Frontiere N. 1 - Shanthi

Transcript

Frontiere N. 1 - Shanthi
Anno VIII N. 1/1 - Periodico quadrimestrale dell’A.M.I.
Spediz. in abbonamento postale art. 2 comma 20/c
Legge 662/96 - Filiale di Milano - Aut.del Tribunale
di Milano N. 730 del registro periodici 10.11.2000
1/1
2007
CHI SIAMO
EDITORIALE
Frontiere si riorganizza
MILLE E UNA NOTTE
Racconti
di malati di viaggi
Le vie dei Venti
L’ANIMA
DEL VIAGGIATORE
Club Magellano
L’ANGOLO
DEL NATURALISTA
Zambia: il lago Bangweulu
Argonauti Explorers
DOSSIER
Fiume Niger (parte seconda)
Itinerari Africani
ITINERARI INSOLITI
Messico-Guatemala
L’ultima fortezza dei
Re Maya
Argonauti Explorers
RACCONTI
PER IMMAGINI
L’arte di ornare se stessi
I popoli Nilotici
tra Omo e Kibish
Argonauti Explorers
viaggi e passaggi segreti nelle terre degli uomini
FRONTIERE
ihtnahS
inimou ilged erret ellen àteiradilos id iggaiv
ARGONAUTI EXPLORERS - Associazione Culturale Nazionale - Milano
Associazione di Viaggiatori, che vivono il viaggio come percorso di conoscenza, confronto e solidarietà; Luogo dove si progettano itinerari e dove conta lo
spirito con cui ci si rapporta con le altre culture e non il “con chi si viaggia”, cioè da soli, con amici o in gruppo. Un’Associazione culturale che non organizza
direttamente viaggi, ma si propone come supporto a chi li propone. Anche se il nome è legato alla risonanza di spedizioni di cui siamo orgogliosi, non per
questo ci dedichiamo solo a cose “difficili”: più semplicemente cerchiamo originalità in ogni itinerario, in questo senso esplorando sentieri non scontati.
www.argonauti.net; e-mail: [email protected]; Centro Documentazione: 02-799911
CLUB MAGELLANO - Torino
Dall’800 in molte famiglie piemontesi si raccontano storie sullo zio o sul compaesano illustre vissuto “nell’altrove”: militari della conquista coloniale, missionari Salesiani o della Consolata, veri esploratori (Bottego, Allamano, De Filippi etc.). E’ da questi racconti che nasce la spinta piemontese verso l’irrequietezza?
Dagli anni ’70 un gruppo di amici si aggrega prima attorno alla Marcopol, una piccola associazione che organizza viaggi avventurosi ed autogestiti, poi nel
Club Magellano con un programma di foto, viaggi, cultura: un punto di incontro “storico” quindi, per viaggiatori della realtà e della fantasia.
Circolo Dipendenti Comunali – Corso Sicilia 12 – Torino – Tel. 011-307066 (Anna Mina)
ITINERARI AFRICANI - Cuneo
L’associazione nasce nel 2003 da un gruppo di viaggiatori con lo scopo di promuovere e valorizzare sul territorio nazionale la cultura africana, proprio perché
è indispensabile considerare il patrimonio culturale di un popolo, un bene da salvaguardare sopra ogni cosa. A tale proposito l’associazione realizza diverse
iniziative che vanno dalle mostre tematiche, alla presentazione di libri, diaproiezioni, una rassegna culturale annuale dal titolo About Africa cronache di un
continente, progetti di solidarietà e sviluppo in Niger e Mauritania.
Donato Cianchini – www.itinerariafricani.net – e-mail: [email protected] – tel. 0171696721
LE VIE DEI VENTI - Varese
L’Associazione, fondata nel 1993, si propone di aggregare persone accomunate dal desiderio di parlare di viaggi e di varcare così i limiti del proprio mondo, al
fine di promuovere uno scambio di conoscenze ed esperienze. Documenti fotografici, ma soprattutto racconti, costituiscono testimonianze di un grande amore
per il “diverso” e per l’ambiente, che passa attraverso i rischi, le sofferenze di coloro che ne sono stati di volta in volta i protagonisti.
[email protected] – tel. 0332 231967; e-mail: [email protected] (Gianluca Torrente)
MULA MULA - Pontoglio (Bs)
Mula Mula è il nome dato dal popolo Tuareg ad un uccellino che le credenze popolari raccontano accompagni il nomade negli sconfinati orizzonti sahariani come
portafortuna. L’Associazione, fondata nel 1998, propone la “divulgazione del viaggio come cultura” e come “Università della Vita”, suggerendo l’arte di convivere con altri popoli in modo responsabile, attraverso conferenze, racconti di viaggio, sostegno a progetti di solidarietà, quali la costruzione di pozzi nel Sahel.
Tel. 030 7167244 (Lotti Brull) - e-mail: [email protected]
OBIETTIVO SUL MONDO - Associazione Culturale
L’Associazione è stata costituita nel 1992 da un gruppo di viaggiatori che intendevano proporre al pubblico i loro reportages. Non per protagonismo, ma come
occasione per avvicinare culture diverse: un libro aperto per tutti coloro che lo vogliono leggere. Proiezioni, mostre tematiche e la pubblicazione di tre libri con
il contributo CEE, hanno rappresentato un salto di qualità che ha consentito di allargare le attività ad altre città. Un’attività sempre più impegnativa, ma che non
ha perso di vista la filosofia dell’Associazione.
E.mail: [email protected] - Tel. 02-9466688 (Claudio Tirelli)
SOMMARIO
Mille e una notte: racconti di malati di viaggi - Le vie dei venti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’anima del viaggiatore - Club Magellano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’angolo del naturalista: Zambia: il lago Bangweulu - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dossier: Fiume Niger (seconda parte) - Itinerari Africani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Itinerari insoliti: Messico-Guatemala. L’ultima fortezza dei Re Maya - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Racconti per immagini: L’arte di ornare se stessi - I popoli Nilotici tra Omo e Kibish . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
.... 2
.... 7
.... 9
. . . 12
. . . 18
. . . 20
In copertina: Bambino Surma Chai (Ethiopia - Kibish) - Roberto Pattarin - Sondrio
All’interno foto di: Giovanni Barbieri, Sandro Bernes, Marco Bono, Giovanni Busetto, Donato Cianchini, Renato Civitico, Piergiorgio
Derochi, Marco Di Marco, Pierfranco Montrucchio, Clara Monzeglio, Roberto Pattarin, Monica Pellegrino, Giorgio Sartirana, Gigi
Toscano.
F
RONTIERE
Editoriale
Frontiere si riorganizza
di Marco Di Marco
Un forte elemento che unisce tutte le Associazioni che hanno dato vita a questa Rivista è l’idea che il viaggio non debba
essere prodotto statico preconfezionato calato dall’alto, ma un
processo in cui le competenze dei viaggiatori più esperti si coniugano con le inclinazioni, i desideri, le abilità, le conoscenze
degli altri partecipanti nell’elaborare e portare a compimento
insieme un progetto di percorso comune. Come si è già detto, per noi il viaggio non si esaurisce nelle poche settimane
che ci vedono fisicamente itineranti. Del viaggio c’è un prima,
un durante e un dopo, che tutti insieme compongono questa
esperienza, le danno profondità, la dilatano nel tempo e nella
nostra coscienza. Per noi si comincia a viaggiare quando, dopo
i primi contatti, ci si trova, ci si sente, si scambiano consigli,
suggerimenti e informazioni, si “pre-vedono” insieme, in un
combinato di fantasia e concretezza, gli scenari. E, una volta ritornati, diventa fondamentale la rielaborazione di quanto
abbiamo visto e provato e la sua condivisione, discreta, con
altri. In questo senso la rivista è uno strumento che completa
il viaggio. Ci consente di allargare la nostra esperienza a tutti
coloro che hanno scelto un altro itinerario, oppure per motivi
contingenti non sono partiti. Ci permette di proporre, ad altre
persone, spunti e suggestioni per un futuro viaggio. Ci spinge
a rielaborare i nostri ricordi, che arricchiti con altre forme di
conoscenza – come la lettura e lo studio – possono rivelare implicazioni più profonde e dare più sostanza all’interpretazione
del nostro vissuto. Perché tutto questo discorso? Siamo convinti che per “Frontiere” sia arrivato il momento di operare un
ulteriore salto di qualità organizzativo, per offrire una proposta
sempre più ricca ed articolata.
A somiglianza dei nostri itinerari, la rivista vuole essere un
momento progettuale ancora più aperto alla partecipazione dei
nostri lettori e collaboratori, come veri “compagni di viaggio”.
Sempre di più, dal prossimo numero la nostra redazione sarà un
momento di coordinamento di contributi, che, lo speriamo, siano non solo il frutto delle nostre sollecitazioni, ma di un’incalzante propositività da parte di tutti i nostri amici. E’ questo un
invito rivolto a tutti. Se l’idea vi interessa e volete collaborare
con “Frontiere”, mettetevi in contatto con noi, fateci conoscere la vostra disponibilità collaborare. Se una volta ritornati da
un viaggio, ritenete che valga la pena di comunicare le vostre
esperienze, impressioni, approfondimenti, di avere insomma
qualcosa di interessante da scrivere, fatecelo sapere. Inviateci anche suggerimenti riguardo all’articolazione, proponendo
eventualmente le vostre competenze per colmare eventuali lacune. Noi raccoglieremo i vostri contributi, e sarà nostra cura
armonizzarli nelle singole uscite della rivista.
Da parte nostra contiamo di arricchire, già a partire dal prossimo numero, l’articolazione tematica: sul risultato vi chiederemo, puntualmente, di esprimervi. A me sarà affidato il coordinamento di questa attività.
E adesso non ci resta che metterci in viaggio, con “Frontiere”!
Per mettervi in contatto, questi sono i riferimenti: Marco Di
Marco, cell. 3384161350, email [email protected].
F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
Da “il giro del mondo in 80 giorni”
di Gianluca Torrente
Vi consiglio di leggere il ventesimo capitolo del libro di Jules Verne “Il giro del mondo in ottanta giorni”, ormai divenuto un riferimento di questa rubrica sui racconti di viaggio. In esso si narra di una ferrovia che in appena sei giorni unisce con un nastro
metallico ininterrotto, lungo non meno di 3786 miglia, New York a San Francisco.
“La ferrovia che attraversa una regione ancora popolata dagli Indiani e dalle bestie feroci, fu costruita ad una velocità di un
miglio e mezzo al giorno. Una locomotiva, muovendosi sulle rotaie poste il girono prima, trasportava i binari per l’indomani e
correva su di essi man mano che venivano installati”.
Questa breve descrizione mi fa riflettere sull’inaugurazione della linea Pechino-Lhasa avvenuta la scorsa estate: in appena 6 anni
è stata costruita una linea ferrata che in 48 ore consente di raggiungere Lhasa sita a 4064 km. Con il suo picco massimo di 5.072
metri, la nuova strada ferrata supera di circa 200 metri la linea peruviana Lima-La Oroya quale ferrovia più alta del mondo. A
bordo del convoglio, in grado di trasportare 300 unità, i passeggeri potranno usufruire di ristoranti, di una carrozza multimediale,
sauna e massaggi in cabine pressurizzate. Invito i lettori di Frontiere a inviarci un racconto su un viaggio effettuato via terra fra
Pechino e Lhasa: prima della costruzione della ferrovia s’intende!
Sahara:
un soffio nel nulla …
(pensieri e divagazioni dal deserto)
di Renato Civitico
Stanotte il vento soffia con forza: è un vento freddo e violento
che fa oscillare le pareti della tenda, riempiendole di sabbia. Al
campo come sempre si va a dormire presto, anche stasera che
è l’ultima notte dell’anno. Poco prima gli autisti hanno organizzato uno spettacolo ed uno di loro ha rischiato di diventare
una “torcia umana” quando si è avvicinato al fuoco con una
bottiglia ricolma di benzina. Ora c’è solo silenzio e ogni tanto
il rumore del vento, che con le sue raffiche improvvise è un
soffio nel nulla che spezza la pace infinita. Non per altro, ma
c’è sempre un qualche meraviglioso rumore che unisce alla vita
il ricordo del luogo. E’ già da tempo che decido di trascorrere
alcuni giorni dell’anno nel deserto e quest’anno ho voluto visitare la regione algerina dell’Admer-Tadrart. Questo territorio
lambito dalle sabbie nigeriane del Tènèrè du Tafassaset a sud e
dal tavolato dell’Akacus libico ad est, rappresenta uno dei percorsi più interessanti che il Sahara algerino ci possa regalare.
Perché il deserto?
Punto di partenza è la splendida oasi di Djanet, “la perla del
Tassili”. Di sicuro gli album fotografici, le foto e le riproduzioni di questi paesaggi hanno invogliato la mia scelta, ma è anche
vero che in questi ultimi anni c’è stato un diffuso interesse per
quest’area geografica. Nuove pubblicazioni, nuovi articoli e
nuovi servizi televisivi hanno stimolato il desiderio di visitare
il deserto e quest’anno ho trovato molta più gente del solito!
