Occupare la crisi

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Occupare la crisi
INTRODUZIONE
Occupare la crisi
di Anna Curcio e Gigi Roggero
1. Il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi (ventiseienne, diplomato, costretto a fare il venditore ambulante di frutta e verdura per
campare) si immola nella città tunisina di Sidi Bouzid, per protestare
contro l’arroganza della polizia e l’insopportabilità delle condizioni di
vita. Pochi, allora, potevano pensare quel gesto come l’inizio simbolico di un processo insurrezionale che avrebbe condotto alla caduta del
regime di Ben Ali e a quello di Mubarak in Egitto, per poi estendersi
ad ampie aree del Nord Africa e del cosiddetto mondo arabo. Ed era
ancora meno facile prevedere che ciò sarebbe stato il preludio di una
sollevazione globale dentro la crisi economica contemporanea. Non si
è trattato, tuttavia, di un evento privo di radici: al contrario, in Tunisia
come altrove le genealogie sono profonde e complesse. Da un lato, affondano nei conflitti operai e studenteschi, nelle lotte e nelle dinamiche di sedimentazione politica e organizzativa che hanno attraversato
l’ex colonia francese a partire dagli anni Ottanta. Dall’altro, la composizione che ha guidato il processo insurrezionale – giovani, altamente
scolarizzati e produttori di saperi, precari e disoccupati, in qualche
modo simboleggiati dalla biografia dello stesso Bouazizi, a cui si può
aggiungere il grande protagonismo delle donne – ha in tutta evidenza
tratti affatto comuni con i movimenti che si sono sviluppati nella crisi
sull’altra sponda del Mediterraneo, dall’Inghilterra all’Italia, dall’Austria alla Grecia, e poi ancora in Cile e, appunto, negli Stati uniti.
Non è solo, allora, un ponte ideale che collega i movimenti del
Nord Africa a quelli del Nord America. Esattamente nove mesi dopo
che il fuoco aveva avvolto il corpo di Bouazizi, il 17 settembre 2011
alcune centinaia di altri corpi sfruttati che bruciano di indignazione
si sono sollevati raccogliendo l’appello lanciato dalla rivista militante
canadese Adbusters il 4 luglio precedente su Twitter con l’hashtag
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#OccupyWallStreet, insediandosi in quello che è considerato il “ventre della bestia”. In tempi maledettamente accelerati, Occupy si è allargato e rafforzato, procedendo in modo estensivo e intensivo: ha
superato i confini di Wall Street per diffondersi in tutti gli Stati uniti,
travolgendo narrazioni consolidate, dettando una nuova agenda politica. Del resto, se il distretto finanziario newyorchese rappresenta
simbolicamente il cuore del capitalismo contemporaneo, la crisi mostra come la sua materialità permei spazi e tempi di tutte le aree del
mondo, senza un fuori e, tutto sommato, senza un centro. La composizione del movimento – che da subito ha assunto il nome comune
dalla sua pratica qualificante, Occupy – è ancora una volta simile a
quella delle lotte già ricordate. Perciò riflettere su Occupy Wall Street
ci porta, necessariamente, a interrogarci sui caratteri non esclusivamente contingenti e locali del movimento.
È questa una chiave di lettura dei testi qui selezionati, che nel loro
insieme crediamo configurino un’imprescindibile documentazione:
sono materiali di inchiesta e narrazione estremamente produttivi, disegnano un’agenda di questioni e nodi politici che si aprono di fronte
a tutte e tutti noi. Sufficientemente variegati per offrire uno spaccato
di alcune delle figure e dei temi che hanno animato i dibattiti e i discorsi del movimento, sufficientemente profondi per consentirci di
fare un passo in avanti nella comprensione e nella riflessione. Anche
in questo senso, i contributi raccolti sono chiari: Occupy Wall Street non viene dal nulla. La sorpresa e l’entusiasmo militante per la
scoperta di una forza collettiva, si unisce così alla nitida lettura delle
tracce e dei fili genealogici che vengono dal ciclo di movimento globale cominciato a Seattle e contro la guerra, così come la capacità di
mobilitare e far proprie storie ed eredità di lungo corso, ad esempio
le lotte operaie o dei neri e delle donne negli anni Sessanta e Settanta,
oppure più di recente le straordinarie mobilitazioni dei latinos contro
la clandestinizzazione dei lavoratori migranti. Il non aver scorto le
condizioni di possibilità del movimento, ci dicono in modi diversi i
vari articoli e discorsi, è stato dovuto all’incapacità di guardare, non
al fatto che non ci fosse niente da vedere. C’è infatti un vizio radicato
nella sinistra, particolarmente sensibile in quella americana: dipingere un’immagine totalitaria del dominio capitalistico, finendo per
disincarnare i processi e privandosì così della possibilità di agire per
trasformarli. Tale immagine, che pure trovava nella contro-rivoluzione reaganiana e neoliberale dei motivi reali o delle apparenti giustificazioni, si è rivelata ancora una volta errata. Se è impensabile l’evento
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nel suo concreto manifestarsi, non lo sono certo le sue condizioni di
possibilità.
