1 Modernità e autodeterminazione nazionale. Per una storia politica

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1 Modernità e autodeterminazione nazionale. Per una storia politica
Modernità e autodeterminazione nazionale. Per una storia politica del nazionalismo periferico
in Europa occidentale.
di Paolo Perri
I risultati delle ultime elezioni politiche britanniche hanno visto il trionfo dei nazionalisti dello
Scottish National Party (SNP) 1 . A destare particolare interesse, oltre alle rivendicazioni
indipendentiste degli scozzesi, è la collocazione politica dello stesso nazionalismo. Lo SNP si è
presentato come un partito autenticamente socialdemocratico, impegnato nella difesa del welfare
state e dei principi cari alla nuova sinistra europea: la redistribuzione del reddito, la difesa
dell’istruzione pubblica, lo sviluppo delle energie rinnovabili, la tutela dei diritti civili e
l’antirazzismo2. Il successo elettorale riscosso dai nazionalisti, che dopo la sconfitta referendaria del
settembre 2014 hanno paradossalmente incrementato il numero degli iscritti e dei voti, è frutto di un
pluridecennale processo di erosione del bacino elettorale del Partito Laburista. I candidati
nazionalisti, infatti, si sono imposti a spese degli omologhi laburisti nei tradizionali collegi operai
scozzesi che avevano assicurato, nel corso degli ultimi cinquant’anni, un solido retroterra elettorale al
labour britannico. Il successo nazionalista in un’area industriale altamente sindacalizzata,
sembrerebbe indicare quindi la capacità di alcuni movimenti di sfidare i tradizionali partiti della
sinistra storica sul loro stesso piano ideologico, assumendone rivendicazioni e modelli di riferimento,
e imponendo al contempo una più attenta analisi dell’evoluzione politica del nazionalismo periferico
in Europa occidentale.
La scomparsa del nazionalismo dallo scenario politico continentale è stata più volte annunciata in
passato: una prima volta, con la diffusione dell’internazionalismo, alla fine del XIX secolo; poi alla
fine della Seconda guerra mondiale e ancora alla fine della Guerra fredda, sull’onda dei processi di
globalizzazione economica. Ma il nazionalismo è come l’araba fenice, e torna a far perdere il sonno a
studiosi e analisti proprio quando lo si dà per spacciato. Nonostante la sua rilevanza scientifica, però,
sono ancora pochi gli studi storici di tipo comparativo sull’argomento. La stessa terminologia atta a
definire la natura del fenomeno è sempre stata oggetto di dibattito. Molti, come Daniele Conversi3 e
Filippo Tronconi4, hanno scelto il termine “etnonazionalismo” coniato da Walker Connor5, che
rimane però una definizione parziale e fuorviante, sostenendo l’origine etnica dei nazionalismi
periferici al contrario di quelli di stato. Altri studiosi, come Tom Nairn 6 , hanno adottato la
definizione di “neo-nazionalismo”, che rischia però di elidere la dimensione storica della questione
1
Alle elezioni politiche del maggio 2015 i nazionalisti scozzesi hanno ottenuto 1.454.436 voti, pari al 50% dei
consensi in Scozia e al 4,7% su scala nazionale. I dati elettorali sono disponibili on line all’indirizzo:
http://www.bbc.com/news/election/2015/results
2
Nel 2007 il primo esponente di una minoranza etnica ad entrare nel Parlamento di Edimburgo è stato l’indiano
Bashir Ahmad, eletto nelle fila dello Scottish National Party. Cfr. Mackay F. – Kenny M., Women’s Political
Representation and the SNP: Gendered Paradoxes and Puzzles, in Hassan G. (ed.), The Modern SNP: From protest
to power, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2009, p. 44.
3
Conversi D. (ed.), Ethnonationalism in the Contemporary World: Walker Connor and the study of Nationalism,
London and New York, Routledge, 2002.
4
Tronconi F., I partiti etnoregionalisti. La politica dell’identità territoriale in Europa occidentale, Bologna, Il
Mulino, 2009.
5
Connor W., Ethnonationalism: the quest for understanding, Princeton, Princeton University Press, 1994.
6
Nairn T., The Break-Up of Britain. Crisis and Neo-Nationalism, London, New Left Books, 1977.
1 nazionale. In linea di massima, mutuandole da Michael Keating, preferisco utilizzare espressioni
come “nazioni senza stato” e “nazionalismi periferici”, principalmente per la loro versatilità7. Per
semplificare, si può definire un movimento nazionalista quello che si batte per l’autonomia politica di
una determinata area, o di un certo popolo, in nome di ciò che afferma essere una nazione. Il
nazionalismo si differenzia, infatti, dal regionalismo proprio perché rivendica il diritto
all’autodeterminazione, in base a presunte ragioni storiche, mentre i regionalisti si limitano a
reclamare una maggiore autonomia all’interno di un quadro costituzionale già esistente. La richiesta
di autodeterminazione, però, non implica necessariamente l’indipendenza politica, anche se gran
parte della letteratura scientifica per anni ha considerato questi due concetti come equivalenti. Nella
sua forma minima, difatti, la richiesta di autodeterminazione non implica altro che un maggior
protagonismo di quei soggetti che si considerano “nazionali” all’interno di un processo di riforma
costituzionale8. Quello che è importante sottolineare subito è l’estrema volubilità dei movimenti
nazionalisti. Non è insolito, ad esempio, che movimenti regionalisti si trasformino in partiti
nazionalisti veri e propri, ampliando la propria rappresentanza elettorale e radicalizzando le richieste
politiche. Lo stesso può dirsi per l’evoluzione politica di questi movimenti capaci di trasformarsi, in
alcuni contesti, da fenomeni anti-moderni in veri e propri agenti democratizzatori. In Spagna, ad
esempio, i nazionalismi periferici avevano ricoperto un ruolo fondamentale nell’opposizione al
franchismo, dando vita a una singolare alleanza tra forze tradizionalmente conservatrici e le
organizzazioni comuniste e socialiste. In Francia, bretoni e corsi avevano duramente contrastato il
gollismo prima della vittoria socialista nelle elezioni del 1981, così come in Gran Bretagna scozzesi,
gallesi e irlandesi avevano duramente criticato il thatcherismo, riuscendo a combinare abilmente
rivendicazioni di carattere ideologico (di classe) e identitario.
Al netto delle peculiarità dei singoli casi, la presenza di partiti che, richiamandosi al principio
dell’autodeterminazione nazionale, hanno adottato orientamenti ideologici diversi tra loro, ha
caratterizzato la vita politica di diverse aree all’interno degli storici stati-nazione dell’Unione
Europea. Per comprendere la natura di una differenziazione politica così vasta (dall’estremismo
xenofobo del nazionalismo fiammingo al socialismo rivoluzionario della sinistra nazionalista basca),
e per valutare le conseguenze determinate dall’assunzione di obiettivi e pratiche politiche tanto
diverse (regionalismo, autonomismo, indipendentismo), è necessario spostare l’attenzione su alcuni
aspetti più specifici: in che modo il nazionalismo si è combinato con le diverse ideologie di massa nel
XX secolo? È possibile individuare dei fattori specifici che ne condizionarono l’evoluzione politica?
Quanto hanno pesato i processi di industrializzazione sulla storia del nazionalismo? Come cambia il
messaggio nazionalista (inclusivo/esclusivo) in rapporto alla struttura economica della comunità
interessata (industriale/rurale)?
Se considerassimo il nazionalismo un’ideologia a tutti gli effetti, se ne dovrebbe valutare la coerenza,
tracciandone un ritratto quanto più lineare possibile. Questo però comporterebbe un grave errore di
valutazione, giacché la maggior parte delle spiegazioni monocausali dell’evoluzione del
nazionalismo si è rivelata carente o comunque insufficiente a rappresentare la complessità di un
7
A riguardo si rimanda a Keating M., Nations against the State. The new politics of nationalism in Quebec,
Catalonia and Scotland, New York, Palgrave, 2001; Guibernau M., Nations without States, Cambridge, Polity Press,
1999.
8
Si pensi ad esempio al caso dei nazionalisti scozzesi che ancora agli inizi degli anni ’60 rivendicavano la creazione
di quella che oggi definiremmo una regione a statuto speciale. A riguardo Hutchison I.G.C., Scottish Politics in the
Twentieth Century, New York, Palgrave, 2001, pp. 29-77.
2 fenomeno che è stato definito, da Jean Michel Leclercq, «una categoria ribelle alla conoscenza
scientifica 9 ». L’intera storia del nazionalismo del resto è caratterizzata da molteplici processi
evolutivi e numerose differenziazioni. Una di queste, forse la più importante, è proprio la
caratteristica dicotomia esclusiva/inclusiva insita nella natura stessa del concetto di nazionalismo, e
costituisce un buon punto di partenza per analizzare il ruolo che questa differenziazione ha assunto
nella storia delle società complesse del capitalismo maturo. Definire l’appartenenza nazionale, così
come quella etnica, attraverso caratteri acquisiti per via ereditaria significa, infatti, privilegiare
l’aspetto statico, quasi naturale dell’etnicità. E questa idea darà vita ad un nazionalismo escludente,
tendenzialmente conservatore, quando non apertamente reazionario, che raggiungerà il proprio
apogeo durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando, invece, si tende a mettere in evidenza il
processo di costruzione di un’identità collettiva che non presenta però necessariamente una continuità
con i gruppi etnici storicamente definiti, si genera un fenomeno del tutto opposto, che definiamo
inclusivo. Si è soliti attribuire questa marcata differenziazione tra nazionalismo escludente e
nazionalismo inclusivo a momenti ed epoche differenti (si pensi alla differenza tra la visione della
nazione herderiana, di matrice tedesca, e quella renaniana, alla base del nazionalismo francese;
all’ascesa dei regimi fascisti negli anni Trenta del Novecento o alle conseguenze della diffusione
delle teorie terzomondiste negli anni Sessanta). Scopo di questa indagine, però, sarà quello di
comprendere il ruolo giocato dai processi d’industrializzazione e modernizzazione economica
nell’evoluzione politica del nazionalismo, che non sempre si propose come il difensore della società
tradizionale a base rurale. Come indicato da Benedict Anderson, infatti, il nazionalismo è riuscito a
combinarsi nel tempo con le più disparate correnti ideologiche, dal marxismo al nazionalsocialismo
passando per il liberalismo10. La storia dei movimenti nazionalisti nelle cosiddette nazioni senza stato
dell’Europa occidentale, conferma la validità di questa intuizione. Quando i movimenti nazionalisti si
trovarono ad operare all’interno di società industriali le istanze nazionaliste hanno finito per
sommarsi alle rivendicazioni sociali proprie del movimento operaio dando vita a un nazionalismo
inclusivo e progressista. Nei contesti rurali scarsamente industrializzati, invece, in assenza di una
salda rete solidaristica di classe e di lotte sindacali organizzate, il nazionalismo ha mantenuto un
orientamento conservatore quando non apertamente autoritario e xenofobo. Utilizzando le categorie
analitiche elaborate da Stein Rokkan11 e un approccio interdisciplinare è possibile sottolineare la
stretta connessione che intercorre tra l’evoluzione politica del nazionalismo e il tipo di “fratture”
esistenti nei contesti presi in analisi. La sovrapposizione, in alcuni casi, di diversi cleavages – intesi
da Rokkan come opposizioni fondamentali all'interno di una società, capaci di dividere le persone tra
sostenitori e avversari di una certa posizione e/o idea – non fa che aumentare la possibilità di un
conflitto tra centro e periferia, condizionando la collocazione politica del nazionalismo sull’asse
destra-sinistra.
1. Una guerra civile nella guerra civile: nazionalisti baschi e irlandesi nella guerra civile
spagnola.
In controtendenza con le narrazioni classiche, ritengo interessante iniziare questa ricostruzione
dall’esempio offerto dalla guerra civile spagnola. Sui campi di battaglia iberici non andò in scena
9
Leclercq J.M., La Nation et son idéologie, Paris, Anthropos, 1979; recensione in “Revue Française de Science
Politique”, IV, Agosto 1980, p. 13.
10
Anderson B., Sotto tre bandiere. Anarchia e immaginario anticoloniale, Roma, Manifestolibri, 2008, p. 7.
11
Rokkan S., Stato, nazione e democrazia in Europa, Bologna, Il Mulino, 2002 (1a ed. 1999).
3 esclusivamente lo scontro tra fascismo e antifascismo ma anche un vero e proprio conflitto intestino
ai nazionalismi periferici. Per non allargare troppo la comparazione mi servirò dell’esempio fornito
dai nazionalisti baschi e da quelli irlandesi, che in occasione del conflitto arrivarono ad affrontarsi
militarmente in campo aperto.
