1 Modernità e autodeterminazione nazionale. Per una storia politica
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1 Modernità e autodeterminazione nazionale. Per una storia politica
Modernità e autodeterminazione nazionale. Per una storia politica del nazionalismo periferico in Europa occidentale. di Paolo Perri I risultati delle ultime elezioni politiche britanniche hanno visto il trionfo dei nazionalisti dello Scottish National Party (SNP) 1 . A destare particolare interesse, oltre alle rivendicazioni indipendentiste degli scozzesi, è la collocazione politica dello stesso nazionalismo. Lo SNP si è presentato come un partito autenticamente socialdemocratico, impegnato nella difesa del welfare state e dei principi cari alla nuova sinistra europea: la redistribuzione del reddito, la difesa dell’istruzione pubblica, lo sviluppo delle energie rinnovabili, la tutela dei diritti civili e l’antirazzismo2. Il successo elettorale riscosso dai nazionalisti, che dopo la sconfitta referendaria del settembre 2014 hanno paradossalmente incrementato il numero degli iscritti e dei voti, è frutto di un pluridecennale processo di erosione del bacino elettorale del Partito Laburista. I candidati nazionalisti, infatti, si sono imposti a spese degli omologhi laburisti nei tradizionali collegi operai scozzesi che avevano assicurato, nel corso degli ultimi cinquant’anni, un solido retroterra elettorale al labour britannico. Il successo nazionalista in un’area industriale altamente sindacalizzata, sembrerebbe indicare quindi la capacità di alcuni movimenti di sfidare i tradizionali partiti della sinistra storica sul loro stesso piano ideologico, assumendone rivendicazioni e modelli di riferimento, e imponendo al contempo una più attenta analisi dell’evoluzione politica del nazionalismo periferico in Europa occidentale. La scomparsa del nazionalismo dallo scenario politico continentale è stata più volte annunciata in passato: una prima volta, con la diffusione dell’internazionalismo, alla fine del XIX secolo; poi alla fine della Seconda guerra mondiale e ancora alla fine della Guerra fredda, sull’onda dei processi di globalizzazione economica. Ma il nazionalismo è come l’araba fenice, e torna a far perdere il sonno a studiosi e analisti proprio quando lo si dà per spacciato. Nonostante la sua rilevanza scientifica, però, sono ancora pochi gli studi storici di tipo comparativo sull’argomento. La stessa terminologia atta a definire la natura del fenomeno è sempre stata oggetto di dibattito. Molti, come Daniele Conversi3 e Filippo Tronconi4, hanno scelto il termine “etnonazionalismo” coniato da Walker Connor5, che rimane però una definizione parziale e fuorviante, sostenendo l’origine etnica dei nazionalismi periferici al contrario di quelli di stato. Altri studiosi, come Tom Nairn 6 , hanno adottato la definizione di “neo-nazionalismo”, che rischia però di elidere la dimensione storica della questione 1 Alle elezioni politiche del maggio 2015 i nazionalisti scozzesi hanno ottenuto 1.454.436 voti, pari al 50% dei consensi in Scozia e al 4,7% su scala nazionale. I dati elettorali sono disponibili on line all’indirizzo: http://www.bbc.com/news/election/2015/results 2 Nel 2007 il primo esponente di una minoranza etnica ad entrare nel Parlamento di Edimburgo è stato l’indiano Bashir Ahmad, eletto nelle fila dello Scottish National Party. Cfr. Mackay F. – Kenny M., Women’s Political Representation and the SNP: Gendered Paradoxes and Puzzles, in Hassan G. (ed.), The Modern SNP: From protest to power, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2009, p. 44. 3 Conversi D. (ed.), Ethnonationalism in the Contemporary World: Walker Connor and the study of Nationalism, London and New York, Routledge, 2002. 4 Tronconi F., I partiti etnoregionalisti. La politica dell’identità territoriale in Europa occidentale, Bologna, Il Mulino, 2009. 5 Connor W., Ethnonationalism: the quest for understanding, Princeton, Princeton University Press, 1994. 6 Nairn T., The Break-Up of Britain. Crisis and Neo-Nationalism, London, New Left Books, 1977. 1 nazionale. In linea di massima, mutuandole da Michael Keating, preferisco utilizzare espressioni come “nazioni senza stato” e “nazionalismi periferici”, principalmente per la loro versatilità7. Per semplificare, si può definire un movimento nazionalista quello che si batte per l’autonomia politica di una determinata area, o di un certo popolo, in nome di ciò che afferma essere una nazione. Il nazionalismo si differenzia, infatti, dal regionalismo proprio perché rivendica il diritto all’autodeterminazione, in base a presunte ragioni storiche, mentre i regionalisti si limitano a reclamare una maggiore autonomia all’interno di un quadro costituzionale già esistente. La richiesta di autodeterminazione, però, non implica necessariamente l’indipendenza politica, anche se gran parte della letteratura scientifica per anni ha considerato questi due concetti come equivalenti. Nella sua forma minima, difatti, la richiesta di autodeterminazione non implica altro che un maggior protagonismo di quei soggetti che si considerano “nazionali” all’interno di un processo di riforma costituzionale8. Quello che è importante sottolineare subito è l’estrema volubilità dei movimenti nazionalisti. Non è insolito, ad esempio, che movimenti regionalisti si trasformino in partiti nazionalisti veri e propri, ampliando la propria rappresentanza elettorale e radicalizzando le richieste politiche. Lo stesso può dirsi per l’evoluzione politica di questi movimenti capaci di trasformarsi, in alcuni contesti, da fenomeni anti-moderni in veri e propri agenti democratizzatori. In Spagna, ad esempio, i nazionalismi periferici avevano ricoperto un ruolo fondamentale nell’opposizione al franchismo, dando vita a una singolare alleanza tra forze tradizionalmente conservatrici e le organizzazioni comuniste e socialiste. In Francia, bretoni e corsi avevano duramente contrastato il gollismo prima della vittoria socialista nelle elezioni del 1981, così come in Gran Bretagna scozzesi, gallesi e irlandesi avevano duramente criticato il thatcherismo, riuscendo a combinare abilmente rivendicazioni di carattere ideologico (di classe) e identitario. Al netto delle peculiarità dei singoli casi, la presenza di partiti che, richiamandosi al principio dell’autodeterminazione nazionale, hanno adottato orientamenti ideologici diversi tra loro, ha caratterizzato la vita politica di diverse aree all’interno degli storici stati-nazione dell’Unione Europea. Per comprendere la natura di una differenziazione politica così vasta (dall’estremismo xenofobo del nazionalismo fiammingo al socialismo rivoluzionario della sinistra nazionalista basca), e per valutare le conseguenze determinate dall’assunzione di obiettivi e pratiche politiche tanto diverse (regionalismo, autonomismo, indipendentismo), è necessario spostare l’attenzione su alcuni aspetti più specifici: in che modo il nazionalismo si è combinato con le diverse ideologie di massa nel XX secolo? È possibile individuare dei fattori specifici che ne condizionarono l’evoluzione politica? Quanto hanno pesato i processi di industrializzazione sulla storia del nazionalismo? Come cambia il messaggio nazionalista (inclusivo/esclusivo) in rapporto alla struttura economica della comunità interessata (industriale/rurale)? Se considerassimo il nazionalismo un’ideologia a tutti gli effetti, se ne dovrebbe valutare la coerenza, tracciandone un ritratto quanto più lineare possibile. Questo però comporterebbe un grave errore di valutazione, giacché la maggior parte delle spiegazioni monocausali dell’evoluzione del nazionalismo si è rivelata carente o comunque insufficiente a rappresentare la complessità di un 7 A riguardo si rimanda a Keating M., Nations against the State. The new politics of nationalism in Quebec, Catalonia and Scotland, New York, Palgrave, 2001; Guibernau M., Nations without States, Cambridge, Polity Press, 1999. 8 Si pensi ad esempio al caso dei nazionalisti scozzesi che ancora agli inizi degli anni ’60 rivendicavano la creazione di quella che oggi definiremmo una regione a statuto speciale. A riguardo Hutchison I.G.C., Scottish Politics in the Twentieth Century, New York, Palgrave, 2001, pp. 29-77. 2 fenomeno che è stato definito, da Jean Michel Leclercq, «una categoria ribelle alla conoscenza scientifica 9 ». L’intera storia del nazionalismo del resto è caratterizzata da molteplici processi evolutivi e numerose differenziazioni. Una di queste, forse la più importante, è proprio la caratteristica dicotomia esclusiva/inclusiva insita nella natura stessa del concetto di nazionalismo, e costituisce un buon punto di partenza per analizzare il ruolo che questa differenziazione ha assunto nella storia delle società complesse del capitalismo maturo. Definire l’appartenenza nazionale, così come quella etnica, attraverso caratteri acquisiti per via ereditaria significa, infatti, privilegiare l’aspetto statico, quasi naturale dell’etnicità. E questa idea darà vita ad un nazionalismo escludente, tendenzialmente conservatore, quando non apertamente reazionario, che raggiungerà il proprio apogeo durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando, invece, si tende a mettere in evidenza il processo di costruzione di un’identità collettiva che non presenta però necessariamente una continuità con i gruppi etnici storicamente definiti, si genera un fenomeno del tutto opposto, che definiamo inclusivo. Si è soliti attribuire questa marcata differenziazione tra nazionalismo escludente e nazionalismo inclusivo a momenti ed epoche differenti (si pensi alla differenza tra la visione della nazione herderiana, di matrice tedesca, e quella renaniana, alla base del nazionalismo francese; all’ascesa dei regimi fascisti negli anni Trenta del Novecento o alle conseguenze della diffusione delle teorie terzomondiste negli anni Sessanta). Scopo di questa indagine, però, sarà quello di comprendere il ruolo giocato dai processi d’industrializzazione e modernizzazione economica nell’evoluzione politica del nazionalismo, che non sempre si propose come il difensore della società tradizionale a base rurale. Come indicato da Benedict Anderson, infatti, il nazionalismo è riuscito a combinarsi nel tempo con le più disparate correnti ideologiche, dal marxismo al nazionalsocialismo passando per il liberalismo10. La storia dei movimenti nazionalisti nelle cosiddette nazioni senza stato dell’Europa occidentale, conferma la validità di questa intuizione. Quando i movimenti nazionalisti si trovarono ad operare all’interno di società industriali le istanze nazionaliste hanno finito per sommarsi alle rivendicazioni sociali proprie del movimento operaio dando vita a un nazionalismo inclusivo e progressista. Nei contesti rurali scarsamente industrializzati, invece, in assenza di una salda rete solidaristica di classe e di lotte sindacali organizzate, il nazionalismo ha mantenuto un orientamento conservatore quando non apertamente autoritario e xenofobo. Utilizzando le categorie analitiche elaborate da Stein Rokkan11 e un approccio interdisciplinare è possibile sottolineare la stretta connessione che intercorre tra l’evoluzione politica del nazionalismo e il tipo di “fratture” esistenti nei contesti presi in analisi. La sovrapposizione, in alcuni casi, di diversi cleavages – intesi da Rokkan come opposizioni fondamentali all'interno di una società, capaci di dividere le persone tra sostenitori e avversari di una certa posizione e/o idea – non fa che aumentare la possibilità di un conflitto tra centro e periferia, condizionando la collocazione politica del nazionalismo sull’asse destra-sinistra. 1. Una guerra civile nella guerra civile: nazionalisti baschi e irlandesi nella guerra civile spagnola. In controtendenza con le narrazioni classiche, ritengo interessante iniziare questa ricostruzione dall’esempio offerto dalla guerra civile spagnola. Sui campi di battaglia iberici non andò in scena 9 Leclercq J.M., La Nation et son idéologie, Paris, Anthropos, 1979; recensione in “Revue Française de Science Politique”, IV, Agosto 1980, p. 13. 10 Anderson B., Sotto tre bandiere. Anarchia e immaginario anticoloniale, Roma, Manifestolibri, 2008, p. 7. 11 Rokkan S., Stato, nazione e democrazia in Europa, Bologna, Il Mulino, 2002 (1a ed. 1999). 