D’altro canto, già tra febbraio e marzo “l’insurrezione del Wisconsin” – per riprendere la definizione che ne dà Franco Barchiesi – costituiva un’importante anticipazione di quello che sarebbe successo
nei mesi successivi. “Se ci fottete, ci moltiplichiamo”, scrivevano i
manifestanti sui loro striscioni. Promessa mantenuta. È stata un’anticipazione dal punto di vista della centralità dei temi: crisi e welfare,
ovvero la battaglia contro l’espropriazione delle risorse prodotte in
comune. Lo è stata dal punto di vista della composizione sociale, nel
combinarsi di una working class passata attraverso la deindustrializzazione e la disoccupazione e una middle class definitivamente declassata. Lo è stata, certamente, dal punto di vista delle pratiche, con
quell’occupazione del Campidoglio che – lungi dal restaurare la non
più ripetibile mitologia del palazzo d’inverno – mostra invece le nuove forme di lotta ed espressione della moltitudine contemporanea. Lo
è stata, infine, per il problema che ha agito e che resta insoluto: la costruzione di una democrazia del comune, ovvero di nuove istituzioni
non rappresentative. Altrettanto evidente e anticipatrice, già a partire
dalla mobilitazione del Wisconsin, era poi la riconosciuta connessione
con le insorgenze in Nord Africa. Lo abbiamo visto nei tanti cartelli
che richiamavano la necessità di “fare come in Egitto” e, di rimando,
nelle provviste alimentari che i manifestanti del Cairo hanno ordinato
per gli occupanti di Madison. Tra la primavera e l’autunno, le occupazioni di piazza sono diventate la forma generalizzata delle lotte: dal
15-M spagnolo, con le acampadas di Puerta del Sol a Madrid e di decine e decine di centri grandi e piccoli, a piazza Syntagma ad Atene,
fino ad arrivare agli accampamenti in Israele.
2. Su queste basi, proviamo a ricapitolare con ordine e identificare in modo più approfondito gli elementi comuni tra Occupy Wall
Street e gli altri movimenti a livello transnazionale. Ciò non significa
ipotizzare un fuorviante piano di omogeneità, quanto invece – assumendo l’eterogeneità come tratto costitutivo e irriducibile del lavoro
vivo contemporaneo e delle sue lotte – individuare realtà, pratiche
e tendenze dotate di forza generalizzatrice che vengono tradotti in
contesti differenti. I contributi del volume, a cominciare dal testo di
Michael Hardt e Toni Negri, ci aiutano in questa direzione. Come già
sottolineato, la composizione è un primo elemento comune. Nell’ultimo anno abbiamo ripetuto e precisato con attenzione: le lotte nella
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crisi sono determinate dal convergere e dal differenziarsi di un ceto
medio declassato e un proletariato la cui povertà è direttamente proporzionale alla produttività. Questi due strati della composizione di
classe sono accomunati dalla fine – irreversibile – delle promesse progressive del capitalismo, dal definitivo esaurirsi della percezione della
scuola e dell’università come ascensori per la mobilità sociale, dal carattere permanente della precarietà, dell’impoverimento e dell’indebitamento. Non è un caso, allora, che nei contributi di questo libro il
tema ritorni continuamente: è la “subalternizzazione del ceto medio”
di cui parla Gayatri Spivak, o la sconnessione, epocale, tra capitalismo
e progresso ben delineata dall’intervento di Noam Chomsky.
