STUDIARE MATEMATICA: un dialogo con i professori Aletti e Penati

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STUDIARE MATEMATICA: un dialogo con i professori Aletti e Penati
STUDIARE MATEMATICA: un dialogo con i professori
Aletti e Penati
Il testo che segue rappresenta la trascrizione dell'incontro che gli studenti (della
triennale?) hanno avuto lo scorso xx/xx/20xx col Prof. Giacomo Aletti ed il Dott. Tiziano
Penati in aula Chisini sul tema “studiare matematica”. Abbiamo cercato di mantenere il
testo il piu' fedele possibile al tono informale della chiacchierata, per preservarne,
nonostante la lunghezza, lo spirito colloquiale.
**: Buongiorno a tutti, benvenuti all’incontro dal titolo “Studiare Matematica:
un dialogo con i professori Aletti e Penati”. Ringraziamo innanzitutto il
Dipartimento di Matematica per averci concesso la possibilità di realizzare
questo incontro; in secondo luogo vogliamo ringraziare moltissimo i due
docenti per la disponibilità che ci hanno accordato. Giacomo Aletti è professore
associato presso questo dipartimento ed è titolare di alcuni corsi nell’ambito
della Probabilità e Statistica Matematica. Tiziano Penati è un ricercatore presso
questo stesso dipartimento e si occupa di Fisica Matematica.
**: Prima di entrare nel vivo dell’incontro, volevamo sottolineare la motivazione
per cui l’abbiamo realizzato: lo studio, per me come per gli alti ragazzi che
l’hanno organizzato, è una realtà con cui abbiamo a che fare quotidianamente
per quasi tutto l’anno e quindi è una realtà su cui abbiamo molte domande e
molte questioni, soprattutto in relazione alla sua utilità per la nostra vita e alla
fatica che spesso facciamo. Abbiamo quindi pensato di confrontarci con due
professori, in quanto la loro esperienza, per la strada e il lavoro che hanno
scelto, è molto più grande della nostra, in modo tale da poter iniziare questo
nuovo anno nel migliore dei modi. Quindi inizierei subito con la prima
domanda. La prima domanda che volevamo fare è riguardo alla passione: cosa
vi appassiona di più della matematica? Vogliamo essere aiutati anche noi a
giudicare e rintracciare meglio questa esperienza nel nostro studio.
Penati: Ho due ore per rispondere alla domanda? Scherzo, ho pensato di rispondere con
un aneddoto: una cosa molto bella e interessante che mi è capitata quest’estate a cavallo
di Ferragosto. Ero in vacanza con la mia famiglia nelle valli bergamasche e come spesso
accade in quel di Ferragosto ci sono le sagre di paese, arriva la gente, espone… E tra gli
espositori c’era un signore vestito in maniera un po’ alternativa, cinquantenne più o
meno, con due occhi vispissimi, che esponeva dei giochi in legno e in metallo, realizzati
da lui stesso. Uno di questi giochi ha attratto la mia attenzione . C’erano i giochi classici
ad incastro, i nodi, la torre di Hanoi ed altro che non ricordo; e poi c’era questo gioco che
in seguito mi ha detto chiamarsi il “gioco delle rane”. Praticamente lui metteva quattro
palline di un colore da una parte, quattro dall’altra, separate da uno spazio libero, e
diceva ai presenti: “Potete fare solo due tipi di operazioni, uno spostamento ed un salto,
però le palline di un colore possono effettuare queste operazioni solo in un verso, quelle
dell’altro colore solo nel verso opposto e dovete giungere alla configurazione
simmetrica”: gioco bellissimo! Tra l’altro aveva messo un telone per terra con tutti i
mattoncini in legno per fare le costruzioni. Io ero con mia figlia: lei era lì che faceva le
costruzioni e io prendevo i bastoncini di legno e riproducevo il gioco, perché volevo
provare a risolverlo senza farmi vedere. Però provavo: uno, due, tre… bloccato! Da capo…
Dopo un quarto d’ora mi ero convinto che c’era un errore. Pazzesco! Mi è successo anche
alla maturità: pensavo che il testo dato dal Ministero fosse sbagliato. Dopo venti minuti
mia figlia si era stufata di fare le costruzioni, e io l’ho tenuta lì solo perché volevo
cimentarmi con questo gioco. Vado a casa dai miei suoceri, mangio, non ce la facevo:
questa cosa continuava a ronzarmi nella testa, un tarlo! Ho pensato: “Io non ho capito
qualcosa di questo gioco, perché non è possibile che faccio tre mosse e mi inchiodo:
dov’è che sto sbagliando? Lui non mi ha dato un’operazione che in verità si può fare:
colpa sua”. Fatto sta che alle tre del pomeriggio, mentre mia figlia dorme, mi siedo, carta,
penna e dico: “Introduciamo l’operatore di traslazione…”. Voi scherzate, ma è andata
veramente così! “Introduciamo l’operatore J come jump, per il salto…”. Dopo un quarto
d’ora l’avevo risolto! Ma non solo avevo trovato la soluzione; avevo dimostrato che era
unica: ne esistevano soltanto due simmetriche, una poteva essere mappata nell’altra. E
avevo dimostrato che la stessa soluzione aveva una simmetria interna, per cui per
arrivare alla soluzione bastava fare certe operazioni in un verso e poi ripercorrerle a
ritroso. Diciamo: la soluzione stessa aveva una simmetria e le due soluzioni erano una lo
specchio dell’altra. Grande gioia, godimento incredibile! Poi erano le tre e mezza e mi
sono messo a fare altro. Ma la cosa pazzesca è che dopo tre ore e mezza di tarlo, questa
cosa non mi bastava: io volevo andare dal tipo e fargli vedere che… che ero stato grande!
Allora convinco mia figlia alle sei del pomeriggio, la porto via dal parco e la porto lì. Mi
metto in coda, aspetto il momento in cui non c’è nessuno, e in un momento in cui siamo
solo io e il tipo, mi metto lì e mostro la mia soluzione, faccio il mio show. Mentre lo facevo,
sbirciavo sul mio foglio: già non me la ricordavo più la soluzione. Il tipo mi guarda e mi
chiede: “Ma sei un informatico?” “No! Provo a fare il matematico” “Bello, e che bella
soluzione! Mi regali il foglio?” “Sì sì, tieni”. Allora lui mi spiega un po’ l’origine del gioco e
poi mi dice: “Tieni, ce n’è un altro per te!”. E mi fa vedere un gioco completamente
diverso: era un quadrato, un gioco geometrico, c’erano dei tasselli e bisognava riuscire a
far entrare quattro tasselli dentro il quadrato. Dopo un quarto d’ora mia figlia si è messa
a piangere e io ero in preda alla frustrazione. Il tipo, giusto per infierire: “Stamattina un
bambino di cinque anni e mezzo in pochi minuti lo ha fatto”. E sono tornato a casa così:
con una soddisfazione e con una frustrazione, che sono un po’ le costanti, da un certo
punto di vista, del fare matematica.
