27 La gestione del servizio idrico assume, attualmente, una

Transcript

27 La gestione del servizio idrico assume, attualmente, una
o Montrone*dro Montrone
La gestione del servizio idrico assume, attualmente, una particolare importanza
economica, politica e sociale e le determinanti di una simile rilevanza possono essere
rinvenute in diversi aspetti.
In primo luogo, si sta assistendo, soprattutto nel corso degli ultimi anni, all’emergere
di una crescente sensibilità nei confronti del bene acqua e, conseguentemente, ad una
maggiore attenzione verso le modalità attraverso le quali viene esercitata la gestione
del servizio idrico. Queste istanze scaturiscono dalla concezione dell’acqua quale
risorsa indispensabile per lo sviluppo di una comunità, una risorsa che assume la
natura di bene pubblico la cui gestione necessita di una governance il più possibile
condivisa e partecipata, in grado di garantire l’accesso e l’utilizzo al bene da parte di
tutta la collettività. Sono queste le ragioni che hanno condotto, pertanto, gruppi e
movimenti spontanei di cittadini ad esercitare una netta opposizione verso la tendenza
alla privatizzazione del servizio idrico che era andata maturando nel recente passato,
dissenso che si è poi manifestato e tradotto nel referendum del 2011 il cui esito ha di
fatto bloccato l’apertura al mercato ed imposto il ritorno ad una qualche forma di
gestione pubblica.
In secondo luogo, la rilevanza e, sotto certi aspetti, le problematicità del servizio idrico
derivano dall’articolata normativa che disciplina il settore che non poteva non riflettere
le diverse, se non addirittura contrapposte, concezioni ed ideologie politiche e sociali
che si sono confrontate nel tempo. Il risultato di questo dibattito e di questa continua
ricerca di un equilibrio tra gestione pubblica e gestione privata non ha fa fatto altro
che produrre un’estrema frammentazione del quadro legislativo da cui discende la
difficoltà ad individuare opportune forme di governance, capaci di salvaguardare il
benessere collettivo e, allo stesso tempo, assicurare condizioni di sostenibilità
economica e finanziaria sia degli enti pubblici locali, sia delle imprese (pubbliche o
private) alle quali viene affidata la gestione del servizio.
Infine, la complessità del servizio idrico, al pari di qualsiasi altro servizio pubblico
locale, dipende anche dalle specifiche caratteristiche tecniche che ne permettono
* Università
** Dottore
degli Studi di Perugia.
in Economia e Management.
27
l’erogazione. Gli elevati investimenti richiesti per lo sviluppo e la manutenzione delle
reti infrastrutturali, il fabbisogno finanziario che ne deriva, la crescente apertura verso
l’innovazione tecnologica, finalizzata, da un lato, alla tutela ambientale e, dall’altro lato,
alla soddisfazione di una domanda sempre più eterogenea e personalizzata e, non da
ultimo, la necessità di perseguire condizioni di economicità della gestione, senza però
gravare sulla situazione economica delle persone e delle famiglie beneficiarie. Ecco
quindi alcuni degli aspetti che spingono ed inducono gli enti pubblici, le utilities locali
ed intere comunità di cittadini a sperimentare nuovi assetti organizzativi per
l’erogazione del servizio.
In questo contesto, la finalità del presente articolo è proprio quella di identificare e
descrivere i modelli di governance che possono essere adottati per promuovere, attivare
e sostenere la partecipazione diffusa di un’ampia platea di soggetti nella gestione del
servizio idrico. In particolare, a fronte di una tradizionale dualità e di una storica
alternanza tra gestione pubblica e gestione privata, l’intenzione del presente lavoro è di
esplorare una “terza” alternativa, rappresentata dalla non profit utility, un’organizzazione
che assume una natura imprenditoriale ma che, nella realizzazione delle proprie
attività, non è guidata da finalità di lucro ed è ispirata e regolata da principi di
democraticità. Nel caso specifico della realtà italiana, questo modello istituzionale di
impresa ha assunto storicamente e continua tuttora a mantenere la forma della
cooperazione d’utenza. Sono diverse, infatti, le esperienze di gestione del servizio
idrico da parte di imprese cooperative che, in accordo con le istituzioni pubbliche,
riescono a garantire la partecipazione di intere comunità locali. Ed è proprio per
perseguire questo obiettivo conoscitivo che viene dapprima effettuata una
ricostruzione, in chiave economica, delle diverse modalità di gestione del servizio
idrico che si sono avvicendate nel tempo in Italia, rilevando le determinanti che hanno
condotto all’adozione dei diversi modelli organizzativi e le criticità che ognuno di essi
ha evidenziato. Successivamente, viene introdotto e descritto il concetto di Non Profit
Utility, per poi dimostrare come questo modello istituzionale di impresa sia
sostanzialmente riconducibile alla cooperazione d’utenza. A tal fine, vengono anche
esposti i risultati di alcune ricerche presenti nella letteratura economica, relative alle
caratteristiche assunte e ai percorsi strategici intrapresi da alcune cooperative d’utenza.
Infine, viene discussa la situazione della Regione Umbria, specificando i cambiamenti
che sono stati recentemente introdotti nell’organizzazione del servizio idrico su scala
regionale, le principali difficoltà che emergono nella gestione di tale servizio e la
possibilità di introdurre modalità di governance partecipative.
Dallo Stato erogatore allo Stato regolatore
Il servizio idrico, per le sue caratteristiche strutturali, può essere considerato un
“classico esempio” di monopolio naturale, ossia una configurazione di mercato che,
date le condizioni della tecnologia e della domanda, rende efficiente la presenza nel
mercato di un’unica impresa (Ferrucci, 2002). L’elevato costo delle infrastrutture,
l’entità e la durata degli investimenti, la necessità di una profonda conoscenza del
territorio e le difficoltà di separazione delle diverse fasi della filiera (Marangoni, 2011)
sono, infatti, alcuni degli aspetti che rendono più efficiente la gestione del servizio
28
idrico da parte di una sola impresa. Tuttavia, il perseguimento di obiettivi di efficienza
può determinare l’emergere di un trade-off: se da un lato appare evidente come
l’attribuzione del servizio in modo esclusivo ad un’unica impresa permetta il
raggiungimento di elevate condizioni di efficienza, dall’altro lato, tale configurazione
del mercato potrebbe condurre ad un aumento del potere di mercato dell’impresa
stessa che, a sua volta, potrebbe tradursi in un aumento dei suoi extraprofitti e
determinare, in ultima istanza, il peggioramento delle condizioni di benessere
collettivo. Una situazione di monopolio naturale genera, pertanto, un problema
decisionale per l’attore pubblico: come è possibile perseguire condizioni di massima
efficienza aziendale e, allo stesso tempo, preservare condizioni di benessere collettivo?
La teoria economica ha fornito diverse risposte ad un simile interrogativo, che
possono condurre a tre differenti modalità di regolamentazione del monopolio
naturale (Ferrucci, 2002):
a) l’approccio tradizionale, ossia l’attribuzione allo Stato del compito di intervenire
direttamente nel mercato attraverso l’operato di imprese pubbliche;
b) l’approccio regolamentativo che non prevede la rimozione del monopolio ma la sua
attribuzione ad soggetto privato la cui attività viene disciplinata da specifiche politiche
introdotte dall’attore pubblico;
c) l’approccio regolamentativo finalizzato a rimuovere le condizioni e la situazione di
monopolio naturale.
Con riferimento al settore idrico, le scelte che sono state adottate in Italia, nel corso
degli anni, possono essere ricondotte alla prima e alla seconda alternativa.
In relazione alla prima modalità di gestione del monopolio naturale (approccio
tradizionale), all’inizio del Novecento, la gestione del servizio idrico è stata regolata
con l’affidamento delle attività di produzione e di erogazione a soggetti pubblici. Il
ruolo dello Stato, infatti, era quello di intervenire e di operare quale produttore e si
manifestava nella fornitura diretta ai cittadini di beni e servizi, secondo una logica di
“Stato erogatore”1. Tale configurazione rispondeva alla rilevanza economico-sociale
che veniva attribuita al servizio idrico e, quindi, alla volontà di promuovere e tutelare
gli interessi collettivi. L’intento era di scongiurare il rischio che una determinata attività
socialmente rilevante venisse trascurata a causa degli elevati investimenti richiesti o
non venisse svolta su iniziativa privata perché ritenuta non remunerativa oppure che
diventasse oggetto di monopolio, con un incremento dei prezzi oltre i limiti che
potevano essere considerati economicamente giustificabili e socialmente desiderabili
(Alizzi e Testa, 2012). Nello specifico, considerando la letteratura economica e di
management sul tema, le principali determinanti della gestione diretta del servizio
idrico da parte dello Stato sono identificabili nei seguenti aspetti:
- fattori di natura tecnologica, relativi alla possibilità di realizzare investimenti
adeguati, sia in termini di scala dimensionale, sia in termini di tecnologie utilizzate.
La prima disciplina relativa alla gestione dei servizi pubblici locali si ebbe, infatti, in età Giolittiana, con la L.
n.103/1903 ed il relativo regolamento di attuazione (R.D. n.108/1904). Il legislatore volle introdurre, in via
generale, un regime di “municipalizzazione” con l’assunzione diretta delle attività di gestione dei servizi da parte
dei Comuni e delle Province.
1
29
In teoria, la gestione pubblica permette di raggiungere un dimensionamento
congruo della capacità produttiva anche in corrispondenza delle punte di domanda,
al fine di assicurare la disponibilità del servizio a tutta la collettività, di gestire in
modo opportuno la scarsità delle risorse ambientali e di fronteggiare le difficoltà
tecniche derivanti dal coordinamento di una pluralità di reti (Alizzi e Testa, 2012);
- fattori di natura istituzionale, riferiti alla natura pubblica del soggetto gestore del
servizio che non ha come obiettivo quello della remunerazione del capitale
investito. Pertanto, nel caso di gestione pubblica, il prezzo del servizio può essere
ridotto, rinunciando alle rendite da monopolio, o lasciato inalterato, in modo da
generare risorse aggiuntive da destinare a politiche di reinvestimento,
contrariamente a ciò che accadrebbe in caso di attribuzione del servizio ad un
soggetto privato che potrebbe appropriarsi di tali rendite da monopolio sottoforma
di extraprofitti o di politiche di investimento insufficienti (Grandinetti e
Massarutto, 2003);
- fattori di natura finanziaria, relativi ai vantaggi che possono essere conseguiti in
termini di agevole reperimento di risorse finanziarie aggiuntive, dato che il soggetto
pubblico beneficia di un costo del capitale tendenzialmente più basso rispetto alle
condizioni di mercato, essendo il prestito garantito direttamente o indirettamente
dallo Stato (Massarutto e Linares, 2006). Generando propri flussi finanziari,
l’azienda pubblica può essere considerata, inoltre, una fonte di risorse che
potrebbero essere destinate al finanziamento di altri interventi pubblici, divenendo,
in questo modo, uno vero e proprio strumento di finanza locale (Grandinetti e
Massaruto, 2003);
- fattori di natura organizzativa, in quanto le competenze tecniche e manageriali
sviluppate e detenute all’interno dell’azienda pubblica potrebbero essere utilizzate
anche in altri ambiti di intervento delle politiche pubbliche locali (Grandinetti e
Massaruto, 2003);
- fattori di natura strategica, riferiti alla programmazione dell’offerta dei servizi in
un’ottica di benessere collettivo e di sviluppo territoriale piuttosto che di servizio
reso al singolo consumatore, con la possibilità di cogliere sinergie derivanti dalla
gestione integrata di servizi diversi (come lo smaltimento dei rifiuti, la produzione
di energia e calore, il teleriscaldamento) (Grandinetti e Massarutto, 2003).
La scelta del legislatore è stata determinata, quindi, da questi motivi, dalla convinzione
che l’intervento pubblico nei settori dei servizi locali e, in particolare, nel servizio
idrico potesse garantire ai cittadini-utenti un’erogazione di buona qualità a prezzi
contenuti, assicurando maggiori livelli di efficienza tecnico-produttiva e, allo stesso
tempo, riducendo l’impatto economico del servizio attraverso la ripartizione dei
relativi costi tra tutti i soggetti destinatari e beneficiari dello stesso.