Le province basche, al termine delle guerre carliste12, erano state interessate da un imponente
processo di industrializzazione. Al termine del XIX secolo lo sviluppo dell’industria siderurgica e
manifatturiera aveva rappresentato un evento senza precedenti per l’isolata comunità basca, per
decenni ai margini dei processi di sviluppo economici della penisola iberica. La principale
conseguenza dell’industrializzazione fu però l’emarginazione dal potere economico dei piccoli
industriali e dei commercianti, che per tutta risposta diedero vita al moderno nazionalismo politico.
Un nazionalismo che affondava le proprie radici nell’eredità carlista e nel diffuso risentimento
generato dalla perdita della propria specificità amministrativa garantita dai fueros13. A quella che
appariva come una rinuncia alla propria identità locale, il nazionalismo reagì con la speranza di
conquistare un’identità nazionale distinta. Come tutti i movimenti nazionalisti nati tra la fine del XIX
e l’inizio del XX secolo, anche quello basco fondava quindi la sua stessa ragion d’essere sulla
necessità di sanare un torto subito14. Allo stesso modo, si trattava di un movimento nato negli
ambienti della piccola borghesia urbana e dei contadini più agiati rimasti ai margini del processo di
nation-building spagnolo. Questa peculiare composizione sociale, cui bisogna aggiungere un
crescente numero di operai specializzati preoccupati dall’arrivo di nuova manodopera immigrata,
determinò l’iniziale orientamento indipendentista del nazionalismo basco, al contrario invece
dell’omologo esempio catalano15. Nel 1865, su iniziativa di Sabino Arana y Goiri16, era nato il
Partido Nacionalista Vasco (PNV). Il partito, abbandonato l’indipendentismo della prima ora,
appariva come un movimento conservatore, tradizionalista e confessionale, caratterizzato da una
posizione estremamente moderata che combinava la difesa della cultura locale e il tradizionalismo
religioso con alcuni aspetti della dottrina sociale cattolica (interclassismo, promozione dell’armonia
12
I baschi si schierarono dalla parte di Don Carlos di Borbone nel corso della prima (1833-1840) e della seconda
guerra carlista (1872-1879), nella speranza di preservare le specificità fiscali (fueros) e amministrative che avevano
contraddistinto i rapporti tra Madrid e l’antico Regno di Navarra. A rigurardo si veda Garamendía V., La ideología
carlista (1868-1879) en los orígenes del nacionalismo vasco, San Sebastian, Diputacíon Foral de Guipúzcoa, 1984.
13
Nella Spagna dell’età moderna i vari regimi basati sui fueros erano il risultato della codificazione in norme
giuridiche, tanto di diritto pubblico che di diritto privato, di costumi e consuetudini di origine medievale presenti nei
diversi regni ispanici. All’interno di una più generale varietà, il regime (o sistema) forale aveva assunto
caratteristiche differenti in ciascuna delle provincie basche e nel Regno di Navarra cfr. Botti A., La questione basca,
Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 29-30. A riguardo si vedano anche Carr R. – Fusi J. P., España, 1808-2008,
Barcelona, Ariel, 2009; Fusi J. P. – Palafox J., España, 1808-1996. El desafío de la modernidad, Madrid, EspasaCalpe, 1997.
14
Secondo Albert Hirschman lo sviluppo del nazionalismo è sempre il prodotto di una strategia di “protesta”, cioè di
uno sforzo mirante a cambiare uno stato di cose giudicato insoddisfacente mediante forme di mobilitazione politica.
A riguardo si veda Hirschman A.O., Lealtà Defezione Protesta: rimedi alla crisi delle imprese dei partiti e dello
stato, Milano, Bompiani, 1982.
15
Nel 1901 era nata la Lliga Regionalista Catalana nell’alveo del vivace mondo imprenditoriale catalano. La
decisione di optare per un approccio esclusivamente autonomista, che non mettesse in discussione l’unità dello stato
spagnolo, va considerata alla luce dei vantaggi conquistati dalle industrie catalane dopo l’unificazione cfr. Molas I. –
Culla J.B., Diccionari dels partits polítics de Catalunya, segle XX, Barcelona, Enciclopedia catalana, 2000; Balcells
A., Història del nacionalisme català dels orígens al nostre temps, Barcelona, Generalitat de Catalunya, 1992.
16
Nato a Bilbao nel 1865 da famiglia borghese, Sabino Arana y Goiri si batté a lungo per la difesa dell’identità basca
arrivando, nel 1893 a rivendicare l’indipendenza della Vizcaya. Dopo aver inventato il nome della nazione basca
(Euskadi), averne disegnato la bandiera (Ikurrina) e tentato l’unificazione ortografica della lingua (euskara), Arana
si fece portavoce di un nazionalismo cattolico e xenofobo. Sul pensiero politico di Sabino Arana si rimanda a Botti
A., op. cit., p. 53.
4 sociale, risoluzione pacifica dei conflitti tra lavoratori e proprietari17). Lo sviluppo industriale delle
province basche intanto era proseguito senza sosta. La neutralità spagnola nel corso della Prima
guerra mondiale aveva permesso un notevole aumento delle esportazioni. La produzione industriale
era cresciuta in proporzione alla domanda e la congiuntura economica favorevole aveva mantenuto
alta la richiesta di manodopera, accelerando i flussi migratori dalle campagne verso i centri industriali
dei Paesi Baschi e della Catalogna18. Dopo la dittatura di Primo de Rivera il PNV, che era stato
dichiarato illegale in base al decreto anti-separatista del 1923, decise di mantenere una posizione
isolazionista rispetto alle altre forze di opposizione. Questa scelta rifletteva l’orientamento
conservatore della maggioranza dei dirigenti nazionalisti, ancora fortemente condizionati dal rigido
antisocialismo del clero cattolico. Non deve meravigliare, pertanto, lo scetticismo con cui le forze
repubblicane, comprese quelle catalaniste 19 , continuavano a guardare ai nazionalisti baschi
considerati, per ideologia e composizione sociale, più affini alla destra conservatrice che alle forze
socialiste e repubblicane. Nonostante diffidenze e timori reciproci allo scoppio della guerra civile, nel
luglio del 1936, il PNV decise di schierarsi in difesa del governo repubblicano. Una scelta non facile,
che implicava l’alleanza con partiti di sinistra e movimenti rivoluzionari intenzionati a dare il via a
profonde riforme sociali che poco si conciliavano con gli interessi della borghesia nazionalista, ma
che rappresentava allo stesso tempo l’unica possibilità concreta di giungere alla tanto agognata
autonomia.
Al momento della sollevazione franchista, in due delle quattro province basche poste sotto la
sovranità spagnola – Vizcaya e Guipúzcoa – si era registrato un imponente sviluppo del settore
siderurgico e dell’industria estrattiva. L’aumento della produzione aveva portato un numero
consistente di manodopera a trasferirsi nelle due province dalle aree più depresse della Spagna20. Il
nazionalismo si trovò, così, a dover fare i conti con un proletariato urbano sempre più consistente e
politicizzato. A condizionare l’approccio alla questione operaia all’interno del PNV fu il sindacato
nazionalista, Solidaridad de Obreros Vascos (SOV), che riuscì, nell’arco di un ventennio, a far
coesistere l’identificazione nazionale con quella di classe. Creata nel 1911 per far fronte alla
diffusione del sindacalismo socialista, SOV si era trasformata nel corso del quinquennio repubblicano
in un’organizzazione di massa che, alla lunga, favorì la svolta in senso democratico e antifascista
dello stesso partito nazionalista21. Durante il primo congresso nazionale del 1929 il sindacato, ancora
totalmente subordinato agli interessi del partito, poteva contare su 7.700 iscritti concentrati quasi
17
Per la storia del Partido Nacionalista Vasco si rimanda a de Pablo S. – Mees L. – Rodríguez Ranz J.A., El péndulo
patriótico. Historia del Partido Nacionalista Vasco, I: 1895-1936; II: 1936-1979, Barcelona, Crítica, 2 voll., 19992001.
18
Nel settore metallurgico, grazie ai costanti flussi migratori interni, la manodopera era cresciuta da un totale di
61.000 operai nel 1910 a circa 200.000 nel 1920. Cfr. Hermet G., Storia della Spagna nel Novecento, Bologna, Il
Mulino, 1999, p. 80.
19
In Catalogna erano nati diversi movimenti di orientamento repubblicano e di sinistra in netto contrasto e in
competizione con la moderata Lliga Catalana. Nel marzo del 1931 dall’unione di molte di queste forze nascerà,
infatti, Esquerra Republicana de Catalunya (ERC). Cfr. Ivern M.D., Esquerra Republicana de Catalunya (19311936), Barcelona, Abadia de Montserrat, 1989.
20
La popolazione della Vizcaya era passata dai 311.361 abitanti del 1900 ai 485.205 del 1930 e quella della
Guipuzcoa da 195.850 a 302.329. Molto minore fu invece l’incremento demografico delle due provincie agricole: la
popolazione in Álava passò da 96.385 a 104.176 abitanti mentre in Navarra da 307.699 a 345.883 cfr. de la Granja J.
L. – de Pablo S., La contemporaneidad (1876-1979), in Bazán I. (a cura di), De Túbal a Aitor: historia de Vasconia,
Madrid, Celesa, 2002, p. 541.
21
Sulle origini del sindacalismo nazionalista si rimanda a Mees L., Nacionalismo vasco, movimiento obrero y
cuestión social (1903-1923), Bilbao, Fundación Sabino Arana, 1992.
5 interamente nelle province di Vizcaya (6.200) e Guipúzcoa (1.300)22. Meno di tre anni dopo, il
numero dei lavoratori iscritti a SOV salì a circa 20.000, dei quali più della metà in Vizcaya. Notevole
fu l’incremento delle iscrizioni anche in Guipúzcoa (8.000), mentre la scarsa industrializzazione e la
struttura fondamentalmente rurale dell’economia garantivano l’immobilismo politico e sociale delle
altre due province, Álava (100) e Navarra (400). L’assenza del proletariato industriale, unito alla
scarsa vocazione nazionalista di entrambe le province, ridusse a livelli minimi la presenza del
movimento sindacale organizzato, anche di diverso orientamento23. Il sindacato nazionalista, in ogni
caso, continuò la sua crescita. In occasione del secondo congresso del 1933, all’interno di SOV
militavano secondo le fonti ufficiali 40.343 lavoratori. La maggior parte dei quali risiedeva ancora in
Vizcaya (17.000), anche se il più alto tasso di crescita fu registrato in Guipúzcoa (11.000). Se a
queste cifre si aggiungono i numerosi simpatizzanti, i 2.000 affiliati in Álava e i 1.300 in Navarra,
quella che emerge è una forza dalle dimensioni decisamente consistenti24. Il sindacato nazionalista –
che aveva cambiato la propria denominazione in Solidaridad de Trabajadores Vascos-Euzko
Langilleen Alkartasuna noto con l’acronimo basco ELA – iniziò a battersi per la partecipazione
operaia agli utili e la cogestione industriale, incrinando i rapporti, fino ad allora sempre molto
cordiali, tra la grande borghesia basca e il nazionalismo politico. Il processo di proletarizzazione che
coinvolse il sindacato, insieme alla diffusione di una più matura coscienza di classe tra i propri
militanti, avvicinò ELA al resto della classe operaia organizzata, garantendogli un nuovo successo.
Se, infatti, l’aumento d’iscrizioni aveva subito una battuta d’arresto durante il bienio negro, dalla fine
del 1935 la crescita del sindacalismo nazionalista riprese la sua corsa. Aumentarono, proprio in
questo periodo, le iscrizioni nelle province costiere e in Navarra25, mentre in Álava, già dai primi
mesi del 1935, ELA era l’organizzazione sindacale più forte, potendo contare su 3.000 iscritti26.
Anche in Guipúzcoa ELA si era rivelato il sindacato maggioritario con 18.256 iscritti (16.356 operai
industriali e 2.900 impiegati e professionisti27), mentre in Vizcaya, la provincia più industrializzata
dei Paesi Baschi, i 25.000 lavoratori nazionalisti permisero ai nazionalisti di competere praticamente
alla pari con il sindacato socialista28. In questa fase si registrò quello che Dario Ansel definisce «un
processo di convergenza sindacale e politica a sinistra, al quale, nei Paesi Baschi, non fu estranea
ELA 29», che spinse la dirigenza del PNV, preoccupata dalla radicalizzazione rivendicativa dei
lavoratori, ad accettare alcune istanze provenienti dal mondo sindacale: il salario variabile con
l’introduzione di un bonus familiare e la partecipazione operaia agli utili30. Quest’ultima misura era
di fondamentale importanza nella lotta per l’azionariato operaio che, nei progetti di ELA, avrebbe
22
de Larrañaga P., Contribución a la historia obrera de Euskal Herria, San Sebastian, Auñamendi, 1977, vol. II, p.
101.
23
Cfr. de Pablo S., El nacionalismo vasco en Álava (1907-1936), Bilbao, Ekin, 1988, p. 72; Clavería C., Navarra,
cien años de nacionalismo vasco, Bilbao, Fundación Sabino Arana, 1996, vol. II, p. 620.
