2. LUIGI PIRANDELLO Gli scritti teorici1 In due testi Pirandello

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2. LUIGI PIRANDELLO Gli scritti teorici1 In due testi Pirandello
2. LUIGI PIRANDELLO
Gli scritti teorici 1
In due testi Pirandello espresse e concentrò la sua «filosofia» del cinema: quella del muto nel
romanzo-saggio Si gira... (1915) e quella del sonoro nell’articolo saggistico Se il film parlante
abolirà il teatro (1929). Soltanto questi vengono generalmente citati e spesso male interpretati.
Ma ve ne sono altri tre che meritano d’esser presi in seria considerazione: una intervista data a
Oreste Rizzini, corrispondente da Londra del «Corriere della Sera», intitolata Pirandello contro il
film parlato (1929); un articolo, Dramma e sonoro, per il quotidiano argentino «La Nación»
(1929); e una seconda intervista di Testor, corrispondente da Roma de «La Stampa», che ha per
titolo Per il film italiano (1932).
Del Si gira... sono stati ovviamente riportati solo i brani ed i passi strettamente relativi al mondo
cinematografico che l’autore descrive con riferimento ai problemi tecnici della ripresa e artistici
della realizzazione con tutti gli argomenti ad essi collegati, la divisione del lavoro e delle
competenze e persino la particolare terminologia. L’articolo saggistico Se il film parlante abolirà
il teatro, distribuito a suo tempo dall’Anglo-American Newspaper Service, Londra e New York,
e pubblicato con grande rilievo in tutto il mondo oltre che incluso in antologie varie, è ristampato
integralmente. In parte, per contro, ma nella loro essenza sono riportati il secondo articolo e le
due interviste.
Pur essendo stato il primo scrittore, in senso assoluto, ad occuparsi creativamente di
cinematografo ed anche criticamente, Pirandello, in quest’ultimo campo non formulò (a parte la
Cinemelografia) una sua estetica del cinema ma assimilò teoriche altrui (in specie di registi russi
e tedeschi) dandone esempio negli scenari che ideò, nessuno dei quali, purtroppo, realizzato
dovendosi escludere, come ho ampiamente dimostrato e documentato, tanto Acciaio (1933) di
Ruttmann quanto Terra di nessuno (1939) di Baffìco (i cui scenari, originariamente scritti dal
figlio Stefano, s’intitolavano Gioca, Pietro! e Dove Romolo edificò).
I suoi brevi interventi «esterni», in materia di cinema, sono quasi tutti disseminati qua e là in
questo libro, a partire dall’inizio.
I. Estratti dal Si gira... (Quaderni di serafino Gubbio operatore)
[...] Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non
vuoi mica dire operare.
Io non opero nulla.
Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o due apparatori,
secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o sulla piattaforma con una lunga pertica e un
lapis turchino i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo si chiama segnare il campo.
Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla macchinetta perché
possa indicare fin dove arriva a prendere.
Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro l’azione da svolgere.
Io domando al direttore:
1
Da Francesco Càllari, Pirandello e il cinema. (Con una raccolta completa degli scritti teorici e creativi), Marsilio,
Venezia 1991, pp. 112-18, 120-28. Per una storia del romanzo Si gira... e dei progetti per un film da Sei personaggi
in cerca d’autore, cfr. l’Appendice.
- Quanti metri? Il direttore, secondo la lunghezza della scena mi dice approssimativamente il numero dei metri di
pellicola che abbisognano, poi grida agli attori:
- Attenti, si gira! E io mi metto a girar la manovella.
Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, press’a poco
come un sonatore d’organetto fa la sonata giocando il manubrio. Ma non mi faccio né questa né
altra illusione, e séguito a girare finché la scena non è compiuta; poi guardo nella macchinetta e
annunzio al direttore:
- Diciotto metri, - oppure: - trentacinque. –
E tutto è qui (Quaderno primo, paragrafo 1).
[...] A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è
L’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per
questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più
grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo
l’azione che si svolge davanti alla macchina. Giacché io [...] non giro sempre allo stesso modo la
manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo
[...] si arriverà a sopprimermi. La macchinetta - anche questa macchinetta, come tante altre
macchinette - girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da
sé, questo [...] resta ancora da vedere (Quaderno primo, paragrafo 1).
Sodisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e
mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano
che gira una manovella.
Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!
L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti,
ingombro non solo inutile ma anche dannoso, è divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar
di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è divenuto servo e schiavo di esse.
Viva la Macchina che meccanizza la vita!
Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle
macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne
sapranno cavare.
[...] Io sono qua. Servo la mia macchina in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a
me, non mi serve. Mi serve la mano: cioè serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita,
dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il
prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io (Quaderno
primo, paragrafo 2).
