Anteprima libro - L`artificiere

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Anteprima libro - L`artificiere
Ferragosto 1993
Bob Fanelli quella mattina si svegliò presto come al solito ma
decise di non alzarsi subito dal letto. Aveva dormito poco, come
sempre, e per di più male. Si sentiva sudaticcio, la tipica umidità
delle notti estive di Milano. Quel giorno era Ferragosto e sebbene
per lui non fosse propriamente un giorno di vacanza, non aveva
alcun motivo di affrettarsi.
Era in pensione. L’esercito aveva congedato il maresciallo
Abbo Fanelli – questo infatti era il suo nome, per l’anagrafe – gli
aveva dato una pensione e una medaglia celebrativa. E questo era
avvenuto parecchi anni prima, perché adesso l’uomo detto Bob
aveva settantatré anni compiuti.
Il periodo trascorso sotto le armi aveva determinato molte cose
nella vita di Bob. Gli aveva insegnato a maneggiare gli esplosivi, e
questa abilità era ciò che ora gli permetteva di gestire un negozio
di “botti” dove si potevano comprare mortaretti, girandole multicolori e petardi ma anche richiedere l’organizzazione di spettacoli di fuochi artificiali. Gli aveva fatto conoscere l’Italia, perché
le successive assegnazioni operative avevano coperto buona parte
del territorio nazionale. E l’aveva fatto approdare a Milano, dove
aveva trascorso gli ultimi trentacinque anni.
Il suo paese d’origine era Isola Dovarese, in provincia di
Cremona, dove era nato nel marzo del 1920. Neanche a farlo apposta, a Milano abitava nel quartiere di Isola Garibaldi. Quando
c’era arrivato lui, la gente del posto citava ancora il detto secondo
cui i ragazzi del quartiere erano bei fioeu toghi e tajaa, bei ragazzi forti e prestanti, ma già allora molti degli abitanti di quelle
strade non erano in grado di capire le semplici parole di quella
espressione, perché venivano dal Sud e lavoravano nelle fabbriche
della zona e della periferia; altri ne sarebbero arrivati negli anni
Sessanta, affollando i palazzi più malridotti e le case di ringhiera
dove spesso i servizi erano ancora in comune.
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Negli anni Ottanta i flussi di immigrazione avevano letteralmente cambiato colore. Alcuni dei nuovi venuti erano più scuri
dei precedenti, altri più chiari: venivano dall’Africa, uomini neri
coperti di abiti a colori sgargianti; o dai Paesi slavi, alti e sovente
biondi. Verso la fine del decennio le case meno ricche venivano
una dopo l’altra abbattute per far posto ai nuovi condomìni dei
benestanti. Per qualche anno ancora avrebbero seguitato a convivere tre comunità, quella autoctona, quella immigrata e quella
semplicemente trasferitasi da altri quartieri di Milano, con l’ Isola
come tappa di un’ascesa sociale. Poi la bilancia avrebbe cominciato a inclinarsi in modo decisivo verso quest’ ultimo gruppo.
Bob non apparteneva a nessuna delle tre comunità. Il suo lavoro di artificiere lo portava spesso lontano, mentre i clienti del
suo negozio venivano da tutte le parti della Lombardia e dalle
altre regioni del Nord. Quanto ai suoi ospiti – ne aveva spesso
– erano di un genere affatto particolare, e neanche loro avevano
nulla a che fare con l’Isola.
Quel Ferragosto 1993 non era un giorno di vacanza. Per gli
altri sì, ma non per Bob; e per lui no, appunto perché lo era per
gli altri. Il suo principale svago di quella giornata sarebbe stato il
pranzo di mezzogiorno con sua sorella, di dieci anni più giovane, che abitava un isolato più avanti, in via Angelo della Pergola.
