3.1 Considerazioni introduttive Fissiamo, in questo e nei successivi

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3.1 Considerazioni introduttive Fissiamo, in questo e nei successivi
CAPITOLO 3
LA PRODUZIONE
3.1 Considerazioni introduttive
Fissiamo, in questo e nei successivi capitoli, l’attenzione sul comportamento degli offerenti di
beni. Cerchiamo, in particolare, di spiegare che cosa stia dietro alla decisione di offerta
Q  Q p  del modello della contrattazione competitiva e alla decisione di prezzo p  p del
modello dei prezzi di listino.
Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo svolgere un ragionamento che muove
dall’ovvia constatazione che la stragrande maggioranza dei beni che vengono richiesti dai
consumatori non è disponibile come tale in natura, ma è il risultato di un processo produttivo,
e che si sviluppa attraverso una successione di tappe fra loro collegate. La prima di queste
tappe riguarda la rappresentazione del processo produttivo, come insieme di vincoli che le
conoscenze tecnologiche ed organizzative impongono alle imprese. Per capirci: mentre è
divenuto possibile produrre un viaggio sullo Shuttle attorno alla terra, nessuno è oggi in grado
di produrre una vacanza su una stazione orbitante. La seconda tappa riguarda la
determinazione dei costi di produzione, come risultato di una scelta ottimale condizionata
dalle alternative produttive offerte dalle conoscenze tecnologiche e dai prezzi delle risorse che
è necessario utilizzare per poter produrre. Sempre per capirci: si può produrre in modi
efficienti o inefficienti, cioè a costi più bassi o più alti. La terza tappa, infine, riguarda gli
obiettivi che i produttori si propongono di raggiungere attraverso le loro decisioni di quantità
o di prezzo. Ancora per capirci: le decisioni sono guidate dal criterio della massimizzazione
del profitto o da altre considerazioni?
Iniziamo in questo capitolo dalla rappresentazione del processo produttivo.
3.2 Il concetto economico di produzione
Il concetto economico di produzione è di grande generalità sia dal punto di vista del processo
considerato, sia da quello del soggetto che lo attua. Dal punto di vista del processo, è
produzione qualsiasi trasformazione di determinati beni – che indichiamo come fattori
produttivi o input produttivi – in altri beni – che indichiamo con il termine di prodotti o
output. Così è produzione la trasformazione fisica di certi beni in altri beni, come avviene
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nella manifattura e nella fornitura di servizi; la trasformazione nello spazio, ossia l’attività di
trasposto di un bene da una località all’altra; la trasformazione nella disponibilità, in cui si
estrinseca l’attività del commercio; la trasformazione nel tempo, propria delle attività di
conservazione e di stoccaggio. Quanto poi al soggetto, la teoria economica indica con il
termine di produttore o di impresa qualsiasi istituzione che realizza le diverse attività sopra
elencate, indipendentemente dalla forma giuridica che l’impresa si sia data (impresa
individuale, società di persone o di capitali) e dalla natura proprietaria (privata, pubblica o
cooperativa).
3.3 La funzione della produzione
Consideriamo uno specifico processo produttivo, ad esempio quello attuato da un pasticcere
che produce unicamente crostate. I principali input, che indichiamo con il simbolo z k ,
k  1,2,..., K , sono costituiti da:
-
beni prodotti da altre imprese (uova, zucchero, farina, burro, marmellata, latte, e così via)
e servizi forniti sempre da altre imprese (energia elettrica, telefono ed altri ancora);
-
lavoro, che comprende quello altamente specializzato del proprietario e quello meno
specializzato di un eventuale collaboratore;
-
mezzi di produzione (un frigorifero, una macchina per impastare, un forno);
-
il locale in cui si svolge l’attività produttiva.
La misurazione delle quantità di tali input non è sempre agevole. I beni e servizi acquistati
da altre imprese hanno di solito, in quanto output di altre produzioni, naturali unità di misura
fisiche (chilogrammi, litri, dozzine, potenza installata e watt assorbiti, numero di scatti). Il
lavoro può essere alternativamente misurato in ore giorno, settimana, mese, o anno; ma è
chiaro che sarebbe improprio sommare ore di lavoro specializzato ad ore di lavoro non
specializzato; input di lavoro di diverse qualifiche e capacità professionali vanno pertanto
tenuti distinti. Infine, la quantità dell’input rappresentato dal locale può essere misurata
attraverso il numero dei mq, ma è di nuovo chiaro che localizzazione urbana e caratteristiche
dell’immobile qualificano in modo determinante l’input in esame.
Decisamente più complessa è la misurazione degli input mezzi di produzione, chiamati
anche beni capitali. Si tratta di una questione che ha formato e forma oggetto di sottili ed
accese dispute dottrinarie. Pur non potendo entrare nel merito di tali questioni in questa sede,
un accenno alla natura del problema merita comunque di essere fatto. Ciò che vorremmo
misurare è il servizio reso, in una prescelta unità di tempo, dai diversi macchinari utilizzati nel
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processo produttivo. A questo fine, supponiamo che sussista un rapporto di uno ad uno tra
mezzo di produzione e servizio da questo reso; sotto questa ipotesi possiamo misurare la
quantità di input con il numero o la quantità dei mezzi di produzione di un determinato tipo
che vengono impiegati, prescindendo dal grado di utilizzazione più o meno intenso degli
stessi. Si noti che questo approccio richiede di tenere distinti, come abbiamo fatto per le
diverse qualità di lavoro, i vari mezzi di produzione e di considerarli come altrettanti input
produttivi. Un approccio alternativo consiste nell’esprimere la quantità dei mezzi di
produzione attraverso un’unica grandezza, ottenuta come somma in valore delle quantità
impiegate di quegli stessi beni. Tale grandezza rappresenterebbe quindi la quantità di capitale
impiegata nel processo produttivo. La misurazione aggregata in termini di valore offre
tuttavia il fianco a critiche di carattere teorico, dalle quali è viceversa esente l’approccio
disaggregato. E’, ciò nondimeno, alla misurazione aggregata in termini di valore del
complesso dei mezzi di produzione impiegati che si fa usualmente ricorso negli studi
empirici, che si fondano sui dati di bilancio delle imprese.
Tradizionalmente i fattori produttivi sono stati raggruppati nelle quattro categorie del
lavoro (L), del capitale (K), della terra (T) e della capacità imprenditoriale (I). In tale
classificazione, nel fattore lavoro sono comprese tutte le diverse forme e qualità di prestazioni
lavorative; nel capitale i mezzi di produzione (o capitali fissi in quanto suscettibili di
utilizzazione ripetuta nel tempo) nonché i semilavorati (o capitali circolanti in quanto idonei
ad un’unica utilizzazione), nella terra il terreno (con i suoi diversi gradi di fertilità) e le
materie prime minerarie; nella capacità imprenditoriale, infine, le specifiche qualità del
soggetto che assume il rischio d’impresa. L’elencazione precedentemente fatta dei fattori
produttivi impiegati nella produzione di crostate riflette solo in parte questa classificazione,
dato che, per immediatezza di riferimento, abbiamo ritenuto opportuno evidenziare
separatamente il ruolo delle materie prime e, in particolare, dei prodotti acquistati da altre
imprese, alcuni dei quali rappresentano dei semilavorati per il pasticcere. Abbiamo, d’altra
parte, scelto di omettere il fattore imprenditoriale. Questa scelta trova giustificazione, da un
lato, nel fatto che abbiamo incluso la prestazione lavorativa del pasticcere-proprietario, sia
come lavoro manuale, che come lavoro direttivo, nell’ambito del fattore produttivo lavoro e,
dall’altro, nella considerazione che la capacità imprenditoriale non è suscettibile di specifica
misurazione e trova, come vedremo, remunerazione nel reddito che residua dopo aver
remunerato tutti gli input produttivi, compreso il lavoro del proprietario.
E’ utile distinguere tra fattori produttivi variabili e fissi. Con questi termini si intende far
riferimento alla rapidità con la quale il responsabile del processo produttivo è in grado di
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modificare le quantità impiegate degli input in risposta ad esigenze di mercato. Si dicono
variabili quegli input che l’imprenditore è in grado di cambiare con notevole rapidità; in
termini tecnici, quegli input che sono aggiustabili nel breve periodo. Sono variabili
tipicamente gli input di materie prime e semilavorati, a meno che l’impresa non abbia stabilito
rapporti di fornitura a lungo termine. E’ consuetudine considerare anche il fattore lavoro tra
gli input variabili, anche se in realtà lo è assai meno delle materie prime, tanto è vero che
taluni preferiscono considerarlo come un fattore quasi fisso, vuoi a motivo dei costi che il
licenziamento comporta per l’impresa in termini di perdita di abilità specifiche all’attività
produttiva dell’impresa stessa, vuoi a motivo dei vincoli posti al licenziamento dalla
normativa del lavoro. Si dicono invece fissi quegli input che l’imprenditore può modificare
solo nel medio-lungo periodo, tipicamente beni capitali e terra, perché la disponibilità di
nuovi mezzi di produzione, di nuovi locali, o di nuovi appezzamenti di terreno non è
immediata. Intercorre, infatti, un tempo più o meno lungo tra il momento in cui viene presa la
decisione di modificare la quantità impiegata di questi fattori e il momento in cui l’impresa
può disporne.
