Untitled - Rizzoli Libri

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ALESSANDRO FABBRI
IL RE DELL’ULTIMA SPIAGGIA
ROMANZO
BOMPIANI
Realizzazione editoriale: Perroni & Morli Studio – Taormina (ME)
Fabbri, alessandro, Il re dell’ultima spiaggia
Published by arrangement with
Marco Vigevani Agenzia Letteraria
© 2010 RCS Libri S.p.A.
Via Mecenate 91 – 20138 Milano
ISBN 978-88-452-6481-8
Prima edizione Bompiani maggio 2010
CARLO?
Le famme si alzavano verso il cielo della notte. Guizzavano, in lingue gialle e rosse, alte fno alle luci rotanti.
Ne toccai una. Mi restò impigliata fra le dita, smise di librarsi. Ebbi l’impulso di strapparla, poi vidi che dal bar
Veronica mi guardava storto, e lasciai andare la famma.
Meglio non farmi sgamare mentre rovinavo il nuovo acquisto del locale.
Davvero non sapevo perché Gino avesse buttato soldi
in quel fuoco fnto – fettuccine di tela spinte in alto da un
getto d’aria e illuminate da una lampada che, in effetti, le
rendeva simili a un vero falò. Ma non me ne fregava un
cazzo. E me la godevo a occhieggiare il triste deserto del
Black Out: le bariste oppresse dalla noia; le cubiste, una
bionda e una stangona negra, torpide come drogate; il dj
Fabio che mandava un’accozzaglia di dance preistorica –
pareva un idiota con quelle cuffe – e metà dei tavoli occupata da nanetti mosci che non reggevano l’alcol. E presto nell’altra metà si sarebbero piazzati i Gullini. Piccoli
stronzi criminali, ormai si credevano i titolari del locale e
combinavano casini ogni notte.
Ne avevo le palle piene. In teoria ero di turno fno alla
chiusura, ma dovevo correre all’appuntamento della vita.
Feci il giro delle ragazze ai banconi, e via una sflza di
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bacetti all’angolo della bocca. Tutte si mostrarono sorprese che me ne andassi così presto, e mi fece piacere, non
sospettavano minimamente il mio gran colpo. Tenni per
ultima Veronica, appollaiata alla cassa. Mi guardò infastidita, e sorrisi all’idea che presto si sarebbe maledetta per
aver snobbato i miei intorti.
“Sono venuto a dirti addio, bella.”
“Già te ne vai?” rispose, senza capire. “Non chiedermi
di coprirti con Gino. L’ultima volta…”
“Tranquilla. Dammi un bacino.”
“Col cazzo” replicò. “E non sperare neanche di scroccarmi un drink. Sai, a volte penso che lavori qui solo per
bere gratis.”
Stavo per rivelarle che al Black Out non avrei più messo
piede, ma avevo giurato di tenere il segreto.
“Piuttosto, sta’ attento giù dal ponte” continuò Veronica,
sistemandosi la frangetta, “c’è il blocco con l’etilometro.”
“Guarda che non ho bevuto.”
Mi guardò scettica, consapevole della mia devozione
a Bumba. Le ammirai il seno debordante. Veronica era
uno schianto dalla testa ai piedi, ma mi ero stufato di darle
corda. Così le allungai un pizzicotto sulle tette, e veloce
sparii nel corridoio dei cessi, tanto non poteva abbandonare lo sgabello per inseguirmi.
Iniziavo a sentirmi eccitato e nervoso. Mi lisciai i capelli e mi specchiai, disturbato dai conati di qualcuno che
vomitava nei box. Quante volte l’avevo fatto anch’io, in
quel buco puzzolente. Be’, epoca chiusa. Mi feci largo in
uno sciame di nani, raggiunsi l’uffcio di Gino e, pronto
alla sparata, inflai la testa dentro.
Era seduto alla scrivania, curvo e rattrappito. Nadia gli
aveva appena fccato la siringa nel braccio. Avevo davvero
scelto un bel momento. Lui comunque non se la prese, e
mi fece cenno di entrare. Nadia invece mi sparò un’occhiata acida, ma fnsi di non vederla – come fnsi di non
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vedere quello schifoso ago che bucava l’avambraccio pallido di Gino.
“Ehilà” dissi. “Mi sa che stacco, devo beccare un cliente
giù a Savio.”
Si lisciò la barba. Portava il solito vecchio completo
scuro, con camicia verdolina. Le stampelle quasi non si
notavano nel caos della stanzetta.
“Vai via? E le ultime consegne?”
Era il momento.
“Ho già sistemato con Alberto” assicurai.
“Sì?” borbottò, intronato. “A me non ha detto niente.”
“Neanche a me” precisò Nadia, fasciata da un abitino che
doveva averle prosciugato mezza paga da infermiera privata.
“Ho già dato tutto a lui” ribadii.
Ora dovevo solo sperare che Gino non gli telefonasse
per verifcare.