Trovo “folla” nel deserto e mi domando se c’è una riscoperta
collettiva verso questi luoghi o si tratta solo di una meta alla
moda. Sicuramente i racconti, le sensazioni e le emozioni sulle
2
bellezze degli spazi solitari, sulle meraviglie dell’infinito, sul
dilatarsi del tempo, sulla quiete e il silenzio nella solitudine
hanno attirano molti. Ritengo però che queste non siano le sole
aspettative a spingere verso una meta così diversa. Penso invece
che siano altri i motivi che si celano dentro di noi, quando decidiamo di solcare queste terre: oltre all’aspetto romantico c’è
anche un piccolo substrato di narcisismo. Una vaga vanità nel
sentirsi superiori e vivi in condizioni estreme e inusuali, quasi un bisogno di riscoprire le proprie risorse sopite. Anche la
mancanza di segni, di certezze, di idoli e di promesse possono
invogliare. Il deserto allora diviene la pienezza del vuoto, come
la negazione di ogni illusione. Una vita allo stato puro, fragile e
felice, piena o assurda, un infinto presente in ogni istante: vivere questi momenti è vivere sicuri di essere puri perché non c’è
né un prima né un dopo, c’è solo un momento, quello davanti
a noi. E risorge l’idea di disintossicarci da tutto quello che ci
ha circondato alla partenza. Dimenticare tutto per assaporare
l’attimo. Il deserto e la sua dimensione viene riscoperta ciclicamente da più generazioni: da sempre i film illustrano questi
spazi. Ripercorrono i secoli di storia o scelgono questi luoghi
per ambientarvi avventure e racconti. Ci fanno ammirare le
dune di sabbia o le oasi sperdute nel nulla, che simboleggiano
nell’immaginario un luogo fiabesco, diverso. Sovente il deserto
rappresenta anche la fuga dalla vita e dal quotidiano. In altre
parole, uno degli ultimi luoghi naturali che è riuscito a sfuggire
dall’impoverimento e dalla cementificazione delle nostre città.
Ma questo spazio rappresenta anche un luogo di riferimento,
che offre un’alternativa alla nostra società del consumo. Si parte sempre dalla scoperta del deserto come di un luogo ricco di
significati mitici, ma poi il pensiero si evolve. Dopo qualche
giorno trascorso a passeggiare tra le dune, dopo essersi lasciati
cullare dal calore del sole pomeridiano o dal dolce scricchiolio del suono dei passi sulla sabbia, nasce la quintessenza che
cerca in un altrove reale l’immagine di una vita più consona
ai propri bisogni. Il deserto è il punto di riferimento contro la
F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
fugacità della civilizzazione moderna, simbolo di un tempo statico e ciclico, opposto al senso animato di progresso. Questo
ruolo d’immagine alternativa al mito di progresso non è nuovo
ma tende ad essere rafforzato oggi dalla crisi dell’idea stessa di
progresso, come testimoniano anche altre visioni di ricercatezza che sbocciano in un ritorno verso le più semplici origini della
nostra società. L’idea di un posto tranquillo dove trascorrere un
fine settimana o la ricerca di un ristorante che ci faccia riscoprire un piatto tipico della nostra tradizione, non sono forme
molto più semplici ma analoghe? Più la società corre verso il
suo futuro e più c’è voglia di fermarsi, per godere di attimi di
purezza. Ripercorro con la mente i giorni appena trascorsi e
scopro di aver avuto molto tempo durante l’arco della giornata
da dedicare a me stesso. Le lunghe giornate trascorse in auto,
la possibilità di osservare con tranquillità i luoghi e le piacevoli
passeggiate sulle dune di sabbia all’imbrunire, hanno trasmesso
calma alla mia mente. La fatica fisica che provo e la tranquillità
di questi luoghi, si mescolano e mi fanno gioire di tutto quello
che mi circonda. Sarà anche per questo piacevole clima e per un
cielo sempre azzurro, ma il costante ripetersi di questa sensazione d’imperturbabilità, unita a questo paesaggio immutevole,
allarga i sensi. Posso permettermi di osservare e pensare senza
preoccuparmi del tempo che trascorre e rifletto anche sul fatto
che spesso a casa trascorro intere giornate a dipanare situazioni
e momenti nei posti più insensati ed inusuali. E una giornata
come quella appena trascorsa, ben si può impigliare in un paesaggio all’apparenza vuoto.
Popoli del Sahara
I Mauri, i Tuareg ed i Toubou sono gli abitanti del Sahara. I
Mauri, la “gente delle nuvole”, così chiamati per il continuo
inseguimento delle rare piogge, sono gli abitanti della regione
a nord della Mauritania e dell’ex Sahara spagnolo. I Tuareg,
l’etnia più conosciuta e mitizzata sono gli abitanti della regione
centrale del Sahara, mentre gli ultimi, i Toubou sono concentrati soprattutto nel massiccio del Tibesti, in alcune regioni del
Ciad e nella parte orientale del Niger. Popolazioni quasi mai
stanziali, nomadi sempre in cerca di pascoli e di pozzi d’acqua. Il nomadismo è il contrario della nostra vita quotidiana e
rappresenta per un viaggiatore, il riappropriarsi della libertà.
Il fascino per questi abitanti, unito alla loro storia, ed alle loro
semplici abitudini aumentano d’interesse con il trascorrere dei
giorni. Questa è pur sempre un’immagine di vita diversa, che
si contrappone alle mie abitudini quotidiane e che genera entusiasmo nel riscoprire una diversa possibilità d’essere. L’essenziale che si contrappone alla quantità, con la scoperta di potersi
accontentare anche di quel poco che mi sono portato dietro. Il
nomadismo quindi assume il significato di leggerezza oltre a
quello di spazio. Quest’oggi un uomo saliva lentamente sopra
una duna di sabbia con un turbante sulla testa; aveva le mani
lungo i fianchi, i passi regolari e camminava con lo sguardo
rivolto verso l’alto. Ecco è questa l’immagine che ho ora nella
mente, l’immagine di un uomo che in piena agilità cammina
nella quiete di un paesaggio che non ha voglia di finire. Domani
mi attenderà ancora un’altra giornata intensa di viaggio, con
una lunga pausa all’ora di pranzo che dedicherò a camminare. E’ il solo esercizio fisico che mi è concesso durante l’arco
della giornata, ma assume un significato di appagamento. Sulla
sabbia si cammina faticosamente ed i piedi non sempre trovano
un terreno duro quando sprofondano. Bisogna allora esercitare
uno sforzo sulle gambe per poter proseguire. Sulla cima di una
duna è bello poter scoprire nuovi orizzonti o ritrovare lo stesso
identico paesaggio che hai lasciato alle spalle, idealmente però
è incantevole pensare di poter proseguire all’infinito attraversando il silenzio. Tanti viaggiatori sostengono che durante un
viaggio bisogna scrivere un diario per non lasciarsi sfuggire
nulla, sia le piccole sfumature, sia le grandi immagini che si
presentano davanti alla nostra vista. Rivivere attraverso gli appunti, quel luogo o quella particolare colorazione delle rocce è
utile soprattutto al rientro, dopo aver accumulato molte immagini. Bisogna ricordare quel luogo e quello che si è provato, ma
anche l’espressione delle persone e l’atmosfera che abbiamo
trovato. Ecco, questa sera bisognerebbe raccontare anche questo vento così intenso ... ma questo è anche il grosso problema
del deserto, perché quando si tiene un diario bisogna mettere
dell’inchiostro sulla carta e qui è più difficile che altrove, perché bisogna dare un significato a tutto ciò che è attorno; e tutto
quello che mi circonda non ha necessità, al momento, di essere
trascritto. E’ un lento accadere quotidiano. L’affermazione della
supremazia della scrittura ha poco valore qui, dove sembra che
non accada nulla! Ho scoperto però che non corro il pericolo
dell’oblio e mi sono accorto di aver memorizzato gran parte
delle sensazioni provate. Durante la giornata è come un’istan-
Algeria: Admer-Tadrart - Renato Civitico - Torino
3
F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
tanea percezione duratura di gioia! Perché è così che ti prende
il deserto, ti prende già dal mattino quando hai ancora l’anima
addormentata e ti pianta dentro un’immagine che nulla te la
toglie più. E con quest’immagine puoi rimanere a pensare per
ore ed ore ed ore...
“…. Ma la grande lezione del deserto, le regole fondamentali
da seguire nel suo approccio sono sempre la pazienza, l’umiltà,
la sottomissione alla realtà. Esercizio salutare per l’orgoglioso
primate uomo, che si lascia troppo spesso tentare dal considerarsi il centro del mondo e il re della creazione, destinato a
dominare un pianeta troppo spesso considerato una preda da
saccheggiare senza tanti scrupoli più che una realtà da rispettare.”
Théodore Monod
GABON: Apollinaire
e la “viande de brousse”
Il piacere del “parlar grasso”
Uno dei filoni sempiterni dell’ilarità nella cultura occidentale è
rappresentato dalla scurrilità; forse per reazione ad un’educazione fortemente condizionate da una morale religiosa che censura come vergogna le funzioni corporali ed il sesso, il parlarne
può assumere un significato trasgressivo. Anche farlo in modo
scherzoso procura il sottile piacere di varcare la soglia del proibito. Il “parlar grasso” genera infatti euforia fin dall’infanzia,
quando, pur non comprendendone sempre il vero significato,
si riferiscono barzellette e parolacce che fanno “sentir grandi”.
Fin dal Medio Evo questo filone ha inoltre rappresentato per le
masse oppresse una modalità privilegiata per liberare tensioni, facendo satira, ironizzando, sbeffeggiando ed osando così
criticare il mondo dei potenti. Quale che ne sia la motivazione
profonda e la spiegazione razionale, stà di fatto che raccontare aneddoti legati al sesso ed alle funzioni corporali genera
buonumore e scatena spesso irresistibili risate; per questo le
barzellette su grandi “scopate” e grandi “cagate” riscuotono da
sempre indubbio successo, perché divertono davvero e creano
complicità, cameratismo e socialità di gruppo. Perché stupirsi
allora se davanti al fuoco, sotto il cielo stellato africano, questi
argomenti si affacciano in modo ricorrente, rilassando gli animi dopo intense e faticose giornate? Anche perché una delle
maggiori virtù terapeutiche dei viaggi di avventura è quella di
liberare la mente dallo stress provocato dalla complessità della
vita moderna, per dirottare l’attenzione su pochi temi essenziali
legati alla sopravvivenza. Il famoso motto “La dura vita del
turista: mangiare, bere e cagare sulla pista” è certo poco fine,
ma coglie una grande verità della mente del viaggiatore e per
questo è senz’altro meno superficiale di quanto appaia. Perché allora, se raccontiamo sensazioni vere di viaggio, tacere di
questa componente? Consci delle possibili critiche, rompiamo
il tabù, osando infrangere per un momento il serioso bon ton di
questa rubrica.
di un eventuale più mirato ritorno. Al contrario del Cameroun,
in questo periodo è stagione secca ed in effetti nelle due settimane di permanenza non piovve mai, consentendoci il transito su strade sterrate altrimenti impraticabili. Ma questa felice
condizione, per noi indispensabile, ha un rovescio della medaglia non altrettanto gradevole: la grande umidità della foresta
evapora sotto il caldo sole equatoriale determinando un tempo
quasi sempre bigio, che toglie colore al paesaggio. La foresta
senza sole, come i fondali marini, perde le sue sfaccettature
cromatiche e con esse gran parte della sua bellezza. Nella stagione delle piogge per contro non ti sposti, ma gli squarci di
azzurro sono più frequenti. Di quanto ciò cambi drasticamente
le cose ed incida sullo stato d’animo del viaggiatore ne abbiamo avuta una chiara coscienza sul fiume Ivingo a Makokou:
dopo un temporale mattutino si è aperto un grande squarcio che
fino al tramonto ci ha regalato davvero il Giardino dell’Eden.
Dorati raggi del sole si riflettevano con bagliori saettanti sulle spesse acque scure di tannino dell’Ivingo; bianche schiume
si increspavano tra le rocce nella veloce corrente delle rapide;
possenti muraglie di foresta primaria scintillavano di ogni tonalità di verde; uccelli di ogni colore volteggiavano su questo
primordiale corridoio naturale. Raramente, nemmeno in Amazzonia, ricordo simili intense emozioni: e non è solo questione
di impatto con la maestosità della natura, che già per questo la
foresta equatoriale non scherza; conta anche la suggestione di
essere in un posto particolare, perchè quel fiume viene davvero
dall’ignoto e tu ne sei alle porte, ne senti l’eco ed il fascino,
conscio che quella porzione di foresta tra Gabon, Centrafrica e Congo ancora nasconde larghi tratti inesplorati ed affascinanti misteri. Ma proprio perché siamo stati per un giorno
in paradiso, non possiamo dimenticare le cupe tonalità che ci
hanno accompagnato per il resto del viaggio, privandoci di analoghe sensazioni in altri posti di indubbia suggestione, come
le cerimonie di circoncisione tra i Batoka di Okanja, le danze
pigmee e Fang a Makokou, la struggente atmosfera dell’ospedale di Schweitzer a Lambarenè, i villaggi nella navigazione
dell’Ogoouè, gli elefanti della giungla al Parco della Lopè (il
Loango non esisteva ancora), le spiagge di Cap Esterias: tutti
vissuti sotto una cappa uggiosa, che solo saltuariamente lasciava spazio ad un pallido sole lattescente.