La distinzione tra fattori variabili e fissi sta dunque nella rapidità con la quale è possibile
effettuare l’aggiustamento delle quantità impiegate a nuove opportunità o esigenze. Nel
linguaggio degli economisti questa diversa possibilità di aggiustamento si esprime attraverso
la contrapposizione tra aggiustamento di breve e di medio-lungo periodo. Si tratta, peraltro, di
concetti che non hanno una ben definita dimensione temporale, che non sono perciò
quantificabili una volta per tutte in termini di giorni, mesi ed anni. Una cosa è cambiare un
computer obsoleto con uno di nuovissima generazione; altra cosa è attrezzare una nuova linea
di montaggio per automobili; altra cosa ancora è costruire ex novo uno stabilimento per la
produzione di acciaio. Anche se solo lo studio di situazioni specifiche può consentire di dare
una dimensione temporale concreta alle nozioni di breve e lungo periodo, l’uso di tali concetti
è di notevole rilevanza per lo studio delle decisioni d’impresa e per la comprensione del
funzionamento dei meccanismi di mercato.
L’output, che indichiamo con il simbolo q, è costituito dalle crostate prodotte, espresse in
numero o in peso. Naturalmente il pasticcere non produce solamente crostate, ma anche paste
ed altri dolci per soddisfare gusti diversi e la domanda di varietà dei consumatori. Per il
momento, fissiamo l’attenzione sul caso in cui il prodotto è unico, riservandoci di ritornare su
questo punto più avanti.
Il processo produttivo può essere rappresentato formalmente attraverso la relazione
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(3.1)
z1 , z 2 ,..., z K   q
con la quale si intende esprimere l’attività della pasticceria che trasforma i suoi K input
produttivi nella quantità di output crostate. Indicando con M la quantità di materie prime e
semilavorati, la (3.1) può essere riformulata con una notazione meno astratta e decisamente
più intuitiva come:
(3.2)
M , L; K , T   q
Cerchiamo ora di caratterizzare meglio questo processo di trasformazione di input in
output introducendo il concetto di efficienza tecnologica o produttiva. Osserviamo che la (3.2)
rappresenta la trasformazione di una generica combinazione di input, rappresentati dai valori
assunti dalle grandezze M, L, K e T, in una certa quantità in output q. E’ chiaro che con le
medesime quantità di input si possono produrre diverse quantità di output: le conoscenze
tecnologiche ed organizzative pongono infatti un tetto alla quantità massima che può essere
prodotta, ma non escludono che si possa produrre una quantità inferiore. Indichiamo come
tecnologicamente efficiente la produzione della quantità massima di output ottenibile con una
data combinazione di input e come inefficiente la produzione di una quantità inferiore.
Il senso comune del concetto di inefficienza produttiva è immediato: segnala la presenza
di uno spreco nell’utilizzazione delle risorse da parte dell’impresa. Le ragioni possono essere
diverse: vanno da una cattiva utilizzazione degli input – ad esempio, per difetti di
coordinamento, disorganizzazione del layout di produzione, tempi morti tra successive fasi
produttive - alla possibilità che vi sia una sproporzione nella disponibilità degli input. Per fare
un esempio concreto di questa possibilità, si pensi ad un’impresa che acquista un
macchinario, di capacità maggiore di quanto immediatamente utilizzabile, in vista di un
aumento della produzione da raggiungere gradualmente nel tempo. Nel breve periodo, le
potenzialità del nuovo macchinario non risultano pienamente sfruttate, perché l’impresa non
ritiene conveniente dotarsi degli altri input, lavoro e materie prime, nelle quantità richieste per
la piena utilizzazione del nuovo macchinario. Nel breve periodo si verifica pertanto una
sproporzione tra gli input con una conseguente “spreco” di capacità produttiva, in questo caso
frutto di una specifica scelta da parte dell’impresa.
Lo strumento analitico che descrive l’insieme delle produzioni efficienti ottenibili
dall’impiego di determinate quantità di fattori produttivi prende il nome di funzione della
produzione, che è appunto una relazione funzionale che associa alle quantità impiegate dei
diversi input le corrispondenti quantità massime di output realizzabili:
(3.3)
q  f M , L; K , T 
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Nel simbolo di funzione “f” sono astrattamente racchiuse le conoscenze tecnologiche ed
organizzative dell’impresa, quelle conoscenze che permettono appunto di trasformare gli
input in output. Nella scrittura della (3.3) abbiamo separato con un punto e virgola i fattori
variabili (materie prime e lavoro) da quelli fissi (capitale e terra).
Ogni impresa è caratterizzata dalla sua struttura di input e dalle sue conoscenze
tecnologiche ed organizzative; tale struttura e tali conoscenze sono presumibilmente simili a
quelle dei concorrenti dello stesso comparto produttivo, ma molto diverse da quelle di altri
comparti produttivi. La funzione della produzione di un’officina di riparazioni meccaniche, ad
esempio, ha input di materie prime, semilavorati, tipi di lavoro, mezzi di produzione, locali
diversi da quelli del pasticcere; produce un output radicalmente diverso, usando conoscenze
di carattere meccanico, elettrico ed elettronico che nulla hanno a che vedere con le arti
culinarie proprie della pasticceria. Ciò nondimeno la funzione di produzione della pasticceria
e dell’officina meccanica sono astrattamente rappresentabili mediante la medesima
formulazione analitica (3.3).
Come abbiamo fatto nello studio della funzione della domanda, dobbiamo ora esaminare
le proprietà della funzione della produzione (3.3). Ci proponiamo, da un lato, di individuare le
relazioni che intercorrono tra quantità impiegate di fattori produttivi e quantità massima di
output ottenibile e di analizzare, dall’altro, gli aspetti attinenti la complementarietà e la
sostituibilità tra fattori produttivi. Iniziamo questo studio dall’ipotesi che vi sia un unico
fattore variabile e tutti gli altri siano fissi.
3.4 La produzione con un solo fattore variabile: a) le materie prime
La funzione di produzione (3.3), che abbiamo assunto come punto di riferimento per lo studio
della tecnologia produttiva, contiene in realtà, oltre ai fattori fissi capitale e terra, due fattori
variabili, materie prime e lavoro, e non uno soltanto. Procediamo perciò considerando
variabile a turno uno di questi, prima le sole materie prime, quindi il solo lavoro. Questo
modo di procedere è decisamente un po’ lungo e ripetitivo, ma presenta il vantaggio di
consentire di ragionare in modo concreto ed intuitivo sulle ipotesi che verranno via via
formulate, di introdurre in modo piano gli strumenti analitici propri della teoria della
produzione e di comprenderne l’utilizzazione.
Supponiamo data, oltre alla quantità di capitale K e alla quantità di terra T , anche la
quantità di lavoro L . Riscriviamo conseguentemente la (3.3) come
(3.4)
q  f M ; L ; K , T 
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e concentriamo l’attenzione sulla relazione tra l’input M, che rappresenta la variabile
indipendente, e la quantità di output q, che è la variabile dipendente.
E’ intuitivamente ragionevole supporre che esista una relazione di proporzionalità tra
quantità di materie prime impiegate ed output ottenuto. La ricetta del pasticcere prescrive le
quantità di uova, zucchero, ecc. che devono essere usate per fare una crostata. Se si vuole
aumentare il numero delle crostate prodotte occorre perciò aumentare corrispondentemente le
quantità di ciascuna delle diverse materie prime elencate nella ricetta; in termini della
relazione (3.4), occorre dunque aumentare M. D’altra parte, se mancano le materie prime, non
è possibile produrre alcunché. Si noti che l’ipotesi di proporzionalità tra materie prime e
semilavorati, da un lato, e prodotto, dall’altro, non è peculiare della produzione di crostate; sai
riscontra praticamente in tutte le produzioni. Per produrre, ad esempio, una lavatrice, è
necessario disporre di una certa quantità di lamiera, di un cestello, di un motore, e così via.
Supponiamo per semplicità, ma anche con buona aderenza alla realtà della tecnologia,
che il rapporto tra materie prime ed output sia di stretta proporzionalità. La Fig. 3.1 esprime in
termini grafici questa ipotesi tecnologica. Misuriamo sull’asse delle ascisse la quantità
impiegata di materie prime M e sull’asse delle ordinate la quantità di output q. La funzione
della produzione (3.4) è rappresentata dalla spezzata OAB; l’ipotesi di rigida proporzionalità
tra input ed output trova espressione nel tratto lineare crescente di tale spezzata.
La spezzata OAB mostra tuttavia che tale rapporto di proporzionalità si interrompe
bruscamente una volta raggiunto l’output q : in corrispondenza di tale livello di produzione,
infatti, all’impiego di quantità aggiuntive di materie prime rispetto alla quantità M non sono
associati ulteriori aumenti della produzione. Intendiamo in tal modo prendere atto della
circostanza che la produzione non richiede il solo impiego di materie prime, ma anche quello
degli altri input produttivi. Se la quantità impiegate di tali input sono per ipotesi date, e cioè
mantenute invariate, prima o poi le possibilità di produzione dell’impresa raggiungono un
limite, che deriva appunto da quelle ipotesi. Nel caso concreto della pasticceria, il livello di
produzione q potrebbe essere determinato dalla capacità del forno; nel caso della produzione
di lavatrici, dalla capacità della linea di montaggio.
