Frontiere N. 1 - Shanthi
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Frontiere N. 1 - Shanthi
Anno VIII N. 1/1 - Periodico quadrimestrale dell’A.M.I. Spediz. in abbonamento postale art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Filiale di Milano - Aut.del Tribunale di Milano N. 730 del registro periodici 10.11.2000 1/1 2007 CHI SIAMO EDITORIALE Frontiere si riorganizza MILLE E UNA NOTTE Racconti di malati di viaggi Le vie dei Venti L’ANIMA DEL VIAGGIATORE Club Magellano L’ANGOLO DEL NATURALISTA Zambia: il lago Bangweulu Argonauti Explorers DOSSIER Fiume Niger (parte seconda) Itinerari Africani ITINERARI INSOLITI Messico-Guatemala L’ultima fortezza dei Re Maya Argonauti Explorers RACCONTI PER IMMAGINI L’arte di ornare se stessi I popoli Nilotici tra Omo e Kibish Argonauti Explorers viaggi e passaggi segreti nelle terre degli uomini FRONTIERE ihtnahS inimou ilged erret ellen àteiradilos id iggaiv ARGONAUTI EXPLORERS - Associazione Culturale Nazionale - Milano Associazione di Viaggiatori, che vivono il viaggio come percorso di conoscenza, confronto e solidarietà; Luogo dove si progettano itinerari e dove conta lo spirito con cui ci si rapporta con le altre culture e non il “con chi si viaggia”, cioè da soli, con amici o in gruppo. Un’Associazione culturale che non organizza direttamente viaggi, ma si propone come supporto a chi li propone. Anche se il nome è legato alla risonanza di spedizioni di cui siamo orgogliosi, non per questo ci dedichiamo solo a cose “difficili”: più semplicemente cerchiamo originalità in ogni itinerario, in questo senso esplorando sentieri non scontati. www.argonauti.net; e-mail: [email protected]; Centro Documentazione: 02-799911 CLUB MAGELLANO - Torino Dall’800 in molte famiglie piemontesi si raccontano storie sullo zio o sul compaesano illustre vissuto “nell’altrove”: militari della conquista coloniale, missionari Salesiani o della Consolata, veri esploratori (Bottego, Allamano, De Filippi etc.). E’ da questi racconti che nasce la spinta piemontese verso l’irrequietezza? Dagli anni ’70 un gruppo di amici si aggrega prima attorno alla Marcopol, una piccola associazione che organizza viaggi avventurosi ed autogestiti, poi nel Club Magellano con un programma di foto, viaggi, cultura: un punto di incontro “storico” quindi, per viaggiatori della realtà e della fantasia. Circolo Dipendenti Comunali – Corso Sicilia 12 – Torino – Tel. 011-307066 (Anna Mina) ITINERARI AFRICANI - Cuneo L’associazione nasce nel 2003 da un gruppo di viaggiatori con lo scopo di promuovere e valorizzare sul territorio nazionale la cultura africana, proprio perché è indispensabile considerare il patrimonio culturale di un popolo, un bene da salvaguardare sopra ogni cosa. A tale proposito l’associazione realizza diverse iniziative che vanno dalle mostre tematiche, alla presentazione di libri, diaproiezioni, una rassegna culturale annuale dal titolo About Africa cronache di un continente, progetti di solidarietà e sviluppo in Niger e Mauritania. Donato Cianchini – www.itinerariafricani.net – e-mail: [email protected] – tel. 0171696721 LE VIE DEI VENTI - Varese L’Associazione, fondata nel 1993, si propone di aggregare persone accomunate dal desiderio di parlare di viaggi e di varcare così i limiti del proprio mondo, al fine di promuovere uno scambio di conoscenze ed esperienze. Documenti fotografici, ma soprattutto racconti, costituiscono testimonianze di un grande amore per il “diverso” e per l’ambiente, che passa attraverso i rischi, le sofferenze di coloro che ne sono stati di volta in volta i protagonisti. [email protected] – tel. 0332 231967; e-mail: [email protected] (Gianluca Torrente) MULA MULA - Pontoglio (Bs) Mula Mula è il nome dato dal popolo Tuareg ad un uccellino che le credenze popolari raccontano accompagni il nomade negli sconfinati orizzonti sahariani come portafortuna. L’Associazione, fondata nel 1998, propone la “divulgazione del viaggio come cultura” e come “Università della Vita”, suggerendo l’arte di convivere con altri popoli in modo responsabile, attraverso conferenze, racconti di viaggio, sostegno a progetti di solidarietà, quali la costruzione di pozzi nel Sahel. Tel. 030 7167244 (Lotti Brull) - e-mail: [email protected] OBIETTIVO SUL MONDO - Associazione Culturale L’Associazione è stata costituita nel 1992 da un gruppo di viaggiatori che intendevano proporre al pubblico i loro reportages. Non per protagonismo, ma come occasione per avvicinare culture diverse: un libro aperto per tutti coloro che lo vogliono leggere. Proiezioni, mostre tematiche e la pubblicazione di tre libri con il contributo CEE, hanno rappresentato un salto di qualità che ha consentito di allargare le attività ad altre città. Un’attività sempre più impegnativa, ma che non ha perso di vista la filosofia dell’Associazione. E.mail: [email protected] - Tel. 02-9466688 (Claudio Tirelli) SOMMARIO Mille e una notte: racconti di malati di viaggi - Le vie dei venti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’anima del viaggiatore - Club Magellano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’angolo del naturalista: Zambia: il lago Bangweulu - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dossier: Fiume Niger (seconda parte) - Itinerari Africani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Itinerari insoliti: Messico-Guatemala. L’ultima fortezza dei Re Maya - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Racconti per immagini: L’arte di ornare se stessi - I popoli Nilotici tra Omo e Kibish . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. pag. pag. pag. pag. pag. .... 2 .... 7 .... 9 . . . 12 . . . 18 . . . 20 In copertina: Bambino Surma Chai (Ethiopia - Kibish) - Roberto Pattarin - Sondrio All’interno foto di: Giovanni Barbieri, Sandro Bernes, Marco Bono, Giovanni Busetto, Donato Cianchini, Renato Civitico, Piergiorgio Derochi, Marco Di Marco, Pierfranco Montrucchio, Clara Monzeglio, Roberto Pattarin, Monica Pellegrino, Giorgio Sartirana, Gigi Toscano. F RONTIERE Editoriale Frontiere si riorganizza di Marco Di Marco Un forte elemento che unisce tutte le Associazioni che hanno dato vita a questa Rivista è l’idea che il viaggio non debba essere prodotto statico preconfezionato calato dall’alto, ma un processo in cui le competenze dei viaggiatori più esperti si coniugano con le inclinazioni, i desideri, le abilità, le conoscenze degli altri partecipanti nell’elaborare e portare a compimento insieme un progetto di percorso comune. Come si è già detto, per noi il viaggio non si esaurisce nelle poche settimane che ci vedono fisicamente itineranti. Del viaggio c’è un prima, un durante e un dopo, che tutti insieme compongono questa esperienza, le danno profondità, la dilatano nel tempo e nella nostra coscienza. Per noi si comincia a viaggiare quando, dopo i primi contatti, ci si trova, ci si sente, si scambiano consigli, suggerimenti e informazioni, si “pre-vedono” insieme, in un combinato di fantasia e concretezza, gli scenari. E, una volta ritornati, diventa fondamentale la rielaborazione di quanto abbiamo visto e provato e la sua condivisione, discreta, con altri. In questo senso la rivista è uno strumento che completa il viaggio. Ci consente di allargare la nostra esperienza a tutti coloro che hanno scelto un altro itinerario, oppure per motivi contingenti non sono partiti. Ci permette di proporre, ad altre persone, spunti e suggestioni per un futuro viaggio. Ci spinge a rielaborare i nostri ricordi, che arricchiti con altre forme di conoscenza – come la lettura e lo studio – possono rivelare implicazioni più profonde e dare più sostanza all’interpretazione del nostro vissuto. Perché tutto questo discorso? Siamo convinti che per “Frontiere” sia arrivato il momento di operare un ulteriore salto di qualità organizzativo, per offrire una proposta sempre più ricca ed articolata. A somiglianza dei nostri itinerari, la rivista vuole essere un momento progettuale ancora più aperto alla partecipazione dei nostri lettori e collaboratori, come veri “compagni di viaggio”. Sempre di più, dal prossimo numero la nostra redazione sarà un momento di coordinamento di contributi, che, lo speriamo, siano non solo il frutto delle nostre sollecitazioni, ma di un’incalzante propositività da parte di tutti i nostri amici. E’ questo un invito rivolto a tutti. Se l’idea vi interessa e volete collaborare con “Frontiere”, mettetevi in contatto con noi, fateci conoscere la vostra disponibilità collaborare. Se una volta ritornati da un viaggio, ritenete che valga la pena di comunicare le vostre esperienze, impressioni, approfondimenti, di avere insomma qualcosa di interessante da scrivere, fatecelo sapere. Inviateci anche suggerimenti riguardo all’articolazione, proponendo eventualmente le vostre competenze per colmare eventuali lacune. Noi raccoglieremo i vostri contributi, e sarà nostra cura armonizzarli nelle singole uscite della rivista. Da parte nostra contiamo di arricchire, già a partire dal prossimo numero, l’articolazione tematica: sul risultato vi chiederemo, puntualmente, di esprimervi. A me sarà affidato il coordinamento di questa attività. E adesso non ci resta che metterci in viaggio, con “Frontiere”! Per mettervi in contatto, questi sono i riferimenti: Marco Di Marco, cell. 3384161350, email [email protected]. F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi Da “il giro del mondo in 80 giorni” di Gianluca Torrente Vi consiglio di leggere il ventesimo capitolo del libro di Jules Verne “Il giro del mondo in ottanta giorni”, ormai divenuto un riferimento di questa rubrica sui racconti di viaggio. In esso si narra di una ferrovia che in appena sei giorni unisce con un nastro metallico ininterrotto, lungo non meno di 3786 miglia, New York a San Francisco. “La ferrovia che attraversa una regione ancora popolata dagli Indiani e dalle bestie feroci, fu costruita ad una velocità di un miglio e mezzo al giorno. Una locomotiva, muovendosi sulle rotaie poste il girono prima, trasportava i binari per l’indomani e correva su di essi man mano che venivano installati”. Questa breve descrizione mi fa riflettere sull’inaugurazione della linea Pechino-Lhasa avvenuta la scorsa estate: in appena 6 anni è stata costruita una linea ferrata che in 48 ore consente di raggiungere Lhasa sita a 4064 km. Con il suo picco massimo di 5.072 metri, la nuova strada ferrata supera di circa 200 metri la linea peruviana Lima-La Oroya quale ferrovia più alta del mondo. A bordo del convoglio, in grado di trasportare 300 unità, i passeggeri potranno usufruire di ristoranti, di una carrozza multimediale, sauna e massaggi in cabine pressurizzate. Invito i lettori di Frontiere a inviarci un racconto su un viaggio effettuato via terra fra Pechino e Lhasa: prima della costruzione della ferrovia s’intende! Sahara: un soffio nel nulla … (pensieri e divagazioni dal deserto) di Renato Civitico Stanotte il vento soffia con forza: è un vento freddo e violento che fa oscillare le pareti della tenda, riempiendole di sabbia. Al campo come sempre si va a dormire presto, anche stasera che è l’ultima notte dell’anno. Poco prima gli autisti hanno organizzato uno spettacolo ed uno di loro ha rischiato di diventare una “torcia umana” quando si è avvicinato al fuoco con una bottiglia ricolma di benzina. Ora c’è solo silenzio e ogni tanto il rumore del vento, che con le sue raffiche improvvise è un soffio nel nulla che spezza la pace infinita. Non per altro, ma c’è sempre un qualche meraviglioso rumore che unisce alla vita il ricordo del luogo. E’ già da tempo che decido di trascorrere alcuni giorni dell’anno nel deserto e quest’anno ho voluto visitare la regione algerina dell’Admer-Tadrart. Questo territorio lambito dalle sabbie nigeriane del Tènèrè du Tafassaset a sud e dal tavolato dell’Akacus libico ad est, rappresenta uno dei percorsi più interessanti che il Sahara algerino ci possa regalare. Perché il deserto? Punto di partenza è la splendida oasi di Djanet, “la perla del Tassili”. Di sicuro gli album fotografici, le foto e le riproduzioni di questi paesaggi hanno invogliato la mia scelta, ma è anche vero che in questi ultimi anni c’è stato un diffuso interesse per quest’area geografica. Nuove pubblicazioni, nuovi articoli e nuovi servizi televisivi hanno stimolato il desiderio di visitare il deserto e quest’anno ho trovato molta più gente del solito! Trovo “folla” nel deserto e mi domando se c’è una riscoperta collettiva verso questi luoghi o si tratta solo di una meta alla moda. Sicuramente i racconti, le sensazioni e