scarica il catalogo
Transcript
scarica il catalogo
Particolare di axsu, parte dell’abito femminile di origine preispanica, di lana tessuta a mano, con paziente la voro che dura anche diversi mesi, dalle donne Jalq’a e Tarabuco del dipartimento di Chuquisaca (Bolivia). I motivi ornamentali caratterizzano l’etnia di appartenenza. Traruwe (cintura femminile di lana tessuta a mano, dai disegni e dai colori rituali) e retrihue (spilla di argento massiccio della seconda metà dell’800, usata come fermaglio dell’abito tradizionale) dei Mapuche (circa 400.000 persone nel Cile centromeridionale ). Le mani delle Americhe tessuti gioielli utensili e oggetti d’uso quotidiano di quattro etnie del centro e sud America Museo S. Agostino P.za Sarzano 35 - Genova 7 Novembre - 17 Dicembre 1995 Regione Liguria Provincia di Genova Comune di Genova Servizio Beni Culturali Museo Etnografico Castello D’Albertis URIHI Ufficio Ricerca Indigeni Habitat Interdipendenza Ricerca e coordinamento: Giovanna Cossia Consulenza scientifica: Veronica Cereceda, Luis Inaipil, Linda Asturias, Massimo Squillaciotti, Roberto Haudry De Souci Ufficio Stampa: Giulia Squadroni Progetto: Studio Maiocchi Pellegrini Allestimento: Squadra Mostre del Servizio Beni Culturali Disegni e manichini: Maurizio Gaiazzi Fotografie: Giovanna Cossia, Manuel Gedda, Paola Sestagalli Produzione Video: Polimago I documentari proiettati sono stati realizzati da Marco De Poli Si ringraziano: IFAD - Raquel Peña Montenegro - Silvia Brando - Giovanni Vigna - Adriano Simonini - Fabio Rossi e le Ambasciate di Bolivia, Cile, Guatemala, Panama e Messico Le celebrazioni colombiane sono terminate. Le popolazioni indigene dell’America Centrale e dell’area andina, eredi delle civiltà Maya, Azteca e Inca, seppur decimate resistono. Osservare ed ammirare la loro ricca produzione artigianale che esprime culture tuttora sorprendentemente legate ai costumi precolombiani ci arricchisce e ci aiuta a soffermarci su valori culturali e spirituali che allargano gli orizzonti della nostra visione del mondo e dell’esistenza. La collaborazione tra URIHI ed il Museo Etnografico Castello D’Albertis di Genova, in occasione dell’anno della Conferenza Internazionale della Donna a Pechino, offre un’occasione per avvicinarci all’America Latina tramite i manufatti eseguiti dalle donne indigene di Guatemala, Panama, Cile e Bolivia. Si tratta di tessuti, abiti tradizionali, telai, monili d’argento ed utensili accompagnati da quattro video che contestualizzano la presentazione di ogni popolo. La proiezione di video realizzati da URIHI sulle donne latino -americane immigrate in Italia, un’esclusiva dell’edizione genovese della mostra, contribuisce alla conoscenza di queste realtà, in genere emarginate e difficilmente considerate per la loro vera identità e portata culturale. I percorsi didattici ed i laboratori di tessitura e di narrazione, organizzati in seno alla mostra con una attenzione particolare al mondo della scuola, affiancano il ciclo di incontri pomeridiani sulle popolazioni latino-americane rivolti alla cittadinanza. Regione, Provincia e Comune si impegnano anche in questo modo a favore della comprensione verso le popolazioni indigene extraeuropee, riconoscendo in questo fonte di progresso e civiltà. Regione Liguria, M. P. Profumo, Assessore a Turismo, Cultura, Sport e Tempo Libero Provincia di Genova, A. Bobbio, Assessore alla Cultura Comune di Genova, G. Meriana, Assessore alla Cultura °***° All’interno della sua attività di informazione sul Sud del mondo, URIHI si propone con Le mani delle Americhe di presentare alcune delle culture indigene americane, sviluppatesi in modo parallelo ma non per questo inferiore a quelle europee. La mostra vuole essere uno strumento conoscitivo nei confronti di popolazioni diverse, profondamente legate alla terra e rispettose dell’equilibrio naturale, di cui oggi dopo secoli di negazione si cominciano a riscoprire gli insostituibili valori. In un momento sociale ed economico difficile che penalizza proprio il lavoro a cominciare da quello delle donne - ci è sembrato interessante contribuire a una visione più allargata delle problematiche femminili, presentando una selezione di lavori artistici e d’uso della tradizione millenaria delle donne indigene americane, geograficamente lontane ma in realtà vicine alle nostre radici culturali. Dunque la donna come cardine dell’organizzazione sociale e custode dei valori della comunità di appartenenza. La mostra, attraverso i tessuti, gli abiti tradizionali, i telai, i monili d’argento, gli utensili e gli oggetti quotidiani (più di 200 pezzi, alcuni dei quali assolutamente inediti in Italia) presenta 4 etnie, fra le più significative d’America, che hanno mantenuto la loro identità ed originalità