Assieme a lei ci sarebbe stato qualche familiare e alcuni suoi amici, quelli di sempre, molti dei quali erano anche suoi collaboratori
nella sua redditizia attività di artificiere. Poi avrebbe visto qualche
vicino di casa, quelli più vecchi del suo quartiere; e insieme con
loro e con i collaboratori si sarebbe recato a Canzo, nel Comasco,
per attivare uno spettacolo pirotecnico già allestito dai suoi coadiuvanti, che erano tutti anche suoi amici. Per questo dopo lo
spettacolo ci sarebbe stato qualche bicchiere di vino e un po’ di affettati in un crotto, poi il rientro tutti assieme in nottata. Magari
con una piccola deviazione fra i travestiti di viale Restelli, che
erano soliti mostrare con generosità tanto le loro tette al silicone
di quinta misura quanto arnesi di ben altra pertinenza, ovviamente naturali ma anch’essi di dimensioni più che rispettabili, la cui
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sfacciata esibizione era un tratto di serietà professionale – affinché
nessuno si facesse idee sbagliate su ciò che stava comprando. Bob
Fanelli non era un acquirente, ma si divertiva a passare davanti a
quelle tettone iperdotate.
Tutta la gente che nel corso degli anni era confluita nell’Isola,
si era amalgamata in maniera sorprendente. La tipologia degli edifici e la toponomastica della zona si era rivelata adattissima a fare
da crogiolo: le case, molte delle quali erano di ringhiera, creavano
piccole sottocomunità dove i nuovi venuti trapiantavano i loro
usi e costumi in un affollamento multicolore. I milanesoni della
zona non entravano per niente in urto con i nuovi arrivati. Anche
perché i veri milanesi erano abbastanza pochi: la maggioranza era
arrivata da fuori qualche lustro prima, e sebbene si sentisse ormai
più meneghina di Meneghino, non si era scordata l’esperienza di
arrivare in una città che gli era sconosciuta e che non si poteva
dare per scontato fosse amichevole. Tutti si arrabattavano alla meglio. D’altronde avevano poco da lamentarsi: in quella confusione
di stili di vita ognuno faceva la sua, di vita, e quella degli altri lo
riguardava solo in seconda battuta.
In quei condomìni, il viavai era continuo. La mattina per via
delle frenetiche attività degli artigiani e dei negozianti, che proseguivano poi fino al tardo pomeriggio, e la sera con l’andirivieni
dei bevitori di birra da bar a pub e da pub a bar. Dalle prime ore
della notte, poi, incominciava il passeggio ed il ticchettio di prostitute, travestiti, balordi e nullafacenti, a cui si aggiungeva quello
di clienti e curiosi.
I bravi italiani avevano subito subodorato l’affare e si erano
buttati ad affittare agli stranieri ogni sorta di bugigattolo. Questi
a loro volta li subaffittavano a prostitute cinesi e travestiti sudamericani, che ovviamente li usavano come alcove per condurvi
i clienti a rotazione. Parlare di alloggi, nel caso di quei buchi,
sarebbe stato del tutto inadeguato. Dalle case di ringhiera si erano
ricavati mini-monolocali con annesso bagno, solai e cantine riadattate alla meglio: perfino i cessi comuni dei ballatoi venivano
ristrutturati e poi affittati o venduti. D’altronde la richiesta non
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mancava, visti gli arrivi in massa di nuclei familiari e perfino di
intere comunità provenienti dall’Africa, dall’Est Europeo, dalla
Cina, dal Sudamerica e dalle Filippine. I nuovi meridionali del
Sud del pianeta, che prendevano d’assalto ogni locale, alla faccia
della certificazione di abitabilità, codificata molti anni più tardi.
La via Cola Montano era appunto una strada di quel tipo,
divisa in due parti. Dalla piazzetta Fidia – con sensi unici in direzione inversa, fino a via Guglielmo Pepe da una parte e fino a via
Boltraffio dall’altra.
E Bob Fanelli, in via Cola Montano, aveva installato una sorta
di quartier generale, il suo, con tanto di abitazione. Non si era
mai voluto spostare, abitudinario com’era. In quella zona conosceva praticamente tutti ed era a sua volta conosciutissimo e benvoluto. Di sicuro era il personaggio più folkloristico e familiare
del quartiere, anche per merito delle sue apparizioni televisive.