3 esclusivamente lo scontro tra fascismo e antifascismo ma anche un vero e proprio conflitto intestino ai nazionalismi periferici. Per non allargare troppo la comparazione mi servirò dell’esempio fornito dai nazionalisti baschi e da quelli irlandesi, che in occasione del conflitto arrivarono ad affrontarsi militarmente in campo aperto. Le province basche, al termine delle guerre carliste12, erano state interessate da un imponente processo di industrializzazione. Al termine del XIX secolo lo sviluppo dell’industria siderurgica e manifatturiera aveva rappresentato un evento senza precedenti per l’isolata comunità basca, per decenni ai margini dei processi di sviluppo economici della penisola iberica. La principale conseguenza dell’industrializzazione fu però l’emarginazione dal potere economico dei piccoli industriali e dei commercianti, che per tutta risposta diedero vita al moderno nazionalismo politico. Un nazionalismo che affondava le proprie radici nell’eredità carlista e nel diffuso risentimento generato dalla perdita della propria specificità amministrativa garantita dai fueros13. A quella che appariva come una rinuncia alla propria identità locale, il nazionalismo reagì con la speranza di conquistare un’identità nazionale distinta. Come tutti i movimenti nazionalisti nati tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, anche quello basco fondava quindi la sua stessa ragion d’essere sulla necessità di sanare un torto subito14. Allo stesso modo, si trattava di un movimento nato negli ambienti della piccola borghesia urbana e dei contadini più agiati rimasti ai margini del processo di nation-building spagnolo. Questa peculiare composizione sociale, cui bisogna aggiungere un crescente numero di operai specializzati preoccupati dall’arrivo di nuova manodopera immigrata, determinò l’iniziale orientamento indipendentista del nazionalismo basco, al contrario invece dell’omologo esempio catalano15. Nel 1865, su iniziativa di Sabino Arana y Goiri16, era nato il Partido Nacionalista Vasco (PNV). Il partito, abbandonato l’indipendentismo della prima ora, appariva come un movimento conservatore, tradizionalista e confessionale, caratterizzato da una posizione estremamente moderata che combinava la difesa della cultura locale e il tradizionalismo religioso con alcuni aspetti della dottrina sociale cattolica (interclassismo, promozione dell’armonia 12 I baschi si schierarono dalla parte di Don Carlos di Borbone nel corso della prima (1833-1840) e della seconda guerra carlista (1872-1879), nella speranza di preservare le specificità fiscali (fueros) e amministrative che avevano contraddistinto i rapporti tra Madrid e l’antico Regno di Navarra. A rigurardo si veda Garamendía V., La ideología carlista (1868-1879) en los orígenes del nacionalismo vasco, San Sebastian, Diputacíon Foral de Guipúzcoa, 1984. 13 Nella Spagna dell’età moderna i vari regimi basati sui fueros erano il risultato della codificazione in norme giuridiche, tanto di diritto pubblico che di diritto privato, di costumi e consuetudini di origine medievale presenti nei diversi regni ispanici. All’interno di una più generale varietà, il regime (o sistema) forale aveva assunto caratteristiche differenti in ciascuna delle provincie basche e nel Regno di Navarra cfr. Botti A., La questione basca, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 29-30. A riguardo si vedano anche Carr R. – Fusi J. P., España, 1808-2008, Barcelona, Ariel, 2009; Fusi J. P. – Palafox J., España, 1808-1996. El desafío de la modernidad, Madrid, EspasaCalpe, 1997. 14 Secondo Albert Hirschman lo sviluppo del nazionalismo è sempre il prodotto di una strategia di “protesta”, cioè di uno sforzo mirante a cambiare uno stato di cose giudicato insoddisfacente mediante forme di mobilitazione politica. A riguardo si veda Hirschman A.O., Lealtà Defezione Protesta: rimedi alla crisi delle imprese dei partiti e dello stato, Milano, Bompiani, 1982. 15 Nel 1901 era nata la Lliga Regionalista Catalana nell’alveo del vivace mondo imprenditoriale catalano. La decisione di optare per un approccio esclusivamente autonomista, che non mettesse in discussione l’unità dello stato spagnolo, va considerata alla luce dei vantaggi conquistati dalle industrie catalane dopo l’unificazione cfr. Molas I. – Culla J.B., Diccionari dels partits polítics de Catalunya, segle XX, Barcelona, Enciclopedia catalana, 2000; Balcells A., Història del nacionalisme català dels orígens al nostre temps, Barcelona, Generalitat de Catalunya, 1992. 16 Nato a Bilbao nel 1865 da famiglia borghese, Sabino Arana y Goiri si batté a lungo per la difesa dell’identità basca arrivando, nel 1893 a rivendicare l’indipendenza della Vizcaya. Dopo aver inventato il nome della nazione basca (Euskadi), averne disegnato la bandiera (Ikurrina) e tentato l’unificazione ortografica della lingua (euskara), Arana si fece portavoce di un nazionalismo cattolico e xenofobo. Sul pensiero politico di Sabino Arana si rimanda a Botti A., op. cit., p. 53. 4 sociale, risoluzione pacifica dei conflitti tra lavoratori e proprietari17). Lo sviluppo industriale delle province basche intanto era proseguito senza sosta. La neutralità spagnola nel corso della Prima guerra mondiale aveva permesso un notevole aumento delle esportazioni. La produzione industriale era cresciuta in proporzione alla domanda e la congiuntura economica favorevole aveva mantenuto alta la richiesta di manodopera, accelerando i flussi migratori dalle campagne verso i centri industriali dei Paesi Baschi e della Catalogna18. Dopo la dittatura di Primo de Rivera il PNV, che era stato dichiarato illegale in base al decreto anti-separatista del 1923, decise di mantenere una posizione isolazionista rispetto alle altre forze di opposizione. Questa scelta rifletteva l’orientamento conservatore della maggioranza dei dirigenti nazionalisti, ancora fortemente condizionati dal rigido antisocialismo del clero cattolico. Non deve meravigliare, pertanto, lo scetticismo con cui le forze repubblicane, comprese quelle catalaniste 19 , continuavano a guardare ai nazionalisti baschi considerati, per ideologia e composizione sociale, più affini alla destra conservatrice che alle forze socialiste e repubblicane. Nonostante diffidenze e timori reciproci allo scoppio della guerra civile, nel luglio del 1936, il PNV decise di schierarsi in difesa del governo repubblicano. Una scelta non facile, che implicava l’alleanza con partiti di sinistra e movimenti rivoluzionari intenzionati a dare il via a profonde riforme sociali che poco si conciliavano con gli interessi della borghesia nazionalista, ma che rappresentava allo stesso tempo l’unica possibilità concreta di giungere alla tanto agognata autonomia. Al momento della sollevazione franchista, in due delle quattro province basche poste sotto la sovranità spagnola – Vizcaya e Guipúzcoa – si era registrato un imponente sviluppo del settore siderurgico e dell’industria estrattiva. L’aumento della produzione aveva portato un numero consistente di manodopera a trasferirsi nelle due province dalle aree più depresse della Spagna20. Il nazionalismo si trovò, così, a dover fare i conti con un proletariato urbano sempre più consistente e politicizzato. A condizionare l’approccio alla questione operaia all’interno del PNV fu il sindacato nazionalista, Solidaridad de Obreros Vascos (SOV), che riuscì, nell’arco di un ventennio, a far coesistere l’identificazione nazionale con quella di classe. Creata nel 1911 per far fronte alla diffusione del sindacalismo socialista, SOV si era trasformata nel corso del quinquennio repubblicano in un’organizzazione di massa che, alla lunga, favorì la svolta in senso democratico e antifascista dello stesso partito nazionalista21. Durante il primo congresso nazionale del 1929 il sindacato, ancora totalmente subordinato agli interessi del partito, poteva contare su 7.700 iscritti concentrati quasi 17 Per la storia del Partido Nacionalista Vasco si rimanda a de Pablo S. – Mees L. – Rodríguez Ranz J.A., El péndulo patriótico. Historia del Partido Nacionalista Vasco, I: 1895-1936; II: 1936-1979, Barcelona, Crítica, 2 voll., 19992001. 18 Nel settore metallurgico, grazie ai costanti flussi migratori interni, la manodopera era cresciuta da un totale di 61.000 operai nel 1910 a circa 200.000 nel 1920. Cfr. Hermet G., Storia della Spagna nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 80. 19 In Catalogna erano nati diversi movimenti di orientamento repubblicano e di sinistra in netto contrasto e in competizione con la moderata Lliga Catalana. Nel marzo del 1931 dall’unione di molte di queste forze nascerà, infatti, Esquerra Republicana de Catalunya (ERC). Cfr. Ivern M.D., Esquerra Republicana de Catalunya (19311936), Barcelona, Abadia de Montserrat, 1989. 20 La popolazione della Vizcaya era passata dai 311.361 abitanti del 1900 ai 485.205 del 1930 e quella della Guipuzcoa da 195.850 a 302.329. Molto minore fu invece l’incremento demografico delle due provincie agricole: la popolazione in Álava passò da 96.385 a 104.176 abitanti mentre in Navarra da 307.699 a 345.883 cfr. de la Granja J. L. – de Pablo S., La contemporaneidad (1876-1979), in Bazán I. (a cura di), De Túbal a Aitor: historia de Vasconia, Madrid, Celesa, 2002, p. 541. 21 Sulle origini del sindacalismo nazionalista si rimanda a Mees L., Nacionalismo vasco, movimiento obrero y cuestión social (1903-1923), Bilbao, Fundación Sabino Arana, 1992. 5 interamente nelle province di Vizcaya (6.200) e Guipúzcoa (1.300)22. Meno di tre anni dopo, il numero dei lavoratori iscritti a SOV salì a circa 20.000, dei quali più della metà in Vizcaya. Notevole fu l’incremento delle iscrizioni anche in Guipúzcoa (8.000), mentre la scarsa industrializzazione e la struttura fondamentalmente rurale dell’economia garantivano l’immobilismo politico e sociale delle altre due province, Álava (100) e Navarra (400). L’assenza del proletariato industriale, unito alla scarsa vocazione nazionalista di entrambe le province, ridusse a livelli minimi la presenza del movimento sindacale organizzato, anche di diverso orientamento23. Il sindacato nazionalista, in ogni caso, continuò la sua crescita. In occasione del secondo congresso del 1933, all’interno di SOV militavano secondo le fonti ufficiali 40.343 lavoratori. La maggior parte dei quali risiedeva ancora in Vizcaya (17.000), anche se il più alto tasso di crescita fu registrato in Guipúzcoa (11.000). Se a queste cifre si aggiungono i numerosi simpatizzanti, i 2.000 affiliati in Álava e i 1.300 in Navarra, quella che emerge è una forza dalle dimensioni decisamente consistenti24. Il sindacato nazionalista – che aveva cambiato la propria denominazione in Solidaridad de Trabajadores Vascos-Euzko Langilleen Alkartasuna noto con l’acronimo basco ELA – iniziò a battersi per la partecipazione operaia agli utili e la cogestione industriale, incrinando i rapporti, fino ad allora sempre molto cordiali, tra la grande borghesia basca e il nazionalismo politico. Il processo di proletarizzazione che coinvolse il sindacato, insieme alla diffusione di una più matura coscienza di classe tra i propri militanti, avvicinò ELA al resto della classe operaia organizzata, garantendogli un nuovo successo. Se, infatti, l’aumento d’iscrizioni aveva subito una battuta d’arresto durante il bienio negro, dalla fine del 1935 la crescita del sindacalismo nazionalista riprese la sua corsa. Aumentarono, proprio in questo periodo, le iscrizioni nelle province costiere e in Navarra25, mentre in Álava, già dai primi mesi del 1935, ELA era l’organizzazione sindacale più forte, potendo contare su 3.000 iscritti26. Anche in Guipúzcoa ELA si era rivelato il sindacato maggioritario con 18.256 iscritti (16.356 operai industriali e 2.900 impiegati e professionisti27), mentre in Vizcaya, la provincia più industrializzata dei Paesi Baschi, i 25.000 lavoratori nazionalisti permisero ai nazionalisti di competere praticamente alla pari con il sindacato socialista28. In questa fase si registrò quello che Dario Ansel definisce «un processo di convergenza sindacale e politica a sinistra, al quale, nei Paesi Baschi, non fu estranea ELA 29», che spinse la dirigenza del PNV, preoccupata dalla radicalizzazione rivendicativa dei lavoratori, ad accettare alcune istanze provenienti dal mondo sindacale: il salario variabile con l’introduzione di un bonus familiare e la partecipazione operaia agli utili30. Quest’ultima misura era di fondamentale importanza nella lotta per l’azionariato operaio che, nei progetti di ELA, avrebbe 22 de Larrañaga P., Contribución a la historia obrera de Euskal Herria, San Sebastian, Auñamendi, 1977, vol. II, p. 101. 23 Cfr. de Pablo S., El nacionalismo vasco en Álava (1907-1936), Bilbao, Ekin, 1988, p. 72; Clavería C., Navarra, cien años de nacionalismo vasco, Bilbao, Fundación Sabino Arana, 1996, vol. II, p. 620. 