La circostanza che il grafico della funzione della produzione parta dall’origine degli assi
significa che senza l’apporto delle materie prime nessuna produzione è possibile, nonostante
la disponibilità degli altri input, di cui abbiamo supposto date le quantità. E, d’altra parte, il
limite di capacità q , determinato dalla quantità L ; K , T  degli altri input, implica che una
disponibilità di materie prime in eccesso rispetto alla quantità M non ha effetti sulla quantità
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prodotta. Questi due aspetti della tecnologia rivelano la presenza di un fondamentale rapporto
di complementarietà tra input di materie prime, da un lato, e tutti gli altri, dall’altro. Con
l’ipotesi di stretta proporzionalità tra M e q, abbiamo in realtà escluso ogni possibilità di
sostituzione tra materie prime e il complesso degli altri input. Si potrebbe obiettare che questa
ipotesi è eccessivamente restrittiva. L’impiego di macchinari più sofisticati, che implica in
senso lato un aumento della quantità del fattore produttivo capitale, potrebbe in effetti
consentire di realizzare un miglior sfruttamento di una data quantità di materie prime; ciò
rappresenterebbe una sostituzione di capitale a materie prime. Pur ammettendo l’esistenza di
una tale possibilità, ci sembra che l’aspetto della complementarietà tra materie prime ed altri
input sia nettamente prevalente e manteniamo pertanto l’ipotesi forte fatta. Ci riserviamo
naturalmente di ritornare sugli aspetti, non meno importanti, riguardanti le opportunità di
sostituzione tra fattori nel prosieguo del capitolo.
Possiamo tradurre il ragionamento fatto, che graficamente si esprime attraverso la
spezzata OAB nella Fig. 3.1, nei seguenti termini analitici:
(3.5)
q  f  M ; L ; K , T  per q  q  q L ; K , T 
  

In parole: esiste una relazione diretta fra impiego di materie prime e livello di produzione,
indicata dalla presenza del segno (+) sotto la variabile indipendente M, fintantoché si sta al di
sotto del limite di capacità q . Questo dipende, a sua volta, dalle quantità di input che
abbiamo supposto date. Se variamo tali quantità, aumentandole ad esempio dai valori
L ; K , T  ai valori L; K , T  , si sposta in aumento anche il limite di capacità da
q a q ,
come indicato dalla spezzata OA’B’ nella stessa Fig. 3.1.
Si osservi che il ragionamento ora svolto e la sua rappresentazione grafica coincidono con
quelli analizzati nel par. 2.5 del precedente capitolo sulla domanda dei consumatori. La
spezzata OA’B’ rappresenta una traslazione in aumento della funzione della produzione; è
stata infatti costruita assegnando un nuovo insieme di valori alle variabili che nel costruire il
disegno della Fig. 3.1 vengono considerate date. La circostanza che la traslazione non si
presenti in questo caso come parallela, se non per il tratto orizzontale delle due curve, non
cambia la sostanza del ragionamento. Nell’esempio numerico della Tab. 3.1, il limite di
capacità è determinato in un caso in 8 e nell’altro in 10 unità. E’ qui utile una parola di
avvertenza. Nei diagrammi le curve corrispondenti alle varie funzioni di volta in volta
esaminate sono tracciate come curve continue sotto l’ipotesi di perfetta divisibilità delle
grandezze economiche considerate. Si tratta di un’ipotesi conveniente che non altera la
sostanza del ragionamento economico. Nelle tabelle, invece, è giocoforza limitarsi ad indicare
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pochi specifici valori delle funzioni considerate, con lo scopo di illustrare qualche aspetto di
particolare rilevanza, senza per questo modificare l’ipotesi sottostante di continuità delle
relazioni in esame.
(Inserire qui Fig. 3.1 e Fig. 3.2)
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Tab. 3.1 – Produzione con il solo fattore variabile materie prime
M
Quantità altri input L ; K , T 
q
q
Q
M
M
Quantità altri input L ; K , T 
q
q
q
M
M
0
0
..
..
0
..
..
1
2
2
2
2
2
2
2
4
2
2
4
2
2
3
6
2
2
6
2
2
4
8
2
2
8
2
2
5
8
1,60
0
10
2
2
6
8
1,33
0
10
1,67
0
7
8
1,14
0
10
1,41
0
Utilizziamo ora ai fini della descrizione del processo produttivo due concetti derivati da
quello di funzione della produzione, e precisamente i concetti di funzione del prodotto medio
e funzione del prodotto marginale.
Il prodotto medio PME è definito come il rapporto tra la quantità complessiva di prodotto
ottenuto e la quantità complessiva dell’input variabile impiegata; la funzione del prodotto
medio PME M ; L ; K , T  è la relazione che descrive l’andamento del prodotto medio al
variare della quantità di input utilizzata, date le quantità di tutti gli altri fattori produttivi. In
termini analitici, si ha:
(3.6)
PME 
q
 PME M ; L ; K , T 
M
Ricorriamo qui, come già nei capitali 1 e 2, alla convenzione di utilizzare il medesimo
simbolo per indicare la variabile dipendente – il prodotto medio – e la funzione che ne
determina l’andamento. La forma della funzione del prodotto medio dipende naturalmente
dalla forma della funzione della produzione da cui deriva. La Tab. 3.1 offre un esempio di
calcolo nell’ipotesi, che stiamo considerando, di stretta proporzionalità tra quantità dell’input
materie prime e quantità di output. Il prodotto medio in questo caso rimane costante fino al
raggiungimento della capacità produttiva q e successivamente diminuisce asintoticamente
verso un valore nullo. Graficamente, il prodotto medio è rappresentato dall’inclinazione della
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linea che congiunge l’origine degli assi con successivi punti della funzione della produzione.
Consideriamo i punti C, A e B della Fig. 3.1. Il segmento che unisce l’origine degli assi con i
punti C ed A ha uguale inclinazione (misurata dal rapporto fra l’ordinata e l’ascissa del punto,
cioè dalla tangente trigonometrica dell’angolo formato dal segmento in esame con l’asse delle
ascisse), come l’hanno del resto tutti i punti del segmento OA, mentre il segmento che unisce
l’origine con il punto B ha inclinazione inferiore. Il prodotto medio è dunque costante fino ad
un impiego di una quantità di materie prime pari ad
M
e quindi diminuisce
progressivamente, come indicato nella Fig. 3.2 che offre una rappresentazione grafica della
funzione del prodotto medio. L’impaginazione della Fig. 3.2 sotto la Fig. 3.1 intende
sottolineare la natura derivata della funzione del prodotto medio dalla funzione del prodotto
totale.
Il prodotto marginale PMA esprime la variazione del prodotto totale in conseguenza di
una piccola variazione della quantità impiegata dell’input variabile; la funzione del prodotto
marginale PMAM ; L ; K , T  è la relazione che esprime l’andamento del prodotto marginale
al variare della quantità impiegata del fattore variabile, date le quantità utilizzate degli altri
input. In termini analitici:
(3.7)
PMA 
q
 PMAM ; L ; K , T 
M
dove M rappresenta una piccola variazione dell’input M e q la conseguente variazione
dell’output q. Il termine marginale, ampiamente utilizzato dagli economisti, sta ad indicare
l’effetto su una variabile dipendente – in questo caso la quantità prodotta - risultante da una
piccola variazione, in più o in meno, subita da una variabile indipendente partendo da un dato
valore di questa – nel nostro caso, la variazione della quantità dell’input materie prime.
Anche la forma della funzione del prodotto marginale dipende dalla forma della funzione
della produzione da cui deriva. Nella Tab. 3.1 è calcolato il prodotto marginale di successive
aggiunte di una unità di materie prime. La piccola variazione M della quantità dell’input è
qui fatta coincidere con una variazione unitaria di M. Così, passando da un impiego di 2 a
quello di 3 unità di materie prime il prodotto totale aumenta da 4 a 6 unità; la variazione del
prodotto q è dunque pari a 2 e quella delle materie prime M è invece, per quanto detto,
pari ad uno: il prodotto marginale della terza unità di materie prime è pertanto uguale a 2. Si
noti, con riferimento alla prima ipotesi circa la quantità date di tutti gli altri input, che il
prodotto marginale della quinta unità di materie prime è pari a zero, perché il prodotto totale
rimane invariato avendo raggiunto il limite di capacità di 8 unità. La funzione del prodotto
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marginale presenta pertanto una discontinuità nel momento in cui si raggiunge il limite di
capacità: passa dal valore 2 al valore zero.
Graficamente, il prodotto marginale è misurato dall’inclinazione del segmento che unisce
due punti “vicini” sulla funzione della produzione, come ad esempio i punti C ed A.
L’inclinazione di tale segmento è data dal rapporto tra la differenza delle corrispondenti
ordinate e la differenze delle corrispondenti ascisse: la prima differenza misura la variazione
dell’output, la seconda la variazione dell’input. Si capisce così immediatamente perché
prodotto medio e marginale sono uguali nel tratto crescente OA della funzione della
produzione, ed anche perché sono così diversi – il primo positivo, il secondo nullo – nel tratto
orizzontale AB della stessa funzione. Mentre il prodotto marginale è rappresentato nella Fig.
3.2 dalla curva discontinua DEMM in colore rosso, il prodotto medio è indicato dalla curva
DEF in colore blu, che presenta un punto d’angolo in E.
Svolgiamo, infine, con l’aiuto del disegno di Fig. 3.2 un primo ragionamento sulla
relazione tra prodotto marginale e prodotto medio. Quando il prodotto marginale è costante,
come nel tratto DE, prodotto marginale e medio sono uguali. Quando il prodotto marginale è
inferiore al prodotto medio, quest’ultimo diminuisce. Prendiamo, per spiegare questa
relazione, il riferimento a tutti noto della velocità di percorrenza di un’autovettura. Se la
velocità in successivi tratti autostradali di 10 km è costantemente di 130 km/h, la velocità
media di percorrenza su un arco, poniamo, di 100 km è anch’essa di 130 km/h. Se il
conducente si ferma a fare rifornimento, la velocità marginale, cioè il rapporto tra il percorso
aggiuntivo effettuato e il tempo di sosta, è pari a zero. E, d’altra parte, la velocità media, data
dal rapporto tra la distanza percorsa, che rimane invariata durante il periodo di sosta, e il
tempo trascorso, diminuisce progressivamente con l’allungarsi della sosta alla stazione di
servizio.