Quel Ferragosto l’avrebbe trascorso, come era stata la norma negli ultimi anni, a fare preparativi per lo spettacolo serale, in quella casa-laboratorio che si era costruito con pazienza
intorno alle sue abitudini di vita. Il laboratorio era ricavato da
un piano terra che fungeva, nella parte antistante, da ingresso
negozio e locale operativo, in quella retrostante da cucina-salotto, bagno e studio. Nel retro vi era una seconda entrata, con
una porta di legno assicurata da una buona serratura marca
Cisa, con un chiavistello interno a bloccare il meccanismo di
apertura, perché non si sa mai. Nella zona superiore soppalcata, a cui si accedeva salendo una scala in legno, si trovava
la sua camera da letto: un’autentica alcova da anziano single,
con attrezzature per scattare fotografie ad alta definizione e
registratore portatile, uno degli ultimi arrivati nel settore della
fonia. Nella camera-studio del piano terra aveva trovato spazio
un’enorme cassaforte in cui Bob conservava tutti i documenti
e le fatture del negozio: una specie di forziere che rimaneva praticamente sempre aperto mentre si svolgeva l’attività di
vendita. Ma all’interno di esso c’era una seconda cassaforte e
questa, invece, era rigorosamente sempre chiusa.
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Le chiavi di entrambe le casseforti le teneva lui nelle tasche dei
pantaloni. Bob stesso si vantava con i clienti delle sue apparizioni
lampo in tivì (da buon lombardo, non diceva mai tivvù) solitamente nei periodi tra Natale e Capodanno. Dispensava consigli
su come maneggiare i fuochi d’artificio, arte in cui era un vero
maestro: «il Mago dei Botti» recitava l’insegna in caratteri cubitali
che troneggiava sul suo negozio.
Da giovane Abbo Aldo Fanelli, che ancora non si chiamava Bob,
si era arruolato nell’esercito per guadagnare qualche soldo in un’epoca in cui c’erano poche alternative. La difesa della patria l’aveva coinvolto per qualche tempo, fra il 1940 e il 1943, anno nel quale si
era improvvisamente ritrovato a passeggiare dalla parte sbagliata del
fronte tunisino ed era stato catturato dagli americani. Si era quindi
dovuto fare un paio d’anni di prigionia in Texas. Agli inizi del 1945,
in preda alla fame perché lo zio Sam aveva tagliato le razioni alimentari ai suoi prigionieri, aveva giurato fedeltà (di nuovo) a re Vittorio
Emanuele – rinnegando l’altro giuramento, a Benito Mussolini, che
qualche anno prima era stato abbinato a quello al re ma dopo il 25
luglio 1943, si era rivelato decisamente incompatibile. Prima che riuscissero a rispedirlo in Italia a combattere, però, la guerra era già bell’e
finita e il suo servizio militare di carriera era nuovamente confluito
sui placidi binari della pace e della routine.
Nel contempo Fanelli si era sposato e poi separato. Dal suo
matrimonio era nato un figlio, un uomo di quarant’anni che viveva in un paesino del Comasco. Il rampollo non faceva parte
della scuderia di artificieri e collaboratori del padre. Nonostante
gli interessi lavorativi completamente diversi, tuttavia, i loro rapporti erano buoni e padre e figlio si sentivano spesso per telefono.
L’arte del maneggio e della cura delle sostanze esplosive aveva
portato Bob Fanelli nel mondo dei giochi pirotecnici, attività più
folkloristica ma altrettanto pericolosa. «Con le polveri non si gioca, mai!» Questo non si stancava di ripeterlo, probabilmente per
evitare di dimenticarselo lui stesso. Saggiava le quantità di polvere
pirica, la potenza e la gittata dei mortaretti, e ideava lui stesso
nuovi giochi sperimentando nuove soluzioni.