Questo approccio al monopolio naturale nel settore idrico ha presentato, tuttavia,
anche criticità rilevanti che puntualmente sono state evidenziate dalla letteratura
economica. I principali limiti di tale assetto organizzativo sono riconducibili, infatti: a
problemi di inefficienza gestionale, di basso stimolo all’aumento della produttività e di
scarsa propensione a valorizzare risorse e competenze aziendali, fattori che,
congiuntamente considerati, hanno condotto all’emergere di significativi costi sociali
30
(Grandinetti e Massarutto, 2003); all’adozione di comportamenti incentrati
esclusivamente sulle caratteristiche e le specificità del contesto locale che, da un lato,
hanno precluso, in un’ottica comparata, una riduzione dei costi e delle condizioni di
efficienza e, dall’altro lato, hanno determinato una scarsa propensione all’introduzione
di innovazioni (Vaccà, 2002); all’esenzione da quei meccanismi tipici di mercato, come
la minaccia di acquisizione e la bancarotta, in grado di disciplinare l’operato delle
imprese private (Fraquelli e Vannoni, 2012). Oltre a questi svantaggi, che potrebbero
essere considerati tradizionali, l’inadeguatezza del modello di gestione dei servizi
pubblici locali ad opera del soggetto pubblico può essere attribuita anche a significativi
mutamenti che sono intervenuti, nel corso del tempo, nel contesto economico, sociale
ed istituzionale a livello nazionale.
L’aspetto maggiormente sottolineato è quello relativo all’eccessiva vulnerabilità
all’interferenza della politica che si è manifestata, per esempio, nelle assunzioni
clientelari e nelle pratiche di corruzione (Grandinetti e Massarutto, 2003). Inoltre, gli
enti locali hanno tradizionalmente sfruttato gli organi di governo da essi nominati per
esercitare un controllo pervasivo e pilotare le attività delle aziende controllate. Ciò è
stato particolarmente avvertito soprattutto agli inizi degli anni Novanta ed ha
condotto ad una crisi di legittimazione e ad una diminuzione del consenso a favore
della gestione pubblica, accusata di presentare evidenti limiti e di generare svantaggi
nell’attività di erogazione dei servizi pubblici.
Se questo costituiva la principale problematica relativa all’assetto istituzionale del
soggetto gestore, altre rigidità di natura economica hanno determinato un basso livello
di efficienza dell’intervento pubblico nel settore idrico. Tra queste, possono essere
ricordate: il progresso tecnologico e industriale che, da un lato, aumentava i gradi di
libertà e la complessità delle decisioni, generando la necessità di instaurare relazioni
più evolute e personalizzate con i fornitori di tecnologia e, dall’altro lato, rendeva
globale il mercato degli approvvigionamenti tecnologici, richiedendo competenze
adeguate per affrontare un contesto di maggiore confronto ed apertura (Grandinetti e
Massarutto, 2003); il passaggio dall’interlocutore politico-amministratore
(orientamento alla produzione) ad una domanda identificata nell’utenza (orientamento
alla domanda), capace di avanzare richieste di qualità, di personalizzazione dell’offerta,
di assunzione di responsabilità, soprattutto in termini di tutela ambientale, di fronte a
cui le aziende pubbliche hanno rivelato difficoltà e rigidità (Vaccà 2002); la spinta da
parte dell’ordinamento comunitario alla promozione della concorrenza, con il
superamento di assetti ed equilibri di potere consolidati, per perseguire la
liberalizzazione dei mercati e la privatizzazione delle imprese.
Questi evidenti limiti hanno condotto alla necessità di modificare l’approccio al monopolio
naturale nel settore idrico e di passare dalla gestione diretta del servizio da parte del
soggetto pubblico ad un approccio di tipo regolamentativo, ossia all’attribuzione del
monopolio ad un soggetto privato, con la relativa adozione di una specifica
regolamentazione delle attività svolte da quest ultimo, secondo una logica di “Stato
regolatore”. Da un punto di vista giuridico, questo nuovo orientamento si è concretamente
manifestato ed è avvenuto con l’emanazione della Legge n. 36 del 5 gennaio 1994 (la
cosiddetta Legge Galli), dal titolo “Disposizioni in materia di risorse idriche”.
31
In termini economici, l’attribuzione del monopolio naturale ad un soggetto privato
deve essere sostenuta ed accompagnata da un’adeguata regolamentazione che può
concretizzarsi, anche in maniera combinata, nella predisposizione di politiche antitrust, finalizzate a vietare l’abuso di posizioni dominanti, nella determinazione di
adeguati assetti istituzionali che le imprese erogatrici del servizio devono assumere
(organizzazioni non profit, cooperative, aziende miste pubblico-privato), in modo che
il profitto non rappresenti la loro principale funzione obiettivo e/o nella definizione di
appropriati standard qualitativi e quantitativi che devono essere rispettati
nell’erogazione del servizio, quali la tutela ambientale, la sicurezza sui luoghi di lavoro,
la fissazione di price cap, ecc. (Ferrucci, 2002). Rispetto a tali assunti stabiliti dalla teoria
economica, le principali novità introdotte dalla Legge Galli sono diverse.
In primo luogo, è stata prevista una riorganizzazione e un’aggregazione delle
numerose gestioni diffuse sul territorio nazionale attraverso la creazione di bacini di
utenza minimi, definiti Ambiti Territoriali Ottimali (ATO), nei quali la gestione del
servizio idrico integrato (SII) è stata attribuita ad un operatore identificato dai Comuni
appartenenti e raggruppati nell’ATO stessa (Senn e Percoco, 2003). Pertanto, con la
definizione degli ATO, da un lato sono stati costituiti bacini di utenza di dimensioni
più ampie rispetto alle precedenti gestioni che corrispondevano, spesso, all’estensione
territoriale dei singoli Comuni e, dall’altro lato, sono state raggruppate, in ogni singolo
ATO, tutte le attività della filiera idrica, ovvero servizi di acquedotto, fognatura e
depurazione, procedendo così all’integrazione verticale delle diverse fasi del ciclo
dell’acqua (dalla captazione fino alla depurazione). L’intenzione è stata quella di
realizzare una gestione integrata del servizio idrico, superando la situazione di
frammentazione orizzontale e verticale del settore e permettendo il raggiungimento di
assetti dimensionali adeguati, individuati in base a parametri tecnici, fisici, demografici
ed anche politico-amministrativo, con il conseguente ottenimento di economie di scala
e di eventuali economie di scopo. Questo avrebbe dovuto condurre, nell’intenzione
del legislatore, ad un impiego più efficiente delle risorse, avviando un processo di
industrializzazione del settore.
In secondo luogo, uno degli aspetti più rilevanti della riforma è rappresentato dalla
possibilità di attribuire la gestione del servizio idrico a soggetti imprenditoriali di
natura privata selezionati a mezzo gara, con la convinzione che il ricorso al mercato
avrebbe garantito l’acquisizione dei capitali necessari alla sostenibilità e allo sviluppo
delle infrastrutture. In particolare, la Legge Galli non disciplinava in via esplicita le
modalità di gestione del servizio idrico integrato ma si limitava a rinviare alla
legislazione generale in tema di gestione dei servizi pubblici locali che permetteva “il
ricorso alla gestione in house, l’affidamento diretto a Spa a prevalente capitale pubblico o, nel caso di
attribuzione ad aziende private, l’affidamento tramite gara” (Bottasso e Conti, 2011). Dunque,
non si vietava il ricorso al mercato ma, allo stesso tempo, non si imponeva in alcun
modo il suo impiego agli enti locali consorziati nell’ATO.
Infine, è stata introdotta una specifica politica tariffaria riconducibile al principio del
full cost recovery, secondo cui la tariffa doveva essere calcolata sulla base della qualità del
servizio fornito, dei costi di gestione e di un’adeguata remunerazione del capitale
investito, garantendo così la copertura integrale dei costi di investimento e di gestione.
32
Il presupposto di tale provvedimento risiedeva nella possibilità di permettere al
servizio idrico di beneficiare dell’autofinanziamento, svincolando, almeno in una parte
(dato che i trasferimenti pubblici in conto capitale potevano persistere), le possibilità
di investimento e di crescita dalla situazione contingente dei bilanci degli enti locali
(Bottasso e Conti, 2011). Questo nuovo metodo, caratterizzato da un vincolo di revenue
cap (e quindi da un livello di ricavi massimo consentito ottenibile dalla gestione del
servizio idrico), aveva l’obiettivo di generare una maggiore pressione dal lato dei costi,
spingendo le aziende a ridurre le inefficienze gestionali e ad aumentare i livelli di
produttività. Esso, inoltre, avrebbe consentito di affrontare l’esigenza di raccogliere sul
mercato i capitali necessari per i rilevanti investimenti in infrastrutture, cercando di
superare l’inerzia imprenditoriale dell’attore pubblico. Per di più, il nuovo assetto
privatizzato doveva permettere di svincolarsi dal legame fortemente limitativo alla
spesa capitale di natura pubblica, per poter sfruttare innovativi strumenti della finanza,
come le cartolarizzazioni o i complessi schemi di project financing (Alizzi, Testa, 2012).
Questa tendenza alla privatizzazione dei servizi pubblici locali in generale e del
servizio idrico in particolare è andata progressivamente affermandosi e, nel corso degli
anni, dopo varie vicende legislative, ha subito una significativa accelerazione con
l’approvazione dell’art 23-bis della Legge n. 133 del 6 agosto 2008 (Conversione in
Legge, con modificazioni, del Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112, recante
disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria). In base a questa
nuova norma, l’affidamento a società di gestione a capitale interamente privato scelte
tramite gara con evidenza pubblica si è affermato come modalità ordinaria per la
selezione del gestore dei servizi pubblici locali. L’affidamento in house a società di
capitale interamente pubblico (società totalmente partecipate dall’ente locale) veniva a
configurarsi, invece, come una soluzione eccezionale, considerata possibile soltanto
nei casi in cui le “peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e
geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento” (art. 23 bis) non
permettevano un efficace ricorso al mercato2. Successivamente, con l’approvazione del
Decreto attuativo previsto dall’art. 23-bis (il D.P.R. n. 168 del 7 settembre 2010), sono
state definite le circostanze in grado di giustificare il mancato ricorso alla gara per
l’attribuzione della gestione dei servizi pubblici. Era, quindi, l’ente locale a dover
specificare i fallimenti del mercato, ossia a dover fornire un’evidenza
dell’inadeguatezza del ricorso alla gara e, allo stesso tempo, a dover delineare i benefici
a favore della comunità derivanti da una gestione in house dei servizi.
Si è affermato, in questo modo, quella che può essere definita una concorrenza per il
mercato. Non si tratta, infatti, di una concorrenza nel mercato che si manifesta nel
momento in cui più operatori competono sullo stesso piano e all’interno dello stesso
mercato per la fornitura di determinati beni e servizi. Tale assetto si sarebbe potuto
L’art. 23-bis ha subito una modifica con il Decreto Legge n. 135 del 25 settembre 2009 (il cosiddetto “Decreto
Ronchi”) che prevede la possibilità di procedere ad affidamenti diretti anche a società miste pubblico-private.
Tuttavia, in questo caso, il socio privato deve essere selezionato con procedure competitive ad evidenza
pubblica e deve avere una partecipazione al capitale dell’impresa non inferiore al 40 per cento (art. 15).
2
33
ottenere nel caso in cui il legislatore avesse optato per una politica di rimozione del
monopolio naturale. Nel settore idrico, a causa delle condizioni tecniche ed
economiche di erogazione del servizio, ciò è stato ritenuto non realizzabile e si è
proceduto, invece, a preservare il monopolio, attribuendo la concessione del servizio
ad un soggetto privato3. La concorrenza per il mercato si realizza, pertanto, attraverso
la gara, ossia il confronto fra le imprese, in termini di quantità, qualità e costi dei
servizi, per acquisire il diritto ad operare in via esclusiva all’interno di un certo ambito
territoriale (Alizzi e Testa, 2012). L’apertura al mercato, in questo senso, non conduce
a maggiori possibilità di scelta per gli utenti tra servizi con rapporti qualità-prezzo
differenti in quanto il gioco concorrenziale determina i suoi effetti precedentemente,
con la scelta del fornitore più efficiente, capace di garantire l’erogazione di servizi
ritenuti di qualità più elevata e a condizioni economiche più vantaggiose.