Lo studente disegni da solo, per esercizio, sulla base dei dati numerici contenuti nella
Tab. 3.1, le curve del prodotto medio e marginale nell’ipotesi che le quantità date degli altri
input siano L ; K , T  anziché L ; K , T  e metta a confronto la trasposizione della funzione
della produzione con quella delle funzioni del prodotto medio e marginale.
3.5 La produzione con un solo fattore variabile: b) il lavoro
Supponiamo ora che l’unico fattore variabile sia il lavoro e quindi che, oltre al capitale e alla
terra, sia data anche la quantità M di materie prime e semilavorati. Riscriviamo perciò la
funzione della produzione (3.3) come
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(3.8)
q  f L; M ; K , T 
e ripercorriamo la strada svolta nel precedente paragrafo per mettere in luce ora una più
complessa relazione tra quantità di input e quantità di output.
Mentre nel caso delle materie prime abbiamo potuto ipotizzare una relazione di stretta
proporzionalità tra impiego dell’input e quantità di prodotto, date le quantità di tutti gli altri
input, si presenta ora la possibilità che al crescere dell’impiego del fattore lavoro si verifichi
dapprima un aumento più che proporzionale della quantità di prodotto e successivamente un
aumento meno che proporzionale. La relazione tra la quantità impiegata di lavoro e output
potrebbe quindi presentarsi nella forma indicata nella fig. 3.3, ossia con il tratto iniziale OF
convesso e il successivo tratto FGH concavo.
(Inserire qui Fig. 3.3)
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La più complessa forma della funzione della produzione della Fig. 3.3 non deve trarre in
inganno; la curva OFGH è in realtà una semplice generalizzazione della funzione OAB della
Fig. 3.1. Al tratto lineare OA di quest’ultima corrisponde il tratto dapprima convesso OF e
quindi concavo FG della prima; entrambe presentano, d’altra parte, un tratto orizzontale, una
volta raggiunto il livello di output consentito dal miglior sfruttamento delle quantità date
M ; K , T  degli altri input. Indichiamo di nuovo tale livello con il simbolo
q , sottolineando
peraltro che il valore numerico di tale limite di capacità non ha ragione di coincidere con
quello considerato nel paragrafo precedenza, a meno che q non rappresenti l’output ottenibile
dall’impiego delle quantità M , L ; K , T  degli input.
La curva OF’G’H’ rappresenta una traslazione in aumento della funzione della
produzione OFGH. Si noti come la traslazione in aumento comporti ora, a differenza del caso
delle materie prime, un aumento della quantità di output ottenibile dalla medesima quantità di
lavoro impiegato. Questo significa che una medesima quantità di lavoro può essere utilizzata
in combinazione con diverse quantità degli altri fattori produttivi ottenendo risultati produttivi
tanto più elevati quanto maggiori sono le quantità degli altri fattori. Alternativamente, ciò
significa che la medesima quantità di output, ad esempio q  , può essere ottenuta dall’impiego
di L1 unità di lavoro unitamente alle quantità M ; K , T  degli altri input ovvero dalla minor
quantità di lavoro L2 in congiunzione con l’impiego delle maggior quantità M ; K , T  degli
altri input. Emerge in tal modo oltre all’aspetto della complementarietà che sussiste tra fattori
della produzione, anche la possibilità di sostituzione fra gli stessi. Il problema della scelta
della combinazione produttiva con la quale produrre il livello di output q  non è più un
problema di natura tecnologica, bensì di natura economica. Lo esamineremo più avanti.
Particolare interesse proprio rispetto al fattore produttivo lavoro assumono i concetti
derivati di prodotto medio e prodotto marginale, che abbiamo già definito in precedenza.
Ricordiamo che il prodotto medio PME è misurato dall’inclinazione del segmento che
congiunge l’origine degli assi con i vari punti della funzione della produzione. E’ facile
rendersi conto che, data la funzione della produzione generale tracciata nella Fig. 3.3, che
abbiamo ripetuto nella Fig. 3.4 per evitare confusione, che il prodotto medio cresce fino al
punto I, in cui la linea che congiunge l’origine degli assi con la funzione della produzione
diviene tangente a quest’ultima, e successivamente diminuisce gradualmente. La funzione del
prodotto medio del lavoro è disegnata nella Fig. 3.5.
Il prodotto marginale PMA è misurato dall’inclinazione del segmento che congiunge due
punti “vicini” sulla funzione della produzione. E’ agevole rendersi conto che, data la non
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linearità della funzione della produzione, l’inclinazione di tale segmento dipende dal modo in
cui vengono scelti due punti fra loro vicini. Per evitare possibili incertezze, misuriamo il
prodotto marginale nell’intorno di ciascuno dei punti della funzione della produzione
attraverso l’inclinazione della linea tangente in quei punti. Nella Fig. 3.4 sono tracciate a
titolo esemplificativo alcune tangenti; si noti come l’inclinazione massima delle linee tangenti
si verifica nel punto di flesso H della funzione della produzione: a sinistra di tale punto il
prodotto marginale è crescente, a destra decrescente. Si noti ancora che nel punto I il prodotto
marginale coincide con il prodotto medio; che a sinistra di tale punto il prodotto marginale è
maggiore di quello medio e viceversa a destra dello stesso punto I. Questo significa che la
curva del prodotto marginale interseca la curva del prodotto medio, come indicato nella Fig.
3.5, nel punto in cui questo è massimo, mentre il prodotto marginale raggiunge il suo
massimo a sinistra di tale punto.
(Inserire Fig. 3.4 e Fig. 3.5)
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La spiegazione dell’andamento ora indicato del prodotto medio e marginale va ricercata
nella iniziale possibilità di una specializzazione del fattore lavoro e nel successivo subentrare
di effetti frenanti dovuti alla ipotesi di quantità date degli altri input. Consideriamo di nuovo,
per ragionare in concreto, il caso della pasticceria e fissiamo l’attenzione sulla dinamica del
prodotto marginale. Inizialmente, al crescere del numero delle ore di lavoro giornaliere – ad
esempio da una a due – il pasticcere è in grado di distribuire meglio il suo lavoro tra le varie
operazioni richieste per la produzione delle crostate. Ne consegue che la produttività del suo
lavoro è crescente. Questo aspetto positivo tende tuttavia ad esaurirsi e quindi ad invertirsi nel
momento in cui cominciano a scarseggiare le materie prime, oppure se il pasticcere deve
fermarsi perché deve attendere che il forno finisca di cuocere le crostate precedentemente
preparate, prima di poter infornare le nuove. L’aspetto connesso alle opportunità di
specializzazione del lavoro diviene ancor più evidente se si pensa all’ipotesi che il pasticcere
assuma uno o più collaboratori. Un primo collaboratore potrebbe permettere un sensibile
aumento della produttività del lavoro perché consentirebbe a ciascuno di specializzarsi in
specifiche parti del processo produttivo, acquistando in tal modo una particolare abilità e
destrezza. Ma l’assunzione di un secondo lavoratore potrebbe non dare uguali risultati, se ad
esempio il locale non fosse sufficientemente grande da consentire a tre lavoratori di muoversi
agevolmente, senza intralciarsi l’un l’altro o il forno non limitasse il numero delle crostate
comunque ottenibili.
Il fenomeno ora delineato si manifesta in modo particolarmente rilevante nella
produzione agricola, ma è presente anche in quella industriale. Con un appezzamento di
terreno di quantità e fertilità date, al crescere del numero dei lavoratori agricoli il prodotto
aumenta, ma meno che proporzionalmente. Ugualmente nell’industria, al crescere del numero
dei dipendenti è possibile specializzare le mansioni svolte da ognuno; ad un certo punto
tuttavia tale possibilità si esaurisce: accrescendo ulteriormente il numero degli addetti alla
linea di montaggio, si ottengono aumenti via via meno significativi della produzione
complessiva, perché il fattore limitante è rappresentato dalla capacità della linea stessa.
Possiamo a questo punto enunciare un importante risultato di validità generale.
Aumentando la quantità di un fattore variabile impiegata in combinazione con quantità date di
tutti gli altri fattori produttivi si raggiunge un punto in cui il prodotto marginale diviene
decrescente. Questo principio della decrescenza del prodotto marginale trova, come detto,
fondamento nell’ipotesi che la quantità degli altri input sia data ed è rigorosamente
condizionato nella sua validità da tale ipotesi; è infatti intuitivo che, avvicinandosi al limite di
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capacità produttiva determinata dalla disponibilità degli input fissi, il prodotto aggiuntivo
realizzabile da una combinazione di fattori in cui uno soltanto aumenta vada più o meno
rapidamente scemando.
Si noti che il principio enunciato è rispettato non soltanto dall’andamento del prodotto
marginale del lavoro così come è tracciato nella Fig. 3.5, ma anche dall’andamento del
prodotto marginale delle materie prime indicato nella Fig. 3.2. Dopo un primo tratto in cui il
prodotto marginale delle materie prime è costante, esso diminuisce infatti bruscamente da un
valore positivo ad un valore nullo, al di sotto del quale non può scendere ulteriormente. Si
noti ancora come tale flessione del prodotto marginale delle materie prime si verifichi proprio
in concomitanza con il raggiungimento del limite di capacità produttiva determinato dalla
disponibilità degli altri input.
