Un`epica notte nuziale

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Un`epica notte nuziale
L
L ibri del mese
Un’epica notte nuziale
Ma con la sposa sbagliata. Analisi trans-testuali su Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann
I
l romanzo Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann è un libro
mondiale,1 un libro che racconta,
in forma più ampia, nuova e profonda, una storia del Libro dei libri, la Bibbia. In forma più ampia, perché il romanzo può essere letto anche
come un commento sulla situazione politica della Germania all’inizio del XX
secolo; in forma nuova, perché con la
I
sua maestria stilistica Thomas Mann trasforma il fragile pretesto in un prodigio
linguistico; in forma più profonda, a causa dell’interesse psicologico per i personaggi. Così un’unica storia diventa una
storia del mondo, una storia di tutto.
Gérard Genette collega strettamente, mediante la metafora del «palinsesto», unità di produzione e di ricezione
del testo. I palinsesti sono «[manoscritti]
su pergamena, più raramente su papiro,
il cui testo originario, per ragioni economiche, è stato cancellato, lavandolo con
latte, strofinandolo con pietra pomice o
raschiandolo con un coltello, e rimpiazzato con un altro testo».2
Palinsesto: Thomas Mann,
Giuseppe e Gérard Genette
Questo valore originario, limitato,
di un palinsesto viene ampliato, letteralmente sovrascritto e riscritto, e diventa il
segno caratteristico della genesi dei testi
letterari in generale. Si potrebbe affermare che non solo due testi, ma tutti i
testi sono in una relazione autopoietica,
sul piano orizzontale (ad esempio come
commento a margine) o sul piano verticale (ad esempio come capolavoro geniale, degno di imitazione, del passato,
che viene riportato alla luce del presente
come da un pozzo profondo) e tessono
sul piano sincronico e diacronico, a partire da molti testi, un ipertesto: «Così si
realizza l’utopia borgesiana di una Letteratura in trasfusione perpetua – perfusione transtestuale –, sempre presente a
se stessa nella sua totalità e come Totalità, in cui tutti gli autori sono un tutt’uno,
e in cui tutti i libri sono un vasto Libro,
un solo Libro infinito».3
Perciò nelle mie considerazioni su
Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas
Mann mi riferisco al concetto di transtestualità di Gérard Genette: «Con la tesi
secondo cui la letteratura nasce dalla lettura, Genette ha evidenziato la stretta
relazione che esiste fra ricezione e produzione del testo. […] “Transtestualità”
[indica] anzitutto, come termine generale, tutto ciò che pone un testo in una
relazione manifesta o nascosta con un
altro testo».4 In Palinsesti, Genette pre-
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senta la transtestualità sotto cinque
aspetti, i cui confini appaiono a volte labili e implicano ed esplicitano un continuo movimento all’interno di un libro,
all’interno dell’universo dei libri e dai libri verso il mondo esterno (lettori, editori, critici…).
Il romanzo Giuseppe ha molti pre-testi e con-testi: l’Antico Testamento, la
cultura egizia,5 Echnaton,6 il Terzo
Reich, l’esilio di Thomas Mann e molti
altri. «Perduta la patria, la creazione letteraria è “sostegno e bastone”, come scrive Thomas Mann, citando il salmo 23.
Nel momento in cui la Germania precipitava nel caos, lui si teneva stretto al romanzo […]. Il mondo di Giuseppe si
contrappone a quello della Germania del
XX secolo».7 Si tratta di un meta-testo,
che scopre se stesso e il suo procedimento
mitopoietico, quando sono noti i pre-testi
e i con-testi. Ciò significa che questi pretesti e con-testi non sono solo fenomeni
di accompagnamento del romanzo, ma
lo costituiscono veramente. Il «contromondo» del romanzo mostra come Giuseppe diventa il salvatore dell’umanità,
mentre la Germania del Terzo Reich
vuole sterminare il popolo ebraico, affiancata dalla propaganda e dall’ideologia della razza che disprezzano l’uomo.
Mi sia permesso qui sintetizzare la
discussione su verità, finzione e realtà
con un’osservazione fondamentale di
Norbert Bolz: non esiste «più alcuna verità, ma solo finzioni più o meno stabili.
[…]. Il vero, la vera realtà, è ciò che c’è
di più artificiale, l’artificial life».8 Con il
concetto di transtestualità si può descrivere e spiegare meglio il carattere artificiale e artistico del romanzo Giuseppe.