Sotto questo aspetto, la teorica economica ha da tempo dimostrato come la
concorrenza per il mercato, ossia la concorrenza per acquisire il diritto di servire il
mercato, possa condurre, in linea teorica e sotto certe condizioni, a risultati migliori (in
termini di efficienza produttiva e qualità del servizio) rispetto alla tradizionale gestione
in house (Demsetz, 1968). In particolare, come evidenziato da Williamson (1976) e,
successivamente, da altri economisti, affinché vengano raggiunte determinate
performance è necessario che sussistano alcune condizioni (Bottasso e Conti, 2011):
- la prima condizione è rappresentata dall’esistenza di una situazione di bassa
complessità che permetta la redazione di un contratto completo, sufficientemente
dettagliato e a costi contenuti. Al fine di non innalzare il livello dei costi di
transazione, il servizio, quindi, non deve essere eccessivamente complesso (la
qualità deve essere esprimibile con pochi parametri verificabili), la dinamica della
tecnologia e della domanda devono essere facilmente prevedibili e non devono
essere richiesti ingenti investimenti nel periodo di affidamento;
- la seconda condizione è costituita dalla necessità che la gara sia effettivamente
competitiva. A livello teorico, questo risultato viene ottenuto attraverso:
un’informazione perfetta che renda minima l’incertezza, come nel caso, ad
esempio, di un bando d’asta adeguatamente trasparente; un numero idoneo di
partecipanti, in grado di generare una pressione effettiva tra i concorrenti, ridurre la
loro rendita informativa ed impedire comportamenti collusivi; l’assenza di rilevanti
asimmetrie informative tra i concorrenti;
- la terza condizione è riconducibile alla possibilità per l’ente locale di svolgere
un’adeguata attività di monitoraggio e di riuscire ad ottenere il rispetto del
contratto. Tale attività di controllo diventa particolarmente difficile se il servizio è
complesso, se esistono asimmetrie informative tra autorità pubblica e impresa
Rispetto alle modalità di regolamentazione previste dalla teoria economica descritte in precedenza, è necessario
evidenziare che l’attribuzione del monopolio ad un soggetto privato non è stata accompagnata dalla costituzione
di una opportuna autorità che vigilasse sul corretto funzionamento del settore. Ciò è avvenuto solo più tardi,
con la Legge del 22 dicembre 2011, n. 214 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti
pubblici, il cosiddetto Decreto “Salva Italia”), con la quale sono state attribuite all’Autorità per l’Energia
Elettrica e il Gas (AEEG) funzioni di regolazione e di controllo dei servizi idrici.
3
34
concessionaria e se emerge l’esigenza di realizzare investimenti non recuperabili
(come nel caso delle infrastrutture idriche). È probabile, infatti, che l’autorità
pubblica designata al controllo non abbia competenze e poteri adeguati per
valutare con consapevolezza le richieste di modifica del contratto, vedendo
diminuita la propria forza negoziale e sottoponendosi al rischio di possibili
comportamenti opportunistici da parte del concessionario;
- la quarta condizione è rappresentata dalla possibilità di procedere efficacemente alla
sostituzione dell’impresa concessionaria. Tale opzione risulta particolarmente
difficoltosa nel momento in cui l’erogazione del servizio prevede la realizzazione di
investimenti non recuperabili. Data l’esistenza del rischio di non poter ottenere
nuovamente la concessione del servizio, l’impresa, infatti, è sicuramente disincentivata
ad investire e a realizzare le attività di manutenzione, soprattutto con l’avvicinarsi dello
scadere della concessione. Una soluzione, a tal fine, potrebbe essere quella di imporre
al gestore subentrante di corrispondere all’impresa uscente il valore residuo degli
investimenti realizzati (come peraltro viene previsto dalla normativa italiana) anche se
tale soluzione risulta praticabile solo nel caso in cui si possa agevolmente procedere ad
una esatta valutazione degli assets materiali ed immateriali.
Sulla base delle considerazioni appena esposte, l’applicazione del modello della
concorrenza per il mercato al settore idrico non sembra adeguata, a causa delle
caratteristiche assunte da tale settore. Gli elementi distintivi e le specifiche modalità di
funzionamento del settore idrico violano, infatti, gran parte delle condizioni su cui
poggia il modello di Demsetz.
Innanzitutto, il disegno di gara risulta particolarmente complesso e complicato dal
momento in cui l’affidamento riguarda l’intero servizio idrico integrato. Si riscontra,
poi, un’elevata intensità di capitali e la necessità di realizzare ingenti investimenti in
assets non recuperabili, con una vita utile estremamente prolungata e di non facile
valutazione, soprattutto con riferimento alle reti4. Le infrastrutture del servizio idrico
possono essere qualificate, infatti, come sunk networks, perché velocemente superabili
dal punto di vista tecnologico ed estremamente costose sia in termini di sostituzione,
in quanto fisse, sia in termini di espansione e manutenzione, essendo influenzate dalle
caratteristiche geografiche e dalla concentrazione abitativa del territorio (Peirone e
Servato, 2012). Altra incongruenza è data dal fatto che nel settore idrico si ha la
necessità di concedere affidamenti di lunga durata, per cui sono altamente probabili
rinegoziazioni in cui l’autorità pubblica potrebbe non detenere informazioni complete
e non poter esercitare, pertanto, un elevato potere decisionale e contrattuale. In alcuni
casi, inoltre, la normativa, nel corso della sua evoluzione, non sembra aver favorito la
presenza di un numero elevato di partecipanti, che rappresenta altra condizione
4 Dal momento che nel settore idrico gli assets rappresentano, di norma, costi non recuperabili per l’impresa,
non esiste un mercato secondario efficiente cui far riferimento per la valutazione del loro valore residuo. Il
ricorso a valori di bilancio, d’altra parte, porta a distorsioni causate da un’indicazione solo approssimativa dei
flussi di reddito residui producibili dall’asset e da una non trascurabile variabilità dei risultati della valutazione a
seconda del metodo di calcolo dell’ammortamento utilizzato. A ciò si aggiunga una particolarità del settore
idrico, rappresentata dal fatto che una porzione consistente degli assets è interrata (si tratta principalmente di
condotte idriche), per i quali non è facile procedere ad una valutazione soddisfacente del loro stato effettivo.
35
necessaria per il successo della concorrenza per il mercato5. Infine, c’è il forte rischio che
le asimmetrie informative tra l’impresa preesistente e i potenziali entranti portino a
concludere le gare con la riconferma a gestore dell’impresa pubblica preesistente, non in
virtù di un’effettiva maggiore efficienza di quest’ultima ma a causa della rendita
informativa a suo vantaggio e a causa dei conflitti di interesse dovuti al fatto che la
supervisione delle gare è stata storicamente demandata ad autorità di emanazione diretta
del potere politico, ossia designate dagli stessi enti locali (Bottasso e Conti, 2011).
Queste evidenze, contravvenendo le condizioni di funzionamento del modello di
Demsetz, dimostrano come, nel caso del settore idrico italiano, lo strumento della gara
non sia in grado di avvicinarsi ai risultati previsti a livello teorico, a differenza di
quanto potrebbe accadere per altri servizi pubblici locali. Dunque, nel settore idrico, si
rischia che il modello della concorrenza per il mercato non risulti così adeguato
rispetto alle caratteristiche economiche e tecnologiche specifiche del settore, con il
rischio di un mantenimento di monopoli pubblici o semi-pubblici (nel caso di imprese
miste con socio privato scelto a mezzo di gara). Tutto ciò, in un contesto regolatorio
costantemente in transizione, per cui i gestori si trovano ad essere poco incentivati ad
investire e a migliorare efficienza e qualità, con la tendenza a far gravare sugli utenti le
inefficienze tipiche del monopolio, pubblico o privato, attraverso incrementi tariffari e
più bassa qualità del servizio (Bottasso, Conti, 2011).
Il quadro economico e legislativo appena delineato è stato comunque ulteriormente
modificato dall’esito dei referendum del 12 e 13 giugno del 2011. In particolare, il
primo quesito referendario ha determinato l’abolizione dell’art. 23-bis. In questo
modo, la gara non può più essere considerata la modalità tipica di affidamento ma può
essere utilizzata solo nel caso in cui si decida per l’assegnazione del servizio ad imprese
private. Allo stato attuale, il servizio idrico può quindi essere gestito:
- da società controllate da enti pubblici. È la modalità di affidamento diretto o in
house, ovvero attraverso società a capitale pubblico, aventi come azionisti gli stessi
enti locali interessati dal servizio (Arnaudo, 2012). Nello specifico, gli enti che
costituiscono il nuovo soggetto gestore, oltre ad essere vincolati a detenere l’intero
capitale (vincolo strutturale), sono chiamati a rispettare i requisiti stabiliti a livello
europeo: quello del controllo analogo, per cui gli enti devono predisporre un
sistema di controlli sulla società partecipate simile a quelli previsti per gli organi
interni degli enti stessi, e quello dell’attività prevalente, per cui la società affidataria
in house deve operare in modo prevalente a favore degli enti che le affidano il
servizio (Intesa SanPaolo, 2013);
- da società a capitale misto pubblico-privato, in cui il socio privato deve essere
scelto a mezzo di gara senza però che questo sia obbligato ad assumere, come
avveniva in precedenza, una partecipazione minima (e consistente) al capitale
sociale (Bonetti, 2012);
A titolo di esempio, l’art. 23-bis della Legge 133/2008 prevedeva che “i soggetti titolari della gestione di servizi
pubblici locali non affidati mediante le procedure competitive (…), nonché i soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti
e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, non possono acquisire la
gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né
direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare”.
5
36
- società a capitale interamente privato, a cui l’affidamento del servizio idrico viene
attribuito a mezzo di gara.
Il secondo quesito referendario ha determinato, invece, l’abolizione del sistema di
remunerazione del capitale investito attraverso la tariffa. In questo caso, l’esito del
referendum ha dato origine ad uno scenario problematico, soprattutto a fronte degli
ingenti investimenti richiesti e programmati nel settore idrico e alle difficoltà in cui
versano le finanze pubbliche. Dato che l’abrogazione del sistema tariffario va ad
annullare la possibilità di remunerare il capitale investito in infrastrutture ed impianti,
si ritiene che tale risultato possa, in futuro, non solo rallentare il processo di
liberalizzazione e di industrializzazione del settore ma anche condurre ad uno stallo
degli investimenti, peggiorando la situazione italiana già segnata da ritardi e
inadempienze rispetto agli obblighi imposti dall’Unione Europea (Direttiva
2000/60/CE), come ad esempio in tema di sistemi di depurazione per garantire la
qualità delle acque (Marangoni, 2011).
In definitiva, ad oltre vent’anni dalla prima riforma del settore idrico, avvenuta con la
Legge Galli, la situazione nazionale sembra non aver subito cambiamenti sostanziali.
Infatti, secondo una recente ricerca condotta da Intesa Sanpaolo (2013), delle 115
società affidatarie del servizio idrico il 53% sono pubbliche, il 6% sono private, il 30%
sono miste (di cui il 20% con partner selezionato e il 10% con partner finanziario) e
l’11% è rappresentato da forme di gestione non specificate o riconducibili alle
precedenti. In ogni caso, studi sulla performance delle aziende idriche non
confermano una preferibilità univoca, né del privato, né del pubblico, mostrando
come non vi sia una relazione chiara ed evidente tra proprietà ed efficienza: si possono
avere buone gestioni pubbliche, come buone gestioni private. Questo potrebbe
spiegare il trend ciclico che spinge all’alternanza dei due orientamenti (gestione
pubblica e gestione privata) e che oggi starebbe premendo verso un ritorno al
pubblico o comunque ad una gestione mista, con l’obiettivo, in quest’ultimo caso, di
raccogliere aspetti positivi della gestione privata, come la maggiore efficienza, e aspetti
positivi della gestione pubblica, come un’attenzione maggiore alla qualità e all’utente
(Nardi, 2011).
L’alternativa della Non Profit Utility
Nella ricerca di questa nuova modalità di gestione del servizio idrico, si è aggiunta,
negli ultimi tempi, anche un’ulteriore istanza: la crescente sensibilità rispetto ai temi di
“accesso all’acqua” o del “diritto all’acqua” (Nardi, 2011). Il referendum può essere
considerato, infatti, il risultato della diffusione di questo orientamento che percepisce
la gestione privata come deleteria per i diritti della comunità. In tal senso, il risultato
referendario può essere letto come il rifiuto del privato for profit e di una
privatizzazione che lascia spazio all’opportunismo dei gestori, a scapito del benessere
collettivo, anche se, secondo altre prospettive, il ritorno alla gestione pubblica non
farebbe altro che riproporre i tradizionali problemi di inefficienza e di carenza degli
investimenti in infrastrutture che, in passato, hanno spinto all’apertura verso la
gestione privata e il mercato.
37
Nel dibattito internazionale emerge, quindi, la necessità di un nuovo asseto
istituzionale, in grado di valorizzare il ruolo del cittadino/consumatore e della
comunità (Nardi, 2011). Il modello che sembra rispondere in modo appropriato a
queste esigenze può essere identificato nella Non Profit Utility (NPU). La NPU è
contraddistinta, infatti, da un’ottica citizen and community centred, per cui il cittadino e la
comunità vengono posti al centro della governance. Ciò appare particolarmente rilevante
nella gestione del servizio idrico per un duplice ordine di ragioni: da un lato, tale
servizio assume una funzione sociale primaria, rispondendo a bisogni essenziali del
singolo e della comunità; dall’altro lato, la sua erogazione implica una prossimità alla
comunità, arrivando di regola alla singola utenza familiare o industriale, attribuendo,
quindi, alle public utilities un forte radicamento al territorio e uno stretto legame con la
popolazione servita (Nardi, 2011). Per questi motivi, la NPU potrebbe rappresentare
un modello di gestione appropriato per l’erogazione di un servizio così importante
come quello idrico, mostrando una certa coerenza rispetto alla natura del bene acqua e
delle infrastrutture idriche e rispetto al loro ruolo nello sviluppo della società6.
