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Relazioni pericolose
di
Farian Sabahi
Le ambasciate americane in Medio Oriente sono sotto assedio,
ora la politica estera degli Usa nel Golfo agisce con un bisogno costante di sicurezza.
i questi tempi non si può analizzare la politica estera americana in Medio Oriente senza tenere conto
di altre dinamiche attualmente in corso in altre parti del
pianeta. In primis quelle legate al fondamentalismo di
matrice islamica, come i tragici eventi a Bengasi, dove
lo scorso 11 settembre l’ambasciata statunitense è stata
presa d’assalto e quattro americani sono stati uccisi. Un
momento difficile, innescato da una pellicola ritenuta
blasfema nei confronti del profeta Maometto e prodotta
da un integralista copto residente negli Stati Uniti.
Mentre in Medio Oriente le ambasciate americane
sono sotto assedio e la priorità è la sicurezza, non bisogna sottovalutare l’esigenza degli Stati Uniti di “mantenere buoni rapporti con i governi islamici appena
eletti in Egitto e Tunisia e, al tempo stesso, indirizzare
gli alleati tradizionali come la Giordania, il Marocco,
l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo nella direzione di caute riforme”, osserva Matteo Legrenzi, professore associato di Relazioni internazionali e di Studi
sul Golfo Persico presso la School of International Relations dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Da questo punto di vista le monarchie del Golfo
sono percepite dall’amministrazione Obama come utili
intermediari con la maggior parte dei governi appena
eletti nei Paesi del Nord Africa. Come ha recentemente
dichiarato il collega Greg Gause dell’Università del Vermont, in futuro il Medio Oriente sarà “più islamico, più
democratico e più instabile”, e gli Stati Uniti dovranno
cercare un modo per gestire la nuova realtà proteggendo
i loro interessi energetici ed escogitando una soluzione
(o per lo meno un accordo) al conflitto arabo-israeliano.
“Rispetto al decennio scorso”, afferma Legrenzi che
ha scritto il volume The GCC and the International Relations of the Gulf: Diplomacy, Security and Economic
numero 44 . ottobre 2012
Coordination in a Changing Middle East (I.B. Tauris,
Londra, 2012, pp. 204, £40.25), “possiamo aspettarci meno interventi diretti degli Stati Uniti in Medio
Oriente: sembra che a Washington abbiano capito che,
quando si inizia una guerra, non sempre le cose vanno per il verso giusto. L’esempio dell’Iraq è servito di
lezione e ispirato la politica estera americana in Libia
ed ora in Siria. Anziché un nuovo conflitto armato, possiamo prevedere ulteriori sanzioni finanziarie nei confronti dell’Iran, volte a scongiurare un attacco militare
unilaterale da parte di Israele”.
B. Smialowski/AFP/Getty Images
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Il ministro degli esteri degli Emirati Arabi Abdallah bin Zayed
al-Nahyan, il ministro degli esteri dell’ Oman Yussef bin Alawi bin
Abdullah, quello del Kuwait Sheikh Sabah Khaled Al-Hamad
Al-Sabah, il segretario di stato americano Hillary Rodham Clinton,
il ministro degli esteri saudita principe Saud Al-Faisal,
il primo ministro del Qatar Sheik Hamad bin Jassim bin Jaber
bin Muhammad al-Thani, e il ministro degli esteri del Bahrain Khalid
bin Ahmed al-Khalifa, durante una foto di gruppo prima del Forum
US- Gulf Cooperation Council il 31 marzo 2012 a Riyadh.
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AFP PHOTO/A. Raldes
Secondo il professor Legrenzi, nel breve periodo “la
politica estera americana nel Golfo sarà ispirata dalla
costante necessità di sicurezza e da continuità, e quindi le basi nei piccoli Paesi del Golfo resteranno perché
sono una modalità relativamente poco costosa di proiettare il potere degli Stati Uniti in una parte molto importante del mondo mentre, al tempo stesso, il focus
strategico si sposta verso l’estremo Oriente”.
Eppure, dopo la condanna inaspettata e particolarmente severa a tre anni di carcere nei confronti del noto
attivista per i diritti umani del Bahrain Nabeel Rajab,
che il 16 agosto è stato ritenuto colpevole di aver istigato le proteste e di aver partecipato a numerose manifestazioni illegali, “mantenere la base della quinta flotta
in Bahrain sta diventando politicamente arduo perché
gli Stati Uniti non vogliono restare intrappolati nella
politica interna di un piccolo stato”.
Donne Aymara con la bandiera della Bolivia di fronte al palazzo
presidenziale a La Paz, durante la visita ufficiale del presidente
iraniano Mahmud Ahmadinejad, il 19 giugno 2012.
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Più in generale, secondo Legrenzi nel prossimo futuro “gli Stati Uniti inviteranno le monarchie del Golfo
a mettere in atto le riforme auspicate, lo faranno con le
dovute cautele, senza fare pressione. Quando si tratta
però dell’Arabia Saudita, le difficoltà sono maggiori.
Per famiglia reale saudita, è sempre più difficile presentare un’alternativa normativa alla democrazia al resto della regione. Possiamo aspettarci timide riforme da
parte delle monarchie produttrici di petrolio ma esse,
diversamente dal passato, probabilmente saranno ben
accolte a Washington”.
In questo contesto, l’Iran ha un ruolo importante a
causa del programma nucleare e della possibilità di un
conflitto aperto con Israele, ma anche per le difficili relazioni con i Paesi arabi del Golfo. In aperto contrasto
con gli Stati Uniti, fa notare Legrenzi, “i Paesi arabi del
Golfo sono più preoccupati dall’Iran come nazione che
dal regime attualmente al potere: è una potenza regionale vicina, di grandi dimensioni, abitata da quasi 80
milioni di persone. Per questo i Paesi arabi del Golfo
sono cauti e non desiderano tagliare i ponti con il governo della Repubblica islamica”.