Riprendo brevemente le categorie di
Genette e le applico a mo’ di esempio a
determinati aspetti del romanzo.
L’intertestualità è «la presenza effettiva di un testo in un altro».9 Il romanzo
Giuseppe può essere considerato anche
un palinsesto, scritto sul testo della Genesi, la quale, come pre-testo, mostra
sempre la sua presenza, fosse pure solo
attraverso i nomi o lo svolgimento
dell’azione. Ma se compariamo la lunghezza della Genesi – questo è il pre-testo e non solo la storia di Giuseppe – con
il romanzo (nella Bibbia10 la Genesi occupa grosso modo un centinaio di pagine, mentre nella mia edizione tedesca il
romanzo di Thomas Mann consta di
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Berlino. Rogo dei libri, 10 maggio 1933.
ben 1.324 pagine),11 allora dobbiamo
chiederci che cosa è stato aggiunto artificialmente, cosa è avvenuto sul piano
artistico. Il pre-testo non viene solo sovrascritto, ma completamente rielaborato, o meglio scritto per esteso. Nella
sua esegesi letteraria, Thomas Mann ha
riempito con testo, con un testo possibile,
le circa 1.300 pagine vuote della Genesi.
La paratestualità comprende: «[…]
titolo, sottotitolo, intertitoli, prefazioni,
postfazioni, avvertenze, premesse, ecc.,
note a margine, a piè di pagina, note finali, epigrafi, illustrazioni, prière d’insérer,
fascetta, sovraccoperta […]».12 A volte,
aggiunge Genette, il testo è corredato
anche «da un commento ufficiale o ufficioso […]».13 La mia copia, ad esempio,
reca in quarta di copertina questo testo:
«Con la sua storia di Giuseppe in quattro volumi, Thomas Mann ha scritto
uno dei maggiori romanzi mitici del XX
secolo». Il lettore è impressionato: c’è un
superlativo! E si stabiliscono facilmente
anche associazioni in direzione di Joyce
(con il suo riferimento a Omero) o di
Broch (con il suo riferimento a Virgilio).
Inoltre, il romanzo sarebbe mitico. O
mitologico? O piuttosto mitopoietico?
O qui s’intende piuttosto lo stile? O il
romanzo è già diventato un mito attraverso la sua stessa ricezione? Poi si attira ancora l’attenzione sul fatto che questa edizione speciale riprende «la copertina originale della prima edizione
in un solo volume del 1964». Bisogna
riconoscere che la copertina originale si
è sorprendentemente ben conservata
fino al 2013.14
La metatestualità viene trattata da
Genette sotto la voce «commento»15 e in
una forma sorprendentemente breve. Si
potrebbe leggere l’intero romanzo come
un (contro)commento implicito alla mi-
tologia del Terzo Reich. Nel risvolto interno della copertina della mia edizione
c’è una citazione di Thomas Mann al riguardo (ma senza indicare la fonte): «In
questo libro il mito è stato sottratto alle
mani del fascismo…».
L’architestualità è la «[…] appartenenza tassonomica del testo […]»,16 ma
parecchi testi non consentono una chiara assegnazione a un genere specifico.
Nella discussione sul genere del Giuseppe della Genesi l’esegesi è giunta a risultati diversi. C. Westermann ha rigettato
come anacronistiche le proposte di «novella» o «romanzo familiare».17 Un altro
commento sulla Genesi opta per un giudizio salomonico: «Anche il racconto
(composto probabilmente in più fasi) su
Giuseppe e i suoi fratelli […] è, come il
racconto sui patriarchi 10,1-36,43, una
“storia familiare” al servizio della storia
del popolo».18 Il Giuseppe di Thomas
Mann è unanimemente considerato un
romanzo. (Come il romanzo di H. Broch,
La morte di Virgilio, una poesia di parecchie centinaia di pagine? Per me, il romanzo di Mann è piuttosto un poema
epico, ovviamente non in esametri (o
sì?). Ma gli ingredienti del genere letterario concordano: vi sono eroi (grandi e
piccoli) e c’è un apparato di dèi (molti
piccoli e UNO più grande).19
L’ipertestualità è «ogni relazione che
unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto), nel quale esso si innesta in una maniera che non è
quella del commento».20 Si tratta più o
meno di trasformazioni mimetiche, anche mediante modelli fra pre-testi e
post-testi. Vorrei mostrarlo con due piccoli esempi: il racconto dello scambio
delle sorelle (Lia e Rachele); la scoperta
di Dio da parte di Abramo.