Generalmente, la NPU può assumere connotati organizzativi differenti. Esistono però
degli elementi che possono essere considerati caratteristiche essenziali comuni e che
contribuiscono a delineare il profilo identitario di questo modello istituzionale
d’impresa.
In primo luogo, titolare dell’impresa è la comunità di utenti. Si possono avere forme di
rappresentanza diretta degli utenti, come nel caso tipico delle cooperative, oppure
forme di rappresentanza indiretta, in cui ci si avvale di un corpo intermedio, come
un’associazione o un’istituzione locale. Infine, si ha la forma della rappresentanza
delegata che può consistere, ad esempio, in un board di esperti del settore designati
attraverso votazione, cooptazione o dal governo locale. Un simile assetto istituzionale
denota, quindi, una maggiore propensione ad ascoltare la “voice” degli stakeholders e
questo potrebbe tradursi nell’efficiente ed efficace erogazione di servizi e nel
miglioramento continuo del loro livello quantitativo e qualitativo (Nardi, 2011).
In secondo luogo, vige il vincolo di non redistribuzione degli utili (non profit in senso
stretto). Questo ulteriore aspetto conduce ad un reinvestimento dei profitti nella
società o alla distribuzione degli stessi in forma di sconti tariffari per gli utenti/soci,
come nel caso della cooperativa (Nardi, 2011) oppure, secondo una visione più ampia,
può determinare un’assegnazione dei dividendi in quota minima e in un’ottica di lungo
periodo. In particolare, nel settore idrico, il vincolo di non redistribuzione degli utili
delle NPU determina due distinte implicazioni. Da un lato, è possibile ritenere che
Anche storicamente, lo sviluppo del servizio idrico è stato segnato da uno stretto legame con il cittadino e la
comunità. Nella seconda metà dell’Ottocento, Milano e Londra svilupparono importanti reti acquedottistiche
per rispondere alle pressanti esigenze di garantire l’accesso all’acqua potabile e lo scarico delle acque reflue in
modo sicuro ed igienico, cercando di scongiurare i periodici fenomeni di epidemia. Si trattava di bisogni della
persona e della comunità che non potevano essere soddisfatti dal singolo cittadino. Al fine di soddisfare queste
esigenze, nacquero delle iniziative comunali espressione della comunità. Nelle aree rurali, in mancanza di un
soggetto istituzionale rappresentativo sovraordinato quale il Comune, esigenze simili portarono gli utenti ad
aggregarsi in forma cooperativa. Si tratta di un interessante aspetto storico che alimenta la convinzione per cui
un ritorno alla centralità del cittadino sia indispensabile per l’erogazione di un servizio irrinunciabile per la
sopravvivenza e la salute come l’acqua (Nardi, 2011).
6
38
l’operatore sia stimolato al reimpiego dei profitti conseguiti per il miglioramento del
servizio, il potenziamento delle infrastrutture ed il loro ammodernamento. L’esistenza
di una simile restrizione potrebbe consentire, pertanto, di correggere la tendenza delle
imprese a ridurre gli investimenti e le innovazioni, traducendosi in un incentivo
all’efficienza della gestione e al contenimento degli sprechi (Nardi, 2011). Dall’altro
lato, questo connotato distintivo appare in linea con l’abolizione dell’adeguata
remunerazione del capitale investito sancita dal secondo punto del referendum del
2011. Nel contesto che il referendum ha determinato, è evidente, infatti, come la scelta
di una soluzione orientata al profitto divenga più ardua da perseguire mentre si
presenta più semplice e coerente l’adozione del modello di gestione tipico dell’impresa
sociale non profit (Fiorentini e Calò, 2013). Tuttavia, in relazione a questo aspetto, è
necessario evidenziare che la mancanza di una sufficiente remunerazione del capitale
investito potrebbe condurre ad uno scoraggiamento degli investitori privati
tradizionali che perseguono l’obiettivo di un ritorno economico adeguato in un’ottica
di breve periodo (Iaione, 2012). In altri termini, emergerebbe il rischio di una
insufficiente attrazione di capitali privati, necessari per la realizzazione degli
investimenti in infrastrutture richiesti dal settore. Contrariamente a questa visione, i
soggetti non profit mostrano però caratteristiche peculiari, quali il mantenimento
dell’equilibrio economico-finanziario di lungo periodo e la funzione sociale dell’attività
svolta, che potrebbero spingere nuovi attori ad intervenire in veste di finanziatori del
servizio. Si tratta di soggetti privati che non premono per una remunerazione
immediata della loro partecipazione e che sono interessati ad investire in settori o
operazioni che creano “esternalità positive”, come infrastrutture di trasporto,
produzione di energia da fonti rinnovabili, infrastrutture idriche e per l’igiene urbana
(Iaione, 2012). Gli investitori in questione sono fondi pensioni, assicurazioni o altri
fondi istituzionali, disposti a conferire risorse in tali settori per la responsabilità sociale
che in molti casi è incorporata nella loro missione ma anche per le potenzialità di
sviluppo e il rischio meno elevato di queste attività. Come corrispettivo del minor
rischio, tali investitori sono disposti a percepire una remunerazione dei capitali
investiti in una prospettiva di lungo termine piuttosto che perseguire una
remunerazione immediata ed integrale della partecipazione azionaria, come
usualmente accade (Fiorentini, Calò, 2013). È per tali ragioni che, in questi casi, la
NPU può porsi come interlocutore privilegiato, riuscendo a perseguire,
congiuntamente, obiettivi di salvaguardia dell’economicità di lungo periodo ed
obiettivi sociali.
In terzo luogo, la NPU riduce i problemi di asimmetria informativa, grazie ad un
assetto proprietario detenuto, generalmente, dalla comunità degli utenti. Una simile
configurazione istituzionale contribuisce a ridurre i potenziali comportamenti
opportunistici che, altrimenti, tenderebbero a permanere anche in un contesto
regolato, sia per l’azienda pubblica, come nel caso dei problemi di agenzia tra
proprietà e manager, sia per le imprese capitalistiche che potrebbero ridurre gli
investimenti, con effetti negativi nel lungo periodo (Nardi, 2011).
In quarto luogo, la NPU presenta un’organizzazione autonoma capace di
autogovernarsi (Fiorentini e Calò, 2013). Rispetto alle organizzazioni di diretta
39
emanazione di enti o istituzioni pubbliche, la NPU può esercitare un controllo sulle
proprie attività e disporre di proprie procedure organizzative non condizionate da
entità esterne (Nardi, 2011), così come può perseguire e mantenere l’equilibrio
finanziario in modo indipendente dai finanziamenti pubblici (Fiorentini e Calò, 2013;
Nardi, 2011).
Infine, a livello finanziario, queste imprese sono legate più al capitale di terzi che
all’equity. Anche se le utilities pubbliche beneficiano di un costo del capitale più basso e
di elevate capacità di indebitamento, la NPU evidenzia possibilità di accesso al credito
più favorevoli comparativamente ad un’azienda capitalistica for profit 7. A differenza di
quest’ultima, la NPU può ottenere, infatti, migliori condizioni economiche proprio in
virtù del vincolo di reinvestimento degli utili. Non avendo, poi, obblighi di
remunerazione immediati, essa ha la possibilità di impiegare i profitti per ripagare il
debito e per migliorare il servizio offerto. Inoltre, la NPU può ottenere anche benefici
e vantaggi di natura fiscale che vanno ad incrementare la sua capacità di
finanziamento.
Ed è proprio per queste caratteristiche che la NPU potrebbe rappresentare una “terza”
reale alternativa al tradizionale approccio bipolare per la gestione del servizio idrico,
basato, come evidenziato in precedenza, sulla scelta e, di fatto, sull’alternanza tra
gestione pubblica e gestione capitalistica for profit.
L’esperienza italiana delle cooperative di utenza
A seguito delle considerazioni appena esposte, diventa necessario comprendere con
quale modalità specifica è possibile implementare il modello istituzionale della NPU,
ossia definire lo specifico modello di governance attraverso il quale l’approccio della
NPU può essere reso operativo. In altri termini, qual è la “forma d’impresa” che può
essere considerata corrispondente alla NPU? Data la specifica realtà nazionale, questo
modello istituzionale non può che essere rappresentato dalla cooperativa d’utenza che
denota la capacità di porre al centro il cittadino e i suoi bisogni, fornendo al cittadino
stesso il ruolo di protagonista attivo nella gestione dell’impresa (Nardi, 2011). La
cooperativa d’utenza può essere considerata, infatti, una particolare forma di NPU e
questa appartenenza concettuale, questa similarità emerge in modo immediato
comparando le principali caratteristiche distintive della NPU e il profilo identitario
della cooperativa d’utenza (tab. 1).
Questo confronto denota delle evidenti affinità e degli approcci di fondo condivisi tra
la NPU e la cooperativa d’utenza, quali il superamento dell’orientamento al profitto,
l’attenzione particolare alla persona (cittadino, socio, utente/consumatore) e l’impegno
a condurre un’attività di produzione o erogazione di servizi in grado di apportare un
effettivo miglioramento al benessere della collettività e del territorio.
7 Per molte imprese capitalistiche, il ricorso al capitale di debito nel processo di privatizzazione è una pratica
piuttosto diffusa. Viene riscontrato, infatti, che molto spesso queste imprese non apportano capitale proprio,
preferendo entrare nelle società di gestione con capitale di debito. Attraverso complesse operazioni di
ingegneria finanziaria esse reperiscono le risorse necessarie per realizzare gli investimenti in infrastrutture,
caricando in questo modo l’utility acquistata del costo relativo al debito contratto.
40
Tab. 1 - Gli elementi comuni tra Non Profit Utility e cooperativa d’utenza
Caratteristiche della Non Profit Utility
Caratteristiche della cooperativa d’utenza
Centralità delle esigenze del cittadino e della comunità di
utenti (voice).
Una cooperativa è un’associazione autonoma di persone unite
volontariamente per soddisfare le proprie aspirazioni e bisogni
economici, sociali e culturali comuni attraverso la creazione di
un’impresa di proprietà comune e democraticamente controllata
(definizione ACI).
Impresa quale proprietà comunitaria.
Rappresentanza diretta (in altri casi indiretta o delegata)
degli utenti.
Controllo democratico da parte dei soci con diminuzione
dei problemi di asimmetria informativa.
Diminuzione di comportamenti opportunistici.
Vincolo di non redistribuzione degli utili o possibilità di
distribuzione di una minima quota.
Vincolo di reinvestimento degli utili nella società in
un’ottica di sviluppo e miglioramento dell’organizzazione
e del servizio.
Utile in eccesso accantonato come riserva di capitale o
devoluto ad altri scopi di utilità sociale.
Possibilità di praticare sconti tariffari/ristorni a vantaggio
dei soci/utenti.
Organizzazione autonoma e indipendente che si
autogoverna.
Orientamento al miglioramento del benessere collettivo.
Impegno verso la comunità.
Le cooperative sono organizzazioni democratiche, controllate dai
propri soci che partecipano attivamente nello stabilire le politiche e
nell’assumere le relative decisioni. Gli uomini e le donne eletti come
rappresentanti sono responsabili nei confronti dei soci. Nelle
cooperative di primo grado, i soci hanno gli stessi diritti di voto (una
testa, un voto), e anche le cooperative di altro grado sono ugualmente
organizzate in modo democratico
(2° principio ACI).
I soci contribuiscono equamente al capitale delle proprie cooperative
e lo controllano democraticamente. Almeno una parte di questo
capitale è di norma proprietà comune della cooperativa. I soci di
norma, percepiscono un compenso limitato, se del caso, sul capitale
sottoscritto come condizione per l’adesione. I soci allocano i surplus
per qualunque dei seguenti scopi: sviluppo della cooperativa,
possibilmente creando delle riserve, parte delle quali almeno dovrebbe
essere indivisibile; benefici per i soci in proporzione alle loro
transazioni con la cooperativa stessa e sostegno ad altre attività
approvate dalla base sociale
(3° principio ACI).
Le cooperative sono organizzazioni autonome, autosufficienti
controllate dai soci. Nel caso in cui esse sottoscrivano accordi con
altre organizzazioni (incluso i governi) o ottengano capitale da fonti
esterne, le cooperative sono tenute ad assicurare sempre il controllo
democratico da parte dei soci e mantenere l’autonomia dalla
cooperativa stessa
(4° principio ACI).