24
Memoria presentada a la Asamblea de Agrupaciones de Bizkaya, sobre una nueva organización de Solidaridad de
Obreros, Empleados y Profesionales Vascos, Bilbao, Editorial Vasca, s.d., ma sicuramente pubblicata tra il febbraio
e il marzo 1933.
25
In Navarra, nel luglio del 1936, gli iscritti risultano essere circa 6.000, dei quali 4.200 regolarmente iscritti e 1.800
sostenitori che non pagavano la quota sociale. Cfr. de Bursain X., Estadística de Euzkadi, in Archivio del
Nacionalismo Vasco, Fondo PNV, Nac. EBB, Caja 181, c. 1.
26
de Larrañaga P., op. cit., vol. III, p. 342.
27
“Euzkadi”, 25 aprile 1936.
28
Borrador incompleto de un informe redacto por la Presidencia del BBB del PNV, sobre implantación y estructura
del PNV y de ELA-STV, Archivo del Nacionalismo Vasco, Fondo PNV, Reg. B, Caja 219, c. 8.
29
Ansel D., Nazionalismo basco e classe operaia durante la seconda repubblica, in “Spagna Contemporanea”, n. 37,
2010, p. 62.
30
“Euzkadi”, 28 marzo 1933 e 3 settembre 1933.
6 legato gli interessi dei lavoratori a quelli dell’impresa, favorendo al contempo l’introduzione della
cogestione. Il nuovo corso trovò sempre maggiori sostenitori, mentre l’insofferenza verso la
controparte padronale cresceva. La trasformazione di ELA in un sindacato di classe, sebbene di
orientamento nazionalista, comportò da un lato la fine del controllo diretto del partito sui lavoratori e
dall’altro la democratizzazione del partito stesso. Fu proprio l’attività sindacale, del resto, a
determinare la rottura tra la borghesia basca e le destre cattoliche spagnole, aprendo la strada alla
svolta centrista e poi frontista del partito.
Le ambiguità del programma baschista, così come le profonde divergenze interne, emersero con
forza allo scoppio della guerra civile. Mentre si attendeva l’esito delle trattative per l’approvazione
dello Statuto di autonomia e la costituzione del governo basco, la provincia di Álava cadde in mano
ai ribelli, mentre la Navarra aveva già assunto un ruolo di primo piano nell’organizzazione stessa
delle trame eversive. Il sostegno allo schieramento franchista in Álava e Navarra parrebbe connessa
all’assenza di una numerosa classe operaia autoctona, oltre che allo scarso sentimento baschista della
popolazione. Gli abitanti delle due province, in gran parte occupati nel settore agricolo e
caratterizzati da un forte orientamento confessionale, sostennero fin dal primo momento i ribelli, e
anche all’interno del PNV si registrarono numerose defezioni. Non pochi, infatti, furono i militanti
del partito che, soprattutto in Navarra, entrarono a far parte dei requetés carlisti, schierati al fianco
dei ribelli. Nelle province costiere, invece, dove forte era stata la presenza di ELA e del movimento
operaio organizzato, l’insurrezione fallì. Volendo sintetizzare, nelle province dove più radicata era
stata la presenza di ELA e dove anche la classe operaia aveva sposato una prospettiva al contempo
classista e nazionalista, i golpisti si trovarono a fronteggiare una forte opposizione, mentre dove
debole era la presenza operaia, così come il nazionalismo politico, le destre franchiste trovarono
invece un largo sostegno. La radicalizzazione del proletariato basco, condotta dai socialisti all’inizio
del secolo, e poi in maniera sempre più consistente dal sindacalismo nazionalista, garantì al Fronte
Popolare la lealtà del cuore industriale della penisola iberica (la Vizcaya) e, soprattutto, al PNV una
piena legittimità antifascista. Negli anni della clandestinità l’eredità della guerra civile e la sempre
più netta opposizione al franchismo favoriranno, infatti, la nascita di gruppi e partiti sempre più
radicali, capaci di minare l’egemonia nazionalista del PNV così come quella di classe dei partiti della
sinistra iberica (PCE-PSOE)31.
L’importanza dei fattori socio-economici nell’evoluzione politica del nazionalismo emerge con
chiarezza anche dall’esempio fornito dai combattenti irlandesi impegnati nella guerra civile.
L’insurrezione franchista del luglio 1936 ebbe un forte impatto in Irlanda. L’isola, dopo una vera e
propria guerra di liberazione (1919-1921), aveva conquistato una larga autonomia e, seppur priva di
sei delle nove contee dell’Ulster, si apprestava ad ottenere la piena indipendenza. Le forze
nazionaliste si erano già divise per orientamento politico e grado di radicalità, arrivando ad
affrontarsi militarmente nella guerra civile (1922-1923), che aveva visto contrapporsi la fazione
favorevole al Trattato Anglo-Irlandese e le componenti più radicali, incapaci di accettare tanto la
mutilazione territoriale dell’isola quanto il mantenimento dello status quo economico e sociale. Gli
31
Nel 1959 venne costituito Euskadi Ta Askatasuna (Paese Basco e Libertà-ETA) un gruppo armato clandestino che,
dopo aver abbracciato il marxismo-leninismo, diede vita ad un sanguinoso scontro militare con il governo di Madrid.
Numerosi, invece, furono i partiti nati a sinistra dello storico PNV tacciato di estrema moderazione tanto in ambito
indipendentista che in merito alle questioni sociali. I più importanti furono Herri Batasuna (Unità Popolare), creato
nel 1978 e vicino alle posizioni di ETA; Euskal Iraultzarako Alderdia (Partito della Rivoluzione Basca) nato nel
1977 da una scissione interna all’ETA e Eusko Alkartasuna (Solidarietà Basca) creato nel 1986 dalla corrente
socialdemocratica del PNV.
7 eventi spagnoli, così come l’ascesa del movimento filo-fascista delle Blueshirts, fondato nel 1932 dal
generale Eoin O’Duffy 32 , convinsero i militanti della sinistra nazionalista dell’importanza del
conflitto iberico. I principali esponenti dei movimenti radicali nati intorno all’Irish Republican Army
(IRA) – come il Republican Congress, fondato nel 1934 con il compito di spingere l’IRA a definire il
nazionalismo in termini di conflitto di classe33 – decisero quindi di organizzare un contingente da
schierare al fianco delle Brigate Internazionali. Allo stesso tempo, O’Duffy aveva iniziato a reclutare
combattenti per formare una Brigata Irlandese da impiegare al fianco delle truppe franchiste. Fu così
che lo scontro in atto all’interno della società irlandese si trasferì sui campi di battaglia iberici, dando
vita ad una singolare “guerra civile nella guerra civile” simile a quella che contrapponeva i baschi di
Vizcaya e Guipúzcoa ai propri corregionali della Navarra e dell’Álava. I 230 volontari repubblicani
che, guidati da Frank Ryan, partirono alla volta della Spagna per combattere al fianco del Fronte
Popolare, si trovarono quindi ad affrontare militarmente anche il contingente reclutato da O’Duffy,
che poteva contare su circa 700 unità34. Ma chi erano questi irlandesi che scelsero di combattersi
nuovamente nella guerra civile spagnola?
Prendendo in considerazione il contingente inquadrato nelle Brigate internazionali, comunemente
definito Connolly Column (Colonna Connolly35), è facile desumere come la maggior parte dei
volontari provenisse dai centri più industrializzati dell’isola: su un campione di 128 volontari, più
della metà proveniva dalle contee di Dublino (42), Antrim (28) e Cork (12)36. Mentre alla chiamata
alle armi del generale O’Duffy avevano risposto in larga parte uomini provenienti dall’Irlanda rurale:
le contee di Tipperary (95), Kerry (46), Limerick (40) e Monaghan (22), mentre decisamente più
scarso era stato il contributo delle città industriali 37 . Ancora più significativa è l’analisi della
composizione sociale dei due contingenti. Nel caso della Colonna Connolly l’87% dei volontari
aveva una provenienza operaia e soltanto il 13% del totale era rappresentato dal mondo delle
professioni38. Al contrario, in un’analisi analoga le truppe di O’Duffy (92 casi) appaiono composte
32
Creato nel 1932 dal generale Eoin O'Duffy – comandante dell’Irish Republican Army durante il conflitto AngloIrlandese, generale dell’Esercito Irlandese durante la guerra civile e poi commissario della Polizia dello Stato Libero
– con il nome di Army Comrades Association, il gruppo delle Blueshirts era nato allo scopo di difendere gli interessi
degli ex-combattenti dell’esercito regolare irlandese, assumendo presto i connotati di una forza ultraconservatrice
vicina al fascismo continentale. A riguardo si veda Cronin M., The Blueshirts and Irish politics, Dublin, Four Courts
Press, 1997.
33
Department of Justice, Notes on Republican Congress, s.d., p. 12, University College Dublin Archives, MacEntee
P67/527.
34
McGarry F., Irish politics and the Spanish Civil War, Cork, Cork University Press, 1999, pp. 24-65.
35
Si tratta però di una definizione fuorviante poiché, contrariamente a quanto si crede, i volontari irlandesi non
costituirono una vera e propria unità autonoma all’interno delle Brigate Internazionali, ma combatterono nelle fila
della brigata americana e di quella inglese. In quest’ultimo caso non senza tensioni. Alcuni volontari, infatti,
rifiutarono di servire nella British Brigade per le ferme convinzioni repubblicane. Frank Ryan in un’occasione arrivò
a minacciare di morte un volontario inglese una volta scoperti i suoi trascorsi nei Black and Tans ai tempi della
guerra d’indipendenza. Per scongiurare ulteriori tensioni la maggior parte degli irlandesi abbandonò la compagine
britannica per unirsi all’American Brigade, ed è a questi volontari che viene solitamente attribuita l’espressione
Colonna Connolly.
36
Da un confronto incrociato dei registri del governo irlandese e inglese, delle fonti archivistiche, delle memorie
private e delle interviste sull’argomento, la provenienza geografica dei 128 volontari oggetto dello studio risulta così
distribuita: 42 Dublino, 28 Antrim, 12 Cork, 12 Waterford, 7 Donegal, 6 Derry, 4 Cavan, 4 Limerick, 4 Tipperary, 3
Clare, 3 Galway, 3 Kilkenny.
37
Dalla contea di Antrim, e dal capoluogo Belfast, partirono soltanto 11 volontari. A riguardo McGarry F., op. cit.,
pp. 30-31.
38
Su un campione di 55 volontari si contano: 33 lavoratori non specializzati (20 Operai; 4 Marinai; 4 disertori
dell’esercito irlandese; 2 camerieri, 1 portuale; 1 autotrasportatore e 1 lattaio); 15 tra lavoratori specializzati o semispecializzati (9 commercianti; 2 tipografi; 1 commesso; 1 panettiere; 1 apprendista fabbro e 1 macellaio) e 7
professionisti (5 giornalisti; 1 insegnante e 1 pastore evangelico).
8 per un terzo da proprietari d’impresa, professionisti e agricoltori39, per un altro terzo da lavoratori
specializzati o semi-specializzati40 e per il resto da lavoratori non specializzati41. In base a questi dati
è possibile tracciare un ipotetico identikit del nazionalista irlandese di orientamento socialista:
giovane (il 67% dei volontari aveva un’età compresa tra i 17 e 29 anni42), di estrazione proletaria e
residente in una città industriale (Belfast o Dublino nella maggior parte dei casi). Appare evidente la
differenza con i volontari dell’Irish Brigade, provenienti in larga parte dall’entroterra rurale e dal
mondo delle professioni. Alla luce di ciò, pare confermata l’idea alla base di questo studio: quando le
rivendicazioni nazionaliste vengono fatte proprie dal proletariato industriale si assiste ad uno
spostamento a sinistra nell’orientamento ideologico del nazionalismo stesso.
2. Le periferie rurali: dal nazionalismo escludente al collaborazionismo.
Ho cercato fin qui di evidenziare le connessioni esistenti tra i processi di sviluppo economico e
l’evoluzione politica del nazionalismo attraverso le scelte ideologiche fatte dai singoli militanti.
Molto utile sarà ora estendere la comparazione a quei casi dove il nazionalismo si trovò ad agire
all’interno di società rurali. Il primo di questi esempi è quello della Bretagna. Si tratta della tipica
periferia esterna caratterizzata da «una profonda arretratezza e dal predominio culturale della chiesa
cattolica43». L’economia della regione nei primi anni del XX secolo si basava sulla coltivazione delle
patate e sulla pesca44. I processi d’industrializzazione non l’avevano interessata, escludendola dallo
sviluppo economico francese. Associazioni di difesa della lingua locale erano sorte fin dalla seconda
metà del XIX secolo45, ma fu nel 1911 che vide la luce il primo vero partito nazionalista bretone: lo
Strollad Broadel Breizh (Partito Nazionale Bretone-PNB) che potendo contare solo su poche
centinaia di membri, si dedicò principalmente al recupero della lingua locale.