[...] Devo al caso [...] e all’amicizia d’un mio amico compagno di studi il posto che occupo. Lo
tengo - diciamolo, sì - con onore, e del mio lavoro sono ben remunerato. Oh, mi stimano tutti,
qua, un ottimo operatore: vigile, preciso e d’una perfetta impassibilità. Se debbo esser grato al
Polacco [il direttore di scena Nicola P., detto Cocò P., cui Serafino Gubbio ha accennato in
pagine precedenti qui non riportate], anche Polacco dev’esser grato a me della benemerenza che
s’è acquistata presso il commendator Borgalli, direttore generale e consigliere delegato della
Kosmograph, per l’acquisto che la Casa ha fatto d’un operatore come me. Il signor Gubbio non è
addetto propriamente a nessuna delle quattro compagnie del reparto artistico, ma è chiamato or
qua or là da tutte, per la confezione dei films di più lungo metraggio e più difficili. Il signor
Gubbio lavora molto di più degli altri cinque operatori della Casa; ma per ogni film ben riuscito
ha un ricco dono e frequenti gratificazioni. Dovrei esser lieto e soddisfatto. Rimpiango invece il
tempo della magrezza e delle follie a Napoli tra i giovani artisti (Quaderno secondo, paragrafo 2).
[Dopo aver indicato l’ubicazione della Kosmograph in una strada romana di campagna, parecchi
chilometri fuor di porta].
[...] automobili, carrozze, carri, biciclette, e tutto il giorno un transito ininterrotto d’attori,
d’operatori, di macchinisti, d’operai, di comparse, di fattorini, e frastuono di martelli, di seghe, di
pialle, e polverone e puzzo di benzina.
Gli edificii, alti e bassi, della grande Casa cinematografica si levano in fondo alla strada, da una
parte e dall’altra; ne sorgono alcuni più là, senz’ordine, entro il vastissimo recinto, che si estende
e spazia nella campagna; uno, più alto di tutti, è sovrastato come da una torre vetrata, di vetri
opachi, che sfolgorano al sole; e [...] l’entrata è a sinistra [...], dirimpetto è un’osteria di
campagna, battezzata pomposamente Trattoria della Kosmograph, con una bella pergola
sull’incannucciata [...], cinque o sei tavole rustiche [...] e seggiole e panchette. Parecchi attori,
truccati e parati di strani costumi, vi seggono e discutono animatamente. [...] Affollati innanzi
all’entrata stanno ad ascoltarli con visi ridenti gli chauffeurs delle vetturette automobili, logore,
impolverate; i vetturini delle carrozzelle in attesa, là in fondo, ove la traversa è chiusa da una
siepe di stecchi e spuntoni; è tant’altra povera gente, la più miserabile ch’io mi conosca, sebbene
vestita con una certa decenza. Sono (chiedo scusa, ma qui tutto ha nome francese o inglese) sono
i cachets avventizii, coloro cioè che vengono a profferirsi, a un bisogno, per comparse. La loro
petulanza è insoffribile, peggio di quella dei mendicanti; perché qua si viene a esibire una
miseria, che non chiede la carità d’un soldo, ma cinque lire, per mascherarsi spesso
grottescamente. Bisogna vedere che ressa, certi giorni, nel magazzino-vestiario per ghermire e
indossar subito qualche straccio vistoso, e con quali arie se lo portano a spasso per le piattaforme
e gli sterrati, sapendo bene che, quando riescano a vestirsi, anche se non posano, tiran la mezza
paga.
Due, tre attori vengon fuori dalla trattoria [...]. Mi salutano:
- Ciao Gubbio.
- Ciao, Si gira...
Si gira è il mio nomignolo. Già!
[...] Senza accorgermene, mi sarà avvenuto forse qualche volta, o più volte di seguito, di ripetere,
dopo il direttore di scena, la frase sacramentale: - Si gira... -; l’avrò ripetuta con la faccia
composta a quell’aria che mi è propria, di professionale impassibilità, ed è bastato questo, perché
tutti ora qua [...] mi chiamino Si gira... (Quaderno terzo, paragrafo 2).
Entro nel vestibolo a sinistra, e riesco nella rampa del cancello, inghiajata e incassata tra i
fabbricati del secondo reparto, il Reparto Fotografico o del Positivo.
In qualità d’operatore ho il privilegio d’aver un piede in questo reparto e l’altro nel Reparto
Artistico o del Negativo. E tutte le meraviglie della complicazione industriale e così detta artistica
mi sono familiari.
Qua si compie misteriosamente l’opera delle macchine.
Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme
solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne
rosse, che alluciano sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il
bagno.
La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii, dico nelle pellicole già avvolte nei
telai.
Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un’altra macchina possa ridarle il
movimento qui in tanti attimi sospeso.
Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione
meccanica.
E quante mani nell’ombra vi lavorano!
[Mani come strumenti anch’esse di macchina e nient’altro, aggiunge Serafino Gubbio precisando
il lavoro specifico di quanti, uomini e donne, tecnici, operai e artigiani servono alla realizzazione
di un film].