Le cooperative lavorano per uno sviluppo sostenibile delle proprie
comunità attraverso politiche approvate dai propri soci
(7° principio ACI).
Fonte: elaborazione degli autori
Si tratta di elementi che risultano ragionevolmente legittimi, se non imprescindibili,
nella fornitura di servizi fondamentali per la società, confermando la possibile idoneità
della cooperazione d’utenza a gestire attività di vitale importanza, quali i servizi
pubblici locali. In particolare, nelle cooperative d’utenza, i beneficiari/destinatari/
utenti di un servizio si associano per soddisfare in modo mutualistico i loro bisogni
(Mori e Spinicci, 2011b). Sotto questo aspetto, i servizi oggetto di organizzazione
cooperativa possono essere molteplici, così come possono essere differenti le
cooperative di utenza. Tuttavia, nell’uso corrente, il termine cooperazione d’utenza
viene riservato a quelle tipologie di utenza che non hanno una denominazione
specifica (come avviene, invece, per le banche di credito cooperativo e le mutue
assicuratrici), indicando, di fatto, una categoria residuale e generica di cooperative che
hanno ad oggetto i servizi più vari (Mori e Spinicci, 2011b). Nonostante ciò, i servizi
che possono essere ritenuti di concreto interesse in Italia, così come in altri Paesi,
sono riconducibili ad un ambito ristretto, individuato non tanto sulla base della natura
fisica del servizio in sé, quanto, piuttosto, sulla base di altri criteri, a partire dalle
condizioni di mercato. Per l’attività di un’organizzazione cooperativa, non sono di
41
interesse, infatti, quei servizi di natura puramente privata che, tradizionalmente,
vengono offerti da una molteplicità di operatori in mercati concorrenziali. Le
cooperative di utenza sono più frequenti, invece, in quei mercati che presentano, dal
lato dell’offerta, soggetti con rilevanti poteri di monopolio e, quindi, in mercati
caratterizzati da condizioni di monopolio naturale (Mori e Spinicci, 2011b). Questo
permette di ristringere il campo di azione delle cooperative d’utenza a particolari
settori industriali, tra cui assumono una posizione di estrema rilevanza i servizi
pubblici locali (acqua, energia, rifiuti, trasporti e telecomunicazioni, nonché servizi
sanitari ed assistenziali).
In Italia, tuttavia, lo sviluppo della cooperativa di utenza è stato finora piuttosto
limitato. Con riferimento all’esperienza dell’intero sistema cooperativo, la
cooperazione d’utenza non risulta quantitativamente rilevante, assumendo un ruolo
significativo in contesti geografici delimitati e, spesso, marginali rispetto ai territori
urbani (con una diffusione soprattutto in zone di montagna). Inoltre, sono pochi gli
studi specifici dedicati a questo tema con una conseguente scarsa consapevolezza della
consistenza complessiva del fenomeno. Le uniche indagini condotte si riferiscono
maggiormente al settore dell’energia elettrica, nell’ambito del quale la cooperazione
d’utenza è presente in modo piuttosto strutturato. Anche nel settore idrico si riscontra
una presenza significativa di esperienze imprenditoriali ma la conoscenza del
fenomeno è circoscritta, solitamente, a contesti locali8.
Diviene quindi fondamentale comprendere le caratteristiche ed il ruolo assunto dalle
cooperative d’utenza nella gestione dei servizi idrici, così come tali connotati
emergono dai contributi presenti in letteratura, in modo da delineare i principali
vantaggi e le principali criticità che questo modello di governance può manifestare in
concreto. A tal fine, la principale indagine condotta in Italia sulla gestione dei servizi
idrici da parte di cooperative d’utenza è sicuramente rappresentata dallo studio
realizzato da Mori e Spinicci (2011a) che, sulla base di diverse fonti9, individuano e
descrivono le esperienze di alcune imprese. I risultati di tale ricerca evidenziano una
scarsa presenza della cooperazione d’utenza in questo specifico settore di attività,
Per quanto riguarda la presenza della cooperativa di utenza a livello mondiale, si riscontra una certa diffusione
sia nei Paesi in via di sviluppo, sia in quelli sviluppati, come nel caso degli Stati Uniti (nei settori energetici
tradizionali e nei servizi idrici), della Germania e della Danimarca (con una rilevante diffusione nel settore delle
fonti energetiche rinnovabili). In particolare, le esperienze più significative nella gestione del servizio idrico si
hanno in Gran Bretagna, in Finlandia e in America Latina, come nel caso della Bolivia, in cui è stato realizzato si
trova il più grande acquedotto cooperativo del mondo.
9 L’individuazione delle cooperative di utenza operanti nel settore idrico in Italia è avvenuta attraverso la
sovrapposizione di diverse informazioni. Gli autori considerano dapprima le cooperative operanti nella
divisione 41 della sezione E della classificazione delle attività economiche Ateco 2002, incrociando,
successivamente, i risultati ottenuti con altre fonti documentali: da un lato, con il rapporto annuale pubblicato
dalla Federazione Cooperativa Raiffeisenverband che, pur considerando la sola Provincia di Bolzano,
rappresenta l’unica fonte disponibile relativa al settore idrico in Italia; dall’altro lato, con i registri delle Camere
di Commercio e con l’Albo delle Società Cooperative. In questo modo, essi individuano venti cooperative
d’utenza operanti nella gestione dei servizi idrici.
8
42
presenza che, tra l’altro, appare geograficamente concentrata in alcune Regioni
dell’Italia settentrionale, con particolare riferimento al Trentino-Alto Adige10.
Nel dettaglio, le cooperative d’utenza presentano diverse caratteristiche comuni che
vengono sinteticamente esposte nella tabella 2.
In relazione al periodo di costituzione, le cooperative d’utenza che operano nel settore
idrico presentano un’elevata longevità. In alcuni casi, esse sono state create addirittura
agli inizi del secolo scorso mentre in altri casi denotano un avvio delle attività da oltre
50 anni. Questa primo connotato distintivo conduce ad una duplice riflessione. Da un
lato, la cooperative d’utenza nascono in periodi largamente anteriori ai processi di
liberalizzazione e privatizzazione del settore, rappresentando, di fatto, una risposta alle
esigenze di accesso al servizio idrico da parte di intere comunità locali. Queste
organizzazioni vengono costituite, infatti, con lo scopo di servire territori in cui le
imprese capitalistiche, spinte da logiche esclusivamente economiche, non avevano
interesse ad operare oppure in cui l’ente pubblico locale non possedeva le risorse
necessarie per la realizzazione delle infrastrutture. Si tratta, pertanto, di fenomeni di
autorganizzazione delle comunità locali (anche considerando l’estensione significativa
della loro base sociale) che, per ottenere l’accesso a servizi essenziali, decidono di
intervenire direttamente nell’organizzazione e nella gestione di alcune attività del
servizio idrico (con particolare riferimento a quelli di acquedotto) e, addirittura, nella
costruzione delle relative infrastrutture. Dall’altro lato, la loro longevità lascia supporre
che le cooperative d’utenza abbiano rappresentato, in passato, una risposta efficace ad
un bisogno insoddisfatto delle comunità e continuino tuttora a rafforzare o,
perlomeno, a lasciare inalterata nel tempo questa loro prerogativa.
Un ulteriore elemento identitario delle cooperative d’utenza è costituito dalla centralità
della figura del socio e dal suo coinvolgimento nelle attività aziendali. Non solo la
possibilità di accedere ai servizi è riservata, generalmente, ai soci ma questi sono anche
coloro che ricoprono cariche di gestione dell’impresa a titolo, tra l’altro,
esclusivamente gratuito. Ne discende, pertanto, la propensione e la capacità delle
cooperative di utenza di essere delle vere e proprie imprese di comunità, in cui la
figura del socio assomma e sintetizza una pluralità di funzioni: da quella di beneficiario
del servizio a quella “formale” di titolare del capitale sociale, fino alla funzione
“sostanziale” di responsabile della gestione delle attività aziendali.
Infine, un ultimo aspetto che merita di essere sottolineato è costituito dalle dinamiche
di natura economico-finanziaria delle cooperative d’utenza. Le principali
problematiche delle imprese operanti nel settore idrico, così come emergono dalla
letteratura economica e di management in precedenza esposta, sono rappresentate
dalla difficoltà a stabilire delle tariffe in grado di remunerare il servizio ed essere, allo
stesso tempo, eque per gli utenti e dalla difficoltà a reperire le risorse necessarie per
finanziarie gli investimenti. Le specifiche caratteristiche delle cooperative d’utenza
Sotto l’aspetto metodologico, lo studio condotto da Mori e Spinicci (2011a) ha previsto una rilevazione di
informazioni tramite l’invio di un questionario. Rispetto alle venti imprese censite, al questionario hanno
risposto solo nove cooperative che presentano la seguente distribuzione geografica: sei in Provincia di Bolzano,
due in Provincia di Torino e una in Provincia di Biella.
10
43
permettono di fornire una risposta efficace ad entrambe le problematiche. In relazione
alle tariffe, il coinvolgimento diretto dei soci consente di ridurre i costi di erogazione
del servizio, evitando sprechi e focalizzando gli investimenti, con il conseguente
aumento del grado di efficacia del servizio e con la possibilità di praticare tariffe che
sono sostanzialmente più basse rispetto a quelle di mercato. In relazione invece alla
fonti di finanziamento, le cooperative d’utenza sono in grado di attivare una pluralità
di meccanismi, dagli accantonamenti ai prestiti che vengono concessi direttamente dai
soci, evidenziando, quindi, una notevole capacità nel reperimento e nella gestione di
risorse finanziarie aggiuntive. La ricchezza prodotta, inoltre, viene reinvestita per il
miglioramento della qualità del servizio o ridistribuita sul territorio, fornendo
opportunità di lavoro in contesti prevalentemente rurali o investendo in attività
specifiche a favore delle comunità locali.
Tab. 2 - Le principali caratteristiche delle cooperative d’utenza nel settore idrico
Dimensione di analisi
Caratteristiche delle cooperative di utenza
Periodo di costituzione
È anteriore ai processi di liberalizzazione e di privatizzazione del settore, con
date di fondazione comprese tra il 1907 e il 1962.
Modalità di avvio delle attività
La costituzione è stata promossa in alcuni casi dall’ente pubblico (Comune) e,
in altri casi, da soggetti privati (cittadini ed imprese).
Dimensioni aziendali
Sono significative con un numero di soci compreso tra i 430 e i 1.320. I soci
sono, complessivamente, 4.194 mentre gli utenti sono 5.415. Il numero dei soci
è, quindi, circa l’80% del totale degli utenti che usufruiscono del servizio. Il
22% delle società ha più di 500 soci mentre il oltre il 55% ha più di 500 utenti.
Modalità di fruizione del servizio
Generalmente, per usufruire del servizio bisogna essere soci. In alcuni casi, se
consentito dallo statuto, si hanno utenti non soci mentre in altri casi i soci
possono avere più utenze. Per questi motivi, il numero dei soci e quello degli
utenti non sempre coincidono. Prevalgono, infine, utenti domestici ma sono
presenti anche utenti industriali e commerciali.
Proprietà delle infrastrutture
Prevalentemente, la proprietà è delle cooperative. Solo in due casi il Comune è,
in tutto o in parte, proprietario dell’acquedotto. Inoltre, nel 50% delle
esperienze, le cooperative sono partecipate da un Ente pubblico che assume la
qualifica di socio. In qualsiasi caso, esiste uno stretto rapporto di
collaborazione con i Comuni serviti.
Attività svolte
Le attività prevalenti sono quelle di captazione e distribuzione di acqua
potabile. Non vengono offerti tutti i servizi del servizio idrico integrato ma, di
norma, soltanto quelli di acquedotto. I servizi di fognatura e depurazione sono
gestiti da altri soggetti privati o dai Comuni.
Finanziamento degli investimenti
Avviene attraverso la tariffa, le risorse accantonate e, in casi straordinari,
tramite mutui e finanziamenti concessi dai soci. Gli investimenti di dimensione
più elevata possono richiedere, inoltre, l’autorizzazione del Comune e/o della
Provincia.
Politica tariffaria
È finalizzata alla copertura dei costi di gestione e, a volte, viene praticata una
tariffa diversa tra soci e non soci. Il principale vantaggio di questo tipo di
gestione risiede nelle minori tariffe praticate rispetto ai prezzi stabiliti dal
mercato.
Assetto organizzativo
Le cooperative non hanno dipendenti e tutti gli incarichi sono distribuiti tra agli
amministratori che, in alcuni casi, svolgono il lavoro gratuitamente. La gestione
degli aspetti fiscali, amministrativi e contabili è affidata a soggetti esterni.