Alla fine del primo conflitto mondiale quella bretone rimaneva sostanzialmente una società rurale,
conservatrice e filo-monarchica. Nonostante ciò si manifestarono i primi, timidi, segnali di sviluppo.
Alcune innovazioni si erano registrate nel campo della zootecnia e nelle tecniche di produzione
intensiva. E per far fronte al declino del settore della pesca, furono incentivate le poche industrie
conserviere della regione46. In questo contesto era stato riorganizzato il PNB, precedentemente auto
discioltosi in un più moderato movimento autonomista. Il nuovo PNB, che poteva contare su circa
8.000 iscritti, non era un’organizzazione omogenea, né tantomeno disponeva di un preciso e chiaro
orientamento politico. Al suo interno convivevano, infatti, diverse tendenze: da quella federalista a
quella indipendentista, fortemente etnicista. Nel 1933 i due principali esponenti del partito, Olier
Mordrel e François Debeuvais, avevano stilato il programma politico del movimento. Ne venne fuori
39
Da un confronto incrociato dei dati resi noti dal Ministero degli Esteri e dal Ministero della Giustizia irlandesi, dai
dati pubblicati dai quotidiani dell’epoca e dalla memorialistica, su un campione di 92 volontari: 10 erano agricoltori,
8 proprietari d’imprese e 17 professionisti (4 studenti; 2 seminaristi; 2 chimici; 2 medici; 2 insegnanti; 2 ingegneri; 1
bibliotecario; 1 avvocato e 1 giornalista).
40
11 poliziotti, 7 edili, 5 meccanici, 3 apprendisti e 4 commercianti.
41
7 operai, 8 commessi, 6 autisti e 3 portantini ospedalieri.
42
McGarry F., op. cit., p. 57.
43
Rokkan S., op. cit., p. 267.
44
A riguardo si veda Pennec P., Sous-développement et domination politique en Bretagne, Rennes, 1971.
45
La principale fu sicuramente la Kevredigezh Broadel Breizh (Società Nazionale Bretone) che, fondata nel 1898,
assunse subito un orientamento clericale e fortemente conservatore.
46
Il settore della pesca fu interessato da un processo di industrializzazione che concentrò l’indotto intorno a pochi
porti. Il numero dei pescatori bretoni, però, diminuì considerevolmente: dai 38.000 del 1935 ai 18.000 del 1967. A
riguardo Salvi S., Le nazioni proibite. Guida a dieci colonie “interne” dell’Europa occidentale, Firenze, Vallecchi
Editore, 1973, p. 133.
9 un testo profondamente influenzato dal nazional-socialismo tedesco, che rivelava un pericoloso
razzismo di fondo47. Nel 1938 la posizione filo tedesca dei nazionalisti bretoni appariva ormai chiara.
Il PNB, durante il congresso di Guingamp tenutosi nel mese di agosto, aveva reso pubblico un
manifesto programmatico nel quale si esplicitava l’atteggiamento “pacifista” che il partito avrebbe
mantenuto in caso di guerra contro la Germania. Era chiaro che i nazionalisti bretoni non avrebbero
mai appoggiato la causa francese durante un conflitto che appariva ormai imminente48. La dirigenza
del PNB, ormai braccata dalle autorità francesi, si rifugiò a Berlino e quando lo stesso Hitler si
pronunciò in favore della creazione di uno stato bretone indipendente, ogni resistenza dentro al
partito fu vinta. Era con i nazisti che si doveva stare.
I primi mesi della Seconda guerra mondiale furono segnati dalla rapidità con la quale le truppe
naziste sbaragliarono le difese francesi e occuparono la Bretagna. I tedeschi giocarono con
intelligenza la carta del separatismo. Liberarono i prigionieri di guerra di origine bretone,
legalizzarono i partiti politici nazionalisti, costituirono un Comitato Consultivo di Bretagna, cui
affidarono funzioni di governo e, soprattutto, lasciarono intendere che a guerra finita si sarebbe
avviato il processo di costituzione di uno stato bretone indipendente49. L’atteggiamento tedesco, però,
cambiò repentinamente quando, dopo alcune trattative, si decise di adottare una politica conciliatoria
verso il regime collaborazionista di Vichy. Le pressioni esercitate dal maresciallo Pétain convinsero i
vertici militari tedeschi a rivedere la propria posizione sulla questione bretone. I fascisti francesi, del
resto, non potevano tollerare una Bretagna indipendente e convinsero i nazisti a ridimensionare le
aspirazioni secessioniste dei nazionalisti50. La rinuncia all’indipendenza, però, si dimostrò un prezzo
molto alto da pagare anche per chi aveva collaborato diligentemente con le forze di occupazione. Le
differenti posizioni all’interno del partito generarono attriti e frizioni. Alcuni decisero di continuare a
collaborare con i tedeschi, di cui condividevano ideologia e aspirazioni. Nacquero, di conseguenza,
diverse organizzazioni filonaziste come il Mouvement Ouvrier Social-National Breton, guidato da
Théophile Jeusset e il gruppo paramilitare di Célestin Lainé detto Service Spécial. Lainé, già
fondatore della milizia del PNB (le Bagadoù Stourm: Truppe da Combattimento) era stato
conquistato dall’ideologia nazista, e aveva messo a disposizione dei tedeschi la sua milizia.
Interessante è l’analisi della composizione sociale dei gruppi dell’estrema destra bretone, composti in
maggioranza da contadini ed esponenti della borghesia urbana51. All’interno del PNB, intanto,
Mordrel e Debeauvais cercarono di smarcarsi dai nazisti e di riacquisire un minimo di autonomia
decisionale. L’influenza di Lainé, però, era molto forte e nel 1943 il partito era ormai nelle sue mani.
Nello stesso anno, intanto, il Service Spécial era stato integrato nelle SS con la denominazione di
Bretonische Waffenverband der SS Bezzen Perrot. Quest’ultima fase del collaborazionismo bretone
47
Deniel A., Le mouvement breton, Paris, Maspero, 1976, p. 198.
48
Col Congresso di Guingamp la posizione filotedesca del PNB divenne esplicita: «Plus une goutte de sang breton
ne doit être versé pour des causes étrangères». I bretoni si spinsero anche oltre giustificando l’invasione tedesca della
Cecoslovacchia: «Nous demandons que, nous Bretons, ne soyons pas engagés contre notre volonté dans une guerre
au profit de l'impérialisme tchèque.» cfr. Nicolas M., Histoire du mouvement breton, Paris, Syros, 1982, p. 84.
49
Le Boterf H., La Bretagne dans la guerre, in Floquet C., Pontivy, la liberté retrouvée, Spézet, Éditions Keltia
Graphic, 2003, p. 94.
50
Pochi giorni dopo il Congresso di Pontivy sul giornale dell’Abwher si leggeva: «Le ministre des Affaires
étrangères a pris une décision en ce qui concerne la question bretonne. Il en résulte que les mouvements séparatistes
en Bretagne ne doivent plus être encouragés. Des ordres ont été données en ce sens au bureau de l'Abwehr en France.
La collaboration avec les Bretons doit se limiter désormais au recrutement d'agents compétents dans la lutte contre
l'Angleterre et à l'action en Irlande. Tout mouvement insurrectionnel contre le gouvernement français devra être
évité.» cfr. Hamon K., Les nationalistes bretons sous l'occupation, Ar Releg-Kerhuon, An Here, 2001, p. 73.
51
Deniel A., op. cit., p. 215.
10 fu, forse, la peggiore. Le Bezen Perrot parteciparono attivamente alle operazioni contro la resistenza,
macchiandosi di numerosi crimini e aiutando le SS nei rastrellamenti degli ebrei.
Non tutti i nazionalisti furono, però, coinvolti in questa triste pagina di storia. Se il PNB e le altre
formazioni filonaziste contavano sul sostegno della Bretagna rurale e della piccola e media borghesia
urbana, alcuni nuclei indipendenti di nazionalisti di estrazione operaia – non molti in realtà –
rifiutarono di subire passivamente l’occupazione nazista52. Il valore dimostrato dai partigiani bretoni,
però, non bastò a cancellare anni di complicità con l’occupante nazista. Nell’agosto del 1944, con
l’arrivo degli alleati, il PNB fu sciolto. La maggior parte dei dirigenti del partito fu condannata per
aver collaborato con i tedeschi e il movimento nazionalista si ritrovò decapitato e privo di ogni
prospettiva53. La guerra, ma soprattutto il collaborazionismo, avevano completamente screditato il
separatismo bretone che, soltanto negli anni Sessanta, e su basi completamente diverse, riuscirà a
rialzare timidamente la testa dopo gli orrori e i crimini commessi in passato.
Ad uscire dal conflitto mondiale in una situazione anche peggiore del nazionalismo bretone fu quello
fiammingo, che aderì al progetto nazista con ancor più slancio ed entusiasmo. Il Belgio era, come lo è
tuttora, diviso in due grandi regioni linguistiche: la Vallonia – la parte meridionale dello stato – di
lingua francese; e le Fiandre – la metà settentrionale del paese che comprende la regione intorno a
Bruxelles – di lingua olandese. Il francese si era trasformato durante il XVIII secolo nella lingua
dell’élite amministrativa e culturale dello stato. Questo processo fu rafforzato nel periodo
dell’occupazione francese e poi dall’industrializzazione del meridione d’inizio XIX secolo. I
contadini fiamminghi, infatti, che continuavano a parlare una serie di dialetti olandesi, emigrarono in
massa in Vallonia, la zona del Belgio più ricca di carbone e insediamenti industriali (siderurgia;
tessile; cantieristica navale), alla ricerca di condizioni di vita più umane.
Lo stato belga era quindi ufficialmente francofono, poiché il francese era la lingua della legge e del
governo54. Quando, però, a metà del XIX secolo cominciò ad affermarsi il movimento per i diritti
linguistici e per l’identità fiamminga, divenne evidente che la popolazione delle Fiandre versava in
una situazione di netto svantaggio linguistico e sociale 55 . I benefici del processo
d’industrializzazione, così come i proventi delle esportazioni, rimanevano in Vallonia, mentre i
contadini fiamminghi versavano in condizioni di grave indigenza56. Pertanto, dall’unione tra la
rivendicazione linguistica e la tutela degli interessi particolaristici prese il via un processo costante e
continuo capace di rafforzare il risentimento dei fiamminghi verso la controparte vallona. Con la
riforma elettorale del 1893, lo stato fu costretto a scendere a compromessi con le rivendicazioni
fiamminghe. Nel 1913 venne approvato ufficialmente l’uso dell’olandese nelle scuole, nei tribunali e
nelle amministrazioni locali delle Fiandre. La creazione di due territori monolingue e
amministrativamente separati, che si univano solo nella capitale Bruxelles, divenne quindi
52
Si possono citare almeno due gruppi partigiani formati da separatisti bretoni: Sao Breiz (Alzati Bretagna), che a
fine guerra chiese a de Gaulle di concedere una maggiore autonomia alla regione; e il Groupe Liberté (Gruppo
Libertà) composto da ex militanti e simpatizzanti del PNB in disaccordo con la linea collaborazionista del partito.
53
I nazionalisti bretoni sono soliti parlare di persecuzioni di massa alla fine del conflitto, quando in realtà soltanto il
15-16% dei membri del PNB fu effettivamente condotto davanti a un giudice. A riguardo
http://www.fondationresistance.org/pages/rech_doc/bretagne-identites-regionales-pendant-seconde-guerremondiale_colloque7.htm
54
Judt T., L’età dell’oblio, Bari, Laterza, 2011, p. 230.
55
Durante i processi era vietato l’uso del fiammingo così come il francese era la lingua dell’istruzione secondaria e
superiore.
56
Quando le importazioni di cereali americani cominciarono a distruggere il mercato interno dei contadini
fiamminghi, il governo rifiutò di introdurre delle tariffe protezioniste per timore di rappresaglie contro le
esportazioni industriali cfr. Judt T., op. cit., p. 231.
11 inevitabile. Questo processo, che subì un’accelerazione negli anni tra le due guerre, fu ritardato dallo
scoppio del secondo conflitto mondiale e dal collaborazionismo fiammingo. Già durante la Prima
guerra mondiale alcuni nazionalisti avevano accolto le truppe tedesche come liberatori. Diversi
esponenti del mondo culturale avevano guardato all’occupazione come a un vantaggio per la
conquista dell’autonomia linguistica. I tedeschi sfruttarono l’occasione, imponendo l’olandese come
lingua ufficiale dell’amministrazione e convertendo l’Università di Gent in un’istituzione pienamente
fiamminga. Tali iniziative, in realtà, rispondevano a un preciso piano del comando tedesco che,
acuendo le divergenze etnolinguistiche, sperava di consolidare l’occupazione 57 . La grande
maggioranza della popolazione delle Fiandre, però, disapprovava il collaborazionismo, isolando e
condannando quanti avevano stretto legami con i tedeschi e salvando, di fatto, l’onore fiammingo.