Perché ho scelto questo esempio? Perché secondo me racchiude tutta una serie di
elementi che mi fanno capire quanto mi piaccia - più che mi appassioni - la matematica:
essenzialmente è il fatto che la matematica si pone naturalmente attraverso dei
problemi. Non è solo la matematica, tutte le scienze si pongono attraverso dei problemi:
per qualcuno questi problemi possono entusiasmare, possono interessare, possono
attrarre, anche appassionare, anche se io andrei cauto con il termine passione: la
passione è qualcosa che emerge in certi momenti, ma non è qualcosa di costante nel
tempo. La matematica si pone attraverso dei problemi che entusiasmano, che
attraggono, in qualche modo rapiscono, a tal punto che non si può fare a meno che
pensarci. Il fatto è che questi problemi talvolta sono interni alla matematica stessa, altre
volte invece sono esterni alla matematica, e allora la matematica svolge il ruolo di
linguaggio con cui il problema viene tradotto: tu usi la matematica come un linguaggio,
traduci il problema da un linguaggio a quello della matematica. Ed è quello che
sostanzialmente ho fatto io in quel caso: io ho tradotto il problema. La cosa incredibile è
che questo linguaggio non mi ha solo permesso di trovare una risposta, una soluzione –
sono andato a tentativi e ho trovato una soluzione, bravo! Mi ha permesso di scavare a
fondo nella struttura del problema, e questa è una cosa che sono riuscito a fare solo
traducendo il gioco nel linguaggio matematico. Questa è una cosa che mi entusiasma, mi
piace veramente tanto, perché fa capire quale potenza può avere il linguaggio della
matematica: non si limita a descrivere un oggetto, un fenomeno, un’entità da un
linguaggio ad un altro, ma va oltre, vi dà la possibilità di scavare a fondo nella struttura di
quello che state descrivendo.
Quindi: il fatto dei problemi, l’aspetto del linguaggio della matematica e poi il valore
estetico. Magari qualcuno potrà non essere d’accordo, però io nel momento in cui
guardavo la mia soluzione… C’è una bella differenza tra aver indovinato la soluzione per
tentativi e averla tirata fuori! È stato un episodio isolato, però in quell’episodio isolato io
ero lì che guardavo la mia soluzione e dicevo: “Che bella!”. Io credo che tutti quanti qui
dentro, per necessità o per diletto, abbiate provato a incontrare momenti in cui la
matematica è bella: una dimostrazione elegante, una teoria particolarmente compiuta.
Molte volte il modo per giungere alla soluzione non è unico, ci sono più strade; alcune
sono eleganti, altre meno… hai trovato la soluzione ma hai fatto tre pagine di conti:
magari c’è una strada più veloce. La matematica ha anche questo valore estetico, che
secondo me non è assolutamente da trascurare.
Aletti: Condivido totalmente i grossi filoni che ha detto Tiziano sulla passione della
matematica, sono quelli che appassionano di più anche me. Da parte mia, da quando ero
piccolo ho questa convivenza con il linguaggio e la forma mentis matematica. La prima
cosa che mi ricordo riguardo alla matematica è quando mi hanno regalato la pistola che
spara con i bussolotti che fanno un po’ di rumore (la pistola per bambini con i caricatori
che sono file di pallini otto per nove). Allora volevo sapere quanti ce ne erano: uno, due,
tre, quattro, cinque, sei, sette, otto (sapevo contare)… nove, dieci, undici… mi alzo e
chiedo: “Mamma, quanto fa nove volte otto?”. Lì non c’è stata la prof che me l’ha detto,
però nella mia testa è scattato che c'era un modo di formulare quel problema che era più
pertinente a come il problema si poneva. Questo è il primo esempio che vi faccio. Poi gli
anni dopo mi è capitato di andare dal salumiere (quando ero piccolo io si andava molto di
più nei negozietti piccoli). C’erano tutte le signore al bancone, e poi c’eravamo io e mio
fratello che non arrivavamo al bancone - avevo sei anni - : compriamo due etti di spalla,
alla fine ci dà il conto. Usciamo e dico a mio fratello: "Guarda che ci ha rubato mille lire!"
“Ma no, lascia stare…” “Ma no, guarda che non torna!”. Son tornato dentro e dovete
immaginare le signore che fanno la coda al bancone e il bambino che non arriva neanche
al bancone che mostra il risultato al salumiere che fa la figura di quello che ruba ai
bambini… E poi lui che incrocia mia madre e le chiede scusa!
Queste sono le prime cose da piccolo, poi ricordo bene alle superiori quando la mia
insegnante ha smesso di interrogarmi in seconda dopo che ha detto: "Questo è il concetto
di derivata, ma lo vedremo in quinta", quando io avevo proposto un modo di risolvere un
problema. Questo per dire che non è che io penso di avere un modo giusto di risolvere i
problemi: penso di avere, che mi sia dato un certo feeling con un modo particolare di
affrontare i problemi. Mi spiego: se abbiamo una sfera e un braccio meccanico con due o
tre snodi e volete raggiungere tutti i punti della sfera, magari per fare un lavoro
automatico di precisione, se ponete questo problema a un ingegnere arriva con una
approssimazione dell’1-2% alla soluzione nel giro di venti minuti. Voi siete ancora lì a
cercare di capire come è fatto il problema e loro una soluzione ce l’hanno, funzionale, una
risposta al problema. Ovviamente il matematico dice: la sfera è S² mentre il braccio
snodato è un S¹ che gira intorno ad un altro S¹, per cui abbiamo un toro; poi c’è un’altra
circonferenza che gira attorno al toro. C'è una mappa continua che manda il toro nella
sfera? No, perché c'è un teorema che dice proprio che non riuscite a coprire tutta la sfera
con una mappa continua da S¹×S¹×S¹ a S². Allora il matematico dice: non c'è una
soluzione esatta; l'ingegnere ne trova una, che serve. I due problemi sono due problemi
distinti, che hanno tutti e due la stessa valenza: sono due soluzioni del problema, visto in
due modi diversi. Lo stesso problema detto a due persone differenti significa due cose
differenti. È bella questa capacità che ha la testa, la ragione, l'uomo di poter affrontare un
problema in maniera diversa, perché risponde a domande diverse. Per esempio io non
avrei mai fatto l'ingegnere, perché il contributo che io capisco che posso dare a questo
mondo fin da quando ero piccolo è più sull'aspetto speculativo che sull'aspetto
realizzativo.
La passione nasce, più che per una volontà mia, - anche se ci vuole il tempo da dedicarci
e l'energia da metterci - per una cosa che uno riceve. Uno è fatto in modo tale che per
certi tipi di problemi, per certi modi di porre il problema si trova più corrispondente; sono
più per lui. È più una scoperta la passione che uno ha per la matematica, una scoperta
che uno fa nonostante sé, io direi, che non una conquista. Il significato di “passione” in
realtà è molto interessante perché nel termine c’è dentro “patire”: guardate che ciò che
più ci fa appassionare ad una cosa è ciò che più ci mette in rapporto con quella cosa, cioè
ciò che più rende drammatico il rapporto, per cui se vogliamo è ciò che fa più patire. Però
se non siete abituati a riflettere su di voi sono considerazioni difficili. Comunque se
dovessi rispondere alla domanda: “Perché sono appassionato alla matematica?” direi
prima di tutto perché riconosco che sono fatto così e che questo è il modo con cui io
contribuisco di più al mondo, con cui come lavoro in questo momento, in questa fase
sono più costruttivo, fecondo. Perché l'adulto si differenzia dal bambino perché è fecondo:
non gioca con la matematica, ma contribuisce al mondo. Il lavoro è il contributo che un
uomo dà al mondo con quello che gli è dato e secondo l’ideale che lui pensa sia quello del
mondo.
**: La seconda domanda è riguardo a come lo studio della matematica vedete
sia utile per la vostra vita; perché noi che siamo un po’ più grandi abbiamo
visto che guardare lo studio solamente come un gioco logico o come
l'opportunità per trovare un lavoro sicuro non ci basta, ci stufa.