le emozioni sulle 2 bellezze degli spazi solitari, sulle meraviglie dell’infinito, sul dilatarsi del tempo, sulla quiete e il silenzio nella solitudine hanno attirano molti. Ritengo però che queste non siano le sole aspettative a spingere verso una meta così diversa. Penso invece che siano altri i motivi che si celano dentro di noi, quando decidiamo di solcare queste terre: oltre all’aspetto romantico c’è anche un piccolo substrato di narcisismo. Una vaga vanità nel sentirsi superiori e vivi in condizioni estreme e inusuali, quasi un bisogno di riscoprire le proprie risorse sopite. Anche la mancanza di segni, di certezze, di idoli e di promesse possono invogliare. Il deserto allora diviene la pienezza del vuoto, come la negazione di ogni illusione. Una vita allo stato puro, fragile e felice, piena o assurda, un infinto presente in ogni istante: vivere questi momenti è vivere sicuri di essere puri perché non c’è né un prima né un dopo, c’è solo un momento, quello davanti a noi. E risorge l’idea di disintossicarci da tutto quello che ci ha circondato alla partenza. Dimenticare tutto per assaporare l’attimo. Il deserto e la sua dimensione viene riscoperta ciclicamente da più generazioni: da sempre i film illustrano questi spazi. Ripercorrono i secoli di storia o scelgono questi luoghi per ambientarvi avventure e racconti. Ci fanno ammirare le dune di sabbia o le oasi sperdute nel nulla, che simboleggiano nell’immaginario un luogo fiabesco, diverso. Sovente il deserto rappresenta anche la fuga dalla vita e dal quotidiano. In altre parole, uno degli ultimi luoghi naturali che è riuscito a sfuggire dall’impoverimento e dalla cementificazione delle nostre città. Ma questo spazio rappresenta anche un luogo di riferimento, che offre un’alternativa alla nostra società del consumo. Si parte sempre dalla scoperta del deserto come di un luogo ricco di significati mitici, ma poi il pensiero si evolve. Dopo qualche giorno trascorso a passeggiare tra le dune, dopo essersi lasciati cullare dal calore del sole pomeridiano o dal dolce scricchiolio del suono dei passi sulla sabbia, nasce la quintessenza che cerca in un altrove reale l’immagine di una vita più consona ai propri bisogni. Il deserto è il punto di riferimento contro la F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi fugacità della civilizzazione moderna, simbolo di un tempo statico e ciclico, opposto al senso animato di progresso. Questo ruolo d’immagine alternativa al mito di progresso non è nuovo ma tende ad essere rafforzato oggi dalla crisi dell’idea stessa di progresso, come testimoniano anche altre visioni di ricercatezza che sbocciano in un ritorno verso le più semplici origini della nostra società. L’idea di un posto tranquillo dove trascorrere un fine settimana o la ricerca di un ristorante che ci faccia riscoprire un piatto tipico della nostra tradizione, non sono forme molto più semplici ma analoghe? Più la società corre verso il suo futuro e più c’è voglia di fermarsi, per godere di attimi di purezza. Ripercorro con la mente i giorni appena trascorsi e scopro di aver avuto molto tempo durante l’arco della giornata da dedicare a me stesso. Le lunghe giornate trascorse in auto, la possibilità di osservare con tranquillità i luoghi e le piacevoli passeggiate sulle dune di sabbia all’imbrunire, hanno trasmesso calma alla mia mente. La fatica fisica che provo e la tranquillità di questi luoghi, si mescolano e mi fanno gioire di tutto quello che mi circonda. Sarà anche per questo piacevole clima e per un cielo sempre azzurro, ma il costante ripetersi di questa sensazione d’imperturbabilità, unita a questo paesaggio immutevole, allarga i sensi. Posso permettermi di osservare e pensare senza preoccuparmi del tempo che trascorre e rifletto anche sul fatto che spesso a casa trascorro intere giornate a dipanare situazioni e momenti nei posti più insensati ed inusuali. E una giornata come quella appena trascorsa, ben si può impigliare in un paesaggio all’apparenza vuoto. Popoli del Sahara I Mauri, i Tuareg ed i Toubou sono gli abitanti del Sahara. I Mauri, la “gente delle nuvole”, così chiamati per il continuo inseguimento delle rare piogge, sono gli abitanti della regione a nord della Mauritania e dell’ex Sahara spagnolo. I Tuareg, l’etnia più conosciuta e mitizzata sono gli abitanti della regione centrale del Sahara, mentre gli ultimi, i Toubou sono concentrati soprattutto nel massiccio del Tibesti, in alcune regioni del Ciad e nella parte orientale del Niger. Popolazioni quasi mai stanziali, nomadi sempre in cerca di pascoli e di pozzi d’acqua. Il nomadismo è il contrario della nostra vita quotidiana e rappresenta per un viaggiatore, il riappropriarsi della libertà. Il fascino per questi abitanti, unito alla loro storia, ed alle loro semplici abitudini aumentano d’interesse con il trascorrere dei giorni. Questa è pur sempre un’immagine di vita diversa, che si contrappone alle mie abitudini quotidiane e che genera entusiasmo nel riscoprire una diversa possibilità d’essere. L’essenziale che si contrappone alla quantità, con la scoperta di potersi accontentare anche di quel poco che mi sono portato dietro. Il nomadismo quindi assume il significato di leggerezza oltre a quello di spazio. Quest’oggi un uomo saliva lentamente sopra una duna di sabbia con un turbante sulla testa; aveva le mani lungo i fianchi, i passi regolari e camminava con lo sguardo rivolto verso l’alto. Ecco è questa l’immagine che ho ora nella mente, l’immagine di un uomo che in piena agilità cammina nella quiete di un paesaggio che non ha voglia di finire. Domani mi attenderà ancora un’altra giornata intensa di viaggio, con una lunga pausa all’ora di pranzo che dedicherò a camminare. E’ il solo esercizio fisico che mi è concesso durante l’arco della giornata, ma assume un significato di appagamento. Sulla sabbia si cammina faticosamente ed i piedi non sempre trovano un terreno duro quando sprofondano. Bisogna allora esercitare uno sforzo sulle gambe per poter proseguire. Sulla cima di una duna è bello poter scoprire nuovi orizzonti o ritrovare lo stesso identico paesaggio che hai lasciato alle spalle, idealmente però è incantevole pensare di poter proseguire all’infinito attraversando il silenzio. Tanti viaggiatori sostengono che durante un viaggio bisogna scrivere un diario per non lasciarsi sfuggire nulla, sia le piccole sfumature, sia le grandi immagini che si presentano davanti alla nostra vista. Rivivere attraverso gli appunti, quel luogo o quella particolare colorazione delle rocce è utile soprattutto al rientro, dopo aver accumulato molte immagini. Bisogna ricordare quel luogo e quello che si è provato, ma anche l’espressione delle persone e l’atmosfera che abbiamo trovato. Ecco, questa sera bisognerebbe raccontare anche questo vento così intenso ... ma questo è anche il grosso problema del deserto, perché quando si tiene un diario bisogna mettere dell’inchiostro sulla carta e qui è più difficile che altrove, perché bisogna dare un significato a tutto ciò che è attorno; e tutto quello che mi circonda non ha necessità, al momento, di essere trascritto. E’ un lento accadere quotidiano. L’affermazione della supremazia della scrittura ha poco valore qui, dove sembra che non accada nulla! Ho scoperto però che non corro il pericolo dell’oblio e mi sono accorto di aver memorizzato gran parte delle sensazioni provate. Durante la giornata è come un’istan- Algeria: Admer-Tadrart - Renato Civitico - Torino 3 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi tanea percezione duratura di gioia! Perché è così che ti prende il deserto, ti prende già dal mattino quando hai ancora l’anima addormentata e ti pianta dentro un’immagine che nulla te la toglie più. E con quest’immagine puoi rimanere a pensare per ore ed ore ed ore... “…. Ma la grande lezione del deserto, le regole fondamentali da seguire nel suo approccio sono sempre la pazienza, l’umiltà, la sottomissione alla realtà. Esercizio salutare per l’orgoglioso primate uomo, che si lascia troppo spesso tentare dal considerarsi il centro del mondo e il re della creazione, destinato a dominare un pianeta troppo spesso considerato una preda da saccheggiare senza tanti scrupoli più che una realtà da rispettare.” Théodore Monod GABON: Apollinaire e la “viande de brousse” Il piacere del “parlar grasso” Uno dei filoni sempiterni dell’ilarità nella cultura occidentale è rappresentato dalla scurrilità; forse per reazione ad un’educazione fortemente condizionate da una morale religiosa che censura come vergogna le funzioni corporali ed il sesso, il parlarne può assumere un significato trasgressivo. Anche farlo in modo scherzoso procura il sottile piacere di varcare la soglia del proibito. Il “parlar grasso” genera infatti euforia fin dall’infanzia, quando, pur non comprendendone sempre il vero significato, si riferiscono barzellette e parolacce che fanno “sentir grandi”. Fin dal Medio Evo questo filone ha inoltre rappresentato per le masse oppresse una modalità privilegiata per liberare tensioni, facendo satira, ironizzando, sbeffeggiando ed osando così criticare il mondo dei potenti. Quale che ne sia la motivazione profonda e la spiegazione razionale, stà di fatto che raccontare aneddoti legati al sesso ed alle funzioni corporali genera buonumore e scatena spesso irresistibili risate; per questo le barzellette su grandi “scopate” e grandi “cagate” riscuotono da sempre indubbio successo, perché divertono davvero e creano complicità, cameratismo e socialità di gruppo. Perché stupirsi allora se davanti al fuoco, sotto il cielo stellato africano, questi argomenti si affacciano in modo ricorrente, rilassando gli animi dopo intense e faticose giornate? Anche perché una delle maggiori virtù terapeutiche dei viaggi di avventura è quella di liberare la mente dallo stress provocato dalla complessità della vita moderna, per dirottare l’attenzione su pochi temi essenziali legati alla sopravvivenza. Il famoso motto “La dura vita del turista: mangiare, bere e cagare sulla pista” è certo poco fine, ma coglie una grande verità della mente del viaggiatore e per questo è senz’altro meno superficiale di quanto appaia. Perché allora, se raccontiamo sensazioni vere di viaggio, tacere di questa componente? Consci delle possibili critiche, rompiamo il tabù, osando infrangere per un momento il serioso bon ton di questa rubrica. di un eventuale più mirato ritorno. Al contrario del Cameroun, in questo periodo è stagione secca ed in effetti nelle due settimane di permanenza non piovve mai, consentendoci il transito su strade sterrate altrimenti impraticabili. Ma questa felice condizione, per noi indispensabile, ha un rovescio della medaglia non altrettanto gradevole: la grande umidità della foresta evapora sotto il caldo sole equatoriale determinando un tempo quasi sempre bigio, che toglie colore al paesaggio. La foresta senza sole, come i fondali marini, perde le sue sfaccettature cromatiche e con esse gran parte della sua bellezza. Nella stagione delle piogge per contro non ti sposti, ma gli squarci di azzurro sono più frequenti. Di quanto ciò cambi drasticamente le cose ed incida sullo stato d’animo del viaggiatore ne abbiamo avuta una chiara coscienza sul fiume Ivingo a Makokou: dopo un temporale mattutino si è aperto un grande squarcio che fino al tramonto ci ha regalato davvero il Giardino dell’Eden. Dorati raggi del sole si riflettevano con bagliori saettanti sulle spesse acque scure di tannino dell’Ivingo; bianche schiume si increspavano tra le rocce nella veloce corrente delle rapide; possenti muraglie di foresta primaria scintillavano di ogni tonalità di verde; uccelli di ogni colore volteggiavano su questo primordiale corridoio naturale. Raramente, nemmeno in Amazzonia, ricordo simili intense emozioni: e non è solo questione di impatto con la maestosità della natura, che già per questo la foresta equatoriale non scherza; conta anche la suggestione di essere in un posto particolare, perchè quel fiume viene davvero dall’ignoto e tu ne sei alle porte, ne senti l’eco ed il fascino, conscio che quella porzione di foresta tra Gabon, Centrafrica e Congo ancora nasconde larghi tratti inesplorati ed affascinanti misteri. Ma proprio perché siamo stati per un giorno in paradiso, non possiamo dimenticare le cupe tonalità che ci hanno accompagnato per il resto del viaggio, privandoci di analoghe sensazioni in altri posti di indubbia suggestione, come le cerimonie di circoncisione tra i Batoka di Okanja, le danze pigmee e Fang a Makokou, la struggente atmosfera