24 Memoria presentada a la Asamblea de Agrupaciones de Bizkaya, sobre una nueva organización de Solidaridad de Obreros, Empleados y Profesionales Vascos, Bilbao, Editorial Vasca, s.d., ma sicuramente pubblicata tra il febbraio e il marzo 1933. 25 In Navarra, nel luglio del 1936, gli iscritti risultano essere circa 6.000, dei quali 4.200 regolarmente iscritti e 1.800 sostenitori che non pagavano la quota sociale. Cfr. de Bursain X., Estadística de Euzkadi, in Archivio del Nacionalismo Vasco, Fondo PNV, Nac. EBB, Caja 181, c. 1. 26 de Larrañaga P., op. cit., vol. III, p. 342. 27 “Euzkadi”, 25 aprile 1936. 28 Borrador incompleto de un informe redacto por la Presidencia del BBB del PNV, sobre implantación y estructura del PNV y de ELA-STV, Archivo del Nacionalismo Vasco, Fondo PNV, Reg. B, Caja 219, c. 8. 29 Ansel D., Nazionalismo basco e classe operaia durante la seconda repubblica, in “Spagna Contemporanea”, n. 37, 2010, p. 62. 30 “Euzkadi”, 28 marzo 1933 e 3 settembre 1933. 6 legato gli interessi dei lavoratori a quelli dell’impresa, favorendo al contempo l’introduzione della cogestione. Il nuovo corso trovò sempre maggiori sostenitori, mentre l’insofferenza verso la controparte padronale cresceva. La trasformazione di ELA in un sindacato di classe, sebbene di orientamento nazionalista, comportò da un lato la fine del controllo diretto del partito sui lavoratori e dall’altro la democratizzazione del partito stesso. Fu proprio l’attività sindacale, del resto, a determinare la rottura tra la borghesia basca e le destre cattoliche spagnole, aprendo la strada alla svolta centrista e poi frontista del partito. Le ambiguità del programma baschista, così come le profonde divergenze interne, emersero con forza allo scoppio della guerra civile. Mentre si attendeva l’esito delle trattative per l’approvazione dello Statuto di autonomia e la costituzione del governo basco, la provincia di Álava cadde in mano ai ribelli, mentre la Navarra aveva già assunto un ruolo di primo piano nell’organizzazione stessa delle trame eversive. Il sostegno allo schieramento franchista in Álava e Navarra parrebbe connessa all’assenza di una numerosa classe operaia autoctona, oltre che allo scarso sentimento baschista della popolazione. Gli abitanti delle due province, in gran parte occupati nel settore agricolo e caratterizzati da un forte orientamento confessionale, sostennero fin dal primo momento i ribelli, e anche all’interno del PNV si registrarono numerose defezioni. Non pochi, infatti, furono i militanti del partito che, soprattutto in Navarra, entrarono a far parte dei requetés carlisti, schierati al fianco dei ribelli. Nelle province costiere, invece, dove forte era stata la presenza di ELA e del movimento operaio organizzato, l’insurrezione fallì. Volendo sintetizzare, nelle province dove più radicata era stata la presenza di ELA e dove anche la classe operaia aveva sposato una prospettiva al contempo classista e nazionalista, i golpisti si trovarono a fronteggiare una forte opposizione, mentre dove debole era la presenza operaia, così come il nazionalismo politico, le destre franchiste trovarono invece un largo sostegno. La radicalizzazione del proletariato basco, condotta dai socialisti all’inizio del secolo, e poi in maniera sempre più consistente dal sindacalismo nazionalista, garantì al Fronte Popolare la lealtà del cuore industriale della penisola iberica (la Vizcaya) e, soprattutto, al PNV una piena legittimità antifascista. Negli anni della clandestinità l’eredità della guerra civile e la sempre più netta opposizione al franchismo favoriranno, infatti, la nascita di gruppi e partiti sempre più radicali, capaci di minare l’egemonia nazionalista del PNV così come quella di classe dei partiti della sinistra iberica (PCE-PSOE)31. L’importanza dei fattori socio-economici nell’evoluzione politica del nazionalismo emerge con chiarezza anche dall’esempio fornito dai combattenti irlandesi impegnati nella guerra civile. L’insurrezione franchista del luglio 1936 ebbe un forte impatto in Irlanda. L’isola, dopo una vera e propria guerra di liberazione (1919-1921), aveva conquistato una larga autonomia e, seppur priva di sei delle nove contee dell’Ulster, si apprestava ad ottenere la piena indipendenza. Le forze nazionaliste si erano già divise per orientamento politico e grado di radicalità, arrivando ad affrontarsi militarmente nella guerra civile (1922-1923), che aveva visto contrapporsi la fazione favorevole al Trattato Anglo-Irlandese e le componenti più radicali, incapaci di accettare tanto la mutilazione territoriale dell’isola quanto il mantenimento dello status quo economico e sociale. Gli 31 Nel 1959 venne costituito Euskadi Ta Askatasuna (Paese Basco e Libertà-ETA) un gruppo armato clandestino che, dopo aver abbracciato il marxismo-leninismo, diede vita ad un sanguinoso scontro militare con il governo di Madrid. Numerosi, invece, furono i partiti nati a sinistra dello storico PNV tacciato di estrema moderazione tanto in ambito indipendentista che in merito alle questioni sociali. I più importanti furono Herri Batasuna (Unità Popolare), creato nel 1978 e vicino alle posizioni di ETA; Euskal Iraultzarako Alderdia (Partito della Rivoluzione Basca) nato nel 1977 da una scissione interna all’ETA e Eusko Alkartasuna (Solidarietà Basca) creato nel 1986 dalla corrente socialdemocratica del PNV. 7 eventi spagnoli, così come l’ascesa del movimento filo-fascista delle Blueshirts, fondato nel 1932 dal generale Eoin O’Duffy 32 , convinsero i militanti della sinistra nazionalista dell’importanza del conflitto iberico. I principali esponenti dei movimenti radicali nati intorno all’Irish Republican Army (IRA) – come il Republican Congress, fondato nel 1934 con il compito di spingere l’IRA a definire il nazionalismo in termini di conflitto di classe33 – decisero quindi di organizzare un contingente da schierare al fianco delle Brigate Internazionali. Allo stesso tempo, O’Duffy aveva iniziato a reclutare combattenti per formare una Brigata Irlandese da impiegare al fianco delle truppe franchiste. Fu così che lo scontro in atto all’interno della società irlandese si trasferì sui campi di battaglia iberici, dando vita ad una singolare “guerra civile nella guerra civile” simile a quella che contrapponeva i baschi di Vizcaya e Guipúzcoa ai propri corregionali della Navarra e dell’Álava. I 230 volontari repubblicani che, guidati da Frank Ryan, partirono alla volta della Spagna per combattere al fianco del Fronte Popolare, si trovarono quindi ad affrontare militarmente anche il contingente reclutato da O’Duffy, che poteva contare su circa 700 unità34. Ma chi erano questi irlandesi che scelsero di combattersi nuovamente nella guerra civile spagnola? Prendendo in considerazione il contingente inquadrato nelle Brigate internazionali, comunemente definito Connolly Column (Colonna Connolly35), è facile desumere come la maggior parte dei volontari provenisse dai centri più industrializzati dell’isola: su un campione di 128 volontari, più della metà proveniva dalle contee di Dublino (42), Antrim (28) e Cork (12)36. Mentre alla chiamata alle armi del generale O’Duffy avevano risposto in larga parte uomini provenienti dall’Irlanda rurale: le contee di Tipperary (95), Kerry (46), Limerick (40) e Monaghan (22), mentre decisamente più scarso era stato il contributo delle città industriali 37 . Ancora più significativa è l’analisi della composizione sociale dei due contingenti. Nel caso della Colonna Connolly l’87% dei volontari aveva una provenienza operaia e soltanto il 13% del totale era rappresentato dal mondo delle professioni38. Al contrario, in un’analisi analoga le truppe di O’Duffy (92 casi) appaiono composte 32 Creato nel 1932 dal generale Eoin O'Duffy – comandante dell’Irish Republican Army durante il conflitto AngloIrlandese, generale dell’Esercito Irlandese durante la guerra civile e poi commissario della Polizia dello Stato Libero – con il nome di Army Comrades Association, il gruppo delle Blueshirts era nato allo scopo di difendere gli interessi degli ex-combattenti dell’esercito regolare irlandese, assumendo presto i connotati di una forza ultraconservatrice vicina al fascismo continentale. A riguardo si veda Cronin M., The Blueshirts and Irish politics, Dublin, Four Courts Press, 1997. 33 Department of Justice, Notes on Republican Congress, s.d., p. 12, University College Dublin Archives, MacEntee P67/527. 34 McGarry F., Irish politics and the Spanish Civil War, Cork, Cork University Press, 1999, pp. 24-65. 35 Si tratta però di una definizione fuorviante poiché, contrariamente a quanto si crede, i volontari irlandesi non costituirono una vera e propria unità autonoma all’interno delle Brigate Internazionali, ma combatterono nelle fila della brigata americana e di quella inglese. In quest’ultimo caso non senza tensioni. Alcuni volontari, infatti, rifiutarono di servire nella British Brigade per le ferme convinzioni repubblicane. Frank Ryan in un’occasione arrivò a minacciare di morte un volontario inglese una volta scoperti i suoi trascorsi nei Black and Tans ai tempi della guerra d’indipendenza. Per scongiurare ulteriori tensioni la maggior parte degli irlandesi abbandonò la compagine britannica per unirsi all’American Brigade, ed è a questi volontari che viene solitamente attribuita l’espressione Colonna Connolly. 36 Da un confronto incrociato dei registri del governo irlandese e inglese, delle fonti archivistiche, delle memorie private e delle interviste sull’argomento, la provenienza geografica dei 128 volontari oggetto dello studio risulta così distribuita: 42 Dublino, 28 Antrim, 12 Cork, 12 Waterford, 7 Donegal, 6 Derry, 4 Cavan, 4 Limerick, 4 Tipperary, 3 Clare, 3 Galway, 3 Kilkenny. 37 Dalla contea di Antrim, e dal capoluogo Belfast, partirono soltanto 11 volontari. A riguardo McGarry F., op. cit., pp. 30-31. 38 Su un campione di 55 volontari si contano: 33 lavoratori non specializzati (20 Operai; 4 Marinai; 4 disertori dell’esercito irlandese; 2 camerieri, 1 portuale; 1 autotrasportatore e 1 lattaio); 15 tra lavoratori specializzati o semispecializzati (9 commercianti; 2 tipografi; 1 commesso; 1 panettiere; 1 apprendista fabbro e 1 macellaio) e 7 professionisti (5 giornalisti; 1 insegnante e 1 pastore evangelico). 8 per un terzo da proprietari d’impresa, professionisti e agricoltori39, per un altro terzo da lavoratori specializzati o semi-specializzati40 e per il resto da lavoratori non specializzati41. In base a questi dati è possibile tracciare un ipotetico identikit del nazionalista irlandese di orientamento socialista: giovane (il 67% dei volontari aveva un’età compresa tra i 17 e 29 anni42), di estrazione proletaria e residente in una città industriale (Belfast o Dublino nella maggior parte dei casi). Appare evidente la differenza con i volontari dell’Irish Brigade, provenienti in larga parte dall’entroterra rurale e dal mondo delle professioni. Alla luce di ciò, pare confermata l’idea alla base di questo studio: quando le rivendicazioni nazionaliste vengono fatte proprie dal proletariato industriale si assiste ad uno spostamento a sinistra nell’orientamento ideologico del nazionalismo stesso. 2. Le periferie rurali: dal nazionalismo escludente al collaborazionismo. Ho cercato fin qui di evidenziare le connessioni esistenti tra i processi di sviluppo economico e l’evoluzione politica del nazionalismo attraverso le scelte ideologiche fatte dai singoli militanti. Molto utile sarà ora estendere la comparazione a quei casi dove il nazionalismo si trovò ad agire all’interno di società rurali. Il primo di questi esempi è quello della Bretagna. Si tratta della tipica periferia esterna caratterizzata da «una profonda arretratezza e dal predominio culturale della chiesa cattolica43». L’economia della regione nei primi anni del XX secolo si basava sulla coltivazione delle patate e sulla pesca44. I processi d’industrializzazione non l’avevano interessata, escludendola dallo sviluppo economico francese. Associazioni di difesa della lingua locale erano sorte fin dalla seconda metà del XIX secolo45, ma fu nel 1911 che vide la luce il primo vero partito nazionalista bretone: lo Strollad Broadel Breizh (Partito Nazionale Bretone-PNB) che potendo contare solo su poche centinaia di membri, si dedicò principalmente al recupero della lingua locale. Alla fine del primo conflitto mondiale quella bretone rimaneva sostanzialmente una società rurale, conservatrice e filo-monarchica. Nonostante ciò si manifestarono i primi, timidi, segnali di sviluppo. Alcune innovazioni si erano registrate nel campo della zootecnia e nelle tecniche di produzione intensiva. E per far fronte al declino del settore della pesca, furono incentivate le poche industrie conserviere della regione46. In questo contesto era stato riorganizzato il PNB, precedentemente auto discioltosi in un più moderato movimento autonomista. Il nuovo PNB, che poteva contare su circa 8.000 iscritti, non era un’organizzazione omogenea, né tantomeno disponeva di un preciso e chiaro orientamento politico. Al suo interno convivevano, infatti, diverse tendenze: da quella federalista a quella indipendentista, fortemente etnicista. Nel 1933 i due principali esponenti del partito, Olier Mordrel e François Debeuvais, avevano stilato il programma politico del movimento. Ne venne fuori 39 Da un confronto incrociato dei dati resi noti dal Ministero degli Esteri e dal Ministero della Giustizia irlandesi, dai dati pubblicati dai quotidiani dell’epoca e dalla memorialistica, su un campione di 92 volontari: 10 erano agricoltori, 8 proprietari d’imprese e 17 professionisti (4 studenti; 2 seminaristi; 2 chimici; 2 medici; 2 insegnanti; 2 ingegneri; 1 bibliotecario; 1 avvocato e 1 giornalista). 