Aletti: Proprio perché mi riusciva bene la matematica, alle superiori avevo fatto anche le
Olimpiadi della matematica ed erano andate bene (ero stato selezionato per andare alle
nazionali, poi non c'ero andato per problemi personali). Ma quando anche uno vede che
gli viene, gli piace, riconosce che è un dono che gli è dato, tutto quello che volete… Ho
iniziato l'università e poi a un certo punto dovevo dare il piano di studi; tenete presente
che io ho fatto matematica quando durava quattro anni, per cui erano quindici esami in
quattro anni. Immaginatevi cosa era un esame! Forse per quello il mio esame di CP non
riesce ad essere più piccolo di quello che è... Gli esami erano annuali e alla fine dell’anno
si dava un solo esame su tutto il corso (erano solo quattro corsi il primo anno: Analisi,
Geometria, Algebra e Fisica). Analisi 1 erano 330 teoremi con dimostrazioni; ma uno
sapeva che poteva fare matematica dopo aver passato Analisi 2, cioè tu passavi Analisi 2
e sapevi che prima o poi ti saresti laureato (magari in otto anni!).
Detto questo, arrivo all'anno in cui devo presentare il piano di studi: decido di prendere
una certa strada importante, di scegliere gli esami che mi appassionano… C'erano le
Istituzioni (di Algebra, Analisi, Geometria - ad esempio Istituzioni di Analisi aveva dentro
tutta Analisi complessa e Analisi reale) che erano al terzo anno e uno doveva sceglierne
per forza due intere. Quindi decido di fare un piano di studi molto serio rispetto agli esami
che mi piacciono: non rispettano formalmente le richieste del CCD. Non mi approvano il
piano di studi, allora ho deciso di fare anch’io il piano di studi turistico, cioè scegliendo gli
esami per fare meno fatica; ho messo dentro due o tre esami di quelli che mi piacevano e
il resto turistico, come dire: finisco veloce, basta, chiudo con la matematica, non mi
interessa più.
Poi è capitato che nel mio piano di studi turistico c'era quello che adesso deve essere
PED, l’ultimo anno che era tenuto da Succi, quello a cui è dedicato il laboratorio (ho avuto
questa fortuna). Succi è uno di quelli che si è fatto un ciclotrone con le scatole di
pomodori, cioè riusciva a costruire una macchina fisica (un acceleratore mi pare) con le
cose che si trovano al supermercato. Vado lì e la prima lezione è su “costruzione e
controllo del principio di equilibrio delle forze”: due carrucoline, un goniometro messo nel
centro, tre pesi e bisogna controllare che tornino le relazioni tra i pesi che avete messo e
gli angoli. Monto tutto in dieci minuti di meccano e mi dico: “Veramente sto facendo il
turistico”… Comincio a misurare e arriva Succi che mi dice: "Cosa bisogna fare adesso?".
E io ho lì in mano il cacciavite… Avete presente Fantozzi quando comincia: stringo un po’
questa vite, stringo quest’altra? Ci sono quattro viti, che cosa vuoi fare con il cacciavite?
Lui prende in mano il cacciavite e tira delle legnate alle stanghe che tengono su le
carrucole, in modo tale che saltino un pochino le carrucole e si riduca l'attrito, così che la
configurazione di equilibrio misurata sia quella giusta e non quella dovuta all'attrito delle
carrucole; ovviamente non ci sarei mai arrivato, perché non avevo quel tipo di testa.
Io vi assicuro che se poi ho deciso di rimanere in università è stato per quelle legnate che
ha dato Succi. Perché lì ho capito che io mi potevo divertire tanto con il mio modo di
conoscere le cose, ma innanzitutto ciò che c'era da scoprire era più grande di quello che
avevo in testa, tanto che sull'esercizio che io consideravo più stupido c'era qualcosa di
molto più intelligente, profondo, importante, anche molto più bello. Perché in quel
problema il cuore è l’attrito che possono fare quelle due carrucole: se tu non l'hai capito
sì, va bene, fai il tuo esercizietto, però non stai guardando il problema dal punto di vista
fisico, cioè rappresentato. E poi ho capito che c'è qualcosa di più grande anche di tutta la
logica e di tutta la bellezza del linguaggio che uso, matematico; cioè c’è un principio di
verità che sta sopra ed è più grande e dà origine a tutta la bellezza e la coerenza delle
scoperte del linguaggio matematico.
Per cui, tornando alla domanda, l’utilità: a quel punto ho rifatto il piano di studi
nuovamente, poi ho conosciuto anche Capasso, che è il professore con cui poi ho fatto la
tesi di dottorato e per cui ho cominciato a fare Probabilità e Statistica Matematica, però
quello che mi interessa dire è che ho scoperto che la bellezza, la passione rispetto alla
matematica non nasce chiusa nel metodo matematico, ma nasce rispetto a qualche cosa
di più grande che dà la bellezza alla matematica, tanto che se non c’è quel qualcosa più
grande, che poteva essere in quel caso un elemento esterno, un elemento di verità, un
elemento di direzione di studio, a un certo punto tutto (e io ero stramotivato a fare
matematica) diventa veramente piatto, uno proprio si stufa e dice: va bene, basta, faccio
il turistico e me ne vado. Perché l’utilità non è nella matematica; l’utilità è nel fatto che la
tua vita diventa utile perché è per qualcosa di più che la matematica.
L’altro esempio che avrei potuto fare, e che mi ha molto impressionato, del fatto che c’è
qualche cosa che dà valore ed è più grande della matematica stessa, è quando sono
stato a Stanford, tempio della matematica che studio io, dove ci sono i migliori al mondo,
bravi di bestia. Sono andato lì, e dopo un po’ mi sento dire, e questo mi ha molto colpito:
“Ma tu ti appassioni ancora, ti diverti ancora; qua ci si analizza, ci si fa analizzare i sogni
per essere più competitivi!”. Voi dovete pensare questi mostri (nel senso di bravissimi in
matematica) che vanno dallo psichiatra, gli dicono quello che hanno sognato in modo tale
che lo pschiatra analizzandoli li renda ancora più capaci di essere competitivi e più forti
nel fare matematica rispetto ai colleghi. Allora, quando la matematica è tutto, quando
l’utilità e la passione della matematica si rinchiudono nella matematica stessa, visto che
l’utilità e la bellezza della matematica non nascono in sè il rischio è che questa cosa
diventi mostruosa. Anche uno che fa matematica pura - tutta la logica dell’inizio del
Novecento lo dimostra - è di fronte a qualcosa di più grande della sua capacità logica e
della forma logica stessa. Cioè, quello che volevo cercare di dirvi è che l’utilità della
matematica non può essere all’interno della matematica stessa. È come cercare di
spiegarsi che per analogia il mistero della bellezza di una persona sta all’interno della
persona stessa: Leopardi dice che a un certo punto quando scopri che questo non è ti
incavoli con quella persona a torto, perché lei poveretta non c’entra niente, e questo è
Aspasia, ma va be’…
Penati: Un altro Giacomo…
Aletti: Un altro Giacomo! Quello è veramente un Giacomo di altissimo livello…
Penati: Tu hai volato così alto, adesso io cosa gli racconto? È interessante notare come
quando le persone si sbottonano e raccontano un po’ le proprie vite, si scopre che alcuni
episodi ricorrono anche nelle vite degli altri. Io ho rischiato di mollare su Analisi 2, per
esempio: ci ho messo sei mesi per preparare l’orale, quello annuale, dopodiché ho finito;
una volta superato quello scoglio sono andato avanti ( pur avendo fatto Istituzioni con
Lorenzi). Così come incontrare persone che rischiano di perdersi: voi pensate che siano
cose solo da telefilm, sceneggiati, “A Beautiful Mind”, invece sono cose vere. Non so a
voi, ma a me è capitato di vedere persone molto più dotate di me che dopo il dottorato
sono crollate, fisicamente, psicologicamente, proprio per questo poco equilibrio nel
considerare, nel valutare l’importanza di quello che stavano facendo, per cui finivano per
far diventare la matematica qualcosa di autoreferenziale. Sono episodi drammatici, ma
veri; è bene tenerli presente perché magari a qualcuno dei vostri amici potrà capitare
qualcosa del genere, o a qualche vostro conoscente, anche prima di iniziare il dottorato,
prima della laurea. Avere la consapevolezza dei rischi che queste degenerazioni
comportano è importante, per se stessi e anche per le persone che vi stanno accanto.