Le foreste del Gabon
Agosto 1993: in coda ad un viaggio in Africa Australe, atterriamo a Libreville per stabilire un primo contatto col misterioso
Gabon, un paese allora poco conosciuto e non facile, in vista
Madame Germaine
Se il Gabon non è facile da visitare per questi aspetti climatici
non favorevoli, lo stesso spostarsi rappresenta qui un problema aggiuntivo non irrilevante. A quel tempo non vi era asso-
di Roberto Pattarin
4
F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
lutamente turismo (fummo ricevuti dal ministro per significare
l’evento) e la possibilità di affittare mezzi era praticamente inesistente: il Gabon è sempre stato un paese caro, con un’economia drogata dal petrolio della costa: i pochi 4x4 sono affittati per
lavoro da tecnici stranieri e diplomatici, mentre gli sgangherati
taxi brousse che fanno la corsa tra un centro e l’altro dell’interno non hanno il concetto di affitto riservato e sono restii ad
andare oltre il tragitto tradizionale. Anche adesso, dopo oltre 10
anni e numerosi reportage di lancio turistico, non risulta che le
cose siano gran chè cambiate: le agenzie sono poche e carissime, il resto poco affidabile. Avevamo dovuto quindi arrangiarci,
contattando un conoscente del Gabon che lavora in Italia che
prenotò i mezzi per noi attraverso suoi parenti. Madame Germane, la distinta matriarca di un’importante famiglia di Libreville, alla quale eravamo stati indirizzati, era la classica Mama
africana, che con piglio e decisione gestisce gli affari correnti
per conto dell’intero clan e del marito, un ex ministro di grande
cultura e di nobile portamento. La nostra dotazione consisteva
in un pulmino, un 4x4 ed un pick up, tutti di proprietà della
famiglia: del clan erano anche gli autisti, bravi giovani con cui
si stabilì subito un buon rapporto di amicizia.
Apollinaire e la viande de brousse
Apollinaire, il ragazzone sorridente che guidava il 4x4, era il
classico gigante buono: all’imponenza della corporatura, sottolineata dall’ampia tunica dagli sgargianti colori africani,
corrispondeva una grande mitezza di carattere ed una grande
ingenuità da bambinone. Nei lunghi trasferimenti vagheggiava
le sue imprese nella “brousse”, nella foresta, il grande immaginario collettivo di misteri, sotto forma di spiriti e di animali
feroci, che permea la cultura dell’Africa Equatoriale: quella
volta che aveva affrontato il grande serpente o si era imbattuto
di notte nel leopardo e nell’elefante. Mancando ogni conferma
di queste gesta, da buongustaio quale era e la sua mole confermava, surrogava le sue prodezze
sul piano culinario, descrivendo i
manicaretti che erano usi preparare
con la selvaggina cacciata. Per noi
valligiani niente di strano, vista la
passione con cui i valtellinesi descrivono i piatti a base di ungulati,
marmotte e galli di montagna. Ma
qui in questi racconti c’era anche
un risvolto magico: era come se,
cibandosi degli animali più strani,
se ne assumessero le forze ancestrali, tanto più potenti quanto più
raro era l’esemplare, rafforzandosi così con gli spiriti della foresta.
Sapevamo quindi tutto delle ricette
gabonesi per cucinare l’armadillo,
il porcospino, mustelidi vari, topi
giganti e serpenti. Supportato dal-
l’amico che guidava il pick up, ogni qual volta ci si fermava
in qualche villaggio nella giungla, scompariva tra i baracchini
alla affannosa ricerca di qualche animale selvatico, che si faceva cucinare all’istante o che comprava per future occasioni.
Era quindi con grande fierezza, come se le avesse cacciate lui
stesso, e col sottile piacere di stupirci, che la mattina seguente
descriveva il manicaretto di “viande de brousse” della sera prima. Quando poi trovava la viande de brousse già in pentola in
qualche baracca del villaggio, si precipitava eccitato ad annunciarlo, chiedendoci ovviamente di prender parte all’ordinazione
o quantomeno di assaggiare la delizia. Si tratta di una cultura
radicata nel paese, visto che tutti gli astanti annuivano sulla prelibatezza di quei piatti. Solo l’autista del pulmino disapprovava,
ma era della vicina Guinea Equatoriale, un immigrato quindi da
un paese povero ed arretrato alla ricerca di lavoro nel ricco Gabon innaffiato di petrolio: veniva quindi da un paese della notte
e non poteva apprezzare, non faceva testo ed il suo giudizio non
veniva tenuto in alcuna considerazione.
Gli effetti scatologici dell’armadillo
Già qualche volta si era notato che questa dieta a base di selvaggina non sempre fresca, o forse gli ingredienti naturali che
l’accompagnavano, sortivano effetti digestivi particolari: alcuni
odori dolciastri aleggiavano nell’abitacolo, ma erano stati attribuiti al diverso odore della pelle, accentuato dal sudore e dall’umidità. Il fatto che qualche rutto postprandiale di porcospino
avesse le stesse caratteristiche non era stato colto dal gruppo per
la fugacità dell’evento. Io poi non posso esprimermi al riguardo, perché come noto sono anosmico (non sento gli odori) e
devo quindi fidarmi del giudizio dei miei compagni di viaggio:
sono quindi il meno adatto a questo racconto, perchè mi è più
difficile entrare nei dettagli; ma per contro posso essere il più
obiettivo, possedendo la dote della neutralità dell’osservatore
esterno. Da due giorni eravamo nel Parco della Lopè: stavano
Gabon: il Rio Ivingo a Makokou - Roberto Pattarin - Sondrio
5
F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
costruendo un piccolo lodge grazie ad un progetto europeo gestito da un entusiasta cooperante italiano, che ci ha guidato nel
Parco, in una splendido alternarsi di foresta, colline e savana, ad
avvistare bufali ed elefanti, i famosi elefanti della foresta, più
piccoli dei cugini della savana. I bungalows erano praticamente ultimati, anche se mancava l’arredamento: riusciamo quindi
a pernottarci gratis con le nostre attrezzature da campeggio,
ricambiando il favore con una invito al connazionale ad una
lauta spaghettata “chez nous”, durante la quale veniamo messi
al corrente dei progetti di ripopolamento che daranno prestigio al Parco; solo il gorilla, dicono, sarà inavvicinabile ancora
a lungo, dovendosi ancora avvistare le famiglie ed iniziare un
progetto di contatto. Prima di cena vengo chiamato da Apollinaire: gli autisti sono nelle capanne dei Ranger a preparare la
“viande de brousse”, questa volta un armadillo acquistato due
giorni prima sulla strada. A dispetto delle ricche ricette raccontate, questa volta l’animale era semplicemente stato scuoiato
della corazza e messo a bollire in pentola. Declinato l’invito al
desco con la scusa dell’ospite italiano, cui dovevamo l’ottima
sistemazione (abbiamo praticamente inaugurato il lodge) li lascio al loro manicaretto. L’indomani ci congediamo dagli amici
del Parco alla volta della costa; quel giorno mi tocca la macchina di Apollinaire: Clara davanti, Franca, Piffi ed io dietro. Già
alla partenza vedo facce strane nei miei amici, che poco dopo si
interrogano a vicenda circa la presenza di un certo qual odore;
poco dopo un’inconfondibile impennata di tanfo viene identificata con certezza dai presenti come “loffa” (scoreggia silenziosa); alla prima esalazione ne seguono a breve molte altre ravvicinate, tutte prontamente registrate dal fiuto ormai in agguato
dei miei compagni e debitamente commentate dagli stessi. Poi
Apollinaire chiede scusa e ferma l’auto, allontanandosi dietro
un cespuglio: il caso è adesso definitivamente chiarito e la sua
soluzione viene ritenuta ormai prossima. Ma al rientro di Apollinaire nell’abitacolo il tanfo resta, anzi stranamente sembra più
intenso; poco dopo altre folate portano gli astanti ad un concitato vociare, imprecando contro la putrefazione in atto della
“viande de brousse”. I finestrini si abbassano convulsamente ad
ogni poussès, ma quando il pericolo sembra ormai alle spalle
e si richiudono i vetri, il problema resta. Dopo un’altra mezz’ora Apollinaire si ferma ancora e riscappa dietro gli alberi:
ok, si spera che adesso sia finita per davvero. Nel ricomparire
si nota che Apollinaire si gratta il sedere con la tunica, ma non
ci si fa caso, ritenendolo un costume africano. Si riparte, ma il
tanfo è ancora più forte; altri picchi olfattivi e relativi momenti
difficili: ormai l’equipaggio è alla disperazione, tra urla, sonori
commenti e convulsi di riso. Io che non sento gli odori sono
ormai alle lacrime, mentre Apollinaire, di fronte a questi sonori scoppi di ilarità, risponde con composte risatine e sorrisi,
cui corrispondono altrettante invettive da parte del gruppo. Ma
quando si ferma per la terza volta è ormai chiaro che siamo di
fronte alla vendetta dell’armadillo, che gli spiriti della foresta
ne hanno fatto imputridire la carne nelle sue budella e stanno possedendo il nostro incauto profanatore di qualche tabù.
Il clou della storia si ha tuttavia quando esce dal cespuglio e lo
vediamo chiaramente pulirsi ripetutamente il deretano con la
tunica africana. Realizziamo all’istante che il grattamento della
volta precedente altro non era che un movimento postumo della
stessa procedura e che in effetti non vi era traccia di carta igienica, né in macchina, né nelle sue tasche!
I gorilla della foresta
Mentre sbigottiti svolgiamo, ognuno da per sé, questo ragionamento, Apollinaire è già al volante e si riparte. Ma adesso abbiamo capito e la puzza adesso non ci prende più alla sprovvista:
il tanfo di fondo è il vestito imbrattato di merda, poi schiacciata
sul sedile. Finchè restiamo impegnati nella socializzazione di
gruppo della diagnosi, siamo fieri di aver risolto il caso e non
badiamo ad altro; ma appena accertata la dinamica, quando
d’improvviso realizziamo che le esalazioni sono ormai irrespirabili, allora parte l’urlo collettivo liberatorio del “basta, aiuto,
vogliamo scendere”. Mentre Apollinaire frena, il ragazzo che
stava sul cassone ci picchia sul tetto di farci fermare all’istante:
sulla collina, ben visibili, due stupendi esemplari di gorilla della foresta ci guardano circospetti. Ci fermiamo, li osserviamo
e ci osservano a lungo, finchè dopo un bel po’ si allontanano
guardinghi curandosi le spalle a vicenda. Sono splendidi ed abbiamo assistito ad un evento eccezionale, che gli stessi Ranger
non avevano mai avuto l’occasione di vedere: non è infatti da
tutti i giorni incontrare i gorilla della foresta. Non sappiamo se
questo sarà in futuro un nuovo metodo per avvicinare questi rari
primati, ma è invece un fatto confermato e si può quindi ben
dire, che la merda porta fortuna.
6
Gabon: circoncisione Batoka a Okanja
Roberto Pattarin - Sondrio
F
RONTIERE
Club Magellano
L’anima del viaggiatore
Viaggiare con lentezza
di Giovanni Barbieri
Mi piace scrivere dei miei viaggi: per me viaggiare è soprattutto
un modo di vivere. Si può viaggiare per tanti motivi: per infiniti interessi, per ampliare le proprie conoscenze, per ritrovare
se stessi, per cercare un contatto diretto con la natura o con la
gente. Un viaggio non inizia quando si parte, ma molto prima.
Viaggiare significa sognare, vivere la futura meta attraverso le
letture, la musica, la cucina, la storia. Viaggiare significa sognare sulle carte geografiche, riempire di progetti e aspettative le
lunghe sere invernali, preludio del viaggio che verrà.
Oggi non scrivo di un viaggio in particolare, ma del mio modo
di viverlo “con lentezza”. Mi è venuto questo spunto perchè
il 19 febbraio scorso si è celebrata la giornata mondiale della
lentezza, dedicata a quanti hanno la sensazione che il mondo
giri troppo in fretta per rimanervi in equilibrio. Sempre più persone abbracciano la filosofia slow, come testimonia il successo
del movimento Slow Food, portabandiera della riscoperta della
qualità della vita che, partendo dal cibo, tocca ormai tutti i luoghi e i modi del vivere. Per molti la velocità è scorretta e non
fa più tendenza, anzi, la lentezza è vista come antidoto “contro
il logorio della vita moderna”, come diceva Ernesto Calindri
in una famosa pubblicità. Alcuni spunti su questa filosofia di
lentezza li ho trovati nel libro del giornalista canadese Carl
Honoré: “E vinse la tartaruga”. Per l’autore rallentare non significa ripiombare in una società medioevale che per principio
rifiuta il progresso. La soluzione sta nel mezzo, nel riprendersi
il proprio tempo, senza disdegnare le innovazioni, figlie della
velocità, che ci permettono di migliorare la qualità della vita.
Ormai, stare fermi senza fare nulla, o fare solo una cosa alla
volta è ritenuto quasi un peccato mortale: ci siamo così abituati
alla velocità che non sopportiamo la sosta al semaforo, la fila
alla posta, il ritardo del treno, addirittura un secondo di attesa
su internet ci sembra un’eternità.