nonostante le pesanti influenze delle varie colonizzazioni. Per l’approfondimento dei temi trattati nella mostra sono disponibili schede e pubblicazioni realizzate in collaborazione con antropologi e storici italiani e locali in stretto rapporto con esponenti delle etnie interessate. I naturali destinatari di questa iniziativa sono i giovani, che per i crescenti rapporti di interdipendenza a livello mondiale, vivranno sempre di più in una società multietnica e multirazziale. URIHI Tessuti Jalq’a e Tarabuco (Bolivia) Gli Jalq’a costituiscono un gruppo etnico di lingua quechua composto da circa 26.000 persone: abitano gli altopiani e la sommità di colline e vallate al confine tra i dipartimenti di Potosì e Chuquisaca, non lontano da Sucre. La loro economia familiare è modesta, a volte ai limiti della sussistenza: coltivano patate, mais, fave, orzo ed ortaggi; solo nelle terre più basse crescono alberi da frutta; allevano polli, capre, pecore, asini e qualche mucca. L’agricoltura, a causa della forte erosione del suolo e dell’irregolarità delle piogge, che genera periodi di forte siccità, non permette grandi raccolti; e in ogni caso la mancanza di strade e mezzi di trasporto adeguati non consente la vendita dell’eccedenza sul mercato del capoluogo. Sono organizzati in comunità, generalmente su terreni marginali che la riforma agraria ha tolto al grande latifondo. Non hanno una organizzazione politicosociale centralizzata, ma riconoscono come autorità tradizionale l’ “alcalde”, a capo di ogni singola comunità. La loro coesione è fondata sui miti d’origine, la musica, i balli ed i rituali, ma sopratutto sull’abbigliamento che li distingue immediatamente dai gruppi vicini. I tessuti jalq’a, realizzati in lana di pecora filata, tinta e tessuta a mano, sono di raffinata bellezza e di elevata qualità tecnica; raffigurano concetti molto complessi, legati all’identità etnica: per questo motivo i vari elementi dell’abito sia maschile che femminile si differenziano da quelli degli altri gruppi. Dal punto di vista estetico i tessuti si caratterizzano per il predominio assoluto del figurativo (a differenza dei confinanti Tarabuco, che usano complicate geometrie astratte), e per l’uso del colore, sempre con toni scuri e poco contrastati. I disegni propongono una genesi formicolante di animali domestici e fantastici, detti “kurus”, ritratti dalle tessitrici in situazioni di pericolo o di agguato. L’essere umano, quando viene rappresentato, sembra perso in questa selva di animali sorprendenti ed inquietanti. I Tarabuco, popolazione indigena di lingua quechua del dipartimento di Chuquisaca, con capoluogo Sucre, occupano due livelli ecologici distinti: nelle terre alte (2900/3400 metri slm) coltivano patate, orzo, fave; in quelle più basse e ricche (intorno ai 2200 metri slm) coltivano mais, grano, ortaggi, frutta, ed hanno sviluppato l’allevamento del bestiame ovino e bovino. Vivono organizzati in piccole comunità autonome su terreni molto frazionati. La regione, per la sua posizione geografica e climatica, ebbe in passato grande importanza strategica, e costituì, alla fine del XV° secolo, uno dei confini dell’impero incaico. L’IncaTupac Yupanqui promosse l’emigrazione di coloni, funzionari e guerrieri, dalle provincie del Cusco (Perù) per assicurarsi contro le frequenti incursioni nemiche e avere un maggior controllo del territorio. I nuovi venuti si integrarono alle popolazioni esistenti, ed in alcuni casi le sostituirono; da questo processo ebbe inizio quella che oggi è l’etnia Tarabuco. L’abito tradizionale mantiene ancora parti di origine pre ispanica, mentre il copricapo degli adulti, uomini e donne, la “monte ra”, si ispira all’elmo spagnolo del XVI° secolo. Le donne indossano altri copricapi, che chiariscono agli estranei il loro stato, di nubili o sposate. Altro capo importante dell’abbigliamento femminile, comune alle due etnie, è l’axsu. Originariamente era un telo rettangolare di colore scuro che si avvolgeva intorno al corpo e si fermava su di una spalla. Ora le donne indossano sopra un camicione scuro l’antico axsu - di dimensioni ridotte dalle estremità riccamente decorate, fermandolo per mezzo di una cintura di lana. Il tessuto è una delle manifestazioni culturali più evidenti degli Jalq’a e Tarabuco. I motivi ornamentali riportano a canoni e significati diversi per le due etnie. La tradizione narra - ad esempio - che le antiche tessitrici tarabuco si ispirarono ai colori dell’arcobaleno; dall’ordito, realizzato in cotone bianco, risaltano in gradazioni di colore vivacissime animali in miniatura (cavalli, lama, passeri), scene di vita, matrimoni, feste religiose. Sono intervallati a motivi astratti, come il “k’enqo”, disegno a zig zag che rappresenta la via, il cammino