Non abbiamo bisogno di Vichy per regolare i nostri conti con la vergogna. Non abbiamo bisogno di benedizioni ipocrite, abbiamo bisogno di uomini e di coraggio; non abbiamo bisogno di soggiacere al culto della sofferenza, dobbiamo soltanto dominarla. Per niente soli, anzi, con tutto un popolo, uniti contro una nazione depredata e un 29 pugno di traditori senza onore. Non ci occorre una morale da confessori, ci occorre coraggio, e non saranno certo gli apostoli di tutte le rinunce a fornircelo. Francesi, la Resistenza vi lancia l’unico appello che dovete ascoltare. La guerra è diventata guerra totale, la battaglia da combattere è ormai una sola. Nel momento in cui il meglio della nazione si prepara al sacrificio non ci sentiremo certo tentati dal perdono. Tutto ciò che non è con noi è contro di noi. Ormai in Francia esistono soltanto due partiti: la Francia di tutti e la Francia di coloro che saranno distrutti per aver cercato di distruggerla. (1) Pétain, Philippe (1856-1951). Maresciallo di Francia nel 1918, considerato il vincitore di Verdun, nel1934 è, per alcuni mesi, ministro della Guerra. Vicino a Maurras e all’Action Française, nel 1939 diventa ambasciatore in Spagna presso Franco. Vicepresidente del governo di Paul Reynaud nel marzo 1940 e, in seguito alle dimissioni del primo ministro, presidente del Consiglio il 16 giugno 1940, Pétain chiede l’armistizio e diventa capo dello Stato francese – organismo che, dopo il voto dell’Assemblea nazionale il 10 luglio 1940, sostituisce la Repubblica. Fonda il governo di Vichy. Con il motto “Lavoro, Famiglia, Patria” pratica una politica di collaborazionismo attivo, anche se il suo potere risulta indebolito dall’ascesa di Laval e dall’occupazione della zona libera (novembre 1942). Fuggito a Sigmaringen, rientra in Francia nell’aprile 1945, dove è sottoposto a processo (23 luglio-l5 agosto). Condannato a morte, la pena viene immediatamente commutata in ergastolo. Muore all’Île d’Yeu nel giugno 1951. (2) Laval Pierre (1883-1945). Deputato socialista, poi “socialista indipendente”, più volte ministro della Terza Repubblica e due volte presidente del Consiglio. Costretto alle dimissioni nel 1936, torna al potere dopo la disfatta del 1940. Ministro di Stato nel governo Pétain, fa votare dal Parlamento la revisione della Costituzione – che pone fine alla Repubblica – e svolge un ruolo fondamentale al momento dell’istituzione del governo di Vichy di cui è vicepresidente. Acceso sostenitore del collaborazionismo, è l’organizzatore nell’ottobre 1940 dell’incontro Pétain-Hitler a Montoire; arrestato su ordine di Pétain – che lo sostituisce per alcuni mesi con Darlan (gennaio 1941-aprile 1942) – viene liberato dai tedeschi, i quali fanno di lui l’uomo forte del governo di Vichy, ministro sia degli Interni sia dell’Informazione sia degli Esteri. È noto che si dichiarò a favore della vittoria della Germania. Fuggito a Sigmaringen con Pétain, poi in Austria, sarà arrestato, condannato a morte e, dopo un tentativo di suicidio, fucilato il 15 ottobre 1945. 30 Camus: lettera a un militante algerino «Ho incontrato nella storia, da quando sono nell’età adulta, molti vincitori il cui volto mi appariva ripugnante. Perché vi leggevo l’odio e la solitudine. Perché non erano niente se non erano vincitori e per diventarlo dovevano ammazzare e sottomettere. Ma esiste un’altra razza di uomini che ci aiuta a respirare, che ha sempre posto la propria esistenza e libertà solo nella libertà e nella felicità di tutti, che trova quindi fin nelle sconfitte le ragioni per vivere e per amare. Questi, anche se vinti, non saranno mai soli.» Albert Camus, La Spagna nel cuore, 1954 Albert Camus scrisse questa lettera a Mohammed el Aziz Kessous, militante e giornalista algerino come lui sempre in cerca di una terza via tra il fanatismo coloniale francese e quello del Fronte di Liberazione Nazionale algerino nell’ootobre del 1955. Questo testo è inserito nella raccolta di scritti politici, curati da Vittorio Giacopini, Mi rivolto dunque siamo, pubblicato da Elèutera Un soldato francese di guardia in una strada a Oran, nell’Algeria occidentale, 2 maggio 1962. Mio caro Kessous, ho trovato le sue lettere al mio ritorno dalle vacanze e temo che la mia approvazione arrivi troppo in ritardo. Sento comunque il bisogno di confermargliela. Non farà fatica a credermi se le dico che, in questo momento, soffro d’Algeria proprio come altri soffrono di polmoni. E dal 20 agosto sono vicino alla disperazione. Supporre che i francesi d’Algeria possano adesso