La frenesia della vita moderna e il nostro modo di spostarci da
un paese all’altro, ci hanno fatto perdere il piacere di viaggiare,
ormai superato dalla fretta di arrivare a destinazione. Il viaggiare non è semplicemente lo spostarsi da un posto all’altro, è
importante anche “vivere” il tragitto che ci separa dalla meta.
L’uso della velocità riduce sempre più il percorso di avvicinamento ad una perdita di tempo, il piacere di viaggiare è cancellato, ridotto quasi ad un tempo morto. Personalmente utilizzo
il mezzo aereo per raggiungere il Paese che voglio visitare. Poi
arrivato a destinazione cerco di evitare l’aereo per gli spostamenti interni, perché solo i mezzi pubblici mi permettono di
capire un luogo e la sua gente. Treno, autobus e barca creano
le condizioni per fare incontri insperati e conoscere la gente del
luogo. Viaggiando lentamente si colgono dettagli che altrimenti
si perderebbero, cambia anche il modo di porsi nei confronti
della natura e delle persone incontrate. Viaggiando in questo
modo non so quando arriverò a destinazione. Capita che i mezzi non partano affatto, che siano in ritardo, che non si fermino
perché pieni, magari si aspetta senza sapere quando passerà il
successivo. Ma viaggiando con lentezza, l’attesa di un bus, un
ritardo non previsto, un problema meccanico sono più leggeri.
Lentezza significa preferire il mezzo pubblico all’aereo, le
piccole pensioni ai grandi alberghi, scegliere un ristorante frequentato da gente del posto, leggere giornali locali e libri che
raccontano i luoghi che si vogliono visitare, acquistare guide
alternative che non ci portino a trovarci tutti negli stessi posti. Magari una vacanza così finisce per essere meno bella da
raccontare, ma sicuramente più interessante da vivere. Tanti mi
dicono: “Viaggiare come fai tu è bello, ma ci vuole tempo”.
Rispondo sempre che non è necessario visitare l’India o la Cina
in dieci giorni, magari ci si può limitare ad una sola regione o a
una parte limitata del Paese, ma il mio consiglio fa pochi proseliti. La superficialità non è colpa dei turisti, ma è causata dallo
scarso tempo a disposizione. Il turismo moderno nasce con le
ferie, e la loro brevità impone la velocità, non solo negli spostamenti iniziali, ma per tutto l’arco del viaggio. E la velocità
impedisce gli incontri e la comprensione.
Un bel libro di viaggio dove impera la lentezza è il libro di Tiziano Terzani: “Un indovino mi disse”. Il giornalista si ritrovò
nel 1993 a viaggiare senza mai prendere un aereo. Prese questa
decisione dopo che un indovino, nel 1976 a Hong Kong, gli
disse: ”Fai attenzione! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai”. Sedici anni
dopo, la profezia a lungo dimenticata, si ripresenta nella mente
di Terzani, che decide di assecondarla. L’autore si sente stanco, dubbioso sul senso del suo lavoro e vede la profezia come
un’occasione per guardare il mondo con occhi nuovi. Per un
anno non prenderà aerei e andrà girando per l’Asia intera e poi
fino a Firenze, senza mai volare. Il risultato è un libro che è insieme romanzo d’avventura, autobiografia, racconto di viaggio
e reportage. Nel libro Terzani parla dei pensieri, delle tradizioni
e delle condizioni di vita nel mondo orientale. Con malinconia
racconta della vittoria della modernizzazione e dell’abbandono
delle tradizioni, di usi e costumi che facevano dell’Asia il polo
di un pensiero diverso, che ora irrimediabilmente, non è più.
Non è passato così tanto tempo da quanto Terzani ha scritto
In autobus sulla Via della Seta - Giovanni Barbieri - Varese
7
F
RONTIERE
Club Magellano
L’anima del viaggiatore
questo libro, eppure mi sembra che uno stile così sia perso nel
tempo. Oggi un giornalismo così non avrebbe speranze e non
troverebbe nessuna giustificazione o motivazione. Forse la nostra società attuale ci direbbe che Terzani è matto. Terzani mi
ricorda il modo di viaggiare di Ettore Mo, il grande inviato speciale del “Corriere della Sera” che adesso, anche se in pensione, continua a girare il mondo in cerca di storie da raccontare.
Ultimamente ha scritto due libri: “Treni” e “Fiumi”. Il primo è
una serie di racconti a bordo di vecchie carrozze passeggeri e
treni merci nei cinque continenti. Il treno è un vettore che gli
permette di conoscere l’anima dei luoghi più remoti e impenetrabili, vivendo le storie e le emozioni di uomini e donne che li
abitano. In “Fiumi” invece, il viaggio si snoda lungo i percorsi
tortuosi di fiumi ricchi di storia: dall’India alla Cina, dall’Eufrate al Piave, dal Mississippi al Danubio.
Alcuni racconti con esperienze di lentezza sono presenti sul sito
web www.asiaroad.it. dedicato ai miei viaggi, eccone alcune.
La bicicletta
Negli ultimi anni ho scoperto un nuovo modo di viaggiare lentamente. La bicicletta è forse il migliore dei compromessi tra
il bisogno di lentezza e la possibilità di percorrere distante notevoli. Al momento della partenza, dopo mesi di allenamenti,
progetti e fantasticherie sui luoghi da visitare, provo una strana
sensazione, composta da un misto di adrenalina e dal timore di
non riuscire nel mio intento. Il viaggio è punteggiato da incognite che m’incuriosiscono e mi stimolano, ma appena salgo
sulla bicicletta e inizio a pedalare, tutto acquista una nuova dimensione. Finalmente distanze, fatica, pioggia, vento, caldo e
freddo, sono solo quotidianità. Porto con me tutte le mie cose,
come una tartaruga che ha sulle spalle la propria casa. Pedalare
per giorni mi regala serenità, benessere fisico e una strana illusione di libertà.
L’Himalaya indiano da un finestrino
Un’altra bell’esperienza di lentezza l’ho vissuta nella regione
dell’Himalaya indiano, dove mi ero riproposto di viaggiare in
autobus, o approfittando d’autostop su camion coloratissimi o
su moto Vespa. Quando è stato possibile, ho cercato di dormire
e mangiare nei monasteri, perchè volevo isolarmi dal mondo
intero. Ero solo con la mente e con i miei pensieri: il camminare
era una splendida panacea per liberare la mente affaticata da
troppi pensieri e coltivare l’humus della scoperta. Volevo giornate scandite solo dal sorgere e dal tramontare del sole, dove
trovare il tempo necessario per osservare, con ritmi non occidentali, quello che mi circondava. Cercavo questo, ed è stato
ciò che ho trovato.
La carrozzella a pedali
In Vietnam, avevo il desiderio di salire su un cyclo – pousse, la
scenografica carrozzella a pedali che ormai porta in giro quasi
solo turisti, perché i cittadini di Hà Nôi, utilizzano scooter o
moto taxi. Viaggiare sul sedile di un taxi a pedali rappresenta
l’elogio della lentezza, si procede talmente piano da avere una
prospettiva così diversa, anche rispetto a quando si cammina o
si è in sella ad una moto. Cambia anche la cognizione del tempo: attorno a te tutto è frenetico, mentre tu non hai orario, tutto
si dilata. Questo ritmo lento permette di osservare ciò che sfugge al viaggiatore che deve semplicemente coprire la distanza fra
due punti. Il cyclo come metafora della vita, perché per capire
che cosa sia veramente importante, occorre rallentare.
Vorrei terminare con “Ode alla vita” di Pablo Neruda, un inno
alla vita e al viaggio.
Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza,
per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare,
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.
8
In bici in Indocina - Giovanni Barbieri - Varese
F
RONTIERE
Argonauti Explorers
L’angolo del naturalista
Zambia: Bangweulu,
l’enigma del leone
d’acqua
di Marco Bono
L’immaginario del Continente Nero è particolarmente ricco di
storie su animali mostruosi ed ignoti. Bangweulu significa letteralmente “Il luogo dove l’acqua incontra il cielo” in lingua
pemba e le leggende narrano che in esso dimorerebbe un essere
chiamato “chipekwe”, ovvero il “Leone d’acqua“. Sul finire del
19°secolo e agli albori del 20° molti esploratori udirono storie
affascinanti su un essere dimorante in quelle acque, uccisore
di coccodrilli ed ippopotami, la cui assenza non era sfuggita
ai viaggiatori. Hagenbeck, un naturalista cacciatore, gran conoscitore della fauna mondiale e direttore dello zoo di Amburgo, era così convinto che dietro la leggenda ci fosse una specie
ignota che organizzò una spedizione con l’intento di catturarla.
Spedizione che si concluse senza alcun successo.
Da Lusaka al Bangwelu sulle orme di Livingstone
Affascinato da queste storie decido di compiere una spedizione
sulle sponde di questo lago misterioso, ai confini tra Zambia e
Congo. Il corrispondente da Lusaka, con molta difficoltà riesce a raccogliere notizie sulla mèta: si tratta di un luogo in cui
pochissimi stranieri si avventurano. Trattasi, comunque, di una
zona interessante dal punto di vista naturalistico, specialmente per l’avifauna. Il desiderio di acquisire elementi su questo
mistero è molto forte. Da Lusaka sono necessarie 10 ore per
raggiungere il limite delle paludi e 4 per attraversarle fino al
camping Shoebill. Dopo alcuni posti di blocco si raggiunge il
territorio detto “Bangweuli Swamps”. La caratteristica saliente
sono i numerosi termitai, di dimensioni anche considerevoli:
su uno sarebbe stato costruito un minuscolo villaggio di alcune
capanne. Livingstone, che qui concluse i suoi giorni, descrisse
la piana alluvionale del Bangweulu come “Un mondo di acqua
e di termitai”: infatti durante la stagione delle piogge questa
piana viene totalmente allagata e i termitai fungono da isolette
rifugio per animali e piante, permettendo la sopravvivenza di
vari semi di albero. La vegetazione è data da piante ed arbusti
quali il cosiddetto albero delle salsicce o la Kigelia africana,
talora organizzati in piccoli boschetti. Alle 4 del pomeriggio il
nostro land rover lascia la strada principale addentrandosi nelle
paludi, seguendo l’indicazione per il Livingstone Memorial. Lo
sterrato totalmente accidentato è immerso in una fitta boscaglia
di acacie e di cespugli inframmezzati da termitai che, di tanto in
tanto lasciano il posto a qualche sparuto villaggio, i cui abitanti
hanno le fattezze tipicamente congolesi; il grande paese è a pochi chilometri dal territorio che si sta percorrendo e in quel frangente è in corso una guerra. Mentre la savana si infittisce il cielo
acquista la tonalità del tramonto d’Africa con una luce dorata
che si espande fino all’estremo limite dell’orizzonte, mentre va-
riopinti uccelli di ogni tipo svolazzano tra i rami. L’improvviso
apparire di un piccolo lago sulle cui sponde si trova un piccolo
camping conferisce un ulteriore tocco di bellezza a tutto questo
insieme. Fatta una breve escursione incontriamo un gruppo di
donne aventi tanti bambini piccoli con sé, si tratta di ragazze
madri e vedove. Le informazioni su di loro riusciamo a recepirle con molta difficoltà, visto che loro non capiscono l’inglese e
si deve quindi ricorrere al linguaggio dei sordomuti. La nostra
guida ci narra le vicissitudini di alcune di loro, traducendoci dal
loro idioma. Il territorio è sempre più arduo e la strada si fa sempre più tortuosa per cui non si riesce a trovare la via che porta
allo Shoebill Camping, finalmente, reclutato un ragazzino di 14
anni riusciamo a farci indicare il sentiero perduto nell’intrico di
paludi e fitta vegetazione, sono le 20 la notte è calata e l’aria si è
fatta molto fredda. All’alba un piccolo camion ci conduce a fare
un’escursione sino all’orlo delle paludi, si passa attraverso una
sconfinata distesa di erbe alte leggermente ingiallite per la stagione secca con la costante presenza dei termitai. All’orizzonte
si scorgono branchi di lecwe, l’antilope nera caratteristica di
queste paludi, i branchi constano di alcune decine di individui.
Dopo un poco il rumore di una fucilata lacera l’aria: si tratta
di bracconieri. La savana si fa sempre più acquitrinosa, come
un’immensa risaia; poi all’improvviso compare la palude vera
e propria, estesa in totale come varie regioni italiane prese assieme. Oltre un canneto si trova una piccola canoa sulla quale si
prende posto, i barcaioli remano ritti alla maniera di gondolieri
veneziani. La piccola imbarcazione penetra un dedalo di canali
circondati da un’intricata barriera di papiri e piante acquatiche;
in certi punti la superficie dell’acqua è quasi totalmente ricoperta dalle ninfee, un vero eden in cui domina l’avifauna: aironi
di ogni tipo svolazzano o si muovono lungo le sponde pronti
a ghermire i pesci, più oltre si stagliano nitterie del Senegal o
gru coronate. Una cicogna detta “Becco a scarpa” è simbolo di
questo ambiente. Dopo essermi inoltrato nelle paludi con l’acqua gelida che mi arriva quasi al ginocchio ne avvisto una in
lontananza mentre sta immergendo l’enorme becco in cerca di
cibo, col binocolo riesco con difficoltà a discernere i particolari
anche se mi sembra che abbia afferrato qualcosa di grosso, che
la guida dice essere un protottero, il famoso pesce polmonato
delle terre del rift.