“Sì al dialogo, ma con le spalle coperte dagli americani”: è così che Legrenzi definisce l’atteggiamento dei
Paesi arabi del Golfo nei confronti dell’Iran. A proposito della disputa territoriale per le isole Abu Musa e
le Tunb nel Golfo persico che erano state prese dallo
Shah alla vigilia del ritiro degli inglesi dalla regione nel
1971, “questa disputa non impedisce un miglioramento
delle relazioni, ma è piuttosto il barometro dei rapporti
diplomatici tra le due sponde del Golfo”.
Inoltre, analizzando la politica americana in Medio
Oriente non si può non tenere conto delle mosse diplomatiche compiute dai diversi Paesi mediorientali.
Nel caso dell’Iran vale la pena notare come la risposta
diretta di Teheran alla politica statunitense in Medio
Oriente sia stato il tessere nuove relazioni con l’America latina, una regione storicamente non prioritaria
per gli iraniani, che solo recentemente hanno avviato
nuovi legami politici e commerciali. Come ha osservato
un politico iraniano, “se Washington viene nel nostro
orticello (ovvero in Iraq e in Afghanistan), noi andiamo
nel suo (l’America latina)”.
east . rivista europea di geopolitica
Ad. Roque/AFP/Getty Images
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Il vice presidente iraniano Mohammad Reza Rahimi e quello cubano,
Marcos Rodriguez all’Avana.
S
econdo il professor Manochehr Dorraj della Texas
Christian University, “la crescente presenza iraniana
in America Latina ha dato adito a molta curiosità e congetture circa le ambizioni politiche di Teheran. Mentre
il Venezuela di Hugo Chavez resta l’asse principale,
l’Iran ha stretto contatti con i regimi populisti di Evo
Morales in Bolivia, di Correa in Ecuador, di Ortega in
Nicaragua, con il governo comunista di Castro a Cuba e
con il governo socialdemocratico del Brasile che mantiene buoni rapporti con gli Stati Uniti”.
L’Iran ha anche buone relazioni commerciali con alcuni alleati americani, come Messico e Argentina. Questo tipo di relazioni transcontinentali è stato oggetto di
speculazioni mediatiche e, a questo proposito, il professor Dorraj osserva che “i rapporti tra Teheran e l’America Latina risalgono ai tempi dello scià e in particolare agli anni Sessanta, quando l’Iran collaborava con il
Venezuela nella costituzione dell’OPEC e aveva stretto
legami commerciali minori con il Brasile e l’Argentina;
inoltre Buenos Aires ha contribuito a dare avvio al programma nucleare di Teheran”.
La rivoluzione del 1979 ha ovviamente imposto un
nuovo corso alla diplomazia iraniana. Il motto dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini “né est né ovest” ha aperto
l’Iran ad alleanze più ampie e facilitato legami commernumero 44 . ottobre 2012
ciali e diplomatici con Paesi in via di sviluppo, alcuni
dei quali in America Latina. Per la precisione, appena
dopo la rivoluzione islamica l’Iran ha rafforzato i legami con Cuba e con il Nicaragua. Sebbene questi regimi
siano socialisti e laici, “con la Repubblica islamica condividono l’anti-imperialismo, il terzomondismo e l’ideologia dei Paesi non allineati”.
Con l’ascesa dell’hojatolleslam Rafsanjani, presidente dell’Iran dal 1989 al 1997, la Repubblica islamica
ha cercato di rompere l’isolamento internazionale. Ma
è stato soltanto con Muhammad Khatami (1997-2005)
che sono state prese misure specifiche per espandere i
legami commerciali e diplomatici con l’America Latina: Khatami vi si era infatti recato due volte in visita di
Stato e il venezuelano Hugo Chavez gli aveva consegnato il Gran Collare dell’Ordine del Liberatore, un’onorificenza concessa anche al suo successore Mahmoud
Ahmadinejad.
Sotto la presidenza di Ahmadinejad (2005-), segnata
da un’ideologia populista e più attiva sulla scena internazionale, l’Iran ha espanso maggiormente le relazioni
con quei Paesi dell’America Latina che recentemente
hanno svoltato a sinistra, come il Venezuela di Hugo
Chavez, la Bolivia di Evo Morales, l’Ecuador di Rafael
Correa e il Nicaragua dopo il ritorno di Daniel Ortega.
Ancora una volta, a fornire il collante ideologico sono
stati l’anti-imperialismo, il fatto che siano Paesi non
allineati e decisi a costruire un mondo multipolare in
grado di sfidare l’egemonia americana.
Al tempo stesso, a giocare un ruolo sono state le relazioni personali, per esempio tra Ahmadinejad e Chavez. Inoltre, nell’ultimo decennio sia l’Iran sia i regimi
populisti dell’America Latina hanno visto l’espansione
delle relazioni con la Cina e la Russia per due motivi:
innanzi tutto per controbilanciare il tentativo di Washington di isolarli e, in secondo luogo, per riconoscere un ruolo maggiore di Pechino e Mosca sulla scena
internazionale. Tenuto conto di queste considerazioni,
per analizzare la politica americana in Medio Oriente
occorre perciò avere ben presente molteplici fattori, alcuni dei quali esulano dalla regione e possono essere
innescati dai fondamentalisti non musulmani, anche se
gli islamici non esitano a cogliere le provocazioni.
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