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Negli ultimi anni però, l’invasione delle merci cinesi aveva assottigliato questo genere di ricerche. Arrivava tutto già pronto e
a costi molto inferiori. Bisognava stare solo attenti a quello che
si poteva vendere: fin troppo spesso Bob si lasciava affascinare da
fuochi non propriamente leciti oppure ritenuti altamente pericolosi per i non addetti ai lavori, perché erano confezionati senza
rispettare le leggi italiane in materia di affidabilità e sicurezza.
Anche per questo Bob era incappato in qualche denuncia risalente alla fine degli anni Ottanta. La più grave era stata quella
del 1987 per omicidio colposo, in séguito ad un incidente che in
quel campo sarebbe potuto succedere a tutti – ma fatto sta che
era successo a lui.
Da quell’episodio erano passati diversi anni e Bob ogni tanto
lo ricordava con una certa sofferenza, specie in quei giorni, poiché
il fattaccio si era ripetuto. Qualche domenica prima, nella seconda metà di luglio, durante lo show pirotecnico allestito sull’Adda
per la festa fluviale del Palio dei rioni della città di Lodi. Il riconosciuto Mago dei Botti era stato invitato ad organizzare uno di
quei caroselli per i quali andava famoso: era il decimo anno che
succedeva. Aveva calcolato le distanze con ampi margini di sicurezza, predisposto sulla riva sinistra del fiume, vicino al ponte,
una batteria di dieci proiettili caricati in cannoni in miniatura,
andando poi a spostarsi sull’isoletta per coordinare le manovre di
lancio. Ciascun cartoccio pieno di bengala era destinato a toccare
l’acqua in mezzo al fiume ed esplodere, formando fontanelle di
luce colorata sulla superficie dell’Adda.
Non invitato, il diavolo aveva però voluto partecipare lo stesso: una folata di vento aveva deviato uno dei proiettili andando
a colpire una spettatrice che si godeva lo spettacolo sulla riva destra del fiume. Il proietto che le era piombato addosso non era
esploso, ma le aveva provocato un trauma cranico e facciale, con
fratture multiple al naso e al volto. In preda al panico, la folla aveva ondeggiato andandosi a spostare in massa e creando difficoltà
ai soccorsi. Alla fine l’ambulanza si era fatta comunque strada,
riuscendo a portare la malcapitata all’ospedale.
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Bob aveva dunque rivissuto lo scenario di diversi anni prima, e la
sua reazione era stata rapida: si era inginocchiato e si era messo a pregare. L’ufficio competente aveva in qualche modo deciso di esaudirle:
la povera donna se l’era cavata. Ma spaventarsi non bastava. Avrebbe
voluto fare di più e ci stava pensando, anche se i suoi collaboratori,
gli amici e gli stessi organizzatori gli erano stati generosi di rassicurazioni. Lui non si era lasciato influenzare. Era un uomo di mondo e
conosceva l’ipocrisia di simili esternazioni di circostanza.
Bob, premiato anche con un Ambrogino d’oro dal comune di
Milano, era un uomo mite e buono oltre che piuttosto generoso.
Un buontempone che doveva passare la giornata. Che qualcuno
avesse perso o rischiato la vita per i suoi botti lo addolorava, anche
se in coscienza se ne sentiva innocente: gli esplosivi erano pericolosi
e lui lo diceva chiaro che con i botti non si doveva scherzare; solo
che un errore prima o poi si verificava sempre, e poteva anche avere
conseguenze tragiche. Però la stessa cosa succedeva anche nelle corse di Formula Uno e nessuno si beccava una denuncia di quel peso.
Anche per questo problema le licenze e le varie autorizzazioni
alla vendita dei botti erano state trasferite a nome della sorella.
Nelle pause pomeridiane e quando veniva la sera, si divertiva a
sfogliare riviste porno: se non era preso dalle televendite, specie
da quelle in cui gli incantatori televisivi illustravano orologi (ne
era appassionatissimo), Bob infilava nel suo videoregistratore una
cassetta e si lasciava andare.