Detto questo, l’utilità: io volo basso. Penso a me e provo a generalizzare; prima ho un po’
toccato l’aspetto ludico e l’aspetto estetico della matematica. Capisco che sono limitanti,
però non sottovaluterei questi aspetti. Giacomo l’ha appena confermato con l’esperienza
di Stanford, dove uno gli dice: “Cavoli, ma tu ti diverti ancora, ti entusiasmi ancora nel
fare matematica, non sei malato patologicamente come questi mostri sacri che sono
qui!”. Sì, e il divertirmi è la mia medicina, è quello che mi impedisce da un certo punto di
vista di ammalarmi. Quindi io non sottovaluterei per tante ragioni l’aspetto ludico che la
matematica ha: perché può essere il modo con cui la misuriamo nel modo giusto,
evitando che diventi sproporzionata; perché è il modo con cui si può fare matematica
assieme, evitando di isolarsi; perché domenica sono andato ad una festa di paese, e
c’erano delle bancarelle sempre di tipi che costruiscono giochi con il legno, e questa
associazione aveva delle splendide magliette con scritto lo slogan “uomo ludico”: e io ho
detto sì, io sono un uomo ludico! Voglio una maglietta! Sì, magari mi dovrei vergognare,
però sono un uomo ludico: io ho bisogno di giocare, assolutamente, mi serve per
ricollocare alcune cose al loro posto, per scaricare la tensione, mi serve per divertirmi con
gli altri, e la matematica, se è un gioco che non degenera, è un gioco che può far bene. E
la stessa cosa vale per la bellezza!
Contemplare la bellezza, e' un tema pazzesco: non sono un filosofo né un teologo, sono
uno che prova a fare il matematico, però sono convinto che la contemplazione della
bellezza sia utile, nel senso che soddisfa un bisogno e dà benessere. Dopodiché tu puoi
contemplare la bellezza ascoltando una sinfonia, la puoi contemplare andando all’opera,
la puoi contemplare stando nella natura… in mille modi. A me piace anche vedere una
bella dimostrazione: anche quello dal mio punto di vista è contemplare la bellezza. Se la
matematica in alcune o tutte le sue forme ha un valore estetico, ben venga! È qualcosa
che fa bene, è qualcosa che appaga il bisogno di vedere nella propria quotidianità
qualcosa di bello. Io questo bisogno ce l’ho; ormai ne sono consapevole, non mi vergogno
di averlo. Nelle mie giornate, mentre è raro che ci siano episodi di passione verso la
matematica, è frequente che ci siano momenti di piacere, momenti in cui vedo qualcosa
di bello nella matematica, e questo mi fa bene. A maggior ragione qui sta l’utilità, se
questa bellezza che io vedo la condivido con gli altri. A me piace stare da questa parte,
avere questo gesso in mano: mi piace perché è il modo con cui io provo a condividere con
gli altri le cose che per me sono belle. Da questo punto di vista la bellezza della
matematica da valore estetico acquisisce un valore diverso: un valore sociale, un valore
educativo. Credo che sia grande il fatto di venire qui e condividere con altre persone
quello che mi entusiasma.
Sto toccando esattamente i tre temi che i vostri compagni nelle loro domande dicevano
essere temi che, arrivati a un certo punto, potevano stancare: l’aspetto ludico, l’aspetto
estetico, l’aspetto speculativo-filosofico. Perché no? Non avete forse bisogno di porvi
domande più grandi di voi e di provare a confrontarvi con i vostri amici? Secondo me
quando si ha vent’anni è il periodo in cui forse se ne ha più bisogno, perché ci si trova
veramente inadeguati di fronte a queste domande. La matematica può aiutare a
ragionare sull’infinito, sulla limitatezza del linguaggio, sul fatto che essa ha un potere
descrittivo, ma anche dei limiti, perché la descrizione è spesso approssimata, perché
quello che c’è al di fuori dalla matematica puo` essere più grande della matematica
stessa. Perché non ragionare e non discutere di queste cose? Alla fine una vita
consapevole passa attraverso domande che sono grandi, indipendentemente dalle
risposte che vi date; ciascuno poi prova a darsi le proprie. Ma perché non parlarne, e
soprattutto perché non porsele queste domande? Se la matematica può aiutare, ben
venga! A questo proposito mi ricorderò sempre un episodio: ero al secondo anno, ero in
cooperativa e parlavo con un mio amico più saggio di me che studiava fisica. A me ogni
tanto piaceva andare a fisica a studiare, perché matematica l’ho visto sempre come un
ambiente un po’ isolato, un po’ arroccato su se stesso, mentre là c’è Città Studi, ci sono
tutti. Mi ricordo che stavo cercando di convincerlo della bellezza di qualche dimostrazione
- ero in trance, o forse era il bicchiere di sangue di Giuda che stavamo bevendo - e mi
ricordo che lui mi risponde: “Guarda che la realtà è più grande di qualunque
rappresentazione la tua matematica possa dare”. Lui, fisico! Prova a rispondergli! Io son
rimasto così, muto, e ho bevuto il vino.
Tolti questi tre aspetti di utilità che, condivido con Giacomo e anche con i vostri
compagni, possano non bastare, a me piace insistere molto sul linguaggio. Cerchiamo di
concretizzare: perché la matematica può essere utile non solo alla mia vita, ma in
generale? Semplicemente perché è un linguaggio. Ho un amico che ha fatto una scuola
per traduttori e interpreti, e adesso parla tre lingue come se fossero l’italiano: il
portoghese, l’inglese e il francese quasi allo stesso livello dell’italiano. Lui usa il
linguaggio per tradurre, per interpretare, per creare, anche per rappresentare. La
matematica è un linguaggio esattamente come le altre lingue, esattamente come la
musica. È un linguaggio con la sua sintassi, con la sua semantica; è un linguaggio che ha
un potere incredibile, lo vedete e l’avete visto fin da subito: ha un potere quando
sintetizza con pochi simboli la ricchezza di un fenomeno; in maniera approssimata, sia
chiaro, però lo sintetizza. Ha un potere sintetico incredibile, ma anche un notevole potere
analitico: nel momento in cui io formalizzo un problema con il linguaggio della
matematica riesco ad andare più a fondo, all’essenza e alla struttura del problema stesso.
Non mi sono limitato in quell’episodio a trovare una soluzione, ma nel trovarla ho
scoperto molte più cose di quelle che avrei scoperto provando ad indovinare la soluzione
senza l'aiuto della matematica. Magari le avrei intuite; non sono sicuro che sarei riuscito a
formalizzarle, e quindi a conoscerle.
Ecco, io credo che il linguaggio della matematica sia qualcosa di utile. Dopodiché la cosa
grande è quello che ciascuno di voi decide di fare con questo linguaggio. Il linguaggio
della matematica è un’opportunità; ciascuno poi ha le proprie preferenze: a qualcuno
piace la probabilità (io ho iniziato a studiarla tre anni fa: è bellissima, adesso lo ammetto),
a qualcuno piace di più l’algebra: ciascuno chiaramente ha le proprie preferenze e anche
le proprie predisposizioni, però la cosa non si esaurisce nel linguaggio in sé, ma il
linguaggio è un’opportunità per fare qualcosa, e ciascuno ha la libertà di scegliere cosa.
