homo empaticus - Accademia di Belle Arti di Palermo

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homo empaticus - Accademia di Belle Arti di Palermo
HOMO EMPATICUS
Tratto da: Jeremy Rifkin, La civiltà dell'empatia, Milano, Mondadori, 2010
Una nuova idea di natura umana
Di cosa siamo fatti? In un’epoca dominata dall’interesse materiale, non sorprende che i
biologi, per non parlare dei chimici e dei fisici, abbiano cercato risposte di tipo materiale nelle loro
indagini per afferrare l’essenza della vita. La maggior parte dei nostri filosofi, fino a tempi recenti,
sono stati altrettanto espliciti nell’esprimere la convinzione che la nostra natura più profonda sia
essenzialmente materialista. Per chiarire: ogni individuo cerca di assicurarsi il benessere materiale e
di inglobare quanto più mondo gli è possibile. La pop star Madonna ha catturato lo spirito
dell’epoca, proclamandosi «una ragazza materialista» in un «mondo materialista».
Come abbiamo notato nel capitolo I, Hobbes considerava l’uomo aggressivo ed egoista per
natura: siamo nati per combattere e competere e siamo continuamente impegnati in una incessante
lotta l’uno con l’altro per il dominio e la supremazia, e per garantirci il benessere a spese dei nostri
simili. John Locke scelse un approccio meno duro, perfino benigno, affermando che allo stato di
natura gli esseri umani sono socievoli e ben disposti gli uni verso gli altri. Ciononostante, sempre
secondo Locke, per predisposizione siamo acquisitivi e impieghiamo il nostro lavoro fisico e
intellettuale per impossessarci della materia del mondo e trasformarla in una proprietà produttiva.
Jeremy Bentham e gli utilitaristi concordavano con Locke: siamo per natura materialisti e, in quanto
tali, cerchiamo di ottimizzare il piacere e di mitigare il dolore.
Alla fine dell’Ottocento, il nascente interesse per il funzionamento della mente umana diede
impulso alle discipline psicologiche: gli studiosi cominciarono a rivolgere la propria attenzione a
ciò che dà forma alla psiche umana. Meno interessati alle astrattezze del pensiero filosofico circa la
natura dell’uomo, molti dei primi psicologi (ma non tutti) si orientarono all’osservazione clinica e
scientifica dei processi della mente, senza mettere in discussione i preconcetti materialisti
sull’essenza della natura umana. Come Adam Smith, ipotizzarono che ogni individuo nasca per
perseguire il proprio mero e personale interesse economico. E, seguendo l’orientamento di Darwin,
ritennero che la principale preoccupazione di ogni uomo o donna fossero la sopravvivenza fisica e
la riproduzione.
1
Freud, l’ultimo grande utilitarista
Sebbene Sigmund Freud sia spesso considerato un pensatore rivoluzionario, promotore di un
grande mutamento di pensiero circa la concezione della natura umana, in molti degli aspetti più
importanti delle sue elaborazioni teoriche ha scrupolosamente seguito il dettato materialista. Nelle
sue tesi, Freud è riuscito a far confluire sia le argomentazioni materialiste dell’Illuminismo
settecentesco sia una versione secolarizzata del preesistente concetto, derivato dalla Chiesa
medievale, di una natura umana fallace e depravata. Il ritratto terrificante e devastante che offre
dell’uomo è così evocativo e potente che da allora costituisce lo schema della percezione collettiva
della storia umana, con conseguenze che si riflettono in ogni aspetto e ambito della società: dal
modo in cui alleviamo i figli alle norme della vita sociale, dal funzionamento delle attività
economiche alla definizione delle politiche pubbliche.
La grande eredità che Freud ci ha lasciato è la trasposizione erotica dell’interesse individuale
materialista. Non ci volle molto perché la nuova versione erotizzata della natura umana venisse
applicata da un contemporaneo di Freud, John B. Watson, altro pioniere del campo della psicologia,
al nascente settore della pubblicità di massa. Gran parte del successo del capitalismo consumistico
nel corso del secolo passato è dovuto - almeno in buona parte - all’erotizzazione dei desideri e alla
sessualizzazione del consumo. Gli annunci pubblicitari sono intrisi di riferimenti erotici.
Freud cominciò domandandosi cosa chiede l’uomo alla vita e cosa desidera ottenere nella
vita, e, allineandosi alla teoria utilitarista settecentesca, rispose che la vita dell’uomo si articola fra
due polarità, una positiva e una negativa: da una parte, l’uomo tende a evitare dolore e dispiacere, e,
dall’altra, a cercare forti sentimenti di piacere.1
Freud spinge la sua tesi ancora più in là, affermando:
Se ipotizziamo in via generalissima che la molla di ogni attività umana sia l’aspirazione
verso le due mete convergenti dell’utile e del piacevole, allora dobbiamo attenerci a essa anche per
le manifestazioni della civiltà…2
Freud si domanda poi, retoricamente, cosa rappresenti per l’uomo «il prototipo di ogni
felicità» e giunge alla conclusione che è «il rapporto sessuale». E che, stando così le cose, l’uomo
ha deciso di porre «l’erotismo genitale al centro della vita stessa».3
La spinta verso la soddisfazione sessuale è così potente, afferma Freud, che tutta la realtà
esterna diviene un mero strumento per il raggiungimento di tale piacere. Lasciato senza controlli,
l’uomo non permette a nulla di frapporsi alla propria ricerca dell’orgasmo sessuale. Egli è, perciò,
guidato dalla libido ed è aggressivo per natura, essendo teso esclusivamente a placare il proprio
inestinguibile appetito sessuale. Egli è, a tutti gli effetti, un mostro. Scrive Freud:
Una parte di vero dietro tutto questo c’è, anche se sovente non viene riconosciuta, ed è che
l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace al massimo di difendersi quando è
attaccata; è vero invece che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di
aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto
sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza
lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel
possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo nomini lupus.4
2
L’uomo si rivela «una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria
specie».5
La società, a sua volta, è poco più che una raffinata prigione psicoculturale edificata per
contenere la pulsione sessuale aggressiva dell’uomo, che altrimenti porterebbe a una guerra di tutti
contro tutti e all’annientamento reciproco. Freud arriva al punto di liquidare l’amore come una
pulsione «inibita nella meta», vale a dire un meccanismo di difesa elaborato per arginare la pulsione
e l’aggressione sessuale primitiva. Quanto alla regola aurea che prescrive «ama il prossimo tuo
come te stesso», Freud ne dà un giudizio sprezzante, affermando che non vi è nulla di più contrario
alla natura dell’uomo.6
Nello schema freudiano, la civiltà si riduce a una sorta di compromesso che l’uomo ha
accettato malvolentieri, al solo scopo di barattare «una parte della sua possibilità di felicità per un
po’ di sicurezza».7
Se per natura gli uomini distruggono e si uccidono l’un l’altro, come ci suggerisce Freud,
come possiamo spiegare il fatto che la vita stessa sembra tendere all’ordine, alla complessità,
all’integrazione? Come molti suoi contemporanei, Freud fu costretto a scontrarsi con i nuovi
principi scientifici della termodinamica e con le leggi della conservazione dell’energia, che indicano
come l’organismo biologico e le comunità viventi siano coinvolte in una lotta incessante per creare
ordine e complessità contro l’inevitabile freno dell’entropia, dell’equilibrio e della morte. Se l’uomo
si limitasse a essere, nella propria essenza, uno strumento di distruzione e di morte, la natura
dell’uomo non sarebbe compatibile né con la teoria dell’evoluzione biologica di Darwin né con le
allora emergenti leggi della termodinamica. Freud trovò una via d’uscita da questa impasse
delineando il concetto di «pulsione di morte» che sarebbe diventato il fulcro della sua visione della
natura umana. Freud afferma che tale concetto cominciò a prendere forma nella sua mente mentre
scriveva Al di là del principio di piacere, nel 1920.
Partendo da speculazioni sull’origine della vita e da paralleli biologici, trassi la conclusione
che, oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più vaste,
dovesse esistere un’altra pulsione a essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle
allo stato primordiale inorganico. Dunque, oltre a Eros, una pulsione di morte. La loro azione
comune o contrastante avrebbe permesso di spiegare i fenomeni della vita. 8
Freud considerava la pulsione di morte, cioè l’impulso all’aggressività e alla distruzione,
una forza che poteva essere
piegata al servizio dell’Eros, nel senso che l’essere vivente distruggerebbe qualcos’altro,
animato o inanimato, anziché sé stesso. Viceversa, la limitazione di questa aggressività verso
l’esterno dovrebbe intensificare l’autodistruzione, che in ogni caso procede sempre. 9
In prima istanza, la pulsione di morte si manifesta in forma di sadismo e, in seconda, di
masochismo: entrambi sono l’espressione della pulsione sessuale istintiva. La pulsione sessuale
cerca sfogo nell’onnipotenza e nel dominio sugli altri nel caso del sadismo, e nell’umiliazione e
nell’autodistruzione nel caso del masochismo.10
Freud, alla fine, giunse alla conclusione che tutta la vita è al servizio della pulsione di morte.
La sua visione profondamente pessimistica della natura umana è stata abbracciata da molti grandi
pensatori dell’epoca. Lo psicoanalista freudiano Géza Róheim definiva la pulsione di morte come
«il pilastro della metapsicologia».11 Ma non tutti furono conquistati dalla tetra valutazione freudiana
dello spirito umano. Negli anni Venti e Trenta Ian D. Suttie fu uno degli psicologi che rigettarono
l’analisi freudiana, riferendosi alla sua teoria come alla
3
suprema espressione dell’odio, che viene elevato allo status di scopo primario e
indipendente della vita: un appetito autonomo che, come la fame, non richiede una provocazione
esterna ed è un fine in sé. 12
Ogni altra emozione umana, nel mondo di Freud, non sarebbe che una repressione
«residuale» della pulsione sessuale e della pulsione di morte. Perfino l’amore e la tenerezza sono
considerati espressioni represse o indebolite dell’impulso erotico.13 La civiltà ha un solo scopo:
diventare lo strumento grazie al quale l’essere umano soddisfa i propri bisogni libidici, perseguendo
il dominio sugli altri e promuovendo il proprio interesse materiale.
Stranamente assente dall’analisi di Freud è qualsiasi approfondita considerazione sull’amore
materno: una forza potente e inoppugnabile che si riscontra fra gli animali che allevano la propria
prole. E proprio qui si ha traccia della psicologia personale, per non dire della patologia, di Freud.
In 17 disagio della civiltà, Freud fa un’ammissione rivelatrice e molto eloquente: riguardo al
sentimento profondo di appartenenza dell’uomo al tutto, analogo a quello che lega l’infante alla
madre, Freud scrive: «Non riesco a scoprire in me questo sentimento “oceanico”».14 Riconosce che
altri possano provarlo, ma a lui, personalmente, sfugge. Freud considera l’infante, così come
l’adulto che diventerà, guidato fin dall’inizio dalla libido: la madre non è un oggetto d’amore e
affetto ma, piuttosto, un oggetto di utilità sessuale e materiale il cui solo scopo è soddisfare la
pulsione innata del bambino verso la soddisfazione sessuale e il piacere. Attaccamento, affetto,
amore e comunione sono illusioni: la relazione parentale, nella sua interezza, è utilitaristica e
pensata per massimizzare il piacere del bambino. Freud scrive che «quando il lattante cerca di
percepire la madre, ciò avviene in quanto egli sa già per esperienza che essa soddisfa senza indugio
tutti i suoi bisogni».15 Come sottolinea Suttie,
il dettato nega definitivamente la possibilità dell’ereditarietà del desiderio di compagnia, se
non nella misura in cui questa agevola la soddisfazione di appetiti fisici. Secondo Freud, l’infante
apprende il valore della madre come un’utilità in sé. 16
Freud solleva l’interessante questione se il «sentimento oceanico di indifferenziazione», di
cui spesso si parla a proposito dell’infanzia, possa avere un ruolo nella vita adulta in termini di
bisogno di religione o di attaccamento all’idea di Dio, ma ritiene non sia probabile, almeno in
termini di sostituto delle attenzioni materne. Molto più probabile, secondo Freud, è che la fonte
dell’impulso religioso si trovi nell’«impotenza infantile e nella conseguente nostalgia del padre».