Alla fine del conflitto, tra gli ex-combattenti fiamminghi prese corpo il progetto di costituire un vero
e proprio partito politico che si battesse per l’introduzione dell’autogoverno nelle Fiandre. Il nuovo
movimento, il Frontpartij (Partito del Fronte), poteva contare su un forte seguito tra i piccoli
agricoltori e su un discreto numero d’iscritti nell’area urbana di Gent e Louvain58. L’orientamento
ideologico del partito era piuttosto vago – ricorda per certi versi la storia del Partito Sardo d’Azione –
sebbene la presenza di un nutrito gruppo di militanti socialisti abbia portato storici e politologi ad
annoverarlo tra le forze politiche di sinistra dell’epoca59. Alle elezioni del 1919 il partito conquistò il
6,3% dei voti, riuscendo ad eleggere cinque deputati al Parlamento di Bruxelles60. La crescita
elettorale continuò anche negli anni successivi. Arrivò, però, il momento in cui rimanere estranei ai
repentini stravolgimenti internazionali si rivelò impossibile. L’ascesa del fascismo italiano e la
diffusione delle teorie razziali tedesche ebbero delle immediate conseguenze nelle Fiandre. Diversi
nazionalisti si convertirono al credo mussoliniano, sancendo di fatto la fine del Frontpartij. Il primo
ad andarsene, fu un fervente ammiratore del duce, Joris Van Severen che nel 1931 fondò la Verbond
van Dietse Nationaal-Solidaristen (Unione delle Diete Nazional-Solidale), meglio nota come
Verdinaso. Il movimento, contrario alla democrazia parlamentare e sostenitore di un modello statale
corporativo, proponeva l’unificazione delle Fiandre, dell’Olanda e del Lussemburgo in un unico stato
denominato Dietsland o Diets Rijk (Impero Olandese). I tratti autoritari della Verdinaso si fecero
sempre più evidenti61 e nel 1936 i vertici dell’organizzazione decisero di confluire nel nuovo partito
nazionalista radicale: la Vlaams Nationaal Verbond (Unione Nazionale Fiamminga-VNV). Fondata
nel 1933 da Staf de Clercq, su posizioni estremamente autoritarie, la VNV si batteva apertamente per
l’indipendenza delle Fiandre. Il partito riscosse un immediato successo tra la popolazione delle
campagne, riuscendo a conquistare, nelle elezioni del maggio 1936, il 13% dei voti. Alle successive
elezioni del 1939 la VNV incrementò ulteriormente i propri consensi, salendo al 17%62. Insieme ai
57
A riguardo si rimanda a Hermans T., The Flemish Movement: A documentary history, 1780-1990, London,
Athlone Press, 1992.
58
Carsten F.L., The rise of Fascism, Berkeley, University of California Press, 1967, p. 207.
59
Ishiyama J.T. – Breuning M., Ethnopolitics in the new Europe, Lynne, Rienner Publishers, 1998, p. 112.
60
Carsten F.L., op. cit., p. 208.
61
Nel 1936 il movimento favorì la costituzione di una milizia paramilitare che indossava, in tipico stile fascista, la
camicia verde: la DINASO Militanten Orde (Ordine Militante). A riguardo si rimanda a Carsten F.L., op. cit..
62
Rudolph J. R. - Thompson R. J., Ethnoterritorial politics, policy and the Western World, London, Lynne Rienner,
1989.
12 voti crescevano anche le aspirazioni separatiste. L’invasione tedesca della Polonia e la prospettiva di
un conflitto europeo non fecero che alimentare il sogno fiammingo dell’indipendenza63.
Il 10 maggio 1940 l’esercito nazista invase il Belgio e de Clercq offrì alle truppe tedesche l’appoggio
del partito e della milizia, la Grijze Brigade (Brigata Grigia). Dai nazionalisti della VNV
l’occupazione veniva vista come l’occasione giusta per fare delle Fiandre uno stato indipendente,
sotto la protezione del Terzo Reich. Il partito si mise, allora, a completa disposizione dello stato
maggiore tedesco, collaborando attivamente alla deportazione di migliaia di ebrei da tutto il Belgio
settentrionale. I tedeschi, dal canto loro, fecero nuovamente presa sui sentimenti anti-valloni dei
fiamminghi, introducendo una serie di leggi di promozione e tutela della lingua e, seguendo lo stesso
copione già visto in Bretagna, rilasciando i prigionieri di guerra. I nazisti, però, non avevano alcuna
intenzione di favorire la nascita di uno stato indipendente nelle Fiandre e la VNV finì per accettare
tacitamente il volere degli occupanti, barattando l’indipendenza con il diritto di poter organizzare una
propria attività di propaganda.
In realtà, però, il nazionalismo fiammingo aveva aderito convintamente alla causa nazi-fascista, tanto
che dal 20 aprile 1940 molte sezioni del partito erano diventate veri e propri centri di reclutamento
delle Waffen SS. Da questo punto della storia in poi è difficile, se non impossibile, scindere il nazista
dal nazionalista, il fiammingo dal tedesco. I destini del movimento nazionalista erano legati a filo
doppio a quelli del nazismo tedesco. Con la caduta del Terzo Reich e la liberazione del Belgio si aprì
la stagione dei processi ai collaborazionisti. Quasi tutta la dirigenza della VNV fu arrestata,
processata e condannata, e la causa fiamminga apparentemente screditata. Per quattro anni i
separatisti avevano fiancheggiato le SS, macchiandosi dei più meschini delitti. Nel tentativo di creare
un proprio stato indipendente, una parte consistente della popolazione fiamminga, principalmente
nelle campagne, aveva aderito entusiasticamente al nazionalsocialismo. Ancora una volta si può
notare come in un ambiente rurale e fondamentalmente arretrato, il nazionalismo abbia assunto un
orientamento escludente. Alla forte connotazione linguistica del conflitto tra valloni e fiamminghi si
sommò un forte divario sociale (Vallonia industriale –Fiadre rurali) che, in assenza di forti legami
solidaristici di classe, determinò la rapida radicalizzazione del messaggio nazionalista in senso
reazionario e xenofobo, garantendo al contempo un sostegno di massa al nazionalismo stesso dopo, e
nonostante, la parentesi collaborazionista.
3. Nazionalismo inclusivo vs. Sciovinismo del benessere: Scozia e Fiandre a confronto
Per comprendere meglio le caratteristiche del processo di differenziazione ideologica all’interno
dell’universo nazionalista sarà molto utile comparare il caso fiammingo con quello scozzese nella
seconda metà del XX secolo. Legata alla corona britannica dall’Atto di Unione del 1707, la Scozia
aveva mantenuto una propria identità nazionale distinta da quella inglese, seppur priva di una forte
specificità linguistica64. In assenza di forti cleavages etno-linguistici, la società scozzese si era divisa
secondo la contrapposizione di classe tipica di una società industrializzata. La presenza di grandi
giacimenti carboniferi nella Scozia centrale aveva favorito lo sviluppo di una fiorente industria
metallurgica, meccanica e navale già nel corso del XIX secolo. Una prima conseguenza di questo
63
Nonostante de Clercq continuasse a negare ogni rapporto con la Germania nazista, i vertici della VNV ricevevano
da tempo finanziamenti occulti dal Ministero della Propaganda del Terzo Reich cfr. De Wever B., Greep naar de
macht. Vlaams-nationalisme en Nieuwe Orde. Het VNV 1933-1945, Tielt,Uitgeverij Lannoo, 2004.
64
Come osservato da Stein Rokkan, la Scozia rappresenta un caso unico in Europa con la «combinazione di una forte
coscienza storica di identità separata e di un totale disinteresse nello sviluppo di una lingua distinta». Cfr. Rokkan S.,
op. cit., p. 248.
13 processo di modernizzazione industriale fu l’imponente incremento demografico delle aree urbane.
Inizialmente il processo di urbanizzazione interessò le aree rurali del sud della regione, poi iniziò
l’immigrazione di massa dalla vicina Irlanda 65 . Le industrie scozzesi crebbero, così come il
proletariato urbano, fino alla fine della Prima guerra mondiale. Dal 1918 a giocare un ruolo sempre
più centrale nella politica scozzese fu il Partito Laburista, che proprio nella numerosa classe operaia
locale trovò un ampio bacino di voti. Il nazionalismo politico rimaneva ancora un’opzione folclorica,
che era stato incapace di darsi una forma partito compiuta dopo la creazione della Scottish Home
Rule Association (Associazione per l’Autogoverno della Scozia) nel 1886. Bisognerà attendere il
1932 per la comparsa di un nuovo movimento nazionalista, lo Scottish National Party (Partito
Nazionale scozzese-SNP). Nato dalla fusione tra il National Party of Scotland, di orientamento
repubblicano e indipendentista, e lo Scottish Party, favorevole a un graduale processo di devoluzione
dei poteri e d’ispirazione conservatrice, il partito adottò un programma autonomista improntato al
conseguimento di maggiori vantaggi economici per la Scozia all’interno della Gran Bretagna66. La
linea politica del nuovo movimento fu per i primi anni di orientamento conservatore: condanna delle
politiche laburiste, rifiuto categorico del socialismo, allora diffuso tra gli operai scozzesi più che nel
resto della Gran Bretagna, e una brutale campagna discriminatoria verso gli immigrati irlandesi67.
Questo tipo d’impostazione, che affondava le proprie radici nella mancata integrazione di parte della
piccola borghesia scozzese nel processo di nation-building britannico, non portò alcun vantaggio
elettorale allo SNP che, a causa di un’ambigua collocazione politica, di una leadership poco
coinvolgente e dell’eccessiva eterogeneità delle sue anime, non riuscì a far presa sull’elettorato68.
Con l’aumento della disoccupazione seguita alla crisi del 192969, gli operai scozzesi continuarono a
votare in maggioranza per i laburisti, più attenti alle rivendicazioni di eguaglianza sociale, mentre i
conservatori vedevano nei Tory i migliori rappresentanti dei propri interessi particolari. Alla fine del
secondo conflitto mondiale, il governo del laburista Clement Attlee si era impegnato in una vasta
campagna di nazionalizzazioni, che in Scozia aveva interessato principalmente le miniere di carbone
e le imprese produttrici di elettricità70. Il rilancio economico, comunque, non fu facile e il progetto di
riconversione industriale post-bellica mai del tutto portato a termine.
In questi anni lo SNP rimase sostanzialmente ai margini della vita politica71. Il partito aveva adottato
una politica economica di stampo interclassista72 e rimaneva diviso al suo interno in diverse correnti:
repubblicani, autonomisti, gradualisti, conservatori, liberali. In una regione altamente industrializzata,
65
Nel periodo compreso tra il 1840 e il 1900 circa 600.000 irlandesi si trasferirono in Scozia, per la gran parte nella
città di Glasgow. A riguardo si veda Davies N., Isole. Storia dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e dell’Irlanda,
Milano, Bruno Mondadori, 2007 (1a ed. 1999).
66
Lynch P., SNP: The history of the Scottish National Party, Cardiff, Welsh Academic Press, 2002.
67
Bradley J., Identity, politics and culture: Orangeism in Scotland, in “Scottish Affairs”, n. 16, Summer 1996, pp.
104-128.
68
Alle elezioni del 1935 per il Parlamento inglese il partito raccolse 29.517 voti, pari all’1,1% cfr. Hutchison I.G.C.,
op. cit., p. 156.
69
La disoccupazione arrivò al 10% nel 1933, soprattutto in seguito alla crisi della cantieristica navale. I cantieri
scozzesi, che avevano varato nel 1913 ben 75.000 tonnellate di naviglio ridussero la produzione fino alle 5.600
tonnellate del 1933. A riguardo si rimanda a Salvi S., op. cit., p. 72; Campbell A.D., Changes in Scottish incomes,
1924-1949, in “Economic Journal”, LXII, 2, 1955, pp. 225-240.
70
Feinstein C., The end of the Empire and the Golden Age, in Clarke P. – Trebilcock C. (ed.), Understanding
decline. Perception and realities of British economic performance, Cambridge, Cambridge University Press, 1997,
pp. 212-233.
71
Nel corso di tutto il decennio lo SNP non superò mai lo 0,5% dei consensi.
72
Scottish National Party, SNP and you: Aims and policy of the Scottish National Party, Edinburgh and Glasgow,
1968, pp. 4-5.
14 dove la consistenza del movimento operaio era notevole, la scarsa attenzione prestata alle questioni
sociali dalla nuova dirigenza moderata, durante la leadership di James Halliday e Arthur Donaldson,
non permise ai nazionalisti di conquistare particolari successi. Il modello interclassista proposto dallo
SNP, difatti, riusciva a raccogliere consensi solo nell’entroterra rurale, ma lasciava del tutto
indifferenti il proletariato industriale, fedele al Partito Laburista, e settori consistenti della media e
grande borghesia urbana, che continuavano a votare per i conservatori. I nazionalisti, incapaci di
ritagliarsi un proprio spazio politico, rimasero quindi schiacciati dal bipartitismo britannico, privi di
un’efficace politica sociale e perennemente divisi al loro interno tra una corrente indipendentista e
una autonomista. Nel 1960, a più di vent’anni dalla sua fondazione, in pochi avrebbero scommesso
sulla sopravvivenza del partito.