“Allora bene” disse, “va’ pure.”
Nadia sflò la siringa di botto. “Stavo giusto per chiamarlo, Alberto.”
Ma ormai ero fuori, e pazienza se ora esplodeva il casino. Tanto Alberto, l’incubo da evitare a tutti i costi, era
a Cattolica, dove gli avevo dato appuntamento, e senz’altro
là ancora m’aspettava, coi muscoli gonf di steroidi, la maglia aderente e i bicipiti tatuati, a grattarsi la pelata come
un defciente. Fregarlo era stata una bazzecola.
Presi l’uscita dello staff e camminai all’indietro, gli occhi fssi sul locale. Volevo gustarmi l’addio. Per anni mi
era sembrato chissà che, ma il Black Out non era altro
che un basso edifcio dai muri sbiaditi, con minuscole fnestrelle e un parcheggio di ghiaia tutto buche. Sul tetto c’erano ampi spazi vuoti, dov’erano cadute le tegole,
nel giardinetto sul retro l’erba non veniva potata da chissà
quanto e nessuno si era mai preso la briga di riverniciare il
legno della staccionata, corroso dal vento e dalla salsedine.
Sotto l’insegna al neon, avvolta da zanzare e falene, ecco la
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solita mandria di teppistelli: i Gullini, pronti a invadere la
pista dopo aver frantumato miriadi di bottiglie e rombato
sugli scooter truccati. Il loro capetto mi salutò e io ricambiai con un cenno che signifcava “ci vediamo domani”;
conosceva la mia auto e non volevo che la rigasse o peggio.
Accompagnato dal pulsare attutito di Starlight, raggiunsi il
baracchino del piadinaro. Dai bidoni all’angolo, carichi di
rifuti del ristorante lì vicino, saliva un tanfo di pesce marcio.
Di colpo non mi sembrò vero che non sarei più entrato
al Black Out. Era davvero un posto del cazzo. E io non mi
ero mai sentito tanto carico.
Mi stavo avvicinando alla pineta, ben concentrato sul
discorsino che avrei dovuto recitare, quando un coupé mi
sfrecciò a fanco mancandomi per un soffo. Mi voltai, boccheggiante. Farmi investire a un passo dal grande appuntamento sarebbe stato il colmo. Urlai un insulto, e l’auto
inchiodò. Solo allora m’accorsi che era la bmw di Alberto.
Innestò la retro e tornò verso di me a palla.
Consumai un attimo di panico, poi iniziai a correre.
Schivai una famigliola che leccava coni gelato e imboccai
una traversa. Mi chinai al riparo delle auto ferme, poi capii che l’unica era schizzare alla velocità della luce. Mi
spostai in mezzo alla strada e mulinai le gambe. Non avevo il coraggio di voltarmi, ero certo che Alberto mi stesse
inseguendo, sempre più vicino. Come poteva essere lì? A
un tratto incespicai e un mocassino mi volò via. Ero perduto. Mi girai come un birillo, e la via era deserta. Ma
lui poteva sbucare da un momento all’altro. Raccattai la
scarpa, la inflai con mani tremanti e ripresi la fuga.
Zigzagai in un’infnità di stradine, alla cieca, fnché mi
sentii scoppiare. Il cuore batteva all’impazzata, la milza
pulsava. Ero capitato sul viale del passeggio, e per fortuna
di Alberto nessuna traccia. Incredibile, l’avevo seminato.
Guardai male un contadino dalla camicia pietosa che mi
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fssava, poi mi nascosi nella massa. Di solito odiavo la calca in quella strada, fancheggiata da orribili bidoni della
spazzatura color pastello, ma ora mi stava dando una bella
mano. A quel punto era impossibile che Alberto mi beccasse.
Tempo un minuto e non pensavo più a lui. Ero arrivato
al Santa Cruz.
Oltre il muro di cinta saettavano lame di luce cullate
dalla techno, e una gran folla era soffocata dai cordoni e
dagli sguardi truci dei buttafuori. Ma la mandria si estendeva all’intero incrocio, una calca terribile davanti ai locali.
Tra i maschi abbondavano le camicie bianche e le cinture
pitonate, mentre le fghe di città sfoggiavano sandali lucidi
e camicette “sbadatamente” slacciate, imitate invano dalle campagnole, che non andavano mai più in là dei top
spruzzati di brillantini di plastica. Inutile, per loro non
c’era via d’uscita, ma d’altronde quasi per nessuno; le
chiamate a vuoto si sprecavano, e molti, dopo i tentativi
infruttuosi – senz’altro diretti ad “amici” o pr per ingressi
alla disperata – pigiavano le tastiere in frenetici sms. Mi fgurai identiche folle sparse ovunque sulla Riviera, pressate
nell’imbuto delle discoteche come puntini fusi in un’unica
macchia, con drink-card mitragliate di buchi e polsi segnati da timbri fuorescenti, a caccia di spiragli nelle fle
ai bar o grondanti sudore in un angolo di pista, sovrastati
dallo spirito aleggiante di Bumba. Una volta avevo amato
quel caos, ora invece mi pareva che tutti volessero fuggire;
un altro sabato sera a Marina di Ravenna e sarei impazzito
– ma fnalmente ero conscio di vivere un’ultima volta. Da
domani tutto questo sarebbe svanito dal mio orizzonte.