Cassette VHS di quel tipo ne aveva ormai un centinaio,
con un’ampia scelta di attività sessuali. Da tempo però, il sesso
filmato non lo soddisfaceva più. Bob desiderava di meglio, e
per questo ormai da diversi anni aveva iniziato una serie di
esplorazioni nel mondo delle ragazze facili. La parlantina non
gli mancava, i mezzi nemmeno. Voleva non solo divenire lui
il protagonista dei suoi film ma anche esserne il regista: e per
raggiungere il suo scopo non aveva badato a spese. Oltre alla
pianola, che suonava un po’ ogni sera con una certa verve,
anche la fotografia faceva parte dei suoi talenti naturali. Aveva
acquistato un’attrezzatura fotografica completa e perfino un
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braccio per l’autoscatto. Non ci dovevano essere dubbi: le donne che portava in casa, protagoniste o comparse compiacenti,
dovevano capire al volo che cosa aveva in mente. Lui aveva
bisogno di vedere e di sentire, oltre che di toccare; e quel che
vedeva o sentiva, doveva se possibile anche registrarlo.
La mattinata trascorse tranquilla e Bob Fanelli, assieme ad alcuni
suoi collaboratori, avviò i preparativi per lo spettacolo che si sarebbe tenuto in serata a Canzo, nel Comasco.
Il Mago dei Botti non amava restarsene per conto suo. Nelle
primissime ore del pomeriggio riunì dunque i suoi collaboratori:
prese la scusa di un briefing, ma in realtà desiderava più che altro
un po’ di compagnia. I collaboratori erano poi quelli di sempre.
A questi si aggiungevano gli amici delle carte, gente anziana della
zona con cui Bob si intratteneva quasi tutte le sere dalle sei alle
otto, dopo la palestra, tra cui l’onnipresente e tuttofare Alberto
Novaresi, un sessantenne di via Jacopo dal Verme, sicuramente
tra le persone più vicine a Fanelli.
Era un’allegra brigata che in tutti gli spostamenti metteva in
mostra una buona dose di goliardia.
Anche quella volta rientrarono da Canzo che erano quasi le due di
notte e Bob congedò tutti con uno squillante anche se un po’ impastato «a domani ragazzi… buona notte a tutti!» …e dopo un attimo di
sospensione aggiunse, sghignazzando benevolmente: «E fate i bravi!».
La serata era andata bene. Bob entrò in casa e ripose le mazzette di denaro e il suo orologio d’oro nella cassaforte più piccola,
poi la chiuse accuratamente insieme a quella più grande e ripose
le chiavi nelle tasche dei pantaloni. Solo allora tornò giù a salutare
gli amici da dentro il portone.
Quando vide passare un’utilitaria rossa con alla guida una ragazza sola, non ci fece molto caso. Quasi non si accorse della
lentezza con cui l’auto passava, né dello sguardo rapido che la
donna frecciò all’interno dello stabile prima di proseguire verso
via Guglielmo Pepe.
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Quanto alla vetturetta furgonata con a bordo due uomini che
passò dopo di lei, a una certa distanza, quella Bob non la vide
proprio. Il suo sguardo si era già perduto da un’altra parte.
Quel traffico alle due di notte però non era casuale.
L’auto rossa si fermò in fondo a via Pepe, poi la donna
ebbe come un ripensamento e girò dalla parte opposta, in via
Pastrengo, svoltò a sinistra in via Pietro Borsieri, quindi proseguì
attraversando piazzale Tito Minniti fino a raggiungere piazzale
Segrino. Infine, imboccata via Porro Lambertenghi, andò a fermarsi in piazza Fidia, di muso, proprio davanti alla saracinesca
dell’omonimo bar che a quell’ora era chiuso.
La donna che era alla guida prese il telefonino e compose
un numero. Pronunciò poche rapide parole: «Stasera salta. Non
ce la facciamo, c’era ancora gente e non ha neanche chiamato. Rimandiamo tutto a domani. Ci vediamo al solito posto».