Ecco dove Freud rivela il suo personale punto cieco emotivo, e quello dell’epoca in cui è cresciuto.
Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di
essere protetti dal padre. La parte spettante al sentimento oceanico, sentimento che potrebbe dirsi
volto alla restaurazione di un illimitato narcisismo, viene dunque assai ridimensionata. L’origine
dell’atteggiamento religioso può venir individuata nei suoi chiari contorni risalendo al sentimento
d’impotenza dell’infanzia. Dietro può esserci ancora qualcos’altro, che però al momento è avvolto
nella nebbia. 17
Dunque, per Freud, l’impulso religioso è strettamente utilitaristico e diretto verso una figura
paterna che possa garantire un senso di sicurezza. L’amore materno, le sue cure e il senso di
reciproco affetto e comunione sono prodotti dell’immaginazione che mascherano una più profonda
pulsione narcisistica.
A quasi un quarto di secolo dalla formulazione di questa teoria, il celebre antropologo
Ashley Montagu avrebbe scritto che le fondamenta psicologiche delle convinzioni di Freud erano
viziate da una mistica maschilista in cui il femminile ha solo un ruolo marginale, ammesso che ne
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abbia uno. La psicoanalisi di Freud, scrive Montagu,è una psicologia patriarcale: la natura della
donna sembra essere completamente sfuggita a Freud, ed egli quasi lo confessa e, per questa
ragione … non ha mai afferrato il vero significato della relazione fra madre e figlio o il significato
dell’amore.18
Freud è stato l’ultimo esponente della vecchia guardia: un autore magistrale che ha fatto una
brillante arringa a favore dell’antica narrazione patriarcale, le cui radici affondano nelle grandi
civiltà irrigue del Vicino e dell’Estremo Oriente, fiorita con le grandi religioni monoteiste e il
confucianesimo. In questa ultima, grande difesa, Freud ha usato con efficacia il nuovissimo
concetto di «inconscio», utilizzandolo per affermare che il dominio maschile sul mondo è
nell’ordine naturale delle cose. La storia del complesso di Edipo è un’immaginifica sceneggiatura
teatrale pensata per collocare il protagonista maschile al centro della storia del genere umano. Per
quanto riguarda il ruolo femminile, Freud era, per sua stessa ammissione, perplesso circa la sua
funzione, a parte quella di generare prole e allattarla. Ogni altro carattere intellettuale o emotivo
della femmina non poteva che essere, secondo Freud, una pallida ombra di quelli del maschio.
Dunque, non meraviglia che Freud abbia spiegato in termini riduttivi la psiche femminile,
affermando che la somma totale del suo comportamento è, in ultima istanza, un riflesso
dell’«invidia del pene» che la femmina porta con sé fin dalla vita prenatale.
Ma perfino l’accorata e geniale difesa che Freud fece del dominio maschile non potè nulla
contro le forze della storia che stavano cominciando a scalfire le fondamenta patriarcali della
civiltà, che avevano resistito ai rigori del tempo per più di cinquemila anni. I nuovi complessi
energetico-comunicazionali della Prima e della Seconda rivoluzione industriale abbatterono le mura
erette a difesa del patriarcato, liberando le donne da millenni di schiavitù, servaggio e
subordinazione. La stampa - soprattutto il romanzo sentimentale -offrì alle donne uno specchio in
cui osservare se stesse e le proprie relazioni e, in tal modo, diede avvio all’arduo viaggio di scoperta
del loro sé; nello stesso tempo, il telefono mise a disposizione una nuova fonte di comunicazione
che permise a milioni di donne di sfuggire ai confini delle loro case per cominciare a condividere
con altri via cavo la propria esperienza di vita, creando un nuovo e potente strumento di relazione
sociale, utile per esplorare i comuni interessi di genere. (Quando pensiamo ai primi telefoni,
l’immagine che ci viene in mente è, quasi invariabilmente, quella di due donne che conversano ai
capi opposti del filo.) Se il romanzo fu uno strumento di riflessione intima, il telefono fu un mezzo
di conversazione e di consolidamento della solidarietà di genere.
Entrambe le forme di comunicazione avrebbero avuto un ruolo nel liberare la donna dal
vigile controllo del maschio, permettendole di trovare identità e voce proprie. Prima
dell’alfabetizzazione di massa, della stampa e del telefono, la capacità della donna di pensare
autonomamente e di trovare solidarietà, al di là del ristretto ambito della conversazione fra i membri
femminili della famiglia allargata, era limitata. La soverchiante presenza maschile assicurava la loro
docilità. La stampa e la rivoluzione della comunicazione elettrica offrirono alle donne i mezzi di cui
avevano bisogno per aprire la propria mente e ampliare i propri orizzonti, alla scoperta della propria
femminilità. Il cinema, la radio e la televisione fornirono alle donne ulteriori mezzi di
comunicazione per esplorare ed espandere la propria identità.
L’istruzione pubblica obbligatoria e l’alfabetizzazione di massa cominciarono a mettere la
donna su un piano di parità con l’uomo in termini di comunicazione. La diffusione dell’automobile,
l’elettrificazione delle case e la disponibilità degli elettrodomestici di produzione industriale
liberarono la donna - almeno in parte - dal compito estenuante di garantire quanto necessario alla
vita della famiglia. L’energia del vapore e l’elettricità trasformarono anche il lavoro fisico in lavoro
intellettuale ed emotivo, permettendo alle donne di reclamare il proprio posto nelle fabbriche e nelle
attività commerciali. Sebbene il loro talento e le loro competenze fossero messi a frutto in misura
minore rispetto a quelli maschili, e fossero remunerati conseguentemente, non è esagerato
considerare l’emergere di figure di donne semi-indipendenti, in grado di provvedere
economicamente a se stesse, un cambiamento epocale nelle relazioni di genere.
5
Freud elaborò le sue teorie proprio nei decenni in cui in Europa, in America e in alcune altre
parti del mondo si stava passando dalla Prima alla Seconda rivoluzione industriale. I suoi trattati più
importanti risalgono agli anni Venti, quando le fabbriche passarono dal vapore all’elettricità, le
donne cominciarono a guidare le Ford Model T e la liberazione femminile divenne un argomento
molto in voga. Francis Scott Fitzgerald definì la nuova donna «maschietta» e la sua immagine di
sfida al dominio maschile divenne il marchio distintivo di quelli che sarebbero stati chiamati gli
«anni ruggenti».
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Cosa vogliono davvero i bambini
Tutto questo non passò inosservato a una generazione più giovane di psicologi, che
cominciò a mettere in discussione gli assiomi della visione freudiana della natura umana.
Giustamente, il primo psicologo di grande levatura a contestare le tesi di Freud - per quanto non
intenzionalmente - fu una donna: Melanie Klein. La sua teoria della «relazione oggettuale» aprì solo
una piccola breccia, ma fu sufficiente a permettere ad altri di sfondare le mura della fortezza
freudiana e annunciare al mondo una nuova visione della natura umana, più compatibile con le
forze tecnologiche, economiche e sociali che stavano rimodellando la civiltà.
Klein restituì alla figura materna il ruolo cardine nella storia dell’uomo, anche se bisogna di
nuovo sottolineare che non era la critica a Freud il suo obiettivo, essendo rimasta una sua devota
discepola fino alla morte.
Freud fu il primo a usare il termine «oggetto» nella sua analisi della sessualizzazione della
relazione. Nella sua opera del 1905, Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud categorizza «la persona
dalla quale parte l’attrazione sessuale, oggetto sessuale, [e] l’azione verso la quale la pulsione
spinge, meta sessuale».19 Ogni individuo, secondo Freud, è affannosamente in movimento da un
oggetto all’altro, alla ricerca della soddisfazione del proprio desiderio sessuale, con l’obiettivo di
una «estinzione parziale e temporanea della libido».20
Klein, alla quale si attribuisce il ruolo di pioniere della scuola britannica della relazione
oggettuale, rimase fedele al dettato di Freud, con una sola eccezione: pur accettando l’idea
freudiana che tanto la libido quanto l’aggressione siano pulsioni primarie, pose maggior enfasi sulla
seconda. L’aggressione è in prima istanza diretta verso il seno materno: l’infante scinde l’oggetto
primario, il seno, nel seno buono che soddisfa la sua pulsione libidica e nel seno cattivo che lo
frustra e lo punisce, negandogli la soddisfazione.
Klein si distacca da Freud anche per un altro importante aspetto, quando afferma che l’Io è
in gioco, in forma primitiva, fin dalla nascita, e attribuisce all’infante la capacità di creare relazioni
oggettuali interiorizzate. Asserendo che qualche forma di consapevolezza è presente fin dalla
primissima infanzia, Klein inferisce che il primo oggetto interiorizzato del bambino è la madre, non
il padre.
Nelle prime fasi dell’infanzia, dunque, l’aggressività naturale del bambino si rivolge verso la
madre, non verso il padre. Ma dato che il seno è scisso in seno buono e seno cattivo, il bambino
giunge a nutrire sentimenti ambigui nei confronti dell’oggetto. Con la crescita, il bambino comincia
a riconoscere la madre non più semplicemente come un seno, ma come un essere che lo accudisce, e
l’ambivalenza porta alla paura che l’aggressione possa ferire l’oggetto buono; egli comincia a
provare un senso di rimorso e di colpa, nonché il desiderio di offrire riparazione, per non
distruggere la relazione dalla quale dipende per soddisfare la propria libido.
Sebbene Klein continuasse a considerare la pulsione primaria dell’infante libidica e
aggressiva, lasciava spazio però alla possibilità che le relazioni umane venissero temperate dalla
socialità.21 Ma, dato che era convinta, come Freud, che la pulsione distruttiva e la pulsione di morte
fossero integrate nella psiche umana, non fu in grado di fare un passo ulteriore e convincersi che la
socialità è una pulsione primaria, e non compensativa.22
Sono stati altri a trarre beneficio dalla breccia aperta da Klein per demolire la premessa
freudiana che vuole il bambino nato per espropriare e distruggere, spinto dalla libido. Diversamente
da Klein, che considerava la socialità una risposta secondaria a una pulsione aggressiva primaria,
psicologi come William Fairbairn, Heinz Kohut, Donald W. Winnicott e Ian Suttie hanno suggerito
che è la socialità la pulsione primaria e che libido, aggressione e distruzione costituiscono una
7
risposta compensatoria alla frustrazione del più fondamentale dei bisogni umani. Per questi
psicologi, le relazioni con gli oggetti non sono determinate dalla convenienza e dalla necessità di
soddisfare la libido, bensì dal bisogno di rapporti umani, di amore, di affetto e di compagnia.