Nel 1962 però, grazie alle pressioni della base, era iniziato un processo di ristrutturazione
dell’organizzazione interna. Una nuova struttura estremamente decentrata, basata sul branch (un
gruppo locale con almeno venti iscritti capace di autofinanziarsi), permise di coinvolgere un numero
maggiore di militanti nelle attività decisionali dello SNP. Da questi nuclei locali arrivarono le nuove
proposte di elaborazione politica in grado di garantire una migliore analisi dei cambiamenti in atto
all’interno della società scozzese. La strategia pagò – il numero dei branches passò dai 18 del 1962 ai
518 del 197173 – e il partito vide gradualmente aumentare il proprio peso politico fino alle elezioni
del 1970, quando 306.802 scozzesi (11,4%) votarono per lo SNP, che riuscì così ad eleggere un
parlamentare. Per la prima volta i nazionalisti scozzesi erano riusciti a raccogliere un buon sostegno
popolare. Forti di questo risultato, durante la leadership di William Wolfe (1969-1979) decisero di
rilanciare la carta indipendentista e la politica nazionalista iniziò a godere di una crescente credibilità.
Anche la base del partito stava mutando. Alla piccola borghesia rurale dei villaggi si andava
affiancando un numero crescente di lavoratori dell’industria, delusi dall’immobilismo del movimento
laburista difronte ai primi segnali di un’incipiente crisi economica74. Il declino dell’industria pesante,
la chiusura delle miniere di carbone e la crisi della cantieristica navale nel Clyde, infatti, avevano
assestato un duro colpo all’immagine del Partito Laburista, che appariva incapace di dare risposte
concrete al crescente malumore operaio. L’impasse laburista e l’avanzare della crisi economica
contribuirono, quindi, a erodere i forti legami di classe che avevano unito gli operai scozzesi alle
istituzioni statali, rendendoli più disponibili al dialogo con il nazionalismo politico. Ad alimentare
ulteriormente le speranze dei nazionalisti contribuì la scoperta del petrolio nel Mare del Nord, al
largo della costa orientale scozzese. La questione petrolifera divenne in breve tempo un tema di
primaria importanza per due motivi principali: perché gli scozzesi potevano finalmente porsi
l’obiettivo di riuscire a controllare le proprie risorse in maniera autosufficiente e per aver acceso
all’interno del partito il dibattito sui rischi insiti in una rivendicazione prettamente economica
dell’autonomia. Una componente nuova, più giovane e di orientamento socialista, iniziò in quei
giorni a far sentire la propria voce, sostenendo la necessità di nazionalizzare i bacini petroliferi della
futura Scozia indipendente per sottrarli alle brame delle grandi multinazionali. Nei piani di questi
giovani militanti i profitti ricavati dal petrolio sarebbero stati utilizzati per incrementare il welfare
73
Melucci A. – Diani M., Nazioni senza stato. I movimenti etnico-nazionali in Occidente, Milano, Feltrinelli, 1993,
p. 78.
74
Incrociando i dati riportati da Richard Mansbach con quelli elaborati da James Mitchell, Robert Johns e Lynn
Bennie possiamo stimare intorno al 38% la consistenza della componente operaia tra i militanti dello SNP nel
periodo compreso tra il 1970 e il 1982 cfr. Mansbach R., The Scottish National Party. A revisited political portrait,
in “Comparative Politics”, 5 (2), 1973, pp. 185-210; Mitchell J. – Johns R. – Bennie L., Who are the SNP Members?,
in Hassan G. (ed.), op. cit., pp. 68-78.
15 scozzese. In quest’ottica il controllo dei giacimenti avrebbe garantito un netto miglioramento del
benessere collettivo, con conseguenze dirette nel campo della salute pubblica, dell’istruzione e
dell’occupazione75. Fu proprio la campagna “It’s Scotland’s Oil” a spingere Wolfe a dichiarare
ufficialmente, nel 1974, che lo SNP era a tutti gli effetti un partito social-democratico76. Le elezioni
di quello stesso anno premiarono il nuovo corso, e il partito conseguì il 30,4% dei voti, sufficienti ad
eleggere ben 11 parlamentari.
Il programma indipendentista, tuttavia, non aveva riscosso lo stesso successo di temi come la difesa
del territorio o l’implemento del welfare, intorno ai quali invece il sostegno era molto più ampio.
Questo sembra confermare come, gradualmente, il nazionalismo politico andasse sostituendosi al
Partito Laburista nei panni di legittimo rappresentante degli interessi di classe dei lavoratori
dell’industria, e dei settori della piccola e media borghesia alle prese con le conseguenze della crisi
congiunturale degli anni ‘70. Come sostenuto da James Mitchell: «mai prima di allora classe e
identità nazionale si erano avvicinate così tanto77». Anche in Scozia, del resto, si era diffuso il vento
della contestazione giovanile e ciò permise ad una nuova generazione di attivisti (studenti
universitari, giovani operai, intellettuali) di avvicinarsi all’universo nazionalista, portando all’interno
del movimento nuova linfa e una maggiore rispettabilità intellettuale78. La radicalità portata in dote
dalle giovani generazioni e la diffusione di concetti quali l’antimperialismo e l’anticolonialismo
esercitarono una forte influenza sul partito, causando non poche tensioni tra i nuovi militanti e i
vecchi dirigenti.
Alla fine di un decennio complesso come gli anni ‘70 si tenne il referendum sul progetto di
devolution proposto dal governo laburista79. Il Referendum Act aveva fissato al 40% degli iscritti
nelle liste elettorali la soglia di validità per la consultazione. In Scozia vinsero i “si” con uno scarto
piuttosto risicato (51,6%), ma la partecipazione al voto non altissima (63,8%) invalidò, di fatto, la
vittoria. Questo evento non fece che accelerare il processo di evoluzione politica in atto, modificando
la strategia e la collocazione ideologica del nazionalismo stesso. Se a livello ufficiale, in passato, lo
SNP si era proclamato quasi del tutto indifferente alla polarizzazione destra/sinistra, aspirando a
rappresentare gli interessi collettivi degli scozzesi fino all’indipendenza, gli anni ‘80 videro crescere
all’interno del partito, e della comunità nazionalista, l’influenza della corrente di sinistra. Questa
fazione, nota come 79 Group, annoverava alcuni tra i più preparati militanti del partito, tra i quali
Alex Salmond futuro leader dello SNP. Le critiche mosse alla dirigenza partivano da un’accurata
75
Scottish National Party, It’s time...Supplement to the Election Manifesto of the Scottish National Party –
September 1974, Edinburgh, Scottish National Party, 1974.
76
Nel manifesto elettorale per le elezioni dell’ottobre 1974 si legge: «[…]Un governo scozzese controllerebbe le
operazioni delle compagnie petrolifere in modo da assicurare uno sviluppo delle risorse estrattive al ritmo ottimale
per gli interessi della Scozia, e non già per quelli di Londra, del MEC o degli Stati Uniti. La produzione verrebbe
fissata ad un livello di 40-50 milioni di tonnellate annue, in modo da conservare le riserve di greggio per le nuove
generazioni, il reddito ricavato dal petrolio verrebbe usato per costruire case, scuole e ospedali, per ridurre la
disoccupazione in Scozia allo stesso livello, inferiore all’uno per cento, ottenuto dalla Norvegia, per aumentare le
pensioni e concedere maggiori benefici ai malati e ai portatori di handicap e, non ultimo, per fornire aiuti economici
ai paesi del terzo mondo.» cfr. Ibidem.
77
Mitchell J., From Breakthrough to Mainstream: The Politics of Potential and Blackmail, in Hassan G. (ed.), op.
cit., pp. 31-41.
78
Finlay R., The Early Years: From the Inter-War Period to the Mid-1960s, in Hassan G. (ed.), op. cit., p. 29; Id.,
Modern Scotland, 1914-2000. London, Profile, 2004.
79
Il referendum proponeva l’istituzione di un Parlamento scozzese e di uno gallese, competenti in tema di
educazione, salute, affari interni, edilizia e cultura. A riguardo si vedano Davies N., op. cit.; Bulmer S. – Burch M. –
Carter C. – Hogwood P., British Devolution and European Policy-Making. Transforming Britain into a Multi-Level
Governance, Basingstoke, Palgrave, 2002.
16 analisi dei risultati referendari: a votare in maggioranza per il “si” era stata la classe operaia
scozzese80. Stando così le cose, lo SNP avrebbe dovuto concentrare le proprie attenzioni sulle
dinamiche di classe interne alla società e adottare tre nuove parole d’ordine: nazionalismo,
socialismo e repubblicanesimo81. In altre parole, solo diventando un’alternativa radicale al Partito
Laburista il nazionalismo politico avrebbe trionfato in Scozia.
Sebbene la “svolta a sinistra” si fosse aperta con l’attacco frontale al thatcherismo e con la dura
campagna di opposizione al nucleare, fu a metà degli anni ‘80 che l’atteggiamento dei nazionalisti si
fece più audace. Alle campagne contro il razzismo e all’attivismo anticolonialista si aggiunsero,
infatti, gli appelli per l’uscita dalla NATO del 1986 e le campagne di solidarietà al governo sandinista
del Nicaragua82. Il vero punto di svolta fu rappresentato, però, dall’adozione di una nuova strategia
socio-economica. Lo SNP si schierò in maniera decisa al fianco dei sindacati contro lo
smantellamento del comparto industriale. In un contesto profondamente segnato dalla recessione
economica e dalla disoccupazione83, i nazionalisti sostennero il lungo sciopero dei minatori (19841985), sostituendosi così al Partito Laburista, sempre più moderato e in cerca di una nuova
collocazione politica più orientata verso il centro. In questo decennio la battaglia per l’indipendenza
venne nei fatti subordinata alle rivendicazioni economico-sociali, come indicato anche
dall’abbandono del rigido antieuropeismo che aveva caratterizzato gli anni precedenti84. L’adozione
di un programma politico del tutto nuovo e la difesa delle rivendicazioni operaie si rivelarono ben
presto le chiavi del successo nazionalista in Scozia, e il marginalismo degli anni precedenti iniziò ad
apparire soltanto un ricordo sbiadito.
La nuova leadership, raccolta intorno ad Alex Salmond, rilanciò l’ipotesi indipendentista adottando
un approccio gradualista che puntasse alla devolution (ottenuta con lo storico referendum del 1998), e
all’istituzione di un parlamento scozzese, come primo passo verso la piena sovranità. Il nazionalismo
scozzese, seppur in assenza di cleavages particolarmente radicali (l’opposizione a un regime
dittatoriale come nel caso basco o le sistematiche discriminazioni cui erano sottoposti i cattolici in
quello nordirlandese), ha comunque modificato il proprio orientamento politico. Lo SNP attraverso
una serie di proposte innovative sul welfare, sulle energie rinnovabili e sui diritti civili, è riuscito ad
erodere il primato dei laburisti in Scozia – la crescita elettorale del partito può essere ricondotta in
larga parte alle defezioni dell’elettorato laburista85 – facendosi interprete tanto del tradizionale
scontro tra centro e periferia, quanto della frattura di classe interna alla società scozzese. Alla luce di
ciò si può comprendere perché il nazionalismo, trovandosi ad agire in presenza di un movimento
operaio numeroso e organizzato, abbia intrapreso un graduale ma innegabile spostamento verso
sinistra del proprio baricentro politico nel periodo compreso tra il 1968 e il 1988. Lo SNP è riuscito a
diventare prima un vero e proprio rivale del tradizionale rappresentante della classe operaia (il Partito
Laburista), assumendone rivendicazioni e ideologia di riferimento; e poi, approfittando della nuova
80
Bayne I.O., The impact of 1979 on the SNP, in Gallagher T. (ed.), Nationalism in the Nineties, Edinburgh,
Polygon, 1991, p. 57.
81
Torrance D., The Journey from the 79 Group to the Modern SNP, in Hassan G. (ed.), op. cit., p. 163.
82
Melucci A. – Diani M., op. cit., p. 175.
83
Il tasso di disoccupazione in Scozia era salito dal 3,6% del 1974 al 14% del 1984 cfr. Brand J., Scotland, in
Watson M. (ed.), Contemporary minority nationalism, London-New York, Routledge,1990, pp. 24-37.
84
Scottish National Party, Play the Scottish Card: SNP General Election Manifesto, Edinburgh, Scottish National
Party, 1987, p. 9.