Zambia: il lago Bangweulu - Marco Bono - Milano
9
F
RONTIERE
Argonauti Explorers
L’angolo del naturalista
Il Leone d’Acqua
Chiedendomi se la fortuna continuerà ad assistermi così, domando informazioni sul chipekwe. Le guide, dopo essersi consultate, mi rispondono che è più probabile raccogliere informazioni nella zona del lago vero e proprio situata intorno alla città
di Samfia, capitale del distretto di Bangweulu. Mentre riattraverso la palude per tornare al campo base dello Shoebill mi
salta all’occhio un particolare; per la prima volta in uno specchio d’acqua del Continente Nero non scorgo coccodrilli ed
ippopotami: nel primo caso potrebbe trattarsi di un’abitudine di
questi rettili carnivori, ma mancano anche i cavalli di fiume, che
sono presenti anche nei più modesti laghetti. Questo fatto rimanda all’autore di un libro intitolato “Diciotto anni sul Bangweulu” della prima metà del Novecento J.Hughes, il quale,
interogati gli indigeni su questa strana assenza, si sentivano rispondere che questo fatto si sentiva rispondere che coccodrilli e
ippopotami erano terrorizzati dal “leone d’acqua” il Chipekwe.
I succitati viaggiatori erano, tra l’altro, esperti conoscitori della
fauna africana e di altri continenti, tuttaltro che disposti a farsi
suggestionare dai miti degli indigeni, anche se è estremamente
difficile concepire che un animale possa terrorizzare i coccodrilli e specialmente gli ippopotami capaci di rovesciare imbarcazioni. Un simile animale dovrebbe essere un pachiderma il
che gli renderebbe impossibile passare inosservato. Cosa si può
dunque supporre riguardo a questo mistero celato in queste paludi sterminate? Attraversate le paludi facciamo conoscenza
10
Zambia: le paludi del Bangweulu - Marco Bono - Milano
con la popolazione locale che è amichevole, pacifica e felice di
mostrarci le sue tecniche di pesca con piccole reti a canestro in
cui restano impigliati soprattutto i pesci gatto. Attraversato il
luogo in cui si trova il Livingstone Memorial si percorre la route north west che costeggia il confine congolese passando presso il fiume Luapula. Samfia, raggiunta a notte inoltrata, appare
come un remoto e tenebroso avamposto di frontiera, immerso
nella classica flemma africana. Si alloggia al Transport Hotel
gestito dalla compagnia di navigazione lacustre . Al mattino il
Bangweulu, che alla notte era una immensa distesa tenebrosa
appare come un mare sconfinato dall’accesa tonalità blu scura
che sotto il sole tropicale acquista uno scintillante sfavillio sulle
creste delle onde in un modo simile a quello dell’ Atlantico. Al
bar del Transport avviene un incontro fortuito con un ospite
dell’hotel interessato a fare conoscenza con gli stranieri: si
chiama Sidney, è laureato in biologia e lavora come biologo
presso il dipartimento della pesca del Bangweulu con l’incarico
di censire le specie ittiche dello sconfinato lago, soprattutto per
quel che riguarda la loro capacità riproduttiva onde adeguare le
attività di pesca con particolare riguardo alla protezione degli
esemplari giovani. Dalla biologia ittica il discorso arriva rapidamente al Chipekwe: sulla veranda di un bar affacciato sul lago
sconfinato color blu scuro bevendo birra ci si scambia le idee.
Sidney con un certo orgoglio fa notare che quel luogo può essere considerato, per certi aspetti, il Loch Ness del continente
nero, ma come nel caso scozzese, non vi è nessuna prova concreta. Davanti al Bangweulu Lodge sorge su una piccola spiaggia posta mezzo km fuori da Samfia: è una costruzione semplice dotata di un ristorante , un bar , alcuni bungalows e una zona
camping. La spiaggia circostante ha un aspetto del tutto estraneo all’Africa assomigliando a un paesaggio del nord Atlantico.
Intorno ad essa c’è una barriera di vegetazione, superata la quale si estendono soltanto paludi sconfinate. Questo sistema lacustre deriva dalle esondazioni del Luapula ed ha una profondità
massima non superiore ai 15 metri. L’escursione nel cuore delle
paludi tra il lago e il Luapula necessita di una certa preparazione tecnica, è infatti necessaria una barca a motore, una di quelle
capaci di affrontare l’oceano, con un pilota e un tecnico del
motore, una cospicua quantità di combustibile, alcuni permessi
sotto forma di tassa governativa che Sidney si interesserà di
farmi ottenere in breve tempo. Passati due giorni mi viene comunicato che la spedizione è fattibile e che il ricercatore verrà
come guida. La partenza avviene il giorno dopo nei pressi del
dipartimento ittico; a una stazione di rifornimento si carica il
combustibile, quindi ci si imbarca dopo avere firmato la concessione. L’imbarcazione è situata nei pressi di un molo vicino all’albergo in una piccola insenatura a breve distanza dalle due
enormi navi che giornalmente attraversano il lago: la Bangweulu e la Friendship, entrambe di fabbricazione norvegese,
come il motoscafo da noi affittato. Alle dieci ci si imbarca e,
dopo pochi minuti ci si trova soli nel cuore dell’immenso lago
con la riva lontanissima che si intravede appena come una linea
sottilissima. Il cielo si è fatto particolarmente nuvoloso per cui
F
RONTIERE
Argonauti Explorers
L’angolo del naturalista
le acque acquistano una tonalità grigio scura, rendendolo particolarmente simile all’Atlantico del nord, un tipo di panorama
che non ci si aspetterebbe mai di trovare nel cuore dell’Africa.
Il motoscafo poi attraversa un breve istmo paludoso, oltre di
esso si trova un piccolo laghetto satellite del Bangweulu, passato il quale c’è un posto chiamato Tiger Fish Haven. La mototobarca, solcando le onde create dal vento forte, raggiunge un
tratto di costa coperto da una fittissima vegetazione palustre;
dopo alcuni minuti il pilota si infila in uno stretto canale che
procedendo si restringe per il graduale ispessirsi di canneti e di
distese di papiri; più di una volta ci si deve arrestare per liberare
l’elica dalle erbe impigliatesi, poi finalmente ecco il lago minore che, per l’aspetto, richiama il delta del Po, popolato da pescatori viventi in minute capanne ad utilizzo stagionale esclusivamente nella stagione secca. Tale ambiente ricorda quello della
laguna veneta di secoli o millenni fa con un tocco di africanità.
L’acqua ha il solito colore blu grigiastro interrotto sporadicamente da un raggio di sole che a tratti riesce a perforare le nuvole. Finalmente lungo la costa si delinea una struttura di capannoni di legno: il Tiger Fish Haven in cui sporadicamente
soggiorna qualche studioso o ricercatore occidentale attratto
dalla possibilità di rilevare qualcosa di interessante. Il lodge
consta di alcuni bungalows molto spartani, una cucina self catering ed una piccola reception in cui risiede il guardiano. Quest’ultimo e un altro locale si fanno incontro a noi appena scesi a
terra, entrambi hanno l’aria incuriosita di chi incontra molto
raramente dei visitatori stranieri; quello che accompagna il
guardiano è il maestro del villaggio. Costui, conosciuto il motivo della vista dice che da tempo circolano voci sulla presenza di
un animale sconosciuto nelle acque del lago e delle paludi. Ma,
prima di procedere nella ricerca, per rispetto alla tradizione locale bisognerà chiedere il permesso alla regina di quella parte
del lago, visto che anche qui, come in molte altre parti dell’Africa, vige il matriarcato. Ci incamminiamo lungo un sentiero che porta verso la “sede regale”. Vengo edotto sul “protocollo” da seguire davanti alla sovrana. Attraversato un piccolo
boschetto posto su una minuscola baia raggiungiamo dopo pochi minuti un villaggio maggiore degli altri al centro del quale
si trova una grande costruzione di legno molto più ampia delle
circostanti. Il pilota parla brevemente con un anziano che sedeva lì vicino che, alzatosi, entra rapidamente nella grande abitazione da cui dopo alcuni minuti esce una donna alta ed avvenente, al cui cospetto tutti si inginocchiano, compresi i miei
accompagnatori che invitano anche me ad imitarli. La regina fa
a me un cenno di avvicinarmi e al suo fianco si pone un uomo
giovane: è il principe, al quale offro tabacco ed altri doni che
dice di chiamarsi “Prince Felix”. Fattomi cenno di accomodarmi su una sedia che sua madre ha fatto portare, mi invita a parlare, tradotto dai miei accompagnatori. Conosciuto il motivo mi
espone le sue idee. Nelle paludi di Bangweulu dimorerebbe
transitoriamente e saltuariamente un animale strano il cui aspetto richiamerebbe da lontano quello di un sauro preistorico avvistato anche da alcuni suoi sudditi. Ma vivrebbe soprattutto nel
lago Mweru, situato più a nord a ridosso della Repubblica del
Congo nelle cui giungle e paludi sarebbe avvistato molto più di
frequente. Quindi questo animale vivrebbe nei corsi acquatici
che attraversano le immense foreste tropicali come i vasi sanguigni il corpo umano racchiudendo chissà quanti segreti ancora. Il Bangweulu in questo contesto sarebbe solo l’estremo confine di questa creatura criptica. La regina ci invita a trascorrere
la notte nella sua dimora e alcune stanze vengono allestite apposta per l’occasione. Viene imbandita anche una cena a base di
pollo e di pesce e gli abitanti si scatenano in danze tradizionali
della loro comunità. Il giorno dopo, salutati gli illustri ospiti, ci
si inoltra tra i boschi e la palude, ritornando al Fish Tiger con
l’autorizzazione regale. Il maestro che ci aveva aspettato ci accompagna fino ad una capanna davanti alla quale stazionano
parecchie persone soprattutto bambini disposti intorno a colui
che ha tutta l’aria di essere il più anziano che cordialmente ci
invita a sederci. I miei accompagnatori gli pongono alcune domande in lingua pemba traducendomi la sua risposta. Sì, nel
lontano 1989 lui vide realmente uno strano animale sdraiato su
una spiaggia lì vicino a crogiolarsi al sole; lungo cinque o sei
metri di colore verde scuro, aveva la parte anteriore del corpo
assomigliante a quella di un coccodrillo e la posteriore, invece,
uguale a quella di un pesce, la pelle totalmente coperta di squame . L’anziano pescatore ha tutta l’aria di essere sincero, non
essendoci del resto alcuno motivo per montare una storia fasulla, vista la scarsa praticabilità della zona dal punto di vista turistico. Ma, allora, in questo caso, di quale tipo di animale potrebbe mai trattarsi? Quale specie potrebbe avere questo aspetto
ibrido? Cosa potrebbe essere una simile chimera? Forse un
qualche tipo di dipnoo (pesce polmonato) molto diffusi nel continente nero, giunta al gigantismo, come succede spesso nei
pesci. Ed è lo stesso animale, che in altre aree viene chiamato
Mokele Mbembe, Nyala o Dingonek? E perché nel Bangweulu
non si trovano coccodrilli ed ippopotami? Come farebbe questo
ipotetico animale a costringerli alla fuga? Qualunque sia la risposta a questi quesiti è un enorme piacere apprendere come in
un‘epoca che vede un sempre crescente numero di specie minacciate di estinzione possano esisterne altre ancora da scoprire.
Zambia: i papiri del Bangweulu - Marco Bono - Milano
11
F
RONTIERE
Itinerari Africani
Dossier
Il bacino del fiume Niger - Seconda parte
Nella prima parte di questo Dossier, pubblicata sul n.9 di Frontiere, abbiamo affrontato il contesto geografico e culturale della
parte orientale del fiume Niger. Proprio qui infatti le grandi migrazioni arrivarono dal Nilo, trovandovi la possibilità di una nuova
vita. Si narra infatti che una parte della diaspora del Regno Nubiano di Kush (Meroe), a seguito della sua distruzione ad opera
degli Axumiti nel 300D.C., si diresse verso ovest, attraversando il Darfur fino al lago Tchad e da qui al fiume Niger. I Peuls, che
ne sarebbero i discendenti, hanno poi risalito il suo corso fino alle sorgenti, portando con sé, nell’incontro e nel rimescolamento
con le popolazioni locali, quei caratteri nilotici che ancora li contraddistinguono, come se una cultura millenaria, quella egizia,
avesse trovato il modo di sopravvivere a sé stessa. Abbiamo allora affrontato le relazioni tra deserto e sahel dal Tenerè, con le sue
oasi e le sue saline attraversate dalle carovane Azalai Tuareg e Toubou, alle grandi praterie dei pastori nomadi Peuls, fino alle
regge in banco Haoussa, ai confini con Benin e Nigeria. La seconda parte è invece dedicata al tratto più a monte, dalle sorgenti
in Guinea al lungo tratto orizzontale che attraversa il Mali fino a Gao, oltre la grande ansa di Timbouctou. Si tratta del cuore
geografico, storico e culturale del fiume Niger, anche per la presenza di un unicum ambientale che tanto ha influito sulle relazioni
economiche e sociali tra deserto e sahel: il delta interno del Niger. Solo un cenno viene invece qui riservato alla cultura Dogon,
la cui complessità ed interesse suggeriscono una trattazione a parte.
