BlancoValdés.parlamentarismo presidenzialista

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BlancoValdés.parlamentarismo presidenzialista
Il parlamentarismo presidenzialista spagnolo**
di
di Roberto L. Blanco Valdés*
Sommario: 1. Introduzione. Il parlamentarismo: natura e principio. – 2. Parlamentarismo versus
presidenzialismo. – 3. Il modello parlamentare spagnolo. – 4. La presidenzializzazione del
regime parlamentare in Spagna.
1. – Nelle pagine che seguono intendo sostenere essenzialmente due tesi: in primo luogo che
gli indiscutibili elementi di presidenzializzazione presenti nella conformazione giuridica e nella
dinamica del sistema politico spagnolo non valgono di per sé a giustificare un cambiamento
della natura del sistema medesimo, che deve essere considerato necessariamente di tipo
parlamentare. Il parlamentarismo spagnolo presenta evidentemente diversi caratteri propri del
modello presidenziale, attinenti alla particolare evoluzione storica ed alle attuali basi politiche
sulle quali si fonda, ma nessuno di essi può dirsi sufficiente ad indurre una trasformazione della
sua essenza.
La seconda tesi che intendo sostenere si riferisce, precisamente, al carattere del nostro
parlamentarismo, che dipende, anzitutto, da quanto disposto in materia dalla Costituzione del
1978, da alcune leggi che hanno dato attuazione allo stesso dato costituzionale, nonché da
alcuni elementi extragiuridici direttamente connessi alla concreta morfologia del sistema
spagnolo dei partiti ed al modello di leadership praticato al loro interno, soprattutto quando si
tratta di forze di governo. Il parlamentarismo – o, per meglio dire, i parlamentarismi -, così
come il federalismo – o più precisamente i federalismi1 - sono sempre il risultato dell’incontro
di una certa disciplina costituzionale con una realtà politica complessa ed in continua
evoluzione. Certamente non esistono due sistemi parlamentari uguali, così come non esistono
due ordinamenti federali identici. È innegabile che qualunque parlamentarismo (come
qualunque federalismo) funziona non solo secondo quanto stabilito nelle diverse disposizioni
costituzionali che ne definiscono la struttura, ma anche, ed al contempo, secondo gli specifici
dati politici della realtà alla quale le stesse disposizioni costituzionali si applicano. Ogni regime
parlamentare, proprio per questo, è sempre il frutto della combinazione, che si rinnova in ogni
momento storico, di alcune norme con la realtà, che opera come limite rispetto a ciò che le
singole disposizioni possono esprimere e, conseguentemente, rispetto a ciò che di volta in volta
è lecito attendersi da loro. In sintesi, mentre le norme definiscono la natura del governo
* Catedrático
de Derecho Constitucional all’Università di Santiago de Compostela
** Traduzione di Anna Mastromarino
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Vedi sul punto T. Groppi, Il federalismo, Roma - Bari, Laterza, 2004, in particolare 5 ss.
1
parlamentare - «ciò che lo rende tale», secondo la classica distinzione di Montesquieu ne Lo
spirito delle leggi -, la concreta realtà politica determina il principio, ovvero sia ciò che, seguendo
ancora il grande pensatore francese, «lo fa agire».
Organizzerò il presente lavoro in coerenza con le tesi enunciate. Comincerò con il formulare
alcune considerazioni storiche e teoriche sul presidenzialismo e sul parlamentarismo, al fine di
mostrare chiaramente la frontiera che separa due sistemi politici che sono sostanzialmente
diversi. Successivamente mi rivolgerò al parlamentarismo spagnolo non solo nella prospettiva
della sua definizione costituzionale e legislativa, ma anche tenuto conto delle influenze
esercitate dal sistema dei partiti e dai tipi di premiership in uso, il che spero permetterà di capire
la complessità di un modello di parlamentarismo il cui funzionamento è dipeso da fattori politici,
esterni alle norme, che risultano indispensabili al momento di comprendere i suoi limiti e le sue
possibilità.
2. – E’ noto che la differenza fra regimi presidenziali e regimi parlamentari trova la sua
origine nella storia, di modo che, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, saranno proprio le
circostanze storiche esistenti nella fase di genesi degli Stati costituzionali, fra la fine del XVIII e
gli inizi del XIX secolo, a determinare la propensione dei padri costituenti per la forma della
repubblica presidenziale o per quella della monarchia costituzionale, che rappresenta la fonte da
cui scaturiranno successivamente i sistemi parlamentari. La storia si rivelò, dunque, il fattore
determinante nella definizione dell’assetto geopolitico in base al quale nel mondo andarono
distinguendosi i grandi sistemi del diritto comparato in tema di separazione e coordinamento
dei poteri dello Stato.
Sartori ha affrontato chiaramente il punto, affermando che la «ragione per cui l’Europa non
ha sistemi presidenziali puri, che invece troviamo dal Canada in giù attraverso le due Americhe,
è storica e non risulta da alcune scelta deliberata. Quando gli Stati europei cominciarono a
praticare il governo costituzionale, tutti (eccetto la Francia, che divenne repubblica gia nel 1870)
erano monarchie; e le monarchie hanno già un capo di Stato (ereditario). Ma mentre in Europa
non c’era spazio, almeno fino al 1919, per presidenti eletti, nel Nuovo Mondo quasi tutti i nuovi
Stati divennero indipendenti come repubbliche (con le eccezioni temporanee del Brasile e,
marginalmente, del Messico) e si trovarono a dover eleggere capi di Stato, e cioè presidenti. La
divisione fra sistemi presidenziali e parlamentari non risultò, perciò, da una qualche teoria che
dibatteva se una forma fosse superiore all’altra»2.
In realtà l’idea espressa da Sartori era stata già in precedenza sviluppata dallo stesso
Tocqueville, il quale nel corso della sua esperienza di viaggio, ne La democrazia in America parlerà
del « singolare fenomeno espresso da una società in cui non si incontrano né grandi signori, né
gente del popolo, detto altrimenti, né ricchi, né poveri». Tocqueville metterà in relazione questa
2
G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, Bologna, il Mulino, 2004, 100.
2
peculiarità con le origini degli Stati Uniti ed a riguardo sottolinearà che «l’America è l’unico
Paese al mondo dove si sia potuto assistere ad un naturale e tranquillo sviluppo della società e
dove sia stato possibile apprezzare davvero l’influenza delle condizioni di partenza rispetto al
futuro degli Stati». Da ciò deriva, a suo parere, una certa omogeneità sociale di tutto il territorio
americano, omogeneità che finirà con l’avere rilevanti conseguenze rispetto alla costruzione dei
regimi politici instaurati nel Nuovo Mondo una volta ottenuta l’indipendenza nazionale: la
«popolazione della Nuova Inghilterra – scriveva Tocqueville – cresceva rapidamente e mentre
nella madre patria la gerarchia sociale finiva con il classificare dispoticamente gli uomini, la
colonia offriva, ogni giorno di più, lo spettacolo di una società nel suo complesso omogenea. La
democrazia prendeva piede, forte e ben equipaggiata, così come non si sarebbe mai potuto
immaginare in passato, nel bel mezzo della vecchia società feudale»3.
Come ho già avuto modo di affermare altrove4, sarà proprio questa omogeneità sociale e la sua
traduzione in termini istituzionali, in altre parole l’assenza sul territorio americano di monarchie
assolute, ciò che, in America, condurrà – ed in un certo senso si potrebbe persino dire ciò che
costringerà– a porre la questione relativa alla separazione dei poteri in termini diversi da quelli
propri dell’esperienza inglese e successivamente dell’Europa continentale. Così, nel vecchio
continente l’obiettivo perseguito dall’affermarsi del principio della separazione dei poteri sarà
quello di garantire una ripartizione delle diverse attività costitutive dello Stato fra vecchi e nuovi
soggetti politici (eredi dell’ancienne regime, da un lato, e figli della rivoluzione liberale e del
conseguente costituzionalismo, dall’altra), conducendo alla costituzionalizzazione degli esecutivi
dualisti, nei quali è presente un organo, il Capo dello Stato, destinato, nei fatti, a dare continuità,
pur trasformandola, alla figura dei vecchi sovrani assoluti.
Al contrario, nel territorio americano – nordamericano prima e più generalmente americano
dopo – l’assenza storica di un monarca assoluto da inquadrare, politicamente e giuridicamente,
nel nuovo schema istituzionale di divisione dei poteri dello Stato, permetterà di configurare un
esecutivo di tipo monista, che non consente di concretare alcuna differenziazione politica e
funzionale fra Capo dello Stato e Presidente del Governo, permettendo oltretutto di far
derivare la legittimazione del potere esecutivo direttamente dalla stessa fonte di legittimità del
potere legislativo: ovverosia dalla sovranità popolare. In una parola: nell’america del Nord
l’assenza di una monarchia assoluta permetterà la trasformazione degli organi centrali deputati
alla direzione della politica dello Stato – il Parlamento e il Governo – in organi legittimati dal
voto popolare, espresso dalla totalità del corpo elettorale o solo da una parte.
A. Tocqueville, La democracia en America, Madrid, Aguilar, 1989, vol. I, 31 -37.
R. L. Blanco Valdés, El valor de la Constitución. Separación de poderes, supremacía de la ley y control de constitucionalidad en
los origenes del Estado liberal, Madrid, Alianza Editorial, 1994, 111 ss (existe traducción italiana : Il valore della
Costituzione. Separazione dei potere, supremazia della legge e controllo di costituzionalità alle origine dello Stato liberale, Padova,
CEDAM, 1997).
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Da ciò è facile trarre dirette conseguenze: la istituzionalizzazione degli esecutivi dualisti nel
continente europeo trova la sua ragione storica nella discendenza dello Stato costituzionale dalla
monarchia assoluta. Questa è l’origine storica di una serie di sistemi politici – quelli denominati
monarchie costituzionali o limitate – che domineranno il panorama europeo durante tutto il
secolo XIX. Origine che, a prescindere dalle evoluzioni future, riconoscibili nei due modelli
della monarchia parlamentare e della repubblica parlamentare - che presero forma nell’ultimo
trentennio del secolo XIX e nei primi decenni del secolo XX –, dà ragione delle evidenti
differenze fra il modello presidenziale e quello parlamentare, ed in particolare di quelle
considerate fondamentali, come il carattere monista degli esecutivi della forma presidenziale
rispetto alla natura dualista degli esecutivi degli ordinamenti parlamentari, nonché l’elezione
popolare dei presidenti della Repubblica rispetto alla elezione indiretta, ad opera del
Parlamento, dei capi di governo propria delle monarchie e delle repubbliche parlamentari.