II
SALVINO LEONE
Nonostante la sposa
sbagliata
Labano, suocero di Giacobbe, deve
far sposare anzitutto Lia, la figlia maggiore, per ragioni legate alla tradizione (e
anche per la sua avidità e per i vantaggi
che può ricavarne). Ma il genero designato e in spe ama la figlia minore, Rachele. Il pre-testo in Gen 29,23-25 è arcaico e lapidario: «Ma quando fu sera,
egli [Labano] prese la figlia Lia e la condusse da lui [Giacobbe], ed egli si unì a
lei. Labano diede come schiava, alla figlia Lia, la sua schiava Zilpa. Quando fu
mattina… ecco, era Lia! Allora Giacobbe disse a Labano: “Che cosa mi hai fatto?”».21 È sconcertante l’aggiunta esplicativa sulla schiava Zilpa. Tradotto in
chiave moderna: la cinepresa ruota improvvisamente dalla camera da letto della coppia al giaciglio della servitù. Si tralasciano i dettagli erotici. Segue uno stacco temporale della durata di diverse ore
ed ecco al mattino lo stupore di Giacobbe: era Lia! Domanda ingenua: non se
n’era accorto? Era accecato (dalla voluttà)? Era troppo ubriaco? Che cosa era
successo? La Genesi tace.
Non così l’autore del romanzo Giuseppe, il quale soddisfa il nostro bisogno
di conoscere ciò che potrebbe essere accaduto nei punti vuoti; racconta gli scaltri
preparativi di Labano (a luce spenta!) e i
dubbi che lascia intendere Giacobbe
(questa voce?). E ora la notte nuziale:
«Dacché le sue mani veggenti abbandonarono il suo volto e trovarono il suo corpo e la pelle del suo corpo, Ishtar li toccò
tutti e due fin nel midollo, il toro celeste
soffiò e il suo alito ardente fu il loro, due
respiri a trasformarsi in uno. E la figliola
di Labano fu per Giacobbe tutta la notte
una compagna stupenda, grande nella
voluttà e generosa a generare e lo accolse
in sé più e più volte, essi non contarono
quante, ma i pastori nei loro conversari
dicevano che erano state nove».22
Si può certamente leggere il testo in
prosa scorrevole, ma leggendolo più volte ad alta voce mi sono accorto che questo passo scivola impercettibilmente dalla prosa alla sonorità degli esametri. Si
tratta di imitazioni di esametri piuttosto
che di una precisa organizzazione metrica. Perciò, qui presento la mia proposta,
sottolineando le vocali/dittonghi accentati e aggiungendo importanti spondei
(altri possono proporre una diversa solu-
zione): «Da seine sehenden Hände ihr Antlitz verließen und fanden ihren Leib und
die Haut ihres Leibes, rührte Ischtar sie
beide an bis ins Mark, [da leggere senza
pausa] es hauchte der Himmelsstier, und
sein Odem war ihrer beider Odem, der sich
vermischte. [da leggere senza pausa oltre il
punto:] Und war dem Jaakob das Labanskind eine [seguono tre tesi!] herrliche
Gesellin diese ganze wehende Nacht hindurch, groß in der Wollust und rüstig zu
zeugen, [da leggere senza pausa oltre la
virgola:] und empfing ihn öfters und abermals, so daß sie´s nicht zählten, die Hirten
[a partire di qui nuovamente prosa, le
voci del popolo…] aber antworteten einander, es sei neunmal gewesen».23
Questa forma arcaica dell’esametro,
la caratteristica formale del racconto epico, è sostenuta in modo performativo dal
contenuto. Il passo citato imita esametri e
il ritmo di una notte d’amore. Si tratta
addirittura del modello modificato di un
matrimonio sacro (hieros gamos) e di una
cosmogenesi con il ricorso a Ishtar e al
toro celeste:24 la dea dell’amore e il simbolo della fertilità maschile. Evidentemente un’iperbole, perché né Giacobbe
è un toro celeste, né la sua compagna è
Ishtar; e tuttavia la loro unione viene inserita in un modello archetipo, ma in
quello di un’altra religione, non monoteistica! In qualche modo Giacobbe si sposa
ancora con la vecchia fede di Labano.
Infatti la mattina successiva constata
inorridito che il suocero gli ha rifilato Lia,
la sorella errata. La conoscenza25 della vera Rachele, l’amata (come anche del vero
Dio YHWH), è ancora di là da venire.