3.6 La produzione con due o più fattori variabili
Approfondiamo ora gli aspetti della sostituibilità tra fattori produttivi supponendo che due o
più input possano essere variati congiuntamente. Seguendo lo schema analitico che ci siamo
dati con la funzione della produzione (3.3), consideriamo che l’impresa possa variare –
essendo date le quantità di capitale K e di terra T - sia la quantità di materie prime, che la
quantità di lavoro. Chiamiamo isoquanto della produzione l’insieme delle combinazione dei
due fattori variabili con le quali è possibile produrre una data quantità di output. Poniamo
convenzionalmente q  1 e cerchiamo di dare una rappresentazione grafica della relazione
(3.9)
1  F M , L; K , T 
Si noti che tale relazione contiene due grandezze incognite: M ed L; e definisce quindi,
ancorché in modo implicito, una relazione funzionale tra di esse. Ai fini del ragionamento che
dobbiamo svolgere, non ha importanza quale di queste due grandezze debba considerarsi
come quella indipendente. Scegliamo quindi di misurare sull’asse delle ascisse la quantità
delle materie prime M e sull’asse delle ordinate la quantità di lavoro L. La spezzata ad angolo
retto A1 B1C1 nella Fig. 3.6 rappresenta l’isoquanto unitario, e cioè l’insieme delle
combinazioni di materie prime e di lavoro con le quali è possibile produrre una unità di
prodotto.
La forma di tale isoquanto riflette l’ipotesi già fatta di una stretta proporzionalità tra
materie prime impiegate ed output ottenuto e quindi di assenza di possibilità di sostituzione
tra materie prime e lavoro. La semiretta OD uscente dall’origine indica il rapporto, fissato
dalla tecnologia, in cui debbono essere combinate materie prime e lavoro. Se le quantità
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disponibili sono M 1 ed L1 , come indicato dal punto B1 nella fig. 3.6, il livello di produzione
è proprio quello unitario. Se le quantità disponibili sono invece M 2 ed L1 , vi è un’eccedenza
di materie prime rispetto al lavoro: la quantità di materie prime pari alla differenza tra M 2 e
M 1 rimane inutilizzata. Se, al contrario, le quantità disponibili sono M 1 ed L2 , rimane
inutilizzata una parte della disponibilità di lavoro. Per poter utilizzare la quantità eccedente di
materie prime, nel primo caso, e di lavoro, nel secondo, occorre aumentare in modo adeguato
la disponibilità dell’altro input. Con la combinazione di fattori M 2 , L2   2M ,2 L  si passa
infatti ad un livello di produzione q  2 , che è indicato nella Fig. 3.6 da un nuovo isoquanto
della produzione spostato verso l’alto rispetto al primo.
(Inserire qui Fig. 3.6)
Isoquanti via via più lontani dall’origine rappresentano combinazioni di input che
consentono la produzione di quantità via via più elevate di output: ad un aumento degli input
nel rapporto indicato dalla semiretta OD fa riscontro infatti un corrispondente aumento della
quantità di prodotto. Possiamo perciò pensare al piano M , L  come se fosse fittamente
popolato di isoquanti, solo tre dei quali sono espressamente tracciati nella Fig. 3.6. E’ d’altra
parte chiaro che una limitata disponibilità di capitale e terra fisserebbe un tetto superiore alla
quantità di prodotto, anche se dovessimo continuare ad aumentare materie e lavoro.
Poniamoci ora in una prospettiva di lungo periodo e consideriamo le possibilità di
utilizzazione di lavoro e capitale, supponendo di poter adeguare senza vincoli le disponibilità
di materie prime e di terra. Gli isoquanti della produzione, che sono ora definiti nel piano
delle variabili capitale e lavoro, corrispondono alle combinazioni di K ed L che soddisfano la
relazione
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(3.10)
1  f K , L;,
in cui i puntini all’interno della funzione “f” stanno ad indicare gli altri argomenti (M e T),
che sono per ipotesi irrilevanti ai fini del ragionamento da svolgere. Vediamo ora come si può
rappresentare mediante lo strumento degli isoquanti della produzione l’idea che è possibile
sostituire capitale a lavoro, e viceversa.
Supponiamo che la tecnologia offra tre diversi modi, o tecniche, per produrre crostate. La
prima è una tecnica decisamente artigianale, in cui il pasticcere fa tutto da solo e si serve
unicamente di un forno per cuocere le crostate. Una seconda tecnica consente al pasticcere di
utilizzare, oltre al forno, anche una macchina per impastare e ne riduce corrispondentemente il
lavoro. La terza tecnica, infine, è completamente automatizzata: il pasticcere si limita a
predisporre gli ingredienti nella quantità desiderate e ad inserirli in una macchina, un po’
fantascientifica, che impasta, fa le crostate, le informa e le sforna pronte per la vendita al
pubblico. Dato, ma non concesso, che la qualità del prodotto sia la medesima con tutti e tre i
metodi produttivi considerati, le tre tecniche rappresentano gradi crescenti di intensità di
capitale, cioè valori crescenti del rapporto tra quantità di capitale impiegato (macchinario) e
lavoro. Rappresentiamo queste tecniche attraverso le semirette OD1 , OD2 e OD3 nella Fig.
3.7. Siano B1 , B2 e B 3 le combinazioni dei fattori che consentono di ottenere un output
unitario (ad esempio, 100 crostate al giorno). I punti dei segmenti B1 B2 e B2 B3 rappresentano
combinazioni di input realizzabili attraverso la combinazione di tecniche con le quali è pur
sempre possibile ottenere un livello unitario di output. La spezzata AB1 B2 B3 C rappresenta
pertanto l’isoquanto unitario della produzione. Si noti come la conoscenza di un numero
anche limitato di tecniche consenta un’ampia gamma di combinazioni di fattori, graficamente
tutte quelle che sono comprese tra le due semirette OD1 e OD2 , che delineano in un certo
senso la zona di sostituibilità tra fattori. Al di fuori di questa zona, invece la quantità
disponibile di uno dei due fattori diviene eccessiva rispetto a quella dell’altro e si forma una
eccedenza di un input.
Aumentando il numero delle distinte tecniche disponibili i segmenti come B1 B2
diventano via via più piccoli; la spezzata AB1 B2 B3 C acquista un maggior numero di spigoli e
diventa sempre più arcuata, tanto che al limite può essere approssimata da una curva come la
AB1 B2 B3 C  che descrive una situazione in cui sono disponibili infinite tecniche alternative di
produzione, che si distinguono l’una dall’altra – seppure solo marginalmente – per la diversa
combinazione tra capitale e lavoro.
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(Inserire Fig. 3.7)
L’ipotesi di un continuum di tecniche - che si traduce in un isoquanto della produzione
liscio, cioè privo di spigoli - non intende essere una rappresentazione fedele della realtà
tecnologica, ma più semplicemente una conveniente finzione analitica. Con questa ipotesi, le
diverse possibili combinazioni tra fattori rappresentano altrettante tecniche produttive
piuttosto che distinte combinazioni tra un numero limitato di tecniche.
Definiamo ora, con riferimento all’ipotesi di isoquanti della produzione lisci, la nozione
di saggio marginale tecnico di sostituzione SMTS. Consideriamo le combinazioni di fattori
corrispondenti ai punti A e B, fra di loro “vicini”, che appartengono al medesimo isoquanto
unitario della Fig. 3.8. Passando dal punto A al punto B lo stesso livello di output viene
prodotto con una minore quantità di lavoro, compensata peraltro dall’impiego di una
maggiore quantità di capitale. Se indichiamo allora con L e K le variazioni nelle quantità
impiegate dei due fattori, il saggio marginale tecnico di sostituzione tra capitale e lavoro
risulta definito dall’inclinazione del segmento che unisce i punti A e B, e cioè dal rapporto tra
la variazione della quantità di lavoro e la variazione della quantità di capitale lungo
l’isoquanto considerato:
(3.11)
SMTS K , L  
L
K
q 1
Prima di tutto un chiarimento sulla notazione usata nella (3.11). L’indicazione in basso dopo
la barretta verticale sta a significare che il rapporto
L
viene calcolato con riferimento ai
K
punti dell’isoquanto q  1 ; l’indicazione delle variabili K ed L come argomenti del saggio
marginale di sostituzione vuole a sua volta ricordare che tale grandezza non assume in
generale valore costante, ma dipende dal punto dell’isoquanto che viene di volta in volta
preso in considerazione. Osserviamo inoltre che, per evitare di nuovo l’ambiguità insita
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nell’aggettivo “vicini”, è conveniente misurare il saggio marginale tecnico di sostituzione
nell’intorno di ciascuno dei punti dell’isoquanto, ad esempio nel punto A, attraverso
l’inclinazione della linea tangente in tale punto, come indicato dalla linea tratteggiata nella
Fig. 3.8.
(Inserire Fig. 3.8)
Fissiamo l’attenzione su due proprietà del saggio marginale tecnico di sostituzione. In
primo luogo, il SMTS esprime di quanto si può diminuire la quantità di lavoro impiegato se si
aumenta di una piccola quantità l’utilizzazione del capitale, o viceversa. Poiché i vari punti
dell’isoquanto individuano combinazioni di fattori in cui all’aumentare dell’uno corrisponde
la diminuzione dell’altro, il saggio marginale tecnico di sostituzione è una grandezza
negativa: se aumenta la quantità di capitale impiegato si riduce quella di lavoro. Se, ad
esempio, SMTS  2 , ciò significa che aumentando la quantità di capitale di una unità è
possibile ottenere la medesima quantità di output riducendo l’uso del lavoro di due unità.