rituale; e il “ñawi”, figura romboidale che rappresenta invece l’occhio umano. Fanno parte della mostra, un’ampia scelta di tessuti di raffinata esecuzione, veri “gioielli “, come: - axsu (telo rettangolare con motivi a rilievo, parte dell’abito tradizionale femminile) - llijlla (mantello femminile) - poncho (maschile, con i caratteristici toni di colore: dal nero al giallo per i Tarabuco, scuri per gli Jalq’a) - unku (piccolo poncho maschile di vario uso) - chuspa (borsa maschile per contenere la coca) - chumpi (cintura maschile e femminile) Gli abiti tradizionali maschili e femminili quotidiani e di festa i cappelli, i monili, ed i telai sono stati realizzati in varie comunità Tarabuco, e Jalq’a nell’ambito del progetto di sviluppo promosso dall’IFAD (Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo delle Nazioni Unite) e da Asur (Centro di investigazione antropologico del Sud Andino), che assicura alle lavoratrici, riunite in coperative un controllo rigoroso della qualità, credito e commercializzazione sicura del prodotto. Campesinos boliviani (1993, 28’) di Marco De Poli Dalla festa dell’Inti Raymi a Tiahuanaco, dove gli Aymara celebrano ogni 21 giugno il loro rito al Dio sole, a Potosì, dove 8 milioni di morti nelle miniere d’argento in 300 anni di dominio coloniale spagnolo segnano la nascita sanguinosa del capitalismo moderno. Oggi nel loro congresso, a Sucre, i campesinos boliviani, nella quasi totalità indigeni, ritrovano la coscienza dei propri diritti e della propria forza, basata sulle tradizioni comunitarie che ancora regolano la vita quotidiana e il lavoro nei campi. Non lontano da Sucre, a Tarabuco, gli indios sconfissero nel 1816 i soldati spagnoli, primo passo nell’indipendenza della Bolivia. Oggi i loro discendenti, gli indigeni Tarabuco (come i loro vicini Jalq’a,) conservano i modi di vita e i costumi originari, come risulta dallo straordinario lavoro tessile delle donne, e dalla festa del Phujillay con cui ogni anno ricordano con orgoglio quella antica vittoria. Mapuche, argenti e tessuti (Cile) Le origini dei Mapuche sono incerte, forse erano gruppi di cacciatori e raccoglitori nomadi provenienti dalle pianure argentine, o secondo altri autori da terre più a nord. Già verso il 600 A.C., come testimoniano scavi archeologici, esisteva una cultura che possiamo chiamare Mapuche, ubicata nella zona centro-meridionale dell’odierno Cile. I Mapuche si autodenominano “gente della terra”, da “mapu” terra, “che” gente, e la loro lingua, il “mapudungu”, è chiamata lingua della terra. È attualmente parlata da circa 400.000 persone, che abitano due regioni: l’Araucania e i Laghi. Nonostante la vastità e diversità del territorio occupato in origine, il mapudungu mantiene una grande unità fonetica, grammaticale e di vocaboli. All’arrivo degli Spagnoli la società Mapuche non era ancora organizzata con basi stabili sul territorio: il cacciatore era in pratica un guerriero, e procurava cibo cacciando animali. La pesca nei laghi e la raccolta di molluschi lungo la costa erano ricche, e l’abbondanza dei frutti silvestri consentiva la sopravvivenza senza un’agricoltura sedentaria. La profonda relazione dei Mapuche con la terra e gli elementi naturali non si limitava alla sussistenza materiale, ma coinvolgeva e coinvolge tuttora, in un’unica espressione spirituale, la rappresentazione del mondo, la vita e le forze soprannaturali. La famiglia era il centro della società e l’unica istituzione permanente; era molto ampia, ed era composta dai discendenti maschi del capo famiglia: nonni, padri, figli, nipoti, con le rispettive famiglie, che vivevano in un’unica casa di legno detta “ruka”. Nella seconda metà del XV secolo gli eserciti Incaici, provenienti dal Perù, si scontrarono con i Mapuche, che opposero agli invasori una feroce resistenza. Cento anni dopo nemmeno gli Spagnoli, al comando di Pedro de Valdivia, riuscirono a vincerli, e nel 1641 la corona di Spagna fu obbligata a riconoscerne l’autonomia. La prolungata guerra cambiò radicalmente la società mapuche: si introdussero nuove colture provenienti dall’Europa; pecore e mucche trovarono ricchi pascoli per moltiplicarsi. Già a partire dalla fine del secolo XVIII il bestiame veniva scambiato con monete d’argento (“peso forte”); questo commercio continuò e si accrebbe con l’indipendenza cilena. L’argento col quale erano coniate le monete non serviva ai Mapuche, che non attribuivano valore al denaro, per comprare altra merce, ma veniva fuso per fabbricare finimenti, bardature e pesanti gioielli. La sua lucentezza aveva profondi significati, e per questo era ambito e prezioso. Obbligati dopo a “pacificazione dell’Araucania” (1882) a vivere in riduzioni su piccoli appezzamenti di terra assegnati dallo stato, i Mapuche sopravvivono