Fairbairn diede inizio alla rivolta ponendo una semplice domanda: «Perché un lattante si
succhia il pollice?». Lo stesso Fairbairn suggeriva che «dalla risposta a questa semplice domanda
dipende l’intera validità della concezione delle zone erogene e la forma della teoria della libido
basata su di essa».23
Freud voleva convincerci che il bambino si succhia il pollice «perché la bocca è una zona
erogena, e il succhiare gli procura piacere erotico». Per quanto l’argomentazione possa sembrare a
prima vista convincente, Fairbairn si pone una seconda domanda: «Perché il pollice?». Secondo
Fairbairn, «la risposta alla domanda è: “Perché non c’è un seno da succhiare”». Per Fairbairn,
succhiarsi il pollice «rappresenta quindi una tecnica per far fronte a un’insoddisfacente relazione
oggettuale».24 In altre parole, l’infante si sta procurando una relazione oggettuale sostitutiva per
soddisfarsi, dato che gli viene negato ciò che realmente desidera, cioè una relazione con il seno
della madre e con la madre stessa. Qui Fairbairn prende le distanze da Freud e Klein, creando uno
scisma nella teoria psicoanalitica. Scrive:
Si deve sempre tener presente, però, che non è l’atteggiamento libidico che determina la
relazione oggettuale, ma è la relazione oggettuale che determina l’atteggiamento libidico.25
Tutte le forme di sessualità infantile che ossessionavano Freud, afferma Fairbairn, sono
azioni compensatorie per alleviare l’ansia del bambino per ciò che realmente desidera, ma gli viene
parzialmente o prevalentemente negato. E che cosa ogni bambino desidera più di qualsiasi altra
cosa e teme che gli venga negato? Su questo, Fairbairn è inequivocabile:
la frustrazione del suo desiderio di essere amato come persona e di sentire accettato il suo
amore è il più grave trauma che un bambino possa sperimentare; ed è soprattutto questo trauma che
crea le fissazioni nelle varie forme della sessualità infantile a cui un bimbo è spinto a ricorrere nel
tentativo di compensare, mediante soddisfazioni sostitutive, il fallimento delle sue relazioni
affettive con gli oggetti esterni. 26
Quando il bambino avverte di non essere amato come persona o vede respinto il proprio
amore, la sua maturazione si blocca ed egli comincia a sviluppare relazioni aberranti e a manifestare
sintomi patologici come aggressività, ossessioni, paranoia e comportamenti isterici o fobici.27 Tutti
questi comportamenti derivano da un profondo senso di isolamento e abbandono.
Fairbairn giunge all’inevitabile conclusione che la visione freudiana della natura umana
fosse profondamente sbagliata in due aspetti fondamentali: l’importanza primaria della pulsione
libidica e la gratificazione.
Fra le conclusioni formulate … due delle più importanti sono le seguenti: 1) i «fini» libidici
hanno un’importanza secondaria rispetto alle relazioni oggettuali, e 2) una relazione con l’oggetto, e
non una gratificazione della pulsione, è il fine ultimo della tensione libidica. 28
Le implicazioni di queste due osservazioni sono immense, dal momento che mettono in
discussione le ipotesi fondamentali di Freud sulla natura della natura umana. Freud, rammentiamo,
era convinto che la libido fosse una forza intrinseca e primaria. Fin dall’inizio della sua vita, il
bambino cerca il piacere illimitato in diverse forme erotizzate: il cosiddetto «principio di piacere».
Già prima che vi sia un Io, c’è un Es, una forza primaria alla ricerca della soddisfazione libidica.
Ma, alla fine, il principio di piacere deve essere imbrigliato dalla società, se si vogliono avere
relazioni sociali ordinate. Di conseguenza, il «principio di realtà» viene imposto dalla società nella
forma dell’autorità genitoriale, a partire dall’educazione al controllo degli sfinteri e da altre forme
di condizionamento. Questi limiti facilitano la formazione dell’Io, che è poco più di un meccanismo
8
di repressione delle pulsioni libidiche e di controllo dell’Es in nome della socializzazione.
Fairbairn rovescia la tesi di Freud, affermando che la struttura dell’Io comincia a svilupparsi
alla nascita e che gli impulsi sono gli strumenti attraverso i quali l’Io cerca la relazione con gli altri.
In altre parole, il principio di realtà esiste fin dal parto. Ogni bambino cerca l’altro e costruisce
ponti di socializzazione, se non veri e propri legami, fin dalla nascita. Fairbairn puntualizza che «in
fondo, le “pulsioni” devono essere considerate semplicemente come componenti delle forme di
attività che costituiscono la vita delle strutture dell’Io», e che questa attività è diretta alla creazione
di relazioni.29 Il principio di realtà, nello schema di Fairbairn, è primario. Il bambino è
continuamente impegnato a creare connessioni con gli altri, al fine di consolidare le relazioni.
Questo è il vero significato del principio di realtà. Nella misura in cui l’obiettivo primario della
socialità è frustrato e all’Io non è consentito di maturare adeguatamente, il principio di piacere
subentra come mero sostituto. Fairbairn è impietoso nella sua critica alla tesi centrale di Freud, e
spiega così le differenze tra le due visioni:
Secondo questa prospettiva, il principio di piacere non sarà più considerato il principio
primario del comportamento, bensì un principio sussidiario che implica un impoverimento delle
relazioni oggettuali e che entra in opera nella misura in cui il principio di realtà fallisce, sia a causa
dell’immaturità della struttura dell’Io sia per un fallimento dello sviluppo da parte sua. 30
Altri si unirono a Fairbairn nella critica alle tesi di Freud e nel delineare una controteoria
della natura umana centrata sull’importanza della relazione sociale per lo sviluppo della psiche e del
sé. Heinz Kohut concordava con Fairbairn sul fatto che la pulsione distruttiva non è intrinseca
all’uomo ma, al contrario, è un’espressione del fallimento nella costruzione di relazioni affidabili.
Aggiungeva, però, un’importante cautela relativa all’analisi di Fairbairn, circa il ruolo dell’empatia
nello sviluppo di un sé maturo e le conseguenze imprevedibili sulla formazione dell’Io in sua
assenza.
In La guarigione del sé Kohut afferma, come Fairbairn, che la pulsione distruttiva - orientata
verso sé o verso gli altri - si ha quando il bambino sperimenta ripetuti fallimenti nella connessione
emotiva con un oggetto relazionale. Scrive:
La distruttività dell’uomo … sorge originariamente come risultato del fallimento
dell’ambiente oggetto-Sé a corrispondere al bisogno del bambino di risposte empatiche ottimali
(non perfette, va ribadito). L’aggressività, inoltre, come fenomeno psicologico, non è elementare. 31
Sebbene riconosca che il bambino nasce con una pulsione all’assertività, Kohut distingue
questa dall’aggressività, dalla rabbia e dalla distruttività: la prima è strumentale alla formazione
dell’Io e allo sviluppo di un sé maturo, mentre le altre rappresentano la mancata realizzazione della
relazione sé-oggetto a causa di un deficit empatico da parte di uno dei genitori o di entrambi.32
Le osservazioni cliniche condotte per anni su pazienti dallo stesso Kohut lo convinsero che
non sono le pulsioni in sé, ma «la minaccia all’organizzazione del sé» a essere fondamentale per lo
sviluppo.33 Se la risposta empatica dei genitori è debole o inesistente, lo sviluppo del bambino si
arresta. In queste circostanze, le pulsioni «diventano potenti costellazioni autonome» e si innesca la
rabbia distruttiva.34
Kohut liquida con sufficienza il ruolo centrale attribuito da Freud all’anatomia sessuale,
affermando che «un bambino/a sia influenzato in modo molto più significativo dall’atteggiamento
empatico degli adulti che gli o le stanno intorno, che non dagli attributi della dotazione organica».
Quando un bambino «scopre che il suo pene è molto più piccolo di quello di un adulto», la cosa è di
poca importanza e minimamente rilevante per l’adulto che egli diventerà. Ma l’importanza di avere
genitori affettuosi ed empatici è fondamentale nella determinazione del tipo di persona che alla fine
diventerà. Kohut conclude che «non si può valutare abbastanza l’importanza della matrice empatica
9
in cui siamo cresciuti».35
Kohut fa anche un’osservazione conclusiva che vale la pena di annotare. Rivela che fa poca
differenza chi sia il fornitore delle prime cure parentali, nella misura in cui fornisce l’appropriata
risposta empatica per lo sviluppo del bambino. E cita un esempio, riferito da Anna Freud e Sophie
Dann, per sottolineare che la madre biologica non è essenziale per fornire il necessario ambiente
empatico che nutre il processo di sviluppo del bambino. Freud e Dann riferiscono il caso di sei
bambini sopravvissuti in un campo di concentramento nazista, durante la seconda guerra mondiale.
Nel corso dei tre anni di internamento, erano stati accuditi da un gruppo di madri surrogate che
cambiavano in continuazione: quando un gruppo veniva sterminato, il gruppo successivo si
prendeva cura dei bambini, fino alla loro esecuzione. I bambini erano, comprensibilmente,
disturbati, ma avevano un sé ragionevolmente coeso: cosa che poteva essere attribuita soltanto allo
sguardo empatico e all’affetto delle molte donne che si erano prese cura di loro.36
Mentre Fairbairn e Kohut portavano un attacco frontale alla teoria freudiana della natura
umana, un altro contemporaneo, Donald W. Winnicott, pediatra per formazione, lanciava
un’offensiva più defilata, ma non meno efficace, partendo dalla propria decennale
esperienza di lavoro con i bambini. Winnicott mise in discussione la concezione stessa di un
piccolo individuo autoreferenziato che vede il mondo come un paese di Bengodi fatto per saziare i
propri appetiti. Winnicott affermava che l’idea di un bambino-individuo era, di per sé, un equivoco:
gli infanti non esistono autonomamente e non hanno neppure un senso di sé coerente. «A questo
primissimo stadio» afferma Winnicott «non è logico pensare in termini di individuo … perché non
si è ancora costituito un Sé individuale.»37 Sebbene all’epoca fosse considerato anti-intuitivo - ma
piuttosto ovvio col senno di poi -, Winnicott stava individuando un punto critico: il bambino si
forma nell’utero, ma l’individuo si forma nella relazione.
Quando mi si mostra un neonato, mi si mostra certamente anche qualcuno che bada al
bambino, o almeno una carrozzina con incollati addosso gli occhi e le orecchie di qualcuno. Ci
troviamo in presenza di una coppia formata dal bambino e da chi gli bada. 38
Ciò che Winnicott sta dicendo è che la relazione precede l’individuo, non viceversa. In altre
parole, non sono gli individui a creare la società, ma piuttosto è la società a creare gli individui.
Questa semplice osservazione mette in discussione il fondamento stesso della modernità, con
l’enfasi che questa pone sull’individuo autonomo e autosufficiente che esercita la propria volontà
sul mondo.
Winnicott dimostra la propria tesi con il significativo racconto del primo bagliore di
consapevolezza del neonato. Ci chiede di considerare l’importanza fondamentale del primo atto del
neonato: trovare il capezzolo della madre. Nei suoi anni di esperienza pediatrica, Winnicott aveva
osservato che il modo in cui il neonato è introdotto al capezzolo della madre determina il corso del
futuro sviluppo del bambino come individuo. Poiché questo atto rappresenta anche la primissima
iniziazione a una relazione con un altro essere, il modo in cui la relazione è avviata è determinante
per il tipo di aspettative - o per la mancanza di aspettative - che il bambino sviluppa riguardo agli
altri.