40 11 poliziotti, 7 edili, 5 meccanici, 3 apprendisti e 4 commercianti. 41 7 operai, 8 commessi, 6 autisti e 3 portantini ospedalieri. 42 McGarry F., op. cit., p. 57. 43 Rokkan S., op. cit., p. 267. 44 A riguardo si veda Pennec P., Sous-développement et domination politique en Bretagne, Rennes, 1971. 45 La principale fu sicuramente la Kevredigezh Broadel Breizh (Società Nazionale Bretone) che, fondata nel 1898, assunse subito un orientamento clericale e fortemente conservatore. 46 Il settore della pesca fu interessato da un processo di industrializzazione che concentrò l’indotto intorno a pochi porti. Il numero dei pescatori bretoni, però, diminuì considerevolmente: dai 38.000 del 1935 ai 18.000 del 1967. A riguardo Salvi S., Le nazioni proibite. Guida a dieci colonie “interne” dell’Europa occidentale, Firenze, Vallecchi Editore, 1973, p. 133. 9 un testo profondamente influenzato dal nazional-socialismo tedesco, che rivelava un pericoloso razzismo di fondo47. Nel 1938 la posizione filo tedesca dei nazionalisti bretoni appariva ormai chiara. Il PNB, durante il congresso di Guingamp tenutosi nel mese di agosto, aveva reso pubblico un manifesto programmatico nel quale si esplicitava l’atteggiamento “pacifista” che il partito avrebbe mantenuto in caso di guerra contro la Germania. Era chiaro che i nazionalisti bretoni non avrebbero mai appoggiato la causa francese durante un conflitto che appariva ormai imminente48. La dirigenza del PNB, ormai braccata dalle autorità francesi, si rifugiò a Berlino e quando lo stesso Hitler si pronunciò in favore della creazione di uno stato bretone indipendente, ogni resistenza dentro al partito fu vinta. Era con i nazisti che si doveva stare. I primi mesi della Seconda guerra mondiale furono segnati dalla rapidità con la quale le truppe naziste sbaragliarono le difese francesi e occuparono la Bretagna. I tedeschi giocarono con intelligenza la carta del separatismo. Liberarono i prigionieri di guerra di origine bretone, legalizzarono i partiti politici nazionalisti, costituirono un Comitato Consultivo di Bretagna, cui affidarono funzioni di governo e, soprattutto, lasciarono intendere che a guerra finita si sarebbe avviato il processo di costituzione di uno stato bretone indipendente49. L’atteggiamento tedesco, però, cambiò repentinamente quando, dopo alcune trattative, si decise di adottare una politica conciliatoria verso il regime collaborazionista di Vichy. Le pressioni esercitate dal maresciallo Pétain convinsero i vertici militari tedeschi a rivedere la propria posizione sulla questione bretone. I fascisti francesi, del resto, non potevano tollerare una Bretagna indipendente e convinsero i nazisti a ridimensionare le aspirazioni secessioniste dei nazionalisti50. La rinuncia all’indipendenza, però, si dimostrò un prezzo molto alto da pagare anche per chi aveva collaborato diligentemente con le forze di occupazione. Le differenti posizioni all’interno del partito generarono attriti e frizioni. Alcuni decisero di continuare a collaborare con i tedeschi, di cui condividevano ideologia e aspirazioni. Nacquero, di conseguenza, diverse organizzazioni filonaziste come il Mouvement Ouvrier Social-National Breton, guidato da Théophile Jeusset e il gruppo paramilitare di Célestin Lainé detto Service Spécial. Lainé, già fondatore della milizia del PNB (le Bagadoù Stourm: Truppe da Combattimento) era stato conquistato dall’ideologia nazista, e aveva messo a disposizione dei tedeschi la sua milizia. Interessante è l’analisi della composizione sociale dei gruppi dell’estrema destra bretone, composti in maggioranza da contadini ed esponenti della borghesia urbana51. All’interno del PNB, intanto, Mordrel e Debeauvais cercarono di smarcarsi dai nazisti e di riacquisire un minimo di autonomia decisionale. L’influenza di Lainé, però, era molto forte e nel 1943 il partito era ormai nelle sue mani. Nello stesso anno, intanto, il Service Spécial era stato integrato nelle SS con la denominazione di Bretonische Waffenverband der SS Bezzen Perrot. Quest’ultima fase del collaborazionismo bretone 47 Deniel A., Le mouvement breton, Paris, Maspero, 1976, p. 198. 48 Col Congresso di Guingamp la posizione filotedesca del PNB divenne esplicita: «Plus une goutte de sang breton ne doit être versé pour des causes étrangères». I bretoni si spinsero anche oltre giustificando l’invasione tedesca della Cecoslovacchia: «Nous demandons que, nous Bretons, ne soyons pas engagés contre notre volonté dans une guerre au profit de l'impérialisme tchèque.» cfr. Nicolas M., Histoire du mouvement breton, Paris, Syros, 1982, p. 84. 49 Le Boterf H., La Bretagne dans la guerre, in Floquet C., Pontivy, la liberté retrouvée, Spézet, Éditions Keltia Graphic, 2003, p. 94. 50 Pochi giorni dopo il Congresso di Pontivy sul giornale dell’Abwher si leggeva: «Le ministre des Affaires étrangères a pris une décision en ce qui concerne la question bretonne. Il en résulte que les mouvements séparatistes en Bretagne ne doivent plus être encouragés. Des ordres ont été données en ce sens au bureau de l'Abwehr en France. La collaboration avec les Bretons doit se limiter désormais au recrutement d'agents compétents dans la lutte contre l'Angleterre et à l'action en Irlande. Tout mouvement insurrectionnel contre le gouvernement français devra être évité.» cfr. Hamon K., Les nationalistes bretons sous l'occupation, Ar Releg-Kerhuon, An Here, 2001, p. 73. 51 Deniel A., op. cit., p. 215. 10 fu, forse, la peggiore. Le Bezen Perrot parteciparono attivamente alle operazioni contro la resistenza, macchiandosi di numerosi crimini e aiutando le SS nei rastrellamenti degli ebrei. Non tutti i nazionalisti furono, però, coinvolti in questa triste pagina di storia. Se il PNB e le altre formazioni filonaziste contavano sul sostegno della Bretagna rurale e della piccola e media borghesia urbana, alcuni nuclei indipendenti di nazionalisti di estrazione operaia – non molti in realtà – rifiutarono di subire passivamente l’occupazione nazista52. Il valore dimostrato dai partigiani bretoni, però, non bastò a cancellare anni di complicità con l’occupante nazista. Nell’agosto del 1944, con l’arrivo degli alleati, il PNB fu sciolto. La maggior parte dei dirigenti del partito fu condannata per aver collaborato con i tedeschi e il movimento nazionalista si ritrovò decapitato e privo di ogni prospettiva53. La guerra, ma soprattutto il collaborazionismo, avevano completamente screditato il separatismo bretone che, soltanto negli anni Sessanta, e su basi completamente diverse, riuscirà a rialzare timidamente la testa dopo gli orrori e i crimini commessi in passato. Ad uscire dal conflitto mondiale in una situazione anche peggiore del nazionalismo bretone fu quello fiammingo, che aderì al progetto nazista con ancor più slancio ed entusiasmo. Il Belgio era, come lo è tuttora, diviso in due grandi regioni linguistiche: la Vallonia – la parte meridionale dello stato – di lingua francese; e le Fiandre – la metà settentrionale del paese che comprende la regione intorno a Bruxelles – di lingua olandese. Il francese si era trasformato durante il XVIII secolo nella lingua dell’élite amministrativa e culturale dello stato. Questo processo fu rafforzato nel periodo dell’occupazione francese e poi dall’industrializzazione del meridione d’inizio XIX secolo. I contadini fiamminghi, infatti, che continuavano a parlare una serie di dialetti olandesi, emigrarono in massa in Vallonia, la zona del Belgio più ricca di carbone e insediamenti industriali (siderurgia; tessile; cantieristica navale), alla ricerca di condizioni di vita più umane. Lo stato belga era quindi ufficialmente francofono, poiché il francese era la lingua della legge e del governo54. Quando, però, a metà del XIX secolo cominciò ad affermarsi il movimento per i diritti linguistici e per l’identità fiamminga, divenne evidente che la popolazione delle Fiandre versava in una situazione di netto svantaggio linguistico e sociale 55 . I benefici del processo d’industrializzazione, così come i proventi delle esportazioni, rimanevano in Vallonia, mentre i contadini fiamminghi versavano in condizioni di grave indigenza56. Pertanto, dall’unione tra la rivendicazione linguistica e la tutela degli interessi particolaristici prese il via un processo costante e continuo capace di rafforzare il risentimento dei fiamminghi verso la controparte vallona. Con la riforma elettorale del 1893, lo stato fu costretto a scendere a compromessi con le rivendicazioni fiamminghe. Nel 1913 venne approvato ufficialmente l’uso dell’olandese nelle scuole, nei tribunali e nelle amministrazioni locali delle Fiandre. La creazione di due territori monolingue e amministrativamente separati, che si univano solo nella capitale Bruxelles, divenne quindi 52 Si possono citare almeno due gruppi partigiani formati da separatisti bretoni: Sao Breiz (Alzati Bretagna), che a fine guerra chiese a de Gaulle di concedere una maggiore autonomia alla regione; e il Groupe Liberté (Gruppo Libertà) composto da ex militanti e simpatizzanti del PNB in disaccordo con la linea collaborazionista del partito. 53 I nazionalisti bretoni sono soliti parlare di persecuzioni di massa alla fine del conflitto, quando in realtà soltanto il 15-16% dei membri del PNB fu effettivamente condotto davanti a un giudice. A riguardo http://www.fondationresistance.org/pages/rech_doc/bretagne-identites-regionales-pendant-seconde-guerremondiale_colloque7.htm 54 Judt T., L’età dell’oblio, Bari, Laterza, 2011, p. 230. 55 Durante i processi era vietato l’uso del fiammingo così come il francese era la lingua dell’istruzione secondaria e superiore. 56 Quando le importazioni di cereali americani cominciarono a distruggere il mercato interno dei contadini fiamminghi, il governo rifiutò di introdurre delle tariffe protezioniste per timore di rappresaglie contro le esportazioni industriali cfr. Judt T., op. cit., p. 231. 