Hiroshi Sugimoto - Fondazione Fotografia Modena
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Hiroshi Sugimoto - Fondazione Fotografia Modena
Hiroshi Sugimoto Stop Time Sede espositiva Orari di apertura Modena, Foro Boario Via Bono da Nonantola 2 Da mercoledì a venerdì 15-19 Sabato e domenica 11-19 Periodo di apertura Biglietti d’ingresso 8 Marzo – 7 Giugno 2015 L’ingresso per le scuole è gratuito Informazioni e prenotazioni Ufficio Mostre - Rif. Chiara Dall’Olio Tel. 059 6139623 mail [email protected] www.fondazionefotografia.org Incontro con i docenti mercoledì 18 marzo ore 16,00 Le visite per le scuole in orari diversi da quelli di apertura delle sale mostra possono essere richieste nelle sole giornate di martedì, mercoledì e giovedì e prenotate allo 059 6139623 o all’indirizzo [email protected] (attenzione il numero telefonico per le informazioni e prenotazioni è cambiato). 1 Modena - Dall’8 marzo al 7 giugno 2015 Fondazione Fotografia Modena presenta negli spazi espositivi del Foro Boario di Modena una mostra antologica dedicata a Hiroshi Sugimoto, tra i più autorevoli interpreti della fotografia contemporanea internazionale. Il percorso, a cura del direttore di Fondazione Fotografia Modena Filippo Maggia, ripercorre l’intera carriera dell’artista, presentando alcune pietre miliari della sua ricerca. Artista poliedrico, Hiroshi Sugimoto ha iniziato a fotografare a metà degli anni settanta, sotto l’influenza delle correnti del Minimalismo e dell’Arte Concettuale. La scelta dell’uso del bianco e nero, l’attenzione per la luce che nelle sue foto diventa materia, la composizione rigorosa e perfetta, la ricerca di volumi lineari, sono divenuti negli anni una costante delle sue opere al pari della grande cura riservata sia alla ripresa, effettuata sempre con una fotocamera analogica con negativi di grande formato, che alla stampa. L’indagine dell’artista si concentra sul concetto del tempo, il suo scorrere inesorabile e la percezione che di esso ha l’uomo, costantemente combattuto fra il desiderio di bloccarne l’avanzata, o almeno di riuscire a trattenerne un frammento, e l’anelito all’eternità. Stop Time presenta una selezione di opere tratte dalle serie fotografiche più celebri realizzate in quarant’anni di carriera: Dioramas, Theaters, Seascapes, Portraits, Architecture, Photogenic Drawings, Lightning Fields. Alle fotografie si aggiunge per la prima volta la presentazione delle cinquantuno monografie dedicate all’artista e pubblicate in tutto il mondo dal 1977 al 2014. Le serie, nate in epoche differenti, sono visivamente molto diverse, ma al contempo sono parti di un’idea unitaria più ampia, come spiega l’artista: “Ho ripercorso le vie che condussero Daguerre e Talbot a inventare la fotografia. Da quasi 180 anni è la fotografia a determinare il modo in cui l’uomo guarda la propria storia e percepisce il mondo. Grazie alla fotografia, la nostra storia collettiva è stata immortalata, archiviata e ripetutamente passata al vaglio fino alla banalizzazione, tanto da poter dire quasi che, da allora, la storia è ‘vera storia’ solo dopo che la fotografia ha svolto la sua parte. Il giorno in cui l’uomo realizzerà il desiderio profondo di fermare il tempo si sta avvicinando inesorabilmente. Il tempo esiste unicamente grazie alla percezione umana; e dunque solo quando l’umanità sarà scomparsa dalla faccia della terra potremo dire davvero di aver fermato lo scorrere del tempo. Non ci vorrà molto.” Tematiche correlate Realtà e finzione nell’opera d’arte Rilettura del tempo e della storia attraverso il mezzo fotografico Minimalismo e Arte Concettuale Architettura modernista Esperimenti scientifici del XIX secolo su luce ed elettricità Gli esordi della fotografia: Talbot e il calotipo 2 Biografia Hiroshi Sugimoto è nato nel 