Il fiume Niger
di Roberto Pattarin
Il fiume Niger nasce dai Monti Loma, nell’altopiano del Fouta
Djallon, nell’attuale Guinea Konakry. A meno di 10km dalle
sue sorgenti sgorga il Sewa, che invece corre a sud in Sierra
Leone ed in soli 250km si getta nell’Atlantico; il Niger, che
piega invece a nord, impiegherà ben 4.200km per raggiungere
l’Oceano. Il suo corso punta infatti a nord, verso il Sahel, che
costeggia nella sua fascia esterna in direzione nord ovest fino a
Timbuctù, dove forma una grande ansa, per poi piegare verso
sudest per raggiungere l’Oceano nel Golfo di Guinea. Politicamente, dalle sorgenti in Guinea scorre per il suo tratto maggiore in Mali e dopo la grande ansa segna il confine col Niger,
il Burkina Faso ed il Benin, per aprirsi infine un varco verso le
foreste tropicali ed i pozzi di petrolio del golfo del Biafra.
Le sorgenti nel Fouta Djallon
E’ un verde altopiano sui 1.500mslm con al centro la città di
Labè, regione rinomata fino dall’era coloniale per il suo clima
fresco ed i suoi spettacolari panorami. Scendere dai verdi pascoli alla fascia costiera della Guinea Konakry, un paese ancor
12
Guinea Conakry: le sorgenti del Niger nel Fouta Djallon
Roberto Pattarin - Sondrio
oggi assolutamente non aperto al turismo, come abbiamo fatto
nel ’92, è una esperienza davvero emozionante: splendide cascate scendono dai grandi picchi verso la densa foresta dando
origine ad un ambiente unico ed affascinante
Il Delta Interno
L’erosione dei millenni ha asportato dal cratone dell’Africa Occidentale, la grande formazione precambriana cui appartiene il
Fouta Djallon, una delle aree più antiche della crosta terrestre,
grandi quantità di materiali, facendo affiorare vene metallifere
e creando grandi depressioni, come la sinclinare di Taoudenni,
nella quale le acque del Niger si sono convogliate seguendone
il decorso verso nord ovest. Ma quando vira a nordest attorno all’altopiano di Bandiagara (Falaise Dogon) il fiume scende di soli 10 metri in 200km: il rallentamento che ne deriva
crea un delta interno di vaste proporzioni, tra Segou, poco oltre Bamako, e Niafounkè, alle porte diTimbouctou. Il Niger,
come il Nilo, attraversa zone calde a scarsa piovosità e risente
quindi di grandi evaporazioni; il fatto che anche lui sia caratterizzato da piene stagionali, dipende quasi esclusivamente dalle
forti precipitazioni alle sorgenti. Ma se il Nilo trasporta dagli
altopiani più recenti e friabili dell’Africa Orientale circa 770
grammi di sedimento per metro cubo di acqua, il Niger riesce
ad erodere al vecchio cratone occidentale solo un decimo: 75
grammi. Meno sedimento quindi, meno limo, meno fertilità.
Quando a settembre il fiume comincia a crescere, le acque seguono sinuosi canali e inondano le terre circostanti, creando
stagni, lagune e paludi: all’apice della piena del Niger e del
suo maggior affluente, il Bani, agli inizi di novembre, vengono
inondati 30.000km2 di arido Sahel, un’area pari al Belgio. A
maggio invece il delta è di nuovo asciutto e perfino i maggiori
tributari si restringono a meno di 10 metri di larghezza e mezzo
metro di profondità. La lieve pendenza crea un innalzamento
ed abbassamento molto lento del livello delle acque, così che
le aree più elevate e distanti restano allagate per non più di 2
mesi l’anno, mentre quelle più basse possono restare anche 6
F
RONTIERE
Itinerari Africani
Dossier
mesi sotto 3 metri d’acqua. Spandendosi sul terreno arido, le
acque si arricchiscono di elementi nutritivi minerali e vegetali
di decomposizione di piante ed escrementi animali che generano un’esplosione di batteri, alghe e plancton che favorisce la
crescita di erbe (bourgou) e riso selvatici (fino a 17 tonnellate
di erbe e 10 tonnellate di riso per ettaro).
La prodigiosa fecondità del delta consente all’uomo particolari
strategie produttive, tra agricoltura, allevamento e pesca.
Gli agricltori seminano il riso in agosto, prima della piena; raccolgono con le canoe quello selvatico ed altre erbe del bourgou
ad ottobre nel corso dell’inondazione; a gennaio col ritirarsi
delle acque seminano mais e sorgo sui terreni umidi appena
riemersi e successivamente raccolgono il riso.
Gli allevatori hanno invece problemi opposti: pascolano le
mandrie nelle praterie a nord del Niger al tempo delle piogge,
da aprile a settembre, per ripiegare a sud nella stagione secca.
Due volte l’anno devono quindi attraversare il fiume, in un senso o nell’altro, col rischio di interferire con i tempi agricoli e di
scatenare conflitti. Ma proprio a ottobre, prima della piena, le
vacche troveranno le stoppie del recente raccolto di mais e sorgo, mentre a maggio, il ritiro delle acque lascerà scoperte una
nuova fonte aggiuntiva di stoppie e bourgou proprio nei mesi di
maggior penuria. La presenza delle mandrie nei campi coltivati
concima d’altronde il terreno e spargerà anche a distanza con
le inondazioni batteri e sostanze nutritive, a loro volta decisivi per una crescita esplosiva della vegetazione e degli alimenti
vegetali.
Mali: la trasumanza sul Niger a Diafarabé - Donato Cianchini - Cuneo
Per i pescatori infine l’inizio del deflusso è la stagione migliore
per la pesca, che essicano e rivendono ad agricoltori ed allevatori in una perfetta economia di scambio. I rapporti FAO parlano di 50.000 pescatori con un bottino di 1.66 tonnellate di pesce
a testa. Infatti la piena libera il pesce, che cresce rapidamente
per l’enorme esplosione di alghe e plancton; quando le acque
calano e la popolazione è al massimo, la competizione alimentare è al massimo e le più grosse specie carnivore si appostano
all’imbocco dei canali in attesa delle prede.
Il delta non è tuttavia un Eden ai bordi dell’Inferno; la sua ricchezza è indubbia, ma purtroppo instabile, fortemente condizionata da ampie variazioni annuali di quantità di piogge, in loco
ed a monte, quindi di date e livelli di piena a valle. E poiché
la quantità che evapora è la stessa, riduzioni delle piogge del
15% possono produrre un calo del 33% del volume d’acqua nel
delta. Ma proprio questa imprevedibilità, che altrove avrebbe
acuito le tensioni tra gruppi, qui ha invece favorito un rapporto
cooperativo tra diverse specializzazioni. La data di attraversamento delle bestie, ovunque fonte di attrito tra agricoltori ed
allevatori, diviene qui una occasione di attenta concertazione.
Ogni anno complesse e fini discussioni si tengono con largo
anticipo, fino a determinare l’esatta data della transumanza di
milioni di capi attraverso il fiume. E’ questa l’occasione per una
forte sinergia ed incontro: ad ottobre ed a maggio gli allevatori
arrivano al fiume: in cambio del concime ai campi e di carme
comprano farina e riso dagli agricoltori e pesce secco dai pescatori, che fanno l’inverso. E’ il tempo delle feste, dei matrimoni e
dei cantastorie Griots: adesso come nei secoli passati.
13
F
RONTIERE
Itinerari Africani
Dossier
Per sfruttare l’ambiente del delta, che tanto dà, ma in poco tempo, non era appropriata la monocultura, perché poco efficace,
né la polivalenza, perché poco efficiente: occorreva specializzazione e diversificazione. Un esperimento sociale di grande
interesse, ma molto complesso, perché presuppone sinergia e
non conflitto: non è un caso che i miti, le leggende e le storie
dei Griots parlino più di obblighi verso gli altri che di diritti
e quando raccontano di guerre, più che di onori dei vincitori,
enfatizzano i guai per tutti conseguenti.
Gli altri esempi al mondo di simbiosi fra gruppi prevedono che
ognuno occupi nicchie distinte, sia in termini lavorativi che territoriali, e si incontri solo per lo scambio. Qui invece la vicinanza e la contiguità sono stretto, la tolleranza grande, visto che a
ognuno è consentito mantenere i propri caratteri distintivi (acconciature, scarificazioni, abbigliamenti, matrimoni frequenti,
senza assimilazioni. L’identità etnica, così spesso elemento separatore gravido di conflitti nella società moderna, e qui invece
anche fattore unificante ed aggregante.
Jenne-Jeno e Timbouctou
Le prime popolazioni giunsero nel delta dal Sahara in progressivo inaridimento verso il 500 AC; Jenne-Jeno è un tipico
tell, una collinetta che nasconde i resti di un villaggio. Datano
all’800 DC terrecotte, abilità artigianali in ferro, monili di oro
e rame; manufatti di origine lontana suggeriscono la presenza
di grandi scambi. Non si nota invece nessun segno di gerarchie
sociali autoritarie, come mura e monumenti di casta. I 27.000
abitanti, molti per l’epoca, erano invece organizzati in 25 collinette, ognuna caratterizzata da manufatti particolari: una città
14
Mali: donna Bozo a Djenné - Roberto Pattarin - Sondrio
Guinea Conakry: donna Fulani - Roberto Pattarin - Sondrio
organizzata in quartieri specializzati (pescatori, fabbri, agricoltori, vasai, tessitori). Anche qui gruppi etnici diversi, accomunati da credenze religiose condivise, vivevano vicini, ma non
assimilati, senza bisogno di un’autorità superiore di dominio,
regolazione e controllo. Specializzazione e diversità etnica, ma
potere coesivo dell’integrazione, con miti e credenze condivise,
che sottolineavano sia l’identità che l’interdipendenza. JenneJeno durò dall’800 al 1300, poi crollo: cambiamento climatico?
Fattori esterni come l’islam? O la peste arrivata con le carovane
nel XIII secolo?
Si ritiene che ad introdurre il cammello nelle vie sahariane siano stati i progenitori berberi degli attuali tuareg tra il II e il V
secolo DC. Nell’800 70.000 carichi di sale partivano da Tichit,
Teghaza e Taoudenni per il fiume Niger. Due volte l’anno migliaia di cammelli si radunavamo a Timbouctou e le Azalai, le
carovane del sale, si snodavano per 50km su un percorso di 800,
riportando 5.000 tonnellate di sale l’anno. Era pura salgemma
in lastre da 30kg, come lapidi di marmo. Ancora nel 1990 nelle miniere di Toudenni lavoravano gli schiavi, neri indebitati:
6 giorni di lavoro, il settimo per loro; se non estinguevano il
debito e morivano, toccava ai figli. (Fellah). Ed il fiume lo trasportava prima con imbarcazioni ricavate dai tronchi, poi con
chiatte a Djennè o Gao, quindi in mulo nelle foreste del Ghana
e Costa d’Avorio
Mali: barche Bozo a Mopti - Donato Cianchini - Cuneo
F
RONTIERE
Itinerari Africani
Dossier
Mali: crocevia di storia
e cultura
di Monica Pellegrino e Donato Cianchini
Il quadro storico
In virtù di una posizione geografica privilegiata, il Mali ha da
sempre evocato ricchezza, potere e sapere. In questa zona dell’Africa occidentale dal 300 a.C. al XIV secolo, si sono succedute grandi dinastie e regni potenti che condizionarono la vita
sociale, politica e culturale, divenendo il punto di convergenza
dei traffici carovanieri fra l’Europa e l’Asia. Tre grandi imperi
dominarono in epoche diverse. Quello del Ghana (dal 300 a.C.
al XI secolo), quello degli Askya-Songhai (dal XIV al XVI secolo) e quello del Mali (dal 1.240 al 1.500). Grazie all’oro e al
commercio sahariano, contribuirono a rendere immortale la storia di questo paese. Si racconta che l’imperatore Kankan Moussa durante il suo viaggio alla Mecca dal 1324 al 1326, portò con
sé 150 kg di oro, elargendolo in tutti i luoghi del suo passaggio.
Questa prodigalità diffusa, fece crollare il valore della moneta
egiziana per diversi anni! Il prestigio del Mali superò presto i
confini sahariani spingendosi fino alle coste del Mediterrraneo.
La città di Timbuctù che verso la fine del XVI secolo contava
più di 100.000 abitanti (oggi solo 15.000!), divenne il centro
commerciale e culturale più importante del Sahara.
Il quadro geografico
In Mali la maggior parte dei luoghi traboccano di storia, miti e
leggende. Altri sono pervasi da un alone mistico, quasi irreale.
Le città, e i villaggi sparsi nelle piane del Sahel, offrono calore
umano, e nei giorni di mercato, una profusione di odori e colori
vivaci. Molteplici sono gli spunti interessanti per programmare
un viaggio in questo lembo d’Africa. Territorialmente il Mali
si estende tra i rilievi dell’Africa guineana a sud e i massicci
del Sahara centrale a nord. Nella fascia intermedia nota come
Sahel, vaste pianure di arbusti e graminacee si estendono all’infinito. E’ il luogo ideale per i pastori Fulani che nomadizzano
con le loro mandrie alla perenne ricerca di nuovi pascoli. Tra
il villaggio di Markala e il lago Faguibine, una vasta area depressionaria accoglie le acque del fiume Niger dando origine
all’ampio delta interno. Tra luglio e gennaio le piene raggiungono questa regione inondando i terreni per una superficie pari
a 54.000 kmq. Le inondazioni sommergono i campi coltivati
costringendo i pescatori Bozo a spostare i loro insediamenti.