[...] son tutti affaccendati, ma non sul serio e neppure per giuoco.
Solo i fanciulli han la divina fortuna di prendere sul serio i loro giuochi. La meraviglia è in loro;
la rovesciano su le cose con cui giocano, e se ne lasciano ingannare. Non è più un giuoco; è una
realtà meravigliosa.
Qui è tutto il contrario.
Non si lavora per giuoco, perché nessuno ha voglia di giocare. Ma come prendere sul serio un
lavoro, che altro scopo non ha, se non d’ingannare - non se stessi - ma gli altri? E ingannare,
mettendo su le più stupide finzioni, a cui la macchina è incaricata di dare la realtà meravigliosa?
Ne vien fuori, per forza e senza possibilità d’inganno, un ibrido giuoco. Ibrido, perché in esso la
stupidità della finzione tanto più si scopre e avventa, in quanto si vede attuata appunto col mezzo
che meno si presta all’inganno: la riproduzione fotografica. Si dovrebbe capire, che il fantastico
non può acquistare realtà, se non per mezzo dell’arte, e che quella realtà, che può dargli una
macchina, lo uccide, per il solo fatto che gli è data da una macchina, cioè con un mezzo che ne
scopre e dimostra la finzione per il fatto stesso che lo dà e presenta come reale. Ma se è un
meccanismo, come può esser vita, come può esser arte? È quasi come entrare in uno di quei
musei di statue viventi, di cera, vestite e dipinte. Non si prova altro che la sorpresa (che qui può
essere anche ribrezzo) del movimento, dove non è possibile l’illusione d’una realtà materiale.
E nessuno crede sul serio di poterla creare, quest’illusione. Si fa alla meglio per dar roba da
prendere alla macchina, qua nei cantieri, là nei quattro teatri di posa o nelle piattaforme. Il
pubblico, come la macchina, prende tutto.
[...] Apparatori, macchinisti, attori si danno tutti l’aria d’ingannare la macchina, che darà
apparenza di realtà a tutte le loro finzioni (Quaderno terzo, paragrafo terzo).
[Serafino Gubbio ora parla del rapporto attori-cinema].
[...] Ciascuno d’essi - parlo, s’intende, dei veri attori, cioè di quelli che amano veramente la loro
arte, qualunque sia il loro valore - è qui di mala voglia, è qui perché pagato meglio, e per un
lavoro che, se pur gli costa qualche fatica, non gli richiede sforzi d’intelligenza. Spesso, ripeto,
non sanno neppure che parte stiano a rappresentare.
La macchina, con gli enormi guadagni che produce, se li assolda, può compensarli molto meglio
che qualunque impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica. Non solo; ma essa,
con le sue riproduzioni meccaniche, potendo offrire a buon mercato al gran pubblico uno
spettacolo sempre nuovo, riempie le sale dei cinematografi e lascia vuoti i teatri, sicché tutte, o
quasi, le compagnie drammatiche fanno ormai meschini affari; e gli attori, per non languire, si
vedono costretti a picchiare alle porte delle Case di cinematografìa. Ma non odiano la macchina
soltanto per l’avvilimento del lavoro stupido e muto a cui essa li condanna; la odiano sopratutto
perché si vedono allontanati, si sentono strappati dalla comunione diretta con il pubblico, da cui
prima traevano il miglior compenso e la maggiore soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal
palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva,
commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi.
Qua si sentono come in esilio. In esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se
stessi. Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non
c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che
guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi
di vôtamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo
respiro, della sua voce, del rumore ch’esso produce movendosi, per diventare soltanto
un’immagine muta, che tremola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’un
tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela.
Si sentono schiavi anch’essi di questa macchinetta stridula, che pare sul treppiedi a gambe
rientranti un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per
renderla parvenza evanescente, momentanea, giuoco d’illusione meccanica davanti al pubblico. E
colui che li spoglia della loro realtà e la dà a mangiare alla macchinetta; che riduce ombra il loro
corpo, chi è? Sono io, Gubbio.
Essi restano qua, come su un palcoscenico di giorno, quando provano. La sera della
rappresentazione per essi non viene mai. Il pubblico non lo vedono più. Pensa la macchinetta alla
rappresentazione davanti al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di
rappresentare solo davanti a lei. Quando hanno rappresentato, la loro rappresentazione è pellicola.
[...] Un certo rinfranco all’avvilimento lo hanno nel non vedersi essi soli mortificati al servizio di
questa macchinetta, che muove, agita, attira tanto mondo attorno a sé. Scrittori illustri,
commediografi, poeti, romanzieri, vengono qua, tutti al solito dignitosamente proponendo la
«rigenerazione artistica» dell’industria [...] (Quaderno terzo, paragrafo 5. Brani dal romanzo Si
gira... [1915]).
[...]