A partire da queste considerazioni, seppure si potrebbe sarcasticamente affermare con
Sartori che i sistemi presidenziali e quelli parlamentari si definiscono «per esclusione
reciproca»5, di modo che il modello presidenziale inizia laddove finisce quello parlamentare e
quello parlamentare dove termina la forma presidenziale, d’altra parte deve essere evidenziata
l’esistenza di una serie di criteri distintivi che consentono l’individuazione di un concetto
definito di presidenzialismo. Primo fra tutti, l’esistenza di un sistema di elezione popolare
diretta o quasi diretta del Capo dello Stato per un tempo determinato che, a seconda dei diversi
ordinamenti comparati, può variare, in condizioni normali, fra i quattro e gli otto anni. Per
altro, autorevoli voci – fra cui spicca quella di Sartori - non hanno mancato comunque di
evidenziare che l’elezione diretta del Capo dello Stato rappresenta «senza dubbio una
condizione definitoria necessaria; ma non sufficiente»6, come dimostrerebbero, per esempio il
caso austriaco o islandese.
Il secondo elemento distintivo dei sistemi presidenziali è rappresentato dall’istituto della
rimozione del Capo dello Stato - che, salvo nei casi di messa in stato di accusa (impeachment),
non può essere il risultato dell’azione dell’organo rappresentativo della volontà popolare - così
come dei membri del Governo (gabinetto), che corrisponde al solo Capo dello Stato, ovverosia
a colui che ha provveduto alla loro nomina assumendo su di sé la piena responsabilità della sua
libera scelta.
Il terzo ed ultimo criterio funzionale al riconoscimento degli ordinamenti presidenziali
riguarda una questione centrale come quella attinente alle relazioni che in questa forma
vengono ad instaurarsi fra il Presidente ed il suo Governo: anche se questo criterio potrebbe
essere ridotto alle considerazioni formulate da Lijphart, - secondo cui il presidenzialismo è
«l’esecutivo formato da una sola persona» - d’altro canto ha ragione Sartori quando
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6
G. Sartori, Ingegneria costituzionale, cit., 97.
G. Sartori, Ingegneria costituzionale, cit., 97.
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stemperando questa affermazione aggiunge che ciò che appare chiaro nel sistema presidenziale
è la direzione della catena di autorità che procede dal Presidente verso il basso, il che significa
che è lo stesso Presidente, in ogni caso, a dirigere politicamente il potere esecutivo. A partire
dalle considerazioni svolte, Sartori chiarisce che un sistema di governo può dirsi di tipo
presidenziale se e solo se il Capo dello Stato, nella sua veste di presidente è il risultato di una
elezione popolare , non può essere cessato o rimosso e dirige il gabinetto i cui membri procede
lui stesso a nominare: quando «queste tre condizioni sono soddisfatte congiuntamente, allora
abbiamo senza dubbio un sistema presidenziale puro; o così dice la mia definizione»7.
A partire dalla definizione di Sartori, che descrive con precisione l’essenza stessa della forma
presidenziale, è possibile del resto prendere in considerazione altri elementi che, a partire
proprio da quel nucleo duro, permettono di meglio definire i contorni del presidenzialismo.
Così Joseph LaPalombara aggiunge, fra l’altro, che, nel presidenzialismo il potere legislativo
non risulta in alcun modo obbligato ad approvare i progetti di legge che provengono
dall’esecutivo, così come a sua volta, l’esecutivo può esprimere il proprio veto rispetto ai
progetti di legge parlamentari. Ed ancora che nel presidenzialismo il potere esecutivo può
chiamare il popolo a pronunciarsi direttamente attraverso plebisciti o referendum8. Paul Marie
Gademet sottolinea, da parte sua, che il principio di separazione dei poteri è rigorosamente
applicato quando il Presidente che non è politicamente responsabile davanti al Parlamento non
può procedere al suo scioglimento9. Jorge Carpizo evidenzia, infine, che nei sistemi
presidenziali, come regola generale, né il Presidente né i ministri possono essere membri del
Parlamento, che lo stesso Presidente può essere legato ad un partito politico diverso da quello
che gode della maggioranza parlamentare e che il Capo dello Stato non può sciogliere l’organo
legislativo, né questo può censurare direttamente il Presidente10.
Tutto ciò conduce, come è facilmente immaginabile, verso un tipo di sistema politico la cui
struttura finisce con il condizionare, inevitabilmente, la sua dinamica: altrimenti detto, e per
richiamare ancora la classica distinzione di Montesquieu, la cui natura influenza il principio. La
struttura – o natura- del presidenzialismo determinano, in una sola parola, il margine di manovra
politico e costituzionale di cui godono concretamente gli attori che incarnano le istituzioni dello
Stato nella quotidiana soluzione dei problemi relativi al funzionamento della democrazia.
Ma prima di addentrarmi nell’analisi di questo aspetto, vorrei ancora completare quanto
sinora detto, ricordando fra i caratteri del sistema presidenziale sino qui richiamati quelli
descritti da Juan Linz, grande conoscitore delle difficoltà relative alla pratica della democrazia e
Ibidem, 98.
J. LaPalombara, Politics withim nations, New Jersey, Prentice-Hall, 1974, 198 s.
9 P.M. Gademet, Le pouvoir executif dans les pays occidentaux, Parigi, Ed. Montchrestien, 1996, 16.
10 J. Carpizo, Caracteristicas esenciales del sistema presidencial e influencias para su instauración en America Latina, in Boletin
Mexicano de Derecho Comparado, n.115, 2006, 60, nonché, dello stesso autore, El presidencialismo medicano, Mexico,
Siglo Veintiuno Editores, 2002, 13.
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della sua crisi, che definisce il presidenzialismo a partire da due elementi, l’uno e l’altro
fondamentali al momento di comprendere la natura di alcuni nodi cruciali che lo stesso autore
ha incontrato muovendosi entro il suo vasto campo di indagine, rappresentato dall’insieme del
territorio americano, dalla fine del XVIII secolo sino ai principi del XIX. Così per Linz i
caratteri distintivi del presidenzialismo sarebbero, da un lato, l’esistenza di un rapporto di
legittimità democratica duale, «dovuto al fatto che tanto il Presidente quanto il Congresso sono
eletti dal popolo e che non viene meno neppure quando il Presidente è designato da parte di un
collegio, eletto dal popolo a questo solo fine»; dall’altro la rigidità del sistema, «in virtù della
quale entrambi i poteri sono eletti per un periodo fisso ed il mandato del Presidente è
indipendente dalla volontà del legislativo la cui esistenza è, a sua volta, indipendente dal
Presidente»11.
Il punto di vista di Linz mi pare particolarmente interessante, dal momento che pone in
rilievo quale elemento davvero caratterizzante del presidenzialismo – e dunque, per questo,
distintivo rispetto al parlamentarismo – la legittimazione democratica duale, che determina, a
sua volta, la straordinaria rigidità del sistema, sino a trasformarlo in una versione estrema del
principio di separazione dei poteri, già introdotto con la rivoluzione liberale, dove il concetto di
separazione si impone con evidenza sull’idea di coordinamento. E ciò accade proprio perché i due
poteri fondamentali dello Stato – il Parlamento ed il Governo, che esercitano il potere politico,
diversamente dagli organi giudiziari che si limitano ad esercitare quello giuridico – sono
legittimati direttamente dal popolo. La comune elezione diretta sarebbe alla base del fatto che i
conflitti fra i due poteri finiscono con l’assumere frequentemente la dimensione di scontri
frontali, senza che la forma presidenziale sia in condizione di ricorrere ai meccanismi di
risoluzione dei conflitti tipici del parlamentarismo: la censura del Governo da parte del
Parlamento o il suo scioglimento da parte dell’esecutivo. Per dirlo ancora con le parole di Juan
Linz: «dato che il potere del Presidente e del Congresso derivano dal voto popolare […] si
instaura un conflitto permanente ora latente, ora sul punto di esplodere drammaticamente; non
vi è alcun principio democratico per risolverlo, e i meccanismi di risoluzione che potrebbero
essere indicati dalla Costituzione sono generalmente complessi, altamente tecnici, cavillosi e,
dunque, di dubbia legittimità democratica di fronte all’elettorato»12.
Di fatto, i due meccanismi di contrappeso tipici del parlamentarismo (la mozione di censura
e lo scioglimento anticipato del Parlamento da parte del Presidente del Governo)
rappresenterebbero un modo per interferire sulla durata del mandato legittimamente previsto
per le cariche dei due organi dello Stato e, conseguentemente, un modo per limitare o sfumare
la rigidità che deriva dal fatto di non poter intervenire sulla durata del mandato del Parlamento
J. Linz, Presidential or Parlamentary Democracy: Does it Make a Difference in J. Linz, A. Valenzuela, The failure of
Presidential Democracy. Comparative Perspectives, Baltimore, The johns Hopkins University Press, Vol. , 1994, 6.
12 Ibidem, 7.
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e del Governo a prescindere da eventuali cambiamenti delle circostanze politiche rispetto al
momento in cui ebbero luogo le elezioni. In effetti, nel sistema parlamentare la censura politica
riduce il mandato del Presidente e del suo Governo - nonché eventualmente anche della
maggioranza governativo-parlamentare che ha scelto e sostenuto quel Governo sino
all’approvazione della stessa mozione di censura – e lo fa in favore dello stesso Parlamento, che
mediante la censura impone la propria visione politica; viceversa, e simmetricamente come altra
faccia di una medesima medaglia, lo scioglimento anticipato accorcia i tempi del mandato
parlamentare - ed in particolare ancora della maggioranza governativo-parlamentare che è
disconosciuta dallo stesso Presidente attraverso l’esercizio della facoltà, riconosciutagli dalla
Costituzione, di intervenire sulle cariche parlamentari prima del loro naturale esaurimento – e
lo fa in favore del Governo che, in ogni caso, a questo punto, dovrà pagare il prezzo della
propria prerogativa confrontandosi con il corpo elettorale. Non dovrebbe, dunque, stupire il
fatto che in relazione a questo punto si siano concentrati alcuni dei maggiori inconvenienti del
sistema presidenziale, inconvenienti ai quali mi riferirò di seguito con il solo obiettivo di
aggiungere a quelli già richiamati alcuni elementi che permettono una maggiore definizione del
sistema.
A tal fine comincerò con il richiamare la catalogazione redatta da due fra i maggiori esperti
del mondo nello studio del presidenzialismo, Scott Mainwaring e Matthew Soberg Shugart, che
nel 1997 diressero l’opera collettanea Presidencialismo y democrazia en America Latina13. Nel saggio
che apre l’opera,14 Mainwaring e Soberg Shugart richiamano ragioni a favore e contro il
presidenzialismo, ricordando fra le prime proprio quelle stesse argomentazioni che sono alla
base delle mie riflessioni: «in primo luogo – affermano – i critici del presidenzialismo
sostengono che la durata predeterminata del mandato presidenziale introduce una rigidità che in
termini di democrazia risulta essere meno conveniente della flessibilità offerta dai meccanismi
parlamentari della mozione di sfiducia e dello scioglimento. Sostengono che la durata
prestabilita del mandato presidenziale provoca difficoltà proprio nel momento in cui è
necessario far fronte a crisi importanti». È vero, d’altra parte, che la maggior parte dei sistemi
presidenziali disciplinano, sotto diversi aspetti, istituti di impeachment, e che all’atto pratico il
ricorso a questo tipo di strumenti potrebbe condurre a risultati assai simili, almeno nelle
conseguenze dirette, a quelli prodotti dalla censura, caratteristica dei sistemi parlamentari: vale a
dire la rimozione del titolare del potere esecutivo. Resta il fatto che «anche se la maggior parte
dei sistemi presidenziali prevedono meccanismi di impeachment, essi garantiscono comunque una
minore flessibilità nei momenti di crisi, dal momento che l’obiettivo di deporre il presidente
finisce con il mettere in pericolo l’intero sistema». Ne discende che per quanto un Presidente
S. Mainwaring e M. Soberg Shugart, Presidencialismo y democrazia en America Latina, Buenos Aires, Paidos, 2002.
Idem, Presidencialismo y democrazia en america Latina: revisión de los términos del debite, in S. Mainwaring e M. Soberg
Shugart, Presidencialismo y democrazia en America Latina, cit., 19 – 64.
