Mutamento delle mansioni
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Mutamento delle mansioni
Mutamento delle mansioni e tutela del dipendente pubblico Nel rapporto di lavoro privato la disciplina delle mansioni del lavoratore è dettata dall’art. 2103 c.c., il cui testo originario ammetteva l’assegnazione del lavoratore a mansioni diverse da quelle contrattuali, purché ciò non comportasse un “mutamento sostanziale” nella posizione professionale del prestatore, riconoscendo al contempo alle parti la facoltà di escludere convenzionalmente lo ius variandi. Tale disciplina è stata, però, completamente modificata dall’art. 13 dello Statuto del lavoratori, secondo il quale il lavoratore deve essere adibito alle mansioni stabilite per contratto, a quelle ad esse equivalenti o ad altre, di livello superiore, per le quali abbia acquisito la dovuta competenza professionale, mentre l’ultimo comma dell’art. 2103 c.c. afferma la nullità di qualsiasi accordo volto a peggiorare le mansioni del lavoratore. La riforma dell’art. 2103 c.c. non ha quindi soppresso del tutto lo ius variandi del datore di lavoro, che tra l’altro trova la sua giustificazione in insopprimibili esigenze organizzative e aziendali, ma si è limitata a regolarne l’esercizio in modo da tutelare il patrimonio professionale del lavoratore. Nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni la disciplina delle mansioni non è regolata dall’art. 2103 c.c., bensì da una specifica normativa contenuta nel testo unico 165/01. Una espressa deroga alla disciplina codicistica si legge infatti nel quarto comma dell’art. 19 del citato testo unico a proposito degli incarichi dirigenziali e del passaggio ad incarichi diversi, affermandosi che “al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’art. 2103 c.c.”. Tali incarichi, infatti, vengono conferiti sempre a tempo determinato, per un periodo compreso tra i due e i sette anni e con facoltà di rinnovo, sulla base “dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza”. Per ciascun incarico viene definita contrattualmente, la durata, gli obiettivi da perseguire e il trattamento economico e lo stesso può essere revocato “nelle ipotesi di responsabilità dirigenziale per inosservanza delle direttive generali e per i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione”. 1 L’esclusione dell’applicazione dell’art. 2103 c.c. comporta la possibilità che il dirigente possa essere spostato da un 1 Sulla riforma degli incarichi dirigenziali si veda D’ORTA, Gli incarichi dirigenziali nello Stato dopo la l. 145/2002, in Lav. Pubb. Amm., 2002, 929. incarico di livello più elevato ad uno di livello inferiore senza incorrere nel divieto di demansionamento posto dal codice civile. Per gli altri dipendenti pubblici manca una altrettanto esplicita esclusione dell’applicazione dell’art. 2103 c.c., ma la materia viene ad essere interamente regolata dall’art. 52 del Testo Unico con una serie di statuizioni che si discostano da quelle codicistiche. Tale diversità affonda le sue radici già nel provvedimento di delega, poiché la legge 23 ottobre 1992 n. 421 nell’impostare, all’art. 2, la riforma del pubblico impiego, fissò una serie di criteri cui il governo si sarebbe dovuto attenere, tra cui la previsione di una disciplina delle mansioni che derogasse l’art. 2103 c.c.. La lettera n) dell’art 2 l. 421/92, infatti, stabiliva che il governo, nell’adottare i decreti delegati attuativi della riforma dovesse “prevedere che, con riferimento al settore pubblico, in deroga all’art. 2103 c.c., l’esercizio temporaneo di mansioni superiori non attribuisce il diritto alla assegnazione definitiva delle stesse, che sia consentita la temporanea assegnazione con provvedimento motivato del dirigente alle mansioni superiori per un periodo non eccedente tre mesi o per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto esclusivamente con il riconoscimento del diritto al trattamento corrispondente alla attività svolta e che comunque non costituisce assegnazione alle mansioni superiori l’attribuzione di alcuni soltanto