Fonte: elaborazione degli autori su dati Mori e Spinicci, 2011a
44
Naturalmente, le cooperative d’utenza non presentano soltanto vantaggi ma denotano
anche alcune criticità che rendono difficoltosa la loro gestione e, sotto certi aspetti, la
loro attuale sostenibilità nel tempo (tab. 3).
Uno dei possibili limiti è costituito dal fatto che la comunità potrebbe
paradossalmente trasformarsi in un vincolo ai percorsi di crescita delle cooperative.
Sotto questo aspetto, l’impossibilità di estendere i bacini di utenza in aree contigue e,
conseguentemente, la difficoltà ad aumentare la scala dimensionale degli interventi
potrebbe condurre alla possibilità che l’unica traiettoria di crescita sia quella
multisettoriale la quale potrebbe non solo determinare un allontanamento dagli
originari valori cooperativi ma richiederebbe sicuramente competenze professionali
specifiche ed aggiuntive, non sempre presenti e disponibili all’interno delle singole
cooperative di gestione del servizio idrico.
Un ulteriore limite è rappresentato dal basso livello di partecipazione alle assemblee e
alla gestione complessiva dell’impresa, anche se tale problema potrebbe essere
ricondotto ad una serie di cause, non necessariamente negative. In alcuni casi, infatti, il
servizio è dato “per scontato”; in altri casi, i soci ripongono totale fiducia nella
cooperativa e negli altri soci che la gestiscono; in altri casi ancora, le politiche di
informazione vengono ritenute particolarmente efficaci, avvalendosi le cooperative
della rete Internet o dell’invio periodico di informative sulle attività svolte (Mori e
Spinicci, 2011a). Ad ogni modo, questa bassa partecipazione alla gestione delle
imprese, associata alla scarsa diffusione e consapevolezza dei valori cooperativi nelle
nuove generazioni, potrebbero condurre ad una situazione di difficoltà negli articolati
processi di ricambio generazionale e generare incertezze relative agli scenari di medio e
di lungo periodo.
Tab. 3 - I punti di forza e le criticità delle cooperative d’utenza nel settore idrico
Punti di forza
Criticità
Forte legame con il territorio e perseguimento di obiettivi a
vantaggio delle comunità servite, come l’attenzione alla qualità del
servizio, con un buon livello di soddisfazione dell’utenza.
Realtà circoscritte a contesti locali che, in caso di estensione del
territorio servito e aumento della complessità della gestione,
devono rivedere la loro struttura organizzativa, facendo
attenzione a mantenere un orientamento ai valori cooperativi.
Diminuzione del rischio di opportunismo delle parti coinvolte e
della speculazione individuale, grazie alla coincidenza tra socio e
utente.
Preferenza di alcuni utenti a non diventare soci (quando ciò è
consentito dallo statuto).
Meccanismo di accantonamento quale importante fonte di
autofinanziamento per la realizzazione degli investimenti.
Bassa partecipazione alle assemblee e alla gestione e scarsa
propensione a subentrare nell’incarico di amministratore, con
conseguenti difficoltà nel ricambio generazionale e rischio che la
maggior parte dei soci sia costituita da persone anziane.
Particolare attenzione agli investimenti necessari, con un elevato
grado di autonomia nello scegliere gli impieghi più opportuni.
Difficoltà nel dotarsi di un insieme di amministratori
adeguatamente competenti rispetto ai vari aspetti della gestione.
Contenimento del livello delle tariffe, con possibili sconti sulla
tariffa per i soci.
Scarsa consapevolezza dei valori cooperativi nelle nuove
generazioni.
Attenzione alla riduzione dei costi, con l’abolizione di spese inutili
e l’impiego di tecnologie avanzate che consentono di ridurre gli
sprechi e di razionalizzare i consumi.
Gravosa subordinazione alla normativa cooperativa e a quella del
settore idrico, con una percezione diffusa dell’esistenza di un
trattamento non omogeneo rispetto agli altri gestori sul territorio.
Fonte: elaborazione degli autori su dati Mori e Spinicci, 2011a
45
In definitiva, sulla base delle considerazioni finora esposte, è possibile ritenere che la
cooperazione d’utenza possa rappresentare una reale alternativa all’approccio
dicotomico ente pubblico-impresa capitalistica. Il suo profilo identitario la rende,
infatti, particolarmente adatta a superare le difficoltà tradizionali che le utilities si
ritrovano continuamente a fronteggiare. Allo stesso tempo, la sua capacità di
coinvolgere i cittadini potrebbe aprire nuovi scenari sociali ed economici che finora
non sono stati adeguatamente esplorati. Per tali motivi, diviene opportuno, a questo
punto, contestualizzare la trattazione alla realtà della Regione Umbria, cercando di
comprendere quali sono le principali caratteristiche della gestione del servizio idrico,
quali sono la maggiori problematiche di questo specifico comparto e in che modo la
cooperazione d’utenza potrebbe intervenire per fornire risposte adeguate.
La gestione del servizio idrico in Umbria e le possibili prospettive per la
cooperazione d’utenza
Il settore idrico in Umbria è stato oggetto di diversi interventi di regolazione da parte
delle autorità regionali che hanno avuto l’obiettivo, spesso in anticipo rispetto alla
legislazione nazionale, di ridefinire l’organizzazione territoriale e gli assetti di gestione
ed erogazione del servizio.
In particolare, possono essere identificati tre distinti momenti in cui si è proceduto ad
una riorganizzazione del servizio idrico. Ognuna di queste fasi viene sinteticamente
descritta nella tabella 4, specificando i diversi provvedimenti legislativi adottati, i
relativi soggetti istituzionali che sono stati costituiti, ossia le aggregazioni formali degli
Enti locali dotate di una loro autonomia giuridica, la diversa estensione ed
articolazione geografica di tali aggregati territoriali e i soggetti ai quali è stata affidata la
gestione operativa del servizio idrico.
La prima fase di regolazione è relativa al recepimento, a livello regionale, della
legislazione nazionale del 1994. Con la Legge Galli è stato avviato, infatti, il processo
di riorganizzazione territoriale e funzionale del servizio idrico. Come specificato
all’inizio del presente lavoro, la finalità di questa norma è stata quella di superare la
frammentarietà delle gestioni e raggiungere adeguate soglie dimensioni e ciò è
avvenuto prevedendo l’aggregazione degli Enti locali all’interno di Ambiti Territoriali
Ottimali (ATO) per lo svolgimento associato delle funzioni e delle attività relative al
servizio idrico. In attuazione di tale legge, la Regione Umbria ha emanato la L.R. 43
del 1997 la quale ha individuato tre Ambiti Territoriali Ottimali per la gestione del
servizio idrico. Tali ATO, dotati di personalità giuridica pubblica, rappresentavano le
autorità di ambito dei Comuni e delle Province ed avevano funzioni di ricognizione
delle opere esistenti, programmazione e organizzazione del Servizio Idrico Integrato
(SII), scelta della forma di gestione del servizio, affidamento della gestione e controllo
del servizio. In materia di gestione del servizio, in base alla L.R. 43/1997, ciascun ATO
doveva affidare il SII ad un unico gestore, il quale doveva provvedere alla
realizzazione di diverse attività: dalla captazione, trattamento, adduzione e
distribuzione dell’acqua per uso civile ed industriale, al collettamento delle acque reflue
domestiche, industriali ed urbane (fognature nere e miste), fino alla gestione degli
impianti di depurazione a servizio delle reti fognarie.
46
Tab. 4 - La regolamentazione del servizio idrico in Umbria
Riferimenti legislativi
Soggetto istituzionale
1° fase
L.R. 5 dicembre 1997, n. 43
(Norme di attuazione della legge
5 gennaio 1994, n.36, recante
disposizioni in materia di risorse
idriche)
D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152
(Norme in materia ambientale)
Ambito Territoriale Ottimale
(ATO) e, successivamente,
costituzione delle Autorità
d’ATO (AATO)
ATO 1: 38 comuni della
Provincia di Perugia
(comprensori dell’Alto Tevere,
Trasimeno, Perugino, Assisiate
e Media Valle del Tevere)
Organizzazione territoriale
Soggetti gestori del servizio
2° fase
3° fase
L.R. 9 luglio 2007, n. 23
(Riforma del Sistema
Amministrativo Regionale e
Locale)
L.R. 17 maggio 2013, n. 11
(Norme di organizzazione
territoriale del servizio idrico
integrato e del servizio di
gestione integrata dei rifiuti)
Ambito Territoriale Integrato
(ATI)
Ambito Territoriale Ottimale
(ATO) e costituzione
dell’Autorità Umbra per
Rifiuti e Idrico (AURI)
ATI 1: 14 comuni (Alta valle
del Tevere)
ATI 2: 24 comuni della
Provincia di Perugia
(comprensori del Perugino,
Assisiate e Media Valle del
Tevere)
ATI 4: 32 comuni della
Provincia di Terni
ATI 3: 22 comuni della
Provincia di Perugia
(comprensori di Foligno,
Spoleto e della Valnerina)
L’intero territorio regionale
costituisce Ambito
Territoriale Ottimale (ATO)
ATO 2: 32 comuni della
Provincia di Terni
ATO 3: 22 comuni della
Provincia di Perugia
(comprensori di Foligno,
Spoleto e della Valnerina)
ATO 1 e, successivamente, ATI 1 e ATI 2: Umbra Acque S.p.A., Società mista (60% Comuni dell’ambito
e 40% Acea S.p.A.)
ATO 2 e, successivamente, ATI 4: Servizio Idrico Integrato Scpa, Società mista (51% Comuni dell’ambito,
18% ASM Terni S.p.A., 6% AMAN S.p.A. e 25% Umbriadue Scarl)
ATO 3 e, successivamente, ATI 3: Valle Umbra Servizi S.p.A., Società pubblica multiutility, partecipata dai
22 Comuni dell’ambito
Fonte: elaborazione degli autori su dati Regione Umbria, Conti Pubblici Territoriali, 2011
Successivamente, il D.Lgs. 152 del 2006 ha sancito la nascita delle Autorità d’ATO in
ciascun ambito territoriale, confermando, di fatto, l’impianto normativo già esistente
in Umbria. In tal modo, gli enti locali trasferivano obbligatoriamente all’Autorità
d’ambito l’esercizio delle competenze loro spettanti in merito alla gestione delle risorse
idriche, tra le quali: l’organizzazione del SII, la redazione di un piano d’ambito per la
programmazione e la realizzazione di infrastrutture idriche (ad es. acquedotti,
fognature e impianti di depurazione), l’affidamento della gestione, il relativo controllo
e la determinazione delle tariffe.
In una seconda fase di regolazione, la Regione Umbria, con la L.R. 23 del 2007
(Riforma del Sistema Amministrativo Regionale e Locale), ha rideterminato gli ambiti
ottimali ed istituito gli ATI (Ambiti Territoriali Integrati). Gli ATI sono forme speciali
di cooperazione tra Enti locali, con personalità giuridica, autonomia regolamentare,
organizzativa e di bilancio ed assolvono a tutte le funzioni previste dal “Codice
ambientale” (D.Lgs. 152/2006), con particolare riferimento a quelle di Autorità
d’ambito. Tali soggetti, infatti, oltre a rappresentare l’aggregazione territoriale, sono
essi stessi Autorità d’ambito e svolgono funzioni relative alla gestione del SII,
all’adozione del piano d’ambito, all’affidamento del servizio e alla scelta del modello
gestionale. Con questo provvedimento, la Regione Umbria ha, pertanto, anticipato la
soppressione degli ATO subentrata nella disciplina statale con la L. 191/2009 (che
stabiliva, tra l’altro, che fossero le Regioni ad attribuire con legge le relative funzioni).
Sulla base di tale assetto organizzativo, la gestione del SII è stata affidata, all’interno di
ogni ATI, a dei gestori unici (Regione Umbria, Conti Pubblici Territoriali, 2011):
47
- gli ATI 1 e 2 hanno mantenuto come gestore Umbra Acque S.p.A. (stesso gestore
dell’ ATO 1) che presenta un capitale sociale partecipato per il 60% da soggetti
pubblici (il comune di Perugia è il titolare della quota di maggioranza del 33,3%) e
per il restante 40% da soggetti privati (ACEA S.p.A.);
- l’ATI 3 ha mantenuto la gestione diretta del servizio idrico, con la società Valle
Umbra Servizi S.p.A., società multiutility interamente pubblica, partecipata
esclusivamente dai comuni dell’ATI;
- l’ATI 4, il cui territorio è sovrapponibile a quello dell’ ATO 2, ha mantenuto come
gestore una società consortile per azioni con prevalente capitale pubblico, la Servizio
Idrico Integrato Scpa, il cui capitale sociale è per il 51% posseduto dai Comuni
dell’ATI, per il 18% dall’ASM Terni S.p.A., per 6% dall’AMAN S.p.A., l’ex Consorzio
Idrico dell’Amerino, e per il 25% da un socio privato, la Umbriadue Scarl.