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«possa risultare incapace di portare avanti la propria azione a causa dell’opposizione del
Congresso», sicuramente «nessun altro attore istituzionale sarà in grado di risolvere il problema
operando nel rispetto delle regole del sistema democratico», il che genera un effetto
assolutamente indesiderato, però difficile da evitare, che consiste nel riconoscere nell’atto del
colpo di Stato, più o meno dissimulato, o più o meno violento, «l’unica via percorribile per
sbarazzarsi di un presidente incompetente ed impopolare»15. A ciò si aggiunga che anche nel
caso in cui l’inpeachment fosse condotto con successo – il che è storicamente risultato essere un
evento eccezionale – e qualora la sua riuscita non avesse fatto vacillare o venir meno il sistema
politico esistente, il che sembrerebbe ancora meno plausibile, bene in questo caso il diritto
costituzionale, almeno in termini generali, prevede comunque che il Presidente rimosso sia
sostituito dal suo Vice-Presidente, il che non sembra rappresentare quasi mai una soluzione
soddisfacente per porre fine alla situazione di crisi che ha portato all’impeachment stesso. Risulta
assai difficile immaginare un’ipotesi in cui le ragioni che possono aver spinto un Parlamento a
ricorrere all’istituto dell’impeachment per rimuovere il Presidente non siano a sua volta estendibili
anche alla figura del suo vice, che con il Presidente suole mantenere relazioni di forte
dipendenza. Il celebre caso Watergate, in questo senso, non rappresenterebbe che la classica
eccezione in grado di confermare la regola generale.
Dalla rigidità della forma presidenziale non solo conseguono evidenti difficoltà al momento
di liberarsi di un Presidente incapace o di un Presidente che ha violato i limiti della legalità
(macchiandosi di delitti di corruzione e di altro genere), dal momento che «i sistemi
presidenziali fronteggiano male le grosse crisi»16, ma deriva altresì la considerazione per cui
mentre le crisi dei sistemi parlamentari assumono solitamente la forma di crisi di governo e non
di sistema, quelle della forma presidenziale si trasformano facilmente in crisi che riguardano
l’ordinamento nel suo insieme. E ciò perché, al di là dell’evidente difficoltà di rimuovere i
presidenti dal loro mandato «neppure i capi dell’esecutivo possono rafforzare la propria
autorità, ponendo un questione di fiducia o disponendo lo scioglimento del Parlamento per
convocare nuove elezioni», dal che discende che in alcuni casi la direzione presidenziale può
divenire assai più debole di quella esercitata da alcuni primi ministri nella forma di governo
parlamentare.
La rigidità che deriva dalla durata del mandato presidenziale, prestabilita e pressoché
inalterabile per mezzo degli strumenti istituzionalmente previsti, genera, infine, un’ultima
disfunzione, rivelando un ulteriore elemento distintivo del presidenzialismo, evidente nei casi in
cui la rigidità si associ al divieto, piuttosto frequente, di rielezione, nella tornata elettorale
successiva (secondo mandato) o in quella immediatamente seguente (terzo mandato). Per dirlo
con le prole di Mainwaring e Soberg Shugart «così come nel sistema presidenziale è difficile
15
16
Ibidem, 36 s.
G. Sartori, Ingegneria costituzionale, cit., 108.
8
procedere alla sostituzione di un Capo dello Stato eletto democraticamente che ormai non può
più contare su alcun appoggio, ugualmente questa forma di governo impedisce il
prolungamento del mandato oltre i limiti fissati costituzionalmente per quei presidenti che pure
sono ancora sostenuti dagli elettori». Di modo che «nonostante questo genere di disposizioni
non ineriscano direttamente al tipo di sistema, la maggior parte delle Costituzioni presidenziali
vietano la rielezione alla carica presidenziale per mandati consecutivi» il che determina che «dei
buoni presidenti devono abbandonare il loro incarico anche quando possono ancora contare
sull’appoggio dell’elettorato, delle élites, dei partiti politici e di ogni altro rilevante attore
politico». Dal punto di vista del funzionamento del sistema ciò significa che, di fatto «i
presidenti possono contare su un tempo assai limitato per la realizzazione dei loro progetti, così
che, spesso, cadono nella tentazione di voler fare molto in troppo poco tempo». Gli stessi
Mainwaring e Soberg Shugart citano sul punto le opinioni di Linz che mette in luce come «la
discontinuità nelle politiche intraprese, nonché la sfiducia nei confronti dei potenziali successori
alimentano una sensazione di urgenza […] che può condurre a politiche scarsamente definite,
ad una loro rapida implementazione e ad un atteggiamento di impazienza nei confronti
dell’opposizione».
Vedremo in seguito come il parlamentarismo – o per meglio dire come un concreto tipo di
parlamentarismo, quello spagnolo – offra una struttura generale assai diversa rispetto a quella
dei presidenzialismi richiamati, il che non esclude che questo stesso sistema parlamentare
presenti, nei fatti, un forte carica presidenzialista e che, in alcune occasioni, adotti alcune
attitudini e assuma alcune pratiche tipiche dei regimi presidenziali.
3. – La Costituzione spagnola del 1978 dedica un titolo specifico, il V, alla disciplina delle
relazioni tra il Governo e le Cortes Generales. In realtà, alla sistematicità della norma
costituzionale non corrisponde un’effettiva unità delle questioni regolate in questo titolo. E ciò
perché sotto la medesima e generica rubrica “relaciones”, la Costituzione provvede a disciplinare
due e diversi ambiti. Da una parte quello attinente al funzionamento di tre istituti chiave,
essenziali per preservare il modello parlamentare: mozione di sfiducia, questione di fiducia e
scioglimento anticipato delle Corti da parte del Presidente del Governo. Dall’altra quello
relativo ad una serie di strumenti di controllo del Governo e della pubblica amministrazione
chiamati ad operare su due piani: istituzionalmente, ridimensionando, attraverso la ricerca della
trasparenza della gestione e la socializzazione di informazioni ottenute grazie all’esercizio del
potere esecutivo, gli strumenti di potere di cui, secondo il modello dello Stato interventista,
l’uno come l’altra dispongono; politicamente, generando un sistema dinamico che rende
possibile l’alternanza. Questo è il senso profondo del potere proprio della Camera di assumere
informazioni, nonché di formulare interrogazioni ed interpellanze. È chiaro che tanto gli istituti
quanto gli strumenti richiamati hanno caratteri comuni: entrambe esprimono il rapporto di
9
gerarchia esistente in tutte le democrazie parlamentari europee fra l’organo di rappresentanza
della sovranità popolare, il Parlamento, ed il Governo, che al primo è subordinato; entrambe,
inoltre, costituiscono una chiara manifestazione della dinamica maggioranza /minoranza che
distingue il parlamentarismo nelle moderne democrazie di partito. Effettivamente tanto i
meccanismi introdotti per garantire equilibrio, quanto gli strumenti di controllo hanno un
carattere sostanzialmente (infraorganico) intraorganico dal momento che la loro efficacia si
esprime quasi sempre attraverso votazioni che mettono a confronto il Governo, che può
contare sulla maggioranza governativo – parlamentare che lo sostiene, con la minoranza che
concretamente ha attivato l’uno o l’altro istituto di equilibrio o di controllo. Ma al di là di questi
aspetti comuni, le differenze sono del resto indiscutibili: in primo luogo perché mentre il
ricorso a strumenti atti a garantire il ripristino di un certo equilibrio è un fatto pressoché
eccezionale e sintomatico di un funzionamento patologico di uno o più elementi del sistema
parlamentare, per quanto riguarda gli istituti di controllo, essi funzionano abitualmente, dal
momento che proprio la loro consuetudine è indice di una condizione di fisiologica normalità
dell’ordinamento; secondariamente perché la Costituzione affida solo al Congresso dei Deputati
il compito di preservare l’equilibrio fra gli organi, diversamente da quel che capita rispetto agli
strumenti di controllo che sono prerogativa tanto del Congresso quanto del Senato; ed infine,
perché sono proprio i meccanismi di garanzia dell’equilibrio istituzionale, e non quelli di
controllo, a caratterizzare il modello parlamentare previsto in Costituzione. Ciò giustifica,
evidentemente, l’attenzione ad essi dedicata in queste pagine.
Gli istituti a sostegno dell’equilibrio fra i poteri costituzionali, in Spagna, sono resi necessari
dall’esigenza di dare effettività al principio parlamentare nel tempo in cui il Governo esercita il
potere esecutivo dello Stato. Il Governo che nasce, di fatto, come Governo del Congresso dei
Deputati, per mezzo di una delibera che lo investe ed alla quale si farà fra breve riferimento,
deve continuare ad essere tale nel corso di tutta la legislatura, di modo che se ad un certo punto
non potrà più contare sul sostegno parlamentare che ha reso possibile la sua entrata in carica,
allora dovrà lasciare spazio ad un nuovo Governo o rimettersi alla decisione del corpo elettorale
chiamato ad esprimersi con l’indizione di elezioni anticipate. Così impone il modello
parlamentare previsto in Costituzione: non è possibile che un Governo resti in carica se non
gode più del sostegno della maggioranza del Congresso. In sostanza il parlamentarismo non è
altro che questo: una forma concreta di organizzazione dell’equilibrio fra i poteri dello Stato, di
un equilibrio che per lo più dipende dall’efficacia di quegli stessi istituti che sono chiamati a
garantirlo.
Questa è la ragione per cui lo studio degli strumenti che danno forma al principio
parlamentare nel nostro ordinamento induce a riflettere, innanzitutto sulle circostanze che
condizionano quello che, senza dubbio, può essere definito come nuovo parlamentarismo, frutto
10
dei cambiamenti prodotti nell’ambito delle rispettive posizioni politico – istituzionali del
Parlamento e del Governo.