Nella prima poppata, dice Winnicott, la madre deve permettere al neonato di trovare il
capezzolo, rendendo l’esperienza un dono giocoso e - cosa ancor più importante - dando
l’impressione al neonato - per quanto debolmente la possa percepire - di creare lui stesso il
capezzolo39 e, nel farlo, di «creare il mondo». Quel che accade qui, osserva Winnicott, è che «la
madre aspetta di essere scoperta».40 Questo segna l’inizio della prima relazione
intrattenuta dal bambino e guida lo sviluppo del suo senso di sé. E attraverso questo atto
creativo che in seguito si sviluppa il senso dell’«io» e del «tu». Winnicott sintetizza così
l’importanza della prima poppata:
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Le memorie vengono costruite sulla base di innumerevoli impressioni sensoriali che si
associano all’attività del nutrirsi e di trovare l’oggetto. Nel corso del tempo si arriva a uno stato in
cui il bambino piccolo ha fiducia nel fatto che l’oggetto del desiderio possa essere trovato e questo
significa che gradualmente il bambino comincia a tollerare l’assenza dell’oggetto. Così comincia a
formarsi nel bambino il concetto di realtà esterna … Tramite la magia del desiderio si può dire che
il lattante ha l’illusione di un potere creativo magico: tramite l’adattamento sensitivo della madre,
l’onnipotenza diventa un dato di fatto. La base su cui si fonda il graduale riconoscimento da parte
del bambino piccolo della mancanza di controllo magico sulla realtà esterna sta nell’onnipotenza
iniziale che è resa un dato di fatto dalla tecnica di adattamento della madre. 41
Se la madre, per esempio, non permette al bambino di scoprire giocosamente e creare
magicamente il capezzolo, ma conduce invece la bocca del bambino al proprio seno, al neonato
viene negata l’opportunità di costruire ricordi sensoriali che gli permettano di percepirsi come
individuo distinto e separato che agisce su e con altri individui distinti e separati. Attraverso la
modalità in cui entra in questa prima relazione, dunque, la madre può aiutare il neonato a diventare
un essere individuale. Fin dal primo vagito, la relazione crea l’individuo.
Non permettere al neonato di «contribuire» frustra la relazione - per ballare un tango,
bisogna essere in due - e arresta lo sviluppo del sé. Winnicott avverte che
è molto facile farsi ingannare, vedere il neonato che risponde a un allattamento adeguato, e
non notare che questo bambino, che ha adottato una modalità completamente passiva, non ha mai
creato il mondo, non ha nessuna capacità di rapporti esterni e non ha nessun futuro come
individuo.42
Winnicott giunge alla conclusione che
probabilmente non c’è niente che lo psicologo possa insegnare, che avrebbe un effetto più
profondo sulla salute mentale degli individui della comunità, di questa questione del bisogno del
bambino di essere il creatore del capezzolo della madre.43
Fairbairn, Kohut e Winnicott, ciascuno a proprio modo, hanno scalfito i presupposti della
psicoanalisi freudiana, creando una contro teoria della natura umana che enfatizza l’importanza
della relazione sociale rispetto alle pulsioni libidiche nello sviluppo della psiche e del sé
dell’individuo. Ian Suttie ha sviluppato ulteriormente questo processo, offrendo una spiegazione
alternativa della natura umana che, sotto ogni aspetto, è il diretto speculare delle tesi di Freud.
Suttie ricorda che il suo percorso verso una visione alternativa della natura umana cominciò
quando
[intravide] quasi da subito la possibilità che il bisogno biologico di accudimento potesse
presentarsi psicologicamente nella mente del bambino non come groviglio di necessità fisiche
concrete e di privazioni potenziali, bensì come vissuto di piacere sperimentato in situazioni di
comunione responsiva e, viceversa, come vissuto di disagio in situazioni di solitudine e di
isolamento.44
Suttie giunse così a individuare nel «bisogno innato di socialità» un primario strumento del
neonato per assicurarsi la sopravvivenza e ne affermò la centralità nella natura umana.45
Suttie, come Fairbairn, Kohut e Winnicott, considerava infondata l’idea di Freud secondo la
quale la libido governerebbe la natura umana, sia in teoria sia nella prassi. L’idea che il desiderio di
un neonato non ancora formato per la propria madre fosse sessualiz-zato fin dall’inizio della vita e
che la sessualizzazione si estendesse poi a tutte le relazioni che l’individuo avrebbe creato in
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seguito, anche nella vita adulta, gli pareva in contrasto con il buonsenso e l’esperienza emotiva
della gran parte delle persone. Al contrario, Suttie riteneva che tutti i successivi interessi della
persona - le modalità con cui giochiamo, cooperiamo, competiamo, perseguiamo i nostri interessi
culturali o politici - fossero sostituti di quella prima relazione, del legame fra la madre e il neonato.
Suttie afferma che «una tale sostituzione prevede che l’ambiente sociale nel suo insieme venga
collocato nella posizione in precedenza occupata dalla madre».46
Suttie si contrappone a Hobbes e ai successivi pensatori illuministi, che consideravano
l’interesse materiale la motivazione guida dei comportamenti umani. Al contrario, Suttie affermava,
con Huizinga e altri, che è il gioco la più importante attività sociale, quella attraverso cui creiamo
comunione, generiamo fiducia reciproca, esercitiamo l’immaginazione e la creatività individuali. Il
gioco è l’ambito nel quale superiamo il senso di solitudine esistenziale e ritroviamo il sentimento di
comunione che abbiamo scoperto con il nostro compagno di giochi primordiale: nostra madre.47
Suttie ribadisce la propria convinzione che la compagnia e il gioco siano essenziali nell’evoluzione
personale dell’essere umano sottolineando che
il periodo fra la prima infanzia e l’età adulta [è] dominato da un bisogno di socialità quasi
insaziabile, che ricorre all’energia plastica degli interessi umani per soddisfare il desiderio di
gioco.48
Diversamente da Freud, che considerava la tenerezza come una debole sublimazione
dell’eccitazione sessuale, Suttie riteneva che essa fosse invece una forza primaria che si manifesta
fin dall’inizio della vita. La sua idea di «tenerezza» si avvicina a quella di Kohut sull’importanza
del legame empatico nella creazione delle relazioni sociali.
Suttie rifiuta l’idea che tutte le relazioni umane - anche tra infanti -siano determinate dal
tentativo di sopraffare l’altro. Certamente, tale comportamento si manifesta nella maturazione di
alcuni infanti verso la fanciullezza, ma rappresenta un impulso secondario che deriva da una
mancanza di reciprocità affettuosa nella prima vera relazione sociale con la madre. Suttie afferma
che è assurdo ritenere che un neonato sia in grado di avvertire un senso di guadagno o perdita di
potere nelle proprie relazioni con la madre ancor prima di avere sviluppato una rudimentale
consapevolezza di sé. Questo perché
la condizione primaria non è una condizione di onnipotenza, poiché questa implicherebbe la
consapevolezza di sé come distinto dalla madre, una distinzione che, come si è detto, non può
valere nella prima infanzia. Alla base di questa differenziazione del sé dal non-sé non possono
esserci, come si è visto, una questione di potere o un conflitto d’interesse o di desiderio, né alcuna
consapevolezza della distinzione tra guadagno e perdita. Le interazioni tra la madre e il neonato
sono interamente piacevoli o spiacevoli e non recano sentimenti di vantaggio o di sconfitta a
nessuna delle due parti.49
Solo se la madre rifiuta di concedersi al bambino, o ne respinge i gesti d’affetto o i doni,
«l’angoscia, l’odio, l’aggressività, che Freud confonde con una pulsione primaria, e la volontà di
potenza» cominciano a manifestarsi.50
Secondo Suttie, l’infante inizia la propria vita con un incipiente ma, nondimeno, istintivo
bisogno di fare e ricevere doni, che è alla base di tutti i legami affettivi. La reciprocità è al centro
della socialità ed è l’elemento costitutivo delle relazioni. Se manca la reciprocità, lo sviluppo del sé
e della socialità è compromesso ed emerge la patologia psichica.51
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L’animale più sociale
Mentre i teorici della relazione oggettuale, come Fairbairn, Kohut, Winnicott e Suttie,
mettevano a nudo le debolezze dell’analisi freudiana tradizionale, sostenendo che il bambino,
anziché dominato dalla libido, è predisposto alla comunione e alla socialità, altri ricercatori - spesso
lavorando indipendentemente l’uno dall’altro -giungevano alle medesime conclusioni. Attraverso
una serie di studi controllati su infanti allevati in orfanotrofi e/o accolti in famiglie adottive, alcuni
psicologi osservarono risultati sconcertanti che sembravano confermare la tesi della socialità.
Lo psicoanalista David Levy era interessato ai bambini allevati da madri iperprotettive.
Aveva costituito un gruppo di controllo che comprendeva bambini privati dell’accudimento materno
in età neonatale che, in seguito, non erano stati in grado di creare legami di attaccamento con la
famiglia adottiva. La maggior parte di questi bambini aveva trascorso i primi anni di vita in
orfanotrofio, e più tardi presso famiglie affidatarie, prima di trovare una famiglia adottiva.
L’attenzione del ricercatore si concentrò presto su questo gruppo di controllo, avendo egli notato un
fenomeno inquietante: i bambini che non avevano avuto all’inizio della propria esistenza un legame
con una figura materna, per quanto a prima vista sembrassero essersi affezionati, in realtà, nel
profondo, mostravano poco o nessun calore emotivo; erano spesso sessualmente aggressivi e dediti
a comportamenti antisociali come la bugia compulsiva e il furto; quasi tutti erano incapaci di
instaurare genuini legami di amicizia. Levy classificò questi bambini come sofferenti per «una
carenza di affetto primario». Non erano in grado di esprimere la gamma completa dei sentimenti
umani che scaturisce da una significativa relazione con una figura materna. Levy si pose una
raggelante domanda: se fosse possibile che «questo fosse il risultato di una malattia deficitaria della
vita emotiva, equiparabile alla deficienza di elementi nutritivi vitali in un organismo in fase di
sviluppo».52
Altri ricercatori notarono comportamenti parimenti inquietanti fra i bambini confinati negli
orfanotrofi o in altre istituzioni pubbliche. Lauretta Bender, primario del reparto di psichiatria
infantile del Bellevue Hospital di New York, osservò che tali bambini sono spaventosamente
inumani. Scrisse:
Non hanno una modalità di gioco … non riescono a partecipare a un gioco di gruppo se non
maltrattando gli altri bambini, si aggrappano agli adulti e manifestano sbalzi di umore quando viene
loro richiesta cooperazione. Sono ipercinetici e distratti, completamente confusi riguardo alle
relazioni umane, e … si perdono in fantasie distruttive rivolte tanto contro gli altri quanto contro se
stessi.53
Privati delle cure materne, questi bambini hanno sviluppato personalità psicopatiche.