dell’ospedale di Schweitzer a Lambarenè, i villaggi nella navigazione dell’Ogoouè, gli elefanti della giungla al Parco della Lopè (il Loango non esisteva ancora), le spiagge di Cap Esterias: tutti vissuti sotto una cappa uggiosa, che solo saltuariamente lasciava spazio ad un pallido sole lattescente. Le foreste del Gabon Agosto 1993: in coda ad un viaggio in Africa Australe, atterriamo a Libreville per stabilire un primo contatto col misterioso Gabon, un paese allora poco conosciuto e non facile, in vista Madame Germaine Se il Gabon non è facile da visitare per questi aspetti climatici non favorevoli, lo stesso spostarsi rappresenta qui un problema aggiuntivo non irrilevante. A quel tempo non vi era asso- di Roberto Pattarin 4 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi lutamente turismo (fummo ricevuti dal ministro per significare l’evento) e la possibilità di affittare mezzi era praticamente inesistente: il Gabon è sempre stato un paese caro, con un’economia drogata dal petrolio della costa: i pochi 4x4 sono affittati per lavoro da tecnici stranieri e diplomatici, mentre gli sgangherati taxi brousse che fanno la corsa tra un centro e l’altro dell’interno non hanno il concetto di affitto riservato e sono restii ad andare oltre il tragitto tradizionale. Anche adesso, dopo oltre 10 anni e numerosi reportage di lancio turistico, non risulta che le cose siano gran chè cambiate: le agenzie sono poche e carissime, il resto poco affidabile. Avevamo dovuto quindi arrangiarci, contattando un conoscente del Gabon che lavora in Italia che prenotò i mezzi per noi attraverso suoi parenti. Madame Germane, la distinta matriarca di un’importante famiglia di Libreville, alla quale eravamo stati indirizzati, era la classica Mama africana, che con piglio e decisione gestisce gli affari correnti per conto dell’intero clan e del marito, un ex ministro di grande cultura e di nobile portamento. La nostra dotazione consisteva in un pulmino, un 4x4 ed un pick up, tutti di proprietà della famiglia: del clan erano anche gli autisti, bravi giovani con cui si stabilì subito un buon rapporto di amicizia. Apollinaire e la viande de brousse Apollinaire, il ragazzone sorridente che guidava il 4x4, era il classico gigante buono: all’imponenza della corporatura, sottolineata dall’ampia tunica dagli sgargianti colori africani, corrispondeva una grande mitezza di carattere ed una grande ingenuità da bambinone. Nei lunghi trasferimenti vagheggiava le sue imprese nella “brousse”, nella foresta, il grande immaginario collettivo di misteri, sotto forma di spiriti e di animali feroci, che permea la cultura dell’Africa Equatoriale: quella volta che aveva affrontato il grande serpente o si era imbattuto di notte nel leopardo e nell’elefante. Mancando ogni conferma di queste gesta, da buongustaio quale era e la sua mole confermava, surrogava le sue prodezze sul piano culinario, descrivendo i manicaretti che erano usi preparare con la selvaggina cacciata. Per noi valligiani niente di strano, vista la passione con cui i valtellinesi descrivono i piatti a base di ungulati, marmotte e galli di montagna. Ma qui in questi racconti c’era anche un risvolto magico: era come se, cibandosi degli animali più strani, se ne assumessero le forze ancestrali, tanto più potenti quanto più raro era l’esemplare, rafforzandosi così con gli spiriti della foresta. Sapevamo quindi tutto delle ricette gabonesi per cucinare l’armadillo, il porcospino, mustelidi vari, topi giganti e serpenti. Supportato dal- l’amico che guidava il pick up, ogni qual volta ci si fermava in qualche villaggio nella giungla, scompariva tra i baracchini alla affannosa ricerca di qualche animale selvatico, che si faceva cucinare all’istante o che comprava per future occasioni. Era quindi con grande fierezza, come se le avesse cacciate lui stesso, e col sottile piacere di stupirci, che la mattina seguente descriveva il manicaretto di “viande de brousse” della sera prima. Quando poi trovava la viande de brousse già in pentola in qualche baracca del villaggio, si precipitava eccitato ad annunciarlo, chiedendoci ovviamente di prender parte all’ordinazione o quantomeno di assaggiare la delizia. Si tratta di una cultura radicata nel paese, visto che tutti gli astanti annuivano sulla prelibatezza di quei piatti. Solo l’autista del pulmino disapprovava, ma era della vicina Guinea Equatoriale, un immigrato quindi da un paese povero ed arretrato alla ricerca di lavoro nel ricco Gabon innaffiato di petrolio: veniva quindi da un paese della notte e non poteva apprezzare, non faceva testo ed il suo giudizio non veniva tenuto in alcuna considerazione. Gli effetti scatologici dell’armadillo Già qualche volta si era notato che questa dieta a base di selvaggina non sempre fresca, o forse gli ingredienti naturali che l’accompagnavano, sortivano effetti digestivi particolari: alcuni odori dolciastri aleggiavano nell’abitacolo, ma erano stati attribuiti al diverso odore della pelle, accentuato dal sudore e dall’umidità. Il fatto che qualche rutto postprandiale di porcospino avesse le stesse caratteristiche non era stato colto dal gruppo per la fugacità dell’evento. Io poi non posso esprimermi al riguardo, perché come noto sono anosmico (non sento gli odori) e devo quindi fidarmi del giudizio dei miei compagni di viaggio: sono quindi il meno adatto a questo racconto, perchè mi è più difficile entrare nei dettagli; ma per contro posso essere il più obiettivo, possedendo la dote della neutralità dell’osservatore esterno. Da due giorni eravamo nel Parco della Lopè: stavano Gabon: il Rio Ivingo a Makokou - Roberto Pattarin - Sondrio 5 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi costruendo un piccolo lodge grazie ad un progetto europeo gestito da un entusiasta cooperante italiano, che ci ha guidato nel Parco, in una splendido alternarsi di foresta, colline e savana, ad avvistare bufali ed elefanti, i famosi elefanti della foresta, più piccoli dei cugini della savana. I bungalows erano praticamente ultimati, anche se mancava l’arredamento: riusciamo quindi a pernottarci gratis con le nostre attrezzature da campeggio, ricambiando il favore con una invito al connazionale ad una lauta spaghettata “chez nous”, durante la quale veniamo messi al corrente dei progetti di ripopolamento che daranno prestigio al Parco; solo il gorilla, dicono, sarà inavvicinabile ancora a lungo, dovendosi ancora avvistare le famiglie ed iniziare un progetto di contatto. Prima di cena vengo chiamato da Apollinaire: gli autisti sono nelle capanne dei Ranger a preparare la “viande de brousse”, questa volta un armadillo acquistato due giorni prima sulla strada. A dispetto delle ricche ricette raccontate, questa volta l’animale era semplicemente stato scuoiato della corazza e messo a bollire in pentola. Declinato l’invito al desco con la scusa dell’ospite italiano, cui dovevamo l’ottima sistemazione (abbiamo praticamente inaugurato il lodge) li lascio al loro manicaretto. L’indomani ci congediamo dagli amici del Parco alla volta della costa; quel giorno mi tocca la macchina di Apollinaire: Clara davanti, Franca, Piffi ed io dietro. Già alla partenza vedo facce strane nei miei amici, che poco dopo si interrogano a vicenda circa la presenza di un certo qual odore; poco dopo un’inconfondibile impennata di tanfo viene identificata con certezza dai presenti come “loffa” (scoreggia silenziosa); alla prima esalazione ne seguono a breve molte altre ravvicinate, tutte prontamente registrate dal fiuto ormai in agguato dei miei compagni e debitamente commentate dagli stessi. Poi Apollinaire chiede scusa e ferma l’auto, allontanandosi dietro un cespuglio: il caso è adesso definitivamente chiarito e la sua soluzione viene ritenuta ormai prossima. Ma al rientro di Apollinaire nell’abitacolo il tanfo resta, anzi stranamente sembra più intenso; poco dopo altre folate portano gli astanti ad un concitato vociare, imprecando contro la putrefazione in atto della “viande de brousse”. I finestrini si abbassano convulsamente ad ogni poussès, ma quando il pericolo sembra ormai alle spalle e si richiudono i vetri, il problema resta. Dopo un’altra mezz’ora Apollinaire si ferma ancora e riscappa dietro gli alberi: ok, si spera che adesso sia finita per davvero. Nel ricomparire si nota che Apollinaire si gratta il sedere con la tunica, ma non ci si fa caso, ritenendolo un costume africano. Si riparte, ma il tanfo è ancora più forte; altri picchi olfattivi e relativi momenti difficili: ormai l’equipaggio è alla disperazione, tra urla, sonori commenti e convulsi di riso. Io che non sento gli odori sono ormai alle lacrime, mentre Apollinaire, di fronte a questi sonori scoppi di ilarità, risponde con composte risatine e sorrisi, cui corrispondono altrettante invettive da parte del gruppo. Ma quando si ferma per la terza volta è ormai chiaro che siamo di fronte alla vendetta dell’armadillo, che gli spiriti della foresta ne hanno fatto imputridire la carne nelle sue budella e stanno possedendo il nostro incauto profanatore di qualche tabù. Il clou della storia si ha tuttavia quando esce dal cespuglio e lo vediamo chiaramente pulirsi ripetutamente il deretano con la tunica africana. Realizziamo all’istante che il grattamento della volta precedente altro non era che un movimento postumo della stessa procedura e che in effetti non vi era traccia di carta igienica, né in macchina, né nelle sue tasche! I gorilla della foresta Mentre sbigottiti svolgiamo, ognuno da per sé, questo ragionamento, Apollinaire è già al volante e si riparte. Ma adesso abbiamo capito e la puzza adesso non ci prende più alla sprovvista: il tanfo di fondo è il vestito imbrattato di merda, poi schiacciata sul sedile. Finchè restiamo impegnati nella socializzazione di gruppo della diagnosi, siamo fieri di aver risolto il caso e non badiamo ad altro; ma appena accertata la dinamica, quando d’improvviso realizziamo che le esalazioni sono ormai irrespirabili, allora parte l’urlo collettivo liberatorio del “basta, aiuto, vogliamo scendere”. Mentre Apollinaire frena, il ragazzo che stava sul cassone ci picchia sul tetto di farci fermare all’istante: sulla collina, ben visibili, due stupendi esemplari di gorilla della foresta ci guardano circospetti. Ci fermiamo, li osserviamo e ci osservano a lungo, finchè dopo un bel po’ si allontanano guardinghi curandosi le spalle a vicenda. Sono splendidi ed abbiamo assistito ad un evento eccezionale, che gli stessi Ranger non avevano mai avuto l’occasione di vedere: non è infatti da tutti i giorni incontrare i gorilla della foresta. Non sappiamo se questo sarà in futuro un nuovo metodo per avvicinare questi rari primati, ma è invece un fatto confermato e si può quindi ben dire, che la merda porta fortuna. 