La prima fra queste circostanze è rappresentata dal ruolo decisivo giocato dai partiti nel
funzionamento istituzionale dello Stato democratico. Decisivo nella misura in cui si consideri
che solo i partiti, sull’appoggio dei quali il Governo può contare, sono in grado di garantire il
sostegno del Parlamento e di imporre, quando necessario, il voto compatto in sua difesa. La
disciplina di partito ha reso dunque possibile la pratica del parlamentarismo, ma ha chiesto in
cambio un caro prezzo rappresentato dall’imporsi della prassi per cui i governi potranno,
generalmente, essere sostituiti solo se travolti dal fallimento della maggioranza parlamentare che
li ha espressi. Le minoranze, ed in articolare quelle minoranze che per dimensione hanno la
concreta possibilità di divenire in futuro esse stesse maggioranza, sanno bene, sin dal giorno in
cui con l’elezione del Presidente si procede a consolidare una stabile maggioranza di governo,
che per poter favorire un cambiamento in seno all’esecutivo esistono solo due alternative:
provocare la rottura della maggioranza, sia essa o no il frutto di una coalizione, quando questa
al suo interno appaia disomogenea; proporsi come maggioranza alternativa nelle elezioni
successive, quando la maggioranza è omogenea. Certo in questa ipotesi è possibile immaginare
una terza via, propiziando la rottura interna del partito che appoggia il Governo, ma nei fatti
questa opzione appare assai poco praticabile, soprattutto in quei sistemi politici in cui i partiti
sono coesi. Diversamente in quei casi in cui il processo di consolidamento è solo all’inizio o
non è stato neppure avviato, come è stato eloquentemente dimostrato dal caso spagnolo del
Partido de Union de Centro Democratico, che vinse a maggioranza relativa le elezioni del 1979, per
poi disintegrarsi due anni più tardi a causa dei conflitti interni dovuti all’impossibilità di trovare
un assetto di governo capace di contenere le diverse correnti e divisioni interne.
Dopo la celebrazione delle elezioni, per chiara volontà popolare o intervento di successivi
accordi in seno al Parlamento, può nascere un Governo capace di resistere agli attacchi delle
diverse minoranze, o perché dispone dell’appoggio della maggioranza assoluta della Camera – e
quando serve di entrambe le Camere – o perché, anche quando non può contare sul sostegno
della maggioranza parlamentare, sa sfruttare a proprio vantaggio lo stato frammentato di una
opposizione assai divisa al suo interno e, pertanto, incapace di impedire l’iniziativa governativa,
metterne in pericolo la stabilità o la permanenza in carica. Dati certi presupposti, la minoranza
non potrà far altro che aspettare, avendo assai poche possibilità non tanto di rovesciare il
Governo, rovesciando la maggioranza che lo appoggia, quanto anche solo di influenzare
l’azione governativa, ed in particolare il suo programma legislativo, la sua potestà esecutiva e le
priorità individuate in entrambe i campi. Così stanno le cose, di modo che generalmente non
deve preoccupare il fatto che l’opposizione risulti sistematicamente sconfitta nelle votazioni
parlamentari: preoccupante sarebbe piuttosto la loro abituale prevalenza.
11
Quali conseguenze derivano dalla nuova posizione dell’opposizione nel parlamentarismo
proprio dello Stato di partiti? La principale è la seguente: l’attività parlamentare delle minoranze,
e specialmente di quelle che sono state al governo e/o prevedono che potrebbero
eventualmente tornare ad occupare cariche governative, sarà diretta in particolar modo, ed in
molte occasioni quasi esclusivamente, a screditare la corrispondente maggioranza rispetto
all’opinione pubblica, al fine di promuovere e, a suo tempo, produrre un cambiamento delle
preferenze del corpo elettorale.
Va detto subito che questo stato di fatto risulta essere condizionato, oltre tutto, da una realtà
che non va sottaciuta: la progressiva professionalizzazione delle élites politiche, e, fra loro, di
quelle parlamentari.
Questa tendenza alla professionalizzazione, in virtù della quale i parlamentari di quasi tutti i
partiti hanno finito con il convertirsi in professionisti della politica, che si avviano alla pratica
dell’attività pubblica molto giovani e lo fanno avendo la pretesa di continuare per un tempo
illimitato, ha determinato, fra gli altri, un effetto di tipo trascendentale che Klaus von Beyme,
nel suo studio su La clase politica en el Estado de partidos17, ha definito come “alienazione” del
politico nei confronti della sua professione d’origine. Le conseguenze che questa crescente
tendenza alla professionalizzazione determina in capo ai parlamentari che appoggiano il
Governo o nei confronti di quelli che, di volta in volta, stanno all’opposizione sono diverse,
ma, in ultima istanza, confluiscono tutte a rafforzare quella dinamica Governo – opposizione di
cui si parlava.
La professionalizzazione ha contribuito, da una parte, a rafforzare la stabilità dei governi,
favorendo la disciplina di partito che ne rappresenta la chiave di volta. I parlamentari
generalmente, infatti, sono molto disciplinati dal momento che mostrarsi riluttanti rispetto alle
posizioni del partito conduce, quasi sicuramente, alla perdita del seggio a causa del mancato
rinnovo della candidatura. E questa perdita, che in ogni caso assume i connotati di un castigo dai
chiari effetti deterrenti, aumenta la sua carica dissuasiva nel caso in cui il parlamentare, per il
quale l’adesione alla disciplina di partito risulta essere il presupposto indispensabile per il
rinnovo della sua candidatura elettorale, sia un professionista della politica. Le conseguenze
della professionalizzazione rispetto all’opposizione, d’altra parte, sono simmetriche seppur
diverse nei suoi risultati: i parlamentari dell’opposizione, e fra questi, in particolare, quelli che
fanno parte del partito di maggior peso – vale a dire quelli che aderiscono a quella parte
dell’opposizione che più di ogni altra ha la possibilità di giungere al governo – tenteranno prima
di tutto di logorare la tenuta della maggioranza al fine di rovesciarla, portandola, quindi, alla
propria attuale condizione.
È chiaro l’unico obiettivo perseguito, che consiste nella conquista del diritto a formare il
Governo. Non si deve dimenticare che la vittoria elettorale finisce per rappresentare sempre
17
K. Von Beyme, La clase politica en el Estado de partidos, Madrid, Alianza, 1995.
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una fonte inesauribile di risorse politiche, a disposizione dei partiti che avendola ottenuta
vedono accrescersi in maniera straordinaria la loro possibilità di trovare una collocazione ai
propri affiliati e sostenitori. Ciò contribuisce a rendere la vittoria elettorale un obiettivo di vitale
importanza - soprattutto per i grandi partiti, che contano nelle loro fila centinaia di
professionisti della politica che aspirano ad occupare un incarico pubblico -, mentre trasforma,
specularmente, la perdita della maggioranza governativa – e dunque il passaggio all’opposizione
– in una autentica catastrofe. Per questo l’obiettivo perseguito dal partito che ha appena lasciato
il governo è quello di tornarvi il prima possibile, così come, più generalmente, il fine ultimo di
ciascun partito che possa legittimamente sperare di governare è quello di vedere realizzate il
prima possibile le sue speranze. E ciò perché, inoltre, solo così potrà avere accesso ad una serie
di risorse da ripartire e dalle quali dipendono molte cose, non da ultimo la stessa stabilità
interna del partito.
Quanto sinora affermato significa, in conclusione, che il destinatario privilegiato dell’azione
dell’opposizione sarà l’opinione pubblica, tenuto conto che la stessa opera di detrimento nei
confronti della maggioranza è sostanzialmente rivolta ad influenzare chi con la sua decisione ha
la possibilità di dare impulso ad un cambiamento della situazione politica vigente: il corpo
elettorale. Qui risiede la seconda delle circostanze che hanno finito con il condizionare l’attuale
posizione politica ed istituzionale del Parlamento. Ciò non significa in nessun modo affermare
che l’opinione pubblica nasce con le moderne democrazie di massa. Significa piuttosto rilevare
che con il suo consolidamento si sono prodotti cambiamenti che riguardano tanto i mezzi per la
diffusione dei messaggi, quanto i destinatari ed il contenuto dei messaggi stessi. Gli strumenti
per la trasmissione di informazioni non solo si sono moltiplicati nel numero rispetto, per
esempio, a quelli degli anni sessanta, ma hanno anche aumentato esponenzialmente la loro
capacità di giungere ovunque, in tempo quasi reale.
In questo senso il vero cambiamento è stato determinato ovviamente dalla comparsa prima e
dalla diffusione dopo della televisione, il cui impatto è ben conosciuto: la televisione ha
permesso ad ogni tipo di evento, ed in particolare a quelli di tipo politico, di entrare nelle case
di ognuno in tempo record ed ha permesso ad una percentuale sempre più alta di cittadini
elettori di assumere informazioni che prima del suo arrivo erano riservati a gruppi minoritari
della popolazione. E ciò perché la televisione raggiunge i suoi destinatari a prescindere dalla
loro condizione economica o sociale, nonché dal loro habitat geografico, il che ha condizionato
sin dal principio il processo di acquisizione delle informazioni divulgate. La televisione è stata,
in sintesi, uno strumento di democratizzazione per la assunzione di informazioni e per la
omologazione dei loro contenuti i cui effetti più evidenti hanno riguardato la trasformazione
dei caratteri dei soggetti ai quali si rivolge. Fra questi il più incisivo riguarda l’avvio di ampi
processi di alfabetizzazione nonché un generale innalzamento del livello culturale che un po’
ovunque ha accompagnato il consolidamento delle democrazie di massa. Questo fenomeno ha
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fatto sì che, per la prima volta, l’opinione collettiva fosse davvero pubblica ed ha contribuito,
alla lunga, ad un miglioramento della qualità dell’elettore medio, capace non solo di assimilare,
ma anche di elaborare informazioni che per quantità e per complessità un tempo sarebbero
state completamente fuori dalla sua portata. In ciò consiste effettivamente l’ultima
trasformazione dell’opinione pubblica nelle attuali democrazie di partito: lo scontro politico alla
base di quella azione di costante detrimento cui le minoranze dell’opposizione sottomettono la
maggioranza governativo – parlamentare non riguarda esclusivamente il Governo come organo
dello Stato, quanto piuttosto la più ampia attività svolta sotto la sua direzione generale dai
diversi comparti e dalle molte istituzioni che costituiscono il potere esecutivo. Il Governo, con
la G maiuscola e la sua maggioranza parlamentare possono così essere criticati o censurati non
solo per la concreta gestione del potere da parte del Presidente o di un ministro, ma anche, e di
fatto così è frequentemente, a causa dell’operato dei dirigenti gerarchicamente subordinati e
facenti parte dell’amministrazione centrale, delle amministrazioni territoriali la cui maggioranza
politica coincide con quella di governo, o di altri tipi di amministrazione: i direttori dei pubblici
mezzi di comunicazione o i presidenti delle imprese a rilevanza pubblica, bersagli privilegiati
dell’azione politica della opposizione parlamentare, sono esempi più che significativi di questa
pratica abituale in tutte le democrazie europee.