La fine della promessa emancipativa del capitalismo, fosse anche
solo sul piano individuale, assume negli Stati uniti – come sottolineano
in modo convincente Mike Davis e Barchiesi – la forma del definitivo
esaurimento dell’American dream, quell’ordine del discorso attorno a
cui si sono articolati e legittimati i processi di gerarchizzazione e razzializzazione. Anche da questa angolazione si può osservare la fallimentare
rincorsa al centro dei democratici, che non coincide affatto con la difesa del ceto medio, proprio perché la sua funzione politica di mediazione tra le classi in lotta è stata consumata dalla sua destrutturazione
sociale. Allo stesso tempo, come nota Beth Buczynski, i repubblicani
non possono farsi difensori della middle class neppure nelle retoriche,
se non mistificandola ulteriormente nell’astratta figura del “contribuente che lavora duro”. La dissoluzione del ceto medio ha così dato vita
a una sua polarizzazione di classe, di cui Occupy Wall Street – al pari
degli altri movimenti sopra ricordati – sono una fulgida espressione.
Se a un lato di questa composizione il declassamento è il carattere
principale, all’altro lato vi è un proletariato senza più sogni di “riscatto sociale” nell’attuale sistema. A questo livello i soggetti fanno esperienza dello smantellato del welfare pubblico quasi solo nella sua funzione di controllo sociale, privata dai benefici materiali a cui potevano
prima accedere. Le sollevazioni nelle banlieue parigine o i recenti riot
in Inghilterra non sono dunque le jacquerie degli esclusi, ma rivolte
contro l’inclusione subordinata di soggetti poveri in quanto produttivi. Proprio perciò le lotte non possono essere giudicate come una
semplice difesa di brandelli di welfare state o il sogno di una sua ricostituzione. Ed è in questo quadro che assumono un particolare rilievo
l’efficace ricostruzione condotta da Frances Fox Piven e le considerazioni di Silvia Federici sui dispositivi di segmentazione e frammentazione che passano attraverso linee di razza e di genere. Dalla fine degli
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anni Settanta – “con la massiccia redistribuzione del peso fiscale, la
cannibalizzazione dei servizi pubblici attraverso le privatizzazioni, il
taglio dei salari e l’indebolimento dei sindacati, e la deregulation di
affari, banche, istituzioni finanziarie” (infra, p. 121) – ha preso corpo
una vera e propria “guerra di classe”, che si è combinata con la guerra
globale. Gli immaginari razzializzati hanno accompagnato la parabola
del neoliberalismo: dire nero significa allora dire povero.
A tutto questo Occupy Wall Street ha iniziato a dare risposta. Ma
quali sono le domande, chiedono insistentemente giornalisti e opinion
maker, l’establishment politico e molti attivisti di precedenti cicli di
lotta? La domanda sulle domande e lo stupore per la loro apparente
assenza, ci dicono i testi, ritorna continuamente. È questo un secondo
elemento comune dei movimenti a livello transnazionale, determinato
dalla crisi o meglio dall’esaurimento della rappresentanza. Liberal e
socialdemocratici, Paul Krugman e perfino – secondo quanto racconta Buczynski – i repubblicani, fanno a gara nel dire al movimento:
avete ragione. Avete ragione nell’evidenziare l’eccessiva diseguaglianza e nel denunciare la corruzione, nel lamentare l’insopportabilità dei
costi della crisi e le responsabilità di Wall Street, a preoccuparvi per
il peggioramento delle condizioni di vita del ceto medio e l’aumento
della disoccupazione. É allora giusto, sostengono, porre domande che
vincolino i politici a un nuovo patto con i cittadini. Ciò mostra indubbiamente la forza del movimento, capace di imporre nuovi registri
narrativi e interrompere quelli dominanti (si veda in merito l’arguta
analisi di Jason Read). Tuttavia, questo stesso profluvio di comprensione per le buone ragioni del movimento indica al contempo il tentativo di ridurlo a opinione pubblica, cioè di edulcorarne la radicalità
e relegarlo nello spazio depoliticizzato di una coscienza morale che
richiama i poteri costituiti ai propri doveri.