Giacobbe è ricaduto nel mondo del
poema epico di Gilgamesh, prima di poter diventare il padre delle dodici tribù di
Israele. È questa la tragedia di Giacobbe
e, al tempo stesso, l’ironia: egli ha apparentemente assolto il suo compito di genero non senza impegno e al di là delle
capacità umane, con un effetto duraturo,
misurato sul numero dei figli: «[…] i pastori nei loro conversari dicevano che
erano state nove». Qui il narratore riferisce un’ipotesi. Ma da dove lo sapevano i
pastori (nei campi)? In questi casi, Genette parla di discorso trasposto (indiretto):
«Benché un po’ mimetica rispetto al discorso raccontato e in linea di principio
chiaramente in grado di riprodurre tutto
ciò che viene detto, a questa forma manca la letteralità, ossia il lettore non sa mai
Il confine
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III
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Pagi
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quali furono le parole “realmente” pronunciate […]».26 Ecco, al riguardo, un
parallelo: nella seconda serie televisiva
dei «Borgia»,27 papa Alessandro VI a
Roma apprende da un messaggero come
ha trascorso la notte nuziale suo figlio
Cesare in Francia. Si sovrappongono visivamente certi aspetti di ciò che è avvenuto in Francia, mentre a Roma il racconto continua. Gli spettatori vedono
veramente ciò che è avvenuto o vedono
solo ciò che racconta il messaggero? È
avvenuto otto volte? (PS: per Lia Giacobbe era il vero marito!).
Anche Dio ha bisogno
di racconto/racconti,
come ogni buon autore
In questo romanzo, l’espressione più
geniale, forse anche più inquietante, su
Dio – inquietante nel senso che ci estromette dalla casa delle nostre certezze cristiane e demolisce tutte le vuote espressioni consolatorie antropomorfico-proiettive cui siamo abituati – è questa: «Egli
non era la bontà, ma il Tutto».28 Nel romanzo, la conoscenza cristiana apparentemente innovativa appare come un passo indietro storico,29 mentre l’Abramo
del romanzo (non quello della Genesi),
nel suo tentativo di pensare Dio, lo deduce in qualche modo attraverso un processo di esclusione. Nel racconto, Abramo
attraversa vari tipi di religione – panteismo/politeismo, enoteismo e monoteismo30 – e li oltrepassa, perché, detto in
modo anacronistico, nell’illuminismo si
collega con un concetto di unità del Tutto, che è noto come monismo e ha trovato il suo maître à penser e precursore filosofico in Spinoza.31 Nel caso di Abramo
si tratta semplicemente di una finzione32
stabile, che può comprendere anche il
problema della teodicea. Qui non vorrei
addentrarmi nelle implicazioni filosofico-teologiche, perché il romanzo non è
filosofia o teologia. Ma, in una lettera del
27 giugno 1953, Thomas Mann scrive:
«Per meritarmi il cappello di dottore teologico, l’elemento religioso in “Giuseppe” è troppo umoristicamente timido e
birichino».33
Nella struttura spazio-temporale del
romanzo, trascendenza e immanenza
coincidono. Le conseguenze etiche non
vengono presentate in forma dogmatica,
bensì narrativa. Nell’unità anti-dualistica
di Bene e Male potrebbero far capolino
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nichilismo, mancanza di senso o amoralità del potere. Questo corrisponderebbe
al «contro-mondo» della Germania del
Terzo Reich. O, detto altrimenti, se non
vi fosse più alcuna verità, ma solo finzioni
stabili, secondo l’espressione del già citato N. Bolz, allora, proseguendo il ragionamento, si correrebbe il rischio del capriccio e del relativismo. Il romanzo Giuseppe evita questo rischio, perché lì Dio
diventa un progetto di umanità, una figura umana, la cui esistenza nel romanzo
resta indubbiamente in sospeso sul piano
ontologico, ma non la sua realtà fittizia o
funzione reale nell’ambito del fittizio.
Nell’interpretazione di Giuseppe, Dio è
colui che ha messo in scena questo gioco
e ha stabilito i ruoli.34
Dio è autore: scrive la storia degli uomini; ma Dio è anche un testo, una storia, che è scritta da uomini. L’evoluzione
di Dio verso una maggiore umanità (formulazione certamente paradossale!) infrange, considerata in forma sistematica,
una concezione di Dio, che pensa un Dio
rigidamente al di là del Bene e del Male.