Ci sono quelli che usano il linguaggio della matematica per dedicarsi ai giochi: l’anno
scorso ho assistito a una tesi triennale pazzesca sull’algebra applicata alla giocoleria, e io
ero lì basito, volevo dire a quel ragazzo: io ti invito all’asilo nido di mia figlia, vieni…
Aletti: No dai, basta la figlia: si becca te alle feste popolari, se poi si becca anche i
giocolieri all’asilo…
Penati: No, per dire, guardate che l’algebra che usava era non banale: io l’ho seguita
fino a un certo punto e poi mi sono perso… altro che quindici crediti di algebra, per
riuscire a teorizzare e classificare gli schemi realizzabili con tre o più palline… una cosa
meravigliosa! E magari alcune persone lo fanno di mestiere. Altri usano il linguaggio della
matematica nella musica. Altri lo usano per risolvere alcuni disturbi dell'apprendimento:
si sente parlare spesso di dislessia, ma c’è anche la discalculia, la difficoltà dei bambini
nell’eseguire i conti, nel gestire lo spazio alla lavagna. Non basta la psicologia; serve
anche una buona conoscenza del linguaggio matematico. C’è chi usa il linguaggio
matematico per diventare un ottimo educatore, un ottimo professore; c’è chi lo usa in
mille altri modi, per cui l’utilità è il linguaggio stesso; poi sta a ciascuno di noi capire che
uso farne. C’è anche chi dice: “No, ho scoperto che non lo voglio utilizzare”: va bene,
però questa resta comunque un'opportunità.
Forse abbasso ancora di più il livello: discutevo con Giacomo a pranzo di quando diciamo
che la matematica permette di trovare un lavoro stabile. Forse non sarete disoccupati,
comunque non dovrebbe essere la motivazione per cui uno è o resta qui. Però è
altrettanto vero che siamo in una società che è basata sulla gestione e sull’analisi di una
quantità mostruosa di dati: è vero a tutti i livelli, e piaccia o no la matematica forse è il
linguaggio più potente per provare a gestire questa mole disumana di dati. Quest’aspetto
non va sottovalutato e forse è il motivo per cui spesso i matematici vengono assunti,
proprio per questa loro familiarità con un linguaggio che ha queste potenzialità;
dopodiché sta sempre all’individuo decidere o scoprire modi originali con cui utilizzare
questo linguaggio. Mi fermo perché se no mi sovrappongo alla terza...
**: La nostra terza domanda è come la passione, la bellezza o l'utilità che avete
descritto che ha per voi la matematica incidano nello studio, soprattutto
rispetto alla fatica che - penso che anche per voi sia inevitabile - si fa nello
studio della matematica.
Penati: Allora, come l’utilità o il piacere di fare matematica possano aiutare a superare la
fatica che è inevitabile... Innanzitutto, credo, bisognerebbe analizzare quali sono le fonti
della fatica. Io ho provato a ragionare su questa che secondo me è la domanda più
difficile, perché è stato tutto sommato semplice rispondere a cosa ti piace fare e perché
sia utile: è utile perché mi fa fare un lavoro splendido con cui la qualità della mia vita è
incredibilmente più alta di quella di diversi miei amici. Il perché è bella l’avete capito, ma
la cosa più difficile è parlare della fatica!
Aletti: E lo pagano eh... per portare la figlia alle feste...
Penati: Io l’ho sempre detto: questo è molto meglio dell’Enalotto, sessanta miliardi di
euro non valgono queste giornate!
Comunque, voi credete che sia una frase del cavolo ma se avrete la fortuna di fare questo
mestiere vi renderete conto che è vero: la vostra fatica è anche la nostra, perché
comunque il nostro mestiere è anche studiare, esattamente come voi studiate. Studiare
quella matematica che non abbiamo mai incontrato! A me sta capitando in questi mesi
per necessità: non ho mai studiato le equazioni alle derivate parziali - quelli che fanno
con me Fismat 2 ne siano coscienti... Studiamo cose che non abbiamo mai incontrato
esattamente come voi: forse noi siamo più abituati a farlo, ma questa è una fatica legata
alla preparazione e alle competenze.
Altra sorgente della fatica può essere la motivazione: che cosa mi spinge ad andare
avanti? Guardate che questo non è un problema solo vostro: questo problema, queste
domande ti accompagnano tutta la vita qualunque mestiere tu faccia, quindi fin da subito
è bene prendere coscienza che la motivazione è quello che spinge ad andare avanti
all’inizio ed è una bestia nera con cui bisogna fare i conti quando crolla, quando sparisce,
quando si ha la sensazione che non si sa più perché si sta facendo una cosa. La si sta
facendo per inerzia oppure perché bisogna portare a casa lo stipendio. Devo mantenere
la mia famiglia, sono tenuto a farlo: già di per se` questa è una motivazione. Se uno
invece non ha costrizioni esterne, trovare le motivazioni diventa difficile.
E poi ci sono gli obiettivi, anche quelli sono fonte di fatica: trovare gli obiettivi è molto
difficile nel mio caso, è l’incubo più grosso perché mi capita - ci cado sempre - di pormi
degli obiettivi che sono smisurati rispetto alle mie capacità e poi ne soffro, è inevitabile.
Quante volte mi capita! Ho imparato a venirne fuori semplicemente dicendo: “Ok, forse
certe volte sono un po’ ambizioso, forse mi pongo questi obiettivi perché voglio che i miei
colleghi non pensino che io sia proprio uno stupido, che in qualche modo il posto che
occupo me lo merito”, però questo, che non rappresenta una spinta che viene
dall’interno, ma viene in qualche modo dal confrontarmi con gli altri, è un argomento
debole… Quindi bisogna in qualche modo imparare, in maniera equilibrata e serena, a
prendere l’obiettivo e traslarlo in giù un pochino, così diventa raggiungibile; magari uno lo
raggiunge, ne trae soddisfazione, si rende conto che ha fatto comunque qualcosa di
buono per se stesso. Io ho identificato queste tre sorgenti della fatica.
Come l’utilità e la bellezza aiutano a superare questi tre aspetti: problemi di
preparazione, problemi di motivazione, problemi legati agli obiettivi? Le risposte che mi
son dato sono tre e mi girano nella testa da un po’ di tempo. Per prima cosa - questo per
me è un problema minore, forse lo è di più per gli studenti - smettetela di limitarvi a
studiare matematica e iniziate a farla. Talvolta vale molto di più avere un bel problema su
cui ragionare, su cui lavorare, piuttosto che andare avanti accumulando solo nozioni: una
funzione continua… se la funzione è derivabile e la derivata prima è nulla nell’intervallo
aperto… È uno strazio, dopo un po’ vi stancate (per non dir di peggio) a studiare
matematica in questo modo! Puo` essere molto più stimolante avere davanti dei problemi
con cui confrontarvi; quindi abituatevi se non l’avete mai fatto a cercare, anche insieme
agli altri, dei bei problemi inerenti a quello che state studiando. Nel mio caso il problema
non si pone perché fare ricerca vuol dire avere a che fare con problemi, quindi sono più
fortunato.
Fare matematica insieme agli altri, evitare di isolarsi: anche questa è un’opportunità e
un’ancora di salvataggio in molte situazioni in cui la fatica sembra prendere il
sopravvento, perché a fare matematica con gli altri spesso si impara di più, si impara più
in fretta e si evita di rimanere da soli con la propria frustrazione. Perché la matematica è
frustrante, è stata la prima cosa che vi ho detto: quell’episodio mi ha lasciato due
emozioni diverse, il piacere per aver risolto un problema e la frustrazione che nasce dal
sentirsi inadeguati per quell’altro problema, e quando si è frustrati e in più si è da soli nel
fare il proprio mestiere (anche studiare) sono guai!