dei compiti propri delle mansioni stesse, definendo altresì criteri, procedure e modalità di detta assegnazione”. In sostanza secondo la legge delega per i dipendenti pubblici dall’esercizio temporaneo di mansioni superiori non può mai nascere il diritto alla assegnazione definitiva delle stesse. Lo svolgimento di mansioni superiori è legittimo solo se preceduto dalla emanazione di un provvedimento motivato e non può eccedere il periodo di tre mesi, salvo che sia stato disposto per sostituire un altro lavoratore assente e avente diritto alla conservazione del posto. A ciò deve aggiungersi un ulteriore punto della delega, la lettera v) del medesimo art. 2, dove stabilisce che in presenza di “inderogabili esigenze funzionali”, il personale appartenente alle qualifiche funzionali possa essere utilizzato, “occasionalmente e con criteri di flessibilità”, per lo svolgimento di mansioni relative a profili professionali di qualifica funzionale immediatamente inferiore. Tali principi sono stati recepiti dal decreto legislativo 29/93 agli artt. 56-57. L’art. 56 stabilisce che il lavoratore pubblico deve essere innanzi tutto adibito alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza, anche se questo principio viene reso più elastico sotto diversi profili. Infatti viene ammessa una limitata mobilità verticale tanto verso l’alto quanto verso il basso purchè limitata nel tempo e nel contenuto delle mansioni svolte. Lo svolgimento di mansioni inferiori è consentito solo occasionalmente, su richiesta del dirigente dell’unità organizzativa e, se possibile, nel rispetto di criteri di rotazione. Per quanto invece attiene allo svolgimento di mansioni superiori, l’art. 57 prevede che possa essere disposto nelle due condizioni alternativamente previste dalla delega (vacanza di un posto in organico per un periodo non eccedente i tre mesi o sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto), purchè ricorrano “esigenze di ufficio” e vi sia una disposizione motivata del dirigente che ne risponde sul piano disciplinare e patrimoniale. Nel caso di adibizione a mansioni superiori il dipendente acquista il diritto a percepire il trattamento economico corrispondente all’attività svolta per il periodo di espletamento della stessa, ma mai l’acquisizione della qualifica superiore. Tale normativa non è mai entrata effettivamente in vigore a causa di una serie di rinvii alla sua applicazione, finchè non sono intervenute ulteriori modifiche ad opera dell’art. 25 del decreto legislativo 80/98 e dell’art. 15 del decreto legislativo 387/98. Tali innovazioni sono state poi assemblate in un’unica norma che corrisponde all’attuale art. 52 del Testo Unico, il quale specifica in primo luogo quali diritti ha il lavoratore pubblico in ordine alle mansioni da svolgere e correlativamente quali mansioni il datore di lavoro può esigere. L’equivalenza delle mansioni Il prestatore di lavoro “deve” essere adibito alle “mansioni per le quali è stato assunto” e che vengono specificate in sede di contratto individuale di assunzione, oppure “alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”.2 2 Secondo Trib. Trieste 13 agosto 1999, in Giust. Civ., 2000, I, 2428, “in tema di esercizio dello ius variandi nel lavoro pubblico, l’equivalenza delle nuove mansioni a quelle in precedenza svolte sussiste quando le prime consentano l’utilizzo e il perfezionamento del corredo di nozioni, esperienza e perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto e, di conseguenza, non è configurabile solo se le nuove mansioni comportino uno stravolgimento e depauperamento del patrimonio professionale del lavoratore; spetta a quest’ultimo l’onere di allegare l’impossibilità di utilizzare la professionalità acquisita in relazione al particolare tipo di specializzazione conseguito”. Secondo l’interpretazione maggiormente diffusa l’individuazione dell’equivalenza è rimessa esclusivamente alla contrattazione collettiva3, ragion per cui il giudizio dell’interprete non può avere ad oggetto una valutazione sull’intrinseca equivalenza tra le mansioni