3 . Se il film parlante abolirà il teatro
Chi mi ha sentito parlare delle esperienze dei miei molti viaggi sa con quale ammirazione io parli
dell’America e con quanta simpatia degli americani. Ciò che soprattutto in America mi interessa
è la nascita di nuove forme di vita. La vita, premuta da necessità naturali e sociali, vi cerca e vi
trova queste nuove forme. Vederle nascere è un’incomparabile gioia per lo spirito.
In Europa la vita seguitano a farla i morti, schiacciando quella dei vivi col peso della storia, delle
tradizioni e dei costumi. Il consistere delle vecchie forme ostacola, impedisce, arresta ogni
movimento vitale. In America la vita è dei vivi. Senonché la vita, che da un canto ha bisogno di
muoversi sempre, ha pure dall’altro canto bisogno di consistere in qualche forma. Sono due
necessità che, essendo opposte fra loro, non le consentono né un perpetuo movimento né una
eterna consistenza.
Pensate che se la vita si muovesse sempre non consisterebbe mai, e che, se consistesse per
sempre, non si muoverebbe più.
La vita in Europa soffre del troppo consistere delle sue vecchie forme, e forse in America soffre
del troppo muoversi senza forme durevoli e consistenti. Sicché a un signore americano, che con
uno si vantava: «Noi non abbiamo un passato, siamo tutti lanciati verso un avvenire», io potei
rispondere: «Si vede, caro signore, che avete tutti una gran fretta di farvi un passato».
Le forme, finché restano vive, cioè finché dura in esse il movimento vitale, sono una conquista
dello spirito. Abbatterle, vive, per il gusto di sostituire loro altre forme nuove, è un delitto, è
sopprimere un’espressione dello spirito. Certe forme originarie e quasi naturali, con cui lo spirito
si esprime, non sono sopprimibili, perché la vita stessa ormai naturalmente si esprime con esse; e
dunque non è possibile che invecchino mai e che siano sostituite, senza minare la vita in una sua
naturale espressione. Una di queste forme è il teatro.
Il mio amico Evreinov, autore di una commedia che anche gli americani hanno molto applaudito,
arrivò fino a dire e a dimostrare in un suo libro che tutto il mondo è teatro e che non solo tutti gli
uomini recitano nella parte che essi stessi si sono assegnata nella vita o che gli altri hanno loro
assegnata; ma che anche tutti gli animali recitano, e anche le piante, e, insomma, tutta la natura.
Forse si può non arrivare fino a tanto. Ma che il teatro, prima d’essere una forma tradizionale
della letteratura, sia una espressione naturale della vita non è, in alcun modo, da mettere in
dubbio. Ebbene, in questi giorni di grande infatuazione universale per il film parlante, io ho
sentito dire quest’eresia: che il film parlante abolirà il teatro; che tra due o tre anni il teatro non ci
sarà più, tutti i teatri, così di prosa come di musica, saranno chiusi perché tutto sarà
cinematografia, film parlante o film sonoro. Una cosa simile detta da un americano, con quel
piglio ch’è naturale agli americani, d’allegra arroganza, anche quando paia (com’è) un’eresia,
s’ascolta simpaticamente perché genuino è negli americani l’orgoglio dell’enormità. Ha,
quest’orgoglio, la grazia particolare dell’elefante, a cui gli occhietti ridono mentre dimena
scherzosamente la proboscide, che guai se vi coglie. Ma ripetuta, come l’ho sentita ripetere io, da
un europeo, una cosa così enorme e bestiale perde ogni grazia genuina e diventa stupida e goffa.
Gli occhietti diabolicamente arguti dell’elefante non ridono più: avete davanti due occhi velati
dalla stanchezza, a cui l’enormità non da il brillio dell’orgoglio, ma la dilatazione dello spavento;
e quello scherzo potente e minaccioso della proboscide si muta nel ridicolo dimenio d’una coda
di somaro che si vuoi cacciare le mosche, vale a dire i fastidi e le preoccupazioni d’un nuovo
travaglio.
Perché veramente sono preoccupatissimi e spaventati di questo diavolo di invenzione della
macchina che parla, i signori mercanti della industria cinematografica europea, e, come vecchi
pesci che troppo a lungo hanno agitato le pinne e la coda nell’acqua stagna di una silenziosa
palude, si lasciano prendere all’amo, rimasti come sono senza difesa tutti quanti a bocca aperta.
Il teatro intanto, così di prosa come di musica, può star tranquillo, e sicuro che non sarà abolito,
per questa semplicissima ragione: che non è lui, il teatro, che vuol diventare cinematografia, ma è
lei, la cinematografìa, che vuoi diventare teatro, e la massima vittoria a cui potrà aspirare,
mettendosi così più che mai sulla via del teatro, sarà quella di diventarne una copia fotografica e
meccanica più o meno cattiva, la quale naturalmente, come ogni copia, farà sempre nascere il
desiderio dell’originale.