Il delta si trasforma in uno straordinario universo acquatico. Il
fiume Niger è per i maliani il Djoliba il grande sangue mentre
i Tuareg lo chiamano il Gher-n gheren, il fiume dei fiumi. Nasce dalle viscere montagnose del Fouta Djallon in Guinea, e
attraversa per 1700 chilometri navigabili il territorio maliano
unendo tutte le maggiori città, dalla capitale Bamako a Segou,
da Mopti a Timbuctù fino a Gao. Il fiume regola la vita e condiziona il carattere delle diverse etnie che vivono in contatto con
esso. In particolare quella dei pescatori Bozo, dei pastori Peul
e degli agricoltori Bambara, Bobo e Songhai. Come nell’antichità, il fiume è un’importante via di comunicazione solcata da
innumerevoli imbarcazioni che trasportano ogni tipo di mercanzia, dal pesce essiccato al legname, dalle lastre di sale alle
stuoie vegetali. Si naviga su piroghe affusolate che scivolano
via leggere e silenziose, oppure su quelle a motore, chiamate
pinasse, utilizzate anche dai viaggiatori per addentrarsi nelle innumerevoli diramazioni del delta, attraverso villaggi rivieraschi
di rara bellezza in un paesaggio fluviale dove si alternano dune
di sabbia e campi coltivati. Dal porto di Mopti ci sono 2 solu-
Mali: mercato a Djenné - Monica Pellegrino - Cuneo
15
F
RONTIERE
Itinerari Africani
Dossier
zioni: volgere la prua a nord in direzione di Timbuctù, oppure a
sud/est per raggiungere in 2 giorni di navigazione il villaggio di
Diafarabé, dove tra novembre e dicembre c’è la grande transumanza dei pastori Peul.
La traversata di Diafarabé
Quando le regioni del nord sono preda della siccità, i pastori
Peul tornano nei villaggi d’origine oltrepassando il fiume Niger. Grazie all’abbassamento del livello delle acque, si scoprono ampie distese erbose ricche di una tipica graminacea anfibia,
il burgu, che attira migliaia di bovini. L’attraversamento con
le sterminate mandrie, rappresenta uno spettacolo imperdibile. E’ un momento d’incontro e di festa per intere generazioni
che si ricongiungono dopo aver trascorso lunghi periodi nelle
assolate piane del Sahel. E’ sempre dalla riva opposta al villaggio di Diafarabé che ha inizio il grande evento. Poi, in rapida
successione, tocca altri paesi rivieraschi della zona del Macina.
In questo periodo si ha la possibilità di ammirare la più alta
concentrazione di animali di tutto il paese! Un ulteriore motivo
per cui vale la pena di visitare il Mali è l’architettura d’argilla
con cui sono costruite le abitazioni e le antiche moschee, meglio conosciuta come architettura sudanese. Grazie all’abilità di
sapienti muratori che si tramandano il mestiere da generazioni,
si realizzano tipiche costruzioni con solide pareti, utilizzando
elementi naturali come l’argilla, la sabbia e la paglia. L’invasione marocchina del 1591 contribuì ad arricchire ulteriormente
le facciate con finestre intarsiate e variopinte, mentre i soffitti
d’argilla, furono sostituiti con listelli di legno regolari. Sia le
città che i minuscoli villaggi conservano esempi di queste singolari costruzioni. Meritano senz’altro una sosta Mopti, Segou
e Gao, ma anche Segoukoro, l’antica culla del regno Bambara
del XVIII secolo, il minuscolo villaggio di San e quelli di Sirimiu e Senousa nel delta del Niger.
Djenné, la città d’argilla
Uno stretto ponte consente di superare le calme acque del fiume
Bani, affluente del Niger, che circonda Djenné una delle più
belle ed antiche città del Mali. Fin da epoche remote, Djenné
era menzionata e descritta con dovizia di particolari da mercanti e viaggiatori celebri come Ibn Battuta, René Caillié e dal
genovese Malfante, che nel 1447 aveva compiuto un viaggio di
16
Mali: lago Faguibine a Timbouctou - Donato Cianchini - Cuneo
esplorazione nel Tuat. Fondata attorno al IX secolo da alcuni
pescatori Bozo, deve la sua fortuna al sacrificio di una giovane
vergine di nome Tapama, murata viva tra le mura di cinta. All’ombra dell’antica Djenné-Djeno, primo insediamento del III
a.C., poco o nulla è cambiato con i quartieri e le case costruiti in
“banco” (misto di argilla e paglia), dall’architettura semplice ed
armoniosa. L’influenza marocchina traspare dalle imposte delle
finestre finemente dipinte e decorate con oggetti in metallo. Bisogna assolutamente arrivare il lunedì per il grande e colorato
mercato famoso in tutto il Sahel che si anima di gente, di mercanzie, di odori intensi e di quell’africanità che coinvolge ed
appassiona. Il tutto si svolge ai piedi dell’imponente moschea.
Costruita ai primi del ‘900, è il miglior esempio di architettura
sudanese. Dalle alte torri fuoriescono pertiche di legno usate per
le riparazioni dopo le piogge stagionali. All’interno più di cento
colonne compongono questo mosaico, non più visibile a noi occidentali. Per il suo alto valore culturale, storico ed architettonico, è stata dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’umanità.
Timbuctù e gli antichi manoscritti
Alle porte di Timbuctù, il fiume Niger è circondato dal morbido abbraccio delle dune di sabbia. E’ da questo punto che
il suo corso cambia direzione, piega a oriente formando una
grande ansa fino a Gao, l’antica capitale del regno degli Askya. Pochi gli ostacoli naturali che il fiume affronta in questo
lembo di deserto dove scorre lento, ed è quasi naturale la sua
“picchiata” a sud, passando dalla cittadina di Ayorou verso il
confinante Niger, fino alle coste nigeriane del Golfo di Guinea
dove termina il suo lungo corso panafricano. Una manciata di
km separano il fiume Niger (sono 8 dal porticciolo di Kabara) dalla storica Timbuctù. Era da poco passato l’anno mille,
quando attorno ad un accampamento tuareg una donna di nome
Buctù ne organizzò l’insediamento, che qualche anno più tardi
prese il suo nome. Acquistò importanza attorno al 1.200 con
lo spostamento del traffico commerciale verso le piste sahariane diventando il più grande centro di cultura e di religione. Le
carovane provenienti dal nord e dalla costa mediterranea portarono le novità del sapere di Fez, Marrakech e del Cairo, mentre
una parte della popolazione si dedicò agli studi scientifici e religiosi. Timbuctù divenne il punto d’incontro tra il mondo arabo e quello dell’Africa nera. L’università di Sankoré rivaleggiò
per importanza con quelle arabe intrecciando rapporti di studi e
scambi culturali. Diventò meta agognata di esploratori che misero a repentaglio la propria vita pur di raggiungerla come René
Caillié, Henri Barth e Gordon Laing. Le biblioteche pubbliche
e private erano ricche di manoscritti tanto che ne nacque un
vero e proprio commercio. Perfino Leone Africano fu colpito
da questa circostanza che scrisse: “..i libri si vendono così bene
che questi fruttano più delle altre mercanzie”. Di quell’antico
splendore sono sopravvissute le grandi moschee di Djinguereber e di Sankoré, e le migliaia di antichi manoscritti conservati
nelle dimore private e nel Cedrab, il Centro di documentazione e di ricerche storiche Ahmed Baba dove sono custoditi in
F
RONTIERE
Itinerari Africani
Dossier
angusti locali, più di 1.500 volumi. Osservare oggi Timbuctù
mette un po’ di tristezza. Dalle vie polverose in un via vai di
genti Songhai, Bella, Mauri e Tuareg si alternano antiche case
d’argilla con abitazioni fatiscenti e tante zeribe, le tende dei
nomadi venuti dal deserto in cerca di miglior fortuna. A causa
dell’isolamento geografico e politico, la mitica città dell’oro,
rischia la decadenza e l’abbandono; ed è paradossale quanto
affermano gli anziani: “a Timbuctù c’era più abbondanza e benessere al tempo delle carovane che non oggi, all’epoca delle
astronavi!”.
La musica del Mali
di 12 anni si era già costruito una chitarra tradizionale (che la
leggenda narra essere stata poi regalata a Ry Cooder) definita
“djerkel” e ritenuta capace di evocare gli spiriti. Suo allievo e
musicista nonché abile chitarrista è Afef Boucoum attuale virtuoso del djerkel. Con il suo gruppo di strumentisti locali sta
viaggiando in Europa cercando di portare a conoscenza l’arte
di Ali Farca Tourè. I Tinariwen, gruppo attualmente di culto nel
panorama musicale africano, hanno combinato le forme musicali tradizionali touareg e del Mali con una moderna sensibilità
ribelle e radicale: strumenti tradizionali come il liuto teherdent
ed il flauto utilizzato dai pastori sono stati abbandonati in cambio di chitarra elettrica, basso e batteria, mantenendo però il
tradizionale violino ad una corda del Mali. Nel deserto senza
uffici postali e senza telefono, la musica dei Tinariwen diventò
un potente strumento di ribellione: testi sul risveglio della coscienza politica e sui problemi degli esuli o sulla repressione
attuata dal Mali nei confronti dei Touareg con la loro espulsione
in Algeria, che sono veri e propri inni per l’indipendenza del
popolo touareg. Le loro cassette erano proibite sia in Mali che
in Algeria e chiunque trovato in possesso delle loro musiche
rischiava la prigione. Altra attuale interprete conosciuta in Italia è Rokia Traorè, giovanissima strepitosa chanteuse del Mali
non ha soltanto una voce da favola, di quelle che si incontrano
una volta ogni dieci anni, ma può vantare una presenza scenica di debordante vitalità, di travolgente energia comunicativa.
La cantante jazz Dee Dee Bridgewater è attualmente in tournee
con il gruppo “Malian Projet” conosciuti dopo un soggiorno
prolungato a Bamako e dintorni. E’ risaputo che ad oggi noti
strumentisti anche italiani, come Ludovico Einaudi abile pianista siciliano, si recano spesso in regioni africane per ricercare
possibili collaborazioni per arricchire la propria conoscenza
con realtà musicali ricche come le sonorità del Mali.
di Giovanni Busetto
Anche il Mali, stato africano dell’ampia area centrale del Sahel,
possiede una tradizione musicale fortemente radicata con il territorio ma con la particolarità di suoni e ritmi poco riconoscibili
con altre realtà di questo continente. Le ritmiche possono essere
paragonate ad altre ma la loro specificità sta nell’uso di strumenti tipici di queste regioni. E’ evidente che le varie etnie avevano
a disposizione materie prime povere ed essenziali per costruire
gli strumenti per poter produrre suoni e ritmi. Ma le “kore”,
strumenti a corde costruite utilizzando le “calebaise”, zucche
coltivate in loco, ed impiegate dai numerosi “griot” nel raccontare e cantare le loro storie legate ai vari clan familiari identificano questo genere come unico per il territorio in questione.
Il più famoso cantore, originario di una nobile famiglia, resta
Salif Keità, ormai molto conosciuto anche in Italia. La fama
di Salif iniziò negli anni ‘70 a Bamako, quando con il korista
guineano Mory Kantè fondò la “Band del la Gare”, “il Gruppo
della Stazione”, dal luogo in cui i giovani artisti si riunivano a
suonare e nel cui “Cafè” si esibivano nel week end proponendo
un sincretismo tra temi locali e sound occidentali. Anche lui
utilizza tutti questi strumenti tradizionali senza rinunciare a sonorità più attuali. Una ricerca più vicina alle tradizioni popolari
spinta a creare melodie molto qualificate tali da riconoscere un
suo stile e una particolare musica del luogo. Si avvale anche di
strumentisti locali molto abili nel creare questo suo “sound maliano”. La tradizione dei griot è diffusa anche in altre regioni del
sahel ed è ancora possibile ascoltarli in rare esibizioni in loco.
Ry Cooder, chitarrista americano ormai noto per le sue ricerche
musicali nel campo della World Music, conosce in un viaggio
africano il chitarrista Ali Farka Tourè e comincia una collaborazione alla scoperta di una nuova cultura musicale. Il risultato di
questo lavoro ci ha consegnato un album particolare “Talking
Timbouktu” ormai icona di un genere ormai identificato come
il “blues del Mali”. Diversi gruppi si sono ispirati a questo particolare “sound” riconoscendo in Ali Farka Tourè l’originalità
della sua musica. La sua recente morte a Niafounkè, villaggio a
nord della capitale, ne hanno fatto un”guru” della World Music.
Per la sua gente Touré rappresentava molto più di un musicista.