La mancanza di cure materne in queste istituzioni fu esacerbata dagli standard di igiene
imposti, paradossalmente, a salvaguardia della salute fisica dei bambini. Rammentiamo, dal
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capitolo I, la quasi ossessiva preoccupazione di mantenere un ambiente sterile negli orfanotrofi e in
analoghe istituzioni ospedaliere, così da non diffondere malattie. A tal fine, il personale era dissuaso
perfino dal toccare i bambini, o dal prenderli in braccio e cullarli, per paura di diffondere germi e
patologie. La maggior parte dei bambini era allattata artificialmente, in modo che l’inserviente
addetto non fosse costretto a entrare in contatto fisico diretto con loro. I bambini languivano: in
alcuni orfanotrofi, il tasso di mortalità oscillava fra uno sconcertante 32% e un agghiacciante 72%
nei primi due anni di vita. Sebbene adeguatamente nutriti e allevati in un ambiente pulito, questi
bambini morivano come mosche. Spesso la diagnosi era «malnutrizione», o si ipotizzava fossero
affetti da «ospedalismo»: due definizioni che non facevano che mascherare il vero problema.54
Privati dell’affetto e del contatto con una figura materna, i bambini, semplicemente, perdevano il
desiderio di vivere.
Tali rigidi protocolli pubblici furono la norma negli orfanotrofi da prima della prima guerra
mondiale agli anni Trenta, nonostante l’accumularsi di prove che vi fosse qualcosa di radicalmente
sbagliato nel modo in cui tali istituzioni erano gestite. Fu solo nel 1931, quando un pediatra, Harry
Bakwin, divenne primario del reparto pediatrico del Bellevue Hospital di New York, che la
condizione di questi bambini cominciò a cambiare. Bakwin pubblicò un articolo, intitolato
Loneliness in Infants, in cui metteva in correlazione mortalità infantile e denutrizione emotiva. In
un brano particolarmente significativo e commovente dell’articolo, Bakwin osservava che
l’ossessione per l’isolamento degli infanti aveva raggiunto proporzioni tragiche nella struttura
ospedaliera dove lavorava, e notava che la direzione sanitaria era giunta al punto di prefigurare
una scatola con valvole di immissione e di emissione e varchi dotati di guanti per gli
inservienti. Il bambino, messo in questa scatola, può essere accudito senza che vi sia quasi la
necessità che mano umana lo tocchi.55
Nel proprio reparto, Bakwin ordinò di appendere cartelli che recavano avvertimenti del tipo:
«È vietato circolare senza un bambino in braccio».56 I tassi di mortalità crollarono e i bambini
cominciarono a crescere vigorosi.
In quello stesso periodo, altri ricercatori stavano scoprendo una correlazione fra intelligenza,
capacità linguistiche e deprivazione emotiva. I bambini allevati in orfanotrofio spesso dimostravano
un quoziente di intelligenza più basso, fino al limite del ritardo mentale, rispetto a quelli allevati in
famiglie adottive.57 Questi studi contraddicevano il pensiero ortodosso dell’epoca, il quale riteneva
che il quoziente intellettivo fosse ereditario.
In uno studio epocale, condotto da Harold Skeels della Iowa Child Research Welfare Station,
tredici bambini di età inferiore ai 2 anni e mezzo, allevati in un orfanotrofio, furono affidati
ciascuno alle cure di una ragazza mentalmente ritardata, in un’istituzione pubblica. In un periodo di
diciannove mesi, il quoziente di intelligenza medio dei bambini accuditi da queste ragazze passò da
64 a 92, dimostrando che il ruolo dei legami affettivi è molto più importante nello sviluppo
dell’intelligenza umana di quanto non si sospettasse in precedenza.58 La convinzione, diffusa da
tempo, che l’intelligenza dell’individuo fosse predeterminata a livello biologico non sembrava più
così convincente: era possibile che l’intelligenza mentale di un bambino derivasse dall’innato
bisogno emotivo di affetto e compagnia?
Il crescente numero di studi sull’accudimento dei bambini in tenera età, o sulla sua
mancanza, condotto fra gli anni Trenta e Quaranta cominciò a cambiare, per quanto lentamente, le
convinzioni in ambito psichiatrico riguardo alla natura della natura umana. Ma fu l’effetto viscerale
ed emotivo che ebbe un film a scuotere dalle fondamenta la disciplina e a cambiare per sempre
l’idea di corretto accudimento professionale dei bambini, oltre che il ruolo genitoriale.
Nel 1947 un cortometraggio amatoriale fu mostrato a un ristretto gruppo di medici e
psicoanalisti alla New York Academy of Medicine. Il film, realizzato da René Spitz, uno
psicoanalista, si intitolava Grief: A Perii in Infancy. Si trattava di un film muto, girato in bianco e
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nero, che mostrava alcuni bambini che avevano goduto per un certo periodo di cure materne ma
erano in seguito stati costretti, da varie circostanze, in una casa di accoglienza, dove una sola
infermiera e cinque assistenti dovevano badare a quarantacinque bambini.
La prima bambina, una femmina, viene mostrata immediatamente dopo il momento in cui la
madre l’ha lasciata all’istituzione per un periodo di tre mesi: la piccola sorride e gioca con un
addetto adulto. Sette giorni dopo, la stessa bambina è diventata un’altra persona: sembra spaurita e
non ha reazioni; piange incontrollabilmente e talvolta tira calci all’adulto che l’accudisce. Il filmato
passa in rassegna altri bambini che sembrano storditi, depressi, senza vita. Molti di loro sono
emaciati e hanno comportamenti stereotipati, come il mordersi le mani. Molti non riescono neppure
a sedersi o ad alzarsi in piedi: rimangono immobili e privi di espressione, senz’anima. Sono gusci
vuoti. Sullo schermo compare una scritta: «La cura: restituire il bambino alla madre».59
L’effetto del film su psicologi, medici e infermieri fu travolgente. Alcuni scoppiarono a
piangere. Negli anni successivi il film fu visto da migliaia di psicologi professionisti, psichiatri,
assistenti sociali, medici e infermieri. Molti lessero anche il libro di Spitz Il primo anno di vita, che
avrebbe cambiato il dibattito sull’accudimento neonatale, ma ci vollero altri vent’anni prima che
nella professione pediatrica una solida maggioranza abbracciasse le scoperte e le implicazioni del
film di Spitz.
L’uomo che più di ogni altro ha il merito di aver sviluppato una teoria coerente per spiegare
ciò che Spitz e altri ricercatori si erano limitati a raccontare fu lo psichiatra John Bowlby. La sua
«teoria dell’attaccamento» fu originariamente articolata in una serie di tre articoli scientifici
presentati alla British Psychoanalytic Society di Londra fra il 1958 e il 1960. Il suo primo articolo,
intitolato The Nature of the Child’s Tie to His Mother, scosse la comunità psicoanalitica e, in ultima
istanza, contribuì ad archiviare definitivamente la teoria di Freud sulla natura dell’uomo.
Partendo dalla teoria della relazione oggettuale, e soprattutto dalle pionieristiche intuizioni
di Fairbairn, Bowlby argomentava che la prima relazione del bambino con la madre ne determina
l’intera vita emotiva e mentale, e, come Fairbairn, riteneva che la pulsione primaria del bambino
fosse la ricerca della relazione con gli altri:
Appena nato, il bambino non sa distinguere una persona da un’altra; anzi, non sa distinguere
una persona da un oggetto. Eppure, già al suo primo compleanno è probabilmente diventato un
esperto conoscitore delle persone: non solo ha imparato velocemente a distinguere i famigliari dagli
estranei, ma fra i propri famigliari ha già individuato i suoi preferiti, che saluta con piacere, segue
quando si allontanano e cerca quando non ci sono. La loro perdita causa ansia e tensione; la loro
ricomparsa sollievo e senso di sicurezza. Su questa base, sembra, si costruisce il resto della vita
emotiva: senza queste fondamenta, sono a rischio la salute e la felicità future.60
Come altri teorici della relazione oggettuale, Bowlby era in disaccordo con l’ancora
dominante teoria freudiana secondo cui il desiderio di cibo è la motivazione primaria dell’uomo,
mentre le relazioni personali sarebbero prevalentemente secondarie e ricercate solo per saziare
pulsioni libidiche.61 Ma Bowlby fece un passo da gigante rispetto ai suoi colleghi, contestualizzando
le relazioni oggettuali nell’ambito della biologia evolutiva, e conferendo dunque all’ipotesi il peso
scientifico necessario per mettere in discussione e sovvertire l’ortodossia freudiana.
La teoria di Bowlby fu fortemente influenzata dal lavoro dell’etologo Konrad Lorenz, che
nel 1935 aveva pubblicato un importante lavoro sull’imprinting degli uccelli. Le sue osservazioni
avevano gettato le basi per la teoria di Bowlby sull’attaccamento umano. In un articolo intitolato
The Companion in the Bird’s World, Lorenz aveva riferito che in alcune specie di uccelli, come le
anatre e le oche, i pulcini si legano immediatamente al primo adulto con il quale entrano in contatto.
Bowlby fu impressionato dal fatto che
in alcune specie di uccelli, aveva rilevato [Lorenz], i piccoli sviluppano solidi legami con
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una figura materna, durante i primi giorni di vita, indipendentemente dal cibo, semplicemente in
presenza di, e acquistando famigliarità con, la figura in questione.62
Bowlby si era imbattuto in un corpus di lavori nel campo dell’etologia che convalidavano le
sue osservazioni sullo sviluppo dell’infante umano. In seguito avrebbe così raccontato questa
rivelazione:
Fu un vero e proprio eureka. Si trattava di scienziati brillanti, di prim’ordine, eccellenti
osservatori, e studiosi delle relazioni famigliari in altre specie - relazioni che trovavano un’ovvia
analogia nelle relazioni fra esseri umani - che si erano conquistati la fama grazie a questi studi. Noi
brancolavamo ancora nel buio. Loro erano già alla piena luce del sole.63
Nel suo Costruzione e rottura dei legami affettivi, pubblicato nel 1979, Bowlby avrebbe
esplicitamente riconosciuto il proprio debito nei confronti di Lorenz e dei suoi colleghi etologi,
scrivendo:
In un saggio pubblicato nel 1958 ho esposto una teoria dell’attaccamento basata sulla
considerazione che i dati empirici sullo sviluppo del legame del bambino con la madre possono
essere compresi meglio facendo riferimento a un modello derivato dall’etologia.64
Bowlby osservò che il comportamento di attaccamento esiste in quasi tutte le specie di
mammiferi: un soggetto immaturo si lega a un soggetto maturo, quasi sempre la madre,
generalmente per ottenere protezione, e tale comportamento è indipendente dai comportamenti
sessuali o alimentari.65
Tutto questo può sembrare ovvio, ma Bowlby fece un passo in avanti rispetto agli etologi,
notando che fra i mammiferi il comportamento di attaccamento è solo una parte del rapporto con la
madre in continuo svolgimento: si manifesta anche un comportamento apparentemente antitetico.
Aveva notato, infatti, che in tutti i mammiferi «l’attività esplorativa è di grande importanza, dato
che rende una persona o un animale capace di costruirsi un quadro coerente delle caratteristiche
dell’ambiente che, in determinati momenti, possono divenire importanti per la sopravvivenza».