Ma genera anche un circolo ermeneutico: infatti, quanto più l’uomo si avvicina
a questo Dio, tanto più diventa umano,
educato. Nel mondo del romanzo, Egitto
e Israele realizzano questo processo di
umanità: solo nella reciproca coesistenza
e tolleranza i due partner, per quanto così diversi sul piano politico e così simili
nella loro ricerca di Dio, possono superare la crisi della carestia.
Anche sul piano dell’immanenza il
romanzo opera su meta-piani, mediante
un’accentuata riflessione su sé stessi da
parte di singoli personaggi, consapevoli
ad esempio di essere solo ripetizioni di
predecessori, in fondo solo pre-testi; un
procedimento che il romanzo usa come
principio strutturante e nel quale, sul piano esistenziale, affiora la relazione piena
di tensioni fra individualità e archetipi
collettivi e ciclicamente ripetitivi del mito. Giuseppe lo sa e anche altri personaggi lo sanno: «Eliezer due35 si prende a
volte per Eliezer uno,36 ma in realtà fra
Abramo e Giuseppe vi sono venti generazioni».37 Tuttavia questo principio, che
guida il riconoscimento, conferisce a
Giuseppe la libertà di accettare il gioco di
Dio e di introdurvi anche proprie sfumature. Nella notte nuziale, Giacobbe non
aveva ancora scoperto questo modello
archetipico, per cui aveva dormito con la
moglie sbagliata. O forse ha solo dimenticato di voler dormire con la donna veramente amata e, in una sorta di ricaduta
arcaica, ha dormito con una donna, e
non con l’individuo amato, Rachele?
Giuseppe compie un processo di formazione che diventa un processo di formazione dell’umanità: «Giuseppe e i suoi
fratelli è la vera risposta di Thomas
Mann a Hitler. Egli mostra, attraverso le
storie che fondano il popolo di Israele, la
storia che fonda l’umanità».38 Ma anche
Dio compie un processo: rinunciando alla sua assenza di storie, egli diventa storico e deve correre il rischio che la sua
grande storia, la creazione, possa acquistare una propria autonomia e finire
nel peccato delle origini o nella rottura
dell’alleanza,39 così perlomeno nel quadro di un’ermeneutica biblica. Abramo
lo esprime chiaramente al suo Dio: «Se
vuoi il mondo, non puoi pretendere la
giustizia; ma se la cosa che più ti preme è
la giustizia, allora per il mondo è finita».40
Il regno di Dio
Anche l’utopia non viene assolutamente trasferita in modo consolatorio in
una Gerusalemme celeste, ma realizzata
già ora dallo scaltro economo Giuseppe e
dal faraone che gli permette di amministrare. Tutti mangiano a sazietà: un’eucaristia di dimensioni cosmopolitiche,
desacralizzata e liberata dalla metafisica.
Su questo sfondo, W. Frizen vede addirittura in Gesù una ricaduta al di là di
Giuseppe, che viene descritto con categorie cristologiche: «[…] nato da Rachele, la vergine, dopo aver patito sotto i fratelli, gettato nel sepolcro, risorto al terzo
giorno, siede alla fine alla destra del Faraone-Dio […]. La genealogia messianica conduce a Giuseppe, non lontano da
lui; lo schema tipologico […] permette di
vedere nella trasformazione di Giuseppe
l’azione salvifica “pagana” come superamento del Gesù spirituale […]».41
Qui bisogna fare spazio a una posizione esegetica correttiva, che accosta in modo sorprendente al romanzo la concezione del regno di Dio propria di Gesù:
«Non si menzionano calamità nazionali,
non si sognano liturgie eterne dinanzi a
Dio […]. L’esaudimento delle aspettative
consiste in un banchetto grandioso, non
come banchetto sacrificale nel tempio,
ma come pasto festivo nella cerchia dei
IV
A CURA DI
padri di famiglia. La separazione rituale
fra pagani ed ebrei non ricopre più alcun
ruolo. Di fatto “il regno di Dio non è un
impero, bensì un villaggio”».42 Possiamo
quindi descrivere tranquillamente l’Egitto di Giuseppe come un villaggio mondiale multiculturale, anche soprattutto per il
fatto che faraone si mantiene con molta
sensibilità a distanza dalla maschile illusione espansionistica militaristica.
Naturalmente non si può dare per
certo, con un senso storico ingenuo, che
Giuseppe abbia effettivamente realizzato
tutto questo. Nel romanzo, la relazione
con il mondo esterno appare diversa. H.