con un’economia agricola di sussistenza, e hanno perso la tradizione dell’argenteria. Molto forte è anche la migrazione verso le grandi città. Argenteria L’arte dell’ argenteria si evolse lentamente nei primi secoli della Colonia, e raggiunse la sua magnificenza e pienezza nella seconda metà dell’ottocento, creando attraverso l’argento gioielli che sono in qualche modo la materializzazione della spiritualità di un popolo. È questa l’arte luminosa, dai molteplici disegni che oggi conosciamo col nome di argenteria mapuche, e della quale possiamo ammirare gli esemplari superstiti in musei e collezioni private. Si calcola che oggi i pezzi antichi rimasti non siano più di 4000. I gioielli esposti provengono dalla collezione della Pontificia Università Cattolica di Temuco: Tupu. È il gioiello più antico di origine precolombiana ed è presente in tutta l’area andina: serve per fissare 10 scialle. Il modello esposto si compone di un disco d’argento dal diametro di 13 cm fissato a uno spillone, lunghezza totale 28 cm., con doppia lavorazione circolare a sbalzo, che secondo alcuni studiosi sarebbero ideogrammi della cosmogonia mapuche. Regni - regni o Runi - runi. Forse tra i più antichi modelli di argenteria mapuche; è composto da otto sottili tubicini d’argento: una moneta da 20 centesimi decora, nel l’esemplare esposto, il punto d’unione tra i segmenti superiori e inferiori. Sikel. Gioiello pettorale formato da 8 sottilissimi tubi di 10 cm. di lunghezza, uniti da perline d’argento e in pasta di vetro azzurre e rosse. Trapelacucha (Da: trapel = legare, acucha = ago, sostenuto da un ago). Si caratterizza per il grande pendente a croce. Il significato della croce non è quello legato al cristianesimo, ma è la rappresentazione dei quattro punti dell’universo. Prendedor. Questo gioiello è l’ultima creazione degli artigiani mapuche, verso la fine del secolo scorso, e non ha un nome indigeno. È il pezzo più complesso da eseguire; si compone di due placche - superiore ed inferiore – unite tra di loro da tre catenelle. La placca superiore è caratterizzata dal disegno di due uccelli, probabilmente i condor del sole (messaggeri degli dei). La placca trapezoidale inferiore rappresenta la madre terra creatrice degli uomini; le catenelle che uniscono tra loro i due segmenti sottolineano la distanza tra la terra ed il mondo celeste; infine i piccoli pendenti rappresentano gli antenati di ogni clan. Secondo questa interpretazione il “prendedor” sarebbe una specie di albero genealogico della razza mapuche. Prendedor o “retrihue”. Spilla formata da due passeri stilizzati con 5 pendenti di forma circolare detti “pin pin”. Ponshon. Evoluzione del “tupu”: è uno spillone appuntito alla cui estremità sono saldate due semisfere cave, unite insieme a formare una palla dal diametro da 6 a 12 cm. Dalla sommità della palla pende una croce. Serviva per sostenere gioielli che non potevano essere fissati direttamente a ll’abito. Bolivia Salomè indossa l’abito tradizionale delle donne Tarabuco Bolivia Irupampa, donna Jalq’a al telaio Cile Donne Mapuche con monili tradizionali del XIX secolo Cile Manta (poncho) del cachique Guatemala Donne di Nebaj in abiti quotidiani e da cerimonia Guatemala Donne di Chichicastenango al mercato Panama Donna Kuna con abito tradizionale con mola e gioielli Panama Realizzazione di una mola Trarilonko Da: “trari” = legare, “lonko” = testa (legatesta). Rappresenta l’evoluzione delle fasce di lana ornate di fiori e piume con le quali i Mapuche solevano cingersi la fronte. Creato nel secolo scorso, è formato da una catena d’argento composta da placche rettangolari, unite tra di loro da anelli dai qua li pendono monete o piccoli dischi d’argento con incisioni a sbalzo. La lunghezza di questo gioiello è di circa 60 cm. e pesa 200 grammi. Piran Ngutroe. È così chiamata la fascia di lana coperta totalmente o parzialmente da piccolissime semisfere dette “Ilef-Ilef”. Serve per avvolgere le trecce; il tessuto utilizzato è di 5 cm. di altezza, lungo dai 2 ai 4 metri. La realizzazione delle piccole sfere richiedeva argento di prima qualità, e pazienza infinita per laminare il metallo, tagliarlo e curvarlo, battendo i piccoli dischi su di un apposito attrezzo di legno, forarne le due estremità ed infine cucirle. L’esemplare presentato è decorato da 1700 Ilef-Ilef! L’argenteria mapuche è l’ultima tardiva erede della millenaria metallurgia andina, che dalla Colombia si è estesa a Ecuador, Perù, nord del Cile, nordovest argentino. Oggi questa arte si è praticamente estinta: solo istituzioni come l’Università di Temuco, nel quadro della ripresa di interesse per le culture originarie d’America, cercano di ridar vita a questa forma espressiva che è, di fatto, scomparsa, anche per l’estinzione degli