Quando una truppa di vigliacchine mi sfrecciò accanto
e carpii la parola “telecamere”, stabilii il da farsi. Dovevo
andare al Santa Cruz ma non avevo intenzione di sorbirmi
la fla, così decisi di attendere lo sblocco dell’ingorgo
scivolando al Freestyle, il mio street bar preferito. Anche lì
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però si avanzava a gomitate; di tavoli liberi neanche l’ombra, la house mi vibrava in pancia e l’afa, già soffocante,
era pompata dalla ressa. Appena m’accorsi delle chiazze che avevo sotto le ascelle, imprecai. Dovevo fondarmi
in bagno.
A fatica raggiunsi l’entrata, e fu allora che udii quella
voce: “Carlo?”
Mi voltai. Al tavolo più vicino sedeva un tipo bruno coi
capelli laccati e la faccia larga come un tagliere. Nella sua
camicia a collo alto e rigido, mi lanciava un gran sorrisone.
“Ohi, Carlo!”
Ero sicuro di non conoscerlo, eppure sapeva il mio nome.
Tirai dritto.
Al cesso per prima cosa pisciai, quindi mi piazzai allo
specchio, turbato.
Avevo trascorso il pomeriggio a studiare gli abbinamenti, e nonostante alcuni dei pezzi migliori fossero sporchi –
la camicia nera Guess, i jeans Cavalli – alla fne avevo trovato una bella combinazione: camicia bianca a collo alto,
lasciata aperta sul torace abbronzato, pantaloni di lino e
mocassini beige; stile semplice, per non dare l’idea di voler
impressionare, ma lasciando intendere che sapevo come ci
si veste. Poi mi ero bagnato i capelli e dato una spruzzata
di olio lucidante. Ora la corsa a perdifato aveva incasinato
tutto. La camicia era zuppa di sudore e nei pantaloni avevo una riga nera, forse procuratami strisciando fra le auto.
Inoltre i capelli erano impazziti. Mi restavano solo venti
minuti per compiere il miracolo. Tamponai le ascelle con
una salvietta, strofnai le macchie e maledissi Alberto. Poi
iniziai a dubitare. Era proprio suo quel coupé? Marina nel
weekend pullulava di bmw nere, magari il tizio alla guida
era solo un coglione imbizzarrito per via del mio urlaccio.
Era stato il panico a offuscarmi. Be’, comprensibile: imbattermi in Alberto stanotte avrebbe fatto a pezzi il sogno.
Mentre la camicia si asciugava, modellai le ciocche.
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Negli ultimi tempi non avevo toccato alcol, sigarette né
altro, e gli effetti erano evidenti. Pelle liscia, lingua rosa,
occhi privi di venuzze. Niente da dire: la faccia, la mia vera
arma, era al suo meglio. Di nuovo tranquillo e fducioso,
sflai di tasca il foglio degli appunti e recitai il brano di
autopresentazione.
Ciao, sono Carlo Neri. Ho appena compiuto ventinove anni, e quindici di questi li ho passati nel mondo
della notte. Be’, sì, io sono di qui, e il meglio di queste
parti sono le discoteche. Il mondo dello spettacolo, della
bella gente, mi ha sempre attratto, e ho iniziato presto
a darmi da fare per entrarci. Ora sono pronto a spiccare
il salto, e…
Un’ombra balenò alle mie spalle, un colpo alla nuca mi
fece sbattere il naso sullo specchio. Mentre urlavo, una
mano mi ghermì i capelli. Mi voltai e davanti a me, fremente, vidi Alberto.
“Gran discorso” sibilò, alzando il pugno.
“No!” strillai. “Non colpirmi in faccia!”
Mi afferrò il bavero. “Che cazzo dici, eh? Ci vediamo
a Cattolica?!”
Feci per replicare, ma mi mollò uno schiaffo. Sentii
la guancia in famme.
“Cazzo speravi, che restavo là ad aspettarti? E neanche
ti nascondi, vai al Black Out. Poi mi vedi e scappi nel
posto dove t’imbuchi ogni volta. Quanto sei coglione da
uno a dieci?”
Mi stava incollato, e strippavo nel terrore che mi martellasse la faccia. Poi pensai che comunque non mi avrebbe lasciato andare in nessun caso, e dunque la grande occasione era persa, per sempre. Oh no, Dio, no…
“Dammi i soldi!” sbraitò. “È due mesi che prendi Gino per il
culo! O forse non li hai? Non hai chiuso neanche un giro, eh?”
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