In ogni caso e a prescindere da ciò, in queste democrazie è andato ampliandosi anche il
numero delle attività che si è soliti far ricadere fra quelle proprie dell’azione di contrasto delle
minoranze dell’opposizione e che rappresentano, in alcuni casi, uno strumento che permette
risultati in termini politici ed elettorali molto più efficaci di quelli frutto dell’azione di controllo
di tipo tradizionale, che punta la sua attenzione sulla politica sviluppata dai politici e non sui
politici che sviluppano politiche. Si pensi, ad esempio, al crescente protagonismo che all’interno
della vita democratica è andata assumendo la costante attenzione rivolta alle risorse economiche
private di coloro che occupano un incarico pubblico, nonché, e non è che un altro esempio, allo
spazio occupato nel dibattito democratico dalle questioni in tema di corruzione o di
finanziamento ai partiti.
Un elettorato molto più permeabile rispetto alle diverse fonti di informazioni, nonché agli
influssi provenienti dai molteplici canali del potere politico e sociale (mezzi di comunicazione,
internet, partiti, sindacati, organizzazioni non governative, chiese, gruppi economici,
associazioni, forum, movimenti culturali…) ha finito con il divenire per forza di cose più
volatile, ovverosia più propenso a modificare il suo voto, ad uniformare la sua decisone
elettorale tenendo conto di elementi assai differenti rispetto alle vecchie credenze culturali o alle
antiche ideologie: questa estinzione o, in ogni caso, questo indebolimento delle tradizionali
identità collettive, nonché la loro conseguente sostituzione ad opera di altre identità molto più
plurali e diversificate, costituisce la terza circostanza che ha contribuito a determinare
14
cambiamenti sostanziali nel funzionamento politico – istituzionale dei regimi parlamentari
attuali.
Non è necessario insistere sulla relazione di interazione e retroazione che lega la prima e la
seconda circostanza (il ruolo dei partiti nel rafforzamento della maggioranza governativo –
parlamentare , da una parte, e la dimensione extraparlamentare della attività di controllo rivolta
in modo particolare ad un solo destinatario, l’opinione pubblica, posta al di fuori del
Parlamento, dall’altra) alla terza appena menzionata. Perché un elettorato tanto più volubile e
volatile, quanto meno connotato dal punto di vista della identità e delle ideologie, è un
elettorato molto più suscettibile di essere influenzato dall’una o l’altra prospettiva politica – dal
Governo o dalla opposizione, dalla maggioranza o dalle diverse minoranze –contribuendo con
il suo voto a mantenere la situazione vigente, confermando il suo appoggio alla maggioranza
governativo – parlamentare o, al contrario, modificandola mediante il riconoscimento del
proprio sostegno al gruppo, o ai gruppi, che sono all’opposizione. Tutto ciò risulterebbe,
inoltre, condizionato dal fatto che, come ricordato, nelle attuali democrazie parlamentari di
partito il cambiamento o, nel caso, la continuità politica che l’ultimo risultato elettorale può aver
garantito costituiscono quasi l’unica via praticabile per – rispettivamente – propiziare un
cambiamento al Governo o, al contrario, per impedirlo. Conseguentemente si potrebbe
affermare che se la crescente volubilità e fluidità del corpo elettorale hanno accresciuto le
possibilità che il cambiamento o la stabilità politica dipendano in sostanza dai suoi spostamenti
molto più di quanto succedeva nel passato (quando con elettorati ideologicamente molto più
consolidati questi spostamenti risultavano essere assai più lenti e di minore intensità), il
consolidamento della disciplina di partito, tipica delle attuali democrazie, ha trasformato queste
possibilità in una necessità per quanti, nell’opposizione, lottano per determinare il cambiamento
o, nel Governo, cercano di evitarlo.
E’ in questo nuovo contesto politico che, grazie alle circostanze sinora riferite, il sistema di
equilibrio interorganico previsto nella Costituzione del 1978 assume il suo autentico significato.
Un sistema il cui disegno è di una semplicità e linearità quasi matematiche: il Governo nasce per
nomina del Presidente investito dal Congresso dei Deputati con un atto che mette in luce
l’esistenza di una maggioranza governativo – parlamentare stabile, la cui unica vocazione
consiste nel mantenimento in carica del Governo stesso per tutto il corso della legislatura. Ciò
non esclude che, per ragioni diverse, questa maggioranza possa indebolirsi, eventualità rispetto
alla quale al Presidente del Governo non resterà altra possibilità che porre al Congreso una
questione di fiducia volta a compattarla, tenuto conto che, laddove non riesca nel suo intento, la
Camera sarà chiamata ad investire un nuovo Presidente. A questa prima evenienza se ne
aggiunge una seconda costituzionalmente prevista, per cui nel caso in cui la maggioranza
parlamentare venga meno, al di là dei motivi che hanno portato alla sua disgregazione, e qualora
la Camera bassa al suo interno sia comunque in grado di esprimere una nuova maggioranza
15
alternativa, è possibile che il Congresso approvi una mozione di sfiducia costruttiva per mezzo
della quale sostituisce il Governo censurato con un altro rappresentativo del nuovo assetto
politico.
Mozione e questione di sfiducia: questi sono concretamente i meccanismi previsti in
Costituzione per far valere la responsabilità del Governo nei confronti delle Cortes al fine di dare
efficacia al principio generale consacrato dall’art. 108: «Il Governo risponde, in forma solidale,
davanti al Congresso dei Deputati della sua gestione politica».
Ma è lo stesso dettato costituzionale a prevedere una terza opzione, nel caso in cui la Camera
che ha fatto venir meno il proprio appoggio al Presidente del Governo non sia capace, d’altra
parte, di dare vita ad una maggioranza alternativa stabile, in grado di garantire la governabilità
del Paese: in questo caso è proprio il Presidente del Governo ad avere le chiavi per uscire dall’
empasse costituzionale mediante il ricorso ad elezioni generali anticipate.
Come si può notare, e come sarà più dettagliatamente richiamato di seguito, tutti i
meccanismi di equilibrio ricordati sono tesi a garantire l’effettiva collaborazione dei poteri dello
Stato democratico (il Parlamento ed il Governo) attraverso una particolare forma di separazione
degli stessi in virtù della quale «il potere frena il potere», così come pretendeva Montesquieu, in
tutti quei casi in cui non è possibile il rispetto della regola, formulata da James Madison ne Il
Federalista come norma alla base dello Stato costituzionale, secondo la quale «ogni potere deve
mantenersi nell’ambito che gli è riconosciuto». E ciò non avviene, ovviamente, ogni qual volta
un Governo parlamentare perde il proprio appoggio alla Camera.
In questo caso il Governo può ricorrere alla presentazione di una questione di fiducia. Secondo
l’art. 112 della Costituzione la questione dovrà essere posta dal Presidente del Governo, previa
delibera del Consiglio dei Ministri, davanti al Congresso e dovrà riguardare il suo programma o
una dichiarazione di politica generale. La deliberazione del Consiglio ha carattere obbligatorio,
dal momento che non può essere omessa, pur non essendo vincolante, tenuto conto che è il
Presidente ad adottare personalmente la decisione finale sull’eventualità o meno di sottoporsi al
voto di fiducia parlamentare, indipendentemente, almeno sul piano giuridico, dalla volontà e
dall’opinione dei suoi ministri. È evidente che il carattere obbligatorio della deliberazione punta
anzitutto ad evitare la presentazione a sorpresa di una questione di fiducia, senza che tale
eventualità sia stata prima almeno prospettata ai membri del Governo, circostanza sempre
necessaria, ma ancora più stringente nel caso di governi di coalizione, nei quali convivono
membri di due o più partiti, che rendono l’eventualità della presentazione di una questione di
fiducia assai più probabile rispetto ai casi di governi monocolore appoggiati da maggioranze
omogenee legate ad un unico partito. L’esigenza che la questione di fiducia sia posta sul
programma o su una dichiarazione di politica generale, da parte sua, tende ad impedire che il
Presidente possa ricorrere al voto sviando il fine dell’istituto della fiducia, dimezzando la sua
personale responsabilità rispetto ad una decisione concreta, per mezzo di una richiesta di
16
conferma dell’appoggio parlamentare su una questione di carattere puntuale. È chiaro, d’altra
parte, che a queste condizioni il perfezionamento dell’istituto stesso diviene assai più difficile da
cogliere, dal momento che la Costituzione si avvale di concetti giuridici indeterminati, il cui
contenuto è suscettibile di essere variamente interpretato.
Dopo il dibattito sulla questione di fiducia, che si sviluppa, secondo quanto disposto dal
regolamento del Congresso, in base alla medesima disciplina prevista per il dibattito in sede di
investitura (intervento iniziale in cui il Presidente, senza alcun limite di tempo è chiamato ad
illustrare la questione, intervento contingentato dei parlamentari rappresentanti dei gruppi che
ne facciano richiesta, possibilità concessa al Presidente di intervenire nel corso del dibattito ogni
qual volta lo reputi opportuno), si procede alla votazione, palese e per appello nominale: la
fiducia sarà concessa qualora abbiano votato a favore la maggioranza semplice dei deputati (art.
112). In caso contrario, qualora il Congresso abbia negato la fiducia richiesta, il Governo dovrà
presentare al Re le proprie dimissioni, di modo che, successivamente, si possa procedere alla
investitura di un nuovo Presidente del Governo in sostituzione del dimissionario (art. 114.1). A
questo punto possono aprirsi due possibilità: la nomina del nuovo Presidente ha luogo entro il
termine costituzionale di due mesi o, al contrario, il termine spira senza che si sia eletto alcun
Presidente, il che determina lo scioglimento automatico delle Cortes Generales e la celebrazione di
nuove elezioni.
Diversamente dalla questione di fiducia, che è un meccanismo politico di iniziativa
governativa, la mozione di sfiducia è un istituto di iniziativa parlamentare. La mozione, che dovrà
essere presentata da almeno un decimo dei deputati, dovrà includere l’indicazione di un
candidato alla presidenza del Governo (113.2). Si tratta, dunque, di una mozione di sfiducia di
tipo costruttivo, pretendendo che i proponenti e la maggioranza della Camera abbiano raggiunto
un accordo non solo al fine di rovesciare l’attuale Presidente del Governo, ma anche per
sostituirlo. Ne consegue che, così come prevede il regolamento del Congresso, nel dibattito sul
voto di sfiducia non interverrà solo uno dei deputati proponenti, al quale compete la
presentazione del candidato alla presidenza, ma anche il candidato stesso, che è destinato a
divenire il vero protagonista della discussione, nonostante quest’ultima debba essere diretta
piuttosto a motivare la perdita dell’appoggio parlamentare da parte del Presidente uscente.
