Anteprima libro - L`artificiere
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Anteprima libro - L`artificiere
Ferragosto 1993 Bob Fanelli quella mattina si svegliò presto come al solito ma decise di non alzarsi subito dal letto. Aveva dormito poco, come sempre, e per di più male. Si sentiva sudaticcio, la tipica umidità delle notti estive di Milano. Quel giorno era Ferragosto e sebbene per lui non fosse propriamente un giorno di vacanza, non aveva alcun motivo di affrettarsi. Era in pensione. L’esercito aveva congedato il maresciallo Abbo Fanelli – questo infatti era il suo nome, per l’anagrafe – gli aveva dato una pensione e una medaglia celebrativa. E questo era avvenuto parecchi anni prima, perché adesso l’uomo detto Bob aveva settantatré anni compiuti. Il periodo trascorso sotto le armi aveva determinato molte cose nella vita di Bob. Gli aveva insegnato a maneggiare gli esplosivi, e questa abilità era ciò che ora gli permetteva di gestire un negozio di “botti” dove si potevano comprare mortaretti, girandole multicolori e petardi ma anche richiedere l’organizzazione di spettacoli di fuochi artificiali. Gli aveva fatto conoscere l’Italia, perché le successive assegnazioni operative avevano coperto buona parte del territorio nazionale. E l’aveva fatto approdare a Milano, dove aveva trascorso gli ultimi trentacinque anni. Il suo paese d’origine era Isola Dovarese, in provincia di Cremona, dove era nato nel marzo del 1920. Neanche a farlo apposta, a Milano abitava nel quartiere di Isola Garibaldi. Quando c’era arrivato lui, la gente del posto citava ancora il detto secondo cui i ragazzi del quartiere erano bei fioeu toghi e tajaa, bei ragazzi forti e prestanti, ma già allora molti degli abitanti di quelle strade non erano in grado di capire le semplici parole di quella espressione, perché venivano dal Sud e lavoravano nelle fabbriche della zona e della periferia; altri ne sarebbero arrivati negli anni Sessanta, affollando i palazzi più malridotti e le case di ringhiera dove spesso i servizi erano ancora in comune. 15 Negli anni Ottanta i flussi di immigrazione avevano letteralmente cambiato colore. Alcuni dei nuovi venuti erano più scuri dei precedenti, altri più chiari: venivano dall’Africa, uomini neri coperti di abiti a colori sgargianti; o dai Paesi slavi, alti e sovente biondi. Verso la fine del decennio le case meno ricche venivano una dopo l’altra abbattute per far posto ai nuovi condomìni dei benestanti. Per qualche anno ancora avrebbero seguitato a convivere tre comunità, quella autoctona, quella immigrata e quella semplicemente trasferitasi da altri quartieri di Milano, con l’ Isola come tappa di un’ascesa sociale. Poi la bilancia avrebbe cominciato a inclinarsi in modo decisivo verso quest’ ultimo gruppo. Bob non apparteneva a nessuna delle tre comunità. Il suo lavoro di artificiere lo portava spesso lontano, mentre i clienti del suo negozio venivano da tutte le parti della Lombardia e dalle altre regioni del Nord. Quanto ai suoi ospiti – ne aveva spesso – erano di un genere affatto particolare, e neanche loro avevano nulla a che fare con l’Isola. Quel Ferragosto 1993 non era un giorno di vacanza. Per gli altri sì, ma non per Bob; e per lui no, appunto perché lo era per gli altri. Il suo principale svago di quella giornata sarebbe stato il pranzo di mezzogiorno con sua sorella, di dieci anni più giovane, che abitava un isolato più avanti, in via Angelo della Pergola. Assieme a lei ci sarebbe stato qualche familiare e alcuni suoi amici, quelli di sempre, molti dei quali erano anche suoi collaboratori nella sua redditizia attività di artificiere. Poi avrebbe visto qualche vicino di casa, quelli più