11 inevitabile. Questo processo, che subì un’accelerazione negli anni tra le due guerre, fu ritardato dallo scoppio del secondo conflitto mondiale e dal collaborazionismo fiammingo. Già durante la Prima guerra mondiale alcuni nazionalisti avevano accolto le truppe tedesche come liberatori. Diversi esponenti del mondo culturale avevano guardato all’occupazione come a un vantaggio per la conquista dell’autonomia linguistica. I tedeschi sfruttarono l’occasione, imponendo l’olandese come lingua ufficiale dell’amministrazione e convertendo l’Università di Gent in un’istituzione pienamente fiamminga. Tali iniziative, in realtà, rispondevano a un preciso piano del comando tedesco che, acuendo le divergenze etnolinguistiche, sperava di consolidare l’occupazione 57 . La grande maggioranza della popolazione delle Fiandre, però, disapprovava il collaborazionismo, isolando e condannando quanti avevano stretto legami con i tedeschi e salvando, di fatto, l’onore fiammingo. Alla fine del conflitto, tra gli ex-combattenti fiamminghi prese corpo il progetto di costituire un vero e proprio partito politico che si battesse per l’introduzione dell’autogoverno nelle Fiandre. Il nuovo movimento, il Frontpartij (Partito del Fronte), poteva contare su un forte seguito tra i piccoli agricoltori e su un discreto numero d’iscritti nell’area urbana di Gent e Louvain58. L’orientamento ideologico del partito era piuttosto vago – ricorda per certi versi la storia del Partito Sardo d’Azione – sebbene la presenza di un nutrito gruppo di militanti socialisti abbia portato storici e politologi ad annoverarlo tra le forze politiche di sinistra dell’epoca59. Alle elezioni del 1919 il partito conquistò il 6,3% dei voti, riuscendo ad eleggere cinque deputati al Parlamento di Bruxelles60. La crescita elettorale continuò anche negli anni successivi. Arrivò, però, il momento in cui rimanere estranei ai repentini stravolgimenti internazionali si rivelò impossibile. L’ascesa del fascismo italiano e la diffusione delle teorie razziali tedesche ebbero delle immediate conseguenze nelle Fiandre. Diversi nazionalisti si convertirono al credo mussoliniano, sancendo di fatto la fine del Frontpartij. Il primo ad andarsene, fu un fervente ammiratore del duce, Joris Van Severen che nel 1931 fondò la Verbond van Dietse Nationaal-Solidaristen (Unione delle Diete Nazional-Solidale), meglio nota come Verdinaso. Il movimento, contrario alla democrazia parlamentare e sostenitore di un modello statale corporativo, proponeva l’unificazione delle Fiandre, dell’Olanda e del Lussemburgo in un unico stato denominato Dietsland o Diets Rijk (Impero Olandese). I tratti autoritari della Verdinaso si fecero sempre più evidenti61 e nel 1936 i vertici dell’organizzazione decisero di confluire nel nuovo partito nazionalista radicale: la Vlaams Nationaal Verbond (Unione Nazionale Fiamminga-VNV). Fondata nel 1933 da Staf de Clercq, su posizioni estremamente autoritarie, la VNV si batteva apertamente per l’indipendenza delle Fiandre. Il partito riscosse un immediato successo tra la popolazione delle campagne, riuscendo a conquistare, nelle elezioni del maggio 1936, il 13% dei voti. Alle successive elezioni del 1939 la VNV incrementò ulteriormente i propri consensi, salendo al 17%62. Insieme ai 57 A riguardo si rimanda a Hermans T., The Flemish Movement: A documentary history, 1780-1990, London, Athlone Press, 1992. 58 Carsten F.L., The rise of Fascism, Berkeley, University of California Press, 1967, p. 207. 59 Ishiyama J.T. – Breuning M., Ethnopolitics in the new Europe, Lynne, Rienner Publishers, 1998, p. 112. 60 Carsten F.L., op. cit., p. 208. 61 Nel 1936 il movimento favorì la costituzione di una milizia paramilitare che indossava, in tipico stile fascista, la camicia verde: la DINASO Militanten Orde (Ordine Militante). A riguardo si rimanda a Carsten F.L., op. cit.. 62 Rudolph J. R. - Thompson R. J., Ethnoterritorial politics, policy and the Western World, London, Lynne Rienner, 1989. 12 voti crescevano anche le aspirazioni separatiste. L’invasione tedesca della Polonia e la prospettiva di un conflitto europeo non fecero che alimentare il sogno fiammingo dell’indipendenza63. Il 10 maggio 1940 l’esercito nazista invase il Belgio e de Clercq offrì alle truppe tedesche l’appoggio del partito e della milizia, la Grijze Brigade (Brigata Grigia). Dai nazionalisti della VNV l’occupazione veniva vista come l’occasione giusta per fare delle Fiandre uno stato indipendente, sotto la protezione del Terzo Reich. Il partito si mise, allora, a completa disposizione dello stato maggiore tedesco, collaborando attivamente alla deportazione di migliaia di ebrei da tutto il Belgio settentrionale. I tedeschi, dal canto loro, fecero nuovamente presa sui sentimenti anti-valloni dei fiamminghi, introducendo una serie di leggi di promozione e tutela della lingua e, seguendo lo stesso copione già visto in Bretagna, rilasciando i prigionieri di guerra. I nazisti, però, non avevano alcuna intenzione di favorire la nascita di uno stato indipendente nelle Fiandre e la VNV finì per accettare tacitamente il volere degli occupanti, barattando l’indipendenza con il diritto di poter organizzare una propria attività di propaganda. In realtà, però, il nazionalismo fiammingo aveva aderito convintamente alla causa nazi-fascista, tanto che dal 20 aprile 1940 molte sezioni del partito erano diventate veri e propri centri di reclutamento delle Waffen SS. Da questo punto della storia in poi è difficile, se non impossibile, scindere il nazista dal nazionalista, il fiammingo dal tedesco. I destini del movimento nazionalista erano legati a filo doppio a quelli del nazismo tedesco. Con la caduta del Terzo Reich e la liberazione del Belgio si aprì la stagione dei processi ai collaborazionisti. Quasi tutta la dirigenza della VNV fu arrestata, processata e condannata, e la causa fiamminga apparentemente screditata. Per quattro anni i separatisti avevano fiancheggiato le SS, macchiandosi dei più meschini delitti. Nel tentativo di creare un proprio stato indipendente, una parte consistente della popolazione fiamminga, principalmente nelle campagne, aveva aderito entusiasticamente al nazionalsocialismo. Ancora una volta si può notare come in un ambiente rurale e fondamentalmente arretrato, il nazionalismo abbia assunto un orientamento escludente. Alla forte connotazione linguistica del conflitto tra valloni e fiamminghi si sommò un forte divario sociale (Vallonia industriale –Fiadre rurali) che, in assenza di forti legami solidaristici di classe, determinò la rapida radicalizzazione del messaggio nazionalista in senso reazionario e xenofobo, garantendo al contempo un sostegno di massa al nazionalismo stesso dopo, e nonostante, la parentesi collaborazionista. 3. Nazionalismo inclusivo vs. Sciovinismo del benessere: Scozia e Fiandre a confronto Per comprendere meglio le caratteristiche del processo di differenziazione ideologica all’interno dell’universo nazionalista sarà molto utile comparare il caso fiammingo con quello scozzese nella seconda metà del XX secolo. Legata alla corona britannica dall’Atto di Unione del 1707, la Scozia aveva mantenuto una propria identità nazionale distinta da quella inglese, seppur priva di una forte specificità linguistica64. In assenza di forti cleavages etno-linguistici, la società scozzese si era divisa secondo la contrapposizione di classe tipica di una società industrializzata. La presenza di grandi giacimenti carboniferi nella Scozia centrale aveva favorito lo sviluppo di una fiorente industria metallurgica, meccanica e navale già nel corso del XIX secolo. Una prima conseguenza di questo 63 Nonostante de Clercq continuasse a negare ogni rapporto con la Germania nazista, i vertici della VNV ricevevano da tempo finanziamenti occulti dal Ministero della Propaganda del Terzo Reich cfr. De Wever B., Greep naar de macht. Vlaams-nationalisme en Nieuwe Orde. Het VNV 1933-1945, Tielt,Uitgeverij Lannoo, 2004. 64 Come osservato da Stein Rokkan, la Scozia rappresenta un caso unico in Europa con la «combinazione di una forte coscienza storica di identità separata e di un totale disinteresse nello sviluppo di una lingua distinta». Cfr. Rokkan S., op. cit., p. 248. 13 processo di modernizzazione industriale fu l’imponente incremento demografico delle aree urbane. Inizialmente il processo di urbanizzazione interessò le aree rurali del sud della regione, poi iniziò l’immigrazione di massa dalla vicina Irlanda 65 . Le industrie scozzesi crebbero, così come il proletariato urbano, fino alla fine della Prima guerra mondiale. Dal 1918 a giocare un ruolo sempre più centrale nella politica scozzese fu il Partito Laburista, che proprio nella numerosa classe operaia locale trovò un ampio bacino di voti. Il nazionalismo politico rimaneva ancora un’opzione folclorica, che era stato incapace di darsi una forma partito compiuta dopo la creazione della Scottish Home Rule Association (Associazione per l’Autogoverno della Scozia) nel 1886. Bisognerà attendere il 1932 per la comparsa di un nuovo movimento nazionalista, lo Scottish National Party (Partito Nazionale scozzese-SNP). Nato dalla fusione tra il National Party of Scotland, di orientamento repubblicano e indipendentista, e lo Scottish Party, favorevole a un graduale processo di devoluzione dei poteri e d’ispirazione conservatrice, il partito adottò un programma autonomista improntato al conseguimento di maggiori vantaggi economici per la Scozia all’interno della Gran Bretagna66. La linea politica del nuovo movimento fu per i primi anni di orientamento conservatore: condanna delle politiche laburiste, rifiuto categorico del socialismo, allora diffuso tra gli operai scozzesi più che nel resto della Gran Bretagna, e una brutale campagna discriminatoria verso gli immigrati irlandesi67. Questo tipo d’impostazione, che affondava le proprie radici nella mancata integrazione di parte della piccola borghesia scozzese nel processo di nation-building britannico, non portò alcun vantaggio elettorale allo SNP che, a causa di un’ambigua collocazione politica, di una leadership poco coinvolgente e dell’eccessiva eterogeneità delle sue anime, non riuscì a far presa sull’elettorato68. Con l’aumento della disoccupazione seguita alla crisi del 192969, gli operai scozzesi continuarono a votare in maggioranza per i laburisti, più attenti alle rivendicazioni di eguaglianza sociale, mentre i conservatori vedevano nei Tory i migliori rappresentanti dei propri interessi particolari. Alla fine del secondo conflitto mondiale, il governo del laburista Clement Attlee si era impegnato in una vasta campagna di nazionalizzazioni, che in Scozia aveva interessato principalmente le miniere di carbone e le imprese produttrici di elettricità70. Il rilancio economico, comunque, non fu facile e il progetto di riconversione industriale post-bellica mai del tutto portato a termine. In questi anni lo SNP rimase sostanzialmente ai margini della vita politica71. Il partito aveva adottato una politica economica di stampo interclassista72 e rimaneva diviso al suo interno in diverse correnti: repubblicani, autonomisti, gradualisti, conservatori, liberali. In una regione altamente industrializzata, 65 Nel periodo compreso tra il 1840 e il 1900 circa 600.000 irlandesi si trasferirono in Scozia, per la gran parte nella città di Glasgow. A riguardo si veda Davies N., Isole. Storia dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e dell’Irlanda, Milano, Bruno Mondadori, 2007 (1a ed. 1999). 66 Lynch P., SNP: The history of the Scottish National Party, Cardiff, Welsh Academic Press, 2002. 67 Bradley J., Identity, politics and culture: Orangeism in Scotland, in “Scottish Affairs”, n. 16, Summer 1996, pp. 104-128. 68 Alle elezioni del 1935 per il Parlamento inglese il partito raccolse 29.517 voti, pari all’1,1% cfr. Hutchison I.G.C., op. cit., p. 156. 69 La disoccupazione arrivò al 10% nel 1933, soprattutto in seguito alla crisi della cantieristica navale. I cantieri scozzesi, che avevano varato nel 1913 ben 75.000 tonnellate di naviglio ridussero la produzione fino alle 5.600 tonnellate del 1933. A riguardo si rimanda a Salvi S., op. cit., p. 72; Campbell A.D., Changes in Scottish incomes, 1924-1949, in “Economic Journal”, LXII, 2, 1955, pp. 225-240. 70 Feinstein C., The end of the Empire and the Golden Age, in Clarke P. – Trebilcock C. (ed.), Understanding decline. Perception and realities of British economic performance, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 212-233. 71 Nel corso di tutto il decennio lo SNP non superò mai lo 0,5% dei consensi. 72 Scottish National Party, SNP and you: Aims and policy of the Scottish National Party, Edinburgh and Glasgow, 1968, pp. 4-5. 