poste a confronto, ma deve limitarsi a prendere atto delle classificazioni della contrattazione collettiva. La contrattazione successiva all’emanazione di tale norma, però, ha profondamente modificato in tutti i settori la struttura degli inquadramenti, riducendoli a solo tre o quattro livelli, detti aree o categorie4, nell’ambito dei quali trovano posto dei sottolivelli (c.d. posizioni economiche), che però secondo la dottrina prevalente sono privi di contenuto e rilievo mansionistico proprio.5 La combinazione dell’interpretazione dell’art. 52, degli accorpamenti operati dalla contrattazione e dell’irrilevanza delle articolazioni interne a tali accorpamenti porta con tutta evidenza a una forte dilatazione del criterio dell’equivalenza e di conseguenza ad un enorme ampliamento dello ius variandi tanto verso l’alto quanto verso il basso, con una conseguente palese lesione della posizione professionale del dipendente pubblico.6 Per tale ragion questa soluzione ermeneutica non pare convincente, anche perché, a stretto rigor di termini, la legge non parla di mansioni considerate equivalenti “dalla” contrattazione collettiva, bensì “nell’ambito” della qualificazione professionale prevista dalla stessa. Quindi non è la contrattazione il soggetto cui è demandata il giudizio, ma la sede nella quale esso si svolge, attraverso la definizione delle qualificazioni professionali.7 L’appartenenza ad una medesima area, infatti, non sostituisce il giudizio, ma costituisce un confine oltre il quale non può esserci equivalenza, nel senso che sicuramente non potranno essere considerate equivalenti mansioni collocate in aree diverse, mentre non è detto che tutte le mansioni di una stessa area siano tra loro equivalenti e che quindi il dipendente possa essere indiscriminatamente spostato da una all’altra. Una ulteriore differenza tra la disciplina dettata dal t.u. 165/01 e l’art. 2103 c.c. risiede 3 Cfr. ALLEVA, Lo ius variandi, in Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, a cura di Carinci e D’Antona, Milano, 2000, I, 1527; PANARIELLO, Qualifiche e mansioni, in Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro privato e pubblico, a cura di Santoro Passatelli, Milano, 2000, III, 1497. 4 Cfr. RICCIARDI, I nuovi sistemi di classificazione del personale nei rinnovi contrattuali 1998-2001, in Lav. Pubb. Amm., 1999, 263. 5 Cfr. ALLEVA, Lo ius variandi, cit., 1553. 6 Cfr. CAMPANELLA, Mansioni e ius variandi nel lavoro pubblico, in Lav. Pubb. Amm., 1999, 49. 7 Cfr. CURZIO, Pubblico impiego: sospensioni congedi, aspettative, mutamenti di mansioni, promozioni, in D&L, 2002, 2, 264. nella mancata riproposizione nella normativa sul lavoro pubblico del riferimento codicistico alle ultime mansioni effettivamente svolte, il quale, nell’ambito del lavoro privato ha lo scopo di valorizzare il patrimonio professionale concretamente acquisito dal singolo lavoratore, a prescindere da quanto originariamente disposto con il contratto.8 Tale valorizzazione, al contrario, non si riscontra nel lavoro pubblico, nel quale ogni modifica di mansioni deve essere fatta a partire da quanto disposto nell’inquadramento formale del lavoratore. Una simile differenza trova probabilmente spiegazione nel fatto che, come si vedrà meglio in seguito, l’eventuale svolgimento di compiti attinenti ad una qualifica superiore non può mai comportare per il lavoratore l’acquisizione definitiva della stessa, ma solo il diritto a riceverne il relativo trattamento economico. L’adibizione a mansioni superiori La disciplina sull’adibizione a mansioni superiori introdotta dalla privatizzazione ha mantenuto il divieto di definitivo inquadramento nelle mansioni stesse, qualora esse siano affidate solo in via temporanea, seppur per un prolungato periodo di tempo. L’art. 57 del d. lgs. 29/93 disponeva che il prestatore di lavoro potesse essere adibito a mansioni immediatamente superiori, qualora vi fossero obiettive esigenze di servizio, limitatamente al caso in cui si registrasse una vacanza in organico, per un periodo non superiore a tre mesi dal