In secondo luogo, come si arguisce facilmente dal disegno, la pendenza della linea
tangente si modifica passando da un punto all’altro dell’isoquanto. Percorrendo l’isoquanto da
sinistra verso destra, si osserva che la tangente, che mantiene sempre inclinazione negativa,
diviene via via più piatta. Se vogliamo esprimere questa circostanza usando la nozione di
valore assoluto, piuttosto che di valore relativo, possiamo dire che il saggio marginale tecnico
di sostituzione diminuisce in valore assoluto man mano che si passa da combinazioni di fattori
con molto lavoro e poco capitale a combinazioni con molto capitale e poco lavoro.
Vediamone le ragioni economiche.
Se, partendo da una data combinazione di fattori, variamo di K la quantità di capitale
impiegato, otteniamo una variazione dell’output q che è pari al prodotto della variazione del
capitale moltiplicato per la quantità aggiuntiva di output ottenibile da ogni piccolo aumento
del capitale, moltiplicato cioè per il prodotto marginale dello stesso capitale:
(3.12)
q  PMAK  K
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Il modo del tutto analogo possiamo esprimere la variazione dell’output conseguente ad una
variazione della quantità impiegata di lavoro:
(3.13)
q  PMAL  L
Osserviamo ora che lungo un dato isoquanto la quantità del prodotto rimane per definizione
costante; ne segue che la somma delle due variazioni definite dalle relazioni (3.12) e (3.13)
deve essere nulla. Imponendo tale condizione, si ottiene:
(3.14)
PMAK  K  PMAL  L  0
da cui si ricava
(3.15)
SMTS  
PMAK
L

K
PMAL
A parole: il saggio marginale tecnico di sostituzione tra capitale e lavoro in valore assoluto è
uguale al rapporto fra le rispettive produttività marginali. La decrescenza del SMTS in valore
assoluto si spiega allora sulla base del principio, già enunciato, della diminuzione del prodotto
marginale di un fattore utilizzato in combinazione con quantità date degli altri fattori.
All’aumentare infatti della quantità di capitale impiegato diminuisce il prodotto marginale di
questo, mentre aumenta quello del lavoro, la cui quantità impiegata si riduce invece rispetto a
quella del capitale percorrendo l’isoquanto da sinistra verso destra.
3.7. La produzione nell’ipotesi che tutti i fattori siano variabili: il concetto di rendimenti di
scala
Per completare la descrizione del processo produttivo espresso dalla funzione della
produzione (3.3) consideriamo ora la relazione tra quantità prodotta ed input produttivi
quando si suppone che tutti i fattori possano variare. Come sempre, cerchiamo prima di tutto
di andare alla sostanza del problema. Nel nostro, come del resto negli altri sistemi economici,
la produzione di beni e servizi viene effettuata da imprese di dimensioni molto diverse.
Alcune produzioni vengono svolte in grandi complessi industriali e di servizio, altre in
imprese di piccole e medie dimensioni; colossi produttivi operano nel medesimo settore
produttivo a fianco di imprese di dimensioni più piccole. Si pensi al caso delle grandi banche
che operano sull’intero territorio nazionale e ai piccoli istituti di credito locali; ai supermercati
e ai piccoli negozi di quartiere; alle produzioni di confezioni in serie e ai capi firmati e di alta
moda; alle stazioni di servizio sulle strade di grande comunicazione e al piccolo distributore
all’angolo della strada; e gli esempi potrebbero naturalmente continuare. Nel sistema
produttivo italiano prevale la dimensione medio-piccola, in qualche caso quella piccolissima.
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Vantaggi e svantaggi di questa struttura sono variamente sottolineati da commentatori ed
esperti. I termini del dibattito ruotano attorno a due concetti, quelli di economie di scale e di
flessibilità dell’organizzazione produttiva, sui quali dobbiamo ora fissare l’attenzione.
Il profilo della tecnologia che intendiamo esplorare riguarda la relazione tra quantità
prodotta e scala della produzione, termine con il quale facciamo riferimento alla dimensione
dell’attività produttiva svolta da una determinata impresa. In concreto, variazioni della scala
produttiva e cambiamenti nella combinazione dei fattori sono processi che si svolgono
contestualmente. Per isolare l’effetto di scala, dobbiamo ragionare prescindendo dalla
possibilità di concomitanti variazioni nella combinazione degli input. Fissiamo quindi la
combinazione degli input prendendo, ad esempio, come riferimento il punto A nella Fig. 3.9 e
consideriamo tutti i punti della semiretta OAA uscente dall’origine e passante per il punto A.
Lungo tale semiretta la combinazione dei fattori non cambia; cambia unicamente la scala di
impiego degli input, le cui quantità aumentano, o diminuiscono, nella stessa proporzione.
Variazioni della produzione collegate a cambiamenti degli input lungo la semiretta OAA
rappresentano perciò variazioni attribuibili al solo effetto di scala. Il ragionamento fatto con
riferimento alla combinazione dei fattori rappresentata dal punto A può essere naturalmente
ripetuto per una qualsiasi altra combinazione, come ad esempio quella indicata dai punti B o
C e dalle corrispondenti semirette OBB  e OCC  . Supporremo ora, per semplicità di analisi,
che il comportamento di scala della funzione della produzione sia il medesimo lungo qualsiasi
semiretta uscente dall’origine, sia cioè indipendente dalla particolare combinazione di fattori
produttivi presa in considerazione.
Ciò premesso, indichiamo con il termine di rendimenti di scala la relazione che intercorre
tra aumento delle quantità impiegate di tutti gli input e l’output conseguito. In termini
analitici, sia
(1.16)
q 0  F M 0 , L0 , K 0 , T0 
Indichiamo con q1 l’output ottenibile attraverso l’impiego di  volte le quantità degli input
precedentemente utilizzati:
(1.17)
q1  F M 0 , L0 , K 0 , T0 
Confrontiamo ora q1 con q0 . Possono verificarsi tre casi, e precisamente:
(1.18)
 
 
q1 q 0
 
 
Queste situazioni definiscono rispettivamente le nozioni di rendimenti di scala crescenti,
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costanti e decrescenti.
Il senso intuitivo di tali nozioni è immediato: si hanno rendimenti di scala crescenti
quando al crescere delle quantità impiegate degli input l’output cresce più che
proporzionalmente. Ciò significa che la tecnologia favorisce la realizzazione di impianti di
dimensioni sempre maggiori, in quanto il fabbisogno complessivo di input per unità di
prodotto diminuisce al crescere della scala produttiva. Si hanno rendimenti costanti di scala
quando, al crescere delle quantità impiegate degli input, l’output aumenta in proporzione, con
l’implicazione che non vi sono guadagni di efficienza dal punto di vista tecnologico ottenibili
dall’aumento delle dimensioni. Si hanno, infine, rendimenti decrescenti di scala quando
l’output cresce meno che proporzionalmente delle quantità degli input, con l’implicazione che
la piccola dimensione risulta preferibile – sempre da un punto di vista meramente tecnologico
– alla grande.
La natura dei rendimenti di scala può essere rappresentata graficamente attraverso la
distanza degli isoquanti che rappresentano livelli progressivamente più elevati di output, ad
esempio i livelli q  1 , q  2 , e q  3 . Nell’ipotesi di rendimenti costanti di scala lo
spostamento degli isoquanti avviene in forma parallela; nell’ipotesi invece di rendimenti
crescenti di scala, gli isoquanti risultano via via più ravvicinati, perché per raddoppiare o
triplicare la quantità del prodotto le quantità dei fattori vanno moltiplicate meno di due o tre
volte; l’opposto si verifica naturalmente nell’ipotesi dei rendimenti decrescenti di scala. I tre
grafici di cui si compone la Fig. 3.10 traducono in termini visivi queste tre diverse situazioni.
(inserire Fig. 3.9)
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Un’avvertenza, infine, per evitare possibili confusioni. Abbiamo in precedenza enunciato
il principio della decrescenza del prodotto marginale. Tale principio viene spesso formulato in
termini di rendimento decrescente al crescere della quantità impiegata di un singolo fattore
produttivo, utilizzato in combinazione con quantità date di tutti gli altri. Si tratta chiaramente
di un principio ben diverso da quello, che stiamo ora esaminando, dei rendimenti di scala,
principio quest’ultimo che si applica a situazioni in cui variano nella medesima proporzione le
quantità impiegate di tutti i fattori produttivi. Rendimenti decrescenti ad un singolo fattore
produttivo non vanno dunque confusi con rendimenti decrescenti di scala.
E’ chiaro che i rendimenti di scala svolgono un ruolo decisivo nel configurare la struttura
del sistema produttivo di un’economia. Rendimenti di scala crescenti sono associati a grandi
dimensioni delle imprese e, quindi, a mercati caratterizzati dalla presenza di poche imprese
dotate di un forte potere di incidere sui prezzi. Rendimenti di scala costanti, se non addirittura
decrescenti, favoriscono le piccole dimensioni e quindi anche il formarsi di mercati
tendenzialmente concorrenziali. Il dibattito sulla presenza e la pervasività di situazioni di
rendimenti crescenti di scala è sempre molto attivo e periodicamente alimentato dai risultati di
nuove indagini empiriche; si è recentemente rinnovato in seguito alla rivoluzione informatica
e allo sviluppo della new economy. La questione merita per la sua rilevanza qualche
considerazione anche in questa sede, mentre per i molti e necessari approfondimenti si rinvia
agli specifici corsi di economia industriale, dei servizi e degli intermediari finanziari.