dimenticare i massacri di Philippeville e di altre località, vuol dire non capire niente del cuore umano. Supporre viceversa che la repressione, una volta scatenata, possa generare tra le masse arabe fiducia e stima nei confronti della Francia, è un altro genere di follia. Eccoci dunque messi gli uni contro gli altri, costretti a farci più male possibile, implacabilmente. Quest’idea mi è insopportabile e sta avvelenando tutte le mie giornate. Eppure lei e io, così simili uno all’altro, con la stessa cultura, con le stesse speranze, amici fraterni da tanto tempo, uniti nell’amore per la nostra terra, sappiamo che non siamo nemici e che potremmo vivere felicemente, insieme, su questa terra che è la nostra. Perché è nostra, e non 31 riesco a immaginarla senza di lei e senza i suoi fratelli, certamente non più di quanto voi possiate separarla da me e da chi è come me. E lei l’ha espresso benissimo, meglio di quanto avrei potuto dire io: siamo condannati a vivere insieme. I francesi d’Algeria, e la ringrazio di aver ricordato che non erano tutti possidenti e assetati di sangue, saranno in questo paese da più di un secolo e sono più di un milione. Tanto basta a differenziare il problema algerino da quelli che esistono in Tunisia e in Marocco, dove l’insediamento francese è relativamente scarso e più recente. Il “dato francese” non è eliminabile in Algeria e il sogno che la Francia scompaia da un momento all’altro è semplicemente puerile. D’altro canto, non esiste una ragione al mondo per cui nove milioni di arabi debbano vivere nella propria terra come degli esclusi: il sogno di una massa araba cancellata per sempre, silenziosa e asservita, è anch’esso delirante. I francesi hanno radici antiche e vitali nella terra d’Algeria e non si può pensare di strapparle. Ma questo, secondo me, non dà loro il diritto di tagliare le radici della cultura e della vita arabe. Per tutta la vita ho difeso (e lei lo sa bene: questo mi è costato l’esilio dal mio paese) l’idea che da noi fossero indispensabili riforme ampie e profonde. Non hanno voluto darmi retta, hanno insistito nel sogno di potenza, che sempre si crede eterno e dimentica che la storia continua a procedere, e le riforme sono diventate sempre più necessarie. Quelle da lei indicate rappresentano in ogni caso un primo passo, indispensabile, che va fatto senza indugio, con l’unica condizione che non lo si renda impossibile annegandolo prima nel sangue francese o in quello arabo. Ma affermare oggi questo, lo so per esperienza, vuol dire entrare nella no man’s land tra due eserciti, e tra le pallottole mettersi a predicare che la guerra è un imbroglio e che il sangue, se in certe occasioni fa avanzare la storia, la fa avanzare verso una barbarie e una miseria ancora più grandi. Chi osa gridarlo con tutto il suo cuore, con tutta la sua pena, che risposta può aspettarsi di sentire, al di là delle risate e del fragore ancora più intenso delle armi? E tuttavia lo si deve urlare e, visto che lei si propone di farlo, non posso lasciarla affrontare quest’azione folle e pure indispensabile senza esprimerle la mia solidarietà fraterna. Sì, è essenziale conservare, per limitato che sia, lo spazio di un dialogo ancora possibile; è essenziale ristabilire, Per vaga e precaria che sia, la distensione. Per questo è necessario che ognuno sostenga la pacificazione tra i suoi. Gli imperdonabili massacri di civili francesi provocano altre devastazioni altrettanto stupide nei confronti delle persone e dei beni del popolo arabo. Si direbbe che alcuni pazzi, in preda al furore, consapevoli di non potersi liberare da un matrimonio forzato, abbiano deciso di stringersi in un abbraccio mortale. Costretti a vivere insieme e incapaci di unirsi, hanno stabilito di morire insieme. Mentre ognuno rafforza con i propri eccessi le ragioni e gli eccessi dell’altro, sul nostro paese si abbatte una tempesta mortale, destinata a montare fino alla distruzione generale. In questo continuo gioco al rilancio l’incendio si estende e domani l’Algeria sarà una terra di rovine e di morti che nessuna forza, nessuna potenza al mondo sarà in grado, in questo secolo, di rimettere in piedi. Per questo è indispensabile mettere fine a una tale spirale, ed è appunto il compito che ci tocca, a noi, arabi e francesi, ancora intenzionati a tenerci per mano. Noi francesi dobbiamo lottare per 32 impedire che la repressione osi diventare collettiva e far sì che la legge francese conservi nel nostro paese un senso generoso e limpido; per ricordare ai nostri gli errori