Dopo il dibattito si procederà alla votazione, rispetto alla quale la Costituzione prescrive che la
mozione sarà considerata accolta se avrà votato in suo favore la maggioranza assoluta del
Congresso (art. 113.1), che la stessa non potrà essere votata prima che siano trascorsi cinque
giorni dalla sua presentazione ed, infine, che nei primi due giorni potranno essere presentate
mozioni di sfiducia alternative (art. 113.3). Se la mozione è respinta, il Governo, da un punto di
vista strettamente giuridico, non subisce conseguenza alcuna, anche se da un punto di vista
logico si potrebbe concludere che dalla sconfitta dei proponenti la mozione deriva un
rafforzamento della sua posizione. D’altra parte, pur nella scarsa esperienza spagnola sul punto
17
(due mozioni di sfiducia dalla entrata in vigore della Costituzione) esiste un esempio che sembra
indicare il contrario e che conferma la possibilità che rispetto al voto di sfiducia si possa avere
giuridicamente la meglio, pur perdendo sul piano politico: Felipe Gonzales, candidato proposto
in sostituzione di Adolfo Suarez con la mozione di sfiducia presentata dai deputati socialisti nel
1980, risultò formalmente perdente nella votazione della mozione, che fu respinta dalla
maggioranza del Congresso, anche se, secondo le conclusioni cui sono giunte tutte le analisi
politiche degli anni successivi, da un punto di vista sostanziale incassò una vittoria politica che
gli aprì la strada al grande trionfo elettorale nelle legislative del 1982.
A prescindere da ciò, l’unica conseguenza giuridica prevista dalla Costituzione nel caso di
fallimento della mozione è rappresentata dal divieto, a carico dei proponenti, di presentarne una
nuova per il resto della legislatura (art. 113.4). Ma se al contrario «il Congresso approva una
mozione di sfiducia, il Governo presenterà le sue dimissioni al Re, mentre sarà presunta la
fiducia concessa dalla Camera nei confronti del candidato indicato, conformemente a quanto
previsto all’art. 99», che disciplina, come si vedrà fra poco, le modalità di voto per la investitura:
il Re nominerà, dunque, Presidente del Governo il candidato richiamato nella mozione (art.
114.2).
Da quanto considerato, si può evidentemente concludere che il costituente ha voluto
disporre un modello fondato sulla formazione di coalizioni positive, nelle quali gli aderenti sono
d’accordo non solo nel rovesciare il Presidente in carica, ma anche nella scelta del suo sostituto,
impedendo la creazione di coalizioni meramente negative, rispetto alle quali è sufficiente
accordarsi in merito alla caduta del Presidente in carica, posticipando ad un tempo a venire ogni
decisione in merito al successore, che sarà identificato indipendentemente rispetto al voto sulla
mozione di sfiducia. La scelta della nostra Costituzione, che rende l’istituto della mozione di
sfiducia un atto complesso, con il quale i deputati sono chiamati ad esprimersi al contempo
anche sulla investitura di un nuovo Presidente, costituisce l’ennesima prova di un disegno
istituzionale la cui coerenza interna è rappresentata dalla volontà di rendere assai difficile
l’eventuale verificarsi di vuoti di governo, a tal fine rafforzando la posizione dell’esecutivo e, in
modo particolare, quella del suo Presidente.
In effetti, così come è facile dimostrare a partire da quanto sinora esposto, la previsione dei
due meccanismi costituzionali per rendere effettiva la responsabilità del Governo conduce ad
una conclusione evidente: il legislatore costituente ha realizzato una forte scommessa, se così si
può dire, in favore della stabilità governativa. Ciò si deduce in primo luogo a partire dal
carattere costruttivo della mozione di sfiducia che, come dimostrano gli anni trascorsi dalla
entrata in vigore della Costituzione, rende la sua approvazione estremamente difficile, dal
momento che risulta assai più remota la possibilità di generare una maggioranza alternativa alla
esistente rispetto al dare vita ad una mera maggioranza in grado di sostenere il rovesciamento
del Governo, che ha visto venir meno l’appoggio parlamentare dopo l’investitura presidenziale.
18
Ma la scommessa sulla stabilità trova conferma anche, in secondo luogo, ma in ugual misura,
nella previsione delle diverse maggioranza richieste per dare efficacia ai due meccanismi di
equilibrio ora analizzati: maggioranza assoluta per la sfiducia, vale a dire per rovesciare un
Governo procedendo ad una contestuale nuova investitura; maggioranza semplice nei casi di
concessione della fiducia, vale a dire per permettere al Congresso di confermare il Presidente e,
conseguentemente, il suo Governo.
Ciò significa che l’uno come l’altro meccanismo finiscono con l’essere svuotati di ogni
trascendencia, essendo effettivamente molto difficile far valere per loro tramite la responsabilità
politica governativa? Non è del tutto così, dal momento che al di là della sanzione giuridica che
da essi discende di volta in volta, i meccanismi descritti attivano quella che Giuseppe Ugo
Rescigno, con precisione e lucidità, ha definito una «responsabilità politica diffusa», che può
essere fatta valere da diverse istituzioni deputate al controllo sociale (partiti, sindacati, mezzi di
comunicazione, gruppi sociali organizzati etc…) a partire dall’impulso iniziale concretizzato
nella sua sede naturale, il Parlamento: in «una comunità politica, e comunque nelle moderne
comunità politiche, così articolate e complesse» ha scritto Rescigno nel suo La responsabilità
politica « i soggetti investiti di poteri politici non temono solo le critiche di quei soggetti cui
compete istituzionalmente controllarli, ma in principio reputano degna di attenzione ogni critica
da qualunque soggetto della comunità politica provenga, e in fatto tanto più si preoccupano
delle critiche mosse o tanto più tentano di prevenire le critiche possibili quanto più il soggetto
che critica o può criticare è influente e quanto più le circostanze sono tali da rendere pericolosa
la critica mossa o movibile in futuro»18. E quella diffusa finisce con l’essere una responsabilità
che pesa non solo sui destinatari costituzionalmente previsti, ma anche sul gruppo o sui gruppi
parlamentari che attivano quegli stessi meccanismi di controllo, dal momento che, come ha
sottolineato lo stesso Rescigno «se colui che detiene il potere può risultare responsabile,
potendo essere criticato per l’uso che ne fa, ugualmente può essere fatta valere la responsabilità
di coloro che quel potere aspirano ad ottenere, essendo per questo sottoposti al giudizio altrui;
in un caso come nell’altro si subiranno conseguenze negative dettate in un caso dalla perdita o
dall’indebolimento del potere, nell’altro dall’ulteriore allontanamento dal medesimo»19.
Il terzo dei meccanismi di equilibrio previsti dalla nostra Costituzione, lo scioglimento anticipato
delle Corti da parte del Presidente del Governo, ha lo scopo di porre rimedio al blocco
istituzionale che potrebbe prodursi in seguito alla confluenza di due condizioni: da una parte,
l’incapacità del Governo di mantenere compatta la maggioranza governativo – parlamentare
che ha accompagnato l’investitura del suo Presidente; dall’altra, l’incapacità del Congresso dei
Deputati di creare una maggioranza alternativa a quella esistente. Questa congiuntura potrebbe
essere superata, è evidente, con le dimissioni del Presidente, soprattutto nel caso in cui sia
18
19
Cfr. G. Rescigno, La responsabilità politica, Milano, Giuffrè, 1967, 113 s.
Ibidem, 115.
19
proprio la continuità rispetto al Governo ad impedire la formazione di una nuova maggioranza,
o la riconfigurazione della stessa maggioranza governativa. Ma quando questa via d’uscita
sembra preclusa, la governabilità si trasforma in una prospettiva semplicemente impossibile, di
modo che è proprio per far fronte a questa impossibilità che è concessa al Presidente la
prerogativa di porre fine alla crisi convocando il corpo elettorale. Il Presidente potrà così, previa
delibera del Consiglio dei Ministri, ma sotto la sua esclusiva responsabilità, proporre lo
scioglimento del Congresso, del Senato o delle Corti nel loro insieme, per mezzo di un decreto
regio che deve contenere la data delle nuove elezioni (art. 115.1). Come già sottolineato
parlando della proposizione della questione di fiducia, e richiamando le motivazioni addotte,
anche in questo caso, la deliberazione del Consiglio dei Ministri che precede la proposta di
scioglimento è obbligatoria, ma non vincola il Presidente che, secondo il dettato della
Costituzione, agisce assumendo su di sé la piena responsabilità politica dell’atto. La stessa
norma costituzionale stabilisce, inoltre, tre limitazioni al suo esercizio, precisando che lo
scioglimento anticipato non potrà essere disposto quando sia stata presentata una mozione di
sfiducia (art. 115.2), al fine di impedire una mistificazione del meccanismo di censura,
rendendolo vano; non potrà essere disposto qualora sia stato dichiarato uno degli stati previsti
all’art. 116, vale a dire lo stato di eccezione, di allarme, di invasione (art. 116.5), la cui
dichiarazione rimanda sempre ad una certa alterazione del normale sviluppo della vita
istituzionale; non potrà essere disposto prima che sia trascorso almeno un anno dal precedente
scioglimento, salvo quanto disposto all’art. 99.5 della Costituzione, salvo cioè che la precedente
si sia prodotta automaticamente, essendo trascorso il termine di due mesi dal primo voto di
investitura senza che il Congresso abbia potuto procedere all’elezione del Presidente del
Governo. Questa ultima limitazione si pone l’obiettivo di correggere, per quanto possibile,
l’abuso del meccanismo dello scioglimento anticipato, al quale, in ipotesi, sarebbe possibile
ricorrere per una ragione diversa da quelle previste dal legislatore costituente: mi riferisco
all’eventualità che il partito di governo possa manovrare il ciclo elettorale assecondando i propri
particolari interessi, spezzando i tempi di durata della legislatura (quattro anni) e trasformando
quello anticipato in un caso di scioglimento ordinario. Il nostro sistema costituzionale non lo
considera tale, dal momento che il Congresso ed il Senato sono eletti per quattro anni (artt. 68.4
e 69.5) e sono sciolti trascorsa la legislatura, pur essendo possibile, ma solo in via eccezionale,
uno scioglimento prima dello scadere dei termini nei casi appunto di scioglimento anticipato
(art. 115.1), nei casi in cui non sia possibile procedere ad eleggere un Presidente del Governo
(art. 99.5), o nei casi in cui sia stato avviato un procedimento di revisione costituzionale (art.
168.1).
Analizzando il modello parlamentare spagnolo previsto nella Costituzione si è già avuto
modo di sottolineare chiaramente alcuni elementi che contribuiscono alla presidenzializzazione
20
della forma di governo. Nell’ultima parte del mio lavoro si presterà concreta attenzione a questo
fenomeno, evidenziandone, al di là di quelli descritti, ulteriori diversi aspetti.
4. – La Costituzione spagnola nel secondo comma dell’art. 98, dispone che «il Presidente
dirige l’azione del Governo e coordina le funzioni degli altri membri dello stesso, senza
pregiudizio della competenza e responsabilità diretta di questi nella loro attività di
amministrazione». Al di là della sua evidente chiarezza, questa norma, al contrario, non dà
un’idea piena della reale trascendenza della posizione costituzionale del Presidente rispetto al
Governo e, più in generale, rispetto all’intero sistema di bilanciamento dei poteri che configura
il regime politico spagnolo. Ed è proprio l’analisi dettagliata di questa posizione ciò che
permette di valutare il forte grado di presidenzializzazione del nostro parlamentarismo,
presidenzializzazione che giuridicamente si esprime su tre piani che finiscono con il convergere,
dotando il Presidente di un innegabile protagonismo rispetto al funzionamento del sistema, in
particolare quando le condizioni concrete della politica favoriscono questa tendenza.