14 dove la consistenza del movimento operaio era notevole, la scarsa attenzione prestata alle questioni sociali dalla nuova dirigenza moderata, durante la leadership di James Halliday e Arthur Donaldson, non permise ai nazionalisti di conquistare particolari successi. Il modello interclassista proposto dallo SNP, difatti, riusciva a raccogliere consensi solo nell’entroterra rurale, ma lasciava del tutto indifferenti il proletariato industriale, fedele al Partito Laburista, e settori consistenti della media e grande borghesia urbana, che continuavano a votare per i conservatori. I nazionalisti, incapaci di ritagliarsi un proprio spazio politico, rimasero quindi schiacciati dal bipartitismo britannico, privi di un’efficace politica sociale e perennemente divisi al loro interno tra una corrente indipendentista e una autonomista. Nel 1960, a più di vent’anni dalla sua fondazione, in pochi avrebbero scommesso sulla sopravvivenza del partito. Nel 1962 però, grazie alle pressioni della base, era iniziato un processo di ristrutturazione dell’organizzazione interna. Una nuova struttura estremamente decentrata, basata sul branch (un gruppo locale con almeno venti iscritti capace di autofinanziarsi), permise di coinvolgere un numero maggiore di militanti nelle attività decisionali dello SNP. Da questi nuclei locali arrivarono le nuove proposte di elaborazione politica in grado di garantire una migliore analisi dei cambiamenti in atto all’interno della società scozzese. La strategia pagò – il numero dei branches passò dai 18 del 1962 ai 518 del 197173 – e il partito vide gradualmente aumentare il proprio peso politico fino alle elezioni del 1970, quando 306.802 scozzesi (11,4%) votarono per lo SNP, che riuscì così ad eleggere un parlamentare. Per la prima volta i nazionalisti scozzesi erano riusciti a raccogliere un buon sostegno popolare. Forti di questo risultato, durante la leadership di William Wolfe (1969-1979) decisero di rilanciare la carta indipendentista e la politica nazionalista iniziò a godere di una crescente credibilità. Anche la base del partito stava mutando. Alla piccola borghesia rurale dei villaggi si andava affiancando un numero crescente di lavoratori dell’industria, delusi dall’immobilismo del movimento laburista difronte ai primi segnali di un’incipiente crisi economica74. Il declino dell’industria pesante, la chiusura delle miniere di carbone e la crisi della cantieristica navale nel Clyde, infatti, avevano assestato un duro colpo all’immagine del Partito Laburista, che appariva incapace di dare risposte concrete al crescente malumore operaio. L’impasse laburista e l’avanzare della crisi economica contribuirono, quindi, a erodere i forti legami di classe che avevano unito gli operai scozzesi alle istituzioni statali, rendendoli più disponibili al dialogo con il nazionalismo politico. Ad alimentare ulteriormente le speranze dei nazionalisti contribuì la scoperta del petrolio nel Mare del Nord, al largo della costa orientale scozzese. La questione petrolifera divenne in breve tempo un tema di primaria importanza per due motivi principali: perché gli scozzesi potevano finalmente porsi l’obiettivo di riuscire a controllare le proprie risorse in maniera autosufficiente e per aver acceso all’interno del partito il dibattito sui rischi insiti in una rivendicazione prettamente economica dell’autonomia. Una componente nuova, più giovane e di orientamento socialista, iniziò in quei giorni a far sentire la propria voce, sostenendo la necessità di nazionalizzare i bacini petroliferi della futura Scozia indipendente per sottrarli alle brame delle grandi multinazionali. Nei piani di questi giovani militanti i profitti ricavati dal petrolio sarebbero stati utilizzati per incrementare il welfare 73 Melucci A. – Diani M., Nazioni senza stato. I movimenti etnico-nazionali in Occidente, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 78. 74 Incrociando i dati riportati da Richard Mansbach con quelli elaborati da James Mitchell, Robert Johns e Lynn Bennie possiamo stimare intorno al 38% la consistenza della componente operaia tra i militanti dello SNP nel periodo compreso tra il 1970 e il 1982 cfr. Mansbach R., The Scottish National Party. A revisited political portrait, in “Comparative Politics”, 5 (2), 1973, pp. 185-210; Mitchell J. – Johns R. – Bennie L., Who are the SNP Members?, in Hassan G. (ed.), op. cit., pp. 68-78. 15 scozzese. In quest’ottica il controllo dei giacimenti avrebbe garantito un netto miglioramento del benessere collettivo, con conseguenze dirette nel campo della salute pubblica, dell’istruzione e dell’occupazione75. Fu proprio la campagna “It’s Scotland’s Oil” a spingere Wolfe a dichiarare ufficialmente, nel 1974, che lo SNP era a tutti gli effetti un partito social-democratico76. Le elezioni di quello stesso anno premiarono il nuovo corso, e il partito conseguì il 30,4% dei voti, sufficienti ad eleggere ben 11 parlamentari. Il programma indipendentista, tuttavia, non aveva riscosso lo stesso successo di temi come la difesa del territorio o l’implemento del welfare, intorno ai quali invece il sostegno era molto più ampio. Questo sembra confermare come, gradualmente, il nazionalismo politico andasse sostituendosi al Partito Laburista nei panni di legittimo rappresentante degli interessi di classe dei lavoratori dell’industria, e dei settori della piccola e media borghesia alle prese con le conseguenze della crisi congiunturale degli anni ‘70. Come sostenuto da James Mitchell: «mai prima di allora classe e identità nazionale si erano avvicinate così tanto77». Anche in Scozia, del resto, si era diffuso il vento della contestazione giovanile e ciò permise ad una nuova generazione di attivisti (studenti universitari, giovani operai, intellettuali) di avvicinarsi all’universo nazionalista, portando all’interno del movimento nuova linfa e una maggiore rispettabilità intellettuale78. La radicalità portata in dote dalle giovani generazioni e la diffusione di concetti quali l’antimperialismo e l’anticolonialismo esercitarono una forte influenza sul partito, causando non poche tensioni tra i nuovi militanti e i vecchi dirigenti. Alla fine di un decennio complesso come gli anni ‘70 si tenne il referendum sul progetto di devolution proposto dal governo laburista79. Il Referendum Act aveva fissato al 40% degli iscritti nelle liste elettorali la soglia di validità per la consultazione. In Scozia vinsero i “si” con uno scarto piuttosto risicato (51,6%), ma la partecipazione al voto non altissima (63,8%) invalidò, di fatto, la vittoria. Questo evento non fece che accelerare il processo di evoluzione politica in atto, modificando la strategia e la collocazione ideologica del nazionalismo stesso. Se a livello ufficiale, in passato, lo SNP si era proclamato quasi del tutto indifferente alla polarizzazione destra/sinistra, aspirando a rappresentare gli interessi collettivi degli scozzesi fino all’indipendenza, gli anni ‘80 videro crescere all’interno del partito, e della comunità nazionalista, l’influenza della corrente di sinistra. Questa fazione, nota come 79 Group, annoverava alcuni tra i più preparati militanti del partito, tra i quali Alex Salmond futuro leader dello SNP. Le critiche mosse alla dirigenza partivano da un’accurata 75 Scottish National Party, It’s time...Supplement to the Election Manifesto of the Scottish National Party – September 1974, Edinburgh, Scottish National Party, 1974. 76 Nel manifesto elettorale per le elezioni dell’ottobre 1974 si legge: «[…]Un governo scozzese controllerebbe le operazioni delle compagnie petrolifere in modo da assicurare uno sviluppo delle risorse estrattive al ritmo ottimale per gli interessi della Scozia, e non già per quelli di Londra, del MEC o degli Stati Uniti. La produzione verrebbe fissata ad un livello di 40-50 milioni di tonnellate annue, in modo da conservare le riserve di greggio per le nuove generazioni, il reddito ricavato dal petrolio verrebbe usato per costruire case, scuole e ospedali, per ridurre la disoccupazione in Scozia allo stesso livello, inferiore all’uno per cento, ottenuto dalla Norvegia, per aumentare le pensioni e concedere maggiori benefici ai malati e ai portatori di handicap e, non ultimo, per fornire aiuti economici ai paesi del terzo mondo.» cfr. Ibidem. 77 Mitchell J., From Breakthrough to Mainstream: The Politics of Potential and Blackmail, in Hassan G. (ed.), op. cit., pp. 31-41. 78 Finlay R., The Early Years: From the Inter-War Period to the Mid-1960s, in Hassan G. (ed.), op. cit., p. 29; Id., Modern Scotland, 1914-2000. London, Profile, 2004. 79 Il referendum proponeva l’istituzione di un Parlamento scozzese e di uno gallese, competenti in tema di educazione, salute, affari interni, edilizia e cultura. A riguardo si vedano Davies N., op. cit.; Bulmer S. – Burch M. – Carter C. – Hogwood P., British Devolution and European Policy-Making. Transforming Britain into a Multi-Level Governance, Basingstoke, Palgrave, 2002. 16 analisi dei risultati referendari: a votare in maggioranza per il “si” era stata la classe operaia scozzese80. Stando così le cose, lo SNP avrebbe dovuto concentrare le proprie attenzioni sulle dinamiche di classe interne alla società e adottare tre nuove parole d’ordine: nazionalismo, socialismo e repubblicanesimo81. In altre parole, solo diventando un’alternativa radicale al Partito Laburista il nazionalismo politico avrebbe trionfato in Scozia. Sebbene la “svolta a sinistra” si fosse aperta con l’attacco frontale al thatcherismo e con la dura campagna di opposizione al nucleare, fu a metà degli anni ‘80 che l’atteggiamento dei nazionalisti si fece più audace. Alle campagne contro il razzismo e all’attivismo anticolonialista si aggiunsero, infatti, gli appelli per l’uscita dalla NATO del 1986 e le campagne di solidarietà al governo sandinista del Nicaragua82. Il vero punto di svolta fu rappresentato, però, dall’adozione di una nuova strategia socio-economica. Lo SNP si schierò in maniera decisa al fianco dei sindacati contro lo smantellamento del comparto industriale. In un contesto profondamente segnato dalla recessione economica e dalla disoccupazione83, i nazionalisti sostennero il lungo sciopero dei minatori (19841985), sostituendosi così al Partito Laburista, sempre più moderato e in cerca di una nuova collocazione politica più orientata verso il centro. In questo decennio la battaglia per l’indipendenza venne nei fatti subordinata alle rivendicazioni economico-sociali, come indicato anche dall’abbandono del rigido antieuropeismo che aveva caratterizzato gli anni precedenti84. L’adozione di un programma politico del tutto nuovo e la difesa delle rivendicazioni operaie si rivelarono ben presto le chiavi del successo nazionalista in Scozia, e il marginalismo degli anni precedenti iniziò ad apparire soltanto un ricordo sbiadito. La nuova leadership, raccolta intorno ad Alex Salmond, rilanciò l’ipotesi indipendentista adottando un approccio gradualista che puntasse alla devolution (ottenuta con lo storico referendum del 1998), e all’istituzione di un parlamento scozzese, come primo passo verso la piena sovranità. Il nazionalismo scozzese, seppur in assenza di cleavages particolarmente radicali (l’opposizione a un regime dittatoriale come nel caso basco o le sistematiche discriminazioni cui erano sottoposti i cattolici in quello nordirlandese), ha comunque modificato il proprio orientamento politico. Lo SNP attraverso una serie di proposte innovative sul welfare, sulle energie rinnovabili e sui diritti civili, è riuscito ad erodere il primato dei laburisti in Scozia – la crescita elettorale del partito può essere ricondotta in larga parte alle defezioni dell’elettorato laburista85 – facendosi interprete tanto del tradizionale scontro tra centro e periferia, quanto della frattura di classe interna alla società scozzese. Alla luce di ciò si può comprendere perché il nazionalismo, trovandosi ad agire in presenza di un movimento operaio numeroso e organizzato, abbia intrapreso un graduale ma innegabile spostamento verso sinistra del proprio baricentro politico nel periodo compreso tra il 1968 e il 1988. Lo SNP è riuscito a diventare prima un vero e proprio rivale del tradizionale rappresentante della classe operaia (il Partito Laburista), assumendone rivendicazioni e ideologia di riferimento; e poi, approfittando della nuova 80 Bayne I.O., The impact of 1979 on the SNP, in Gallagher T. (ed.), Nationalism in the Nineties, Edinburgh, Polygon, 1991, p. 57. 81 Torrance D., The Journey from the 79 Group to the Modern SNP, in Hassan G. (ed.), op. cit., p. 163. 82 Melucci A. – Diani M., op. cit., p. 175. 83 Il tasso di disoccupazione in Scozia era salito dal 3,6% del 1974 al 14% del 1984 cfr. Brand J., Scotland, in Watson M. (ed.), Contemporary minority nationalism, London-New York, Routledge,1990, pp. 24-37. 84 Scottish National Party, Play the Scottish Card: SNP General Election Manifesto, Edinburgh, Scottish National Party, 1987, p. 9. 85 Curtice J., Devolution, the SNP and the Electorate, in Hassan G. (ed), op. cit., pp. 55-67; Newell J.L., The Scottish National Party and the Italian Lega Nord: a lesson for their rivals?, in “European Journal of Political Research”, 26 (2), 1994, pp. 135-153. 