Terza cosa sugli obiettivi - qui tocco livelli più alti: mi sono fatto passare un saggio che
viene utilizzato dai docenti per l’aggiornamento, un saggio di psicologia della motivazione
e dell’apprendimento del Professor Pietro Boscolo dell’Università di Padova. Ho messo il
link sulla mia pagina: consiglio di leggerlo perché è un ottimo testo da cui partire per fare
un po’ di autoanalisi; non vi leggo il testo, ma parla della motivazione e degli obiettivi, ed
è interessante quando dice per esempio che “Chi ha un atteggiamento costruttivo,
quando non riesce in un compito o una prova si dà da fare per riuscire e non si scoraggia
di fronte agli esiti negativi, ma prende atto del risultato e tende ad attribuirlo a lacune
nello studio. Invece, l’allievo che vuole soprattutto avere una bella prestazione, superare i
compagni ed essere lodato per questo, tende a considerare l’intelligenza e le abilità
specifiche come entità che non possono essere ampliate o migliorate. Pertanto, un
insuccesso lo conferma in questa convinzione e lo espone più facilmente allo sconforto:
l’errore non è un occasione per migliorare, ma la dimostrazione di una scarsa capacità”.
Questo per differenziare i due diversi atteggiamenti nei confronti delle difficoltà. Anche
questa frase è interessante, dice: “L’interesse [verso una disciplina come la matematica]
ha una funzione energetica [nel senso che vi dà energia per iniziare qualcosa] per
l’apprendimento: l’allievo che prova interesse per un argomento si pone obiettivi di
padronanza, cioè di accrescimento della propria competenza, più che di prestazione
[quindi non è importante la riuscita di per sé, è importante la mia crescita, il fatto che io
domani sappia qualcosa di più, abbia capito qualcosa di più di quanto non abbia capito
oggi], e di regola resiste meglio alle eventualità, quali la noia e la stanchezza, che
possono influire negativamente sull’apprendimento”.
Questo per dirvi semplicemente che utilità e bellezza sono sicuramente punti di partenza
per iniziare a superare la fatica di questo mestiere o dello studio, di qualunque cosa, però
possono non bastare a se stesse. Il fatto che io riconosca che qualcosa è bello, che mi dia
piacere o il fatto che io pensi che mi è utile per la vita: tutto cio` talvolta puo` non
bastare, e quindi è inevitabile che uno debba cercare altro per portare a compimento la
fatica, per non bloccarsi in mezzo. Quindi questi attributi (utile e bello), che sono
necessari per iniziare il percorso di fatica, possono non essere sufficienti per
concluderlo… Che testimonianza drammatica: tutti depressi! Tocca a te risollevarli, io gli
ho dato una mazzata incredibile…
Aletti: È facile venire dopo: uno non deve ridire tutte le cose che ha già detto l’altro, per
cui può andare su aspetti nuovi. Innanzitutto volevo fare una distinzione secondo me
importante per togliere un equivoco: a me non piace dire che io supero la fatica, e adesso
vi spiego perché. La fatica non è una cosa da superare: se io voglio diventare di più di
quel che sono devo fare fatica, devo superare me stesso! Se una mamma vuole crescere
un figlio deve fare fatica, non c’è altro modo… Non è vero che uno impara senza fatica,
non è vero che uno impara qualcosa di veramente nuovo per sé senza far fatica, non è
vero che uno cresce veramente come persona senza fatica: io penso che questa sia una
cosa che tutti ad una certa età dovrebbero iniziare a considerare come pacifica. È diversa
la parola “fatica” da “obiezione”: forse voi utilizzate la parola “fatica” al posto di
“obiezione”, nel senso che ad un certo punto il fatto che qualche cosa non vi dà
immediatamente gusto… Anche alla madre svegliarsi durante la notte non dà
immediatamente gusto magari, ma la fatica la fa comunque tutta! Non vorrei che la
parola fosse equivocata, perché ad esempio quando si va in montagna - e io prima che mi
spaccassi la spalla facevo delle belle vie ferrate - si fa fatica, ma quella fatica non è
obiezione, assolutamente! Quando inizi a fare una teoria nuova o ti viene in mente
un’ipotesi di lavoro nuovo, certo che fai fatica nel cercare di dipanare le cose, per cercare
di formalizzarle: non le ha mai scritte nessuno! Però questo assolutamente non è
obiezione al lavoro che stai facendo.
Sono totalmente d’accordo con Tiziano che l’utilità e la bellezza che uno ha trovato sono
l’inizio perché sia ragionevole un cammino faticoso: uno che è andato a fare una gita in
montagna quando era piccolo sa che è ragionevole adesso farsi la fatica di salire in
montagna, perché vuole arrivare in cima. Allora all’inizio ciò che ti pone alla soglia del
cammino faticoso e che te lo rende ragionevole sono due cose: sicuramente l’utilità e la
bellezza che tu hai sperimentato e, secondo, che tu sai che stai andando verso la cima;
se no, se tu andassi su per qualcosa che non è bello… Ora, in questo cammino per
esempio ti viene in mente un’ipotesi di lavoro e ti viene in mente un’ipotesi di
spiegazione attraverso una teoria di un fenomeno che tu hai visto: bello! Guarda, questa
cosa si può risolvere in questo modo… Ok, cominciamo a lavorarci su. Quando questa
diventa un’ipotesi ragionevole di lavoro, di ricerca, si comincia a fare la fatica necessaria
a fare in modo che questa, che è un’intuizione, si scriva nel linguaggio che le è proprio. E
guardate che è una fatica, tanto quanto… forse addirittura di più di studiare, perché
alcune cose proprio non si scrivono! Uno ce l’ha in testa, dice: “Per forza deve funzionare
così”, e non riesce a scriverlo.
Penati: L’ho detto che il linguaggio è limitato…
Aletti: Sì sì! Quindi, quando questo diventa obiezione? A un certo punto uno fa fatica, fa
fatica, dice: “L’obiettivo è lì”, lo vede, “Dovrebbe essere così”, eccetera… E a un certo
punto può diventare obiezione, nel senso che uno non vede più utilità o bellezza in quello
che sta facendo, è in un passaggio critico, ha fame in montagna e dice: “Ora che arrivo su
è arrivata la nuvola, in cima alla montagna non vedo niente… Perché devo andare avanti
da qui fino alla fine?”. Ma come vi ho detto prima, come è stato per me durante
l’università, anche quello che è bello può diventare un’obiezione: anche una cosa che in
quel momento non ti sta facendo fare fatica può essere obiezione, può diventare
qualcosa che non è più una strada per te, per cui cresci (in tutti in sensi che volete
metterci dentro). Anche con le persone a cui si vuole bene si può dire questa cosa: un
conto è la fatica, un conto è l’obiezione, sono due cose totalmente diverse. Chiunque
tenti di voler veramente bene a una persona - non al proprio gusto a volergli bene, ma a
quella persona - sa che si fa fatica. Non è il punto principale che uno sottolineerebbe,
però sa che c’è. Quando questo diventa obiezione? Quando, uno, sembra che non sia più
ragionevole arrivare fino alla vetta o al posto dove eri arrivato; due, quando non si vede
più un’utilità per sé e non si ha più lo scopo per cui si era iniziato a fare quella fatica, non
è più chiara la direzione. Che cosa aiuta? Che cosa incide quando la fatica diventa
obiezione? Questa è una bella domanda - ho girato così la domanda ma penso che sia
quello che mi avete chiesto.