e gli obblighi di una grande nazione che non può, pena la sua decadenza, reagire al massacro xenofobo scatenando una repressione di pari natura; per favorire infine l’avvento di riforme necessarie e decisive, che avvieranno la comunità franco-araba dell’Algeria sulla strada dell’avvenire. Voi arabi dovete, per parte vostra, dimostrare instancabilmente ai vostri che il terrorismo, quando fa vittime tra la popolazione civile, oltre a far dubitare a ragione della maturità politica degli uomini capaci di azioni simili, riesce solo a rafforzare gli elementi antiarabi, a valorizzare i loro argomenti e a tappare la bocca all’opinione liberale francese, che invece potrebbe trovare e far adottare una forma di conciliazione. Qualcuno mi ribatterà, come fanno anche a lei, che la conciliazione è un fatto superato, che ora si tratta di fare la guerra e di vincerla. Lei e io, invece, sappiamo che questa guerra sarà senza reali vincitori e che, dopo come prima, ci toccherà ancora, e per sempre, convivere nella stessa terra. Sappiamo che i nostri destini sono legati al punto che qualsiasi azione dell’uno comporta la reazione dell’altro, che il crimine produce il crimine, che la pazzia risponde alla demenza, che infine e soprattutto l’astensione dell’uno provoca la sterilità dell’altro. Se voi democratici arabi falliste l’obiettivo della pacificazione, l’azione di noi liberali francesi sarebbe fin d’ora destinata al fallimento. E se davanti al nostro dovere noi ci dimostrassimo deboli, le vostre povere parole sarebbero trascinate nel vento e nelle fiamme di una guerra spietata. Ecco perché mi trova tanto solidale con quello che intende fare, mio caro Kessous. Le auguro, ci auguro, buona fortuna. Voglio credere con tutte le mie forze che sui nostri campi, sulle nostre montagne, sui nostri lidi trionfi la pace, che finalmente arabi e francesi, riconciliati nella libertà e nella giustizia, s’impegnino insieme a dimenticare il sangue che oggi li divide. Quel giorno, noi che siamo insieme esuli nell’odio e nella disperazione, ritroveremo insieme una patria. 33 HIROSHIMA – Albert Camus Il bombardiere Enola Gay con equipaggio soddisfatto e sorridente. Enola Gay è il bombardiere B-29 Superfortress che il 6 agosto 1945, poco prima del termine della seconda guerra mondiale, sganciò sulla città giapponese di Hiroshima la prima bomba atomica della storia ad essere stata utilizzata in guerra, soprannominata Little Boy. A causa del suo ruolo nei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, il suo nome è stato sinonimo della controversia sui bombardamenti stessi. Enola Gay è il nome della madre del pilota, Paul Tibbets. «Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto.» Horacio Verbitsky, da Un mundo sin periodistas Certamente Albert Camus fu un giornalista molesto. La sua prosa appartiene a ciò che oggi verrebbe chiamato “politicamente scorretto”. Oggi, come allora, sarebbe stato messo al margine della cultura dominante sia dai nuovi Sartre che dai rinati Mauriac. I suoi articoli apparsi su Combat prima e dopo la liberazione di Parigi, sono la testimonianza della sua assoluta libertà di pensiero. Camus non ebbe mai nessun timore reverenziale. I primi anni di vita avevano generato in lui un’irriverenza verso il potere oggi introvabile nel mondo del giornalismo che sa sempre dove fermarsi per non urtare gli umori di quella casta, di quella lobby, di quella chiesa. Bastano alcuni titoli dei suoi articoli per comprendere da quale fuoco fosse temprato: A guerra totale resistenza totale, Hanno fucilato francesi per tre ore, La notte della verità, Il tempo del disprezzo. Dal primo del marzo 1944, scritto in clandestinità, che incitava i francesi alla resistenza, all’ultimo, del marzo del 1949 (che chiedeva di abolire una sentenza che ordinava di giustiziare due fucilieri algerini rei di diserzione per essersi consegnati – nove anni prima, con l’esercito francese allo sbando, insieme all’intero plotone, al nemico) Camus tenne sempre la schiena dritta di fronte al mondo dell’assurdo che gli era ostile. Fu sempre, fino all’ultimo minuto della sua troppo breve vita, un intellettuale contro: prima contro il governo fantoccio di Pétain colluso con il nazifascismo, e poi contro politici, papi, industriali, e i loro servi della propaganda giornalistica, che volevano restaurare lo stesso identico sistema sociale e lo stesso “sistema filosofico” precedente a quella guerra che aveva causato almeno cento milioni di morti. Albert Camus non è riuscito a fermare l’ennesima restaurazione di un potere che trae la propria origine dall’annullamento dell’altro da sé visto come facente parte di una natura da sfruttare. 