Kurzke ha proposto di spiegare il romanzo basandosi sui quattro sensi della Scrittura, secondo una forma esegetica biblica risalente a Origene, e lo mostra anche
con un esempio: «Un pozzo, sul piano
del sensus literalis, è un’installazione che
serve a portare in superficie l’acqua dalle
profondità della terra […]. Sul piano del
sensus allegoricus, emergono vari significati. “Profondo è il pozzo del passato”,
così comincia il romanzo […]. Il pozzo è
anche una madre; da esso viene partorito
e fatto rinascere il ragazzo Giuseppe.
[…] Il sensus moralis chiede: […] che
cosa devo fare? La risposta è: convertiti!
[…] Con l’aiuto di Dio [Giuseppe] si trasforma, grazie alle sue due esperienze del
pozzo, da un artista innamorato di sé in
un aiutante dell’umanità. […] Nel sensus
eschatologicus entra in gioco la morte»,43
… o anche la Gerusalemme celeste o (come nel romanzo) l’Egitto terreno come
salvezza concreta dalla carestia. A mio
avviso, la strada che conduce dal mondo
del romanzo in un qualsiasi mondo esterno passa attraverso il sensus moralis: fa’
come Giuseppe! (Resta comunque l’avvertimento: da un altro sedicente artista
egocentrico è scaturito un dittatore, è
scaturita una maledizione per l’umanità).
Si può leggere il romanzo anche come un commento sulla relazione con il
potere, perché il faraone e Giuseppe sono momenti egocentrici, che si completano contrapponendosi: l’assolutamente
potente è impotente (governa la madre
del faraone, poi Giuseppe), e l’assolutamente impotente (un abitante nomade di
un paese straniero, che i suoi fratelli volevano uccidere a causa della sua insopportabile arroganza, che era stato venduto come schiavo ed era finito in prigione)
diventa l’assolutamente potente. E poi la
constatazione ironica da parte dello stesso Giuseppe: «Sono io forse in luogo di
Dio?44 Laggiù, si dice, io sono come Faraone, ed egli è bensì chiamato dio, ma è
soltanto una povera cara creatura».45 Ergo, così la conclusio, anche Giuseppe è
solo una povera, cara creatura.
Ma a volte si può andare incontro
anche al Dio assoluto con umorismo, atteggiamento critico e in modo familiare,
a questo Dio così privo di racconti,46 riguardo al quale anzitutto non si può raccontare nulla e che ha bisogno degli uomini per avere storia/storie, benché tutto
il romanzo sia la storia della sua scoperta, del suo essere pensato. Giuseppe parla di un «gioco di Dio».47 Qui gioco può
essere inteso anche come una cifra per
indicare l’arte: Dio come artista. Ma, in
quest’opera, anche Dio vive una artificial life ed è una figura del narratore.
L’ultima frase del romanzo può in qualche modo sembrare graziosa, in qualche
modo: «E così ha fine la bella storia e invenzione di Dio di Giuseppe e i suoi fratelli».48 Questo è il titolo dell’inizio del libro
(ora al dativo); ma a questo punto, dopo
oltre 1.300 pagine, noi sappiamo che si
tratta di una bella storia e di un’invenzione di Dio. L’e può essere letto come un
segno di somiglianza. Alla fine del libro,
Dio appartiene all’ambito dell’estetica,
della narrazione e della finzione. Ma
quando Abramo lo aveva «visto e pensato»49 – visione (Dio è presente, bisogna
vederlo) e pensiero (bisogna comprendere,
pensando, ciò che si visto) conducono al
riconoscimento di Dio –,50 questo Dio
abbandona lo schema mitologico e diventa anzitutto oggetto di dogmatica didattica: «Molte altre cose sapeva insegnare il lontano patriarca a proposito di
Dio ma non sapeva raccontare nulla di
Dio […]».51
Proprio perché il romanzo mette in
scena l’autoriflessività e la metatestualità
su vari piani, il concetto di transtestualità
di Genette è risultato un procedimento per spiegare e organizzare in modo
esemplare le strutture narrative di questo
romanzo. Ben presto anche Dio prende
posto nella galleria dei personaggi, che
sono, come Giuseppe, «genettizzati».52
All’inizio, questo Dio è un Dio senza intertestualità. Questo sembra ovvio, perché come causa sui (nel senso spinoziano) era senza origine e senza famiglia.