I. Il protagonismo presidenziale deriva in primo luogo, e prima di tutto, dalla struttura del
sistema di equilibrio fra i poteri che, a suo tempo, il costituente ha voluto definire prevedendo
un regime che appare decisamente condizionato dalla regolazione costituzionale del
meccanismo di elezione del Governo da parte del Congresso dei Deputati. È per questo che,
per comprendere nei particolari la centralità della posizione del Presidente nel nostro regime
politico, è necessario conoscere, prima di tutto, i caratteri del meccanismo costituzionale che lo
connota: il voto di fiducia. E va detto in prima battuta che il Governo ha origine a partire dalla
elezione in seno al Parlamento del suo Presidente, dal momento che i suoi membri saranno
nominati e respinti dal Re su proposta del neo eletto Presidente (art. 100), che esprime una
autentica decisione politica di nomina, che, per ovvie ragioni, il Re si limiterà a formalizzare. La
scelta presidenziale è giuridicamente assai libera, a prescindere dal grado di condizionamento
politico cui ciascun Presidente potrà essere sottoposto da parte delle forze politiche della
maggioranza, omogenea o frutto di coalizioni, che lo ha eletto. In particolare, definisco la scelta
presidenziale quale “assai libera”, perché il candidato che richiede la fiducia del Congresso non
ha alcun obbligo di informare, né prima, né dopo, la Camera delle sue decisioni rispetto al
Governo che andrà a formare, tenuto conto che questa risulta essere la pratica seguita in Spagna
sin dai primi anni dell’attuale periodo democratico.
La natura trascendental dell’atto giuridico – politico dell’investitura del Presidente da parte del
Congresso dei Deputati, di fatto, quindi, non deriva tanto dalle informazioni che il candidato
trasmette alla Camera in merito alla composizione del suo Governo o relativamente al
programma, che, a suo tempo, tenterà di sviluppare, quanto piuttosto dal fatto che l’investitura
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corrisponde al momento della formazione della stessa maggioranza governativo – parlamentare:
le tre fasi che concretano l’atto di investitura sono tutte dirette a perseguire questo obiettivo.
La prima fase, rappresentata dalle consultazioni svolte dal Re, avviata dopo ogni rinnovo del
Congresso dei Deputati e in ogni altro caso in cui sia previsto costituzionalmente (dimissioni o
morte del Presidente, voto negativo nella delibera sulla questione di fiducia da parte del
Congresso), si pone l’obiettivo di fornire al Capo dello Stato le informazioni necessarie affinché
possa provvedere a proporre un candidato in grado di essere effettivamente investito dalla
Camera: è per questo che il Re deve ascoltare tutti i rappresentanti designati dalle forze
politiche presenti in Parlamento, vale a dire tutte le forze che hanno ottenuto seggi, anche
quando il loro numero non sia sufficiente a dare vita ad un gruppo parlamentare autonomo nel
Congresso. In realtà le cose si svolgono diversamente, dal momento che il Re si limita a
proporre il leader del partito che ha ottenuto il maggior numero di deputati, formalizzando una
decisione che è già stata assunta dal corpo elettorale. Questa pratica, che, seppur non espressa,
fa parte dello spirito del dettato dell’art. 99 della Costituzione, è stata confermata dalla prassi
spagnola sino ad assumere il peso di una autentica convenzione costituzionale, al punto che
solo nel caso in cui il panorama del sistema politico apparisse estremamente frammentato, non
rendendo possibile verificare il senso profondo della decisione del corpo elettorale, solo in
questo caso, per l’appunto, si potrebbe immaginare che la proposta del Re sia qualcosa di più di
una mera registrazione della decisione che proviene dall’insieme dei votanti di cui il Capo dello
Stato si fa mero tramite.
Terminate le consultazioni il Presidente, per mezzo del Presidente del Congresso (artt. 99 e
64.1), propone un candidato alla presidenza del Governo, aprendo la seconda fase dell’atto di
investitura: quella del voto della Camera. A tal fine, il candidato esporrà davanti ad essa il
programma politico del Governo che vuole formare e richiederà la fiducia, che può essere
concessa in due modi: in prima votazione, con il consenso della maggioranza assoluta dei
membri del Congresso; in seconda battuta, con una delibera che interviene quarantotto ore
dopo la prima, con il voto favorevole della maggioranza semplice. A prescindere che questa sia
stata concessa nella prima o nella seconda votazione, a questo punto il candidato ottiene la
fiducia della Camera: in entrambe i casi il Re nominerà Presidente il candidato proposto.
Qualora la fiducia non sia stata concessa, invece, si procederà a proposte successive, negli stessi
termini in cui si è proceduto precedentemente, tenuto conto che la Costituzione prevede una
sanzione giuridica qualora il Congresso non sia in grado di dare vita ad una maggioranza di
sostegno al Governo e di eleggere un Presidente: effettivamente, se trascorsi due mesi dalla
prima votazione nessuno dei candidati ha ottenuto la fiducia del Congresso, il Re deve
sciogliere entrambe le Camere e convocare nuove elezioni, ancora per mezzo del Presidente del
Congresso.
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Questo procedimento di investitura, che garantisce l’effettività del principio parlamentare nel
nostro sistema costituzionale, rende evidenti anche le cause di cessazione del Governo – che
continuerà a svolgere le sue funzioni sino alla entrata in carica del nuovo esecutivo – descritte
all’art. 101 della Costituzione: la celebrazione di nuove elezioni, la revoca della fiducia nei modi
costituzionalmente previsti, le dimissioni o la morte del Presidente. Come si diceva, in tutti
questi casi, e tranne quando sia stata presentata una mozione di sfiducia costruttiva, il venir
meno del Governo in carica rende necessario un nuovo atto di investitura, come diretta
conseguenza della natura parlamentare del Governo, garantita dalla investitura in seno al
Parlamento del suo Presidente.
Dall’atto di investitura emerge, dunque, un Presidente forte, la cui forza è ancora maggiore
se il partito di cui è espressione gode della maggioranza assoluta al Congresso e se si concretano
alcune condizioni, rappresentate, per esempio, da una indiscussa posizione di primazia del
Presidente all’interno del suo partito.
Ma la predominanza del Presidente rispetto al sistema di pesi e contrappesi spagnolo, in ogni
caso, non deriva solo dalle concrete modalità di nomina, ma anche dal ruolo da protagonista
svolto nella pratica dei tre meccanismi parlamentari di equilibrio precedentemente analizzati: dal
fatto che è lo stesso Presidente a decidere se sottomettersi o meno al voto di fiducia del
Congresso, attraverso una delibera del Consiglio dei Ministri che ha carattere obbligatorio, ma
che non lo vincola giuridicamente; dal fatto che la mozione di fiducia del Congresso nei
confronti del Presidente è di natura costruttiva, il che rende assai difficile la sua approvazione,
trasformando l’istituto della sfiducia in un meccanismo molto più rigido di quanto non lo sia
abitualmente nei sistemi parlamentari – dal momento che la maggioranza chiamata ad
appoggiarla dovrebbe essere d’accordo non solo sulla necessità di rovesciare il Governo, ma
anche rispetto al nuovo Presidente da eleggere –; dal fatto, infine, che il Presidente può disporre
lo scioglimento anticipato delle Corti con l’unico limite di dover sottoporre la sua decisione alla
previa delibera del Consiglio dei Ministri, obbligatoria, ma non vincolante giuridicamente per il
capo dell’esecutivo che, secondo il dettato costituzionale, agisce assumendo su di sé la piena
responsabilità dell’atto.
II. La seconda sfera entro cui si rende evidente la posizione di forza del Presidente non ha
nulla a che vedere con il sistema di pesi e contrappesi dell’ordinamento, bensì con le relazioni
privilegiate che lo legano ad organi istituzionali dello Stato o della società civile.
Al Presidente compete, infatti, una serie di facoltà che lo pongono in diretto contatto con il
corpo elettorale (convocare il referendum consultivo sulle decisioni di maggiore peso politico,
anche se in questo caso deve essere stato preventivamente autorizzato dal Congresso: art. 92.2),
con il Capo dello Stato (controfirma degli atti regi, nonché trasmissione degli atti legislativi e di
quelli normativi aventi forza di legge per la sanzione ragia e invito al Re medesimo, affinché
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voglia presiedere il Consiglio dei Ministri nei modi e nei casi previsti dalla Costituzione: art. 62
g), e con il Tribunale costituzionale, davanti al quale può presentare ricorso di incostituzionalità
(art. 162.1 a).
III. La presidenzializzazione del nostro parlamentarismo, infine, è evidente anche laddove si
ponga attenzione alla sfera di relazioni che legano il Presidente al Governo che ha designato.
La legge 50/1997 del 27 novembre, in tema di organizzazione, competenza e funzionamento
del Governo ha razionalizzato i poteri presidenziali così come le funzioni degli altri membri del
Governo (art. 2.2), aggiungendo a quelle già costituzionalmente previste altre implicite nel
dettato costituzionale. Tutte le facoltà richiamate nella legge mettono in luce il ruolo da
protagonista giocato dal Presidente nei tre ambiti che essenzialmente concretano le relazioni tra
il capo ed i membri del Governo (Vice-Presidente o vicepresidenti e ministri), che con lui
compongono l’organo collegiale al vertice del potere esecutivo20. In primo luogo per quanto
riguarda la composizione e l’organizzazione del Governo, cui si provvede mediante un real
decreto presidenziale, che dispone inoltre circa gli organi di collaborazione ed appoggio (art. 17
della legge 501997), determinando una delegificazione di questa competenza fondamentale che
è affidata interamente al Presidente, escludendo ogni interferenza del potere legislativo: il
Presidente, con decreto regio, crea, modifica e sopprime i dipartimenti ministeriali, le segreterie
di Stato e definisce la struttura organica del proprio Governo (art. 2.2 della legge 50/1997). In
secondo luogo, in merito alla designazione dei membri del Governo, cui il Presidente si dedica
in piena libertà, senza altro condizionamento rispetto a quelli di tipo politico, diversi a seconda
della maggioranza che lo sostiene (omogenea o di coalizione), ed a quelli che derivano dal
consolidamento del potere del Presidente quale leader del suo partito. Da ultimo, relativamente
ai poteri di coordinamento e direzione in seno al Governo, poteri rispetto ai quali gode di una
assoluta superiorità, dal momento che a lui corrispondono la facoltà di rappresentare il
Governo, stabilirne il programma politico, determinando le linee della politica interna ed estera
e garantendo la loro realizzazione, di dirigere la politica in tema di difesa dello Stato, esercitando
nei confronti delle forze armate le prerogative riconosciute dalla legge che disciplina la difesa
nazionale e l’organizzazione militare, convocare, presiedere e fissare l’ordine del giorno delle
sessioni del Consiglio dei Ministri, risolvere i conflitti di attribuzione che possono sorgere tra i
diversi ministeri ed impartire istruzioni agli altri membri del Governo (art, 2.2 della legge
50/1997). La supremazia presidenziale risulta essere, inoltre, tanto più vigorosa quanto
maggiore è il reale peso politico del Presidente in seno al Governo, di modo che un Presidente
che può contare su una solida maggioranza parlamentare o di una posizione di forza in seno al
partito che garantisce il suo appoggio non incontrerà alcun limite alla propria azione di
Si veda I. Fernández Sarasola, Algunas reflexiones en torno a la primacía del presidente en el Gabinete ministerial, in Teoria
y Realidad Constitucional, n. 16, 2005, 284 ss.