34 Ciò nonostante rimane, per tutti coloro che vogliono fare giornalismo, un fuoco acceso su un lontano monte. Un fuoco da raggiungere prima che si spenga. Un fuoco al quale scaldarsi e ravvivare per il prossimo sconosciuto viandante che avrà il coraggio di avventurarsi in quei luoghi frequentati dalla verità. (di Gian Carlo Zanon) Questo articolo narra del suo solitario rifiuto alle “ragioni di stato” che portarono a quella shoah nipponica di cui nessuno parla più: Hiroshima e Nagasaky. Combat – 8 Agosto 1945, Editoriale di Albert Camus Il mondo è quello che è, cioè poca cosa. È quello che, da ieri, ciascuno sa grazie al formidabile concerto che la radio, i giornali e le agenzie di stampa hanno appena finito di organizzare a proposito della bomba atomica. I fatti, soverchiati da una folla di commenti entusiasti, ci insegnano che qualsiasi città di media importanza può essere totalmente rasa al suolo da una bomba della grandezza di un pallone da football. Giornali americani, inglesi e francesi si dilungano in eleganti dissertazioni sul futuro, il passato, gli inventori, il costo, la vocazione pacifica e gli effetti bellici, le conseguenze politiche e anche il carattere indipendente della bomba atomica1). Noi riassumeremo il nostro pensiero in una sola frase: la civiltà meccanica è appena giunta al suo ultimo grado di barbarie. Dovremo scegliere, in un futuro più o meno prossimo, tra il suicidio collettivo e l’impiego intelligente delle conquiste scientifiche. Nell’attesa, si può pensare che vi sia un certa indecenza a celebrare in questo modo una scoperta che si pone prima di tutto al servizio del più formidabile accanimento distruttivo di cui l’uomo abbia dato prova da secoli. Che in un mondo esposto a tutti gli strappi della violenza, incapace di alcun controllo, indifferente alla giustizia e alla semplice felicità umana, la scienza si consacri all’omicidio organizzato, nessuno ormai, a meno che non sia affetto da idealismo congenito, troverà modo di stupirsi. Scoperte del genere dovrebbero essere registrate, commentate per quello che sono, annunciate al mondo affinché si abbia un’idea plausibile del proprio destino. Ma corredare queste terribili rivelazioni con una letteratura pittoresca o caricaturale è davvero intollerabile. Già si respirava male in questo mondo tormentato. Ed ecco che ci viene proposta una nuova angoscia, che ha tutte le prerogative di essere definitiva. Sì, viene offerta all’umanità la sua ultima possibilità. Dopotutto, potrebbe fungere da pretesto per un’edizione speciale. Ma, più probabilmente, dovrebbe fungere da occasione per non poche riflessioni e molto silenzio. Del resto, ci sono altre ragioni per accogliere con riserva il romanzo di fantascienza propostoci dai giornali. Quando si vede redattore diplomatico dell’Agenzia Reuter annunciare che l’invenzione rende caduchi i trattati o prescritte le stesse decisioni di Potsdam e sottolineare come sia ormai indifferente che i russi trovino a Königsberg o la Turchia sui Dardanelli, non ci si può trattenere dall’attribuire a questo bel concerto intenzioni estranee al disinteresse scientifico. 35 Intendiamoci bene. Se i giapponesi capitolano dopo la distruzione di Hiroshima 2) e sotto il suo effetto intimidatorio, noi ne siamo felici. Ma non intendiamo far discendere da una notizia tanto grave altra decisione se non quella di perorare con ancora maggior forza la causa di una vera organizzazione internazionale nella quale le grandi potenze non abbiano diritti superiori a quelli delle piccole e medie nazioni e nella quale la guerra, flagello divenuto mortale per il solo effetto dell’intelligenza umana, non dipenda più dagli appetiti o dalle dottrine politiche di questo o quello Stato. Davanti alle prospettive terrificanti che si aprono all’umanità, ci accorgiamo ancora di più che la pace è la sola battaglia che meriti di essere combattuta. Non è più una supplica ma un ordine che deve salire dai popoli ai governi, l’ordine di decidere definitivamente tra l’inferno e la ragione. 1)Effettivamente, la lettura dei giornali ha un che di edificante. Si tratta essenzialmente di articoli scientifici sulla costruzione della bomba e sull’atomo. 2)Hiroshima viene bombardata il 6 agosto Nagasaki il 9 agosto. Questo articolo è dell’8 agosto. Da “Questa lotta vi riguarda, corrispondenze per Combat 1944 – 1947 “- Prima edizione Bompiani – ottobre 2010 36