In sintesi, in termini di gestione, gli ATI 1, 2 e 4 hanno scelto l’affidamento a società
miste a prevalente capitale pubblico e con soci privati scelti a mezzo gara mentre l’ATI 3
ha scelto l’affidamento a una società interamente a capitale pubblico (modalità in house).
La terza ed ultima fase di riorganizzazione del settore idrico in Umbria è avvenuta nel
maggio 2013. Con la L.R. del 17 maggio 2013, n. 11 sono stati aboliti definitivamente i
quattro ATI e l’acqua e i rifiuti sono diventati oggetto di gestione integrata di un
ambito unico11, con l’istituzione dell’Autorità Umbra per Rifiuti e Idrico (AURI).
Anche in questo caso, la nuova Autorità rappresenta una forma speciale di
cooperazione tra i Comuni ed ha personalità giuridica di diritto pubblico, autonomia
amministrativa, regolamentare, organizzativa e contabile. Nell’intenzione del
legislatore regionale, questa scelta dovrebbe condurre ad uno snellimento della
gestione, con la nascita di un unico soggetto a livello regionale che sostituisce quelli
previsti per i rifiuti e per l’acqua. L’obiettivo della legge è, infatti, quello di andare
verso una semplificazione dei processi di erogazione dei servizi, garantendo e
migliorando la qualità, l’economicità, l’efficienza e l’efficacia dei servizi stessi a tutela
dell’utenza, con una riduzione dei costi di funzionamento e con il conseguente
contenimento delle tariffe. Da qui, la costituzione di un’unica struttura regionale, in
grado di sfruttare maggiori economie di scala, rendere efficiente i servizi ed omogenee
le tariffe mentre alla Regione Umbria vengono attribuite funzioni di indirizzo,
programmazione, vigilanza e controllo sull’attività dell’AURI per la tutela degli utenti.
In questo contesto, l’obiettivo del presente lavoro non è, tuttavia, quello di effettuare
una valutazione comparativa del grado di efficienza conseguito da questi processi di
riorganizzazione del servizio idrico regionale. In altri termini, non si vuole stabilire se
le diverse regolamentazioni del settore hanno condotto ad un aumento delle
condizioni di efficienza e di efficacia nell’erogazione del servizio anche perché, a
fronte dei diversi assetti di governance definiti dalle varie riforme, la gestione operativa
viene tuttora attribuita e svolta dalle medesime imprese. La finalità, invece, è quella di
11 In base alla Legge Regionale del 17 maggio 2013, n.11, “l’intero territorio regionale costituisce ambito territoriale
ottimale, ai sensi e per gli effetti degli articoli 147, 196, comma 1, lettera g) e 200 del D.Lgs. 152/2006, nonché
dell’articolo 3-bis del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 38 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e
per lo sviluppo) convertito, con modificazioni, nella Legge 14 settembre 2011, n. 148.
48
rilevare le principali problematiche “strutturali” del servizio idrico, ossia le difficoltà
connaturate ai concreti processi di erogazione, verificando se la cooperazione d’utenza
possa fornire delle risposte adeguate e rappresentare, pertanto, una possibile
alternativa nelle attività di gestione. A tal fine, i principali problemi del servizio idrico
regionale sono riconducibili a quattro distinte tipologie.
Il primo problema è relativo alla necessità di effettuare nuovi investimenti e di reperire
le relative risorse finanziarie. Il territorio umbro richiede, infatti, significativi
investimenti sia per la costruzione di nuove opere, sia per la manutenzione di quelle
esistenti. In particolare, considerando i dati Intesa SanPaolo (2013), l’Umbria
dovrebbe far fronte alle perdite delle condotte (tab. 5) che, pur essendo appena al di
sotto della media del Paese (32,4%), risultano piuttosto elevate (31,7%)12. Più
problematica, invece, è la copertura del servizio fognario, evidenziando esigenze di
intervento alquanto immediate. Come riportato nel rapporto sull’industria dei servizi
idrici di Intesa SanPaolo (2013): “il dato puntuale della copertura del servizio fognario è
l’84,7%. L’unica Regione a superare una copertura del 90% è la Lombardia che raggiunge il 93,9%
seguita dal Piemonte con una copertura dell’89,9% e dall’Abruzzo (89,1%). Ultime, l’Umbria,
dove l’allacciamento alle fogne arriva al 77,1%, la Sardegna e la Liguria dove l’estensione della rete
fognaria arriva a coprire solo il 75% della popolazione”. Per quanto riguarda la qualità delle
acque e dei sistemi di depurazione, occorrono interventi in materia di scarichi,
riutilizzo delle acque reflue depurate e aree di salvaguardia dei punti di captazione delle
acque destinate al consumo umano. In compenso, per le caratteristiche idrogeologiche del territorio umbro, si dispone di un’acqua di buona qualità che richiede
processi di potabilizzazione meno onerosi rispetto alla norma.
A fronte degli investimenti necessari, con particolare riferimento al sistema fognario e
di depurazione, rimane centrale la problematica dei finanziamenti. È noto come,
ormai, gli investimenti dovrebbero essere finanziati prevalentemente mediante tariffa e
solo in minima parte mediante contributi pubblici. Ed è per tale motivo che la capacità
di trovare le risorse necessarie per la realizzazione gli investimenti infrastrutturali
diviene, attualmente, di rilevanza primaria13.
Il secondo problema è riconducibile alla disomogenea dislocazione delle risorse
idriche sul territorio umbro: si hanno vaste aree quasi prive di risorse idriche di buona
qualità e sufficiente quantità da poter sfruttare per l’uso idropotabile (come, ad
esempio, l’area del Perugino-Trasimeno e la Media Valle del Tevere, da Deruta a Todi)
e zone ricche di acqua (come l’area appenninica compresa tra il Monte Cucco e la
Valnerina).
12 La problematica emerge in misura più consistente nell’ambito ottimale che corrisponde gli ATI 1 e 2 (ex ATO
1), in cui viene superata la media nazionale (Regione Umbria - Conti Pubblici Territoriali, 2011).
13 Infatti, come evidenziato da Intesa SanPaolo (2013) “la tariffa da sola non è sufficiente. L’esigenza di ingenti risorse
finanziarie sia per la realizzazione di nuove infrastrutture sia per il rinnovo, l’ammodernamento e l’espansione di quelle esistenti richiede
sempre più spesso attenzione da parte degli operatori pubblici e privati nell’adozione di forme di finanziamento innovative e flessibili come
pure nell’applicazione di strumenti pienamente funzionali alle molteplici esigenze del settore. La stessa Authority ha sottolineato che la
tariffa da sola può non essere uno strumento sufficiente e che - considerando lo sviluppo degli investimenti quale priorità per il settore dovrebbero essere sviluppati e resi operativi strumenti integrativi a quelli tariffari quali ad esempio fondi rotativi e water bond, strumenti
che diventano ancora più rilevanti a fronte della dimensione e della significatività degli investimenti necessari”.
49
Tab. 5 - Acqua immessa ed erogata nelle reti comunali
Regione
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
Nord Ovest
Trentino A.A.
Veneto
Friuli V.G.
Emilia Romagna
Nord Est
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Centro
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Sud
Isole
Italia
Acqua immessa
(in metri cubi per abitante)
132
182
146
148
143
147
127
162
110
126
122
101
102
172
142
162
159
131
119
140
148
124
162
134
133
136
Acqua erogata
(in metri cubi per abitante)
90
122
115
107
107
115
89
96
83
90
88
69
76
111
96
91
89
80
64
94
99
80
87
80
82
92
Acqua erogata/
Acqua immessa (in %)
68,2
67,0
78,8
72,3
74,8
78,2
70,1
59,3
75,5
71,4
72,1
68,3
74,5
64,5
67,6
56,2
56,0
61,1
53,8
67,1
66,9
64,5
53,7
59,7
61,7
67,6
Fonte: Intesa SanPaolo, 2013
A fronte di ciò, la domanda idropotabile presenta una distribuzione inversa, con una
forte concentrazione di popolazione, di attività turistiche e manifatturiere nell’area
centrale della Regione e una bassa richiesta nelle zone appenniniche meno densamente
popolate (Regione Umbria, Conti Pubblici Territoriali, 2011).
Il terzo problema è costituito dal risparmio idrico riferito, oltre che alla riduzione delle
perdite, alla diminuzione dei consumi. Il risparmio idrico rientra tra gli indirizzi di
programmazione della Regione Umbria, per cui, in un’ottica di tutela e di
conservazione delle risorse, vengono elaborate politiche mirate alla gestione ottimale
del patrimonio idropotabile e alla promozione del cosiddetto “consumo
consapevole”14. In qualsiasi caso, appare evidente come sia divenuto indispensabile
stimolare un consumo maggiormente attento alla scarsità delle risorse,
disincentivando, da un lato, comportamenti poco giudiziosi se non addirittura
dannosi, come prelievi abusivi o morosità e sostenendo, dall’altro lato, comportamenti
più attenti e collaborativi attraverso l’educazione degli utenti ad un consumo più
responsabile.
Ad esempio, “relativamente al contenimento del consumo da parte dell’utenza privata, sarà richiesta ai
cittadini l’applicazione di erogatori o acceleratori di flusso ai rubinetti di lavelli e docce, l’installazione di
miscelatori di acqua e di fotocellule o pulsanti per l’apertura e chiusura dei rubinetti, l’installazione di cassette
per il water a doppio scomparto o con tasto di stop, l’impiego di elettrodomestici a basso consumo idrico,
l’eliminazione di perdite interne, l’installazione di impianti a goccia per ridurre i consumi di irrigazione, il
recupero di acqua piovana, ecc.”. Si tratta di azioni a cui il privato è spinto a provvedere con un sistema di
incentivazione tariffaria (Regione Umbria, Conti Pubblici Territoriali, 2011, p. 57).
14
50
Infine, un quarto ed ultimo problema potrebbe derivare dall’introduzione, come è
avvenuto, di un’autorità unica come l’AURI operante su tutto il territorio regionale. Un
soggetto unico potrebbe condurre, infatti, a trascurare le singole realtà territoriali,
senza porre un’attenzione adeguata e continua alle specificità locali.
In sintesi, il settore idrico in Umbria, seppure sotto molti aspetti non presenti una
situazione così preoccupante rispetto alla condizione media del Paese, denota alcune
problematiche che sono quelle tipiche del settore idrico italiano. A questo punto,
diviene opportuno comprendere se la cooperazione d’utenza possa rappresentare una
soluzione valida e praticabile nel contesto regionale umbro e, quindi, in che misura
essa possa apportare miglioramenti alla gestione del settore idrico, almeno con
riferimento alle principali problematiche individuate. Al fine di descrivere le possibili
modalità di risposta che le cooperative sociali potrebbero organizzare ed attuare, è
opportuno considerare non solo il loro profilo teorico ma anche, e soprattutto, i
risultati che emergono dalle diverse esperienze empiriche evidenziate dalla letteratura
(Mori e Spinicci, 2011a), da cui far discendere e desumere alcune considerazioni.
In particolare, in relazione alla prima problematica, ossia alla necessità di effettuare
investimenti e di reperire i relativi finanziamenti, le cooperative di utenza hanno
mostrato, nelle esperienze empiriche, una certa propensione ad operare in modo
selettivo ed accurato, effettuando scelte in grado di aumentare la qualità effettiva del
servizio, come l’impiego di tecnologia avanzata per la riduzione dell’entità delle perdite
e degli sprechi. Ciò che guida le decisioni dei gestori/utenti è, infatti, l’interesse
condiviso ad aumentare la qualità del servizio e il livello di benessere creato per la
comunità, evitando la dispersione delle risorse e la speculazione individuale. Inoltre, in
virtù della coincidenza tra socio ed utente, a guidare i processi decisionali non è
l’orientamento al profitto. In questo modo, il rischio di opportunismo tende a ridursi e
la gestione avviene secondo criteri di democraticità. Invece, a livello di finanziamenti,
le cooperativa beneficiano di un importante meccanismo di auto-finanziamento
costituito dal vincolo di reivestimento degli utili che potrebbe andare a beneficio della
realizzazione degli investimenti richiesti dal settore. I casi empirici mostrano, inoltre,
come il meccanismo di copertura tramite tariffa e quello di autofinanziamento
mediante gli accantonamenti, tipico della cooperazione, riescano a funzionare,
garantendo un finanziamento minimo che, per interventi straordinari, viene potenziato
tramite il ricorso a mutui o a finanziamenti ulteriori da parte dei soci. Infine, anche in
relazione all’introduzione di nuovi strumenti finanziari, come i water bond, la possibilità
di usufruire della partecipazione e del coinvolgimento di intere comunità territoriali e
la specificità di avere una governance non finalizzata al conseguimento di profitti
potrebbero rappresentare fattori in grado di incentivare la raccolta diffusa, sottoforma
di collocamento e di sottoscrizione di titoli di credito, di nuove risorse finanziarie.