17 collocazione al centro del New Labour, a presentarsi come unico soggetto in grado di far fronte alle conseguenze della nuova crisi economica globale. Nel sottolineare quanto la dimensione socio-economica abbia contato, e conti ancora oggi, nella storia del nazionalismo politico, appare evidente la fallacità di quelle teorie che consideravano le condizioni economiche delle nazioni senza stato necessariamente arretrate e di impostazione coloniale86. Al tempo stesso, però, una maggiore attenzione deve essere dedicata al ruolo che queste hanno assunto nell’evoluzione politica del nazionalismo. Se nel caso scozzese il movimento nazionalista per raggiungere un successo di massa ha dovuto gradualmente far proprie le rivendicazioni di giustizia sociale care al movimento operaio, in quello fiammingo riscontreremo un fenomeno di segno diametralmente opposto. Nelle Fiandre, una regione molto omogenea dal punto di vista linguistico ma priva di un proletariato organizzato e numeroso, il nazionalismo si è sempre presentato come difensore degli interessi di uno specifico gruppo etnico a discapito di un altro. L’assenza di legami solidaristici che esulano dall’etnia o dalla lingua, impone il vincolo nazionale, o meglio etnico, come unica forza accomunante della comunità e alimenta quelle forze politiche che del patrimonio nazionalista esaltano soprattutto la componente razziale, etnocentrica e populista. Il successo di un messaggio di questo genere si è registrato proprio in quelle regioni che hanno beneficiato della crescita economica in concomitanza della massiccia deindustrializzazione di vaste aree dell’Europa occidentale, dando vita al fenomeno che definiamo “sciovinismo del benessere”. Nonostante l’ingombrante eredità della parentesi collaborazionista, infatti, i fiamminghi approfittarono nel secondo dopoguerra del rovescio delle fortune economiche all’interno dello stato belga. Se la Vallonia francofona aveva raggiunto un invidiabile sviluppo industriale in passato, durante gli anni Cinquanta la regione attraversò un processo di rapida decadenza. La conurbazione industriale più redditizia del continente d’un tratto sparì. Miniere di carbone, acciaierie, industrie siderurgiche e tessili, cessarono quasi del tutto la produzione nell’arco di un decennio, e la disoccupazione raggiunse cifre preoccupanti87. Di segno diametralmente opposto fu, invece, la rapida espansione economica delle Fiandre. Non più ostacolata dalla vecchia industria o da una manodopera inabile al lavoro, l’economia di città come Anversa e Gent crebbe esponenzialmente grazie allo sviluppo della tecnologia di servizio e del commercio 88 . Questo processo, che vedrà il Nord superare il Sud come regione dominante ed economicamente più ricca, iniziò appunto sul finire degli anni Cinquanta, anche grazie alle rivendicazioni fiamminghe e alla battaglia per ottenere benefici politici conformi nuovo status economico. Il nazionalismo fiammingo, decapitato dai processi contro i collaborazionisti si era riorganizzato in sordina sul finire degli anni ’40. Già dai primi mesi successivi alla fine della guerra, Frans Van der Elst, membro di spicco della Christelijke Vlaamse Volksunie (Unione Cristiana Popolare Fiamminga), si recava regolarmente in carcere a trovare Hendrik Elias, ultimo segretario della Vlaams Nationaal Verbond. Durante questi incontri der Elst maturò la decisione di formare un nuovo partito fiammingo, che si battesse per la difesa dei diritti della popolazione di lingua olandese. Poco preoccupato dell’ingombrante eredità del passato collaborazionista, nel 1954 diede vita alla Volksunie (Unione Popolare), un partito di orientamento conservatore, all’interno del quale convivevano un’ala federalista e una più marcatamente indipendentista. 86 Sull’idea di colonialismo interno si rimanda a Hechter M., Il colonialismo interno, Torino, Rosenberg & Sellier, 1979. 87 Judt T., op. cit., p. 232. 88 Nel 1947 ancora più del 20% della manodopera fiamminga lavorava nei campi, alla fine degli anni ’80 questa percentuale era scesa al 3%. 18 Il partito riuscì a conquistarsi un crescente sostegno elettorale, sfidando il solido sistema tripartitico belga (cattolici, socialisti e liberali) che aveva retto le sorti dello stato fino a quel momento89. L’ascesa elettorale della Volksunie, trasformatasi nella cassa di risonanza del malcontento delle Fiandre, modificò profondamente il corso della storia belga e dei rapporti intercomunitari. Per nulla interessati alla coesione e all’eguaglianza sociale, i nazionalisti fiamminghi si preoccuparono esclusivamente di conquistare quanti più vantaggi possibili per la propria comunità. Nemmeno una parola fu spesa sulla crisi industriale che attanagliava la Vallonia e per la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Per la dirigenza della Volksunie la crisi abbattutasi sui francofoni rappresentava esclusivamente una buona occasione per i fiamminghi e bisognava approfittarne. I tempi per un attacco al centralismo belga sembravano finalmente maturi. Il primo passo fu compiuto nel 1963, quando la frontiera linguistica si trasformò in una frontiera politicoamministrativa. Furono separati alcuni ministeri ed aumentarono le pressioni per una definitiva federalizzazione dello stato90. Grazie alla mobilitazione guidata dalla Volksunie, alla metà degli anni ’60, la parità tra olandese e francese venne resa ufficiale e la strada verso l’autonomia delle Fiandre apparentemente spianata. Allo sviluppo politico ed economico della regione si accompagnava, infatti, il declino della Vallonia che si trovò investita dalla crisi dell’industria pesante e dal raddoppio del tasso di disoccupazione (dal 2,5% nel 1958 al 4,7% nel 1960 91 ). La ridefinizione delle relazioni tra i gruppi etnici, con conseguenti tensioni e attriti, divenne a quel punto una tappa obbligata. Se a questi processi economici sommiamo, poi, un’evoluzione demografica che vide il declino dei francofoni (dal 34% del 1947 al 32,7% del 1970) e la crescita dei fiamminghi (dal 54,2% del 1947 al 65,1% del 1970), il quadro che ne emerge è quello di uno stato pronto a esplodere. Le tensioni tra le due comunità, unite a nuove crisi economiche, spinsero la classe politica a mettere al centro dell’agenda governativa le riforme istituzionali e la questione fiamminga. I nazionalisti avevano momentaneamente accantonato la richiesta dell’indipendenza, cercando invece di massimizzare le opportunità sul terreno economico per i membri del proprio gruppo etnico, che continuavano a occupare posizioni inferiori rispetto ai valloni in molti settori92. La strada migliore per il conseguimento di questi obiettivi diventò, allora, la riorganizzazione dello stato su basi federali. La crescita elettorale della Volksunie e la pressione esercitata dalle associazioni di difesa dei diritti linguistici fiamminghi, spinsero il governo di Bruxelles a procedere con la prima revisione della Costituzione. Nel 1970 si riconobbe l’esistenza di tre comunità culturali – corrispondenti alle lingue francese, olandese e tedesca – e l’autonomia nella gestione della politica, dell’istruzione e della cultura per tre regioni: la Vallonia, le Fiandre e Bruxelles Capitale. Alcuni provvedimenti di natura consociativa (parità linguistica nel governo, creazione di gruppi linguistici nelle due camere del parlamento, maggioranze qualificate per leggi 89 Alle elezioni generali del 1958 la Volksunie ottenne 104.823 voti, pari al 2% su scala nazionale, incrementando i propri consensi in tutte le tornate elettorali successive, fino ai 586.917 voti del 1971 che valsero l’11.1% su scala nazionale. Cfr. Nohlen D. – Stöver P. (eds.), Elections in Europe: A data handbook, Baden Baden, Nomos Verlag, 2010, pp. 289ss. 90 A riguardo si veda Borremans I. – Postal P., De l’État unitaire à l’État fédéral. La dynamique institutionelle de la Belgique, Bruxelles, Association Universitaire de Recherche en Administration, 1999. 91 Grilli di Cortona P., Stati, nazioni e nazionalismi in Europa, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 238. 92 Melucci A. – Diani M., op. cit., p. 83. 19 riguardanti questioni regionali e culturali) completavano il pacchetto di riforme e servivano a ridare sicurezza alle comunità linguistiche93. La contrapposizione etno-linguistica si sostituì quindi alle tradizionali linee di frattura della società belga. A causa di questa “territorializzazione” della politica anche i partiti tradizionali finirono per dividersi in base all’appartenenza etnica (i cristiano-democratici nel 1968, i liberali nel 1972 e i socialisti dal 197894). Nonostante il processo di federalizzazione dello stato, però, la componente ultraradicale e indipendentista del nazionalismo non era soddisfatta dell’atteggiamento autonomista adottato dalla Volksunie che nel frattempo, agli inizi del 1977, era entrata a far parte di un governo nazionale di coalizione. Così, nel 1978, venne fondato il Vlaams Blok (Blocco Fiammingo-VB), che in una prima fase non si differenziò molto dagli altri partiti nazionalisti, salvo concentrarsi sulla richiesta della piena indipendenza e sull’esaltazione della storia fiamminga, compresa la parentesi collaborazionista95. Le riforme del 1980, che riconobbero giuridicamente la comunità germanofona e attribuirono alle regioni poteri legislativi ed esecutivi, sembrarono in grado, però, di mantenere un equilibrio stabile nelle relazioni tra i due gruppi, depotenziando, almeno temporaneamente, le rivendicazioni estremistiche. La Volksunie si concentrò principalmente sul federalismo e sull’avanzamento delle riforme costituzionali, collaborando da una posizione di forza con le altre formazioni politiche. Il VB, invece, complice lo scarso successo elettorale, colse l’opportunità di allargare il proprio bacino di consensi adottando una politica apertamente xenofoba: non si trattava più di “liberarsi” dai belgi francofoni, ma soprattutto dagli immigrati96. La concorrenza dell’estrema destra, contribuì a una parziale radicalizzazione della Volksunie. Il partito, paventando un’ipotetica secessione, riuscì, infatti, ad ottenere che si rinegoziassero ancora una volta gli accordi costituzionali. Fu così che nel 1993 si stabilì in modo definitivo la natura federale dello stato belga. Le comunità diventarono tre, così come le regioni. Le comunità rispettavano il criterio linguistico (la francofona, la fiamminga e la germanofona), mentre le regioni rimasero le Fiandre, la Vallonia e Bruxelles Capitale. Il Senato si trasformò nella Camera Federale dotata di poteri particolari e alle regioni vennero concesse ulteriori competenze amministrative, fiscali e finanziarie. Il processo di federalizzazione non si è ancora concluso. A molti fiamminghi, però, il federalismo oggi non basta più e viene visto come un ostacolo alla crescita economica delle Fiandre. Ai valloni si rinfacciano tutti gli scandali che hanno turbato la vita pubblica belga negli ultimi vent’anni. Il capro espiatorio vallone serve ai fiamminghi per poter proclamare la propria estraneità al sistema politico belga. Secondo i fiamminghi, il Belgio non ha più diritto di esistere perché la maggioranza della sua popolazione è stanca di subire il malgoverno della minoranza. Le cose stanno realmente così? No, ma non importa. Non ha senso stabilire chi ha ragione e chi ha torto, poiché una comunità ha già deciso la colpevolezza dell’altra, a priori. La natura del conflitto è, pertanto, diversa rispetto ai casi analizzati precedentemente. Le sue basi sociali sono ormai piuttosto deboli, mentre prevale nettamente la divisione delle due comunità secondo frontiere etniche e linguistiche. La stessa Volksunie è entrata in crisi dopo le riforme del 93 Karmis D. – Gagnon A.G., Federalism, federation and collective identities in Canada and Belgium: different routes, similar fragmentation, in Gagnon A.G. – Tilly C. (eds.), Multinational democracies, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, p. 140. 94 Kellas J.G., Nazionalismi ed etnie, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 125. 95 Ignazi P., L’estrema destra in Europa, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 106. 96 A riguardo si rimanda a Betz H.G., Radical right-wing populism in Western Europe, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 1994, p. 138. 