1948 a Tokyo. Dopo aver seguito corsi di sociologia, economia e scienze politiche ed essersi laureato alla Rikkyo University (Saint Paul’s University) di Tokyo nel 1970, si è trasferito a Los Angeles per studiare fotografia all’Art Center College of Design. Nel 1974 si è spostato a New York dove tuttora vive e lavora. Artista poliedrico, Sugimoto ha iniziato a fotografare nella metà degli anni settanta sotto l’influenza delle correnti del Minimalismo e dell’Arte concettuale che in quel periodo dominavano la scena artistica americana. La scelta dell’uso costante del bianco e nero, l’attenzione per la luce che nelle sue foto diventa materia, la composizione rigorosa e perfetta e la ricerca di volumi lineari diventano una costante delle sue opere, al pari della grande cura riservata sia alla ripresa, effettuata sempre in modo analogico con negativi di grande formato, sia alla stampa. L’indagine dell’artista si concentra sul concetto del tempo, il suo scorrere inesorabile e la percezione che di esso ha l’uomo, costantemente combattuto fra il desiderio di bloccarne l’avanzata – o almeno di riuscire a trattenere un frammento della realtà – e l’anelito all’eternità. Per diversi anni Sugimoto ha affiancato alla pratica artistica la professione di antiquario, che gli ha dato l’opportunità di entrare in contatto e di collezionare oggetti e opere d’arte di diversi periodi, afferenti soprattutto alla storia del Giappone. Questo ha indubbiamente influenzato la sua ricerca artistica; lo studio storico si è tramutato in riflessione filosoficoartistica concretizzandosi poi in allestimenti espositivi estremamente scenografici, in cui le fotografie sono affiancate da manufatti del passato: un intreccio di relazioni sofisticate tese a evocare la complessità della stratificazione dei significati che l’opera d’arte assume nella sua relazione con lo svolgersi del tempo. Sugimoto organizza la propria produzione fotografica per serie, gruppi di fotografie omogenee che sviluppano nell’arco di anni il suo pensiero in relazione ad alcuni soggetti che, più di altri, stimolano la sua ricerca: i teatri, i mari, i diorami, le statue di cera di personaggi celebri, le architetture moderne, l’elettricità, gli oggetti trovati sulla spiaggia. Dioramas (1976 - 2012) e Theaters (1976, in progress) sono le prime serie in ordine cronologico alle quali l’artista ha lavorato. Seguono poi Seascapes (1980, in progress), Architecture (1997, in progress), Portraits (1994 - 1999), Conceptual Forms (2004), Joe (2004), Photogenic Drawings (2008-2010), Lightning Fields (2006, in progress). Fra gli ultimi progetti ricordiamo Accelerated Buddha (2013) che, presentato alla Fondation Pierre Bergé – Yves Saint Laurent di Parigi, rivisita la serie Seas of Buddha del 1995, e Aujourd’hui le monde est mort [Lost Human Genetic Archive], un allestimento realizzato nel 2014 al Palais de Tokyo di Parigi dove l’artista ha messo in scena il mondo visto da un futuro in cui la razza umana si è estinta, utilizzando opere fotografiche e oggetti della sua collezione d’arte. Sugimoto ha sperimentato differenti linguaggi espressivi, nonostante la fotografia mantenga sempre un posto prevalente nella sua produzione. Ha curato il design e la pubblicazione di numerosi volumi (in mostra ne vengono presentati 51) stampati negli Stati Uniti, in Giappone e in Europa: dal primo catalogo per la mostra alla Minami Gallery di Tokyo nel 1977 ai recentissimi On the Beach e Hiroshi Sugimoto: Dioramas (2014). Nel 2008 ha aperto il proprio studio d’architettura, il New Material Research Laboratory, con cui ha firmato nel 2009 il progetto dell’Izu Photo Museum a Mishima, Shizuoka, Giappone. Il suo interesse per la riscoperta e la rivisitazione delle arti del teatro classico giapponese lo ha portato nel 2001 