Per cogliere il significato dell’assenza di domande, questione che
tanto preoccupa il mainstream, dobbiamo allora rovesciare il punto di
vista. Su questa linea di ragionamento Judith Butler rimarca come le
domande siano strutturalmente eccedute da qualcosa di profondo, che
lei definisce ideale di giustizia e noi chiamiamo comune. Così, quella
stessa assenza di domande ci parla della fine della speranza di Obama e in Obama, ma non nella direzione della passiva disillusione o del
riflusso reazionario, bensì del rilancio su un piano immediatamente
costituente. Proprio per questo non bisogna confondere le domande,
ossia i cahiers de doléances da rivolgere alle strutture della rappresentanza, con la costruzione di programma, tema tutt’altro che assente dai
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movimenti. Si prenda, per limitarci a un unico e importante esempio, la
lotta contro il debito – questione che ricorre spesso nei testi ed è trattata in modo approfondito dall’impegno militante di George Caffentzis,
Andrew Ross e della campagna Occupy Student Debt. Potremmo dire
che la lotta sul debito è nel capitalismo contemporaneo l’equivalente
funzionale della lotta sul salario nel capitalismo industriale. Il debito
studentesco, in particolare, è paradigmatico dei processi di declassamento e blocco della mobilità sociale cui abbiamo fatto cenno. Nel
progressivo asciugamento di qualsiasi forma di welfare, da quello pubblico a quello famigliare, si fa ricorso al credito di banche, governi e
istituzioni finanziarie non per investire sul proprio futuro, come recita
la retorica autoimprenditorialista, ma più prosaicamente per tentare di
navigare a vista nel mare della precarietà permanente. Lotta al debito,
però, non significa ritorno al sistema di redistribuzione statale, perché
quel pubblico è stato definitivamente privatizzato e finanziarizzato: indica invece il terreno della riappropriazione della ricchezza sociale collettivamente prodotta e, dunque, dell’istituzione di un nuovo welfare.
Possiamo cogliere la pienezza del piano costituente su cui Occupy
Wall Street e gli altri movimenti nella crisi si pongono anche dal punto di vista delle pratiche, terzo elemento comune. La forma egemone
è, con tutta evidenza, l’occupazione delle piazze, rimbalzata in modo
contagioso dalla Casbah di Tunisi e da piazza Tahrir al Cairo, a Puerta
del Sol fino a Wall Street, passando per Atene e arrivando alle giornate di azione globale del 15 ottobre e dell’11/11/11. Tale pratica non
rappresenta, però, una semplice manifestazione di protesta, il che presuppone appunto la necessità di indirizzare domande al governo o a
organismi decisionali, ovvero di guadagnare visibilità rispetto a una
supposta opinione pubblica. L’occupazione delle piazze indica invece l’immediata creazione di un nuovo spazio, è un’embrionale forma
di produzione metropolitana e di organizzazione della vita in comune. Piazze e rete cessano così di essere lo spazio pubblico sognato da
Habermas, ma divengono spazio comune: comunicazione e decisione
sono unificati dalla potenza espressiva e costituente della moltitudine. È questo “l’amore di Occupy Wall Street”, per riprendere il titolo dell’intervento di Naomi Klein, da intendersi nel doppio senso
del genitivo: è l’amore che si prova verso Occupy Wall Street, quello
dimostrato da tante e tanti, da note figure del mondo della cultura,
dell’arte e della musica che si sono precipitati a Liberty Plaza; ma è
anche, e soprattutto, l’amore che Occupy Wall Street produce, quel
tessuto di relazioni che crea, quello spazio comune che inventa. Espri-
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me, dunque, la materialità dell’immaginazione, indicata come pratica
sovversiva da Zillah Eisenstein e Chandra Talpade Mohanty.