verificarsi della stessa, con contestuale attivazione delle procedure per la copertura del posto vacante, ovvero in caso di sostituzione del dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, per tutto il periodo di assenza con la sola esclusione delle ferie. Tale attribuzione avrebbe dato diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, ma non al definitivo inquadramento nelle mansioni. Fuori dai casi previsti dalla legge si riteneva che l’attribuzione fosse illegittima, ma ciò non comportava per l’impiegato la perdita del diritto alla percezione delle differenze retributive. Inoltre la norma prevedeva la responsabilità non solo disciplinare, ma anche patrimoniale del dirigente che aveva attribuito illegittimamente le mansioni superiori.9 Con il d. lgs. 165/01 tale disciplina è stata modificata, senza intaccarne la sua 8 Cfr. TATARELLI, La tutela della professionalità nel lavoro pubblico contrattualizzato, in Mass. Giur. Lav., 2003, 1-2, 75. 9 La rigidità di tale normativa è criticata da ALLEVA, op. cit., secondo cui in tal modo si impediva alla amministrazione di gestire in modo flessibile le risorse umane. ispirazione di fondo, infatti l’art. 52, co. 2, ha portato la possibilità di nomina temporanea per lo svolgimento di mansioni superiori a sei mesi per il caso di vacanza del posto in organico, prorogabili fino a dodici qualora siano state già avviate le procedure per la copertura del posto vacante.10 Tali casi, infatti, sono gli unici in cui è consentita l’adibizione a mansioni superiori, le quali, in ogni caso, possono essere solo quelle della qualifica immediatamente superiore a quella di appartenenza, senza che siano ammessi ulteriori balzi in avanti. La disposizione non indica esplicitamente la possibilità di adibire il dipendente pubblico soltanto ad alcuni compiti della qualifica superiore, senza diritto al corrispondente trattamento economico, ma che questo sia possibile può essere ricavato in via interpretativa dall’art. 52, co. 3, secondo il quale “si considera svolgimento di mansioni superiori … soltanto l’attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo quantitativo, qualitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni”. Il criterio della prevalenza come elemento discriminante ai fini della valutazione circa la superiorità o meno delle mansioni assegnate era già stato espresso legge di delega, ma continua a presentare delle difficoltà di valutazione nel momento in cui al dipendente vengono assegnati soltanto taluni dei compiti tipici di un determinato livello. In tali casi, infatti, l’interprete dovrà verificare se i compiti assegnati siano, nel loro complesso, quelli qualitativamente più importanti, tra quelli che contraddistinguono la mansione, quantitativamente più consistenti e comportanti il maggior impegno da parte del prestatore anche sotto il profilo del tempo necessario per espletarli. L’adibizione a mansioni superiori al di fuori dei casi consentiti dalla legge “è nulla”, anche se al lavoratore è comunque riconosciuto il diritto al trattamento economico corrispondente alle mansioni effettivamente esercitate, ma in questa ipotesi il dirigente sarà chiamato a rispondere davanti alla Corte dei Conti del maggior onere conseguente, qualora abbia agito con dolo o colpa grave. Si tratta, in sostanza, di un applicazione del principio espresso dall’art. 2126 c.c. (Prestazione di fatto in violazione di legge), che disciplina gli effetti già realizzatesi in un rapporto di lavoro che, seppur invalido, si è concretamente svolto tra le parti per un certo periodo di tempo, onde evitare che una 10 La norma infatti prevede che “qualora l’utilizzazione del dipendente sia disposta per sopperire a vacanze di posti in organico, immediatamente, e comunque nel termina massimo di novanta giorni dalla data in cui il dipendente è assegnato alle predette mansioni, devono essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti”, anche se in dottrina si osserva come tale disposizione sia resa inefficace dall’assenza di qualsiasi meccanismo sanzionatorio (cfr. CAMPANELLA, Mansioni e ius variandi nel lavoro pubblico, cit.,1999, 61). pronunzia giurisdizionale di nullità del contratto possa incidere sulla prestazione già resa, ma escludendo ogni pretesa del lavoratore ad una continuazione del rapporto per il futuro.11 La normativa dettata dall’art. 52 del d.lgs. 165/01 appare complessivamente diversa dal quella dell’art. 2103 c.c., anche perché quest’ultima prevede la nullità di ogni patto contrario, laddove il sesto comma dell’art. 52 afferma che “i contratti collettivi possono regolare diversamente gli effetti di cui ai commi 2, 3 e 4”. Restano inderogabilmente fissati dalla legge il principio per cui l’esercizio di fatto di mansioni superiori non può produrre effetti ai fini dell’inquadramento (co. 1), la nullità dell’assegnazione a mansioni superiori fuori dai casi consentiti, il diritto a percepire comunque la differenza di trattamento economico e la responsabilità del dirigente (co. 5). Inoltre anche in relazione ai temi oggetto dei commi 2, 3 e 4, la deroga non investe l’intera regolamentazione, ma solo i suoi “effetti”.12 L’affermazione del principio del divieto di attribuzione definitiva a mansioni superiori non impedisce, però, la previsione di articolati meccanismi di progressione del personale, sia all’interno delle aree che tra le stesse. Infatti l’art. 52 d.lgs. 165/01 ha espressamente ammesso l’utilizzo di meccanismi per il passaggio alla categoria superiore che può essere acquisita attraverso forme di sviluppo professionale o procedure selettive. Tale opzione va però letta alla luce degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, tradizionalmente diffidente nei confronti di meccanismi promotivi riservati al personale interno all’Amministrazione. Infatti con numerose sentenze ed ordinanze la Corte Costituzionale13, fin dagli anni ’80, ha ritenuto che l’ipotesi di passaggio ad una qualifica superiore comporterebbe l’accesso ad un nuovo 11 Per l’applicazione dell’art. 2126 c.c. al lavoro pubblico si veda Cons. Stato 22 settembre 1994 n. 1013, in Rep. Foro It., 1994, voce Impiegato dello Stato e pubblico, 170, secondo cui un “rapporto di lavoro instaurato contra legem, e quindi nullo, non può produrre tutte le conseguenze proprie di una nomina legittima, ma ha rilevanza ai fini dell’applicabilità dell’art. 2126 c.c., che fa salvo per il lavoratore il trattamento economico e previdenziale spettategli per le mansioni svolte nel periodo in cui l’atto nullo ha avuto esecuzione”: 12 La dottrina ha manifestato non pochi dubbi circa l’interpretazione di tale limitazione. Secondo PANARIELLO, op. cit., 1506, la derogabilità da parte della contrattazione collettiva sarebbe molto ampia; dello stesso avviso NISTICÒ, Appunti in tema di mansioni superiori del lavoratore pubblico, in D&L, 2000, 597, il quale pur riconoscendo che la derogabilità è limitata alla disciplina dei soli effetti, e anzi dei soli effetti economici, ammette che la contrattazione possa prevedere ipotesi di assegnazione a mansioni superiori fuori dai casi del secondo comma. Propende, invece, per una lettura più restrittiva ALLEVA, op. cit., 1550, secondo il quale però un rinvio così limitato alla contrattazione collettiva ha poco senso, mentre appare più probabile che “la volontà legislativa sia quella dell’affidamento alla contrattazione di una competenza più complessiva in tema di classificazione dei percorsi professionali”. 13 Cfr. ex pluribus Corte Cost. 4 gennaio 1999 n. 1, in Foro It., 1999, I, 1; Corte Cost. 30 ottobre 1997 n. 320, in Giur. Cost., 1997, 2958; Corte Cost. 29 dicembre 1995 n. 528, in Giur. It., 1996, I, 102. posto di lavoro e sarebbe perciò soggetta alla regola del concorso ex art. 97 Cost., alla quale è possibile derogare solo in presenza di peculiari situazioni giustificatrici che garantiscano comunque il buon andamento della p.a..14 Infatti secondo i giudici della Corte “il pubblico concorso, in quanto metodo che offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci è un meccanismo strumentale rispetto al canone di efficienza dell’amministrazione, il