6 Gabon: circoncisione Batoka a Okanja Roberto Pattarin - Sondrio F RONTIERE Club Magellano L’anima del viaggiatore Viaggiare con lentezza di Giovanni Barbieri Mi piace scrivere dei miei viaggi: per me viaggiare è soprattutto un modo di vivere. Si può viaggiare per tanti motivi: per infiniti interessi, per ampliare le proprie conoscenze, per ritrovare se stessi, per cercare un contatto diretto con la natura o con la gente. Un viaggio non inizia quando si parte, ma molto prima. Viaggiare significa sognare, vivere la futura meta attraverso le letture, la musica, la cucina, la storia. Viaggiare significa sognare sulle carte geografiche, riempire di progetti e aspettative le lunghe sere invernali, preludio del viaggio che verrà. Oggi non scrivo di un viaggio in particolare, ma del mio modo di viverlo “con lentezza”. Mi è venuto questo spunto perchè il 19 febbraio scorso si è celebrata la giornata mondiale della lentezza, dedicata a quanti hanno la sensazione che il mondo giri troppo in fretta per rimanervi in equilibrio. Sempre più persone abbracciano la filosofia slow, come testimonia il successo del movimento Slow Food, portabandiera della riscoperta della qualità della vita che, partendo dal cibo, tocca ormai tutti i luoghi e i modi del vivere. Per molti la velocità è scorretta e non fa più tendenza, anzi, la lentezza è vista come antidoto “contro il logorio della vita moderna”, come diceva Ernesto Calindri in una famosa pubblicità. Alcuni spunti su questa filosofia di lentezza li ho trovati nel libro del giornalista canadese Carl Honoré: “E vinse la tartaruga”. Per l’autore rallentare non significa ripiombare in una società medioevale che per principio rifiuta il progresso. La soluzione sta nel mezzo, nel riprendersi il proprio tempo, senza disdegnare le innovazioni, figlie della velocità, che ci permettono di migliorare la qualità della vita. Ormai, stare fermi senza fare nulla, o fare solo una cosa alla volta è ritenuto quasi un peccato mortale: ci siamo così abituati alla velocità che non sopportiamo la sosta al semaforo, la fila alla posta, il ritardo del treno, addirittura un secondo di attesa su internet ci sembra un’eternità. La frenesia della vita moderna e il nostro modo di spostarci da un paese all’altro, ci hanno fatto perdere il piacere di viaggiare, ormai superato dalla fretta di arrivare a destinazione. Il viaggiare non è semplicemente lo spostarsi da un posto all’altro, è importante anche “vivere” il tragitto che ci separa dalla meta. L’uso della velocità riduce sempre più il percorso di avvicinamento ad una perdita di tempo, il piacere di viaggiare è cancellato, ridotto quasi ad un tempo morto. Personalmente utilizzo il mezzo aereo per raggiungere il Paese che voglio visitare. Poi arrivato a destinazione cerco di evitare l’aereo per gli spostamenti interni, perché solo i mezzi pubblici mi permettono di capire un luogo e la sua gente. Treno, autobus e barca creano le condizioni per fare incontri insperati e conoscere la gente del luogo. Viaggiando lentamente si colgono dettagli che altrimenti si perderebbero, cambia anche il modo di porsi nei confronti della natura e delle persone incontrate. Viaggiando in questo modo non so quando arriverò a destinazione. Capita che i mezzi non partano affatto, che siano in ritardo, che non si fermino perché pieni, magari si aspetta senza sapere quando passerà il successivo. Ma viaggiando con lentezza, l’attesa di un bus, un ritardo non previsto, un problema meccanico sono più leggeri. Lentezza significa preferire il mezzo pubblico all’aereo, le piccole pensioni ai grandi alberghi, scegliere un ristorante frequentato da gente del posto, leggere giornali locali e libri che raccontano i luoghi che si vogliono visitare, acquistare guide alternative che non ci portino a trovarci tutti negli stessi posti. Magari una vacanza così finisce per essere meno bella da raccontare, ma sicuramente più interessante da vivere. Tanti mi dicono: “Viaggiare come fai tu è bello, ma ci vuole tempo”. Rispondo sempre che non è necessario visitare l’India o la Cina in dieci giorni, magari ci si può limitare ad una sola regione o a una parte limitata del Paese, ma il mio consiglio fa pochi proseliti. La superficialità non è colpa dei turisti, ma è causata dallo scarso tempo a disposizione. Il turismo moderno nasce con le ferie, e la loro brevità impone la velocità, non solo negli spostamenti iniziali, ma per tutto l’arco del viaggio. E la velocità impedisce gli incontri e la comprensione. Un bel libro di viaggio dove impera la lentezza è il libro di Tiziano Terzani: “Un indovino mi disse”. Il giornalista si ritrovò nel 1993 a viaggiare senza mai prendere un aereo. Prese questa decisione dopo che un indovino, nel 1976 a Hong Kong, gli disse: ”Fai attenzione! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai”. Sedici anni dopo, la profezia a lungo dimenticata, si ripresenta nella mente di Terzani, che decide di assecondarla. L’autore si sente stanco, dubbioso sul senso del suo lavoro e vede la profezia come un’occasione per guardare il mondo con occhi nuovi. Per un anno non prenderà aerei e andrà girando per l’Asia intera e poi fino a Firenze, senza mai volare. Il risultato è un libro che è insieme romanzo d’avventura, autobiografia, racconto di viaggio e reportage. Nel libro Terzani parla dei pensieri, delle tradizioni e delle condizioni di vita nel mondo orientale. Con malinconia racconta della vittoria della modernizzazione e dell’abbandono delle tradizioni, di usi e costumi che facevano dell’Asia il polo di un pensiero diverso, che ora irrimediabilmente, non è più. Non è passato così tanto tempo da quanto Terzani ha scritto In autobus sulla Via della Seta - Giovanni Barbieri - Varese 7 F RONTIERE Club Magellano L’anima del viaggiatore questo libro, eppure mi sembra che uno stile così sia perso nel tempo. Oggi un giornalismo così non avrebbe speranze e non troverebbe nessuna giustificazione o motivazione. Forse la nostra società attuale ci direbbe che Terzani è matto. Terzani mi ricorda il modo di viaggiare di Ettore Mo, il grande inviato speciale del “Corriere della Sera” che adesso, anche se in pensione, continua a girare il mondo in cerca di storie da raccontare. Ultimamente ha scritto due libri: “Treni” e “Fiumi”. Il primo è una serie di racconti a bordo di vecchie carrozze passeggeri e treni merci nei cinque continenti. Il treno è un vettore che gli permette di conoscere l’anima dei luoghi più remoti e impenetrabili, vivendo le storie e le emozioni di uomini e donne che li abitano. In “Fiumi” invece, il viaggio si snoda lungo i percorsi tortuosi di fiumi ricchi di storia: dall’India alla Cina, dall’Eufrate al Piave, dal Mississippi al Danubio. Alcuni racconti con esperienze di lentezza sono presenti sul sito web www.asiaroad.it. dedicato ai miei viaggi, eccone alcune. La bicicletta Negli ultimi anni ho scoperto un nuovo modo di viaggiare lentamente. La bicicletta è forse il migliore dei compromessi tra il bisogno di lentezza e la possibilità di percorrere distante notevoli. Al momento della partenza, dopo mesi di allenamenti, progetti e fantasticherie sui luoghi da visitare, provo una strana sensazione, composta da un misto di adrenalina e dal timore di non riuscire nel mio intento. Il viaggio è punteggiato da incognite che m’incuriosiscono e mi stimolano, ma appena salgo sulla bicicletta e inizio a pedalare, tutto acquista una nuova dimensione. Finalmente distanze, fatica, pioggia, vento, caldo e freddo, sono solo quotidianità. Porto con me tutte le mie cose, come una tartaruga che ha sulle spalle la propria casa. Pedalare per giorni mi regala serenità, benessere fisico e una strana illusione di libertà. L’Himalaya indiano da un finestrino Un’altra bell’esperienza di lentezza l’ho vissuta nella regione dell’Himalaya indiano, dove mi ero riproposto di viaggiare in autobus, o approfittando d’autostop su camion coloratissimi o su moto Vespa. Quando è stato possibile, ho cercato di dormire e mangiare nei monasteri, perchè volevo isolarmi dal mondo intero. Ero solo con la mente e con i miei pensieri: il camminare era una splendida panacea per liberare la mente affaticata da troppi pensieri e coltivare l’humus della scoperta. Volevo giornate scandite solo dal sorgere e dal tramontare del sole, dove trovare il tempo necessario per osservare, con ritmi non occidentali, quello che mi circondava. Cercavo questo, ed è stato ciò che ho trovato. La carrozzella a pedali In Vietnam, avevo il desiderio di salire su un cyclo – pousse, la scenografica carrozzella a pedali che ormai porta in giro quasi solo turisti, perché i cittadini di Hà Nôi, utilizzano scooter o moto taxi. Viaggiare sul sedile di un taxi a pedali rappresenta l’elogio della lentezza, si procede talmente piano da avere una prospettiva così diversa, anche rispetto a quando si cammina o si è in sella ad una moto. Cambia anche la cognizione del tempo: attorno a te tutto è frenetico, mentre tu non hai orario, tutto si dilata. Questo ritmo lento permette di osservare ciò che sfugge al viaggiatore che deve semplicemente coprire la distanza fra due punti. Il cyclo come metafora della vita, perché per capire che cosa sia veramente importante, occorre rallentare. Vorrei terminare con “Ode alla vita” di Pablo Neruda, un inno alla vita e al viaggio. Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia aiutare, chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità. 8 In bici in Indocina - Giovanni Barbieri - Varese F RONTIERE Argonauti Explorers L’angolo del naturalista Zambia: Bangweulu, l’enigma del leone d’acqua di Marco Bono L’immaginario del Continente Nero è particolarmente ricco di storie su animali mostruosi ed ignoti. Bangweulu significa letteralmente “Il luogo dove l’acqua incontra il cielo” in lingua pemba e le leggende narrano che in esso dimorerebbe un essere chiamato “chipekwe”, ovvero il “Leone d’acqua“. Sul finire del 19°secolo e agli albori del 20° molti esploratori udirono storie affascinanti su un essere dimorante in quelle acque, uccisore di coccodrilli ed ippopotami, la cui assenza non era sfuggita ai viaggiatori. Hagenbeck, un naturalista cacciatore, gran conoscitore della fauna mondiale e direttore dello zoo di Amburgo, era così convinto che dietro la leggenda ci fosse una specie ignota che organizzò una spedizione con l’intento di catturarla. Spedizione che si concluse senza alcun successo. Da Lusaka al Bangwelu sulle orme di Livingstone Affascinato da queste storie decido di compiere una spedizione sulle sponde di questo lago misterioso, ai confini tra Zambia e Congo. Il corrispondente da Lusaka, con molta difficoltà riesce a raccogliere notizie sulla mèta: si tratta di un luogo in cui pochissimi stranieri si avventurano. Trattasi, comunque, di una zona interessante dal punto di vista naturalistico, specialmente per l’avifauna. Il desiderio di acquisire elementi su questo mistero è molto forte. Da Lusaka sono necessarie 10 ore per raggiungere il limite delle paludi e 4 per attraversarle fino al camping Shoebill. Dopo alcuni posti di blocco si raggiunge il territorio detto “Bangweuli Swamps”. La caratteristica saliente sono i numerosi termitai, di dimensioni anche considerevoli: su uno sarebbe stato costruito un minuscolo villaggio di alcune capanne. Livingstone, che qui concluse i suoi giorni, descrisse la piana alluvionale del Bangweulu come “Un mondo di acqua e di termitai”: infatti durante la stagione delle piogge questa piana viene totalmente allagata e i termitai fungono da isolette rifugio per animali e piante, permettendo la sopravvivenza di vari semi di albero. La vegetazione è data da piante ed arbusti quali il cosiddetto albero delle salsicce o la Kigelia africana, talora organizzati in piccoli boschetti. Alle 4 del pomeriggio il nostro land rover lascia la strada principale addentrandosi nelle paludi, seguendo l’indicazione per il Livingstone Memorial. Lo sterrato totalmente accidentato è immerso in una fitta boscaglia di acacie e di cespugli inframmezzati da termitai che, di tanto in tanto lasciano il posto a qualche sparuto villaggio, i cui abitanti hanno le fattezze tipicamente congolesi; il grande paese è a pochi chilometri dal territorio che si sta percorrendo e in quel frangente è in corso una guerra. Mentre la savana si infittisce il cielo acquista la tonalità del tramonto d’Africa con una luce dorata che si espande fino all’estremo limite dell’orizzonte, mentre va- riopinti uccelli di ogni tipo svolazzano tra i rami. L’improvviso apparire di un piccolo lago sulle cui sponde si trova un piccolo camping conferisce un ulteriore tocco di bellezza a tutto questo insieme. Fatta una breve escursione incontriamo un gruppo di donne aventi tanti bambini piccoli con sé, si tratta di ragazze madri e vedove. Le informazioni su di loro riusciamo a recepirle con molta difficoltà, visto che loro non capiscono l’inglese e si deve quindi ricorrere al linguaggio dei sordomuti. La nostra guida ci narra le vicissitudini di alcune di loro, traducendoci dal loro idioma. Il territorio è sempre più arduo e la strada si fa sempre più tortuosa per cui non si riesce a trovare la via che porta allo Shoebill Camping, finalmente, reclutato un ragazzino di 14 anni riusciamo a farci indicare il sentiero perduto nell’intrico di paludi e fitta vegetazione, sono le 20 la notte è calata e l’aria si è fatta molto fredda. All’alba un piccolo camion ci conduce a fare un’escursione sino all’orlo delle paludi, si passa attraverso una sconfinata distesa di erbe alte leggermente ingiallite per la stagione secca con la costante presenza dei termitai. All’orizzonte si scorgono branchi di lecwe, l’antilope nera caratteristica di queste paludi, i branchi constano di alcune decine di individui. Dopo un poco il rumore di una fucilata lacera l’aria: si tratta di bracconieri. La savana si fa sempre più acquitrinosa, come un’immensa risaia; poi all’improvviso compare la palude vera e propria, estesa in totale come varie regioni italiane prese assieme. Oltre un canneto si trova una piccola canoa sulla quale si prende posto, i barcaioli remano ritti alla maniera di gondolieri veneziani. La piccola imbarcazione penetra un dedalo di canali circondati da un’intricata barriera di papiri e piante acquatiche; in certi punti la superficie dell’acqua è quasi totalmente ricoperta