Ma appena ha intrapreso il suo pellegri-
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naggio con Abramo, Giacobbe e i suoi
figli, bisogna raccontare molte storie su
di lui, perché ora Dio e l’uomo hanno
una storia comune. Egli diventa un Dio
di tutta l’umanità. Quindi, in fondo il romanzo trasforma anche le concezioni
monoteistiche finora tramandate e deve
farlo per impedire le pretese fondamentaliste assolute di una religione con tutte
le loro conseguenze disastrose. Di qui
l’approccio monistico, riguardo al quale
troviamo anche un sorprendente parallelo nel canto del sole di Echnaton. Aton
viene pensato in modo universale e non
più solo come la divinità per l’Egitto:
«Persino tutti gli abitanti di terre stranie-
re, che sono lontane, egli mantiene in vita […]».53
Epilogo
Nel romanzo Königsallee, H. Plechinski tratteggia un quadro dei primi
anni della Germania postbellica. In occasione della sua visita a Düsseldorf
(1954), Thomas Mann incontra nuovamente Klaus Heuser, il suo amore segreto, segnato da molte rinunce, di un tempo e il modello che gli ha ispirato Giuseppe e i suoi fratelli. Ecco il Thomas Mann
di Plechinski in un dialogo interiore: «La
trasparente grande civiltà, la brillante intraprendenza dello stato del Nilo è stata
* Questo saggio è la nostra traduzione tedesca dell’originale, che in forma rielaborata apparirà su Literatur in Wissenschaft und Unterricht 46(2013)
1, in corso di pubblicazione.
1
T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, 2 voll., Arnoldo Mondadori, Milano
2000. H. Kurzke definisce il romanzo una «[…] ermeneutica del mondo,
che dà un senso a tutto ciò che può accadere» (H. Kurzke, Thomas Mann.
Ein Porträt für seine Leser, Beck, München 2009, 134).
2
G.V. Wilpert, Sachwörterbuch der Literatur, Stuttgart 82001, 583.
3
G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Biblioteca Einaudi, Torino 1983, 471.
4
A. Seljak, «Intertextualität», in U. Schmid (a cura di), Literaturtheorien des 20. Jahrhunderts, Reclam, Stuttgart 2010, 76-98; qui 91.
5
Cf., al riguardo (sul versante egittologico), A. Grimm, Joseph und
Echnaton. Thomas Mann und Ägypten, Von Zabern, Mainz 1992 e J. Assmann, Thomas Mann und Ägypten. Mythos und Monotheismus in den Josephsromanen, Beck, München 2006.
6
Impressionante documento poetico del primo fondatore storicamente
documentabile di una religione monoteistica: Echnaton: Sonnenhymnen,
Ägyptisch/Deutsch, traduzione e pubblicazione a cura di C. Bayer, Reclam,
Stuttgart 2007.
7
H. Kurzke, Thomas Mann. La vita come opera d‘arte, Mondadori,
Milano 2005, 408.
8
N. Bolz, Die Sinngesellschaft, Kulturverl. Kadmos, Berlin 2012, 190s.
9
Genette, Palinsesti, 4.
10
La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2008, 21-124.
11
T. Mann, Joseph und seine Brüder, Frankfurt am Main 2007.
12
Genette, Palinsesti, 5.
12
Ivi.
13 Genette, Palinsesti, 6.
14
(E il segnalibro colorato appare riuscito solo in parte. Ma questo è solo
un dettaglio).
15
Genette, Palinsesti, 7.
16
Ivi.
17
Cf., al riguardo, C. Westermann, Genesis. Kapitel 37-50, Neukirchen-Vluyn 32004, 12s.
18
E. Zenger (a cura di), Stuttgarter Altes Testament. Einheitsübersetzung
mit Kommentar und Lexikon, Stuttgart 32005, 76. Corsivo mio.
19
Cf., più ampiamente, sulle caratteristiche di un poema epico antico K.
Brodersen, B. Zimmermann (a cura di), Metzler Lexikon Antike, Stuttgart Weimar 22006, 171.
20
Genette, Palinsesto, 7-8.
21
Gen 29,25.
22 Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, I, 364.
23
T. Mann, Joseph und seine Brüder, Frankfurt am Main 2007, 224.
24
Cf., al riguardo, Das Gilgamesch-Epos (soprattutto Tavola VI), a cura
di W. Röllig, Stuttgart 2012 e sulla terminologia relativa alla storia della religione M. Lurker, Wörterbuch der Symbolik, Stuttgart 41988.