85
Curtice J., Devolution, the SNP and the Electorate, in Hassan G. (ed), op. cit., pp. 55-67; Newell J.L., The Scottish
National Party and the Italian Lega Nord: a lesson for their rivals?, in “European Journal of Political Research”, 26
(2), 1994, pp. 135-153. 17 collocazione al centro del New Labour, a presentarsi come unico soggetto in grado di far fronte alle
conseguenze della nuova crisi economica globale.
Nel sottolineare quanto la dimensione socio-economica abbia contato, e conti ancora oggi, nella
storia del nazionalismo politico, appare evidente la fallacità di quelle teorie che consideravano le
condizioni economiche delle nazioni senza stato necessariamente arretrate e di impostazione
coloniale86. Al tempo stesso, però, una maggiore attenzione deve essere dedicata al ruolo che queste
hanno assunto nell’evoluzione politica del nazionalismo.
Se nel caso scozzese il movimento nazionalista per raggiungere un successo di massa ha dovuto
gradualmente far proprie le rivendicazioni di giustizia sociale care al movimento operaio, in quello
fiammingo riscontreremo un fenomeno di segno diametralmente opposto. Nelle Fiandre, una regione
molto omogenea dal punto di vista linguistico ma priva di un proletariato organizzato e numeroso, il
nazionalismo si è sempre presentato come difensore degli interessi di uno specifico gruppo etnico a
discapito di un altro. L’assenza di legami solidaristici che esulano dall’etnia o dalla lingua, impone il
vincolo nazionale, o meglio etnico, come unica forza accomunante della comunità e alimenta quelle
forze politiche che del patrimonio nazionalista esaltano soprattutto la componente razziale,
etnocentrica e populista. Il successo di un messaggio di questo genere si è registrato proprio in quelle
regioni che hanno beneficiato della crescita economica in concomitanza della massiccia
deindustrializzazione di vaste aree dell’Europa occidentale, dando vita al fenomeno che definiamo
“sciovinismo del benessere”. Nonostante l’ingombrante eredità della parentesi collaborazionista,
infatti, i fiamminghi approfittarono nel secondo dopoguerra del rovescio delle fortune economiche
all’interno dello stato belga. Se la Vallonia francofona aveva raggiunto un invidiabile sviluppo
industriale in passato, durante gli anni Cinquanta la regione attraversò un processo di rapida
decadenza. La conurbazione industriale più redditizia del continente d’un tratto sparì. Miniere di
carbone, acciaierie, industrie siderurgiche e tessili, cessarono quasi del tutto la produzione nell’arco
di un decennio, e la disoccupazione raggiunse cifre preoccupanti87. Di segno diametralmente opposto
fu, invece, la rapida espansione economica delle Fiandre. Non più ostacolata dalla vecchia industria o
da una manodopera inabile al lavoro, l’economia di città come Anversa e Gent crebbe
esponenzialmente grazie allo sviluppo della tecnologia di servizio e del commercio 88 . Questo
processo, che vedrà il Nord superare il Sud come regione dominante ed economicamente più ricca,
iniziò appunto sul finire degli anni Cinquanta, anche grazie alle rivendicazioni fiamminghe e alla
battaglia per ottenere benefici politici conformi nuovo status economico.
Il nazionalismo fiammingo, decapitato dai processi contro i collaborazionisti si era riorganizzato in
sordina sul finire degli anni ’40. Già dai primi mesi successivi alla fine della guerra, Frans Van der
Elst, membro di spicco della Christelijke Vlaamse Volksunie (Unione Cristiana Popolare
Fiamminga), si recava regolarmente in carcere a trovare Hendrik Elias, ultimo segretario della
Vlaams Nationaal Verbond. Durante questi incontri der Elst maturò la decisione di formare un nuovo
partito fiammingo, che si battesse per la difesa dei diritti della popolazione di lingua olandese. Poco
preoccupato dell’ingombrante eredità del passato collaborazionista, nel 1954 diede vita alla
Volksunie (Unione Popolare), un partito di orientamento conservatore, all’interno del quale
convivevano un’ala federalista e una più marcatamente indipendentista.
86
Sull’idea di colonialismo interno si rimanda a Hechter M., Il colonialismo interno, Torino, Rosenberg & Sellier,
1979.
87
Judt T., op. cit., p. 232.
88
Nel 1947 ancora più del 20% della manodopera fiamminga lavorava nei campi, alla fine degli anni ’80 questa
percentuale era scesa al 3%.
18 Il partito riuscì a conquistarsi un crescente sostegno elettorale, sfidando il solido sistema tripartitico
belga (cattolici, socialisti e liberali) che aveva retto le sorti dello stato fino a quel momento89.
L’ascesa elettorale della Volksunie, trasformatasi nella cassa di risonanza del malcontento delle
Fiandre, modificò profondamente il corso della storia belga e dei rapporti intercomunitari.
Per nulla interessati alla coesione e all’eguaglianza sociale, i nazionalisti fiamminghi si
preoccuparono esclusivamente di conquistare quanti più vantaggi possibili per la propria comunità.
Nemmeno una parola fu spesa sulla crisi industriale che attanagliava la Vallonia e per la perdita di
centinaia di migliaia di posti di lavoro. Per la dirigenza della Volksunie la crisi abbattutasi sui
francofoni rappresentava esclusivamente una buona occasione per i fiamminghi e bisognava
approfittarne. I tempi per un attacco al centralismo belga sembravano finalmente maturi. Il primo
passo fu compiuto nel 1963, quando la frontiera linguistica si trasformò in una frontiera politicoamministrativa. Furono separati alcuni ministeri ed aumentarono le pressioni per una definitiva
federalizzazione dello stato90. Grazie alla mobilitazione guidata dalla Volksunie, alla metà degli anni
’60, la parità tra olandese e francese venne resa ufficiale e la strada verso l’autonomia delle Fiandre
apparentemente spianata.
Allo sviluppo politico ed economico della regione si accompagnava, infatti, il declino della Vallonia
che si trovò investita dalla crisi dell’industria pesante e dal raddoppio del tasso di disoccupazione (dal
2,5% nel 1958 al 4,7% nel 1960 91 ). La ridefinizione delle relazioni tra i gruppi etnici, con
conseguenti tensioni e attriti, divenne a quel punto una tappa obbligata. Se a questi processi
economici sommiamo, poi, un’evoluzione demografica che vide il declino dei francofoni (dal 34%
del 1947 al 32,7% del 1970) e la crescita dei fiamminghi (dal 54,2% del 1947 al 65,1% del 1970), il
quadro che ne emerge è quello di uno stato pronto a esplodere. Le tensioni tra le due comunità, unite
a nuove crisi economiche, spinsero la classe politica a mettere al centro dell’agenda governativa le
riforme istituzionali e la questione fiamminga. I nazionalisti avevano momentaneamente accantonato
la richiesta dell’indipendenza, cercando invece di massimizzare le opportunità sul terreno economico
per i membri del proprio gruppo etnico, che continuavano a occupare posizioni inferiori rispetto ai
valloni in molti settori92. La strada migliore per il conseguimento di questi obiettivi diventò, allora, la
riorganizzazione dello stato su basi federali. La crescita elettorale della Volksunie e la pressione
esercitata dalle associazioni di difesa dei diritti linguistici fiamminghi, spinsero il governo di
Bruxelles a procedere con la prima revisione della Costituzione. Nel 1970 si riconobbe l’esistenza di
tre comunità culturali – corrispondenti alle lingue francese, olandese e tedesca – e l’autonomia nella
gestione della politica, dell’istruzione e della cultura per tre regioni: la Vallonia, le Fiandre e
Bruxelles Capitale. Alcuni provvedimenti di natura consociativa (parità linguistica nel governo,
creazione di gruppi linguistici nelle due camere del parlamento, maggioranze qualificate per leggi
89
Alle elezioni generali del 1958 la Volksunie ottenne 104.823 voti, pari al 2% su scala nazionale, incrementando i
propri consensi in tutte le tornate elettorali successive, fino ai 586.917 voti del 1971 che valsero l’11.1% su scala
nazionale. Cfr. Nohlen D. – Stöver P. (eds.), Elections in Europe: A data handbook, Baden Baden, Nomos Verlag,
2010, pp. 289ss. 90
A riguardo si veda Borremans I. – Postal P., De l’État unitaire à l’État fédéral. La dynamique institutionelle de la
Belgique, Bruxelles, Association Universitaire de Recherche en Administration, 1999.
91
Grilli di Cortona P., Stati, nazioni e nazionalismi in Europa, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 238.
92
Melucci A. – Diani M., op. cit., p. 83.
19 riguardanti questioni regionali e culturali) completavano il pacchetto di riforme e servivano a ridare
sicurezza alle comunità linguistiche93.
La contrapposizione etno-linguistica si sostituì quindi alle tradizionali linee di frattura della società
belga. A causa di questa “territorializzazione” della politica anche i partiti tradizionali finirono per
dividersi in base all’appartenenza etnica (i cristiano-democratici nel 1968, i liberali nel 1972 e i
socialisti dal 197894). Nonostante il processo di federalizzazione dello stato, però, la componente
ultraradicale e indipendentista del nazionalismo non era soddisfatta dell’atteggiamento autonomista
adottato dalla Volksunie che nel frattempo, agli inizi del 1977, era entrata a far parte di un governo
nazionale di coalizione. Così, nel 1978, venne fondato il Vlaams Blok (Blocco Fiammingo-VB), che
in una prima fase non si differenziò molto dagli altri partiti nazionalisti, salvo concentrarsi sulla
richiesta della piena indipendenza e sull’esaltazione della storia fiamminga, compresa la parentesi
collaborazionista95. Le riforme del 1980, che riconobbero giuridicamente la comunità germanofona e
attribuirono alle regioni poteri legislativi ed esecutivi, sembrarono in grado, però, di mantenere un
equilibrio stabile nelle relazioni tra i due gruppi, depotenziando, almeno temporaneamente, le
rivendicazioni estremistiche. La Volksunie si concentrò principalmente sul federalismo e
sull’avanzamento delle riforme costituzionali, collaborando da una posizione di forza con le altre
formazioni politiche. Il VB, invece, complice lo scarso successo elettorale, colse l’opportunità di
allargare il proprio bacino di consensi adottando una politica apertamente xenofoba: non si trattava
più di “liberarsi” dai belgi francofoni, ma soprattutto dagli immigrati96. La concorrenza dell’estrema
destra, contribuì a una parziale radicalizzazione della Volksunie. Il partito, paventando un’ipotetica
secessione, riuscì, infatti, ad ottenere che si rinegoziassero ancora una volta gli accordi costituzionali.
Fu così che nel 1993 si stabilì in modo definitivo la natura federale dello stato belga. Le comunità
diventarono tre, così come le regioni. Le comunità rispettavano il criterio linguistico (la francofona,
la fiamminga e la germanofona), mentre le regioni rimasero le Fiandre, la Vallonia e Bruxelles
Capitale. Il Senato si trasformò nella Camera Federale dotata di poteri particolari e alle regioni
vennero concesse ulteriori competenze amministrative, fiscali e finanziarie.
Il processo di federalizzazione non si è ancora concluso. A molti fiamminghi, però, il federalismo
oggi non basta più e viene visto come un ostacolo alla crescita economica delle Fiandre. Ai valloni si
rinfacciano tutti gli scandali che hanno turbato la vita pubblica belga negli ultimi vent’anni. Il capro
espiatorio vallone serve ai fiamminghi per poter proclamare la propria estraneità al sistema politico
belga. Secondo i fiamminghi, il Belgio non ha più diritto di esistere perché la maggioranza della sua
popolazione è stanca di subire il malgoverno della minoranza. Le cose stanno realmente così? No, ma
non importa. Non ha senso stabilire chi ha ragione e chi ha torto, poiché una comunità ha già deciso
la colpevolezza dell’altra, a priori.
La natura del conflitto è, pertanto, diversa rispetto ai casi analizzati precedentemente. Le sue basi
sociali sono ormai piuttosto deboli, mentre prevale nettamente la divisione delle due comunità
secondo frontiere etniche e linguistiche. La stessa Volksunie è entrata in crisi dopo le riforme del
93
Karmis D. – Gagnon A.G., Federalism, federation and collective identities in Canada and Belgium: different
routes, similar fragmentation, in Gagnon A.G. – Tilly C. (eds.), Multinational democracies, Cambridge, Cambridge
University Press, 2001, p. 140. 94
Kellas J.G., Nazionalismi ed etnie, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 125.
95
Ignazi P., L’estrema destra in Europa, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 106.
96
A riguardo si rimanda a Betz H.G., Radical right-wing populism in Western Europe, Basingstoke, Palgrave
Macmillan, 1994, p. 138.