L’occupazione delle piazze si accompagna a pratiche con nobili radici, come quello sciopero generale di cui Spivak ci ricorda la densità
storica. E tuttavia, a Oakland come nel Wisconsin, non si è trattato
della mera ripetizione di forme di lotta proprie di una composizione
di classe che si è radicalmente trasformata. Questo è stato uno degli
errori commessi negli ultimi due anni in Italia da chi ha concentrato
la propria azione sulla taumaturgica convocazione dello sciopero generale da parte della Cgil, salvo rendersi poi conto che senza la forza invenzione e, appunto, l’immaginazione costituente di un nuova
composizione e delle sue lotte quella stessa pratica è un mito sfiatato.
A Oakland si è cominciato a occupare lo sciopero generale, cioè a
risignificarlo e quindi istituirlo. Ad esempio innervandolo di quelle
pratiche a “sciame” del blocco della circolazione (si veda nel merito il
contributo di Lili Loofbourow), che assumono lo spazio metropolitano nella sua interezza come luogo della produzione cognitiva. Non si
tratta allora di portare solidarietà ai sindacati, ma di condurre i sindacati sul terreno e al servizio delle nuove forme di lotta moltitudinaria.
Questo insieme di pratiche è stato non solo reso possibile ma in
qualche modo anche creato dalla rete. Sull’uso delle nuove tecnologie
dentro i conflitti, sulla circolazione di informazioni tra gli attivisti e
innovazioni organizzative attraverso Facebook, Twitter e i social network, si sono spesi fiumi di inchiostro e milioni di byte. Ci limitiamo
a una breve considerazione. Nel suo intervento David Harvey oppone
il “balbettio dei sentimenti in rete” alla potenza dei corpi nelle piazze.
Se il secondo aspetto è colto alla perfezione dal geografo inglese ed
è in continuità con quella dimensione costituente sopra menzionata,
ci sembra erroneo – analiticamente e politicamente – contrapporlo al
primo. Rete e corpi sono pienamente interni alla cooperazione sociale,
ne sono prodotti e permeati. In quanto non completamente separabili
dal sapere vivo, le tecnologie della comunicazione e dell’informazione
non coincidono più con la classica definizione del capitale costante:
sono, piuttosto, lavoro morto riappropriato e istituito in una nuova
vita, una vita comune, dal general intellect. Paolo Carpignano, Hardt e
Negri mettono in evidenza come sia un’operazione inutile disgiungere
la forma comunicativa da quella organizzativa, il medium dalla pratica; in modo altrettanto convincente, Ross evidenzia come proprio la
combinazione tra fisicità degli incontri e utilizzo dei social media sia
una chiave decisiva di Occupy Wall Street.
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Questa griglia di analisi ci porta a identificare un quarto elemento,
che sottende tutti gli altri: la “scoperta” del comune. Negli ultimi anni
abbiamo sviluppato il concetto, ne abbiamo messo in luce le differenze
– non solo teoriche, ma innanzitutto politiche – tra la sua declinazione
al singolare e il suo uso al plurale, in quanto commons o beni comuni,
ne abbiamo individuato la radice nel lavoro vivo e non in una mitologica natura, nella produzione da conquistare e non in una supposta
origine da difendere. Ora ci sembra di poter dire che i movimenti degli
ultimi anni, fino ad arrivare alle mobilitazioni che hanno condotto in
Italia alla vittoria dei referendum sull’acqua, mettano in primo piano
la vocazione maggioritaria assunta dal desiderio del comune, oltre che
la sua tendenziale egemonia nei lessici politici. Lo slogan “noi siamo
il 99%” ne è una sintesi efficacie ancorché semplicistica, che ci parla
forse soprattutto (come sottolinea Carpignano) dell’essere fuori misura
di unità di valore e statistiche. I testi qui raccolti, in forme e con interpretazioni diverse, ne sono in qualche modo testimoni. Il comune che
viene scoperto e ricercato è, appunto, quello delle occupazioni e delle
lotte, della cooperazione e della rete. Ciò che noi mettiamo in comune
– e su questo il contributo di Butler, al pari di consolidate correnti di
pensiero e radicati modi di sentire, ci sembra estremamente problematico – sono i desideri e la potenza, non la sofferenza e la vulnerabilità.