L’errore fondamentale della cinematografia è stato quello di mettersi, fin dal primo principio, su
una falsa strada, su una strada a lei impropria, quella della letteratura (narrazione o dramma). Su
questa strada si è trovata per forza in una doppia impossibilità e cioè:
1) nell’impossibilità di sostituire la parola;
2) nell’impossibilità di farne a meno.
E con questo doppio danno:
1) un danno per sé, di non trovare una sua propria espressione libera dalla parola (espressa o
sottintesa);
2) un danno per la letteratura, la quale, ridotta a sola visione, viene per forza ad averne diminuiti
tutti i suoi valori spirituali, che, per essere espressi totalmente, hanno bisogno di quel più
complesso mezzo espressivo che è loro proprio, cioè la parola.
Ora, dare meccanicamente la parola alla cinematografia, non rappresenta mica un rimedio al suo
errore fondamentale, perché anziché sanare il male lo aggrava, sprofondando la cinematografia
più che mai nella letteratura. Con la sua parola impressa meccanicamente nel film, la
cinematografia, che è muta espressione di immagini e linguaggio di apparenze, viene a
distruggere irreparabilmente se stessa per diventare appunto una copia fotografata e meccanica
del teatro: una copia per forza cattiva, perché ogni illusione di realtà sarà perduta per le seguenti
ragioni:
1) perché la voce è di un corpo vivo che la emette, e nel film non ci sono i corpi degli attori come
a teatro, ma le loro immagini fotografate in movimento;
2) perché le immagini non parlano; si vedono soltanto se parlano, la voce viva è in contrasto
insanabile con la loro qualità di ombre e turba come una cosa innaturale che scopre e denunzia il
meccanismo;
3) perché le immagini nel film si vedono muovere nei luoghi che il film rappresenta: una casa, un
piroscafo, un bosco, una montagna, una vallata, una via, fuori perciò sempre, naturalmente, dalle
sale dove il film si è proiettato; mentre la voce suona sempre dentro la sala presente, con un
effetto, anche per questo, sgradevolissimo d’irrealtà, a cui s’è voluto portare un rimedio anche qui
peggiore del male, mettendo ogni volta, e uno alla volta, in primo piano le immagini che parlano,
con questo bel risultato: che il quadro scenico è perduto, la successione delle immagini parlanti
sullo schermo stanca gli occhi, e toglie alla scena dialogata ogni efficacia; e infine la
constatazione chiarissima che le labbra di quelle grandi immagini in primo piano si muovono a
vuoto perché la voce non esce dalla loro bocca, ma viene fuori grottescamente dalla macchina,
voce di macchina, voce di macchina e non umana, sguaiato borbottamento da ventriloqui
accompagnato da quel ronzio e friggio insopportabile dei grammofoni. Quando il progresso
tecnico sarà riuscito a eliminare questo friggio e a ottenere la perfetta riproduzione della voce
umana, il male principale non sarà in alcun modo riparato, per l’ovvia ragione che le immagini
resteranno immagini e le immagini non possono parlare.
Per questa via la perfezione non potrà condurre il cinematografo ad abolire il teatro,ma se mai ad
abolire se stesso. Il teatro resterà il suo originale sempre vivo e, come ogni cosa viva, di volta in
volta mutevole, laddove esso ne sarà la copia d’una volta, stereotipata, fondamentalmente tanto
più illogica e innaturale quanto più vorrà accostarsi al suo originale fino a sostituirlo.
Sta capitando al cinematografo quella stessa ridicolissima disavventura che in una delle sue più
famose favole Esopo fa capitare al vanitoso pavone, allorché lusingato beffardamente dalla
diabolica volpe per la sua magnifica coda e la maestà del suo incesso regale, aprì la bocca per
fare udire la sua voce e fece ridere tutti.
Finché stava zitto, perché era muta espressione d’immagini, comprensibili a tutti con qualche
breve indicazione scritta, che facilmente poteva essere tradotta in tutte le lingue, il cinematografo,
con la sua enorme diffusione internazionale, e con quel gusto particolare che era riuscito a
formare nel vastissimo pubblico abituandolo alla visione silenziosa, era per il teatro un
concorrente temibile e la minaccia, specialmente in questi ultimi tempi, s’era fatta molto grave.
Un certo abuso della régie, per fare che il teatro diventasse sopra a tutto, o quanto più possibile,
uno spettacolo anche per gli occhi, una certa imitazione dei procedimenti tecnici cinematografici
a cui qualche régisseur già si provava a ricorrere oscurando gradatamente la scena e facendone
sorgere un’altra dal buio momentaneo con accompagnamento di suoni; la scelta d’un nuovo
repertorio teatrale, più leggero e meno consistente, che con facilità si lasciasse manomettere per
ottenere codesti effetti di repentini mutamenti e altri effetti preparati soltanto per un godimento
visuale, erano già segni manifesti di quanto il teatro temesse la concorrenza del cinematografo. Il
pericolo grave per il teatro era questo, che volesse avviarsi a somigliare al cinematografo. Ed
ecco che è il cinematografo, viceversa, a voler diventare ora lui teatro. E il teatro non ha più nulla
da temere. Se io al cinematografo non devo più vedere il cinematografo ma una brutta copia del
teatro, e devo sentir parlare incongruamente le immagini fotografate degli attori, con una voce di
macchina trasmessa meccanicamente, io preferirò andarmene al teatro, dove almeno ci son gli
attori veri che parlano con la loro voce naturale. Un film parlante che avesse l’ambizione di voler
sostituire in tutto il teatro, non potrebbe ottenere altro effetto che quello di far rimpiangere di non
aver davanti vivi e veri quegli attori che rappresentano quel tale dramma o quella tal commedia,
ma una loro riproduzione fotografica e meccanica.