Dall’altra parte le rispose un uomo: «Okey, facciamo come dici
tu e per stasera lasciamo perdere. Però noi un’occhiatina la diamo
egualmente, tanto per farci un’idea».
«Fate come volete, ma serve a poco» fu la risposta della donna,
che chiuse subito la comunicazione.
Bob Fanelli, appena rientrato in casa, accese la televisione
e si adagiò sul divano. Cercò sui vari canali, casomai ci fosse qualche film erotico o anche una televendita di orologi e
oggettini in oro, ma ci mise poco a stancarsi. Preferì dunque
salire in camera da letto, su nel soppalco, dopo aver percorso
la scala (che da qualche tempo diventava sempre più lunga
e ripida), sino a raggiungere il letto sbuffando e ansimando; ci si buttò sopra, si spogliò completamente e cercò di
addormentarsi.
Faceva caldo: d’altronde, era Ferragosto. Si girò e rigirò nel
letto, ma faticava a prender sonno. Allora prese l’agenda da sopra
il comodino – un’altra la teneva di sotto, nello studio – e impugnò il suo costosissimo telefono cellulare. E costose erano anche
le chiamate, con il risultato che le bollette finivano con l’essere
astronomiche. Ma c’era poco da scegliere: c’era un’unica società
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di telefonia mobile e fissa, la Sip.1 Prese l’apparecchio, un microtac che pareva una mattonella, e compose il numero.
Dall’altra parte rispose una donna che a Bob parve sveglia,
e lui la invitò. Lei però declinò: «È troppo tardi zio, sono le tre
passate, domani mattina mi devo alzare presto e ho paura di
non farcela perché devo andare a lavorare. Stasera ero passata
lì da te ma poi ho visto che c’era gente e non mi sono fermata.
Avrei voluto salutarti… alla tua maniera, zietto Bob, ma ho
dovuto lasciar perdere».
«Sì, ti ho intravista» improvvisò il vecchio «e mi è salito il sangue alla testa. Mi è venuto subito in mente il tuo pelo, mamma
lo sai che mi fa impazzire tutta quella peluria, una vera foresta,
voglio leccarli tutti a uno a uno, mi fai morire! Quanto pelo!»
«Dai, non fare così» rispose la donna stando al gioco «chissà
quante te ne sei fatte di pelosone! Io ti piaccio lo so, ma non mi
sembra che mi sei molto fedele, te le scopi tutte, tu…»
Bob si sentì solleticato. «Sì, tutte vi voglio, porcone belle» attaccò «con quel pelo non ne ho viste molte, sai? non arrivano a
dieci fra tutte quelle che conosco… poi ti racconto meglio e ti
faccio vedere qualche foto, così vedi che non ti dico le bugie,
non è un bugiardo lo zio Bob. Allora a domani sera bambolina,
rimaniamo così!».
«Okey» rispose la ragazza con solo una lieve traccia di presa
in giro nella voce «a domani sera, Bob… intanto tu resisti,
guàrdati la mia foto ma solo la mia, così te la senti vicina l’orsacchiotta pelosa».
«Okey, okey» fu la risposta del vecchio bofonchiata, più
che articolata con chiarezza. Bob rovistò nella sua agenda e
considerò alcuni altri numeri, ma alla fine si convinse che
era veramente troppo tardi e per quella notte lasciò perdere.
Sapeva bene chi avrebbe potuto chiamare, e quella non gli
avrebbe detto di no nemmeno a quell’ora, ma preferì non
farne niente e cercò di dormire.
1.
Oggi Telecom Italia Mobile (Tim).
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Gli ci volle del tempo, perché continuava a pensare alle sue
donnine. Sorrise al pensiero dell’ultima della serie. Per il momento era riuscito solo a fotografarla, ma era già in cima alla lista, in
compagnia di certi suoi pensieri, abbastanza lontani dal comune
senso del pudore.