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governo. E ciò perché se anche venisse a scontrarsi con l’opposizione di uno o più membri del
Governo, potrebbe sempre procedere alla loro rimozione.
In ogni caso, e oltre ogni possibile previsione legislativa o costituzionale relativa alla
istituzione della presidenza del Governo, la pratica politica e parlamentare spagnola sin dalla
approvazione della Costituzione del 1978 non ha fatto altro che confermare il disegno giuridico
– costituzionale che colloca il Presidente al centro di una vasta sfera di influenza politica,
economica e sociale che controlla il potere esecutivo dello Stato. In effetti, così come si può
rilevare osservando il quadro 1, l’esistenza di governi monocolore, dal primo nato dopo le
elezioni generale del 1979 dall’appoggio della Union de Centro Democratico a Adolfo Suárez, sino
all’ultimo formato nel 2004 da José Luis Rodríguez Zapatero con l’appoggio del Partido Socialista
(PSOE), passando, si intende, per quelli nominati da Felipe Gonzáles nel lungo periodo
socialista o da José Maria Aznar con l’appoggio del Partido Popular durante il periodo popolare ,
così come la posizione di forza – con l’unica eccezione rappresentata da Adolfo Suárez occupata da ciascuno dei presidenti menzionati all’interno del partito che garantiva loro
l’appoggio parlamentare, finirono con il contribuire a potenziare la centralità del ruolo dei
presidenti all’interno del Governo, sino a renderli veri e propri governi del Presidente.
Legislatura
Partito di
Governo
Tipo di
maggioranza
Adelanto
electoral
Governo di coalizione
1ª 1979-1982
UCD
semplice (168)
SI
NO
2ª 1982-1986
PSOE
assoluta (202)
NO
NO
3ª 1986-1989
PSOE
assoluta (184)
SI
NO
4ª 1989-1993
PSOE
assoluta (176)
NO
NO
5ª 1993-1996
PSOE
semplice (159)
SI
NO
6ª 1996-2000
PP
semplice (156)
NO
NO
7ª 2000-2004
PP
assoluta (183)
NO
NO
8ª 2004-2008
PSOE
semplice (164)
-
NO
Quadro 1
Ciò che più di ogni altra cosa è interessante rilevare a riguardo è la circostanza per cui la vera
forza di questi governi del Presidente è dipesa in gran parte dal fatto che il loro capo poteva
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contare su una certa posizione di forza all’interno del partito, e dunque all’interno dei rispettivi
governi, sempre monocolore, che del partito godevano l’appoggio, piuttosto che dal tipo di
maggioranza, semplice o assoluta, che effettivamente hanno sostenuto i singoli presidenti del
Governo. In questo senso, il quadro 1 mette in luce una serie di elementi necessari per
comprendere lo stato di fatto: le otto legislature seguite alla approvazione della Costituzione,
sono state caratterizzate da governi monocolore, vale a dire formati da membri appartenenti ad
un medesimo partito, anche se solo in quattro casi – la metà – il partito di maggioranza ha
potuto contare su un numero di deputati in Congresso (176, quota che rappresenta la
maggioranza assoluta rispetto ai 350 membri che compongono questa Camera), tale da evitare
che la opposizione potesse potenzialmente tentare di rovesciare il Governo. Ora, il fatto che
nella metà dei casi il Governo non potesse contare su una maggioranza assoluta non ha
determinato alcuna instabilità, dal momento che solo in tre delle otto legislature è intervenuto
uno scioglimento anticipato delle Camere in senso stretto – vale a dire uno scioglimento che
corrisponde ad una vera e propria riduzione dei termini costituzionali e non ad un mero fatto
tecnico dettato da ragioni puramente legate al calendario – e che solo in uno dei tre atti di
scioglimento (riferito alla quinta legislatura fra il 1993 ed il 1996) la riduzione ha comportato un
anticipo del voto di più di sei mesi.
Ciò vuol dire che l’assenza di una maggioranza assoluta non ha avuto conseguenza alcuna
nella dinamica del sistema parlamentare e che, conseguentemente, la supremazia del ruolo
presidenziale ha funzionato secondo logiche identiche in relazione a maggioranze semplici o
assolute? Assolutamente no: l’esistenza o meno di una maggioranza assoluta in Parlamento ha
consentito ai piccoli partiti di matrice nazionalista, in particolare baschi e catalani, di
condizionare la vita politica del Governo, e, con ciò, di limitare il potere presidenziale in
relazione, per esempio, alla definizione del calendario politico o del programma, la cui
realizzazione è vincolata alla conclusione di patti. In questo senso la Spagna non differisce dagli
altri sistemi parlamentari in cui il Governo non gode della maggioranza assoluta nell’Assemblea,
se non rispetto al fatto che nel caso specifico i partiti che hanno operato in funzione di
cuscinetto sono forze politiche nazionaliste radicate territorialmente, con tutti i problemi che da
questa situazione particolare possono discendere21. D’altra parte questa peculiarità, che, come
appena ricordato, ha certo ridotto il margine di manovra presidenziale in seno al Parlamento,
non ha scalfito la preminenza del Presidente né nel Governo né, più in generale, rispetto al
sistema di equilibrio fra i poteri. Adolfo Suárez nel 1981 dovette lasciare il Governo non perché
all’UCD mancasse la maggioranza assoluta, o in ogni caso, non solo per questa circostanza,
bensì per la crisi che travolse la direzione del suo partito, determinandone la distruzione e la
dissoluzione dei gruppi parlamentari ad esso legati nelle Corti Generali. Parimenti Felipe
Gonzales, nel 1993, si vide costretto a convocare elezioni anticipate certamente perché venne a
21
Si veda in proposito il mio volume Nacionalidades históriricas y regiones sin historia, Madrid, Alianza, 2005, 163 ss.
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mancare l’appoggio dei nazionalisti in Parlamento, ma anche perché era messo in dubbio il suo
ruolo di leader all’interno del Partito Socialista. Al di là dei casi citati, ciò che è certo è che sino
a quando i presidenti poterono contare sulla loro indiscussa premiership all’interno del partito,
conservarono parallelamente un certo protagonismo in seno al Governo, secondo i termini
descritti, ed una certa preminenza nel sistema di equilibrio dei poteri: la miglior prova di quanto
affermato risiede nella circostanza per cui in più di un quarto di secolo di vigenza del sistema
democratico in Spagna sono state presentate due sole mozioni di sfiducia (una nel 1981 con
Felipe Gonzales, del PSOE, come candidato alternativo al Presidente in carica Adolfo Suárez
dell’UCD; l’altra nel 1987 con la quale Antonio Hernández Mancha, del PP, era proposto in
sostituzione dello stesso Felipe Gonzales), entrambe respinte, rendendo paragonabile la rigidità
del modello spagnolo a quella dell’impeachment dei sistemi presidenzialisti. A ciò si aggiunga che,
nessun Presidente è mai ricorso alla questione di fiducia e che lo scioglimento anticipato delle
Camere è intervenuto eccezionalmente solo nei casi prima richiamati: ed effettivamente in tre
occasioni – di cui una (si tratta della terza legislatura 1986 – 1989) mentre il Governo godeva
della maggioranza assoluta -, anche se solo in un caso (ovverosia nella quinta legislatura, tra il
1993 ed il 1996), lo scioglimento comportò davvero una riduzione sostanziale (circa un terzo)
della durata della legislatura.
La tendenza alla presidenzializzazione, inoltre, ha avuto molto a che vedere, evidentemente,
anche con il ruolo decisivo giocato dai mezzi di comunicazione quali strumenti di
rafforzamento della personalizzazione della politica nelle moderne società di massa. Nonostante
le concrete manifestazioni di questo fattore di presidenzializzazione siano diverse, ne esistono
due, che per la loro centralità rispetto alle relazioni del Capo del Governo – o di colui che
aspira ad esserlo – ed il corpo elettorale sembrano essere particolarmente degne di menzione.
Nel descriverle volgo ormai alla conclusione del mio lavoro.
In primo luogo mi riferisco all’abitudine, ormai consolidata da anni, per cui, ogni qualvolta
che sono convocate le elezioni legislative, i partiti designano un proprio candidato alla
presidenza del Governo, a prescindere dal fatto che ciò non sia possibile, perché non previsto
nel nostro ordinamento legale o costituzionale: basterebbe leggere l’art. 99 della Costituzione,
che disciplina il procedimento di investitura, per comprendere la natura soltanto virtuale di
questi candidati, che si scontra con le norme in tema di designazione del Presidente da parte del
Congresso. In ogni caso, e a prescindere da ciò che la Legge fondamentale dice, i partiti –
compresi quelli che non contano su alcuna possibilità di vedere il loro candidato designato
quale Presidente – insistono con il nominarlo, introducendo nel sistema parlamentare una
prassi tipica del presidenzialismo, che una volta consolidata introduce una serie di altri aspetti
che se non conseguono di diritto rispondono, comunque, ad una logica che è per lo meno
quella della pratica politica: i dibattiti televisivi fra candidati alla Presidenza, per esempio, che,
seppur eccezionali, non cessano di essere giuridicamente parlando, dibattiti fra candidati che i
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diversi partiti presentano come numeri uno nelle liste di Madrid per il Congresso. La pratica
della designazione dei candidati ha contribuito, a prescindere dalla mancanza di una base
giuridica, a rendere più permeabile il sistema democratico, dal momento che i cittadini possono
sapere con anticipo chi sarà il leader politico che verrà proposto a capo dell’esecutivo in caso di
vittoria del partito: la conoscenza da parte del corpo elettorale di certe informazioni non può
che essere considerata un fatto positivo.
Così come positiva è la seconda manifestazione a conferma della posizione centrale del
Presidente in seno al Governo: la generalizzazione dei cosiddetti dibattiti sullo stato della
nazione, che non sono previsti in Costituzione e che sono stati importati dalla pratica
nordamericana dei dibattiti sullo stato dell’Unione. In questo caso, l’importanza risiede
soprattutto nel fatto che in linea di massima il dibattito sullo stato della nazione finisce con il
rappresentare l’unico grande dibattito, trasmesso integralmente dalle radio e dalle televisioni,
che i cittadini hanno l’opportunità di seguire nel corso dell’anno. Il che contribuisce a rafforzare
la posizione del Presidente o di colui che, ragionevolmente, aspira ad esserlo. D’altra parte, è
innegabile che proprio il dibattito finisce con il migliorare e non certo peggiorare la qualità di
una democrazia che ha sempre più bisogno di efficaci strumenti che la avvicinino al corpo
elettorale.
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