Bowlby sottolinea che
i bambini e altri piccoli esseri sono notoriamente curiosi e indagatori, il che li porta di solito
ad allontanarsi dalla figura di attaccamento. In questo senso il comportamento esplorativo è
antitetico al comportamento di attaccamento. Negli individui normali, di solito, questi due tipi di
comportamento si alternano.66
La domanda fondamentale è che cosa colleghi le due forme di comportamento che nel
mondo animale si possono così diffusamente osservare fra le madri e i rispettivi cuccioli. È qui che
Bowlby individua quella relazione dialettica che esiste fra l’attaccamento e l’indipendenza che darà
forma alla sua teoria sulla natura umana.Il genitore sufficientemente capace, afferma Bowlby,
fornisce al bambino «una base sicura» e «lo incoraggia a esplorare a partire da questa base».67
A meno che il genitore non lo provveda di un senso sicuro di protezione, cura e affetto, il
bambino non sarà in grado di svilupparsi al punto da affrontare il mondo e diventare un individuo
indipendente. Ma, al tempo stesso, il genitore deve incoraggiare l’innato desiderio del bambino di
esplorare e affrontare il mondo che lo circonda. Sarà il successo o il fallimento di questo delicato
processo a determinare la futura vita emotiva e la socialità di ogni bambino. Bowlby conclude
affermando che un genitore sufficientemente capace deve avere una
conoscenza comprensiva e intuitiva del comportamento di attaccamento del bambino, una
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volontà di assecondare tale comportamento, facendolo così cessare, e, in secondo luogo, la
consapevolezza che uno dei più comuni motivi di collera infantile è rappresentato dalla frustrazione
del desiderio di cure e affetto, e che l’angoscia riflette di solito insicurezza rispetto alla continuità
della disponibilità dei genitori stessi. Complementare al rispetto del genitore per i desideri di
attaccamento del bambino, è il rispetto per il suo desiderio di esplorare e di estendere gradualmente
i suoi rapporti sia con i coetanei che con altri adulti.68
Se il genitore è in grado di creare il giusto equilibrio fra un attaccamento sicuro e, nello
stesso tempo, l’esplorazione indipendente, il bambino svilupperà un sano senso di sé e acquisirà una
giusta maturità emotiva, che lo metterà nelle condizioni di confrontarsi con l’altro e instaurare
relazioni significative. Se, viceversa, il genitore non è in grado di provvedere un senso di calore e di
sicurezza e di permettere al bambino di esplorare il mondo, questi crescerà con un senso di sé solo
parzialmente sviluppato e non sarà in grado di intrattenere relazioni con gli altri, salvo quelle più
superficiali.
Bowlby non ha dedicato molta attenzione alla questione del perché un genitore sia più
capace di un altro a far funzionare questo processo. Ricerche successive nel campo della dinamica
genitore-figlio hanno mostrato chiaramente che quanto più la figura del padre o della madre è
empatica, tanto più è in grado di identificarsi emotivamente e cognitivamente con il figlio e di
interpretarne i bisogni. Un genitore con una sensibilità empatica immatura, insufficiente o
deficitaria non può avere il medesimo successo nel crescere un figlio adattabile, fiducioso e attento,
che si senta nello stesso tempo al sicuro e indipendente, in grado di entrare in relazioni significative
con gli altri. E un bambino privo di una figura genitoriale di spessore, o del tutto privo di tale figura,
fin dall’inizio non sarà in grado di stabilire relazioni sociali significative.
Le ricerche di Bowlby rivelarono che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna oltre la metà dei
bambini cresceva in un ambiente famigliare che permetteva loro di avere un sano sviluppo, mentre
più di un terzo non aveva la stessa sorte.69 Questi ultimi crescevano con genitori che non
rispondevano ai segnali con i quali i figli chiedevano di essere accuditi, o che avevano reazioni
ambigue o che addirittura li rifiutavano completamente. Comportamenti genitoriali di questo tipo
possono portare il bambino a vivere in uno stato costante di ansia - quella che Bowlby chiamava
«ansia da attaccamento» - per la paura di perdere la figura di attaccamento, che può provocare una
vasta gamma di comportamenti patologici: nevrotici, fobici, psicotici e sociopatici.70
Un bambino può anche esibire quella che Bowlby chiama «autosufficienza compulsiva»,
cioè l’esatto opposto dell’attaccamento ansioso: anziché cercare un amore che gli sfugge, stringe i
denti e tenta di diventare completamente autonomo, senza il bisogno del calore e dell’affetto degli
altri. Tale comportamento viene a volte definito «evitante». Questi bambini non hanno fiducia nelle
relazioni intime e spesso, se sottoposti a stress, crollano, presentando un’elevata incidenza di
sindromi depressive.
Bowlby sottolineava che
il modello rappresentativo, qualunque esso sia, della figura di attaccamento e di sé come
individui, costruito durante l’infanzia e l’adolescenza, tende a permanere, relativamente immutato,
per tutta la vita adulta.71
In altre parole, nel corso della vita egli tenderà ad attaccarsi a nuove persone - amici,
compagni, coniuge, datori di lavoro - con la stessa modalità e manifestando lo stesso repertorio
comportamentale elaborato con la prima figura di attaccamento, nella prima infanzia.
Al giorno d’oggi l’analisi di Bowlby sembra piuttosto scontata, ma dobbiamo ricordare che
soltanto negli anni Sessanta i pediatri statunitensi e britannici hanno cominciato ad accettare queste
teorie e a modificare i consigli che offrivano ai genitori riguardo al rapporto con i neonati; e che
solo alla fine degli anni Settanta i pediatri dei paesi dell’Europa continentale hanno fatto altrettanto.
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La teoria di Bowlby non è stata accettata da un giorno all’altro. Anzi, ha incontrato una fiera
opposizione. I freudiani erano riluttanti ad abbandonare la propria idea utilitarista e materialista
della natura umana e rimasero aggrappati alla concezione che il corpo è biologicamente orientato a
saziare appetiti materiali e sessuali; altri affermavano che la teoria dell’attaccamento poneva
eccessiva enfasi sul rapporto con i genitori per lo sviluppo del bambino, e non abbastanza sul suo
temperamento innato.
I behavioristi erano altrettanto scettici, essendo convinti che non ci fosse alcuna prova
empirica a dimostrare che il bambino sia biologicamente predisposto alla compagnia. Al contrario,
secondo i seguaci di questa scuola, il bambino alla nascita è una tabula rasa e, dato che cerca il
piacere e tende a evitare il dolore, il suo comportamento è facilmente adattabile ai condizionamenti
esterni. I behavioristi erano particolarmente critici nei confronti della teoria dell’attaccamento di
Bowlby: dopotutto propugnavano l’idea, avanzata per primo dallo psicologo John B. Watson negli
anni Venti, che i neonati siano viziati da un eccesso di affetto e di «coccole», e che questo li renda
meno adattabili nel futuro. Watson consigliava alle giovani madri di
trattarli [i bambini] come adulti in miniatura. Vestiteli e lavateli con cura e attenzione. Fate
che il vostro comportamento sia sempre obiettivo e gentilmente fermo. Non abbracciateli e non
baciateli mai; non prendeteli mai in grembo. E se proprio dovete farlo, baciateli una sola volta, sulla
fronte, per augurare loro la buonanotte. Stringete loro la mano ogni mattina. E date loro un buffetto
sulla testa se hanno eseguito eccezionalmente bene un compito molto difficile.72
Perfino alcune fra le prime femministe e professioniste della cura infantile sembravano
seccate, convinte che Bowlby stesse tentando di imprigionare le donne nel loro ruolo tradizionale di
badare esclusivamente ai bambini. È però necessario sottolineare che Bowlby non aveva in mente
nulla del genere: per quanto affermasse che l’infante ha bisogno di una figura genitoriale solida fino
all’età di 3 anni, la figura di attaccamento può essere tanto la madre biologica quanto il padre o un
altro parente o, perfino, una balia. Ma queste sue precisazioni non riuscirono a placare lo sdegno.
Tutti i critici la pensavano allo stesso modo riguardo a un tema: se il comportamento di
attaccamento è determinato biologicamente, come suggeriva Bowlby, era necessario individuare gli
elementi scientifici che potessero convalidare la sua teoria. Ottennero quanto cercavano da Mary
Ainsworth, una psicologa che aveva avuto una stretta e prolungata relazione professionale con
Bowlby. Negli anni Sessanta, Ainsworth avviò una serie di studi alla Johns Hopkins University di
Baltimora, Maryland, per fornire alla teoria di Bowlby i rigorosi dati scientifici di cui si avvertiva il
bisogno per dimostrare che corrispondeva alla realtà. Ainsworth definì quattro categorie per
valutare la modalità di relazione della madre con il figlio, per poi confrontare il comportamento
delle madri con le reazioni dei propri bambini. La madre era sensibile ai segnali del bambino?
Esprimeva accettazione o rifiuto? Accoglieva i suoi desideri e si sincronizzava con il suo ritmo, o
invece interferiva, costringendolo ad accettare un ritmo di accudimento, gioco, sonno e
alimentazione determinato da lei?
Quanto era disponibile nei suoi confronti? O, al contrario, quanto spesso lo ignorava?
Ainsworth concepì un intelligente e semplice protocollo, che battezzò «The Strange
Situation», per documentare le tesi di Bowlby. L’idea era di mettere la madre e il figlio in un
«ambiente strano», nel quale fossero presenti giocattoli, in modo da incoraggiare l’esplorazione.
Nell’ambiente veniva poi introdotto un estraneo, al fine di osservare le reazioni del bambino alla
sua comparsa. A un certo punto, la madre lasciava il bambino con l’estraneo e i ricercatori
osservavano come il bambino avrebbe reagito alla scomparsa e al successivo ritorno della madre.
Poi si creava una seconda situazione, con il bambino lasciato solo nella stanza, per osservare se il
suo stress sarebbe stato alleviato dal ritorno di un estraneo. Infine, si procedeva a un ultimo rientro
in scena della madre. Ainsworth affermò di aver elaborato l’idea, insieme ai suoi collaboratori, in
meno di un’ora.73
18
Questi studi avvalorarono le tesi di Bowlby, secondo cui un bambino che può contare su un
oggetto di attaccamento sicuro è in grado di farsi avanti da solo ed esplorare il mondo, mentre
quello che manca di tale sicurezza ha difficoltà nel farlo. Ainsworth osservò tre distinte tipologie di
comportamento fra i bambini: quelli sicuri nell’attaccamento, che si mostravano dispiaciuti quando
la madre si allontanava, la accoglievano con gioia al suo ritorno ed erano confortati dal suo
abbraccio; quelli «evitanti» nell’attaccamento, che sembravano più distanti dalla madre e che a
volte la attaccavano (questi bambini erano dispiaciuti dell’allontanamento della madre
dall’ambiente, ma non mostravano interesse al momento del suo ritorno); e quelli ambivalenti
nell’attaccamento, i più ansiosi, che, al contrario dei bambini evitanti, erano «mammoni» e pieni di
esigenze a casa e che, come gli altri bambini, erano dispiaciuti quando la madre lasciava la stanza,
ma erano inconsolabili nel loro pianto anche quando questa faceva ritorno.
Le madri dei bambini sicuri nell’attaccamento erano più reattive e sensibili, più disposte a
soddisfarne i bisogni e a tenerli con sé più a lungo e con maggiore attenzione. In breve, erano
emotivamente coinvolte e dedicavano al bambino un’attenzione più costante. Al contrario, le madri
dei bambini ambivalenti erano più arbitrarie e imprevedibili nelle loro reazioni, mentre le madri dei
bambini evitanti manifestavano in misura maggiore comportamenti di rifiuto.74
Gli srudi di Ainsworth furono una doccia fredda per i sostenitori della tesi, da lungo tempo
dominante, secondo cui i bambini non dovevano essere eccessivamente accuditi, cullati e presi in
braccio, e non doveva essere concessa loro troppa attenzione, per evitare che diventassero troppo
mammoni e dipendenti e non sviluppassero un adeguato senso di indipendenza e autonomia. Anzi,
era vero il contrario: i bambini più sicuri nell’attaccamento, ai quali erano stati offerte cure,
attenzioni e affetto in quantità, avevano maggiori probabilità di staccarsi dalla madre per giocare ed
esplorare il mondo, mentre quelli meno sicuri nell’attaccamento avevano maggiori probabilità di
manifestare dipendenza dalla madre o di evitare i contatti con gli estranei, e di non sviluppare un
senso di indipendenza. Ainsworth sottolineava che non era la quantità di tempo che la madre
dedicava al bambino a renderlo più sicuro, ma piuttosto il modo in cui lo accudiva: queste madri
dimostravano maggiore tenerezza e affetto, ed erano attente a non essere mai brusche nella
manipolazione fisica del bambino; inoltre, cosa altrettanto importante, prendevano in braccio il
bambino quando voleva essere preso in braccio, dimostrandogli di averne percepito i desideri e le
intenzioni come essere separato.