Indirettamente poi il film parlante, anziché nuocere, avrà giovato al teatro, perdendo
inesorabilmente, con l’uso della lingua, la sua internazionalità. Gli occhi per vedere tutti i popoli
li hanno uguali; ma la lingua per parlare ogni popolo ha la sua. Per ogni film tante edizioni
speciali quanti sono i paesi in cui quel film potrà andare, perché non tutti avranno una tale
capacità di mercato da pagare le spese d’una speciale edizione per sé. Le traduzioni di una
edizione unica, se erano possibili per le brevi didascalie, non saranno possibili per i dialoghi degli
attori, che non potranno mica parlare in tutte le lingue. Il mercato internazionale è perduto. I
régisseurs dei film parlanti non potranno più essere quelli del film muto, ma quelli del teatro; gli
attori, se i personaggi dei film d’ora in poi dovranno parlare, non potranno più (tranne qualche
eccezione), essere quelli del film muto, che non hanno l’abitudine, né tanto meno l’arte della
recitazione, o la disposizione a recitare o anche i mezzi, la voce: dovranno essere gli attori di
teatro; e così anche per i soggetti: chi potrà far parlare i personaggi? Non più certo i cosidetti
soggettisti del film muto, ma gli autori di teatro. E allora, altro che abolizione del teatro! In tutto e
per tutto sarà il trionfo del teatro.
Intanto è avvenuto alla cinematografia questa gravissima disgrazia: che il pubblico, dopo tanti
anni, si era abituato alla visione muta; ora che il film ha parlato, per quanto malamente,
grottescamente, insopportabilmente abbia parlato, chi ritorni a vedere un film muto prova una
certa disillusione, un senso d’insofferenza, un senso di insoddisfazione che
prima non avvertiva. Quel silenzio è stato rotto. Non si rifà più. Bisognerà dare adesso ad ogni
costo una voce alla cinematografìa.
È un vano persistere e un cieco affondarsi nel suo errore iniziale il cercare questa voce nella
letteratura. La letteratura, per far parlare i personaggi nati dalla fantasia dei suoi poeti, ha il
teatro. Non bisogna toccare il teatro. Ho cercato di dimostrare, e credo d’aver dimostrato con
ragioni inoppugnabili, che la cinematografìa, a mettersi su questa via, non potrà mai arrivare se
non ad annientare se stessa. Bisogna che la cinematografia si liberi dalla letteratura, per trovare la
sua vera espressione e allora compirà la sua vera rivoluzione. Lasci la narrazione al romanzo e
lasci il dramma al teatro. La letteratura non è il suo proprio elemento; il suo proprio elemento è la
musica. Si liberi dalla letteratura e s’immerga tutta nella musica, ma non nella musica che
accompagna il canto; il canto è parola: e la parola, anche cantata, non può essere delle immagini;
l’immagine, come non può parlare, così non può neanche cantare. Lasci il melodramma al teatro
d’opera e lasci il jazz al music hall. Io dico la musica che parla a tutti senza parole, la musica che
s’esprime coi suoni e di cui essa, la cinematografia, potrà essere il linguaggio visivo.
Ecco: pura musica e pura visione. I due sensi estetici per eccellenza, l’occhio e l’udito, uniti in un
godimento unico. Gli occhi che vedono, l’orecchio che ascolta, e il cuore che sente tutta la
bellezza e la varietà dei sentimenti che i suoni esprimono, rappresentata nelle immagini che
questi sentimenti suscitano ed evocano, sommovendo il subcosciente che è in tutti, immagini
impensate, che possono essere terribili come negli incubi, misteriose e mutevoli come nei sogni,
in vertiginosa successione, o blande e riposanti, col movimento stesso del ritmo musicale.
Cinemelografìa: ecco il nome della vera rivoluzione: linguaggio visibile della musica. Qualunque
musica, da quella popolare, espressione genuina di sentimenti, a quella di Bach o di Scarlatti, di
Beethoven, o di Chopin. Pensate che prodigio d’immagini può destare tutto il folklore musicale
da una antica Habanera spagnola al Volga-Volga dei russi, o la Pastorale, o l’Eroica, un
Notturno o uno dei Valses brillantes. Se finora la letteratura è stata un mare avverso, su cui la
cinematografìa ha malamente navigato, domani, superate le due colonne d’Ercole della
narrazione e del dramma; essa sboccherà liberamente nell’oceano della musica, dove a vele
spiegate potrà alla fine, ritrovando se stessa, approdare ai porti prodigiosi del miracolo.