25
Nel contesto della Genesi il verbo ebraico conoscere ha un significato
chiaramente erotico-riproduttivo.
26
G. Genette, Die Erzählung, a cura di A. Knop, München 21998, 122.
27
© 2013 Studiokanal GmbH.
28
Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, I, 517.
34
Il Regno -
attualità
1/2015
per te praticamente in ogni riga più cara
del profetismo selvaggio, delle chiacchiere sulla fede, della brusca separazione fra
al di qua e inferno e paradiso, la separazione disumana fra credenti e non credenti dei monoteisti. Solo per rabbia o
debolezza di carattere si sono maledetti
coloro che credono diversamente. Abramo era presso Dio. Bene. Ma lasciamo a
chi vuole una tale sensazione di benessere, sinistra, facilmente arrogante. La moglie di Potifar dava feste, per il mondo
questo era probabilmente molto meglio».54
Markus Pohlmeyer*
29
M. Görg ha tentato di ricondurre tutte le singole espressioni della
confessione di fede cristiana ai loro pre-testi egiziani (M. Görg, Glaube und
Geschichte. Die Bilder des christlichen Credo und ihre Wurzeln im alten
Ägypten, Düsseldorf 52005). Molto consigliabile O. Keel, Die Welt der altorientalischen Bildsymbolik und das Alte Testament: am Beispiel der Psalmen,
Göttingen 51996. Questo libro illustrato mostra visivamente la dipendenza
intertestuale della lingua dell’Antico Testamento dalla grammatica figurativa e semantica dell’Oriente antico.
30
Nella genesi della religione Amarna di Echnaton si può ricostruire
molto bene, dal punto di vista della storia della religione, questo percorso dal
politeismo al monoteismo attraverso l’enoteismo.
31
Ad esempio, buddhismo e induismo sono religioni monistiche; cf., al
riguardo, M. Pohlmeyer, «Buddhistisches und Christliches – Theologische,
literarische und philosophische Konstellationen», in Id. (a cura di), Als Anfang schuf Gott Echnaton – Kontexte, Konflikte und Konstellationen von Religionen, Flensburg 2009, 93-120.
32
Cf. N. Bolz, Die Sinngesellschaft.
33
T. Mann, Selbstkommentare: «Joseph und seine Brüder», a cura di H.
Wysling, Frankfurt am Main 1999, 329.
34
Cf., al riguardo, Mann, Giuseppe, II, 1406.
35
Dell’epoca di Giuseppe.
36
Dell’epoca di Abramo.
37
H. Kurzke, Mondwanderungen. Wegweiser Thomas Manns Joseph-Roman, Frankfurt am Main 2003, 55.
38
Kurzke, Thomas Mann, 138.
39
Mann, Giuseppe, I, 518.
40
Ivi, I, 515.
41
W. Frizen, «Thomas Mann und das Christentum», in H. Koopmann, Thomas-Mann-Handbuch,, Frankfurt am Main 32005, 307-326; qui
317s.
42
G. Theissen, A. Merz, Il Gesù storico: un manuale, Queriniana, Brescia 1999, 318.
43
Kurzke, Thomas Mann, 135s.
44
Un rimando al nome dell’arcangelo Michele: Chi (è) come Dio?
45
Mann, Giuseppe, II, 1405-1406.
46
Cf., al riguardo, Mann, Giuseppe, I, 518.
47
Mann, Giuseppe, II, 1406.
48
Ivi, II, 1407.
49
Ivi, I, 518.
50
Cf., al riguardo, J.G. Fichte: «[…] io produco certe determinazioni
in me, quando l’oggetto è una mera invenzione; o esse sono presenti senza il
mio intervento, quando qualcosa deve essere reale; e io guardo a quella produzione, a quell’essere. Essi sono in me solo nella misura in cui li guardo:
Guardare e essere sono inseparabilmente uniti» (J.G. Fichte, Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre, in Id., Ausgewählte Werke in sechs Bänden, a
cura di F. Medicus, III volume, Darmstadt 2013, 1-33; qui 19s).
51
Cf., al riguardo, Mann, Giuseppe, I, 518-519.
52
Questo neologismo è stato proposto da Martin Swales (Cambridge).
53
Echnaton, Sonnenhymnen, 17, un documento poetico sulla tolleranza, nonostante l’animata discussione sulla politica religiosa (fondamentalista)
di Echnaton.
54
H. Plechinski, Königsallee, München 22013, 271.
VI