antichi artigiani, eredi della conoscenza e delle tecniche tradizionali. Indios del cono sud (1992, 25’) di Marco De Poli Nel Nord Ovest argentino, verso il confine con la Bolivia, si estendevano le ultime propaggini dell’impero degli Incas, i cui discendenti hanno ancora molti tratti in comune con le popolazioni indie andine. Più a sud, nella zona di Salta vivono di agricoltura e allevamento comunità di indios Diaguites. Un’altra importante etnia indigena si trova nel Cile meridionale: sono i discendenti dei fieri Mapuche, circa 600.000, che hanno resistito fino a cento anni fa alla conquista spagnola e ai tentativi di colonizzazione repubblicana. Al mercato di Temuco confluiscono i prodotti dell’artigianato, dell’agricoltura e della pesca dei Mapuche; che vivono nella tipica capanna (“ruca”) e conservano le cerimonie religiose delle loro maghe (“machi”). “Huipiles” delle donne maya (Guatemala) La civiltà Maya fiorì tra il III e il XVI secolo in America Centrale, dal sud del Messico fino agli attuali Guatemala, Belize, Salvador e Honduras. Le imponenti rovine di Tikal, Copan, Chichen Itzà, Palenque, costituiscono una testimonianza vivente del suo splendore. L’umidità del clima non permise ai tessuti Maya di conservarsi fino ad oggi, ma l’archeologia e l’etnostoria ci consentono di ricostruire la loro arte tessile, sostanzialmente simile a quella attuale. Si tesseva, come oggi, usando un telaio di cintura, formato da vari bastoncini di legno: quelli alle due estremità sorreggono l’ordito (fili longitudinali), e sono tesi con una corda fissata da una parte ad un chiodo o a un albero, dall’altra, per mezzo di un cinturone, alla vita della tessitrice. Anticamente si tingeva il cotone grezzo prima della tessitura: le tinture naturali erano estratte da minerali e vegetali, poi macinate nei mortai. Il colore nero si otteneva dal carbone, dall’ idrossido di ferro e dalle foglie delle more, il rosso sia da minerali che da vegetali come l’achiote e il pau brasil, il blu da un particolare tipo di argilla. Altri colo ri si ottenevano da piante come il pomodoro selvatico. Il colore più difficile era il viola, che era ottenuto da un mollusco, la “purpura patula”. Il carminio più pregiato invece si otteneva dalla cocciniglia. Le donne Maya delle zone temperate furono obbligate verso il 1700 dai missionari a coprirsi il seno, imponendo nella cultura un tabù sessuale prima sconosciuto. Quello che noi oggi chiamiamo abito tradizionale, è il prodotto dei cambiamenti verificatisi negli ultimi tre secoli; ciònonostante a l donna conserva una nettissima impronta Maya, mentre per l’uomo predominano indumenti di foggia occidentale. L’importanza dell’abito tradizionale femminile nelle comunità indigene guatemalteche è una manifestazione culturale con molti significati. L’abito si diversifica per età, ruo lo, sesso e occasione; inquadra l’individuo all’interno della comunità, ne segna l’appartenenza e rappresenta l’orgogliosa rivendicazione della propria identità etnica. In Guatemala sopravvivono attualmente 21 gruppi etnolinguistici (il 70% della popolazione). L’abbigliamento femminile, ancora indossato dalla grande maggioranza delle donne, è composto da: - huipil: una blusa di cotone, realizza ta con uno, due o tre pezzi di stoffa tessuti su telaio di cintura e cuciti longitudinalmente. Al centro un’apertura rotonda, quadrata romboidale, spesso guarnita da ricchi ricami, consente il passaggio della testa; lateralmente, sotto l’apertura delle braccia, bordi possono essere cuciti o sovrapposti. - soprehuipil: huipil da cerimonia; - corte: gonna costituita da un pezzo di tessuto cucito alle estremità, così da formare una specie di tubo che si modella intorno alla vita; - faja : cintura tessuta a telaio che serve per reggere la gonna; - tzute: stoffa quadrata o rettangolare che serve come copricapo o per trasporta re oggetti; - cinta: nastro che serve ad ornare i capelli. La mostra espone capi di abbigliamento provenienti da differenti comunità. - Huipil Sololà. Le donne di Sololà usano un huipil particolare, uno dei pochi con maniche vere. Realizzato su telaio di cintura, e composto da due pezzi di 2 m x 34 cm che servono per il corpo, il terzo pezzo di 50 x 35 serve a confezionare le maniche. Si porta dentro la gonna con le maniche arrotolate sopra il gomito; le pieghe servono come portamonete. Il huipil è usato sia al diritto che al rovescio perché non si consumi troppo. I disegni a broccato rappresentano: cane, cerbiatto, spina di pesce, ala di gallina. - Huipil San Pedro Sacatepequez. Sobrehuipil da cerimonia con disegni a broccato che rappresentano l’albero della vita. È utilizzato dalle capitane delle confraternite e dalle spose per il matrimonio religioso. Per la sua doppia funzione porta