dalle ninfee, un vero eden in cui domina l’avifauna: aironi di ogni tipo svolazzano o si muovono lungo le sponde pronti a ghermire i pesci, più oltre si stagliano nitterie del Senegal o gru coronate. Una cicogna detta “Becco a scarpa” è simbolo di questo ambiente. Dopo essermi inoltrato nelle paludi con l’acqua gelida che mi arriva quasi al ginocchio ne avvisto una in lontananza mentre sta immergendo l’enorme becco in cerca di cibo, col binocolo riesco con difficoltà a discernere i particolari anche se mi sembra che abbia afferrato qualcosa di grosso, che la guida dice essere un protottero, il famoso pesce polmonato delle terre del rift. Zambia: il lago Bangweulu - Marco Bono - Milano 9 F RONTIERE Argonauti Explorers L’angolo del naturalista Il Leone d’Acqua Chiedendomi se la fortuna continuerà ad assistermi così, domando informazioni sul chipekwe. Le guide, dopo essersi consultate, mi rispondono che è più probabile raccogliere informazioni nella zona del lago vero e proprio situata intorno alla città di Samfia, capitale del distretto di Bangweulu. Mentre riattraverso la palude per tornare al campo base dello Shoebill mi salta all’occhio un particolare; per la prima volta in uno specchio d’acqua del Continente Nero non scorgo coccodrilli ed ippopotami: nel primo caso potrebbe trattarsi di un’abitudine di questi rettili carnivori, ma mancano anche i cavalli di fiume, che sono presenti anche nei più modesti laghetti. Questo fatto rimanda all’autore di un libro intitolato “Diciotto anni sul Bangweulu” della prima metà del Novecento J.Hughes, il quale, interogati gli indigeni su questa strana assenza, si sentivano rispondere che questo fatto si sentiva rispondere che coccodrilli e ippopotami erano terrorizzati dal “leone d’acqua” il Chipekwe. I succitati viaggiatori erano, tra l’altro, esperti conoscitori della fauna africana e di altri continenti, tuttaltro che disposti a farsi suggestionare dai miti degli indigeni, anche se è estremamente difficile concepire che un animale possa terrorizzare i coccodrilli e specialmente gli ippopotami capaci di rovesciare imbarcazioni. Un simile animale dovrebbe essere un pachiderma il che gli renderebbe impossibile passare inosservato. Cosa si può dunque supporre riguardo a questo mistero celato in queste paludi sterminate? Attraversate le paludi facciamo conoscenza 10 Zambia: le paludi del Bangweulu - Marco Bono - Milano con la popolazione locale che è amichevole, pacifica e felice di mostrarci le sue tecniche di pesca con piccole reti a canestro in cui restano impigliati soprattutto i pesci gatto. Attraversato il luogo in cui si trova il Livingstone Memorial si percorre la route north west che costeggia il confine congolese passando presso il fiume Luapula. Samfia, raggiunta a notte inoltrata, appare come un remoto e tenebroso avamposto di frontiera, immerso nella classica flemma africana. Si alloggia al Transport Hotel gestito dalla compagnia di navigazione lacustre . Al mattino il Bangweulu, che alla notte era una immensa distesa tenebrosa appare come un mare sconfinato dall’accesa tonalità blu scura che sotto il sole tropicale acquista uno scintillante sfavillio sulle creste delle onde in un modo simile a quello dell’ Atlantico. Al bar del Transport avviene un incontro fortuito con un ospite dell’hotel interessato a fare conoscenza con gli stranieri: si chiama Sidney, è laureato in biologia e lavora come biologo presso il dipartimento della pesca del Bangweulu con l’incarico di censire le specie ittiche dello sconfinato lago, soprattutto per quel che riguarda la loro capacità riproduttiva onde adeguare le attività di pesca con particolare riguardo alla protezione degli esemplari giovani. Dalla biologia ittica il discorso arriva rapidamente al Chipekwe: sulla veranda di un bar affacciato sul lago sconfinato color blu scuro bevendo birra ci si scambia le idee. Sidney con un certo orgoglio fa notare che quel luogo può essere considerato, per certi aspetti, il Loch Ness del continente nero, ma come nel caso scozzese, non vi è nessuna prova concreta. Davanti al Bangweulu Lodge sorge su una piccola spiaggia posta mezzo km fuori da Samfia: è una costruzione semplice dotata di un ristorante , un bar , alcuni bungalows e una zona camping. La spiaggia circostante ha un aspetto del tutto estraneo all’Africa assomigliando a un paesaggio del nord Atlantico. Intorno ad essa c’è una barriera di vegetazione, superata la quale si estendono soltanto paludi sconfinate. Questo sistema lacustre deriva dalle esondazioni del Luapula ed ha una profondità massima non superiore ai 15 metri. L’escursione nel cuore delle paludi tra il lago e il Luapula necessita di una certa preparazione tecnica, è infatti necessaria una barca a motore, una di quelle capaci di affrontare l’oceano, con un pilota e un tecnico del motore, una cospicua quantità di combustibile, alcuni permessi sotto forma di tassa governativa che Sidney si interesserà di farmi ottenere in breve tempo. Passati due giorni mi viene comunicato che la spedizione è fattibile e che il ricercatore verrà come guida. La partenza avviene il giorno dopo nei pressi del dipartimento ittico; a una stazione di rifornimento si carica il combustibile, quindi ci si imbarca dopo avere firmato la concessione. L’imbarcazione è situata nei pressi di un molo vicino all’albergo in una piccola insenatura a breve distanza dalle due enormi navi che giornalmente attraversano il lago: la Bangweulu e la Friendship, entrambe di fabbricazione norvegese, come il motoscafo da noi affittato. Alle dieci ci si imbarca e, dopo pochi minuti ci si trova soli nel cuore dell’immenso lago con la riva lontanissima che si intravede appena come una linea sottilissima. Il cielo si è fatto particolarmente nuvoloso per cui F RONTIERE Argonauti Explorers L’angolo del naturalista le acque acquistano una tonalità grigio scura, rendendolo particolarmente simile all’Atlantico del nord, un tipo di panorama che non ci si aspetterebbe mai di trovare nel cuore dell’Africa. Il motoscafo poi attraversa un breve istmo paludoso, oltre di esso si trova un piccolo laghetto satellite del Bangweulu, passato il quale c’è un posto chiamato Tiger Fish Haven. La mototobarca, solcando le onde create dal vento forte, raggiunge un tratto di costa coperto da una fittissima vegetazione palustre; dopo alcuni minuti il pilota si infila in uno stretto canale che procedendo si restringe per il graduale ispessirsi di canneti e di distese di papiri; più di una volta ci si deve arrestare per liberare l’elica dalle erbe impigliatesi, poi finalmente ecco il lago minore che, per l’aspetto, richiama il delta del Po, popolato da pescatori viventi in minute capanne ad utilizzo stagionale esclusivamente nella stagione secca. Tale ambiente ricorda quello della laguna veneta di secoli o millenni fa con un tocco di africanità. L’acqua ha il solito colore blu grigiastro interrotto sporadicamente da un raggio di sole che a tratti riesce a perforare le nuvole. Finalmente lungo la costa si delinea una struttura di capannoni di legno: il Tiger Fish Haven in cui sporadicamente soggiorna qualche studioso o ricercatore occidentale attratto dalla possibilità di rilevare qualcosa di interessante. Il lodge consta di alcuni bungalows molto spartani, una cucina self catering ed una piccola reception in cui risiede il guardiano. Quest’ultimo e un altro locale si fanno incontro a noi appena scesi a terra, entrambi hanno l’aria incuriosita di chi incontra molto raramente dei visitatori stranieri; quello che accompagna il guardiano è il maestro del villaggio. Costui, conosciuto il motivo della vista dice che da tempo circolano voci sulla presenza di un animale sconosciuto nelle acque del lago e delle paludi. Ma, prima di procedere nella ricerca, per rispetto alla tradizione locale bisognerà chiedere il permesso alla regina di quella parte del lago, visto che anche qui, come in molte altre parti dell’Africa, vige il matriarcato. Ci incamminiamo lungo un sentiero che porta verso la “sede regale”. Vengo edotto sul “protocollo” da seguire davanti alla sovrana. Attraversato un piccolo boschetto posto su una minuscola baia raggiungiamo dopo pochi minuti un villaggio maggiore degli altri al centro del quale si trova una grande costruzione di legno molto più ampia delle circostanti. Il pilota parla brevemente con un anziano che sedeva lì vicino che, alzatosi, entra rapidamente nella grande abitazione da cui dopo alcuni minuti esce una donna alta ed avvenente, al cui cospetto tutti si inginocchiano, compresi i miei accompagnatori che invitano anche me ad imitarli. La regina fa a me un cenno di avvicinarmi e al suo fianco si pone un uomo giovane: è il principe, al quale offro tabacco ed altri doni che dice di chiamarsi “Prince Felix”. Fattomi cenno di accomodarmi su una sedia che sua madre ha fatto portare, mi invita a parlare, tradotto dai miei accompagnatori. Conosciuto il motivo mi espone le sue idee. Nelle paludi di Bangweulu dimorerebbe transitoriamente e saltuariamente un animale strano il cui aspetto richiamerebbe da lontano quello di un sauro preistorico avvistato anche da alcuni suoi sudditi. Ma vivrebbe soprattutto nel lago Mweru, situato più a nord a ridosso della Repubblica del Congo nelle cui giungle e paludi sarebbe avvistato molto più di frequente. Quindi questo animale vivrebbe nei corsi acquatici che attraversano le immense foreste tropicali come i vasi sanguigni il corpo umano racchiudendo chissà quanti segreti ancora. Il Bangweulu in questo contesto sarebbe solo l’estremo confine di questa creatura criptica. La regina ci invita a trascorrere la notte nella sua dimora e alcune stanze vengono allestite apposta per l’occasione. Viene imbandita anche una cena a base di pollo e di pesce e gli abitanti si scatenano in danze tradizionali della loro comunità. Il giorno dopo, salutati gli illustri ospiti, ci si inoltra tra i boschi e la palude, ritornando al Fish Tiger con l’autorizzazione regale. Il maestro che ci aveva aspettato ci accompagna fino ad una capanna davanti alla quale stazionano parecchie persone soprattutto bambini disposti intorno a colui che ha tutta l’aria di essere il più anziano che cordialmente ci invita a sederci. I miei accompagnatori gli pongono alcune domande in lingua pemba traducendomi la sua risposta. Sì, nel lontano 1989 lui vide realmente uno strano animale sdraiato su una spiaggia lì vicino a crogiolarsi al sole; lungo cinque o sei metri di colore verde scuro, aveva la parte anteriore del corpo assomigliante a quella di un coccodrillo e la posteriore, invece, uguale a quella di un pesce, la pelle totalmente coperta di squame . L’anziano pescatore ha tutta l’aria di essere sincero, non essendoci del resto alcuno motivo per montare una storia fasulla, vista la scarsa praticabilità della zona dal punto di vista turistico. Ma, allora, in questo caso, di quale tipo di animale potrebbe mai trattarsi? Quale specie potrebbe avere questo aspetto ibrido? Cosa potrebbe essere una simile chimera? Forse un qualche tipo di dipnoo (pesce polmonato) molto diffusi nel continente nero, giunta al gigantismo, come succede spesso nei pesci. Ed è lo stesso animale, che in altre aree viene chiamato Mokele Mbembe, Nyala o Dingonek? E perché nel Bangweulu non si trovano coccodrilli ed ippopotami? Come farebbe questo ipotetico animale a costringerli alla fuga? Qualunque sia la risposta a questi quesiti è un enorme piacere apprendere come in un‘epoca che vede un sempre crescente numero di specie minacciate di estinzione possano esisterne altre ancora da scoprire. Zambia: i papiri del Bangweulu - Marco Bono - Milano 11 F RONTIERE Itinerari Africani Dossier Il bacino del fiume Niger - Seconda parte Nella prima parte di questo Dossier, pubblicata sul n.9 di Frontiere, abbiamo affrontato il contesto geografico e culturale della parte orientale del fiume Niger. Proprio qui infatti le grandi migrazioni arrivarono dal Nilo, trovandovi la possibilità di una nuova vita. Si narra infatti che una parte della diaspora del Regno Nubiano di Kush (Meroe), a seguito della sua distruzione ad opera degli Axumiti nel 300D.C., si diresse verso ovest, attraversando il Darfur fino al lago Tchad e da qui al fiume Niger. I Peuls, che ne sarebbero i discendenti, hanno poi risalito il suo corso fino alle sorgenti, portando con sé, nell’incontro e nel rimescolamento con le popolazioni locali, quei caratteri nilotici che ancora li contraddistinguono, come se una cultura millenaria, quella egizia, avesse trovato il modo di sopravvivere a sé stessa. Abbiamo