20 1993, schiacciata dalla concorrenza degli estremisti del Vlaams Blok97. Il mix di rivendicazioni indipendentiste e politiche xenofobe proposto dall’estrema destra, infatti, ha attirato il voto delle giovani generazioni e dei ceti più disagiati, costringendo lo storico partito nazionalista a sciogliersi nel 2001 e a dare vita ad un nuovo soggetto politico, la Nieuw-Vlaamse Alliantie (Nuova Alleanza Fiamminga-NVA). Più orientata a destra e fautrice di un approccio graduale al secessionismo, la NVA è riuscita ad arrestare l’ascesa del Blocco98 e a riproporsi come la principale forza politica delle Fiandre. Il cambio di rotta, frutto appunto delle pressioni della destra oltranzista, si è rivelato un’arma vincente per il nazionalismo storico che, nelle elezioni politiche del 2010, è diventato il primo partito a livello statale, impedendo la formazione di un governo stabile e provocando la più lunga crisi politica del Belgio contemporaneo. Queste ultime considerazioni non fanno che confermare la natura del conflitto tra fiamminghi e valloni. I contendenti, come si è visto, non sono in lotta per cambiare determinati rapporti sociali, ma si disputano i confini dei rispettivi “stati”, dando vita a quello che si potrebbe considerare l’ultimo conflitto nazionale di tipo ottocentesco in Europa occidentale. Il caso fiammingo dimostra ancora una volta come la presenza di una forte omogeneizzazione linguistico-culturale e l’assenza di forti legami di classe e/o intercomunitari, contribuiscano a mantenere inalterato il carattere aggressivo e intransigente del nazionalismo, preoccupato principalmente di escludere dai vantaggi del benessere i membri esterni alla propria comunità. Il futuro del Belgio, di cui alcuni ottimisti osservatori garantivano agli albori del XXI secolo la piena stabilizzazione, si giocherà quindi nei prossimi anni, e molto dipenderà dalla capacità degli organismi sovranazionali dell’Unione Europea di depotenziare il conflitto in atto. Se ciò non dovesse avvenire, e dato il carattere escludente del nazionalismo fiammingo è molto probabile che non avvenga, il futuro dello stato belga non può che apparire incerto, se non irrimediabilmente compromesso. 4. Conclusioni Attraverso una ricostruzione diacronica piuttosto sui generis dei diversi casi presi in analisi ho cercato di dimostrare quanto la dimensione socio-economica abbia condizionato l’evoluzione politica del nazionalismo politico e, più precisamente, di quello periferico. Pur condividendo le riserve di studiosi come Umut Özkirimli e Craig Calhoun, secondo i quali rimane impossibile abbozzare una teoria universale del nazionalismo99, un’analisi comparativa di questo genere ci permette di porre l’accento su elementi e dinamiche comuni emersi in contesti apparentemente diversi. A guidare i nazionalismi periferici fu in un primo momento una piccola minoranza, che si trovò ad affrontare gli stravolgimenti tipici della rivoluzione industriale che investì l’Europa nel XIX secolo. Nella pluralità di elementi che li caratterizzano, infatti, i conflitti nazionalisti portarono alla luce una nuova dimensione dei processi di identificazione sociale. Nel corso dello sviluppo capitalistico, il processo d’industrializzazione e la concentrazione urbana sconvolsero gli equilibri sociali e 97 Al declino elettorale della Volksunie (4,7% alle elezioni del 1995; 5,6% nel 1999) corrispose l’avanzata della destra nazionalista rappresentata dal VB (7,8% nel 1995; 9,9% nel 1999). 98 Il Vlaams Blok è stato condannato per violazione della legge sul razzismo e la xenofobia nel 2004, dando vita ad una nuova formazione politica, il Vlaams Belang (Interesse Fiammingo), che si è mantenuto fino ai giorni nostri stabilmente sopra il 10% dei voti nelle Fiandre. 99 Özkirimli U., Contemporary debates on nationalism. A critical engagement, New York, Palgrave Macmillan, 2005, pp. 61-62; Calhoun C., Nationalism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, p. 8. 21 territoriali tradizionali. Il nuovo modello urbano-industriale, tuttavia, conservava al suo interno una certa coerenza tra la posizione che i diversi gruppi occupavano rispetto ai rapporti di produzione dominanti e i tratti culturali che caratterizzavano i gruppi stessi. A un ordine sociale frammentato, con forti separazioni di classe, corrispondeva una polarizzazione delle culture e una scarsa permeabilità tra di esse. Per questa ragione, le istanze nazionaliste diventarono, in una prima fase, patrimonio esclusivo della piccola borghesia delle comunità periferiche, esclusa dai vantaggi dell’espansione economica capitalista di fine XIX secolo. Soltanto con l’avvento della politica di massa si è assistito alla prima importante trasformazione del nazionalismo in Europa: da ideologia circoscritta alla borghesia di provincia e alle élite culturali, il nazionalismo viene fatto proprio dalle masse, subisce una radicalizzazione rivendicativa e accentua la propria capacità mobilitazionale. I tempi e i modi di questa “massificazione del nazionalismo”, però, sono diversi per ognuno dei contesti presi in esame, e dipendono da una serie di fattori propri delle società industriali e del moderno capitalismo economico. Per diventare un attore politico di primo piano, infatti, il nazionalismo necessita del sostegno di una ampia base sociale, capace di garantirgli la piena legittimità nella lotta contro le politiche dello stato centrale. L’aspirazione della piccola e media borghesia a diventare classe dirigente di un nuovo stato indipendente, da sola, non sarebbe bastata a trasformare il nazionalismo ottocentesco in un vero e proprio movimento di massa. Nel periodo compreso tra l’inizio del XX secolo e la fine della Prima guerra mondiale, la rapida industrializzazione di aree precedentemente depresse, i fenomeni di migrazione interna, la sindacalizzazione di strati sempre più ampi della classe lavoratrice e l’estensione del diritto di voto, modificarono profondamente il volto della società europea. Il destino del nazionalismo politico, nelle periferie prese in esame, dipese irrimediabilmente dalle conseguenze di questi processi. La distinzione tra economie industriali ed economie agricole assume quindi un valore fondamentale, poiché permette di individuare i referenti del messaggio nazionalista e, soprattutto, per l’importanza che la composizione sociale della militanza ha assunto nella storia della mobilitazione indipendentista nella seconda metà del XX secolo. Nelle aree investite da una rapida industrializzazione, i nazionalisti si trovarono a dover fare i conti con una classe operaia sempre più numerosa, sindacalizzata e politicamente orientata a sinistra. Laddove, a cavallo tra le due guerre, i partiti e i movimenti separatisti entrarono in contatto con le istanze proprie del movimento operaio il nazionalismo si trasformò in una forza dinamica, apparentemente democratica e in alcuni casi anche modernizzatrice. Nel contesto catalano e in quello irlandese, dove il nazionalismo poteva contare su un vasto sostegno popolare già dalla fine del XIX secolo, ciò comportò la nascita di veri e propri partiti di orientamento progressista. Questo modello riscosse un successo piuttosto limitato – eccezion fatta per l’Esquerra Republicana de Catalunya – ma conferma la capacità del nazionalismo stesso di adottare riferimenti ideologi molto diversi ben prima della diffusione delle teorie terzomondiste. Allo stesso tempo, anche in assenza di una corrente di orientamento socialista, come nel caso basco, i partiti “tradizionali”, conservatori e ostili alle rivendicazioni operaie, finirono per modificare gradualmente la loro collocazione politica, spostando il proprio baricentro su posizioni sempre più moderate. Se non si tiene conto di questo non si può comprendere perché un operaio di Belfast o Dublino, sostenitore o membro dell’IRA, scegliesse di andare a combattere il fascismo in Spagna, mentre un piccolo proprietario della contea agricola di Monaghan rispondeva all’appello franchista per la crociata cristiana. E lo stesso può dirsi per i baschi. Se il sindacato nazionalista non avesse adottato una prospettiva classista e non avesse condizionato l’orientamento ideologico del nazionalismo politico, il PNV si sarebbe schierato con il 22 fronte popolare? Se le provincie di Vizcaya e Guipúzcoa non fossero diventate il cuore siderurgico della penisola iberica e non avessero visto crescere una numerosa classe operaia, cosa ci dice che non avrebbero seguito le due province rurali di Álava e Navarra nell’insurrezione franchista? I contesti in cui il nazionalismo si tinse di sfumature particolarmente oscure, infatti, furono proprio quelli meno interessati dai processi di modernizzazione. In assenza di una classe operaia organizzata e di una vasta rete solidaristica, il nazionalismo mantenne il suo carattere tendenzialmente escludente, di destra, che sfociò nel collaborazionismo con i ribelli franchisti in Spagna (le province basche di Navarra e Álava, i nazionalisti irlandesi dell’entroterra rurale) e con l’occupante nazista in Francia (Bretagna) e Belgio (i fiamminghi). La Seconda guerra mondiale ha rappresentato, da questo punto di vista, un momento di fondamentale importanza nella storia del nazionalismo e ha assunto il carattere di una vera e propria cesura. Dopo gli eccidi di massa e le brutalità perpetuate in nome della superiorità razziale, le fiamme del nazionalismo sembravano essersi spente per sempre. Alla fine del conflitto, però, il richiamo al recente passato antifascista da parte di alcuni gruppi permise a queste forze politiche di sopravvivere, seppur in sordina, al riflusso postbellico e di proporsi come agenti emancipatori nelle comunità che pretendevano di rappresentare. A partire dal secondo dopoguerra tutte le società occidentali sono state investite da processi di modernizzazione intensa che hanno raggiunto il loro culmine intorno agli anni Sessanta. La modernizzazione che ha progressivamente trasformato il volto della società industriale di tipo capitalistico, facendo parlare gli studiosi di tardo capitalismo, società post-industriale, società complessa, ha avuto un’influenza diretta sulle enclavi sociali rappresentate dalle culture minoritarie, gettandole all’interno di una società ormai sempre più trans-statuale governata dall’economia internazionale. A determinare la natura del conflitto tra centro e periferia fu la sovrapposizione, o la separazione, tra la frattura etnica (tipica del nazionalismo) e quella socio-economica (propria del movimento operaio e dei nuovi movimenti sociali post-sessantotto). L’assunzione di obiettivi e strategie comuni ai movimenti sociali spinse alcuni partiti nazionalisti ad abbracciare posizioni terzomondiste e di sinistra. Una nuova declinazione politica del nazionalismo associava alla riscoperta delle tradizioni propriamente culturali, rivendicazioni di tipo economico e sociale che li posero in competizione con gli stessi partiti nazionalisti di lungo corso e con i partiti tradizionali della sinistra. Superando le posizioni populiste, largamente diffusesi tra le due guerre, e attribuendo una crescente importanza all’oppressione economica come fattore di disgregazione della comunità nazionale, questi nuovi movimenti radicali ruppero definitivamente con il nazionalismo unanimista e interclassista, sostituendo al concetto di nazione oppressa quello, meno generico, di popolo colonizzato. Quando il nazionalismo radicale (violento e rivoluzionario) è riuscito a farsi interprete del desiderio di cambiamento delle nuove generazioni e delle classi meno abbienti, si è registrato un notevole aumento della violenza politica e della conflittualità sociale. Nel caso basco e in quello nordirlandese, ad esempio, la sovrapposizione di più linee di frattura (etnica, linguistica, economica, religiosa) ha determinato il carattere estremamente conflittuale del confronto, dando vita a veri e propri conflitti militari. In quelle regioni, invece, dove il nazionalismo non si era fatto interprete di radicali contrapposizioni sociali, ma si trovava comunque ad agire in presenza di un movimento operaio numeroso e organizzato, si è registrato un pacifico e graduale spostamento a sinistra dell’orientamento ideologico del nazionalismo stesso. In questi casi i partiti nazionalisti riuscirono a diventare veri e propri rivali dei rappresentanti tradizionali della classe operaia (la sinistra socialista, socialdemocratica o laburista), assumendone rivendicazioni e ideologia di riferimento, come dimostrato dal caso scozzese. Allo stesso modo, l’orientamento ideologico del nazionalismo 23 fiammingo, che ha mantenuto un carattere escludente e reazionario in una regione estranea ai processi d’industrializzazione, ci dimostra ancora una volta quanto abbia pesato la dimensione socioeconomica sull’evoluzione politica della mobilitazione nazionalista. Soltanto valutando con attenzione le dinamiche insite in questo complesso processo evolutivo si potrà comprendere la capacità del nazionalismo di adottare riferimenti ideologici così diversi e, parafrasando il compianto Pietro Grilli di Cortona, come mai gli obiettivi più intransigenti della politica nazionalista (indipendenza e irredentismo) si siano dimostrati più compatibili con un’autocollocazione alla destra o alla sinistra dello spazio politico100. Il futuro di molti stati europei, e della stessa Unione, passa probabilmente anche dalla risoluzione di questi antichi conflitti. Bibliografia • Anderson B., Sotto tre bandiere. 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