Quello che aveva fatto con quella donna – una gran bella ragazza romana, un’impiegata di banca trasferitasi a Milano dalla
provincia friulana – era ai suoi occhi un autentico capolavoro.
Dopo averle fatto la posta per parecchio tempo, era riuscito a farla
spogliare e a fotografarla in mutandine e reggiseno. La foto della
bancaria si era trasformata in un poster quasi a grandezza naturale, come del resto altri scatti in cui compariva anche lui stesso
circondato da belle ragazze.
E non solo italiane. In effetti non mancava nessuna razza:
c’erano africane, sudamericane e orientali. Poster appesi in bella
vista di donne diverse, fotografate con molta economia di indumenti. Subito dopo lo scatto se le era portate a letto, perché il
vecchio Bob non era certamente in disarmo.
Per prima cosa la foto artistica, come la chiamava lui – anche
per ingolosire le ragazze con qualche ipotetica possibilità di inserimento nel mondo dello spettacolo. L’idea era di far abboccare
in questo modo quelle meno convinte; poi si poteva vedere di
andare un po’ più in là. Quando poi faceva intuire qualche soldo,
parecchie dicevano di sì.
Provava perfino un brivido di fierezza per quelle conquiste, anche se sapeva molto bene che tanto, in fondo in fondo, le donne
sono tutte puttane, un detto comune ma validissimo in situazioni come quelle. Non che ci stessero proprio tutte. Fondamentale
era il primo passo, quello delle fotografie. Perfino le ragazze più
normali trovavano intrigante l’idea di essere riprese con indosso
pochi vestiti, se non addirittura niente del tutto.
Con quelle più esitanti, per deciderle, spesso si produceva
in rassicurazioni piene di forza: «Queste foto stai tranquilla
che non le vede nessuno, sono solo mie, figurarsi se le mostro
in giro!». Con una certa psicologia, qualche volta aveva cura di
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dirlo in modo tale da lasciar capire che era semmai vero l’esatto contrario, che altri avrebbero potuto ammirarle nude anche
senza conoscerle e che anzi, quella era per lui la principale
spinta a scattare quelle inquadrature.
In quel caso era sicuramente più vicino a dire la verità. Bob era
orgogliosissimo quando mostrava le foto agli amici e collaboratori, lasciando intendere, senza dirlo apertamente, che con quelle
donne c’era poi stato anche altro. E loro, sornioni, stavano al gioco facendogli mille complimenti per le sue conquiste. Sapevano
benissimo che il segreto di quelle conquiste era lo stesso di molte
altre, il denaro. Alcune di quelle donne erano professioniste del
settore con tanto di annuncio sui giornali, e alle volte era perfino
successo che gli amici ne riconoscessero una. Dopo tutto, quegli
annunci li leggevano anche loro.
Insomma, questo giro notturno di donnine compiacenti era
un segreto conosciuto da tutti: i suoi collaboratori, gli amici, i familiari e quasi l’intero vicinato, che scherzava volentieri sui poster
piccanti di Bob Fanelli.
Quella notte l’utilitaria furgonata accostò e si fermò in prossimità
del civico 6 della via Cola Montano. Due uomini – uno più giovane e magro, sulla trentina, l’altro decisamente massiccio e più
vecchio di almeno dieci anni - scesero e si avvicinarono al portone
d’ingresso dello stabile più avanti, sempre aperto. Si guardarono
intorno in modo circospetto, poi entrarono nel palazzo e si diressero verso la prima scala a sinistra, superato l’androne antistante il
grande cortile: due o tre gradini ed ecco la porta in legno, l’ingresso dal retro della casa-laboratorio. L’omone la toccò lievemente
come per saggiarne la consistenza, poi fece un cenno silenzioso
a quello più giovane rimasto di guardia verso il cortile; quindi i
due ritornarono sui loro passi, riguadagnando l’uscita. Si allontanarono in silenzio così come erano venuti: risalirono sull’auto
furgonata e si dileguarono nel buio della notte.
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