Nato nel 1939 nel villaggio di Kanau, sulle rive del Niger, Ali fu
il decimo figlio nato dalla sua famiglia, ma incredibilmente solo
il primo a sopravvivere agli stenti della povertà dopo la morte
del padre, arruolato nell’esercito francese. Nonostante non vi
fosse alcuna tradizione musicale tra i suoi avi, “Farka” all’età
Alì Farka Touré in una delle prime rappresentazioni discografiche
17
F
RONTIERE
Argonauti Explorers
Itinerari insoliti
Messico-Guatemala:
l’ultima fortezza
dei Re Maya
di Marco Di Marco
Per circa mezz’ora la lancia risale le anse sempre più strette
e circondate da vegetazione del Rio Petexbatún, fino a sfociare nell’omonima laguna, in questi mesi abbastanza in secca,
tanto da apparire come una grande palude. Siamo nel bacino
idrografico del Rio Uxumacinta, oggi confine tra Guatemala
e Messico, un tempo la più importante via d’acqua dei Maya,
proprio nel periodo di massimo splendore della loro civiltà. E’
in questa zona che, negli ultimi 30 anni, campagne di scavo
insistenti e fortunate hanno portato alla luce le rovine di alcuni tra i più importanti centri maya del periodo classico, insieme con un’impressionante raccolta di testimonianze di storia
e di indizi, talora sconvolgenti, sulle cause del collasso finale
di questa misteriosa civiltà. Nomi come Aguateca, Dos Pilas,
Cancuén, Ceibal, Yaxchilán, Bonampak, Piedras Negras, meno
famosi – ma non meno importanti – di Tikal e Palenque, sono
legati a questa opera di decifrazione e ricostruzione ancora in
corso, e ancora terreno di accesi dibattiti tra gli studiosi. Siamo
partiti da Sayaxché, sul Rio La Pasión, che qui riceve le acque
del Petexbatún, prima di confluire a sua volta nell’Uxumacinta.
La laguna finisce e ci inoltriamo nel ramo affluente del Rio, che
riprende a scorrere sinuosamente nella vegetazione. E’ trascorsa un’ora e mezza quando ci si para dinnanzi una riva alta con
un rudimentale imbarcadero.
Aguateca: l’ultima fortezza
Che Aguateca fosse una città-fortezza ce lo dice la sua peculiare ubicazione. Ad est la scarpata del lago e parallela, sul lato opposto, un’impressionante fenditura, la Grieta (abisso), larga 515 metri, con pareti calcaree profonde 50-60 metri. Negli scavi
sono emersi i resti del più esteso e complesso sistema di mura
difensive della regione del Petexbatún. Le ricerche archeolo-
giche iniziate negli anni ’90 sotto la direzione del giapponese
Takeshi Inomata hanno dimostrato che nel Periodo Tardo-Classico (600-830 d.C.). Aguateca era un centro di corte minore dei
sovrani di Dos Pilas, la città egemone della regione che arrivò a confrontarsi militarmente con la ben più grande e potente
Tikal. Quando, dopo vicende alterne, il regno di Dos Pilas andò
drammaticamente in rovina sul finire dell’VIII secolo d.C. (in
concomitanza con ripetute annate di siccità), Aguateca fu probabilmente il rifugio della sua famiglia reale. La sua storia ebbe
termine con l’attacco finale, probabilmente all’inizio del IX
secolo d.C., quando il suo nucleo centrale – l’area che include
il Gruppo del Palazzo, la Strada Rialzata, e la Plaza Central
– fu dato alle fiamme dai nemici. Ad Aguateca non si vedono
rovine imponenti. Ma il posto è estremamente suggestivo: nella
penombra della foresta sono sparse le tracce della vita di tutti i
giorni di quello che fu l’ultimo ridotto dei re di Dos Pilas, con
le loro abitazioni, di cui si possono vedere i letti-stufa e i ripostigli. Qui sono stati ritrovati innumerevoli oggetti: utensili da
cucina, asce in pietra, strumenti da scriba, strumenti musicali,
mentre gli ambienti del Palazzo si sono rivelati pressoché vuoti.
Gli scavi di Aguateca hanno offerto l’emozionante “fotografia”
di una città abbandonata in fretta e furia davanti all’avanzata
del nemico, ma in tempi diversi a seconda del rango dei fuggiaschi. Prima la corte reale con tutti i suoi averi, poi, in maniera
più precipitosa e lasciando tutti i loro beni nelle abitazioni, i
cortigiani più fedeli o almeno quelli che ci riuscirono dopo aver
abbozzato un ultimo disperato tentativo di resistenza. Questa
è almeno la ricostruzione di Inomata. Le rovine di Aguateca
appaiono dunque un’evidente testimonianza del collasso della civiltà classica Maya, che – come è descritto efficacemente
dal biogeografo Jared Diamond – nel giro di pochi decenni si
autodistrusse in una situazione di guerra permanente, sotto la
guida di élite rattrappite nei loro antagonismi e quindi incapaci di riconoscere e fronteggiare le terribili minacce indotte
da sovrappopolazione, deforestazione ed erosione, mutamento
climatico e scarsità delle risorse. Il sito è remoto e ancora meta
di predatori di stele, che agiscono allo scoperto senza farsi scrupolo di sezionare i preziosi reperti quando sono troppo pesanti.
Poco possono fare i guardiani, che, anzi, sono già stati minacciati. Nelle due ore dedicate all’esplorazione c’è tempo per una
discesa che ci porta al livello della “Grieta”: nella semioscurità
percorriamo per un chilometro la profonda fenditura scivolando
sul fango, nell’umidità che si può tagliare col coltello. Di nuovo
all’aperto, ci accoglie una magnifica veduta sugli acquitrini del
Petexbatùn, e siamo di ritorno al campo – una capanna e due
tettoie sotto cui appendere al riparo le nostre amache.
I mercanti-guerrieri di Ceibal
Spostiamoci ora di poche decine di chilometri a nord-est. In
un’ora e mezza ridiscendiamo il Rio Petexbatún fino a Sayaxché e da qui in due ore risaliamo per 12 km. il più ampio Rio
La Pasión, ammirando gli splendidi e imponenti alberi di ceiba, così importanti nella simbologia religiosa Maya, che ogni
18
Guatemala: Rovine di Aguateca - Marco Di Marco - Tortona
F
RONTIERE
Argonauti Explorers
Itinerari insoliti
tanto spiccano lungo le rive nel profilo uniforme della foresta.
Dall’attracco uno stretto e roccioso sentiero nella selva, letteralmente infestato da milioni di mosquitos, ci porta in circa mezz’ora alle rovine di Ceibal, antico centro commerciale e cerimoniale che ebbe il suo periodo di massima fioritura nel corso del
IX secolo d.C., appena dopo il crollo del dominio di Dos Pilas.
Ceibal non è tanto famosa per i suoi edifici, quanto piuttosto per
le sue numerose e bellissime stele, a giudizio di molti esperti
tra le più raffinate e meglio conservate dell’archeologia maya.
E qui arriviamo ad uno dei tanti enigmi della storia maya. La
fisionomia insolita dei personaggi rappresentati in alcune stele ha infatti dato origine a un dibattito ancora irrisolto tra gli
esperti. I volti di queste figure non sembrano Maya. Dei reali
Maya non esibiscono la tipica deformazione cranica. I loro occhi sono più rotondi. Diverso il taglio dei capelli e, particolare
ancora più insolito, hanno i baffi. In un primo tempo si pensò
che verso la metà del IX secolo d.C. Ceibal fosse caduta sotto il
dominio di mercanti-guerrieri Maya messicanizzati provenienti
da regioni lontane come il Tabasco, sul golfo di Campeche ad
ovest dello Yucatan. Adesso altri studiosi vi ravvisano invece un
indizio di sommovimenti sociali, con l’ascesa di classi inferiori,
che cercavano di emulare la cultura reale Maya e di continuarne la tradizione. Di certo c’è comunque il fatto, attestato dalle
datazioni decifrate nei glifi delle stele, che Ceibal raggiunse il
suo massimo splendore nella seconda metà del IX secolo d.C.,
quando ormai il combattivo regno di Dos Pilas era solo un ricordo e Aguateca un ammasso di rovine. Visitare Ceibal, ammirandone le bellissime sculture, ci fa quindi capire come il
collasso della civiltà Maya, non sia stato un evento subitaneo,
ma un processo protrattosi per almeno un secolo. La caduta di
una città (Dos Pilas) poteva produrre la resurrezione di un’altra
città (Ceibal), già assoggettata alla prima. Senza che però cessassero i conflitti che alla fine portarono alla scomparsa della
civiltà Maya classica.
Un “libro illustrato” della Civiltà Maya: Yaxchilán e Bonampak
Negli ultimi anni del VII secolo d.C., il crollo simultaneo dell’egemonia delle due più grandi città-stato, Tikal e Calakmul,
lasciò il posto ad una molteplicità di staterelli tra di loro in
competizione per il dominio delle rotte commerciali fluviali.
E’ appunto in questo scenario di frammentazione che le città
di Yaxchilan e Piedras Negras si disputarono per due secoli il
controllo del medio Usumacinta, la più importante via d’acqua
della cosiddetta “ruta maya”. Anche in questo caso le guerre,
che in una situazione di abbondanti risorse naturali, potevano
costituire una fonte di prosperità e ricchezza per il vincitore,
impedirono alla fine un’efficace difesa contro il degrado ambientale e la sovrappopolazione: le due città furono alla fine
bruscamente abbandonate. Ridisceso da Ceibal il Rio La Pasión, siamo ancora una volta a Sayaxché, da dove 150Km di
carretera polverosa, attraverso un paesaggio di haciendas strappate alla foresta, ci portano in circa 4 ore al villaggio di Bethel,
sulle rive dell’Usumacinta. Il percorso per arrivare a Yaxchilán,
è un po’ tormentato. Da Bethel si attraversa il fiume con una
lancia e in meno di un’ora si arriva a Frontera Corozal, sulla
sponda messicana. Qui si fa immigrazione, per poi ridiscendere
in circa un’ora il corso del fiume fino alle rovine, annidate su
collinette in un’ansa talmente stretta da apparire quasi un’isola,
e circondate da una densa vegetazione tropicale, che conferisce
al sito una suggestione intensa. Yaxchilán ebbe la sua epoca di
massimo splendore nella seconda metà dell’VIII secolo, sotto
il regno di Uccello Giaguaro IV, grande conquistatore e grande
costruttore, che ne fece uno dei più importanti centri del bacino
del rio Usumacinta. La sua immagine ricorre in molti monumenti e si può ammirare anche una sua statua, purtroppo decapitata, su cui risaltano con finezza di particolari gli ornamenti
regali. Appena sbarcati ci si addentra in uno singolare edificio,
detto “El Laberinto” per la complessa disposizione delle sue
stanze, poi si arriva nella Gran Plaza, col gioco della pelota; da
qui una grande e scenografica scalinata conduce alla Grande
Acropoli, dove l’edificio 33 è forse il più bello della città, per
il suo tetto a cresta, tipico di Yaxchilán, la sua scala con geroglifici, e le sue architravi istoriate, su cui scorrono come in un
film scene di regalità, di sacrifici e autosacrifici regali, e altri
momenti legati alla religione o alla vita di tutti i giorni. I glifi e la splendida documentazione delle stele e delle architravi,
che si ripetono in quantità impressionante anche negli edifici
di altri gruppi, fanno di Yaxchilán un intrigante libro illustrato
della storia e della civiltà Maya. Pochi chilometri più a ovest, ai
margini della Selva Lacandona, il nostro itinerario si conclude
a Bonampak. Sui suoi affreschi, stupendi, conservati in maniera
incredibile nei loro colori vividi, è narrata in tre stanze, poste
alla sommità di un tempio, la storia di una battaglia. Si passa
dalla scena del combattimento, alle atroci sevizie inflitte agli
sconfitti, fino alle cerimonie celebrative della vittoria. Sembra
la descrizione di una civiltà al suo apogeo. In realtà, secondo le
ultime interpretazioni, questa sequenza illustra la consacrazione
dell’ultimo erede al trono di Yaxchilán, che probabilmente non
avvenne mai perché la sua successione fu preceduta dall’eclissi
della civiltà Maya.
Messico: Rovine di Yaxchilán - Marco Di Marco - Tortona
19
F
RONTIERE
Racconti per immagini:
l’arte di ornare se stessi
Ethiopia (Tulgit): donna Surma Tirma
Pierfranco Montrucchio (Torino)
Ethiopia (Kibish): guerriero Surma Chai (Tid)
Gigi Toscano (Torino)
Ethiopia (Kibish): lotta della Donga tra i Surma Chai (Tid)
Giorgio Sartirana (Torino)
Ethiopia/Sud Sudan (Kari): ragazza Surma Balé (Katchepo)
Roberto Pattarin (Sondrio)
Sud Sudan (Boma Plateau): ragazza Surma Balé (Katchepo)
Roberto Pattarin (Sondrio)
I popoli Nilotici
tra Omo e Kibish
Ethiopia (Omomursi): donna Mursi
Piergiorgio Derochi (Torino)
Ethiopia (Omomursi): guerrieri Mursi
Clara Monzeglio (Torino)
Ethiopia/Sud Sudan (Kari):
cerimonia della Kadonga tra i Surma Balé (Katchepo)
Giorgio Sartirana (Torino)
Ethiopia (Kibish): l’arte di ornare se stessi (Surma Chai)
Sandro Bernes (Udine)
Ethiopia (Omomursi): l’arte di ornare se stessi (Mursi)
Roberto Pattarin (Sondrio)