allora affrontato le relazioni tra deserto e sahel dal Tenerè, con le sue oasi e le sue saline attraversate dalle carovane Azalai Tuareg e Toubou, alle grandi praterie dei pastori nomadi Peuls, fino alle regge in banco Haoussa, ai confini con Benin e Nigeria. La seconda parte è invece dedicata al tratto più a monte, dalle sorgenti in Guinea al lungo tratto orizzontale che attraversa il Mali fino a Gao, oltre la grande ansa di Timbouctou. Si tratta del cuore geografico, storico e culturale del fiume Niger, anche per la presenza di un unicum ambientale che tanto ha influito sulle relazioni economiche e sociali tra deserto e sahel: il delta interno del Niger. Solo un cenno viene invece qui riservato alla cultura Dogon, la cui complessità ed interesse suggeriscono una trattazione a parte. Il fiume Niger di Roberto Pattarin Il fiume Niger nasce dai Monti Loma, nell’altopiano del Fouta Djallon, nell’attuale Guinea Konakry. A meno di 10km dalle sue sorgenti sgorga il Sewa, che invece corre a sud in Sierra Leone ed in soli 250km si getta nell’Atlantico; il Niger, che piega invece a nord, impiegherà ben 4.200km per raggiungere l’Oceano. Il suo corso punta infatti a nord, verso il Sahel, che costeggia nella sua fascia esterna in direzione nord ovest fino a Timbuctù, dove forma una grande ansa, per poi piegare verso sudest per raggiungere l’Oceano nel Golfo di Guinea. Politicamente, dalle sorgenti in Guinea scorre per il suo tratto maggiore in Mali e dopo la grande ansa segna il confine col Niger, il Burkina Faso ed il Benin, per aprirsi infine un varco verso le foreste tropicali ed i pozzi di petrolio del golfo del Biafra. Le sorgenti nel Fouta Djallon E’ un verde altopiano sui 1.500mslm con al centro la città di Labè, regione rinomata fino dall’era coloniale per il suo clima fresco ed i suoi spettacolari panorami. Scendere dai verdi pascoli alla fascia costiera della Guinea Konakry, un paese ancor 12 Guinea Conakry: le sorgenti del Niger nel Fouta Djallon Roberto Pattarin - Sondrio oggi assolutamente non aperto al turismo, come abbiamo fatto nel ’92, è una esperienza davvero emozionante: splendide cascate scendono dai grandi picchi verso la densa foresta dando origine ad un ambiente unico ed affascinante Il Delta Interno L’erosione dei millenni ha asportato dal cratone dell’Africa Occidentale, la grande formazione precambriana cui appartiene il Fouta Djallon, una delle aree più antiche della crosta terrestre, grandi quantità di materiali, facendo affiorare vene metallifere e creando grandi depressioni, come la sinclinare di Taoudenni, nella quale le acque del Niger si sono convogliate seguendone il decorso verso nord ovest. Ma quando vira a nordest attorno all’altopiano di Bandiagara (Falaise Dogon) il fiume scende di soli 10 metri in 200km: il rallentamento che ne deriva crea un delta interno di vaste proporzioni, tra Segou, poco oltre Bamako, e Niafounkè, alle porte diTimbouctou. Il Niger, come il Nilo, attraversa zone calde a scarsa piovosità e risente quindi di grandi evaporazioni; il fatto che anche lui sia caratterizzato da piene stagionali, dipende quasi esclusivamente dalle forti precipitazioni alle sorgenti. Ma se il Nilo trasporta dagli altopiani più recenti e friabili dell’Africa Orientale circa 770 grammi di sedimento per metro cubo di acqua, il Niger riesce ad erodere al vecchio cratone occidentale solo un decimo: 75 grammi. Meno sedimento quindi, meno limo, meno fertilità. Quando a settembre il fiume comincia a crescere, le acque seguono sinuosi canali e inondano le terre circostanti, creando stagni, lagune e paludi: all’apice della piena del Niger e del suo maggior affluente, il Bani, agli inizi di novembre, vengono inondati 30.000km2 di arido Sahel, un’area pari al Belgio. A maggio invece il delta è di nuovo asciutto e perfino i maggiori tributari si restringono a meno di 10 metri di larghezza e mezzo metro di profondità. La lieve pendenza crea un innalzamento ed abbassamento molto lento del livello delle acque, così che le aree più elevate e distanti restano allagate per non più di 2 mesi l’anno, mentre quelle più basse possono restare anche 6 F RONTIERE Itinerari Africani Dossier mesi sotto 3 metri d’acqua. Spandendosi sul terreno arido, le acque si arricchiscono di elementi nutritivi minerali e vegetali di decomposizione di piante ed escrementi animali che generano un’esplosione di batteri, alghe e plancton che favorisce la crescita di erbe (bourgou) e riso selvatici (fino a 17 tonnellate di erbe e 10 tonnellate di riso per ettaro). La prodigiosa fecondità del delta consente all’uomo particolari strategie produttive, tra agricoltura, allevamento e pesca. Gli agricltori seminano il riso in agosto, prima della piena; raccolgono con le canoe quello selvatico ed altre erbe del bourgou ad ottobre nel corso dell’inondazione; a gennaio col ritirarsi delle acque seminano mais e sorgo sui terreni umidi appena riemersi e successivamente raccolgono il riso. Gli allevatori hanno invece problemi opposti: pascolano le mandrie nelle praterie a nord del Niger al tempo delle piogge, da aprile a settembre, per ripiegare a sud nella stagione secca. Due volte l’anno devono quindi attraversare il fiume, in un senso o nell’altro, col rischio di interferire con i tempi agricoli e di scatenare conflitti. Ma proprio a ottobre, prima della piena, le vacche troveranno le stoppie del recente raccolto di mais e sorgo, mentre a maggio, il ritiro delle acque lascerà scoperte una nuova fonte aggiuntiva di stoppie e bourgou proprio nei mesi di maggior penuria. La presenza delle mandrie nei campi coltivati concima d’altronde il terreno e spargerà anche a distanza con le inondazioni batteri e sostanze nutritive, a loro volta decisivi per una crescita esplosiva della vegetazione e degli alimenti vegetali. Mali: la trasumanza sul Niger a Diafarabé - Donato Cianchini - Cuneo Per i pescatori infine l’inizio del deflusso è la stagione migliore per la pesca, che essicano e rivendono ad agricoltori ed allevatori in una perfetta economia di scambio. I rapporti FAO parlano di 50.000 pescatori con un bottino di 1.66 tonnellate di pesce a testa. Infatti la piena libera il pesce, che cresce rapidamente per l’enorme esplosione di alghe e plancton; quando le acque calano e la popolazione è al massimo, la competizione alimentare è al massimo e le più grosse specie carnivore si appostano all’imbocco dei canali in attesa delle prede. Il delta non è tuttavia un Eden ai bordi dell’Inferno; la sua ricchezza è indubbia, ma purtroppo instabile, fortemente condizionata da ampie variazioni annuali di quantità di piogge, in loco ed a monte, quindi di date e livelli di piena a valle. E poiché la quantità che evapora è la stessa, riduzioni delle piogge del 15% possono produrre un calo del 33% del volume d’acqua nel delta. Ma proprio questa imprevedibilità, che altrove avrebbe acuito le tensioni tra gruppi, qui ha invece favorito un rapporto cooperativo tra diverse specializzazioni. La data di attraversamento delle bestie, ovunque fonte di attrito tra agricoltori ed allevatori, diviene qui una occasione di attenta concertazione. Ogni anno complesse e fini discussioni si tengono con largo anticipo, fino a determinare l’esatta data della transumanza di milioni di capi attraverso il fiume. E’ questa l’occasione per una forte sinergia ed incontro: ad ottobre ed a maggio gli allevatori arrivano al fiume: in cambio del concime ai campi e di carme comprano farina e riso dagli agricoltori e pesce secco dai pescatori, che fanno l’inverso. E’ il tempo delle feste, dei matrimoni e dei cantastorie Griots: adesso come nei secoli passati. 13 F RONTIERE Itinerari Africani Dossier Per sfruttare l’ambiente del delta, che tanto dà, ma in poco tempo, non era appropriata la monocultura, perché poco efficace, né la polivalenza, perché poco efficiente: occorreva specializzazione e diversificazione. Un esperimento sociale di grande interesse, ma molto complesso, perché presuppone sinergia e non conflitto: non è un caso che i miti, le leggende e le storie dei Griots parlino più di obblighi verso gli altri che di diritti e quando raccontano di guerre, più che di onori dei vincitori, enfatizzano i guai per tutti conseguenti. Gli altri esempi al mondo di simbiosi fra gruppi prevedono che ognuno occupi nicchie distinte, sia in termini lavorativi che territoriali, e si incontri solo per lo scambio. Qui invece la vicinanza e la contiguità sono stretto, la tolleranza grande, visto che a ognuno è consentito mantenere i propri caratteri distintivi (acconciature, scarificazioni, abbigliamenti, matrimoni frequenti, senza assimilazioni. L’identità etnica, così spesso elemento separatore gravido di conflitti nella società moderna, e qui invece anche fattore unificante ed aggregante. Jenne-Jeno e Timbouctou Le prime popolazioni giunsero nel delta dal Sahara in progressivo inaridimento verso il 500 AC; Jenne-Jeno è un tipico tell, una collinetta che nasconde i resti di un villaggio. Datano all’800 DC terrecotte, abilità artigianali in ferro, monili di oro e rame; manufatti di origine lontana suggeriscono la presenza di grandi scambi. Non si nota invece nessun segno di gerarchie sociali autoritarie, come mura e monumenti di casta. I 27.000 abitanti, molti per l’epoca, erano invece organizzati in 25 collinette, ognuna caratterizzata da manufatti particolari: una città 14 Mali: donna Bozo a Djenné - Roberto Pattarin - Sondrio Guinea Conakry: donna Fulani - Roberto Pattarin - Sondrio organizzata in quartieri specializzati (pescatori, fabbri, agricoltori, vasai, tessitori). Anche qui gruppi etnici diversi, accomunati da credenze religiose condivise, vivevano vicini, ma non assimilati, senza bisogno di un’autorità superiore di dominio, regolazione e controllo. Specializzazione e diversità etnica, ma potere coesivo dell’integrazione, con miti e credenze condivise, che sottolineavano sia l’identità che l’interdipendenza. JenneJeno durò dall’800 al 1300, poi crollo: cambiamento climatico? Fattori esterni come l’islam? O la peste arrivata con le carovane nel XIII secolo? Si ritiene che ad introdurre il cammello nelle vie sahariane siano stati i progenitori berberi degli attuali tuareg tra il II e il V secolo DC. Nell’800 70.000 carichi di sale partivano da Tichit, Teghaza e Taoudenni per il fiume Niger. Due volte l’anno migliaia di cammelli si radunavamo a Timbouctou e le Azalai, le carovane del sale, si snodavano per 50km su un percorso di 800, riportando 5.000 tonnellate di sale l’anno. Era pura salgemma in lastre da 30kg, come lapidi di marmo. Ancora nel 1990 nelle miniere di Toudenni lavoravano gli schiavi, neri indebitati: 6 giorni di lavoro, il settimo per loro; se non estinguevano il debito e morivano, toccava ai figli. (Fellah). Ed il fiume lo trasportava prima con imbarcazioni ricavate dai tronchi, poi con chiatte a Djennè o Gao, quindi in mulo nelle foreste del Ghana e Costa d’Avorio Mali: barche Bozo a Mopti - Donato Cianchini - Cuneo F RONTIERE Itinerari Africani Dossier Mali: crocevia di storia e cultura di Monica Pellegrino e Donato Cianchini Il quadro storico In virtù di una posizione geografica privilegiata, il Mali ha da sempre evocato ricchezza, potere e sapere. In questa zona dell’Africa occidentale dal 300 a.C. al XIV secolo, si sono succedute grandi dinastie e regni potenti che condizionarono la vita sociale, politica e culturale, divenendo il punto di convergenza dei traffici carovanieri fra l’Europa e l’Asia. Tre grandi imperi dominarono in epoche diverse. Quello del Ghana (dal 300 a.C. al XI secolo), quello degli Askya-Songhai (dal XIV al XVI secolo) e quello del Mali (dal 1.240 al 1.500). Grazie all’oro e al commercio sahariano, contribuirono a rendere immortale la storia di questo paese. Si racconta che l’imperatore Kankan Moussa durante il suo viaggio alla Mecca dal 1324 al 1326, portò con sé 150 kg di oro, elargendolo in tutti i luoghi del suo passaggio. Questa prodigalità diffusa, fece crollare il valore della moneta egiziana per diversi anni! Il prestigio del Mali superò presto i confini sahariani spingendosi fino alle coste del Mediterrraneo. La città di Timbuctù che verso la fine del XVI secolo contava più di 100.000 abitanti (oggi solo 15.000!), divenne il centro commerciale e culturale più importante del Sahara. Il quadro geografico In Mali la maggior parte dei luoghi traboccano di storia, miti e leggende. Altri sono pervasi da un alone mistico, quasi irreale. Le città, e i villaggi sparsi nelle piane del Sahel, offrono calore umano, e nei giorni di