O per dirla in altri termini, il principio del comune non è la protezione
dalle carenze antropologiche e dalla malvagità del potere, ma la forza
di inventare collettivamente un nuovo rapporto sociale.
Qui si colloca un decisivo nodo da sciogliere, tematizzato esplicitamente da Barchiesi e posto direttamente dalle lotte: il rapporto
tra comune e pubblico. È evidente che nelle mobilitazioni dentro la
crisi, a fronte delle privatizzazioni e dello spietato attacco al welfare, sia spesso agitato lo slogan della “difesa del pubblico”. Se non ne
vogliamo fare una questione ideologica o terminologica, il problema
è distinguere tra il pubblico in quanto istituzione costituita, cioè lo
Stato, e un claim generale contro i processi di privatizzazione e aziendalizzazione, che nella maggior parte dei casi contiene in sé o allude
alle pratiche di quello che chiamiamo comune. La prima prospettiva
(a cui non sono peraltro estranei alcuni dei contributi qui raccolti)
appartiene alla sinistra tradizionale, da mettere a critica – come fa in
modo argomentato Barchiesi – e superare. Sul secondo versante ci
troviamo invece immersi in una confusione potenzialmente produttiva. Il punto da sollevare è quello a cui già facevamo riferimento: che
cos’è infatti il pubblico oggi, se non quello del new public manage-
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ment, cioè il pubblico dei poteri costituiti dallo Stato e dal mercato?
Da questo punto di vista potremmo allora dire che, nella dissoluzione
della dialettica tra pubblico e privato, l’alternativa non è tra comune e
pubblico, ma tra comune e privato, essendo il pubblico una variante a
quest’ultimo interna. Potremmo definire la questione che le lotte sollevano nei termini della transizione, a patto di sottrarre tale concetto
alla politica dei due tempi in cui è stata tradizionalmente ingabbiata,
per ripensarla interamente e immediatamente a partire dalla potenza
costituente dei movimenti e del lavoro vivo contemporaneo.
Su questa strada, quinto e ultimo elemento che appuntiamo, c’è la
questione della democrazia. È il grido che ha accompagnato le acampadas in Spagna, lo ritroviamo in tutte le lotte di cui stiamo parlando.
Attenzione, però: la rivendicazione di una “democrazia reale ora” non
significa restaurare una democrazia originaria macchiata e snaturata
dalla corruzione. Indica invece un processo costituente, la combinazione cioè di immaginazione costituzionale e invenzione di nuove forme
di organizzazione collettiva. I movimenti fondano il proprio terreno di
azione sulla proclamazione del libero accesso al comune collettivamente prodotto come una sorta di nuovo diritto inalienabile, consapevoli
al contempo che il comune eccede radicalmente i confini e i linguaggi
del discorso liberale dei diritti, nella sua versione di destra come in
quella di sinistra. In Occupy Wall Street, al pari delle altre occupazioni
di piazze e spazi metropolitani, nei gioiosi, difficili e talora contorti
esperimenti che in questo libro ci vengono raccontati di nuove forme
di relazione e organizzazione, troviamo le feconde tracce di una democrazia del comune, assoluta e dunque non rappresentativa. È la rivendicazione di una democrazia che ha finalmente sciolto ogni legame con
la sovranità nazionale: è, anzi, proprio il piano globale che, in comune,
i movimenti riconoscono come il terreno decisivo della sfida.
3. A questo punto si aprono i problemi e i nodi irrisolti, altrettanto
preziosi dei passaggi faticosamente conquistati. Come costruire istituzioni che durino e non si esauriscano nel fuoco dell’evento, attraverso
cui sedimentare la produzione di soggettività, capaci di dare forma
organizzativa costituente alla potenza delle lotte? Dal Nord Africa al
Nord America, passando per Puerta del Sol, questa è la domanda dirimente e su cui si misurano i limiti e le insufficienze delle esperienze di
movimento. L’ccupazione di università od ospedali mostra il tentativo
e l’esigenza di “riterritorializzare” i rapporti di forza riappropriandosi e trasformando i gangli vitali frammentari e non sistematici. Allo
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stesso modo, quando Heather Gautney parla di un “movimento senza
leader” o Michael Premo di un “movimento in cui tutti sono leader”,
colgono sicuramente un aspetto importante, cioè l’esaurimento della
forma-partito e l’emergere della forma-rete. E tuttavia, più che fornire
una soluzione, indicano una questione aperta.