a produrre e dirigere la performance di teatro Noh Yashima al Dia Center di New York. Nel 2009 ha creato la Odawara Art Foundation, il cui scopo è quello di aprire nuove prospettive sulla storia attraverso la promozione delle arti e del teatro classico giapponese e la realizzazione di mostre di oggetti d’arte giapponese. Nel 2013 ha realizzato la performance Sanbaso: Divine Dance al Solomon R. Guggenheim Museum di New York. Nello stesso anno ha seguito la direzione artistica e la messa in scena dello spettacolo di marionette tradizionali giapponesi Sugimoto Bunraku “Kannon Pilgrimage” tratto da The Love Suicides at Sonezaki, rappresentandolo in diverse capitali europee (Madrid, Roma, Parigi). Hiroshi Sugimoto è considerato uno dei più autorevoli autori della fotografia contemporanea. A partire dalla fine degli anni settanta i suoi lavori sono stati esposti in innumerevoli mostre monografiche e collettive organizzate in tutto il mondo, così come numerosi sono i premi e i riconoscimenti che gli sono stati conferiti. Tra le maggiori personali ricordiamo quelle presso The J. Paul Getty Museum, Los Angeles 3 (2014), Leeum Samsung Museum of Art, Seoul (2013), Hara Museum of Contemporary Art, Tokyo (2012), Neue Nationalgalerie, Berlino (2008), de Young Museum, San Francisco (2007), Hirshhorn Museum, Washington, DC (2006), Mori Art Museum, Tokyo (2005), Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi (2004), Serpentine Gallery, Londra (2003), Guggenheim Museum, Bilbao e Berlino (2000), Metropolitan Museum of Art, New York (1995), Kunsthalle Basel, Basilea (1995) Museum of Contemporary Art, Chicago (1994), The National Museum of Art, Osaka (1989). Nel 1988 ha ricevuto il Manichi Art Prize e nel 2001 il suo lavoro è stato premiato con il prestigioso Hasselblad Foundation International Award. Ha vinto il 21° Praemium Imperiale nel 2009, la Medaglia d’onore con nastro viola conferita dal governo giapponese nel 2010 e nel 2013 è stato nominato Officier de l’ordre des Arts et des Lettres dal governo francese. Le sue fotografie appartengono alle collezioni dei maggiori musei del mondo fra cui: Museum of Modern Art, New York, The Metropolitan Museum of Art, New York, San Francisco Museum of Modern Art, Tate Gallery, London, The National Gallery, London, The National Museum of Modern Art, Tokyo, Museum of Contemporary Art, Tokyo, Smithsonian Institute of Art, Washington, DC. 4 Hiroshi Sugimoto, la fotografia corpo del tempo di Filippo Maggia Testo dal catalogo: “Hiroshi Sugimoto Stop Time”, Milano, Skira, 2015 L’indagine del passato e la necessità di raffigurare un tempo dandogli corpo attraverso la fotografia caratterizzano la pratica artistica di Hiroshi Sugimoto (Tokyo, 1948) sin dai suoi esordi. Riconoscere il mondo e restituirlo al nostro sguardo contemporaneo completato del senso e del valore di cui è andato arricchendosi nei secoli presuppone anzitutto un lungo processo di elaborazione interiore, di riflessione, di insistenti domande che rivolgiamo a noi stessi e che muovono, tutte, dal bisogno di scoprire oltre che dalla sete di conoscenza. Scoprire, sperimentando, per capire. Del resto, non esiste arte senza invenzione. Nella serie dei Dioramas (1976-2012), avviata l’anno successivo al suo arrivo a New York (dove tuttora il fotografo giapponese risiede alla pari di Tokyo), il punto di vista è quello, semplice, dell’osservatore, consapevolmente estraneo alla scena come molte volte lo è il fotografo, al di là di ciò che sta accadendo. Il diorama, ambientazione organizzata dietro a un vetro, è una fotografia già fatta e Sugimoto ne esalta il voler essere vero sino a renderlo reale, specificando al contempo la sua valenza storico-scientifica. Una ricerca del vero che diviene quasi ossessiva e imprescindibile negli eterni