vecchi del suo quartiere; e insieme con loro e con i collaboratori si sarebbe recato a Canzo, nel Comasco, per attivare uno spettacolo pirotecnico già allestito dai suoi coadiuvanti, che erano tutti anche suoi amici. Per questo dopo lo spettacolo ci sarebbe stato qualche bicchiere di vino e un po’ di affettati in un crotto, poi il rientro tutti assieme in nottata. Magari con una piccola deviazione fra i travestiti di viale Restelli, che erano soliti mostrare con generosità tanto le loro tette al silicone di quinta misura quanto arnesi di ben altra pertinenza, ovviamente naturali ma anch’essi di dimensioni più che rispettabili, la cui 16 sfacciata esibizione era un tratto di serietà professionale – affinché nessuno si facesse idee sbagliate su ciò che stava comprando. Bob Fanelli non era un acquirente, ma si divertiva a passare davanti a quelle tettone iperdotate. Tutta la gente che nel corso degli anni era confluita nell’Isola, si era amalgamata in maniera sorprendente. La tipologia degli edifici e la toponomastica della zona si era rivelata adattissima a fare da crogiolo: le case, molte delle quali erano di ringhiera, creavano piccole sottocomunità dove i nuovi venuti trapiantavano i loro usi e costumi in un affollamento multicolore. I milanesoni della zona non entravano per niente in urto con i nuovi arrivati. Anche perché i veri milanesi erano abbastanza pochi: la maggioranza era arrivata da fuori qualche lustro prima, e sebbene si sentisse ormai più meneghina di Meneghino, non si era scordata l’esperienza di arrivare in una città che gli era sconosciuta e che non si poteva dare per scontato fosse amichevole. Tutti si arrabattavano alla meglio. D’altronde avevano poco da lamentarsi: in quella confusione di stili di vita ognuno faceva la sua, di vita, e quella degli altri lo riguardava solo in seconda battuta. In quei condomìni, il viavai era continuo. La mattina per via delle frenetiche attività degli artigiani e dei negozianti, che proseguivano poi fino al tardo pomeriggio, e la sera con l’andirivieni dei bevitori di birra da bar a pub e da pub a bar. Dalle prime ore della notte, poi, incominciava il passeggio ed il ticchettio di prostitute, travestiti, balordi e nullafacenti, a cui si aggiungeva quello di clienti e curiosi. I bravi italiani avevano subito subodorato l’affare e si erano buttati ad affittare agli stranieri ogni sorta di bugigattolo. Questi a loro volta li subaffittavano a prostitute cinesi e travestiti sudamericani, che ovviamente li usavano come alcove per condurvi i clienti a rotazione. Parlare di alloggi, nel caso di quei buchi, sarebbe stato del tutto inadeguato. Dalle case di ringhiera si erano ricavati mini-monolocali con annesso bagno, solai e cantine riadattate alla meglio: perfino i cessi comuni dei ballatoi venivano ristrutturati e poi affittati o venduti. D’altronde la richiesta non 17 mancava, visti gli arrivi in massa di nuclei familiari e perfino di intere comunità provenienti dall’Africa, dall’Est Europeo, dalla Cina, dal Sudamerica e dalle Filippine. I nuovi meridionali del Sud del pianeta, che prendevano d’assalto ogni locale, alla faccia della certificazione di abitabilità, codificata molti anni più tardi. La via Cola Montano era appunto una strada di quel tipo, divisa in due parti. Dalla piazzetta Fidia – con sensi unici in direzione inversa, fino a via Guglielmo Pepe da una parte e fino a via Boltraffio dall’altra. E Bob Fanelli, in via Cola Montano, aveva installato una sorta di quartier generale, il suo, con tanto di abitazione. Non si era mai voluto spostare, abitudinario com’era. In quella zona conosceva praticamente tutti ed era a sua volta conosciutissimo e benvoluto. Di