È un po’ una contraddizione, perché è come se uno dovesse ricordarsi lo scopo per cui sta
facendo quella fatica nel momento in cui dal punto di vista psicologico, della motivazione,
come diceva prima lui, è meno portato a rispondere positivamente. La fatica è vera per te
sicuramente se ti fa crescere: magari tu stai facendo fatica, per esempio non sai spiegare
quella teoria che hai in testa che ti sta muovendo, ma stai scoprendo - questa è una cosa
normale nella ricerca - un altro mondo, per risultati negativi, che prima non avevi in testa.
Non so se vi è mai successo: tu ti muovevi per cercare di dimostrare A, e invece hai
scoperto B, C, D, E, F… E mentre li scopri magari questa fatica è obiezione: “Non riesco
ad arrivare ad A!”; dopo scopri invece che hai fatto una serie di passi di cui non ti eri
accorto. Questo è perché l’obiezione è vera quando blocca, non quando fa far fatica;
l’obiezione è vera quando blocca il fatto che ti stai muovendo. All’università non è che
quando uno fa fatica è un segno che deve cambiare facoltà, ma per esempio se tutte le
occasioni che ci sono in università di sviluppo di sé e di possibilità di immaginare il futuro,
di possibilità anche di rapporti con docenti, eccetera… non li vedi più, è chiuso tutto.
Quello sì allora che diventa obiezione: quando uno capisce che la sua vita è bloccata. Se
no, vi dico, conosco persone che hanno fatto l’università - anche se non ve lo auguro - in
sette/otto anni, magari anche di più (quando durava quattro anni). Che cosa aiuta a venir
fuori da un’obiezione? Sicuramente, visto che uno non si tira fuori da solo da un buco
quando c’è dentro, il fatto di avere qualcun altro con cui confrontarsi. Uscire da soli da
una situazione di obiezione (non di fatica) è pressoché impossibile, perché la tua ragione
si è bloccata rispetto allo scopo per cui ti stai muovendo. La contro-obiezione sarebbe
dire: “Chi sa meglio di me che cosa sto vivendo?”. Vi auguro di conoscere amici che siano
talmente liberi da dirvi: “Guarda, la tua obiezione nasce da una forte pigrizia; non stai
guardando questa opportunità, non stai valutando questa possibilità”, oppure: “Chiudi
questo percorso il più presto possibile perché se no ti fa del male”. Per cui sono un po’
reticente a dirvi cosa dovete fare quando siete nell’obiezione, perché in realtà non c’è
persona uguale a un’altra e quindi pensare che, di fronte a un momento così drammatico,
la risposta possa essere unica e la modalità possa essere unica per tutti, sarebbe mentire
a voi, alla mia stessa storia per come tante volte si è sviluppata e a chi di voi oltretutto fa
più fatica.
Penati: Bella questa cosa dell’obiezione e della fatica… Mi veniva in mente - sarà la
deformazione da sistemi dinamici! - che effettivamente si associa al termine “fatica”
comunque il fatto che uno è in moto, è in movimento; quindi comunque stai andando.
Invece associ a “obiezione” il fatto che uno si blocca, è un’immagine di staticità: uno è
fermo. Il problema è che se uno è in un equilibrio instabile, nell’obiezione ci ricasca!
**: Adesso abbiamo lasciato un po’ di spazio per delle domande.
Penati: Non valgono le domande di Fismat 2!
Intervento: La mia domanda è: “Studiare matematica: Italia o estero”?
Aletti: Durante il dottorato ho fatto un periodo abbastanza lungo di studio in Israele, poi
ho fatto dei periodi di studio in giro - raccontavo prima di Stanford. Invece l’esperienza
più diretta dello studio fatto all’estero è quella dei tesisti, delle persone che vanno in
Erasmus per fare un periodo di tesi presso altre università, e ho avuto occasione di
vederne un po’ in questi anni. La matematica ha di bello che è un linguaggio universale,
per cui il Calcolo delle Probabilità che si insegna qua è lo stesso Calcolo delle Probabilità
che si insegna ovunque. Ovviamente noi cerchiamo di mettervi nelle condizioni migliori
perché possiate andare all’estero e lavorare con chiunque. Ti ho detto da che esperienze
parte la risposta: da quello che ho studiato io e dalle persone che ho visto andare a
studiare in questi anni. Adesso ti dico invece in che senso voglio rispondere a questa
domanda, così poi se non ci sono gli elementi che tu dici, mi dici subito quello che invece
ti interessa. Primo, se è meglio studiare matematica in Italia o all’estero (meglio nel senso
di dove si fa meglio matematica). Secondo, se la nostra preparazione è buona, sufficiente
o se è necessario andare poi a fare ricerca o studio o lauree all’estero. Terzo, in base a
che cosa scegliere un posto piuttosto che un altro per fare matematica. Penso che questi
siano i tre aspetti che stavano sotto la tua domanda: se ce ne sono altri ti chiedo di
integrarli.
Innanzitutto - sembra una risposta per eludere la domanda ma non è così - il posto
migliore per ciascuno è quello dove può veramente esprimersi, specialmente a livello di
studio e di ricerca; il posto dove si può dare più sé stessi e più si cresce è spesso legato,
giustamente, a dei posti importanti, per esempio in America, in Europa (dalla Svizzera
alla Francia o allo United Kingdom). Ci sono posti noti come migliori: perché? Non perché
di per sé uno si esprima sempre al massimo in questi posti, ma perché sono posti
dinamici, dove c’è parecchia gente, tanti seminari dove tanta gente importante passa,
dove quindi c’è la possibilità che uno che lavora lì venga a contatto con tante nuove
scoperte, tante nuove teorie, tante novità. Questo di per sé non è garanzia del fatto che
sia il miglior posto per ciascuno. Conosco una persona che è stata a Parigi: uno dei posti
migliori, ci sono due o tre Medaglie Fields, per cui ogni settimana in una delle università
di Parigi c’è un seminario importante. Questo ha fatto un anno a sentire seminari e basta:
lui non ha fatto nulla. Il punto è se il posto può aiutare la tua espressione: aiuta la tua
espressione qualche cosa che è fatta per te. Mi ricordo un’altra persona che doveva
scegliere il dottorato fra due posti: siccome soffriva molto la competizione è andato in un
posto piccolo, dove c’era gente brava, e ha prodotto molto: era un posto per lei. Poteva
scegliere di andare in un posto di quelli “top”, molto competitivo, e lì sarebbe morta. Per
cui il posto che sceglierei è un posto che capisco essere un posto dove possa
esprimermi:dipende proprio da uno com’è fatto, da quali sono i suoi interessi, le sue
esigenze, e anche le sue capacità.
Fa parte di questa risposta l’esempio che dava prima Tiziano del suo collega di dottorato
molto bravo; anch’io ne avevo uno molto bravo del mio anno, abbiamo fatto tutto il
dottorato insieme, poi lui è andato a fare la tesi di dottorato in America e si è perso. È
tornato dall’America avendo fatto una tesi che era compilativa, mettendo insieme dei
risultati noti, ma sicuramente avrebbe potuto fare di più. Perché è chiaramente una
schiavitù quella del posto migliore se non è il posto per sè; se la matematica, la propria
ambizione e anche la propria capacità diventano tutto, tutto questo alla fine ci si rivolta
contro.
Terza cosa: preparazione. Per questo siamo, come dipartimento, veramente orgogliosi.
Quelli di noi che vanno in Erasmus a fare tesi all’estero spesso tornano con lettere
entusiaste dei docenti con cui hanno fatto la tesi, e spesso con proposte di PHD nelle sedi
dove sono andati.