Seascapes (1980, in progress), purezza dello sguardo su un’infinita distesa d’acqua che tale e quale doveva apparire millenni or sono agli occhi degli antichi, ancora oggi depositaria di tanta storia nel suo lento e autorevole approdare alla riva. Anche le immagini dei Theaters (1976, in progress) raccontano di un tempo, questa volta ben delimitato da un inizio e da una fine (il tempo della pellicola che viene proiettata sullo schermo coincide con quello dell’esposizione), che infine si manifesta come un rettangolo bianco al centro dell’immagine: un’autentica duplice visione, di quello che è stato il flusso di immagini risolto nel bianco abbacinante dello schermo e di quanto contestualmente è andato apparendo da esso illuminato (il teatro, appunto), come su un foglio fotografico immerso nella soluzione di sviluppo. Fotografia che rivela dunque, che alle volte riscopre e addirittura intimorisce nella sua schietta fedeltà al reale, come nella serie Chamber of Horrors (1994-1998), o che compete con la pittura, sostituendosi ad essa nel ritrarre i leader del passato e di oggi, Portraits (1994-1999). Fotografia che sperimenta e disegna con l’elettricità nei Lightning Fields (2006, in progress) e che timorosamente scava nel suo lontano passato, ritornando alle origini per completare quanto rimasto incompiuto da uno dei suoi grandi interpreti nei Photogenic Drawings (2008-2010), positivi inediti di negativi mai stampati da Henry Fox Talbot. Risulta ora evidente, ripercorrendo il cammino artistico di Sugimoto, come la sua altro non sia che una incessante sfida alle potenzialità che la fotografia offre all’artista, come tecnica, linguaggio e strumento di interpretazione del mondo, specialmente se accompagnata ad una altrettanto approfondita e accanita pratica di altre discipline, quali il design e l’architettura. In questo particolare approccio, meditabondo, lento, giustamente prudente, sentire il tempo avendone piena coscienza e rispetto è regola fondamentale. L’importanza del tempo e di come esso fluisce e si deposita in quanto spazio, anche fisico, ove l’esperienza si consuma, si evidenzia nella serie Architecture (1997, in progress), di cui vengono proposte opere in parte realizzate per la recente Biennale di Architettura di Venezia, ospitate in una piccola ma preziosa mostra presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, istituzione con cui Fondazione Fotografia Modena da anni collabora nella produzione di importanti esposizioni. Esse dimostrano come l’interesse di Sugimoto per il primo modernismo in architettura progressivamente muova dai volumi alle strutture e al rapporto di queste con l’ambiente circostante grazie a una sapiente lettura della luce. Il particolare sistema di ripresa utilizzato dal fotografo giapponese permette di ottenere un’immagine nella quale il soggetto ritratto appare come indefinito, eppure ben percepibile, a noi prossimo, palpabile come se la sua superficie fosse a portata di mano. E con essa la sua storia, il suo esistere perpetuo nel tempo, reso ancora più definitivo dall’immutabilità della fotografia, come l’artista medesimo ricorda in chiusura del testo che accompagna la mostra: “Da quasi 180 anni è la fotografia a determinare il modo in cui l’uomo guarda la propria storia e percepisce il mondo”. 