È un problema che si trovano a fronteggiare i movimenti insurrezionali in Tunisia e in Egitto, dopo aver determinato la fine dei rispettivi regimi. Ma come coniugare oggi insurrezione e rivoluzione, ovvero come ripensarle al di fuori dei paradigmi della sovranità e della
presa dello Stato – ecco il punto. Non ci sono scorciatoie, né si può
scambiare – hobby piuttosto in voga in Italia – la preferenza terminologica per la soluzione. A meno di non voler assumere un atteggiamento ideologicamente e inutilmente normativo, piaccia o non piaccia
bisogna ammettere che la rivolta non è una categoria estetica, bensì
un dato di realtà e un’espressione materiale di diverse figure della
composizione di classe. Fa bene Read a evidenziare come la distinzione tra la rispettabilità della protesta e la “violenza” che la rovina appartiene innanzitutto al futile tentativo di “controllare il messaggio”,
anziché costruire una narrazione comune a partire da differenze che
pur talora stridono e confliggono. Allora, lo si chiami insurrezione,
sollevazione o tumulto, il nodo rimane lo stesso, laddove le istituzioni
del comune non si identificano con una politica dei margini, nicchie
di sopravvivenza nella crisi, spazi di fallace indipendenza e autoreferenzialità, ma nella forza organizzata di un nuovo rapporto sociale.
Sottende questo nodo il tema posto dagli interventi di Eisenstein e
Mohanty e di Angela Davis: la composizione comune delle differenze,
o meglio la creazione del comune dentro una composizione che ha
eterogeneità e molteplicità come elementi fondanti. D’altro canto, se
il convergere del ceto medio declassato e di un proletariato privato di
ogni possibilità di mobilità sociale ha determinato i movimenti, non
sono mancati i punti di frizione o divisione, che non si risolvono con
alleanze di blocchi sociali, il che presupporrebbe un meccanismo di
rappresentanza che è invece definitivamente esaurito. Suggerire, come
fa Nikil Saval, una distinzione secca tra una parte nostalgicamente
buona, i lavoratori “tradizionali” e le loro organizzazioni, e una parte
ingenua e perfino boriosa, le “nuove” figure del movimento Occupy,
rischia di legittimare proprio i processi di frammentazione. Parlare di
una politica della composizione e non delle alleanze non significa certo sottovalutare, ad esempio, il rapporto tra movimento e sindacati,
di cui i testi descrivono la rilevanza per lo sviluppo della mobilitazio-
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ne. La storia e perfino l’ambiguità dei sindacati americani, del resto,
li rendono disponibili – come segnala l’intervista a Steve Downs –
all’utilizzo da parte dei movimenti, rovesciando il rapporto che è invece prevalente in Italia: non è la struttura della rappresentanza in crisi a
tentare di riassorbire l’autonomia del lavoro vivo, ma è quest’ultima a
usare i sindacati per il proprio sviluppo e per aprire canali di connessione interni alla composizione di classe.
La questione diventa di particolare pregnanza nel contesto italiano. Leggendo i contributi di questo libro sorge ovvia la domanda:
cosa impedisce qui il pieno emergere del movimento degli indignati o
di Occupy, ovvero del loro equivalente funzionale? Le risposte sono
complesse, ci limitiamo a ipotizzarne un aspetto, cioè la persistenza in
Italia, a differenza di altri luoghi, del peso di strutture di mediazione e
rappresentanza che, per quanto in evidente crisi, hanno ancora la capacità di funzionare da tappo: vanno dai partiti e sindacati alla chiesa
e alla famiglia, fino ad arrivare dentro i movimenti. Il nostro uso della
stessa categoria di “movimento” andrebbe profondamente ripensata,
se è vero che in Italia ha coinciso per diversi decenni con le strutture
organizzate di movimento. Questa coincidenza appartiene a una specifica anomalia che ci pare per varie ragioni essere trascorsa.