disegni di “chompipe” (tacchino) che fa parte dei doni tradizionali che la famiglia dello sposo fa in occasione delle nozze. - Huipil San Juan Sacatepequez. Di uso quotidiano: in lingua kaqchikel è chiamato “k’aqoj po’t”, che vuol dire huipil di cotone caffè; per il tipo di filato anticamente utilizzato nell’ordito, che per la misura del filo non poteva essere lavorato a macchina, continuò ad essere filato a mano per molti anni, fino a quando le tessitrici decisero di usare cotone industriale bianco tinto color caffè. - Huipil Nacahuil. Risalente agli anni 40, di uso quotidiano: a l parte broccata molto lavorata copre praticamente il tessuto base bianco. - Huipil Chichicastenango. I disegni tradizionali rappresentano elementi importanti della cosmovisione Maya. In questo huipil a tre lembi (telaio di cintura) sono notevoli il disegno del sole intorno al collo e il “kot”, ’laquila, animale mitico raffigurato nel lembo centrale. - Huipil Nahualà. Nel disegno centrale è rappresentata una stuoia (petate) che in epoca preispanica era associata alla nobiltà, perché i nobili usavano questo tipo di stuoia per sedersi. - Sobrehuipil Nahualà. Appartiene a una confraternita, ed è caratterizzato dal disegno del “kot”, l’aquila. Le aperture per le braccia sono molto piccole visto che non servono allo scopo. Questo capo era indossato dalle capitane della confraternita con le braccia incrociate sotto il huipil. - Huipil Zacualpa. Confezionato con due lembi a telaio di cintura, è caratterizzato dalla forma del broccato a zig zag; la tela e i disegni sono eseguiti con cotone industriale. - Huipil Nebaj. Di uso quotidiano, si confeziona con tre lembi tessuti su telaio di cintura. Il lembo centrale e più ampio di que lli laterali; in questo esemplare si notano alcuni disegni eseguiti dalle tessitrici, come il cavallo, la ragazza, il colibrì. Nelle forme romboidali si evidenziano “jarritos”, recipienti per caffè o altre bevande, e panieri. - Huipil Chajul (bambina). Tra la popolazione Maya le bambine usano indumenti che sono la replica in miniatura di quelli delle madri. Di uso quotidiano, su fondo rosso con disegni di uccelli. - Huipil Chajul. A due lembi, corto e semplice; il collo è ricamato a mano con materiali preziosi (in questo, seta). È usato dalle capitane della confraternita. - Huipil Cotzal. Di uso quotidiano a tre lembi, su telaio di cintura; il lembo centrale è più largo dei laterali ed i disegni a broccato sono più fitti. - Huipil Todos Santos. Di uso quotidiano, a tre lembi, su telaio di cintura con disegni a broccato solo nella parte centrale; generalmente gli esemplari i più elaborati hanno disegni anche sui lembi laterali. La bordatura del collo è uno dei motivi distintivi degli huipiles di questa località. - Huipil S. Juan Atitàn. È molto lungo e si indossa in modo particola re, portato sopra la gonna con la parte inferiore arrotolata in modo da formare una specie di sacca. Questo esemplare di buona fattura, realizzato forse per il mercato esterno, è più corto di quelli usati nella comunità. - Huipil Colotenango. Esemplare molto elaborato, realizzato su telaio di cintura a tre lembi; è un huipil di festa, usato per la messa domenicale e le riunioni in piazza. - Huipil Tamahù. Tessuto su telaio di cintura, questo esemplare di tipo tradizionale è a tre lembi: quello centrale rosso, i laterali bianchi. Alcuni dei disegni a broccato rappresentano elementi della natura come pioggia e grandine. Piuttosto corto, si porta sulla gonna rossa. Il documentario Gli eredi dei Maya (1992, 26’) è stato realizzato da Marco De Poli. Dalle maestose rovine di Copan e Tikal, che testimoniano la straordinaria civiltà fiorita tra le popolazioni Maya precolombiane, alle attuali condizioni di vita degli indigeni del Guatemala: il mercato Chortì a Jocotan e quello Quichè di Chichicastenango, con i riti religiosi ne lla chiesa di San Tomas e il “Baile de moros y cristianos” nella piazza principale. Ci si sposta poi nel Triangolo Ixil, sull’altopiano al confine col Messico, duramente colpito dalla repressione militare contro la guerriglia. Siamo nei giorni intorno al Natale, in cui si mischiano elementi della fede cristiana e della religiosità autoctona India: come la “Cerimonia del maggiordomi” e le “posadas” a Nebaj; la messa della “noche buena” a Chajul. A queste espressioni di festa fanno da contraltare quelle del lavoro, soprattutto tessile, dato che l’abito tradizionale costituisce per le donne del Guatemala il simbolo della propria collocazione sociale e l’orgogliosa difesa della identità culturale. Figura di cavaliere Chajul “Molas” dei Kuna (Panama) I Kuna sono una popolazione di lingua chibcha, composta di circa 30.000 persone (una cinquantina di comunità) che vivo no da oltre un secolo nelle