5 Fermati tempo di Hiroshi Sugimoto (estratto da “Hiroshi Sugimoto Stop Time”, Milano, Skira, 2015) Circa 180 anni fa l’invenzione della fotografia ha radicalmente mutato il nostro modo di guardare il mondo. “Collezionare fotografie è collezionare il mondo”, sostiene Susan Sontag. La realtà è preda di un moto perenne e inarrestabile, ma quando viene fermata nelle immagini si trasforma in singoli frammenti temporali, immobili, paragonabili alle farfalle fissate con gli spilli sulle tavole di zoologia per essere esaminate. Il mondo deve essere convertito in immagini fotografiche per poterlo osservare e comprendere adeguatamente, allo stesso modo in cui, per studiare la struttura di un organismo, è necessario sezionarlo in porzioni infinitesimali per consentirne l’esame al microscopio. Una fotografia è come il vetrino di un frammento di tempo che, una volta piazzato sotto la lente della curiosità, può essere analizzato, compreso, assimilato. Quello del tempo è un concetto astratto e difficile da afferrare quanto la realtà che ci circonda. Esiste il tempo letterario di proustiana memoria e quello della fisica classica in cui ogni istante è misurato con esattezza da un orologio; vi è poi lo spazio-tempo della teoria della relatività, secondo cui il tempo varia in funzione del punto di vista di chi lo osserva, proprio come il tempo dei miti antichi. La prima volta che ho riflettuto seriamente sul concetto di tempo ero alle elementari. Su un numero della rivista “Children’s Science”, a cui ero abbonato, lessi un articoletto sulla luna corredato da un diagramma che ne mostrava la distanza dalla terra e spiegava come, persino alla velocità della luce, occorrevano alcuni secondi perché la luce dalla luna raggiungesse la terra. Ciò mi portò a elaborare una mia personale teoria: l’immagine della luna che io vedevo era in realtà quella dell’astro alcuni secondi prima; questo significava che, se avessi posizionato un grande specchio sulla luna e contemplato la mia immagine riflessa in esso, quella che avrei visto era in realtà l’immagine di me stesso alcuni istanti prima. Il passo successivo fu pensare di poter sfruttare il tempo che occorreva alla mia immagine per raggiungere la luna e tornare indietro sulla terra per costruire un secondo grande specchio sulla terra che avrebbe restituito tale immagine; il gioco di riflessione tra i due specchi avrebbe così preservato l’immagine di me bambino per l’eternità. Fantasticavo di trasferire lo specchio della luna sulla terra in modo tale che, quando fossi diventato un vecchio canuto, avrei potuto ogni tanto rivolgere una fugace occhiata alla mia immagine da bambino. Per un po’ fui convinto di aver inventato una sorta di macchina del tempo, ma non mi ci volle molto per capire che la mia teoria aveva una pecca: purtroppo la terra girava e la sua rotazione impediva l’allineamento dei due specchi. Eppure le mie fantasie infantili dimostrano ancora oggi quanto sia connaturato all’uomo il desiderio di arrestare lo scorrere del tempo. Proprio come il mondo esiste perché noi lo vogliamo, così anche la fotografia fu inventata per soddisfare un’esigenza e un desiderio dell’uomo. Ma facciamo un passo indietro agli inizi dell’Ottocento e analizziamo quali fossero le aspettative della gente in termini di immagini nell’era pre-fotografica. Nel 1839 a Parigi, Louis-Jacques-Mandé Daguerre annunciava l’invenzione della fotografia, seguito a strettissimo giro da William Henry Fox Talbot a Londra. Ma prima che ciò accadesse tre attrazioni popolari, in voga nelle due capitali europee, avevano posto le premesse per l’avvento della fotografia. Si tratta, nell’ordine, del Museo delle Cere, del Teatro Diorama e del Teatro Panorama. […] Da quasi 180 anni è la fotografia a determinare il modo in cui l’uomo guarda la propria storia e percepisce il mondo; grazie alla fotografia, la nostra storia collettiva è stata immortalata, archiviata e ripetutamente passata al vaglio fino alla banalizzazione, tanto da poter dire quasi che, da allora, la storia è “vera storia” solo dopo che la fotografia ha svolto la sua parte. Il giorno in cui l’uomo realizzerà il desiderio profondo di fermare il tempo si sta avvicinando inesorabilmente. Il tempo esiste unicamente grazie alla percezione umana; e dunque solo quando l’umanità sarà scomparsa dalla faccia della terra potremo dire davvero di aver fermato lo scorrere del tempo. Non ci vorrà molto. 