(Articolo per l’«Anglo-American Newspaper Service», London-New York, giugno 1929).
4. Dramma e sonoro
Esistono due maniere grazie alle quali un artista può fare che la sua vita interna, e cioè i suoi
pensieri, i suoi sentimenti, risultino intelligibili per gli uomini: prima di ogni altro, le parole, e in
verità quelle scritte più di quelle parlate; e quelle che per virtù del senso e dell’udito riproducono
nell’uditore la impressione di chi parla. Secondo: le figure, quelle che attraverso il senso della
vista conferiscono allo spettatore la visione degli avvenimenti che muovono l’artista.
La maniera ideale per esprimere il primo di questi due mezzi artistici è il dramma, e in quanto al
secondo, il cinema servirebbe idealmente il suo fine se fosse solo cosciente delle possibilità e
motivi che gli appartengono esclusivamente.
Rinunciando totalmente al filo che persisterebbe a unirlo ancora all’arte, del tutto differente, del
dramma, il cinema dovrebbe trasformarsi in pura visione: cioè dovrebbe cercare di realizzare il
suo effetto nella stessa maniera che un sogno (tanto quanto una pura visione) influenza lo spirito
di una persona addormentata.
Per questa ragione non c’è, secondo la mia maniera di vedere, assurdo più grande degli
esperimenti che si stanno facendo in materia di cinema parlato. Fin dal principio lo considero
come un’esperienza senza esito, perché tenta di ottenere nel cinema effetti riservati per la scena e
perché non può allo stesso tempo rendere giustizia all’idea della produzione e all’idea della
pellicola.
Assurdi come sono i rumori che pretendono associarsi con piani al cinematografo parlato, debbo
ammettere ciò nonostante che ho idea di mettermi a lavorare con il compito di cercare un’opera
d’arte per il cinema, un’opera d’arte che sia di pura visione, completamente distinta dal
linguaggio che ho impiegato finora come mezzo di esprimere la mia esperienza della vita. Il
dialogo ha sempre avuto nei miei drammi una parte più importante dell’azione.
II mio dramma Sei personaggi in cerca d’autore sarà posto adesso in lavorazione. Dire che lo
sarà non risulta molto corretto: piuttosto cerco di risolvere in maniera puramente ottica il
problema che s’incontra nella stessa radice del mio dramma; e che è trattato in esso
trascuratamente. Mi sto sforzando di rendere intelligibile, attraverso questo mezzo visivo, come i
Sei personaggi e i loro destini furono concepiti nella mente dell’autore, e imbevutisi di vita si
resero indipendenti da lui.
Naturalmente, questa proiezione del problema su un nuovo piano, è solo una sostituzione, una
creatura ibrida che s’incontra molto lontano dall’idea del vero lavoro del cinema. Esso sarà perciò
sperimentato dall’autore fin dal principio come una pura visione, e che può per conseguenza
essere riprodotto.
Tutto ciò che nel cinema attuale ricorda il teatro, ogni elemento che si richiami alla comprensione
e non influenzi solo l’anima dell’osservatore, esclusivamente per mezzo del senso visivo, deve
sparire. Voglio indicare nuove strade al cinema. Come sarà tecnicamente possibile che queste
strade risultino transitabili è ancora il mio segreto, il quale però sarà presto rivelato dal mio
lavoro che darò al pubblico.
Naturalmente, l’occupazione intensa di una forma artistica di espressione non è una sufficiente
giustificazione per considerare l’altra forma praticata finora, come un punto di vista che è stato
superato. Al contrario credo che il dramma abbia ancora molto da insegnare all’umanità, e spero
che mi sarà concesso esprimermi su questo argomento. Recentemente ultimavo un mio nuovo
dramma, un dramma di Lazzaro, che tratta con nuova maniera il problema della risurrezione dopo
la morte, come un risveglio, come una seconda vita terrena. Esso dimostra la conversione dei
risuscitati ad una nuova religione, che costruisce la vita terrena sopra una base d’amore, dopo che
la morte «ha aperto gli occhi» di una persona dandole il potere di comprendere il valore
dell’esistenza terrena.
Attualmente mi sto occupando di un nuovo assunto drammatico. E anche un mito, la forma di
dramma al quale mi dedico preferentemente fin dalla mia Nuova colonia. Si chiama I giganti
della montagna, e tratta il problema della complicata e futile lotta sostenuta attualmente per il
potere intellettuale e fisico, contro la supremazia della materia corporale nel senso più stretto. In
esso si descrive un’artista che desiderosa di far comprendere alle masse l’opera che il suo amato
poeta ha lasciato, si vede burlata e disprezzata, trovando finalmente nei Giganti, che nella
solitudine delle loro montagne vivono, il suo uditorio.