sicuro era il personaggio più folkloristico e familiare del quartiere, anche per merito delle sue apparizioni televisive. Quel Ferragosto l’avrebbe trascorso, come era stata la norma negli ultimi anni, a fare preparativi per lo spettacolo serale, in quella casa-laboratorio che si era costruito con pazienza intorno alle sue abitudini di vita. Il laboratorio era ricavato da un piano terra che fungeva, nella parte antistante, da ingresso negozio e locale operativo, in quella retrostante da cucina-salotto, bagno e studio. Nel retro vi era una seconda entrata, con una porta di legno assicurata da una buona serratura marca Cisa, con un chiavistello interno a bloccare il meccanismo di apertura, perché non si sa mai. Nella zona superiore soppalcata, a cui si accedeva salendo una scala in legno, si trovava la sua camera da letto: un’autentica alcova da anziano single, con attrezzature per scattare fotografie ad alta definizione e registratore portatile, uno degli ultimi arrivati nel settore della fonia. Nella camera-studio del piano terra aveva trovato spazio un’enorme cassaforte in cui Bob conservava tutti i documenti e le fatture del negozio: una specie di forziere che rimaneva praticamente sempre aperto mentre si svolgeva l’attività di vendita. Ma all’interno di esso c’era una seconda cassaforte e questa, invece, era rigorosamente sempre chiusa. 18 Le chiavi di entrambe le casseforti le teneva lui nelle tasche dei pantaloni. Bob stesso si vantava con i clienti delle sue apparizioni lampo in tivì (da buon lombardo, non diceva mai tivvù) solitamente nei periodi tra Natale e Capodanno. Dispensava consigli su come maneggiare i fuochi d’artificio, arte in cui era un vero maestro: «il Mago dei Botti» recitava l’insegna in caratteri cubitali che troneggiava sul suo negozio. Da giovane Abbo Aldo Fanelli, che ancora non si chiamava Bob, si era arruolato nell’esercito per guadagnare qualche soldo in un’epoca in cui c’erano poche alternative. La difesa della patria l’aveva coinvolto per qualche tempo, fra il 1940 e il 1943, anno nel quale si era improvvisamente ritrovato a passeggiare dalla parte sbagliata del fronte tunisino ed era stato catturato dagli americani. Si era quindi dovuto fare un paio d’anni di prigionia in Texas. Agli inizi del 1945, in preda alla fame perché lo zio Sam aveva tagliato le razioni alimentari ai suoi prigionieri, aveva giurato fedeltà (di nuovo) a re Vittorio Emanuele – rinnegando l’altro giuramento, a Benito Mussolini, che qualche anno prima era stato abbinato a quello al re ma dopo il 25 luglio 1943, si era rivelato decisamente incompatibile. Prima che riuscissero a rispedirlo in Italia a combattere, però, la guerra era già bell’e finita e il suo servizio militare di carriera era nuovamente confluito sui placidi binari della pace e della routine. Nel contempo Fanelli si era sposato e poi separato. Dal suo matrimonio era nato un figlio, un uomo di quarant’anni che viveva in un paesino del Comasco. Il rampollo non faceva parte della scuderia di artificieri e collaboratori del padre. Nonostante gli interessi lavorativi completamente diversi, tuttavia, i loro rapporti erano buoni e padre e figlio si sentivano spesso per telefono. L’arte del maneggio e della cura delle sostanze esplosive aveva portato Bob Fanelli nel mondo dei giochi pirotecnici, attività più folkloristica ma altrettanto pericolosa. «Con le polveri non si gioca, mai!» Questo non si stancava di ripeterlo, probabilmente per evitare di dimenticarselo lui stesso. Saggiava le quantità di polvere pirica, la potenza e la gittata dei mortaretti, e ideava lui stesso nuovi giochi sperimentando nuove soluzioni. 