mercato, una profusione di odori e colori vivaci. Molteplici sono gli spunti interessanti per programmare un viaggio in questo lembo d’Africa. Territorialmente il Mali si estende tra i rilievi dell’Africa guineana a sud e i massicci del Sahara centrale a nord. Nella fascia intermedia nota come Sahel, vaste pianure di arbusti e graminacee si estendono all’infinito. E’ il luogo ideale per i pastori Fulani che nomadizzano con le loro mandrie alla perenne ricerca di nuovi pascoli. Tra il villaggio di Markala e il lago Faguibine, una vasta area depressionaria accoglie le acque del fiume Niger dando origine all’ampio delta interno. Tra luglio e gennaio le piene raggiungono questa regione inondando i terreni per una superficie pari a 54.000 kmq. Le inondazioni sommergono i campi coltivati costringendo i pescatori Bozo a spostare i loro insediamenti. Il delta si trasforma in uno straordinario universo acquatico. Il fiume Niger è per i maliani il Djoliba il grande sangue mentre i Tuareg lo chiamano il Gher-n gheren, il fiume dei fiumi. Nasce dalle viscere montagnose del Fouta Djallon in Guinea, e attraversa per 1700 chilometri navigabili il territorio maliano unendo tutte le maggiori città, dalla capitale Bamako a Segou, da Mopti a Timbuctù fino a Gao. Il fiume regola la vita e condiziona il carattere delle diverse etnie che vivono in contatto con esso. In particolare quella dei pescatori Bozo, dei pastori Peul e degli agricoltori Bambara, Bobo e Songhai. Come nell’antichità, il fiume è un’importante via di comunicazione solcata da innumerevoli imbarcazioni che trasportano ogni tipo di mercanzia, dal pesce essiccato al legname, dalle lastre di sale alle stuoie vegetali. Si naviga su piroghe affusolate che scivolano via leggere e silenziose, oppure su quelle a motore, chiamate pinasse, utilizzate anche dai viaggiatori per addentrarsi nelle innumerevoli diramazioni del delta, attraverso villaggi rivieraschi di rara bellezza in un paesaggio fluviale dove si alternano dune di sabbia e campi coltivati. Dal porto di Mopti ci sono 2 solu- Mali: mercato a Djenné - Monica Pellegrino - Cuneo 15 F RONTIERE Itinerari Africani Dossier zioni: volgere la prua a nord in direzione di Timbuctù, oppure a sud/est per raggiungere in 2 giorni di navigazione il villaggio di Diafarabé, dove tra novembre e dicembre c’è la grande transumanza dei pastori Peul. La traversata di Diafarabé Quando le regioni del nord sono preda della siccità, i pastori Peul tornano nei villaggi d’origine oltrepassando il fiume Niger. Grazie all’abbassamento del livello delle acque, si scoprono ampie distese erbose ricche di una tipica graminacea anfibia, il burgu, che attira migliaia di bovini. L’attraversamento con le sterminate mandrie, rappresenta uno spettacolo imperdibile. E’ un momento d’incontro e di festa per intere generazioni che si ricongiungono dopo aver trascorso lunghi periodi nelle assolate piane del Sahel. E’ sempre dalla riva opposta al villaggio di Diafarabé che ha inizio il grande evento. Poi, in rapida successione, tocca altri paesi rivieraschi della zona del Macina. In questo periodo si ha la possibilità di ammirare la più alta concentrazione di animali di tutto il paese! Un ulteriore motivo per cui vale la pena di visitare il Mali è l’architettura d’argilla con cui sono costruite le abitazioni e le antiche moschee, meglio conosciuta come architettura sudanese. Grazie all’abilità di sapienti muratori che si tramandano il mestiere da generazioni, si realizzano tipiche costruzioni con solide pareti, utilizzando elementi naturali come l’argilla, la sabbia e la paglia. L’invasione marocchina del 1591 contribuì ad arricchire ulteriormente le facciate con finestre intarsiate e variopinte, mentre i soffitti d’argilla, furono sostituiti con listelli di legno regolari. Sia le città che i minuscoli villaggi conservano esempi di queste singolari costruzioni. Meritano senz’altro una sosta Mopti, Segou e Gao, ma anche Segoukoro, l’antica culla del regno Bambara del XVIII secolo, il minuscolo villaggio di San e quelli di Sirimiu e Senousa nel delta del Niger. Djenné, la città d’argilla Uno stretto ponte consente di superare le calme acque del fiume Bani, affluente del Niger, che circonda Djenné una delle più belle ed antiche città del Mali. Fin da epoche remote, Djenné era menzionata e descritta con dovizia di particolari da mercanti e viaggiatori celebri come Ibn Battuta, René Caillié e dal genovese Malfante, che nel 1447 aveva compiuto un viaggio di 16 Mali: lago Faguibine a Timbouctou - Donato Cianchini - Cuneo esplorazione nel Tuat. Fondata attorno al IX secolo da alcuni pescatori Bozo, deve la sua fortuna al sacrificio di una giovane vergine di nome Tapama, murata viva tra le mura di cinta. All’ombra dell’antica Djenné-Djeno, primo insediamento del III a.C., poco o nulla è cambiato con i quartieri e le case costruiti in “banco” (misto di argilla e paglia), dall’architettura semplice ed armoniosa. L’influenza marocchina traspare dalle imposte delle finestre finemente dipinte e decorate con oggetti in metallo. Bisogna assolutamente arrivare il lunedì per il grande e colorato mercato famoso in tutto il Sahel che si anima di gente, di mercanzie, di odori intensi e di quell’africanità che coinvolge ed appassiona. Il tutto si svolge ai piedi dell’imponente moschea. Costruita ai primi del ‘900, è il miglior esempio di architettura sudanese. Dalle alte torri fuoriescono pertiche di legno usate per le riparazioni dopo le piogge stagionali. All’interno più di cento colonne compongono questo mosaico, non più visibile a noi occidentali. Per il suo alto valore culturale, storico ed architettonico, è stata dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’umanità. Timbuctù e gli antichi manoscritti Alle porte di Timbuctù, il fiume Niger è circondato dal morbido abbraccio delle dune di sabbia. E’ da questo punto che il suo corso cambia direzione, piega a oriente formando una grande ansa fino a Gao, l’antica capitale del regno degli Askya. Pochi gli ostacoli naturali che il fiume affronta in questo lembo di deserto dove scorre lento, ed è quasi naturale la sua “picchiata” a sud, passando dalla cittadina di Ayorou verso il confinante Niger, fino alle coste nigeriane del Golfo di Guinea dove termina il suo lungo corso panafricano. Una manciata di km separano il fiume Niger (sono 8 dal porticciolo di Kabara) dalla storica Timbuctù. Era da poco passato l’anno mille, quando attorno ad un accampamento tuareg una donna di nome Buctù ne organizzò l’insediamento, che qualche anno più tardi prese il suo nome. Acquistò importanza attorno al 1.200 con lo spostamento del traffico commerciale verso le piste sahariane diventando il più grande centro di cultura e di religione. Le carovane provenienti dal nord e dalla costa mediterranea portarono le novità del sapere di Fez, Marrakech e del Cairo, mentre una parte della popolazione si dedicò agli studi scientifici e religiosi. Timbuctù divenne il punto d’incontro tra il mondo arabo e quello dell’Africa nera. L’università di Sankoré rivaleggiò per importanza con quelle arabe intrecciando rapporti di studi e scambi culturali. Diventò meta agognata di esploratori che misero a repentaglio la propria vita pur di raggiungerla come René Caillié, Henri Barth e Gordon Laing. Le biblioteche pubbliche e private erano ricche di manoscritti tanto che ne nacque un vero e proprio commercio. Perfino Leone Africano fu colpito da questa circostanza che scrisse: “..i libri si vendono così bene che questi fruttano più delle altre mercanzie”. Di quell’antico splendore sono sopravvissute le grandi moschee di Djinguereber e di Sankoré, e le migliaia di antichi manoscritti conservati nelle dimore private e nel Cedrab, il Centro di documentazione e di ricerche storiche Ahmed Baba dove sono custoditi in F RONTIERE Itinerari Africani Dossier angusti locali, più di 1.500 volumi. Osservare oggi Timbuctù mette un po’ di tristezza. Dalle vie polverose in un via vai di genti Songhai, Bella, Mauri e Tuareg si alternano antiche case d’argilla con abitazioni fatiscenti e tante zeribe, le tende dei nomadi venuti dal deserto in cerca di miglior fortuna. A causa dell’isolamento geografico e politico, la mitica città dell’oro, rischia la decadenza e l’abbandono; ed è paradossale quanto affermano gli anziani: “a Timbuctù c’era più abbondanza e benessere al tempo delle carovane che non oggi, all’epoca delle astronavi!”. La musica del Mali di 12 anni si era già costruito una chitarra tradizionale (che la leggenda narra essere stata poi regalata a Ry Cooder) definita “djerkel” e ritenuta capace di evocare gli spiriti. Suo allievo e musicista nonché abile chitarrista è Afef Boucoum attuale virtuoso del djerkel. Con il suo gruppo di strumentisti locali sta viaggiando in Europa cercando di portare a conoscenza l’arte di Ali Farca Tourè. I Tinariwen, gruppo attualmente di culto nel panorama musicale africano, hanno combinato le forme musicali tradizionali touareg e del Mali con una moderna sensibilità ribelle e radicale: strumenti tradizionali come il liuto teherdent ed il flauto utilizzato dai pastori sono stati abbandonati in cambio di chitarra elettrica, basso e batteria, mantenendo però il tradizionale violino ad una corda del Mali. Nel deserto senza uffici postali e senza telefono, la musica dei Tinariwen diventò un potente strumento di ribellione: testi sul risveglio della coscienza politica e sui problemi degli esuli o sulla repressione attuata dal Mali nei confronti dei Touareg con la loro espulsione in Algeria, che sono veri e propri inni per l’indipendenza del popolo touareg. Le loro cassette erano proibite sia in Mali che in Algeria e chiunque trovato in possesso delle loro musiche rischiava la prigione. Altra attuale interprete conosciuta in Italia è Rokia Traorè, giovanissima strepitosa chanteuse del Mali non ha soltanto una voce da favola, di quelle che si incontrano una volta ogni dieci anni, ma può vantare una presenza scenica di debordante vitalità, di travolgente energia comunicativa. La cantante jazz Dee Dee Bridgewater è attualmente in tournee con il gruppo “Malian Projet” conosciuti dopo un soggiorno prolungato a Bamako e dintorni. E’ risaputo che ad oggi noti strumentisti anche italiani, come Ludovico Einaudi abile pianista siciliano, si recano spesso in regioni africane per ricercare possibili collaborazioni per arricchire la propria conoscenza con realtà musicali ricche come le sonorità del Mali. di Giovanni Busetto Anche il Mali, stato africano dell’ampia area centrale del Sahel, possiede una tradizione musicale fortemente radicata con il territorio ma con la particolarità di suoni e ritmi poco riconoscibili con altre realtà di questo continente. Le ritmiche possono essere paragonate ad altre ma la loro specificità sta nell’uso di strumenti tipici di queste regioni. E’ evidente che le varie etnie avevano a disposizione materie prime povere ed essenziali per costruire gli strumenti per poter produrre suoni e ritmi. Ma le “kore”, strumenti a corde costruite utilizzando le “calebaise”, zucche coltivate in loco, ed impiegate dai numerosi “griot” nel raccontare e cantare le loro storie legate ai vari clan familiari identificano questo genere come unico per il territorio in questione. Il più famoso cantore, originario di una nobile famiglia, resta Salif Keità, ormai molto conosciuto anche in Italia. La fama di Salif iniziò negli anni ‘70 a Bamako, quando con il korista guineano Mory Kantè fondò la “Band del la Gare”, “il Gruppo della Stazione”, dal luogo in cui i giovani artisti si riunivano a suonare e nel cui “Cafè” si esibivano nel week end proponendo un sincretismo tra temi locali e sound occidentali. Anche lui utilizza tutti questi strumenti tradizionali senza rinunciare a sonorità più attuali. Una ricerca più vicina alle tradizioni popolari spinta a creare melodie molto qualificate tali da riconoscere un suo stile e una particolare musica del luogo. Si avvale anche di strumentisti locali molto abili nel creare questo suo “sound maliano”. La tradizione dei griot è diffusa anche in altre regioni del sahel ed è ancora possibile ascoltarli in rare esibizioni in loco. Ry Cooder, chitarrista americano ormai noto per le sue ricerche musicali nel campo della World Music, conosce in un viaggio africano il chitarrista Ali Farka Tourè e comincia una collaborazione alla scoperta di una nuova cultura musicale. Il risultato di questo lavoro ci ha consegnato un album particolare “Talking Timbouktu” ormai icona di un genere ormai identificato come il “blues del Mali”. Diversi gruppi si sono ispirati a questo particolare “sound” riconoscendo in Ali Farka Tourè l’originalità della sua musica. La sua recente morte a Niafounkè, villaggio a nord della capitale, ne hanno fatto un”guru” della World Music. Per la sua gente Touré rappresentava molto più di un musicista. Nato nel 1939 nel villaggio di Kanau, sulle rive del Niger, Ali fu il decimo figlio nato dalla sua famiglia, ma incredibilmente solo il primo a sopravvivere agli stenti della povertà dopo la morte del padre, arruolato nell’esercito francese. Nonostante non vi fosse alcuna tradizione musicale tra i suoi avi, “Farka” all’età Alì Farka Touré in una delle prime rappresentazioni discografiche 17 F RONTIERE Argonauti Explorers Itinerari insoliti Messico-Guatemala: l’ultima fortezza dei Re Maya di Marco Di Marco Per circa mezz’ora la lancia risale le anse sempre più strette e circondate da vegetazione del Rio Petexbatún, fino a sfociare nell’omonima laguna, in questi mesi abbastanza in secca, tanto da apparire come una grande palude. Siamo nel bacino idrografico del Rio Uxumacinta, oggi confine tra Guatemala e Messico, un tempo la più importante via d’acqua dei Maya, proprio nel periodo di massimo splendore della loro civiltà. E’ in questa zona che, negli ultimi 30 anni, campagne di scavo insistenti e fortunate hanno portato alla luce le rovine di alcuni tra i più importanti centri maya del periodo classico, insieme con un’impressionante raccolta di testimonianze di storia e di indizi, talora sconvolgenti, sulle cause del collasso finale di questa misteriosa civiltà. Nomi come Aguateca, Dos Pilas, Cancuén, Ceibal, Yaxchilán, Bonampak, Piedras Negras, meno famosi – ma non meno importanti – di Tikal e Palenque, sono legati a questa opera di decifrazione e ricostruzione ancora in corso, e ancora terreno di accesi dibattiti tra gli studiosi. Siamo partiti da Sayaxché, sul Rio La Pasión, che qui riceve le acque del Petexbatún, prima di confluire a sua volta nell’Uxumacinta. La laguna finisce e ci inoltriamo nel ramo affluente del Rio, che riprende a scorrere sinuosamente nella vegetazione. E’ trascorsa un’ora e mezza quando ci si para dinnanzi una riva alta con un rudimentale imbarcadero. Aguateca: l’ultima fortezza Che Aguateca fosse una città-fortezza ce lo dice la sua peculiare ubicazione. Ad est la scarpata del lago e parallela, sul lato opposto, un’impressionante fenditura, la Grieta (abisso), larga 515 metri, con pareti calcaree profonde 50-60 metri. Negli scavi sono emersi i resti del più esteso e complesso sistema di mura difensive della regione del Petexbatún. Le ricerche archeolo- giche iniziate negli anni ’90 sotto la direzione del giapponese Takeshi Inomata hanno dimostrato che nel Periodo Tardo-Classico (600-830 d.C.). Aguateca era un centro di corte minore dei sovrani di Dos Pilas, la città egemone della regione che arrivò a confrontarsi militarmente con la ben più grande e potente Tikal. Quando, dopo vicende alterne, il regno di Dos Pilas andò drammaticamente in rovina sul finire dell’VIII secolo d.C. (in concomitanza con ripetute annate di siccità), Aguateca fu probabilmente il rifugio della sua famiglia reale. La sua storia ebbe termine con l’attacco finale, probabilmente all’inizio del IX secolo d.C., quando il suo nucleo centrale – l’area che include il Gruppo del Palazzo, la Strada Rialzata, e la Plaza Central – fu dato alle fiamme dai nemici. Ad Aguateca non si vedono rovine imponenti. Ma il posto è estremamente suggestivo: nella penombra della foresta sono sparse le tracce della vita di tutti i giorni di quello che fu l’ultimo ridotto dei re di Dos Pilas, con le loro abitazioni, di cui si possono vedere i letti-stufa e i ripostigli. Qui sono stati ritrovati innumerevoli oggetti: utensili da cucina, asce in pietra, strumenti da scriba, strumenti musicali, mentre gli ambienti del Palazzo si sono rivelati pressoché vuoti. Gli scavi di Aguateca hanno offerto l’emozionante “fotografia” di una città abbandonata in fretta e furia davanti all’avanzata del nemico, ma in tempi diversi a seconda del rango dei fuggiaschi. Prima la corte reale con tutti i suoi averi, poi, in maniera più precipitosa e lasciando tutti i loro beni nelle abitazioni, i cortigiani più fedeli o almeno quelli che ci riuscirono dopo aver abbozzato un ultimo disperato tentativo di resistenza. Questa è almeno la ricostruzione di Inomata. Le rovine di Aguateca appaiono dunque un’evidente testimonianza del collasso della civiltà classica Maya, che – come è descritto efficacemente dal biogeografo Jared Diamond – nel giro di pochi decenni si autodistrusse in una situazione di guerra permanente, sotto la guida di élite rattrappite nei loro antagonismi e quindi incapaci di riconoscere e fronteggiare le terribili minacce indotte da sovrappopolazione, deforestazione ed erosione, mutamento climatico e scarsità delle risorse. Il sito è remoto e ancora meta di predatori di stele, che agiscono allo scoperto senza farsi scrupolo di sezionare i preziosi reperti quando sono troppo pesanti. Poco possono fare i guardiani, che, anzi, sono già stati minacciati. Nelle due ore dedicate all’esplorazione c’è tempo per una discesa che ci porta al livello della “Grieta”: nella semioscurità percorriamo per un chilometro la profonda fenditura scivolando sul fango, nell’umidità che si può tagliare col coltello. Di nuovo all’aperto, ci accoglie una magnifica veduta sugli acquitrini del Petexbatùn, e siamo di ritorno al campo – una capanna e due tettoie sotto cui appendere al riparo le nostre amache. I mercanti-guerrieri di Ceibal Spostiamoci ora di poche decine di chilometri a nord-est. In un’ora e mezza ridiscendiamo il Rio Petexbatún fino a Sayaxché e da qui in due ore risaliamo per 12 km. il più ampio Rio La Pasión, ammirando gli splendidi e imponenti alberi di ceiba, così importanti nella simbologia religiosa Maya, che ogni 18 Guatemala: Rovine di Aguateca - Marco Di Marco - Tortona F RONTIERE Argonauti Explorers Itinerari insoliti tanto spiccano lungo le rive nel profilo uniforme della foresta. Dall’attracco uno stretto e roccioso sentiero nella selva, letteralmente infestato da milioni di mosquitos, ci porta in circa mezz’ora alle rovine di Ceibal, antico centro commerciale e cerimoniale che ebbe il suo periodo di massima fioritura nel corso del IX secolo d.C., appena dopo il crollo del dominio di Dos Pilas. Ceibal non è tanto famosa per i suoi edifici, quanto piuttosto per le sue numerose e bellissime stele, a giudizio di molti esperti tra le più raffinate e meglio conservate dell’archeologia maya. E qui arriviamo ad uno dei tanti enigmi della storia maya. La fisionomia insolita dei personaggi rappresentati in alcune stele ha infatti dato origine a un dibattito ancora irrisolto tra gli esperti. I volti di queste figure non sembrano Maya. Dei reali Maya non esibiscono la tipica deformazione cranica. I loro occhi sono più rotondi. Diverso il taglio dei capelli e, particolare ancora più insolito, hanno i baffi. In un primo tempo si pensò che verso la metà del IX secolo d.C. Ceibal fosse caduta sotto il dominio di mercanti-guerrieri Maya messicanizzati provenienti da regioni lontane come il Tabasco, sul golfo di Campeche ad ovest dello Yucatan. Adesso altri studiosi vi ravvisano invece un indizio di sommovimenti sociali, con l’ascesa di classi inferiori, che cercavano di emulare la cultura reale Maya e di continuarne la tradizione. Di certo c’è comunque il fatto, attestato dalle datazioni decifrate nei glifi delle stele, che Ceibal raggiunse il suo massimo splendore nella seconda metà del IX secolo d.C., quando ormai il combattivo regno di Dos Pilas era solo un ricordo e Aguateca un ammasso di rovine. Visitare Ceibal, ammirandone le bellissime sculture, ci fa quindi capire come il collasso della civiltà Maya, non sia stato un evento subitaneo, ma un processo protrattosi per almeno un secolo. La caduta di una città (Dos Pilas) poteva produrre la resurrezione di un’altra città (Ceibal), già assoggettata alla prima. Senza che però cessassero i conflitti che alla fine portarono alla scomparsa della civiltà Maya classica. Un “libro illustrato” della Civiltà Maya: Yaxchilán e Bonampak Negli ultimi anni del VII secolo d.C., il crollo simultaneo dell’egemonia delle due più grandi città-stato, Tikal e Calakmul, lasciò il posto ad una molteplicità di staterelli tra di loro in competizione per il dominio delle rotte commerciali fluviali. E’ appunto in questo scenario di frammentazione che le città di Yaxchilan e Piedras Negras si disputarono per due secoli il controllo del medio Usumacinta, la più importante via d’acqua della cosiddetta “ruta maya”. Anche in questo caso le guerre, che in una situazione di abbondanti risorse naturali, potevano costituire una fonte di prosperità e ricchezza per il vincitore, impedirono alla fine un’efficace difesa contro il degrado ambientale e la sovrappopolazione: le due città furono alla fine bruscamente abbandonate. Ridisceso da Ceibal il Rio La Pasión, siamo ancora una volta a Sayaxché, da dove 150Km di carretera polverosa, attraverso un paesaggio di haciendas strappate alla foresta, ci portano in circa 4 ore al villaggio di Bethel, sulle rive dell’Usumacinta. Il percorso per arrivare a Yaxchilán, è un po’ tormentato. Da Bethel si attraversa il fiume con una lancia e in meno di un’ora si arriva a Frontera Corozal, sulla sponda messicana. Qui si fa immigrazione, per poi ridiscendere in circa un’ora il corso del fiume fino alle rovine, annidate su collinette in un’ansa talmente stretta da apparire quasi un’isola, e circondate da una densa vegetazione tropicale, che conferisce al sito una suggestione intensa. Yaxchilán ebbe la sua epoca di massimo splendore nella seconda metà dell’VIII secolo, sotto il regno di Uccello Giaguaro IV, grande conquistatore e grande costruttore, che ne fece uno dei più importanti centri del bacino del rio Usumacinta. La sua immagine ricorre in molti monumenti e si può ammirare anche una sua statua, purtroppo decapitata, su cui risaltano con finezza di particolari gli ornamenti regali. Appena sbarcati ci si addentra in uno singolare edificio, detto “El Laberinto” per la complessa disposizione delle sue stanze, poi si arriva nella Gran Plaza, col gioco della pelota; da qui una grande e scenografica scalinata conduce alla Grande Acropoli, dove l’edificio 33 è forse il più bello della città, per il suo tetto a cresta, tipico di Yaxchilán, la sua scala con geroglifici, e le sue architravi istoriate, su cui scorrono come in un film scene di regalità, di sacrifici e autosacrifici regali, e altri momenti legati alla religione o alla vita di tutti i giorni. I glifi e la splendida documentazione delle stele e delle architravi, che si ripetono in quantità impressionante anche negli edifici di altri gruppi, fanno di Yaxchilán un intrigante libro illustrato della storia e della civiltà Maya. Pochi chilometri più a ovest, ai margini della Selva Lacandona, il nostro itinerario si conclude a Bonampak. Sui suoi affreschi, stupendi, conservati in maniera incredibile nei loro colori vividi, è narrata in tre stanze, poste alla sommità di un tempio, la storia di una battaglia. Si passa dalla scena del combattimento, alle atroci sevizie inflitte agli sconfitti, fino alle cerimonie celebrative della vittoria. Sembra la descrizione di una civiltà al suo apogeo. In realtà, secondo le ultime interpretazioni, questa sequenza illustra la consacrazione dell’ultimo erede al trono di Yaxchilán, che probabilmente non avvenne mai perché la sua successione fu preceduta dall’eclissi della civiltà Maya. Messico: Rovine di Yaxchilán - Marco Di Marco - Tortona 19 F RONTIERE Racconti per immagini: l’arte di ornare se stessi Ethiopia (Tulgit): donna Surma Tirma Pierfranco Montrucchio (Torino) Ethiopia (Kibish): guerriero Surma Chai (Tid) Gigi Toscano (Torino) Ethiopia (Kibish): lotta della Donga tra i Surma Chai (Tid) Giorgio Sartirana (Torino) Ethiopia/Sud Sudan (Kari): ragazza Surma Balé (Katchepo) Roberto Pattarin (Sondrio) Sud Sudan (Boma Plateau): ragazza Surma Balé (Katchepo) Roberto Pattarin (Sondrio) I popoli Nilotici tra Omo e Kibish Ethiopia (Omomursi): donna Mursi Piergiorgio Derochi (Torino) Ethiopia (Omomursi): guerrieri Mursi Clara Monzeglio (Torino) Ethiopia/Sud Sudan (Kari): cerimonia della Kadonga tra i Surma Balé (Katchepo) Giorgio Sartirana (Torino) Ethiopia (Kibish): l’arte di ornare se stessi (Surma Chai) Sandro Bernes (Udine) Ethiopia (Omomursi): l’arte di ornare se stessi (Mursi) Roberto Pattarin (Sondrio)