Quanto potrà durare e tenere questo quadro, a fronte del rapido
asciugamento del welfare e della redistribuzione famigliare (sua materiale fonte di legittimazione), della conseguente e ulteriore crescita
dei livelli di indebitamento per i “precari di seconda generazione”,
della massificata esperienza del declassamento e dell’impoverimento –
a dispetto delle retoriche meritocratiche – per la giovane forza lavoro
altamente scolarizzata e produttrice di saperi? Non molto probabilmente, e del resto proprio la progressiva rottura di queste strutture di
rappresentanza delle mediazioni è stata una delle condizioni di possibilità delle insorgenze in Nord Africa, degli indignados in Spagna e, in
forme diverse, del movimento Occupy negli Stati uniti. Tuttavia, dobbiamo fare molta attenzione a non affidarci a un nefasto determinismo, che fa il paio con il discorso catastrofista egemone nella sinistra
italiana dentro la crisi. È invece all’interno di questo ricco e in buona
parte irrisolto insieme di questioni su cui ci invitano a riflettere questo
libro e l’esperienza che narra, che ci sembra si possano trovare importanti spunti e suggestioni per far saltare i “tappi” che trattengono le
possibilità di una composizione comune del lavoro vivo e delle lotte.
Parallelamente, riflettere sul movimento Occupy ci porta necessariamente ad analizzare il fallimento delle varie opzioni “frontiste” emer-
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se negli ultimi anni: riducendo l’ambivalenza della crisi a catastrofe da
arginare senza possibilità da cogliere, a frammentazione senza lotte, si
finisce infatti per rifugiarsi in una politica delle alleanze che, volenti o
nolenti, produce una ricomposizione delle rappresentanze e non delle
differenti figure di una forza lavoro precaria e impoverita.
Ciò significa che le esperienze qui raccontate e ricordate costituiscano il paradigma dei movimenti contemporanei? È ancora difficile
dirlo. Tuttavia, presentano sicuramente tratti paradigmatici, quelli che
abbiamo brevemente provato a presentare e che emergono dai testi
raccolti. Allo stesso tempo, come abbiamo a più riprese sottolineato,
paradigmatici e comuni sono anche i problemi di cui queste esperienze ci parlano. La stessa assunzione della dimensione transnazionale
come ineludibile spazio dell’azione politica, del resto, ci trasmette una
decisiva acquisizione e un grande problema, laddove le corrispondenti sperimentazioni organizzative sono certamente importanti ma ancora inadeguate.
Il 29 dicembre 2011 “The Huffington Post” ha dato ampio spazio
a un sondaggio secondo il quale la maggioranza dei giovani americani
tra i diciotto e i ventinove anni preferisce il socialismo al capitalismo.
Ciò è il risultato, sostiene il noto blog di informazione, delle politiche
neoliberali – la cui ferocità, sia detto per inciso, è direttamente proporzionale al loro fallimento globale – e soprattutto del mutamento
nel dibattito pubblico prodotto da Occupy Wall Street. Ciò da un lato
fornisce un ulteriore prova della forza espansiva e di generalizzazione del movimento, è il cambiamento della “morale” di cui parla Fox
Piven: se fino a pochi anni fa essa era incentrata sui casi mediatici di
corruzione o sui comportamenti sessuali delle celebrità, ora il tema
dell’uguaglianza torna al centro della scena. Qui si situa quella che
potremmo meglio definire la dimensione etica di Occupy Wall Street,
dunque un comportamento collettivo e una linea di azione materialisticamente fondati. Dall’altro lato, tuttavia, questo sondaggio – strumento per eccellenza, non a caso, dell’opinione pubblica – ci mette in
guardia dal rischio di rinchiudere e dunque edulcorare nuove forme
di espressione radicale nelle strette maglie di ciò che è definitivamente
finito. Sono state le lotte di classe, prima ancora delle politiche neoliberali, a mettere fine al socialismo come unica alternativa obbligata al
capitalismo. Ciò che oggi i movimenti moltitudinari stanno costruendo o a cui alludono in modo potente, non è la restaurazione o la nostalgia del passato, ma la riappropriazione di un presente comune. È
su questo livello che dobbiamo, collettivamente, interrogarci e agire.