Cominciamo con l’esaminare la tesi secondo la quale la produzione, in particolare
industriale, sarebbe caratterizzata da rendimenti crescenti di scala, con la conseguente
tendenza verso dimensioni sempre maggiori delle imprese e degli impianti. Secondo alcuni
studiosi, la fonte dei rendimenti crescenti andrebbe individuata nella presenza di indivisibilità
degli impianti e dei macchinari. Per valutare questa tesi dobbiamo tenere presente che
l’ipotesi di divisibilità senza limite di tutti gli input, propria dalla teoria, si scontra con una
realtà della struttura produttiva, in cui si manifestano discontinuità nelle variazioni degli input
e nella quale l’aumento delle dimensioni procede per salti piuttosto che gradualmente. Vanno
allora tenuti distinti due aspetti connessi all’ampliamento degli impianti: il primo riguarda il
grado di efficienza collegato al progressivo sfruttamento di un dato impianto, che comporta
un salto dimensionale rispetto a quello precedentemente utilizzato dall’impresa; il secondo
concerne il grado di efficienza del nuovo impianto, ad un livello normale di utilizzazione,
rispetto a quelli di minore dimensione. L’indivisibilità dell’impianto è indiscutibilmente
rilevante con riferimento al primo aspetto; ma cruciale ai fini della verifica della proposizione
che l’efficienza produttiva aumenta con la dimensione degli impianti, è il secondo – non il
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primo – aspetto del problema. E da questo punto di vista la tesi dell’indivisibilità non sembra
in grado di offrire elementi convincenti a supporto di quanto sostenuto.
Altri studiosi, sulla base di considerazioni di ordine ingegneristico, sottolineano la
presenza di aspetti della tecnologia che comportano la presenza di rendimenti crescenti di
scala. La portata, ad esempio, di un oleodotto aumenta con la superficie della sezione della
condotta, che dipende a sua volta dal quadrato del raggio; ma la quantità di materiale
necessario per la costruzione della condotta aumenta con la circonferenza della sezione, che
dipende dal raggio e non dal suo quadrato; d’altra parte i lavori di scavo e posa in opera non
cambiano in modo apprezzabile con il diametro della condotta. Si conclude che sussistono
rendimenti crescenti all’aumentare della dimensione dell’oleodotto. Una situazione analoga si
verifica nella raffinazione del petrolio, in cui la capacità produttiva dipende dal volume e il
materiale impiegato dalla superficie dell’impianto di cracking. Pensando all’impianto di
raffinazione come ad una grande sfera, risulta quindi che la produzione (proporzionale al
volume della sfera) aumenta con il cubo del raggio, mentre la quantità di capitale
(proporzionale alla superficie della sfera) cresce con il quadrato del raggio. Della stessa natura
è il guadagno di efficienza collegato all’aumento delle dimensioni delle petroliere, delle navi
per il trasporto alla rinfusa e delle portacontainer. Queste considerazioni colgono
indubbiamente aspetti puntuali e rilevanti della tecnologia nel campo della chimica di base e
della petrolchimica, nonché nel settore del trasporto marittimo. Occorre peraltro osservare, a
parziale controbilanciamento della tesi in esame, che quando si allarga il diametro di una
condotta è necessario aumentarne anche lo spessore, per sostenere la pressione del maggior
flusso di petrolio immesso nell’oleodotto. In definitiva, il principio del rapporto tra portata e
diametro, ovvero tra volume e superficie, può essere effettivamente fonte di rendimenti
crescenti di scala, ma limitatamente ai settori precedentemente indicati.
Altri studiosi ancora hanno ritenuto di poter inferire la presenza di rendimenti crescenti di
scala dalla constatazione di una tendenza verso un aumento della concentrazione industriale,
che consiste nella crescita in molti settori dell’economia della quota della produzione
effettuata da un numero limitato di imprese, ad esempio le quattro maggiori imprese. Le
spinte verso la concentrazione industriale hanno origini diverse; oltre alle eventuali economie
di scala, giocano un ruolo determinante i miglioramenti delle conoscenze tecnologiche ed
organizzative e le politiche delle imprese, volte ad esercitare e a mantenere una posizione di
potere di mercato. Prescindendo dalle questioni attinenti l’esercizio del potere di mercato,
questioni che verranno esaminate più avanti nel corso, va qui osservato che, per rigore di
analisi, il discorso sulla presenza di economie di scala deve essere separato da quello del
D. Tosato, Introduzione all’Economia politica, cap. 3 – Appunti per gli studenti – a. a. 2009-2010
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cambiamento delle conoscenze e va quindi svolto supponendo che le conoscenze tecnologiche
ed organizzative rimangano immutate. Quanto poi alla circostanza che lo sviluppo delle
conoscenze conduca inesorabilmente ad un aumento delle dimensioni efficienti d’impianto e
d’impresa, vale la pena fare una riflessione. La meccanizzazione della produzione, soprattutto
nell’industria, ha consentito dall’avvio della rivoluzione industriale guadagni spettacolari di
efficienza e ha fatto pensare che tale processo, in cui miglioramento delle conoscenze ed
intensificazione del rapporto tra capitale e lavoro hanno proceduto insieme, dovesse
continuare senza limite ed estendersi a settori sempre più ampi dell’economia. La rivoluzione
informatica e delle telecomunicazioni ha messo in discussione questa tesi. La tendenza verso
la crescita esasperata delle dimensioni di impianto sembra essersi arrestata; la piccola e media
impresa è stata rivalutata come dimensione efficiente in senso assoluto del processo
produttivo. Il discorso si intreccia a questo punto con quello della flessibilità organizzativa,
che verrà svolto fra breve.
Passiamo ora a considerare l’ipotesi di rendimenti decrescenti di scala, storicamente
associati alla produzione agricola. In realtà la presenza di rendimenti decrescenti in tale
settore dipende essenzialmente dalla limitatezza del fattore produttivo terra e del grado di
fertilità del suolo. Ciò significa che l’esperimento concettuale, che consiste nell’aumentare in
modo proporzionale le quantità impiegate di tutti i fattori ed esaminarne le conseguenze sulla
quantità prodotta, non può essere svolto in modo appropriato con riferimento alle produzioni
agricole, perché il fattore terra e la sua fertilità non possono essere accresciute in proporzione.
E’ vero che capitale, nella forma di lavori di bonifica e di miglioramento fondiario, e
fertilizzanti sono in grado in qualche caso di aumentare la quantità di terra e di accrescerne la
fertilità, ma ciò non è la medesima cosa che aumentare proporzionalmente tutti i fattori.
Miglioramenti fondiari e un più esteso uso di fertilizzanti rappresentano cambiamenti nella
combinazione dei fattori, cambiamenti con i quali in sostanza si sostituisce capitale e
semilavorati alla terra. Il caso delle produzioni agricole mette pertanto in luce come l’ipotesi
di rendimenti decrescenti vada fondamentalmente ricondotta alla presenza di un fattore
produttivo non aumentabile.
Il caso dei rendimenti costanti di scala, con le possibili eccezioni menzionate in
precedenza, sembra dunque emergere come la situazione tipica della produzione, date le
conoscenze tecnologiche ed organizzative. Si osserva, a sostegno di tale ipotesi, che non si
vede per quale ragione non si possa mantenere il medesimo grado di efficienza produttiva
duplicando, ad esempio, tutte le risorse produttive impiegate. Raddoppiando le quantità di
tutti gli input si possono, infatti, costruire e gestire due impianti perfettamente uguali; non
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sarebbe pertanto efficiente una tecnologia che non offrisse almeno la medesima opportunità.
Due osservazioni vanno qui svolte. La prima, in linea con quanto detto in precedenza con
riferimento alle produzioni agricole, riguarda la possibilità di duplicare o triplicare tutti gli
input. L’argomentazione a sostegno dell’ipotesi di rendimenti costanti si fonda sulla
aumentabilità di tutti gli input, nessuno escluso. Ma c’è un input che è difficilmente
aumentabile, e questo è la capacità direzionale dell’impresa. Con il crescere delle dimensioni
d’impresa, si allarga e si articola per mansioni e specifiche responsabilità anche la funzione di
direzione aziendale; ma il vertice che ha la responsabilità ultima delle decisioni - sia esso
costituito da un’unica persona, da una struttura collegiale, o da un consiglio di
amministrazione - rimane necessariamente uno, pena lo stallo o la presenza di decisioni
contradditorie. Rendimenti dapprima crescenti e quindi decrescenti potrebbero essere perciò il
risultato dell’indivisibilità, da un lato, del lavoro direzionale e della sua non duplicabilità,
dall’altro.
La seconda osservazione riguarda l’eventualità che determinate tecniche siano disponibili
solo a certe dimensioni di impianto, in concreto che livelli particolarmente spinti di
meccanizzazione e di automazione siano attuabili solo con produzioni molto vaste. Questo ci
riporta alla tesi dell’indivisibilità, che abbiamo già esaminato.
Abbiamo accennato in precedenza al fatto che, mentre il periodo tra le due guerre e i
venticinque anni successivi alla conclusione della seconda guerra mondiale hanno registrato
una forte tendenza verso la crescita delle dimensioni aziendali e del grado di integrazione
verticale, dopo la crisi del petrolio è prevalsa una tendenza in senso opposto.
L’intensificazione della concorrenza su scala globale e il crescere dell'impegno di
investimento, in particolare per la ricerca e lo sviluppo, hanno imposto alle imprese di
concentrare le risorse umane e finanziarie nelle attività principali (core business) e di ricorrere
sempre più estesamente alla fornitura di beni e servizi dall’esterno (outsourcing). Il
conseguente decentramento produttivo ha favorito la nascita di piccole e medie imprese
altamente specializzate, che operano su commissione di una o poche grandi imprese.