numerosissime isole dell’arcipelago di San Blas, sulla costa atlantica di Panama, dove si sono rifugiati per sfuggire alla penetrazione degli stranieri. Abitano in villaggi formati da capanne di canne, col tetto di foglie e il pavimento di terra battuta, dormendo in amache tessute. La pesca, in canoe scavate in un unico tronco d’albero, e l’agricoltura (banane, cocco, yucca, ananas, cacao, mais, riso) sono le loro principali fonti di sussistenza. L’organizzazione sociale è basata sul consiglio, presieduto dai “saila” (capi tradizionali, scelti per la loro saggezza), al quale partecipano tutti gli adulti del villaggio. La famiglia è piuttosto numerosa: i figli maschi quando si sposano abbandonano la famiglia d’origine e vanno ad abitare presso quella della moglie. L’abbigliamento femminile, a differenza di que llo maschile, è costituito quasi esclusivamente dall’abito tradizionale, simbolo stesso del mondo kuna, realizzato con tessuti di cotone importati (e quindi costosi). È composto dalla gonna - il “sapuret” -lunga fino al polpaccio, formata da un semplice telo rettangolare di fondo blu stampato a disegni fantasia gialli, fermato alla vita. La blusa è a giro collo con mezze maniche a palloncino. Sul petto e sulla schiena vengono applicate sulla blusa due “molas” uguali, a motivi ornamentali e simbolici. La testa è coperta da un fazzoletto, anch’esso di cotone, generalmente a fondo rosso con disegni gialli. Completano l’abbigliamento vari ornamenti: l’anello al naso (d’oro); collane ricchissime in sottile lamina d’oro per i giorni di festa, o più semplicemente, nell’uso quotidiano, di perline di vetro e conchiglie forate. Alle braccia ed alle gambe portano attorcigliati lunghissimi fili di perline multicolori dai disegni geometrici. Per il trucco usano colo ri vegetali: rosso per le guance, mentre col nero tracciano una linea sottile dalla fronte alla punta del naso. Uakala (Scheletri di pesce) - Mola La mola Fino ad una ventina di anni fa le molas erano quasi sconosciute al di fuori di Panama; oggi sono considerate tra le espressioni artistiche più significative di arte popolare, e collezionate in molte parti del mondo. La mola e realizzata sovrapponendo due o più pannelli di cotone, tagliati ed orlati in modo da far apparire i colori dei pannelli sottostanti. Confezionata a mano dalla donna kuna - un lavoro che impara a partire dai sei anni - questa composizione singolare è basata sul ritaglio, la sovrapposizione e la cucitura di stoffe multicolori, composte in modo da creare disegni geometrici e figurativi di grande bellezza. Questa tecnica complicata non è usata nè dai popoli indigeni confinanti, nè da alcuna altra cultura al mondo. Il colore ha un ruolo molto importante e un intrinseco significato magico. I colori usati per il primo strato - il fondo - sono il rosso vermiglio, il carminio, l’arancio, il nero; i colori dei successivi strati, che possono variare da tre a sei, sono comunemente il giallo limone, l’ocra, il porpora, il verde oliva, il blu di prussia. I soggetti possono essere divisi in due categorie: temi tradizionali o di ispirazione esterna. I primi sono di tipo geometrico, mitologico, stilizzazioni di pesci, serpenti, uccelli, insetti. Frequenti sono il motivo della fertilità (rappresentato dalla tartaruga), ed il motivo del labirinto (l’uomo prigioniero di se stesso). Dio nella simbologia kuna è rappresentato dal numero perfetto: l’8. I disegni più riusciti vengono copiati, e i soggetti di ispirazione attuale possono essere i più svariati, dalla lattina di coca-cola a Superman. La mola, anche se oggi ha conquistato un suo spazio nei circuiti commerciali dell’artigianato, continua ad essere essenzialmente un prodotto per l’autoconsumo, perchè è parte integrante dell’abito etnico femminile. La mostra espone una quarantina di molas, confezionate da Edilma Icaza De Stanley e dalle donne di Ustupu, scelte con motivi tradizionali: uccelli, animali domestici e figure geometriche simboliche. Accanto ad abiti completi tradizionali femminili, sono esposti oggetti d’uso quotidiano e foto. Il video Kuna di Panama (1991, 18’), girato da Paola Sestagalli e stato montato da Marco De Poli. I Kuna sono gli abitatori originali della costa atlantica di Panama. Attualmente vivono su un arcipelago di isolotti che costituiscono la Comarca di San Blas, mantenendo una propria autonomia amministrativa e conservando i propri usi e costumi tradizionali, in un delicato e ammirevole equilibrio tra uomo e natura che può dare un’idea della situazione delle popolazioni indigene americane 500 anni fa, prima dell’arrivo di Colombo e della “civiltà” europea. Nacruz (Disegno cruciforme) – Mola Questo motivo tradizionale è precedente alla cristianizzazione Oltre il vestito - L’Amazzonia