Penati: Questo implica che perdiamo tutti i migliori studenti… però siamo contenti
perché alla fine facciamo il loro bene.
Aletti: È ovvio che ci piacerebbe avere i soldi, le strutture, la capacità di rendere questo
posto attrattivo tanto quanto lo sono i maggiori centri di eccellenza europei…. ma di fatto
non ce li abbiamo: l’Italia è in recessione, ci possono essere centomila altri motivi, però
con quello che abbiamo siamo almeno orgogliosi - io personalmente lo sono veramente delle lettere che ricevo di voi studenti quando andate in giro. Questo devo dirlo perché
così almeno quelli che ho visto tra di voi che so che dovranno andarci sanno che se
prendono una lettera discreta e non ottima prendono due punti in meno alla tesi,
insomma dobbiamo tenere il livello. A parte quest’ultima cosa, la preparazione che diamo
qua è sufficiente, spesso è eccellente: è riconosciuta da tutti i posti dove la gente sta
andando. Barbieri Viale ha appena raccontato di due o tre che con ALGANT sono stati
anche loro presi via, tre tesisti che hanno fatto la tesi in Nord Europa nei paesi scandinavi
e non sono più tornati in Italia, con PHD in giro per l’Europa...
Penati: Dico solo due cose che forse si sovrappongono. Io un po’ non ho avuto
l’opportunità, un po’ non ho voluto fare l’Erasmus durante la laurea. La mia unica
esperienza è stata per il primo post-doc, cioè il primo contratto di ricerca che ho avuto
dopo il dottorato. Però mi capita di parlare con alcuni di voi che hanno fatto l’Erasmus, e
cio' che mi colpisce, ascoltando le persone che fanno questa esperienza, e` sentirsi dire:
“Cavolo, ma in quel posto fanno la matematica diversa da quella che ci insegnate voi!”.
Matematica diversa non nel senso che hanno inventato un nuovo linguaggio, ma nel
senso che ogni dipartimento deve fare delle scelte didattiche: non sto parlando del
triennio, sto parlando dei corsi avanzati (o anche già qualcosa nel terzo anno). C’è una
grossa componente di corsi i cui contenuti sono standard in tutta Europa (o in tutto il
mondo), e quello che puo` cambiare e' il modo di presentare questi contenuti, che
dipende anche dalle scelte dello stesso docente. Nei corsi avanzati però non c’è
differenza solo nel modo di raccontare lo stesso programma: ci sono proprio delle scelte
diverse di programma spesso dettate dai filoni di ricerca che si sviluppano in quel
dipartimento. Nel nostro - parlando del mio settore - si fa tanta teoria delle perturbazioni
e teoria dei sistemi hamiltoniani, offrendo Sistemi Hamiltoniani 1, Sistemi Hamiltoniani 2,
Meccanica Celeste; da questo punto di vista è probabilmente uno dei dipartimenti in
Europa che offre la formazione migliore. Se uno va a Barcellona ha il corso di
Astrodinamica, ha i corsi con l’agenzia spaziale europea di pianificazioni di missioni nello
spazio di orbite, ha tanti corsi di programmazione insieme agli ingegneri aerospaziali: è
sempre un dipartimento di matematica, è sempre un gruppo che offre dei corsi
nell’ambito della fisica matematica o dell’analisi applicata, ma le scelte dei corsi avanzati
sono diverse. Da questo punto di vista è bello sentire che, arrivato al quarto anno, uno
dice: “Io ho visto i programmi dei vostri corsi, non mi piacciono, invece in quel posto
fanno delle cose che mi piacciono da morire, che mi entusiasmano e che soprattutto
sento adatte a me, alle mie capacità, ai miei interessi, perché ho studiato per tre anni e
ho cominciato a farmi un’idea di che cosa mi riesce bene, di dove riesco a esprimermi di
più - è il discorso che faceva Giacomo prima - e quindi voglio andare lì, voglio provare ad
andare lì”. E spesso la gente torna soddisfatta perché ha visto che ci sono nei posti in giro
per il mondo modi di fare matematica diversi e specializzazioni diverse. Da questo punto
di vista sicuramente è un'esperienza utile ed entusiasmante.
L’altra cosa che mi piace sentirmi dire è: “Cavolo, è bello vivere sei/nove mesi in un altro
paese!”, perché magari ci sono problemi simili ai nostri, però la gente vive diversamente.
Al di là del linguaggio - è sempre utile avere una lingua in più piuttosto che una lingua in
meno: questo è uno dei miei rimpianti, so solo l’inglese e lo so male, il brianzolo non è
ancora una lingua riconosciuta - è bello vedere un ventenne che torna e dice: “Mi sono
confrontato con dei modi di vivere diversi e ci sono delle cose che mi piacciono di più del
modo di vivere delle persone in Italia e ci sono delle cose che invece mi danno
terribilmente fastidio”. Questo vale anche se andate a lavorare, invece che studiare; non
vale solo per l’Erasmus, vale per una qualunque esperienza fatta in un altro paese. È
un’occasione, sotto tutti e due i punti di vista.
Aletti: Posso invece suggerire una cosa che dovreste fare secondo me? Lo dico a quelli
che tornano dall’Erasmus: mettete su un bel sito in cui la gente che va fuori e fa una tesi
con qualche professore racconta e dice com’è andata l’esperienza con quel professore o
con quel tipo di tesi, perché spesso mi capita che veniate a chiedere: “Quali sono i
professori bravi a far ricerca in questo dipartimento?”. C'è un abisso tra la conoscenza
che noi abbiamo e l’esperienza di tesi che voi farete. Cioè, non è detto innanzitutto che
lavorerete con lui anche se vi ha detto vi darà la tesi, non è detto che poi vi segua, non è
detto che gli interessi il lavoro che state facendo. Questo ve lo dico proprio perché la
valutazione che voi date sui docenti è totalmente diversa dalla valutazione che dà il
mondo accademico dei docenti: voi potete avere un'esperienza di crescita, in cui capite le
cose, in cui riuscite a imparare con dei docenti che invece dal punto di vista accademico
non sono valutati, non sono considerati molto - potrei farvi tanti esempi. Allora se voi
venite a chiedere a noi docenti: “Se vado in quell’università, con chi posso andare a
lavorare?” noi ve lo possiamo dire, però non è così sicuro come l’esperienza di un altro
che c’è andato e ha già fatto la tesi con quel professore. Certo, se mi vieni a chiedere: “
Questo qua si occupa di queste cose, c’entra con questa cosa che mi interessa?” a questo
ti so rispondere. Questo è importante, vi invito a farlo: mettete su un sito, mettete su una
tabella di Excel, scrivetelo su un foglio, ma non perdete questa ricchezza della gente che
è andata via. Anche banalmente per capire le priorità: se bisogna prendere la casa a
settembre quando uno deve partire a febbraio o a gennaio, sono cose che uno che c’è
stato ti dice in un attimo. Vedo l’obiezione più grossa sul fatto di andare via a studiare o a
fare la tesi in Erasmus più a questo livello di organizzazione. Le sedi sono, grazie a Dio,
buone, di solito la gente fa una buona esperienza; non tutti i docenti di tesi sono allo
stesso livello, su questo secondo me vale la pena che ci sia un tam tam. Questo è proprio
un suggerimento di network, voi poi magari andate su Facebook e trovate tutti i giudizi...
**: Ringrazio ancora entrambi i docenti, penso che ci abbiano dato molti spunti, rispetto
alle domande che abbiamo fatto, su cui lavorare in questo anno. Quindi grazie ancora e
buon anno a tutti.
Aletti: Spero che di spunti su cui lavorare quest’anno ve ne diamo tanti anche a lezione.
Penati: Dopo questa chiacchierata non verranno più…