Però, costoro, che non sono capaci di comprendere il sentimento della produzione, né di
convincere l’artista, la cui parte è quella della donna diabolica che abbandona il suo ruolo, la
uccidono.
Tale è il destino che soffre attualmente la vera arte in tutte le parti del mondo. Però questo lo si
deve comprendere unicamente in relazione al dramma, e non deve essere preso personalmente.
Riflette le attualità e non le mie esperienze personali, malgrado che molti successi amari, molte
recenti disillusioni avessero potuto condurmi a simili supposizioni. Però il problema del mio
dramma non ha niente a che vedere col nascente teatro italiano che ebbi la speranza di creare e
non fu mai realizzato. È il simbolo della vita moderna nel mondo intero, un mondo che glorifica
Dempsey e che attraverso la sua stima unilaterale della forza fisica minaccia di distruggere ogni
altro stimato proposito.
(«La Nación», Buenos Ayres, 7 luglio 1929. Traduzione di Renato Giani, titolo originale Il
dramma e il cinematografo parlato).
5. Per il film italiano
[Dopo una lunga premessa sulla situazione del cinema italiano]
[...] Della mancanza di una personalità ben chiara ha sofferto fino ad oggi, in gran parte, il
cinema italiano. Parole molto chiare ci ha detto a questo proposito Luigi Pirandello e la
franchezza della sua esposizione merita la più seria attenzione:
«Io penso - egli ci ha detto - che qualsiasi nuova iniziativa potrà raggiungere risultati assai
notevoli se terrà conto di alcuni fatti. Il cinematografo è un’arte che tutti si sentono di affrontare,
come se bastasse una qualunque attitudine artistica per farne degli iniziati. Il problema del cinema
italiano è invece un problema di tecnici e di competenze ma non nutriti di una pratica puramente
esteriore, bensì creatori e scopritori di possibilità artistiche. Bisogna anzitutto sgombrare il
terreno dai dilettanti, considerare il cinematografo come un’arte i cui problemi non sono risolti
una volta per tutte a priori, ma che si risolvono quotidianamente, come in ogni attività creativa.
Per raggiungere questo occorre una conoscenza dei problemi tecnici e un impiego di essi in modo
strettamente originale.
Il cinema, come oggi sovente si pratica da noi, dà l’impressione di cosa già veduta, di soluzioni
artistiche adattate e riadattate, accettate supinamente e senza revisione di sorta. Se si hanno
presenti le tappe del cinematografo in questi ultimi anni e i ritrovati che hanno distinte le varie
maniere, si ricorderà pure che alle prime audacie meccaniche il cinema di tutto il mondo fece eco.
Per spiegarci, i giuochi degli scorci e delle prospettive raggiunsero l’eccesso, le fotografie
dall’alto al basso, i dettagli, i primi piani furono adoperati per mostrare un virtuosismo della
macchina, spesso senza nessun rapporto con quanto si voleva significare. Con questo si
provavano le meraviglie della macchina, ma si perdeva il sentimento della verità psicologica e
l’equilibrio dell’opera d’arte.
Accadde che per molti anni la macchina regnò padrona, umiliando la logica e la verità. Con
questo nacque una forma esteriore e tutta generica, un’interpretazione buona per ogni forma di
soggetti. I primi che si contentarono di ritrarre quadri scenici senza esagerazioni di prospettive e
di significati, compirono una semplice quanto necessaria rivoluzione cinematografica. Il cinema
se ne avvantaggiò, perché eliminava in tal modo una retorica; il creatore riprese il suo
sopravvento.
Si pensi poi che a queste audacie estreme della macchina da presa corrispose un’eccessiva
timidezza per quanto riguarda il cinema parlato. Il problema del sonoro non è risolto; il
cinematografo, tanto audace nella sua meccanica, divenne timidissimo davanti al sonoro e si
contentò di essere una contraffazione del teatro, rinunziando così alla sua natura. Simultaneità e
sintesi, che erano il suo privilegio, cedettero il posto a un’arte statica, in aperto contrasto con le
leggi che esso porta dentro di sé. Il suono è per il cinema un mezzo di suggestione, un simbolo,
l’accento di tutta una orchestrazione fusa e totale e non ha nulla da fare con quello che noi
chiamiamo dialogo. Noi vediamo, nei migliori esemplari del sonoro, imporsi queste
considerazioni che io ebbi occasione di prospettare alle origini di questa nuova trasformazione
del cinematografo. Oggi l’esperienza me ne dà ragione. Ecco per sommi capi alcuni problemi da
considerare se si vuole iniziare un lavoro degno di una vera civiltà artistica».
(Intervista con Pirandello, datata Roma, 8 notte, firmata Testor, pubblicata nel quotidiano «La Stampa»,
Torino, 9 dicembre 1932).