mitica e quella reale: arte plumaria e pitture corporali (Brasile) La mostra vuole fornire un percorso didattico e storico, dalle stampe di Giulio Ferrario dei primi dell’800 fino a foto di attualità. Propone una raffinata selezione di arte plumaria: diademi, pettorali, bracciali, maschere rituali, realizzati con piume multi colori; usati ancor oggi, accanto alle pitture corporali, come “vestito” dalle etnie native brasiliane: espressione di culture “diverse”, che hanno mantenuto la loro identità ed originalità, nonostante le pesanti influenze delle va ne colonizzazioni, conservando un profondo legame con la terra. Tessuti delle donne nahua e otomì (Messico) Tessuti provenienti dallo Stato di Puebla (Messico); in particolare: - dalla regione di Cuetzalan, dove le donne nahua, partendo dalla tradizione preispanica, hanno elaborato scialli, cami cie, mantelli tessuti e ricami; - dalla regione di San Pablito Pahuatlán, celebre per i suoi ricami in “chaquira”, perline di vetro multicolori, che impreziosiscono con i loro elaborati disegni le camicie tradizionali delle donne otomì. Bibliografia essenziale: - II Libro di Chilam-Balam (testi Maya del XVI secolo), Padova 1989 - Popol Vuh - Le antiche storie del Quichè, Torino 1981 - Commentari reali degli Incas, Garcilaso de la Vega (1609/17); Milano 1987 - Storia Indiana della conquista del Messico, B. de Sahagùn (1530); Palermo 1983 - La visione del vinti, N. Wachtel;Torino 1977 - La conquista dell’America, S. Todorov; Torino 1988 - Racconti Atzechi della conquista; S. Todorov - Cronisti delle Indie, S. Serafin; Cisalpino Goliardica - L’America tra reale e meraviglioso: scopritori, cronisti, viaggiatori, AA.VV.; Bulzoni - Dalla scoperta alla conquista, L. N. MacAlister; Bologna 1990 - Memorie del fuoco (3 vol.), E. Galeano; Firenze 1989 - Mi chiamo Rigoberta Menchù; Giunti 1989 - America Latina: guida storico politica, M. Lemoine; Roma 1989 - Storie e conflitti del Centroamerica, D. Pompeiano; Firenze 1991 - Capitalismo e sottosviluppo in America Latina, A.G. Frank; Torino 1969 - La lingua lacerata di Malinalli, (la donna nella storia latinoamericana) Roma 1991 - Le Americhe e la civiltà, D. Ribeiro; Torino 1974 - Etnologia e storia del continente americano, I. Signorini; Tilgher - Introduzione al Guatemala, G. Squadroni; Milano 1992 Urihi ha pubblicato i segue nti saggi sulle varie etnie: - Gli eredi del Maya, Linda Barrios 1991 - Mapuche del Cile, G. Cossia, 1992 - Kuna di Panama, M. Squillaciotti - Jalq’a e Tarabuco, V. Cereceda 1994 - Oltre il vestito, AA. VV. 1995 URIHI significa “terra” nella lingua degli Yanomami, una delle ultime etnie indigene dell’Amazzonia brasiliana, oggi come molte altre minacciata di distruzione. L’associazione Ufficio Ricerca Indigeni, Habitat e Interdipendenza nasce in seguito al convegno degli Indiani d’America (Milano, febbraio 1988), come progetto di scambio reciproco di informazione e comunicazione tra il Sud e il Nord. URIHI si propone come strumento per: - rompere il monopolio della informazione e la parzialità dei grandi canali di comunicazione, nell’ipotesi di creare un circuito di documentazione e diffusione alternativa; - contribuire ad un’apertura alla mondialità e alla crescita di una maggiore sensibilità ed attenzione ai rapporti problematici tra il nord ed il sud del mondo; - stimolare la partecipazione diretta, la responsabilità, la solidarietà, nel rispetto di culture e modi di vita diversi, nella speranza di superare la contrapposizione che oppone i due mondi. URIHI offre: - una struttura di servizio per istituzioni, enti pubblici, ONG, e per tutte quelle realtà che desiderano realizzare e diffondere pubbli cazioni, inchieste giornalistiche, reportages, documentari, sulle tematiche suddette; - materiale bibliografico, fotografico, musicale e video; - una struttura produttiva completa per riprese e montaggio in video a livello professionale (VHS, SuperVHS, Video 8, Hi8, 3/4” U-Matic e BVU, Betacam); - transcodifiche dal sistema americano (NTSC) a quello europeo (PAL) e viceversa; - duplicazione di videocassette ed edizione italiana di video stranieri. URIHI organizza: - cicli di conferenze, dibattiti, rassegne cinematografiche e video, mostre, contatti e scambi culturali tra scuole e associazioni italiane e dei paesi in via di sviluppo. Si rivolge particolarmente alle scuole, con programmi educativi e iniziative concrete di solidarietà. URIHI si sostiene: - attraverso il lavoro volontario dei soci, il contributo degli aderenti e delle varie istituzioni pubbliche e private, italiane e internazionali, con le quali collabora per la realizzazione di progetti specifici. Ufficio Ricerca Indigeni Habitat Interdipendenza Via San Marco 24 – 20121 Milano (Italia) – tel. 02/6575639 – fax 6599301