19 Negli ultimi anni però, l’invasione delle merci cinesi aveva assottigliato questo genere di ricerche. Arrivava tutto già pronto e a costi molto inferiori. Bisognava stare solo attenti a quello che si poteva vendere: fin troppo spesso Bob si lasciava affascinare da fuochi non propriamente leciti oppure ritenuti altamente pericolosi per i non addetti ai lavori, perché erano confezionati senza rispettare le leggi italiane in materia di affidabilità e sicurezza. Anche per questo Bob era incappato in qualche denuncia risalente alla fine degli anni Ottanta. La più grave era stata quella del 1987 per omicidio colposo, in séguito ad un incidente che in quel campo sarebbe potuto succedere a tutti – ma fatto sta che era successo a lui. Da quell’episodio erano passati diversi anni e Bob ogni tanto lo ricordava con una certa sofferenza, specie in quei giorni, poiché il fattaccio si era ripetuto. Qualche domenica prima, nella seconda metà di luglio, durante lo show pirotecnico allestito sull’Adda per la festa fluviale del Palio dei rioni della città di Lodi. Il riconosciuto Mago dei Botti era stato invitato ad organizzare uno di quei caroselli per i quali andava famoso: era il decimo anno che succedeva. Aveva calcolato le distanze con ampi margini di sicurezza, predisposto sulla riva sinistra del fiume, vicino al ponte, una batteria di dieci proiettili caricati in cannoni in miniatura, andando poi a spostarsi sull’isoletta per coordinare le manovre di lancio. Ciascun cartoccio pieno di bengala era destinato a toccare l’acqua in mezzo al fiume ed esplodere, formando fontanelle di luce colorata sulla superficie dell’Adda. Non invitato, il diavolo aveva però voluto partecipare lo stesso: una folata di vento aveva deviato uno dei proiettili andando a colpire una spettatrice che si godeva lo spettacolo sulla riva destra del fiume. Il proietto che le era piombato addosso non era esploso, ma le aveva provocato un trauma cranico e facciale, con fratture multiple al naso e al volto. In preda al panico, la folla aveva ondeggiato andandosi a spostare in massa e creando difficoltà ai soccorsi. Alla fine l’ambulanza si era fatta comunque strada, riuscendo a portare la malcapitata all’ospedale. 20 Bob aveva dunque rivissuto lo scenario di diversi anni prima, e la sua reazione era stata rapida: si era inginocchiato e si era messo a pregare. L’ufficio competente aveva in qualche modo deciso di esaudirle: la povera donna se l’era cavata. Ma spaventarsi non bastava. Avrebbe voluto fare di più e ci stava pensando, anche se i suoi collaboratori, gli amici e gli stessi organizzatori gli erano stati generosi di rassicurazioni. Lui non si era lasciato influenzare. Era un uomo di mondo e conosceva l’ipocrisia di simili esternazioni di circostanza. Bob, premiato anche con un Ambrogino d’oro dal comune di Milano, era un uomo mite e buono oltre che piuttosto generoso. Un buontempone che doveva passare la giornata. Che qualcuno avesse perso o rischiato la vita per i suoi botti lo addolorava, anche se in coscienza se ne sentiva innocente: gli esplosivi erano pericolosi e lui lo diceva chiaro che con i botti non si doveva scherzare; solo che un errore prima o poi si verificava sempre, e poteva anche avere conseguenze tragiche. Però la stessa cosa succedeva anche nelle corse di Formula Uno e nessuno si beccava una denuncia di quel peso. Anche per questo problema le licenze e le varie autorizzazioni alla vendita dei botti erano state trasferite a nome della sorella. Nelle pause pomeridiane e quando veniva la sera, si divertiva a sfogliare riviste porno: se non era preso dalle televendite, specie da quelle in cui gli incantatori televisivi illustravano orologi (ne era appassionatissimo), Bob