20 1993, schiacciata dalla concorrenza degli estremisti del Vlaams Blok97. Il mix di rivendicazioni
indipendentiste e politiche xenofobe proposto dall’estrema destra, infatti, ha attirato il voto delle
giovani generazioni e dei ceti più disagiati, costringendo lo storico partito nazionalista a sciogliersi
nel 2001 e a dare vita ad un nuovo soggetto politico, la Nieuw-Vlaamse Alliantie (Nuova Alleanza
Fiamminga-NVA). Più orientata a destra e fautrice di un approccio graduale al secessionismo, la
NVA è riuscita ad arrestare l’ascesa del Blocco98 e a riproporsi come la principale forza politica delle
Fiandre. Il cambio di rotta, frutto appunto delle pressioni della destra oltranzista, si è rivelato un’arma
vincente per il nazionalismo storico che, nelle elezioni politiche del 2010, è diventato il primo partito
a livello statale, impedendo la formazione di un governo stabile e provocando la più lunga crisi
politica del Belgio contemporaneo.
Queste ultime considerazioni non fanno che confermare la natura del conflitto tra fiamminghi e
valloni. I contendenti, come si è visto, non sono in lotta per cambiare determinati rapporti sociali, ma
si disputano i confini dei rispettivi “stati”, dando vita a quello che si potrebbe considerare l’ultimo
conflitto nazionale di tipo ottocentesco in Europa occidentale. Il caso fiammingo dimostra ancora una
volta come la presenza di una forte omogeneizzazione linguistico-culturale e l’assenza di forti legami
di classe e/o intercomunitari, contribuiscano a mantenere inalterato il carattere aggressivo e
intransigente del nazionalismo, preoccupato principalmente di escludere dai vantaggi del benessere i
membri esterni alla propria comunità. Il futuro del Belgio, di cui alcuni ottimisti osservatori
garantivano agli albori del XXI secolo la piena stabilizzazione, si giocherà quindi nei prossimi anni, e
molto dipenderà dalla capacità degli organismi sovranazionali dell’Unione Europea di depotenziare il
conflitto in atto. Se ciò non dovesse avvenire, e dato il carattere escludente del nazionalismo
fiammingo è molto probabile che non avvenga, il futuro dello stato belga non può che apparire
incerto, se non irrimediabilmente compromesso.
4. Conclusioni
Attraverso una ricostruzione diacronica piuttosto sui generis dei diversi casi presi in analisi ho
cercato di dimostrare quanto la dimensione socio-economica abbia condizionato l’evoluzione politica
del nazionalismo politico e, più precisamente, di quello periferico. Pur condividendo le riserve di
studiosi come Umut Özkirimli e Craig Calhoun, secondo i quali rimane impossibile abbozzare una
teoria universale del nazionalismo99, un’analisi comparativa di questo genere ci permette di porre
l’accento su elementi e dinamiche comuni emersi in contesti apparentemente diversi.
A guidare i nazionalismi periferici fu in un primo momento una piccola minoranza, che si trovò ad
affrontare gli stravolgimenti tipici della rivoluzione industriale che investì l’Europa nel XIX secolo.
Nella pluralità di elementi che li caratterizzano, infatti, i conflitti nazionalisti portarono alla luce una
nuova dimensione dei processi di identificazione sociale. Nel corso dello sviluppo capitalistico, il
processo d’industrializzazione e la concentrazione urbana sconvolsero gli equilibri sociali e
97
Al declino elettorale della Volksunie (4,7% alle elezioni del 1995; 5,6% nel 1999) corrispose l’avanzata della
destra nazionalista rappresentata dal VB (7,8% nel 1995; 9,9% nel 1999).
98
Il Vlaams Blok è stato condannato per violazione della legge sul razzismo e la xenofobia nel 2004, dando vita ad
una nuova formazione politica, il Vlaams Belang (Interesse Fiammingo), che si è mantenuto fino ai giorni nostri
stabilmente sopra il 10% dei voti nelle Fiandre.
99
Özkirimli U., Contemporary debates on nationalism. A critical engagement, New York, Palgrave Macmillan,
2005, pp. 61-62; Calhoun C., Nationalism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, p. 8.
21 territoriali tradizionali. Il nuovo modello urbano-industriale, tuttavia, conservava al suo interno una
certa coerenza tra la posizione che i diversi gruppi occupavano rispetto ai rapporti di produzione
dominanti e i tratti culturali che caratterizzavano i gruppi stessi. A un ordine sociale frammentato,
con forti separazioni di classe, corrispondeva una polarizzazione delle culture e una scarsa
permeabilità tra di esse. Per questa ragione, le istanze nazionaliste diventarono, in una prima fase,
patrimonio esclusivo della piccola borghesia delle comunità periferiche, esclusa dai vantaggi
dell’espansione economica capitalista di fine XIX secolo. Soltanto con l’avvento della politica di
massa si è assistito alla prima importante trasformazione del nazionalismo in Europa: da ideologia
circoscritta alla borghesia di provincia e alle élite culturali, il nazionalismo viene fatto proprio dalle
masse, subisce una radicalizzazione rivendicativa e accentua la propria capacità mobilitazionale. I
tempi e i modi di questa “massificazione del nazionalismo”, però, sono diversi per ognuno dei
contesti presi in esame, e dipendono da una serie di fattori propri delle società industriali e del
moderno capitalismo economico.
Per diventare un attore politico di primo piano, infatti, il nazionalismo necessita del sostegno di una
ampia base sociale, capace di garantirgli la piena legittimità nella lotta contro le politiche dello stato
centrale. L’aspirazione della piccola e media borghesia a diventare classe dirigente di un nuovo stato
indipendente, da sola, non sarebbe bastata a trasformare il nazionalismo ottocentesco in un vero e
proprio movimento di massa. Nel periodo compreso tra l’inizio del XX secolo e la fine della Prima
guerra mondiale, la rapida industrializzazione di aree precedentemente depresse, i fenomeni di
migrazione interna, la sindacalizzazione di strati sempre più ampi della classe lavoratrice e
l’estensione del diritto di voto, modificarono profondamente il volto della società europea. Il destino
del nazionalismo politico, nelle periferie prese in esame, dipese irrimediabilmente dalle conseguenze
di questi processi. La distinzione tra economie industriali ed economie agricole assume quindi un
valore fondamentale, poiché permette di individuare i referenti del messaggio nazionalista e,
soprattutto, per l’importanza che la composizione sociale della militanza ha assunto nella storia della
mobilitazione indipendentista nella seconda metà del XX secolo.
Nelle aree investite da una rapida industrializzazione, i nazionalisti si trovarono a dover fare i conti
con una classe operaia sempre più numerosa, sindacalizzata e politicamente orientata a sinistra.
Laddove, a cavallo tra le due guerre, i partiti e i movimenti separatisti entrarono in contatto con le
istanze proprie del movimento operaio il nazionalismo si trasformò in una forza dinamica,
apparentemente democratica e in alcuni casi anche modernizzatrice. Nel contesto catalano e in quello
irlandese, dove il nazionalismo poteva contare su un vasto sostegno popolare già dalla fine del XIX
secolo, ciò comportò la nascita di veri e propri partiti di orientamento progressista. Questo modello
riscosse un successo piuttosto limitato – eccezion fatta per l’Esquerra Republicana de Catalunya –
ma conferma la capacità del nazionalismo stesso di adottare riferimenti ideologi molto diversi ben
prima della diffusione delle teorie terzomondiste. Allo stesso tempo, anche in assenza di una corrente
di orientamento socialista, come nel caso basco, i partiti “tradizionali”, conservatori e ostili alle
rivendicazioni operaie, finirono per modificare gradualmente la loro collocazione politica, spostando
il proprio baricentro su posizioni sempre più moderate. Se non si tiene conto di questo non si può
comprendere perché un operaio di Belfast o Dublino, sostenitore o membro dell’IRA, scegliesse di
andare a combattere il fascismo in Spagna, mentre un piccolo proprietario della contea agricola di
Monaghan rispondeva all’appello franchista per la crociata cristiana. E lo stesso può dirsi per i
baschi. Se il sindacato nazionalista non avesse adottato una prospettiva classista e non avesse
condizionato l’orientamento ideologico del nazionalismo politico, il PNV si sarebbe schierato con il
22 fronte popolare? Se le provincie di Vizcaya e Guipúzcoa non fossero diventate il cuore siderurgico
della penisola iberica e non avessero visto crescere una numerosa classe operaia, cosa ci dice che non
avrebbero seguito le due province rurali di Álava e Navarra nell’insurrezione franchista?
I contesti in cui il nazionalismo si tinse di sfumature particolarmente oscure, infatti, furono proprio
quelli meno interessati dai processi di modernizzazione. In assenza di una classe operaia organizzata
e di una vasta rete solidaristica, il nazionalismo mantenne il suo carattere tendenzialmente escludente,
di destra, che sfociò nel collaborazionismo con i ribelli franchisti in Spagna (le province basche di
Navarra e Álava, i nazionalisti irlandesi dell’entroterra rurale) e con l’occupante nazista in Francia
(Bretagna) e Belgio (i fiamminghi). La Seconda guerra mondiale ha rappresentato, da questo punto di
vista, un momento di fondamentale importanza nella storia del nazionalismo e ha assunto il carattere
di una vera e propria cesura. Dopo gli eccidi di massa e le brutalità perpetuate in nome della
superiorità razziale, le fiamme del nazionalismo sembravano essersi spente per sempre. Alla fine del
conflitto, però, il richiamo al recente passato antifascista da parte di alcuni gruppi permise a queste
forze politiche di sopravvivere, seppur in sordina, al riflusso postbellico e di proporsi come agenti
emancipatori nelle comunità che pretendevano di rappresentare.
A partire dal secondo dopoguerra tutte le società occidentali sono state investite da processi di
modernizzazione intensa che hanno raggiunto il loro culmine intorno agli anni Sessanta. La
modernizzazione che ha progressivamente trasformato il volto della società industriale di tipo
capitalistico, facendo parlare gli studiosi di tardo capitalismo, società post-industriale, società
complessa, ha avuto un’influenza diretta sulle enclavi sociali rappresentate dalle culture minoritarie,
gettandole all’interno di una società ormai sempre più trans-statuale governata dall’economia
internazionale. A determinare la natura del conflitto tra centro e periferia fu la sovrapposizione, o la
separazione, tra la frattura etnica (tipica del nazionalismo) e quella socio-economica (propria del
movimento operaio e dei nuovi movimenti sociali post-sessantotto). L’assunzione di obiettivi e
strategie comuni ai movimenti sociali spinse alcuni partiti nazionalisti ad abbracciare posizioni
terzomondiste e di sinistra. Una nuova declinazione politica del nazionalismo associava alla
riscoperta delle tradizioni propriamente culturali, rivendicazioni di tipo economico e sociale che li
posero in competizione con gli stessi partiti nazionalisti di lungo corso e con i partiti tradizionali
della sinistra. Superando le posizioni populiste, largamente diffusesi tra le due guerre, e attribuendo
una crescente importanza all’oppressione economica come fattore di disgregazione della comunità
nazionale, questi nuovi movimenti radicali ruppero definitivamente con il nazionalismo unanimista e
interclassista, sostituendo al concetto di nazione oppressa quello, meno generico, di popolo
colonizzato. Quando il nazionalismo radicale (violento e rivoluzionario) è riuscito a farsi interprete
del desiderio di cambiamento delle nuove generazioni e delle classi meno abbienti, si è registrato un
notevole aumento della violenza politica e della conflittualità sociale. Nel caso basco e in quello
nordirlandese, ad esempio, la sovrapposizione di più linee di frattura (etnica, linguistica, economica,
religiosa) ha determinato il carattere estremamente conflittuale del confronto, dando vita a veri e
propri conflitti militari. In quelle regioni, invece, dove il nazionalismo non si era fatto interprete di
radicali contrapposizioni sociali, ma si trovava comunque ad agire in presenza di un movimento
operaio numeroso e organizzato, si è registrato un pacifico e graduale spostamento a sinistra
dell’orientamento ideologico del nazionalismo stesso. In questi casi i partiti nazionalisti riuscirono a
diventare veri e propri rivali dei rappresentanti tradizionali della classe operaia (la sinistra socialista,
socialdemocratica o laburista), assumendone rivendicazioni e ideologia di riferimento, come
dimostrato dal caso scozzese. Allo stesso modo, l’orientamento ideologico del nazionalismo
23 fiammingo, che ha mantenuto un carattere escludente e reazionario in una regione estranea ai
processi d’industrializzazione, ci dimostra ancora una volta quanto abbia pesato la dimensione socioeconomica sull’evoluzione politica della mobilitazione nazionalista.
Soltanto valutando con attenzione le dinamiche insite in questo complesso processo evolutivo si potrà
comprendere la capacità del nazionalismo di adottare riferimenti ideologici così diversi e,
parafrasando il compianto Pietro Grilli di Cortona, come mai gli obiettivi più intransigenti della
politica nazionalista (indipendenza e irredentismo) si siano dimostrati più compatibili con
un’autocollocazione alla destra o alla sinistra dello spazio politico100. Il futuro di molti stati europei, e
della stessa Unione, passa probabilmente anche dalla risoluzione di questi antichi conflitti.
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