In seguito, Ainsworth continuò ad approfondire i propri studi, aggiungendo svariate
categorie e sottogruppi per precisare ulteriormente le definizioni di bambino «sicuro»,
«ambivalente» ed «evitante». In tal modo, stabilì un metodo scientìficamente valido per identificare
il come e il perché delle relazioni e dei legami fra genitore e figlio.
Il protocollo della situazione strana elaborato da Ainsworth fu adottato anche da altri
ricercatori dello stesso campo, i cui studi confermarono e rafforzarono le sue originarie conclusioni.
L. Alan Sroufe e Byron Egeland, della University of Minnesota, seguirono nel tempo, in vari
momenti della vita, fino all’età adulta, individui che da bambini erano stati sottoposti al protocollo
della situazione strana, riscontrando come - proprio come Bowlby aveva teorizzato e Ainsworth in
seguito previsto - tendessero a mantenere nel tempo il comportamento di attaccamento mostrato
nella prima valutazione. Questi srudi dimostrarono che il bambino più sicuro nell’attaccamento
tende a diventare un adulto più socievole, più sensibile verso gli altri, disposto a livelli di
cooperazione più elevati con i propri pari e in grado di sviluppare relazioni più intime. Ciò che tutti
questi individui avevano in comune era una consapevolezza empatica molto sviluppata. Perché?
Secondo Sroufe, per comprendere questo fatto è necessario partire dall’osservazione che «se sei
dentro una relazione, la relazione è parte di te… ». Sroufe si domandava poi, retoricamente:
Come si cresce un bambino empatico? Non insegnandogli o imponendogli di essere
empatico, ma essendo empatia con il bambino. L’idea di relazione che il bambino si forma non può
che fondarsi sulle relazioni delle quali ha avuto esperienza.75
19
Eppure, nonostante la validità dei risultati degli studi empirici, c’era ancora chi era poco
convinto. L’emergente campo della genetica comportamentale offriva nuovi appigli ai critici. Studi
condotti alla University of Minnesota su gemelli identici separati alla nascita e allevati in famiglie e
ambienti differenti sembravano accreditare l’idea che siano i geni, più che i fattori ambientali,
l’elemento decisivo nel promuovere lo sviluppo emotivo. Una sequela di studi su gemelli identici
allevati separatamente ha osservato in loro sorprendenti affinità di umore e comportamento,
gettando l’ombra del dubbio sulle tesi di Bowlby. Ma si deve sottolineare che Bowlby e Ainsworth
erano perfettamente consapevoli del fatto che ogni bambino nasce con particolari ritmi e
predisposizioni comportamentali, che influenzano le modalità di attaccamento sviluppato
successivamente. Bowlby commentava:
Un neonato «facile» può aiutare una madre indecisa a sviluppare modalità di accudimento
positive mentre un neonato difficile e imprevedibile può influenzarla nel senso contrario. Ma
l’evidenza empirica mostra come un bambino che sarebbe «facile» possa crescere male se accudito
male, e anche come per fortuna, salvo poche eccezioni, un bambino che sarebbe difficile possa
crescere bene se accudito con sensibilità. La capacità di una madre sensibile di adattarsi anche a un
bambino difficile e imprevedibile, e perciò di metterlo in condizione di crescere bene, è forse il dato
più incoraggiante tra quelli raccolti in questo campo.76
Dunque, la domanda è questa: ammettendo che nel legame di attaccamento entrano in gioco
tanto la natura quanto l’allevamento, quale dei due fattori ha probabilità di avere un ruolo più
importante dell’altro? Dymph van den Boom, docente di pedagogia generale all’Università di
Amsterdam, ha condotto un eccellente studio per valutare l’importanza relativa dei due elementi del
binomio natura-cultura nel comportamento di attaccamento.
I critici della teoria dell’attaccamento hanno a lungo affermato che i bambini che mostrano
irritabilità fin dalla nascita hanno meno probabilità di creare legami solidi e una maggiore
probabilità di essere ansiosi entro il primo anno di vita. Per mettere alla prova tale affermazione,
van den Boom ha studiato cento bambini diagnosticati come «fortemente irritabili» alla nascita.
Questi bambini non solo erano molto più difficili dei bambini sorridenti, ma erano anche nati in
famiglie a basso reddito, nelle quali i genitori avevano un basso livello di educazione, erano
stressati a causa delle proprie difficoltà e, quindi, avevano poca probabilità di mostrare la pazienza,
l’attenzione e la calma necessarie affinché il neonato sviluppasse un solido attaccamento.
Le cento coppie madre-bambino sono state divise in due gruppi: il primo gruppo di madri ha
partecipato a tre incontri di orientamento di due ore ciascuno nel periodo compreso fra il sesto e il
nono mese di età del rispettivo figlio, in cui venivano loro impartite istruzioni su come acuire la
propria sensibilità nei confronti dei bambini e l’efficacia dell’accudimento loro prestato; l’altro
gruppo non ha ricevuto alcuna assistenza. I risultati dell’orientamento si sono rivelati sorprendenti:
il 68% dei figli delle madri che avevano ricevuto l’orientamento è stato diagnosticato «sicuro
nell’attaccamento» al compimento di un anno di età; mentre nel gruppo di controllo solo il 28% dei
bambini è stato classificato «sicuro». Dunque, se i critici delle teoria di Bowlby hanno ragione ad
affermare che i bambini irritabili hanno meno probabilità di diventare sicuri nell’attaccamento,
come suggerisce il basso tasso di successo rilevato nel gruppo di controllo, la formazione specifica
fornita alle madri del primo gruppo ha portato il tasso di successo molto vicino al 70%.77
Robert Karen, autore di Becoming Attached: First Relationships and How They Shape Olir
Capacitif of Love, osserva che il cervello del bambino alla nascita è in gran parte non ancora
formato, ma si organizza progressivamente nei primi cinque mesi di vita. I circuiti del cervello si
formano e si collegano come risultato dell’interazione del bambino con la madre, che è il primo
mondo al quale il bambino è esposto. Di conseguenza, afferma Karen, è ragionevole concluderne
che
20
la capacità del bambino di autoregolarsi, specie in tutti quegli ambiti legati all’emozione,
dipende dalla sintonia e dall’empatia genitoriale; e se la madre non entra in sintonia emotiva con il
bambino, il cervello di questi può manifestare deficit fisiologici permanenti.78
I teorici delle relazioni oggettuali hanno messo in una nuova luce la natura umana, e ciò che
hanno scoperto indica che siamo una specie animale affettuosa e altamente socievole, che desidera
la compagnia, odia l’isolamento ed è biologicamente predisposta a manifestare empatia verso gli
altri esseri.
Ma siamo gli unici, fra gli animali sociali, ad avere la capacità di empatizzare con i nostri
simili e con le altre creature? Alcune scoperte scientifiche degli ultimi decenni ci hanno costretto a
rivalutare radicalmente il nostro pensiero sulla natura stessa dell’evoluzione biologica. La
concezione convenzionale di evoluzione, con la sua enfasi sulla competizione per assicurarsi le
risorse e riprodursi, è stata temperata, almeno per quanto riguarda i mammiferi, da nuove scoperte
che suggeriscono che la sopravvivenza del più adatto possa coinvolgere i comportamenti pro sociali
e la cooperazione, più che la prestanza fisica e la competizione. Inoltre, almeno alcune altre specie
esprimono disagio empatico. Le nuove intuizioni sulle radici sociali dell’evoluzione biologica
stanno cominciando ad avere un effetto rivoluzionario sul modo in cui percepiamo il mondo che ci
circonda e il nostro ruolo nello sviluppo della storia della vita sulla terra.
Il messaggio è che non siamo gli unici ad avere la capacità di empatizzare. Questa
consapevolezza, semplice ma densa di significato, non può che cambiare il modo in cui percepiamo
le altre creature, oltre all’idea che abbiamo di responsabilità nei confronti del pianeta che abitiamo.
21
Un’interpretazione «senziente» dell’evoluzione biologica
Nei primi anni Novanta del Novecento, a Parma, alcuni scienziati hanno notato un fenomeno
curioso. Un gruppo di lavoro guidato da Giacomo Rizzolatti stava studiando l’area del cervello dei
macachi coinvolta nella pianificazione del movimento. Alle scimmie erano stati impiantati elettrodi
nell’area del cervello che invia il comando di controllo dei movimenti. Gli scienziati osservarono
che i neuroni della regione F5 della corteccia frontale del cervello di un macaco si attivavano prima
che l’animale afferrasse la nocciolina; ma un giorno rimasero completamente sconcertati quando
notarono che gli stessi neuroni F5 si erano attivati quando la scimmia aveva visto un ricercatore
allungare il braccio per afferrare la nocciolina, anche se l’animale non aveva mosso un muscolo.
«Non riuscivamo a crederci» disse successivamente Rizzolatti.1 In successivi esperimenti, i
ricercatori scoprirono che alcune cellule si attivavano sia quando la scimmia apriva il guscio di una
nocciolina sia quando udiva il rumore di un guscio di nocciolina che veniva aperto.
Rizzolatti e i suoi collaboratori verificarono il fenomeno con la risonanza magnetica
funzionale (fMRl) su soggetti umani che osservavano i movimenti delle mani o le espressioni
facciali di altri soggetti, scoprendo che, come le scimmie macaco, una zona del loro cervello che
includeva la corteccia frontale (omologa quindi all’area F5) si attivava nella medesima area che si
sarebbe attivata se fossero stati loro a compiere i gesti o le espressioni.
Ci sono voluti ancora molti anni prima che i ricercatori italiani comprendessero il significato
di ciò che avevano scoperto.
Che cosa ci dicono i neuroni specchio sulla dialettica natura-cultura.
Nel 1996 il gruppo di ricerca di Rizzolatti pubblicò i risultati delle proprie ricerche,
provocando un vero e proprio terremoto nel mondo accademico. I ricercatori battezzarono la loro
scoperta «neuroni specchio». Da allora, scienziati di tutto il mondo hanno ampliato le ricerche di
Rizzolatti, individuando neuroni specchio anche in altri primati. I neuroni specchio consentono
all’uomo e ad altri animali di «mettersi nei panni degli altri» e sperimentare pensieri e
comportamenti altrui «come se» fossero propri. Le pubblicazioni scientifiche a carattere divulgativo
hanno iniziato a riferirsi ai neuroni specchio come ai «neuroni dell’empatia». Secondo Rizzolatti,
ciò che è più sorprendente è che «i neuroni specchio ci permettono di entrare nella mente degli altri
non per un ragionamento concettuale, ma attraverso una simulazione diretta: attraverso la
sensazione, non il pensiero».2
La scoperta dei neuroni specchio ha costretto biologi, filosofi, linguisti, psicologi e molti
altri a rimettere in discussione la dicotomia cartesiana mente-corpo, che isolava la ragione dalle
sensazioni corporee, dai sentimenti, dalle emozioni, rendendola una forza autonoma, incorporea.