infilava nel suo videoregistratore una cassetta e si lasciava andare. Cassette VHS di quel tipo ne aveva ormai un centinaio, con un’ampia scelta di attività sessuali. Da tempo però, il sesso filmato non lo soddisfaceva più. Bob desiderava di meglio, e per questo ormai da diversi anni aveva iniziato una serie di esplorazioni nel mondo delle ragazze facili. La parlantina non gli mancava, i mezzi nemmeno. Voleva non solo divenire lui il protagonista dei suoi film ma anche esserne il regista: e per raggiungere il suo scopo non aveva badato a spese. Oltre alla pianola, che suonava un po’ ogni sera con una certa verve, anche la fotografia faceva parte dei suoi talenti naturali. Aveva acquistato un’attrezzatura fotografica completa e perfino un 21 braccio per l’autoscatto. Non ci dovevano essere dubbi: le donne che portava in casa, protagoniste o comparse compiacenti, dovevano capire al volo che cosa aveva in mente. Lui aveva bisogno di vedere e di sentire, oltre che di toccare; e quel che vedeva o sentiva, doveva se possibile anche registrarlo. La mattinata trascorse tranquilla e Bob Fanelli, assieme ad alcuni suoi collaboratori, avviò i preparativi per lo spettacolo che si sarebbe tenuto in serata a Canzo, nel Comasco. Il Mago dei Botti non amava restarsene per conto suo. Nelle primissime ore del pomeriggio riunì dunque i suoi collaboratori: prese la scusa di un briefing, ma in realtà desiderava più che altro un po’ di compagnia. I collaboratori erano poi quelli di sempre. A questi si aggiungevano gli amici delle carte, gente anziana della zona con cui Bob si intratteneva quasi tutte le sere dalle sei alle otto, dopo la palestra, tra cui l’onnipresente e tuttofare Alberto Novaresi, un sessantenne di via Jacopo dal Verme, sicuramente tra le persone più vicine a Fanelli. Era un’allegra brigata che in tutti gli spostamenti metteva in mostra una buona dose di goliardia. Anche quella volta rientrarono da Canzo che erano quasi le due di notte e Bob congedò tutti con uno squillante anche se un po’ impastato «a domani ragazzi… buona notte a tutti!» …e dopo un attimo di sospensione aggiunse, sghignazzando benevolmente: «E fate i bravi!». La serata era andata bene. Bob entrò in casa e ripose le mazzette di denaro e il suo orologio d’oro nella cassaforte più piccola, poi la chiuse accuratamente insieme a quella più grande e ripose le chiavi nelle tasche dei pantaloni. Solo allora tornò giù a salutare gli amici da dentro il portone. Quando vide passare un’utilitaria rossa con alla guida una ragazza sola, non ci fece molto caso. Quasi non si accorse della lentezza con cui l’auto passava, né dello sguardo rapido che la donna frecciò all’interno dello stabile prima di proseguire verso via Guglielmo Pepe. 22 Quanto alla vetturetta furgonata con a bordo due uomini che passò dopo di lei, a una certa distanza, quella Bob non la vide proprio. Il suo sguardo si era già perduto da un’altra parte. Quel traffico alle due di notte però non era casuale. L’auto rossa si fermò in fondo a via Pepe, poi la donna ebbe come un ripensamento e girò dalla parte opposta, in via Pastrengo, svoltò a sinistra in via Pietro Borsieri, quindi proseguì attraversando piazzale Tito Minniti fino a raggiungere piazzale Segrino. Infine, imboccata via Porro Lambertenghi, andò a fermarsi in piazza Fidia, di muso, proprio davanti alla saracinesca dell’omonimo bar che a quell’ora era chiuso. La donna che era alla guida prese il telefonino e compose un numero. Pronunciò poche rapide parole: «Stasera salta. Non ce la facciamo, c’era ancora gente e non ha neanche chiamato. Rimandiamo tutto a domani. Ci vediamo al solito posto». Dall’altra parte le rispose un uomo: «Okey, facciamo come dici tu e per stasera lasciamo perdere. Però noi un’occhiatina la diamo egualmente, tanto per farci un’idea». «Fate come volete, ma serve a poco» fu la risposta della donna, che chiuse subito la comunicazione. Bob Fanelli, appena rientrato in casa, accese la televisione e si adagiò sul divano. Cercò sui vari canali, casomai ci fosse qualche film erotico o anche una televendita di orologi e oggettini in oro, ma ci mise poco a stancarsi. Preferì dunque salire in camera da letto, su nel soppalco, dopo aver percorso la scala (che da qualche tempo diventava sempre più lunga e ripida), sino a raggiungere il letto sbuffando e ansimando; ci si buttò sopra, si spogliò completamente e cercò di addormentarsi. Faceva caldo: d’altronde, era Ferragosto. Si girò e rigirò nel letto, ma faticava a prender sonno. Allora prese l’agenda da sopra il comodino – un’altra la teneva di sotto, nello studio – e impugnò il suo costosissimo telefono cellulare. E costose erano anche le chiamate, con il risultato che le bollette finivano con l’essere astronomiche. Ma c’era poco da scegliere: c’era un’unica società 23 di telefonia mobile e fissa, la Sip.1 Prese l’apparecchio, un microtac che pareva una mattonella, e compose il numero. Dall’altra parte rispose una donna che a Bob parve sveglia, e lui la invitò. Lei però declinò: «È troppo tardi zio, sono le tre passate, domani mattina mi devo alzare presto e ho paura di non farcela perché devo andare a lavorare. Stasera ero passata lì da te ma poi ho visto che c’era gente e non mi sono fermata. Avrei voluto salutarti… alla tua maniera, zietto Bob, ma ho dovuto lasciar perdere». «Sì, ti ho intravista» improvvisò il vecchio «e mi è salito il sangue alla testa. Mi è venuto subito in mente il tuo pelo, mamma lo sai che mi fa impazzire tutta quella peluria, una vera foresta, voglio leccarli tutti a uno a uno, mi fai morire! Quanto pelo!» «Dai, non fare così» rispose la donna stando al gioco «chissà quante te ne sei fatte di pelosone! Io ti piaccio lo so, ma non mi sembra che mi sei molto fedele, te le scopi tutte, tu…» Bob si sentì solleticato. «Sì, tutte vi voglio, porcone belle» attaccò «con quel pelo non ne ho viste molte, sai? non arrivano a dieci fra tutte quelle che conosco… poi ti racconto meglio e ti faccio vedere qualche foto, così vedi che non ti dico le bugie, non è un bugiardo lo zio Bob. Allora a domani sera bambolina, rimaniamo così!». «Okey» rispose la ragazza con solo una lieve traccia di presa in giro nella voce «a domani sera, Bob… intanto tu resisti, guàrdati la mia foto ma solo la mia, così te la senti vicina l’orsacchiotta pelosa». «Okey, okey» fu la risposta del vecchio bofonchiata, più che articolata con chiarezza. Bob rovistò nella sua agenda e considerò alcuni altri numeri, ma alla fine si convinse che era veramente troppo tardi e per quella notte lasciò perdere. Sapeva bene chi avrebbe potuto chiamare, e quella non gli avrebbe detto di no nemmeno a quell’ora, ma preferì non farne niente e cercò di dormire. 1. Oggi Telecom Italia Mobile (Tim). 24 Gli ci volle del tempo, perché continuava a pensare alle sue donnine. Sorrise al pensiero dell’ultima della serie. Per il momento era riuscito solo a fotografarla, ma era già in cima alla lista, in compagnia di certi suoi pensieri, abbastanza lontani dal comune senso del pudore. Quello che aveva fatto con quella donna – una gran bella ragazza romana, un’impiegata di banca trasferitasi a Milano dalla provincia friulana – era ai suoi occhi un autentico capolavoro. Dopo averle fatto la posta per parecchio tempo, era riuscito a farla spogliare e a fotografarla in mutandine e reggiseno. La foto della bancaria si era