Il mantenimento di un elevato grado di competitività ha imposto alle impresse
un’accresciuta capacità di adattamento al mutare del contesto esterno e del quadro
competitivo di settore. E’ risultata premiata la rapidità delle decisioni e la flessibilità della
struttura organizzativa, la capacità di personalizzare il prodotto in risposta alle specifiche
esigenze della clientela e di cogliere le opportunità di profitto offerte da piccole nicchie di
mercato. La piccola e media impresa ha dato prova di maggiore flessibilità rispetto alla grande
che, con le sue strutture gerarchiche e le sue regole decisionali, richiede tempi lunghi perché
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l’informazione salga dal basso e la decisione, assunta al vertice, venga trasmessa alle unità
operative. Si è conseguentemente modificato quel bilanciamento tra economie di scala e
flessibilità organizzativa e decisionale, che in passato aveva favorito la crescita delle
dimensioni, sia per ampliamenti orizzontali, che per integrazione verticale. Rimangono
naturalmente settori in cui le economie di scala impongono comunque grandi dimensioni delle
unità produttive e dei complessi aziendali (industrie di base, produzione di autovetture e di
elettrodomestici, radio e TV), ma in particolare nel settore delle produzioni ad alta tecnologia
– le industrie cosiddette science based –prevale decisamente la dimensione piccola e media.
Un discorso a parte merita la cosiddetta industria tradizionale del nostro paese, che
raggruppa i settori delle confezioni, del mobilio e dell’arredamento, delle pelli e del cuoio,
della ceramica, dell’oreficeria, ed altri ancora. In questi settori produttivi operano imprese di
dimensioni piccole, talora molto piccole, ma all’interno di una struttura territoriale – il
distretto industriale - che offre possibilità di intensa collaborazione tra produttori specializzati
nelle diverse fasi del ciclo produttivo. Nei distretti industriali si è progressivamente sviluppata
un’intera filiera produttiva, che va dalla produzione di macchine altamente specializzate alla
fornitura di parti e semilavorati, dallo sviluppo delle conoscenze e del know how alla fornitura
dei servizi di manutenzione, spedizione, assicurazione, finanza, marketing. In sostanza, è
come se una grande industria verticalmente integrata si fosse sviluppata sul territorio, ma
anziché nella forma tradizionale di un unico soggetto proprietario, in quella nuova di tanti
piccoli
imprenditori,
orgogliosi
della
propria
autonomia,
attenti
all’efficienza
e
all’economicità delle proprie attività, legati da rapporti di fiducia e di collaborazione
all’interno di una struttura fortemente specializzata. Con i termini che vedremo nel prossimo
capitolo sui costi di produzione, possiamo dire che alle economie di scala interne alla singola
impresa si sono sostituite le economie di scala esterne alle singole imprese, ma interne al
distretto industriale.
Si rinnova in continuazione il dibattito sulla capacità competitiva di questo sistema di
piccola industria. Si sottolineano i limiti di una struttura produttiva nata e sviluppatasi grazie
alle peculiari capacità del fondatore e rigorosamente controllata dalla famiglia, che rifugge
dall’aprirsi all’apporto di capitali esterni, indispensabili per il consolidamento dell’attività e
per la sua crescita dimensionale. Si guarda con apprensione alla crescente competizione,
proprio nei settori delle produzioni tradizionali, che viene dai paesi in via di sviluppo, che
hanno dalla loro un costo del lavoro molto più basso. Tutte queste considerazioni non possono
dirsi prive di fondamento, eppure i distretti industriali, con la loro organizzazione produttiva
che rimane altamente frammentata, hanno finora dato prova di saper mantenere un elevato
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grado di competitività. Forse si sottovaluta la flessibilità di tale struttura, intesa nel senso di
capacità di adeguarsi al mercato e coglierne le opportunità in termini di qualità del prodotto e
di organizzazione produttiva. Due sviluppi da questo punto di vista appaiono particolarmente
significativi: il decentramento produttivo verso paesi esteri a basso costo, che non è dunque
prerogativa della sola grande impresa, e la capacità di sviluppare forme consortili nel campo
del marketing e delle vendite.
3.8 La produzione di più beni
Generalizziamo la presentazione del processo produttivo svolta fino a questo punto. Consideriamo
in particolare l’ipotesi che la tecnologia offra all’impresa la possibilità di produrre con il medesimo
insieme di input zk una pluralità di output qn n  1,2,..., N  . In modo analogo a quanto fatto con la
relazione (1.1), il processo produttivo è rappresentabile mediante la relazione
(1.19)
z1 , z 2 ,..., z K   q1 , q 2 ,..., q N 
Per semplicità di scrittura e chiarezza di rappresentazione grafica supponiamo in quanto segue che
gli output siano soltanto due: q1 e q 2 .
I rapporti fra le quantità prodotte dei due beni possono essere, date le quantità disponibili degli
input, di complementarietà ovvero di sostituzione. Nel primo caso all’aumento della quantità
prodotta di un bene corrisponde un aumento anche della quantità prodotta dell’altro; esempio tipico
è quello di un gregge di pecore: all’aumento del numero delle pecore aumentano sia la produzione
di latte, che quella di lana e di pelli. Se la relazione di complementarietà è molto stretta, tra la
produzione dei due beni sussiste un rapporto di proporzionalità; l’attività produttiva può quindi
essere descritta adeguatamente attraverso la quantità prodotta di un solo bene e dall’indicazione
aggiuntiva del rapporto di proporzionalità con cui viene prodotto l’altro bene.
Nel secondo caso, l’aumento della produzione di un bene determina necessariamente la
diminuzione della produzione dell’altro; esempi tipici sono offerti dalle produzioni manifatturiere:
data la disponibilità complessiva di input, l’aumento della produzione di un bene significa che
minori quantità di fattori produttivi sono disponibili per la produzione dell’altro bene. Lo strumento
analitico per descrivere l’insieme delle produzioni tecnologicamente efficienti in questo caso, che è
il più interessante, è la funzione di trasformazione, che possiamo formalizzare mediante la relazione
(1.20)
T q1 , q 2 ; z1 , z 2 ,..., z K   0
La funzione di trasformazione descrive l’insieme delle combinazioni di output dei due beni che
risultano possibili date le disponibilità di input e le conoscenze tecnologiche. La frontiera
dell’insieme, definita dal segno di uguale nella relazione (1.20), rappresenta le produzioni efficienti
dal punto di vista tecnologico. Il termine di efficienza qui si riferisce alla circostanza che per
aumentare la produzione di un bene è necessario ridurre quella dell’altro bene. Possiamo dare una
rappresentazione grafica della frontiera di trasformazione nel piano delle quantità prodotte dei due
beni. La curva AB nella Fig. 1.11 esprime tutte le combinazioni efficienti di output q1 e q 2 ottenibili
con una data quantità di input. L’andamento della curva, decrescente da sinistra verso destra, mostra
il rapporto di sostituzione fra output: all’aumentare della quantità prodotta di q1 si riduce la quantità
prodotta di q 2 . Ad un aumento della quantità degli input corrisponde una traslazione in aumento
della curva AB.
(inserire Fig. 1.11)
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Il termine di funzione di trasformazione assegnato alla relazione (1.20) intende sottolineare che,
date le disponibilità di input, è possibile trasformare la potenziale produzione di un bene in quella di
un altro bene, rinunciando a produrre una certa quantità di un bene a vantaggio di una maggiore
produzione dell’altro. Se alla funzione di trasformazione vogliamo dare una forma più simile a
quella di una usuale funzione della produzione possiamo esprimere il medesimo concetto attraverso
la relazione
(1.21)


q1  f  q 2 ; z1 , z 2 ,..., z K 
  

Importante è qui l’indicazione di una relazione inversa tra le quantità prodotte dei due beni –
evidenziata dal segno meno sotto la variabile q 2 - in linea con l’ipotesi di un rapporto di
sostituzione nella produzione dei due beni.
La tangente nei vari punti della curva AB definisce la caratteristiche del rapporto di sostituzione
nella produzione dei due beni. Indichiamo tale tangente con il termine di saggio marginale di
trasformazione (di un output nell’altro), che è pertanto definito dalla relazione
(1.22)
SMT q1 , q 2 ; 
q 2
q1
z1 , z 2 ,..., z K
Nell’ipotesi fatta di sostituzione fra le due produzioni, il saggio marginale di trasformazione è
negativo, crescente in valore assoluto se la funzione di trasformazione è concava verso l’origine
come nella Fig. 1.11, decrescente in valore assoluto se la funzione di trasformazione è convessa
verso l’origine. Nel primo caso, per ottenere una medesima quantità aggiuntiva del primo bene è
necessario rinunciare a quantità crescenti di produzione dell’altro bene, e viceversa nel secondo
caso.
Nello studio della tecnologia di una singola impresa, la produzione congiunta di più beni riveste
particolare importanza per gli aspetti attinenti la presenza di economie di gamma o economie di
diversità. Queste sono usualmente definite utilizzando il concetto di costo di produzione, e
precisamente attraverso l’affermazione che il costo di produzione della produzione congiunta è
inferiore alla somma dei costi di produzione delle singole produzioni. In termini di impiego di
risorse produttive piuttosto che di costi di produzione, e quindi in modo più in sintonia con
l’approccio di questo capitolo, possiamo dire che si hanno economie di gamma quando la quantità
di input richiesti per la produzione congiunta è inferiore alla somma delle quantità di input
necessarie per la produzione separata dei due beni.
La funzione di trasformazione svolge un ruolo di fondamentale importanza nello studio della teoria
dell’allocazione delle risorse. In questo caso la funzione di trasformazione fa riferimento alle
possibilità di produzione di una data economia in un dato momento del tempo, con le sue
disponibilità di risorse e con le sue conoscenze tecnologiche. Ampie applicazioni di tale strumento
analitico si ritrovano nella teoria degli scambi internazionali.
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