6 Spazio, architettura senza tempo di Luca Molinari (estratto da “Hiroshi Sugimoto Stop Time”, Milano, Skira, 2015) […] La luce e lo spazio che Sugimoto fissa con chiarezza cercano ossessivamente l’annullamento del concetto di tempo relativo che viviamo superficialmente nella nostra vita quotidiana, rincorrendo con ostinata lucidità un tempo assoluto, indiscutibile e non corrotto dalla Storia. Si tratta di una ricerca quasi disperante perché, come giustamente scrive Sugimoto, “il tempo esiste grazie all’azione dell’uomo”, e solo scomparendo l’umanità si risolverebbe forse questo dilemma; ma una delle conseguenze interessanti del suo percorso è la costruzione di immagini sorrette da forme e spazi assoluti, puri nella loro perfezione, sorretti da una inguaribile consapevolezza della loro resistenza alla corruzione della vita. […] Sotto questo punto di vista il progetto Modern Times, avviato nel 1997, gioca sapientemente con una delle magnifiche ossessioni della Modernità e delle sue avanguardie, ovvero quella voglia di costruire un’assoluta autonomia formale al di là della vita quotidiana, grazie alla costruzione di spazi puri, assoluti e inediti. Nella ricerca ostinata di un linguaggio nuovo per un mondo e un uomo nuovo l’architettura moderna ha accarezzato a lungo l’idea di uccidere la Storia in nome di una Utopia finalmente realizzata sulla Terra. Uno sforzo eterogeneo e composito che ha coinvolto la migliore gioventù internazionale per almeno tre decenni all’inizio del secolo scorso producendo forme, visioni e sperimentazioni che ancora nutrono il nostro immaginario, e diventando a loro volta una parte significativa di una nuova tradizione su cui rifondare miti e narrazioni capaci di raccontare i tempi moderni. La fine di molte di quelle illusioni, e i guasti che certa modernità ha portato nelle nostre vite, ci aiutano oggi a leggere quei momenti con una criticità e una distanza necessarie, ma anche a cercare di capire come interrogare quel bagaglio potente e corrosivo d’icone, idee e conquiste che ci portiamo dal XX secolo e che ancora ci rappresenta. Lavorando sul punto d’infinito della propria macchina fotografica e generando la rappresentazione di una modernità fuori fuoco, Sugimoto non solo cerca una verità profonda, quasi irraggiungibile, che sottende queste icone ormai consegnate alla Storia, ma ne svela contemporaneamente una vibrante fragilità, che forse dichiara la vera, paradossale condizione di un secolo che sembra non voler ancora terminare. Quella che si percepisce è anche l’immagine di una verità imperfetta e friabile, rappresentata da materiali che non sarebbero mai stati eterni, da ideali che accettavano la loro mortalità in un’era frenetica e cannibale, e da forme che si sforzavano di rappresentare un mondo nuovo senza riconoscere l’apocalisse che stavano contemporaneamente generando. Ma è forse in questo tentativo eroico e amoroso di tornare sul corpo martoriato e fragile delle opere della migliore cultura moderna, dissolvendo la certezza del nitore d’argento che ritrovavamo nelle riviste delle avanguardie, che Sugimoto ce le riconsegna in una voluta, studiata imperfezione capace di rallentare il nostro passo e d’imporre una differente consapevolezza al nostro sguardo. Non ci troviamo di fronte a immagini consolatorie e malinconiche; grazie alla semplice increspatura della visione, l’autore ci consente di tornare a leggere queste icone con uno sguardo sollevato, libero dall’aura consumata della leggenda, ma capace finalmente di tornare a porre degli interrogativi necessari perché questi frammenti di una possibile tradizione possano produrre nuove, inattese narrazioni. […] 7