quale può dirsi pienamente rispettato qualora le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie forme di restrizione dei soggetti legittimati a parteciparvi, forme che possono considerarsi ragionevoli solo in presenza di particolari situazioni, che possano giustificarle per una migliore garanzia del buon andamento della amministrazione”.15 Secondo la Corte in particolare è contraria al buon andamento una procedura che dissimuli un generale scivolamento verso l’alto di tutto il personale o che valorizzi in maniera ingiustificata l’anzianità di servizio, nonché la deroga al titolo di studio prescritto per l’accesso dall’esterno nell’ipotesi di concorso interno per l’accesso alla qualifica superiori.16 Eccezioni legittime possono essere quelle relative al personale destinato alla collaborazione con organi di indirizzo politico amministrativo o al supporto dei medesimi, mentre per il restante personale potrà semmai indicarsi fra i requisiti dettati dalla legge il possesso di una precedente esperienza nell’ambito dell’amministrazione, se esso abbia rilevanza ai fini della specifica professionalità richiesta. Accanto a queste eccezioni la Corte riconosce la rilevanza dei concorsi misti purchè la riserva dei posti sia conforme alle aliquote indicate da tale legge e comunque non superi il 50%.17 Lo svolgimento di mansioni inferiori Secondo l’art. 31 del Testo Unico degli impiegati civili dello Stato del 1957 “l’impiegato ha diritto all’esercizio delle funzioni inerenti alla sua qualifica … Può essere destinato a qualunque altra funzione purchè corrispondente alla qualifica che riveste ad al ruolo cui appartiene. Quando speciali esigenze di servizio lo richiedano, l’impiegato può temporaneamente essere destinato a mansioni di altra qualifica della stessa carriera”. 14 Cfr. Corte Cost. 30 ottobre 1997 n. 320, cit.. 15 Cfr. Corte Cost. 16 maggio 2002 n. 194, consultabile sul sito internet della Corte Costituzionale, www.cortecostituzionale.it. 16 Cfr. Corte Cost. 4 gennaio 1999 n. 1, cit.; TALAMO, I nuovi sistemi di progressione professionale nel lavoro pubblico tra Corte Costituzionale e contrattazione collettiva, in Gestione delle risorse umane: strumenti e orientamenti, Formez, 2002, 1, 19. 17 Cfr. Corte Cost. 10 giugno 1994 n. 234, in Foro It., 1994, I, 2596. L’attribuzione di mansioni inferiori, in quanto eccezionale, doveva avere durata temporanea, non poteva mai alterare lo status giuridico e il trattamento economico dell’impiegato e doveva essere motivata in ordine alle esigenze oggettive che ne avevano imposto l’adozione, al fine di consentire il controllo del giudice amministrativo sul corretto esercizio del potere, restando in ogni caso esclusa l’applicabilità dell’art. 2103 c.c.. In questo contesto rimaneva altresì esclusa ogni risarcibilità di eventuali danni patiti dal dipendente, la cui posizione giuridica era qualificata come interesse legittimo e non come diritto soggettivo. Il quadro generale viene però ad essere parzialmente inciso dal d.lgs. 29/93, il quale in materia di attribuzione di mansioni, all’art. 56, prevede che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza, nelle quali rientra comunque lo svolgimento di compiti complementari e strumentali al perseguimento degli obiettivi di lavoro. Il dipendente può essere adibito a svolgere compiti specifici non prevalenti della qualifica superiore, ovvero, occasionalmente e ove possibile con criteri di rotazione, compiti o mansioni immediatamente inferiori, se richiesto dal dirigente dell’unità organizzativa cui è addetto, senza che ciò comporti alcuna variazione del trattamento economico”. Tale situazione è stata modificata dal nuovo testo dell’art. 56 (ora art. 52 d.lgs.165/01), introdotto dal d.lgs. 80/98, dal quale è del tutto assente qualunque riferimento ad un possibile demansionamento del lavoratore. Oggi infatti il lavoratore vanta un preciso diritto soggettivo allo svolgimento delle mansioni contrattuali, tutelabile innanzi al giudice ordinario. Di conseguenza la violazione dello stesso non può che dar luogo al risarcimento del danno. 