trasformata in un poster quasi a grandezza naturale, come del resto altri scatti in cui compariva anche lui stesso circondato da belle ragazze. E non solo italiane. In effetti non mancava nessuna razza: c’erano africane, sudamericane e orientali. Poster appesi in bella vista di donne diverse, fotografate con molta economia di indumenti. Subito dopo lo scatto se le era portate a letto, perché il vecchio Bob non era certamente in disarmo. Per prima cosa la foto artistica, come la chiamava lui – anche per ingolosire le ragazze con qualche ipotetica possibilità di inserimento nel mondo dello spettacolo. L’idea era di far abboccare in questo modo quelle meno convinte; poi si poteva vedere di andare un po’ più in là. Quando poi faceva intuire qualche soldo, parecchie dicevano di sì. Provava perfino un brivido di fierezza per quelle conquiste, anche se sapeva molto bene che tanto, in fondo in fondo, le donne sono tutte puttane, un detto comune ma validissimo in situazioni come quelle. Non che ci stessero proprio tutte. Fondamentale era il primo passo, quello delle fotografie. Perfino le ragazze più normali trovavano intrigante l’idea di essere riprese con indosso pochi vestiti, se non addirittura niente del tutto. Con quelle più esitanti, per deciderle, spesso si produceva in rassicurazioni piene di forza: «Queste foto stai tranquilla che non le vede nessuno, sono solo mie, figurarsi se le mostro in giro!». Con una certa psicologia, qualche volta aveva cura di 25 dirlo in modo tale da lasciar capire che era semmai vero l’esatto contrario, che altri avrebbero potuto ammirarle nude anche senza conoscerle e che anzi, quella era per lui la principale spinta a scattare quelle inquadrature. In quel caso era sicuramente più vicino a dire la verità. Bob era orgogliosissimo quando mostrava le foto agli amici e collaboratori, lasciando intendere, senza dirlo apertamente, che con quelle donne c’era poi stato anche altro. E loro, sornioni, stavano al gioco facendogli mille complimenti per le sue conquiste. Sapevano benissimo che il segreto di quelle conquiste era lo stesso di molte altre, il denaro. Alcune di quelle donne erano professioniste del settore con tanto di annuncio sui giornali, e alle volte era perfino successo che gli amici ne riconoscessero una. Dopo tutto, quegli annunci li leggevano anche loro. Insomma, questo giro notturno di donnine compiacenti era un segreto conosciuto da tutti: i suoi collaboratori, gli amici, i familiari e quasi l’intero vicinato, che scherzava volentieri sui poster piccanti di Bob Fanelli. Quella notte l’utilitaria furgonata accostò e si fermò in prossimità del civico 6 della via Cola Montano. Due uomini – uno più giovane e magro, sulla trentina, l’altro decisamente massiccio e più vecchio di almeno dieci anni - scesero e si avvicinarono al portone d’ingresso dello stabile più avanti, sempre aperto. Si guardarono intorno in modo circospetto, poi entrarono nel palazzo e si diressero verso la prima scala a sinistra, superato l’androne antistante il grande cortile: due o tre gradini ed ecco la porta in legno, l’ingresso dal retro della casa-laboratorio. L’omone la toccò lievemente come per saggiarne la consistenza, poi fece un cenno silenzioso a quello più giovane rimasto di guardia verso il cortile; quindi i due ritornarono sui loro passi, riguadagnando l’uscita. Si allontanarono in silenzio così come erano venuti: risalirono sull’auto furgonata e si dileguarono nel buio della notte. 26 EDIZIONI ALTRAVISTA Visita il nostro sito web www.edizionialtravista.com © Copyright Edizioni Altravista via Dante Alighieri, 15 27053 - Lungavilla (PV) tel. 0383 364 859 fax 0383 377 926 www.edizionialtravista.com