Con riferimento alla seconda problematica, ovvero alla dislocazione disomogenea
delle risorse idriche sul territorio a fronte di una distribuzione inversa della domanda
idropotabile, una soluzione possibile è identificabile nel principio della “cooperazione
tra cooperative”, secondo il quale le cooperative operanti in territori limitrofi
potrebbero organizzarsi per far fronte, solidalmente, al problema specifico attraverso
azioni combinate, frutto dell’interazione e dello spirito di collaborazione. Anche nel
51
territorio del Trentino-Alto Adige, in cui sono localizzate diverse esperienze di
cooperazione di utenza nel settore idrico, l’acqua è presente in abbondanza ma non in
modo uniforme. La carenza di acqua ha rappresentato un incentivo ad intervenire per
rendere più efficiente il servizio, riducendo le perdite sistematiche, grazie
all’introduzione di una tecnologia avanzata per il monitoraggio dell’andamento dei
flussi e l’intervento immediato in caso di rotture. Ciò insegna che l’approccio
cooperativo contribuisce ad affrontare i problemi in modo mirato, sostenendo,
quando occorre, investimenti onerosi ma in grado di migliorare effettivamente
l’efficienza e l’efficacia del servizio. La condivisione dei valori della cooperazione tra
gli utenti può contribuire ad aumentare il consenso rispetto a scelte meno felici ma
necessarie, come l’aumento delle tariffa per sostenere interventi straordinari, anche alla
luce del fatto che sconti tariffari e successivi ristorni a favore degli utenti potrebbero,
almeno in parte, compensare gli incrementi tariffari.
Rispetto alla terza problematica, riferita all’esigenza di ridurre gli sprechi e di stimolare
un consumo responsabile, l’approccio cooperativo pone, per definizione, al centro le
persone, i bisogni condivisi e le relazioni. Il fine mutualistico dovrebbe alimentare la
fiducia reciproca, l’equità e la spinta alla partecipazione, garantendo una maggiore
responsabilizzazione del socio/utente che è in tal modo incoraggiato ad adottare
comportamenti attenti, collaborativi e reciprocamente edificanti. Inoltre, in base al
quinto principio della cooperazione, la cooperativa stessa si dovrebbe impegnare
all’educazione, alla formazione e all’informazione dei soci e del personale. Nelle
esperienze empiriche, la maggior parte degli utenti è anche socia della cooperativa.
Questa identificazione socio/utente sta alla base di un processo di
responsabilizzazione dell’utenza che, se opportunamente stimolato e alimentato,
potrebbe portare ad una riduzione degli sprechi e allo sviluppo di un consumo più
consapevole e responsabile. Anche se non vi è, spesso, un’ampia partecipazione dei
soci alle assemblee e alla gestione dell’organizzazione, appare evidente che, a
differenza dell’impresa capitalistica, la cooperativa di utenza rappresenti un contesto
privilegiato per la realizzazione di un contatto e di una condivisione di valori.
Affinché, però, questa vicinanza con il socio/utente possa portare a risultati concreti,
in termini di comportamenti attivi e collaborativi, è necessario che si faccia leva
sull’informazione e sull’educazione ai valori della cooperazione. Un’utenza educata alla
reciprocità, al rispetto e alla collaborazione per il bene comune, se non arriva a
partecipare all’assemblea o alla gestione complessiva dell’impresa, è comunque
motivata ad eliminare atteggiamenti dannosi e ad adottare comportamenti più attenti e
responsabili.
Infine, considerando la quarta problematica, relativa alla necessità di porre
un’attenzione adeguata e continua alle specificità locali, con il settimo principio della
cooperazione, relativo a “l’impegno verso la comunità”, il legame con il territorio e
l’attenzione rivolta alle sue esigenze e a quelle dei suoi abitanti è sancito come
presupposto cardine della cooperazione ed è, quindi, caratteristico di questa forma di
gestione. Le cooperative d’utenza del settore idrico operano, infatti, in aree
tendenzialmente ridotte e il legame con i territori serviti e i loro utenti costituisce uno
dei punti fermi che guidano le scelte della gestione. Dunque, l’assetto cooperativo può
52
costituire una soluzione adeguata alla problematica in questione, in virtù
dell’attenzione particolare rivolta alle esigenze e ai problemi del territorio e della
popolazione. L’esigenza di focalizzare l’attenzione sulle specificità locali potrebbe
diventare impellente in Umbria, a seguito della costituzione dell’AURI, autorità unica
per tutto il territorio regionale. Il rischio che un unico soggetto non riesca ad
interessarsi adeguatamente alle particolarità delle singole realtà territoriali potrebbe
essere compensato da un approccio cooperativo, attento alle esigenze del territorio e
di chi lo abita. Pertanto, sotto questo aspetto, il processo di riorganizzazione del
settore idrico, avviato con la costituzione dell’AURI, potrebbe anche essere l’occasione
per rivisitare i modelli di governance adottati.
Considerazioni conclusive
Le opportunità evidenziate dalla teoria economica e dalle esperienze empiriche
presenti nella letteratura mettono in evidenza la capacità della cooperazione di utenza
di apportare significativi miglioramenti alla gestione del servizio idrico e mostrano
come essa possa offrire soluzioni adeguate alle problematiche che caratterizzano
questo settore nella Regione Umbria. Ovviamente, le esperienze imprenditoriali
mettono in luce anche le principali criticità che l’implementazione concreta del
modello di governance di tipo cooperativo può presentare ma si è visto come questi
problemi possano essere adeguatamente affrontati, se non addirittura risolti,
sostenendo, innanzitutto, la promozione di una maggiore consapevolezza tra le
comunità dei valori della cooperazione.
Partendo da queste considerazioni, le riflessioni conclusive possono essere ricondotte
a due distinti piani concettuali.
Da un lato, appare opportuno e necessario ribadire che la cooperazione d’utenza è, e
rimane, solo una delle possibili forme attraverso la quale poter organizzare la gestione
del servizio idrico. In altri termini, l’obiettivo del presente lavoro non era, e non
poteva essere, quello di considerare la cooperativa d’utenza quale modello istituzionale
d’impresa superiore o da privilegiare rispetto a qualsiasi altro. Essa è soltanto una delle
possibili forme e, come tale, ha i propri vantaggi e le proprie criticità. L’aspetto che,
invece, deve essere sottolineato è relativo al fatto che, a fronte di una simile
considerazione, la gestione del servizio idrico continui ad essere sostanzialmente
affidata e realizzata da imprese pubbliche oppure da imprese capitalistiche che
possono essere a loro volta partecipate o meno da soggetti pubblici, in prevalenza enti
locali. Sotto questo aspetto, quali sono allora i motivi che inducono ad escludere le
imprese cooperative? Per quale ragione esse, pur dimostrando di poter coinvolgere
intere comunità territoriali, in un’ottica di proprietà diffusa, di poter attivare logiche e
strumenti finanziari nuovi e differenti e di poter conseguire risultati adeguati nel
momento in cui sono chiamate a gestire il servizio idrico, continuino di fatto a
rappresentare un modello marginale nel panorama nazionale, spesso relegate a
specifici contesti geografici? Perché di fronte alle rigidità, alle inefficienze e alle
problematiche evidenziate dalla gestione pubblica e da quella privata for profit non è
possibile avere almeno la possibilità di percorre una terza via? In altri termini, perché
non provarci? La sensazione è che la barriera a sperimentare questo modello
53
istituzionale d’impresa sia soprattutto di natura culturale. La scelta della cooperazione
non è così immediata come quella dell’ente pubblico che agisce con i suoi automatismi
e i suoi organi istituzionali o come quella dell’impresa capitalistica che può derivare dal
movente anche di una o poche persone. La nascita e lo sviluppo di una cooperativa
sono il risultato di una condivisione di valori sedimentati e diffusi nell’ambito di una
comunità; sono la manifestazione concreta della volontà e dell’impegno di gruppi di
persone che decidono di mettersi insieme per provare ad affrontare e, se possibile, a
risolvere i problemi propri e delle altre persone che appartengono alla loro comunità;
sono, pertanto, l’espressione della capacità e della volontà di aprirsi e di collaborare, al
fine di conseguire risultati che difficilmente potrebbero essere ottenuti in modo
individuale o indiretto.
Se la cooperazione in generale e quella d’utenza nel settore idrico in particolare
assumono questi connotati, diviene quindi opportuno comprendere, dall’altro lato,
quali possono essere le possibilità che essa ha di svilupparsi in un contesto sociale ed
economico come quello della Regione Umbria. Anche in questo caso, la sensazione è
che esistano, anche sulla base di studi già condotti (Ferrucci, 2009; Bernardoni, Fazzi e
Picciotti, 2011), le possibilità affinché intere comunità territoriali si organizzino per
operare in nuovi ambiti economici e sperimentare forme e modalità innovative di
intervento.
Riferimenti bibliografici
Alizzi A., Testa F.
2012
La liberalizzazione dei Servizi Pubblici Locali e la necessità di nuove competenze per un diverso
ruolo del “pubblico””, in «Management delle utilities», 3, pp. 26-37.
Arnaudo L.
2012
Riforma, regolazione, retorica: il caso dei servizi idrici in Italia, in «L’Industria», 3, pp.
461-473.
Bernardoni A., Fazzi L., Picciotti A.
2011
Welfare, innovazione e sviluppo locale. La cooperazione sociale in Umbria, Il Mulino, Bologna.
Bonetti T.
2012
I servizi pubblici locali di rilevanza economica: lo stato dell’arte in prospettiva giuridica, in
«Economia dei servizi», 2, pp. 237-247.
Bottasso A., Conti M.
2011
La governance del settore idrico italiano e le recenti riforme dei servizi pubblici locali: tanto rumore
per nulla?, in «Economia dei servizi», 2, pp.161-180.
Demsetz H.
1968
Why regulate utilities?, in «Journal of law and economics», 11, 1, pp. 55-65.
Ferrucci L.
2009
Il ruolo e le caratteristiche delle imprese cooperative in Umbria, Il Mulino, Bologna.
2002
Strategie competitive e processi di crescita dell’impresa, Frano Angeli, Milano.
54
Fiorentini G., Calò F.
2013
Impresa sociale e innovazione sociale. Imprenditorialità nel terzo settore e nell’economia sociale: il
modello IS&IS”, Franco Angeli, Milano.
Fraquelli G., Vannoni D.
2012
Pubblico e privato nei Servizi pubblici locali tra concorrenza e aspetti di governance, in
«Management delle utilities», 2, pp. 10-21.
Garzarella A.
2011
Cosa fare per favorire il rilancio del settore idrico?, in «Management delle utilities», 1, pp.84-86.
Grandinetti R., Massarutto A.
2003
Servizi pubblici e politiche territoriali, Franco Angeli, Milano.
Iaione C.
2012
Città dei beni comuni, in Arena G., Iaione C. (a cura di), L’Italia dei beni comuni, Carocci,
Roma, pp.141-150.
Intesa Sanpaolo, Servizio Studi e Ricerche - SRM
2013
L’industria dei servizi idrici, Febbraio.
Marangoni A.
2011
I benefici di una efficace gestione dell’acqua per l’Italia, in «Economia dei servizi», 2, pp. 209-229.
Massarutto A., Linares E.
2006
La difficile apertura al mercato del settore dei servizi idrici: il caso dell’acquedotto pugliese, in
«Economia e politica industriale», 2, pp.171-189.
Mori P.A., Spinicci F.
2011a La cooperazione di utenza in Italia: casi di studio, Euricse, Research Report n. 4.
2011b La cooperazione di utenza nei servizi pubblici: un’indagine comparativa, Euricse, Research
Report n. 2.
Nardi P.
2011
Tertium datur nel servizio idrico integrato? Verso un nuovo paradigma di business delle utilities di s
ettore, in «Economia dei servizi», 2, pp. 253-267.
Peirone D., Servato F.
2012
Il servizio idrico integrato. Innovazione, project financing e governance: la prospettiva dei large
technical systems, in «Management delle utilities», 1, pp. 10-20.
Regione Umbria - Conti Pubblici Territoriali
2011
L’Italia secondo i Conti Pubblici Territoriali (CPT).
Senn L., Percoco M.
2003
Liberalizzazione dei servizi idrici e sviluppo locale: alcune riflessioni, in «Management delle
utilities», 3.
Vaccà S.
2002
Problemi e prospettive dei servizi locali di pubblica utilità in Italia, Franco Angeli, Milano.
Williamson O.E.
1976
Franchise bidding for natural monopolies: in general and with respect to CATV, in «Bell journal
of economics, 7, 1, pp.73-104».
55