18 Infatti a seguito della c.d. privatizzazione del lavoro pubblico tutte le controversie ad esso relative sono state devolute alla competenza del giudice ordinario, anche qualora “vengano in questione atti amministrativi presupposti”, con la sola eccezione delle “controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di dipendenti”. Di 18 Cfr. in proposito Trib. La Spezia 28 gennaio 2001, in Dir. Lav., 2001, 433, secondo cui la p.a. “non può assegnare al dipendente mansioni rientranti in una categoria inferiore”; Trib. Milano 5 maggio 2000, ibidem, 758, secondo cui “al dipendente pubblico privatizzato che lamenti una illegittima dequalificazione professionale non si applica l’art. 2103 c.c. bensì l’art. 56 d.lgs.29/93, norma che pur ricalcando apparentemente quella codicistica, se ne differenzia profondamente: in particolare l’indicata norma del decreto citato utilizza il principio di equivalenza con riferimento alle mansioni di assunzione (e non alle mansioni da ultimo svolte), e consente al datore di lavoro pubblico l’esercizio dello ius variandi nell’ambito delle mansioni da considerarsi equivalenti in base alla classificazione fornita dalla contrattazione collettiva, limitando pertanto l’ambito del successivo controllo giudiziale”. conseguenza è riservato alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo tutto ciò che attiene all’indizione del concorso e al suo svolgimento fino al momento di approvazione della graduatoria finale: a questo punto, infatti, sorge in capo al vincitore un vero e proprio diritto all’assunzione, per il quale il giudice ordinario può pronunciare sentenza costitutiva del rapporto.19 In particolare il lavoratore demansionato può chiedere al giudice del lavoro il risarcimento del danno alla professionalità, che, quale componente della personalità dell’individuo ex art. 2 Cost., è autonomamente tutelabile, a prescindere dall’esistenza di ulteriori danni patrimoniali o biologici.20 Inoltre poiché l’art. 63 d.lgs. 165/01 riconosce al giudice ordinario il potere di adottare “tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati”, egli potrà annullare l’atto di gestione del rapporto ritenuto illegittimo, il quale, infatti, ha natura privatistica anche se emanato da un soggetto pubblico, poiché l’art. 5, co. 2 dello stesso decreto sancisce che nella gestione del rapporto di lavoro l’amministrazione “agisce con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”. Nel caso in cui ai fini della risoluzione della controversia emergano degli atti amministrativi presupposti, questi possono essere disapplicati dal giudice se ritenuti illegittimi. Tali atti sono quelli che attengono al potere pubblicistico di autorganizzazione della p.a., ed in particolare quelli relativi alla organizzazione degli uffici e alle dotazioni organiche. Di conseguenza il dipendente che per effetto di un atto organizzativo ritenga leso un proprio diritto ha a disposizione una doppia tutela, in quanto può impugnare l’atto in questione o in via principale innanzi al giudice amministrativo o in via incidentale innanzi al giudice ordinario. Tale possibilità non è esclusa dal fatto che l’atto non sia più impugnabile innanzi al G.A. per scadenza dei termini, poiché innanzi al G.O. oggetto di cognizione non è l’atto in quanto tale, ma il rapporto. I due giudizi possono anche svolgersi di pari passo, essendo diverso l’oggetto della tutela richiesta, visto che il solo annullamento dell’atto di organizzazione può non essere idoneo ad incidere sul rapporto e viceversa una pronunzia sull’illegittimità dell’atto di gestione può essere insufficiente a tutelare effettivamente il lavoratore.21 19 Cfr. Cass. S.U. 11 giugno 2001 n. 7859, in Giust. Civ., 2001, I, 2523 e Cass. S. U. 13 luglio 2001 n. 9540, in Rep. Foro It., 2001, voce Impiegato dello Stato e pubblico, 280. 20 Cfr. C. Appello Roma 16 maggio 2002, in Mass. Giur. Lav., 2003, 1-2, 72. 21 Cfr. TATARELLI, La tutela della professionalità nel lavoro pubblico contrattualizzato, in Mass. Giur. Lav., 2003, 1-2, 78.