Le nuove scoperte, scrive Arthur M. Glenberg, professore di psicologia alla University of
22
Wisconsin, «offrono un’alternativa al dualismo cartesiano», con vaste implicazioni nel dibattito
sulla natura della mente umana. Glenberg osserva che
la scoperta dei neuroni specchio contribuisce a colmare la distanza fra cognizione e biologia,
individuando un meccanismo neurale che conferma la teoria psicologica e suggerisce soluzioni a
una vasta gamma di problemi di scienza cognitiva.3
È noto da tempo che gli uomini e altri mammiferi sono «animali sociali». La scoperta dei
neuroni specchio, però, apre la porta all’esplorazione dei meccanismi biologici che rendono
possibile la socialità.
Daniel J. Siegel, direttore del Mindsight Institute di Los Angeles, suggerisce che «il sistema
dei neuroni specchio … insieme ad altre aree come l’insula, la corteccia temporale superiore e le
regioni prefrontali mediali, forma il “circuito della risonanza”».4 È stato dimostrato che tali circuiti,
come spiega Siegel,
non solo codificano l’intenzione, ma giocano [anche] un ruolo fondamentale nell’empatia e
nella risonanza emotiva, esito della sintonizzazione della mente.5
Uno dei massimi ricercatori nel campo dei neuroni specchio, Marco Iacoboni,
neuroscienziato della University of California di Los Angeles, ne spiega l’importanza per
l’immedesimazione e la lettura della mente altrui:
Se mi vedi soffrire, in disagio emotivo per aver sbagliato un rigore, i neuroni specchio del
tuo cervello simulano lo stesso disagio. Automaticamente, provi empatia per me: sai come mi sento
perché avverti letteralmente ciò che sto provando io.6
La conclusione a cui Iacoboni e altri scienziati sono giunti è che noi siamo programmati per
l’empatia: fa parte della nostra natura e ci rende esseri sociali.
La crescente quantità di studi empirici sul ruolo che i neuroni specchio giocano nello
sviluppo empatico è impressionante e sta contribuendo a riscrivere la storia dello sviluppo umano.
Gli scienziati hanno notato che gesti ed espressioni del viso, oltre agli stimoli uditivi,
attivano le cellule specchio, ma hanno anche scoperto che altrettanto può fare il tatto, individuando
un ulteriore canale sensoriale per l’estensione empatica. Tutti abbiamo avuto l’esperienza di vedere
un ragno o un serpente camminare o strisciare sul corpo di un’altra persona, e avvertire lo stesso
senso di repulsione che avremmo provato se avesse camminato o strisciato sul nostro. In una serie
di esperimenti, alcuni ricercatori hanno sottoposto diversi individui a risonanza magnetica
funzionale (fMRl) scoprendo «che la corteccia somatosensoria secondaria si attiva sia quando il
partecipante all’esperimento viene toccato sia quando osserva qualcuno che viene toccato».7
Altri studi dimostrano che quando le persone reagiscono a un cattivo odore con una
sensazione di disgusto si attivano le stesse regioni corticali, soprattutto nell’insula, che si attivano
quando osserviamo le smorfie di disgusto di un’altra persona che annusa un odore sgradevole.8
Analogamente, quando affermiamo di «sentire» il dolore dell’altro, questo ci è possibile a
causa di specifici neuroni specchio. Uno studio pubblicato dalla rivista «Science» riporta un
esperimento condotto su sedici coppie. Nell’esperimento, le donne furono sottoposte a fMRl, alla
presenza dei rispettivi compagni, mentre i ricercatori praticavano una leggera scossa elettrica al
dorso della mano di entrambi. Anche se non poteva vedere il partner, la donna veniva informata da
un indicatore su chi sarebbe stato colpito dalla scarica, e su quanto intensa sarebbe stata. Nelle
donne, alcune aree deputate alla percezione del dolore nel sistema limbico, come la corteccia
cingolata anteriore, il talamo, l’insula e le cortecce somatosensorie, venivano attivate causando
dolore, sia quando la scarica elettrica era somministrata direttamente sia quando era semplicemente
23
immaginata, cioè somministrata al partner.9 Questo esperimento dimostra in modo inusuale quanto
autentica possa essere la risposta empatica alle sofferenze di un altro.
Perfino emozioni sociali più complesse, come la vergogna, l’imbarazzo, il senso di colpa e
l’orgoglio, sono collegate ai sistemi di neuroni specchio localizzati nell’insula del cervello.
Christian Keysers, dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi, ha condotto uno studio nel quale
ad alcuni individui veniva mostrato un filmato in cui una mano si avvicinava per dare una carezza a
qualcuno, ma veniva allontanata bruscamente da un’altra mano: l’insula degli osservatori attivava i
neuroni responsabili della sensazione di essere rifiutati.10
In quasi tutti gli studi sull’attivazione dei neuroni specchio, i ricercatori hanno riscontrato
che i partecipanti che presentano una risposta più attiva ed elevata di tali neuroni sono quelli che
fanno registrare punteggi elevati nei test di profilo empatico. Questa distinzione è importante perché
suggerisce che i bambini con un’attività cerebrale normale sono predisposti all’empatia, ma la
misura in cui i loro neuroni specchio si attivano dipende tanto dalla natura quanto dalla cultura.
Analogamente, i ricercatori hanno scoperto che nei bambini autistici i circuiti dei neuroni
specchio non funzionano, o funzionano solo parzialmente. Scienziati della UCLA hanno pubblicato
una ricerca nella quale si dimostra la presenza di un difetto nel sistema dei neuroni specchio dei
soggetti autistici. I bambini autistici sono caratterizzati dall’incapacità di interpretare le intenzioni
degli altri, di esprimere emozioni, di apprendere linguaggi e di manifestare comportamenti
prosociali. Sono incapaci di empatizzare. Gli studi di brain imaging condotti alla UCLA hanno
dimostrato un «chiaro legame fra l’incapacità del bambino di imitare le espressioni sui volti di altre
persone e la mancanza di attività del sistema dei neuroni specchio».11 Mirella Dapretto, professore
associato di psichiatria e scienze comportamentali alla UCLA, suggerisce, sulla base delle scoperte
del suo gruppo di ricerca, che «un sistema di neuroni specchio disfunzionale possa essere alla base
della ridotta capacità di imitazione e di empatizzazione con le emozioni degli altri tipicamente
riscontrata nell’autismo».12
I ricercatori all’avanguardia nelle scienze cognitive sono comprensibilmente elettrizzati
dalle scoperte nel campo dei neuroni specchio e dei circuiti di risonanza, e dalle loro potenziali
implicazioni. Ma avvertono anche che le nuove scoperte sono solo l’inizio di un viaggio che
traccerà la mappa dei percorsi della cognizione. Ciò che stanno riscontrando è che i circuiti
biologici si attivano con l’esercizio sociale: in altre parole, l’ambiente famigliare e sociale dei
neonati è essenziale per l’attivazione dei circuiti dei neuroni specchio e per stabilire percorsi
empatici nel cervello. Tali scoperte stanno riaprendo l’annosa questione del rapporto fra biologia e
cultura e innescando un acceso dibattito nel campo delle scienze naturali e sociali.
Per lungo tempo si è dato per scontato che biologia e cultura agiscano su binari differenti,
nonostante gli sforzi di studiosi come Charles Percy Snow per trovare una connessione fra i due
ambiti. La scoperta dei neuroni specchio, oltre ad abbattere il caposaldo del dualismo cartesiano, ci
permette di ipotizzare che la frattura fra biologia e cultura sia parimenti erronea. I neuroni specchio,
afferma Patricia Greenfield, psicologa alla University of California di Los Angeles,
offrono un solido fondamento biologico all’evoluzione della cultura … ora sappiamo che i
neuroni specchio assorbono direttamente la cultura, attraverso l’insegnamento che ogni generazione
impartisce a quella successiva attraverso la condivisione sociale, l’imitazione e l’osservazione.13
Credevamo che solo l’uomo si evolvesse creando una cultura, e che tutte le altre creature
fossero limitate dalle proprie rispettive specifiche biologiche. Sino alla fine degli anni Sessanta, la
maggior parte dei biologi riteneva che l’uomo accumulasse capitale culturale, trasmesso poi alle
generazioni successive attraverso l’insegnamento impartito ai giovani, mentre le altre creature
avrebbero agito secondo comportamenti rigidamente preprogrammati, comunemente noti come
«istinti». Fino a poco tempo fa, nell’ambiente dei biologi, l’idea che gli animali insegnassero
qualcosa ai propri cuccioli sarebbe sembrata inverosimile.
24
Oggi sappiamo che per molte specie i comportamenti sono tanto appresi quanto ereditati.
Per esempio, eravamo convinti che le oche migrassero a sud ogni anno verso destinazioni specifiche
perché questo era insito nella loro biologia. Ora sappiamo che le oche devono insegnare ai piccoli a
migrare, mostrando loro la strada.
I ricercatori della Emory University di Atlanta e della University of Saint Andrews in Scozia
hanno riferito di un esperimento condotto su scimpanzé che dimostra la trasmissione ad altri
individui di nuove abilità acquisite, creando in effetti un nuovo bagaglio di competenze acquisite
attraverso una trasmissione culturale. A due scimpanzé sono state insegnate due tecniche differenti
per estrarre cibo da un contenitore chiuso. Dopo il ritorno nei rispettivi gruppi, questi individui
hanno cominciato a utilizzare la nuova tecnica; gli altri individui li hanno osservati e l’hanno
adottata a loro volta. Due mesi dopo, gli scimpanzé di entrambi i gruppi continuavano a usare la
nuova tecnica acquisita.14
I biologi hanno scoperto, nel regno animale, un’intera gamma di comportamenti appresi,
soprattutto fra i mammiferi che sono maggiormente sociali e che accudiscono la prole, il che
significa che in molte specie esiste almeno una rudimentale forma di cultura. La conclusione è che
per molte specie i modi di agire e di comportarsi sono trasmessi da una generazione all’altra.
Un esempio pratico: alcuni anni fa, gli zoologi rilevarono un bizzarro cambiamento nel
comportamento degli elefanti adolescenti in un parco naturale in Sudafrica. I giovani elefanti
avevano cominciato ad assalire rinoceronti e altri animali, e perfino a ucciderli: una cosa mai vista
prima. Gli scienziati erano sbigottiti per la stranezza di tale comportamento e non sembravano in
grado di offrire una spiegazione soddisfacente. Poi, uno degli zoologi ricordò che anni prima
avevano catturato e trasferito tutti gli elefanti anziani da quella regione, per limitare l’affollamento.
Partendo da questo dato di fatto, gli zoologi cominciarono a pensare che esistesse una correlazione
fra i due fenomeni, ma non erano sicuri di quale potesse essere. Tuttavia, decisero di riportare due
maschi adulti nel parco e, nell’arco di poche settimane, i giovani smisero di manifestare quello che
era un comportamento antisociale e cominciarono ad allinearsi al comportamento dei nuovi arrivati.
Ciò che gli zoologi avevano osservato era l’apprendimento dagli anziani da parte dei giovani
elefanti, proprio come accade nell’uomo: se manca un modello di ruolo, le generazioni più giovani
non dispongono di una guida che insegni loro quali siano i comportamenti socialmente accettabili.15
La scoperta del sistema dei neuroni specchio nell’uomo e in altri primati sta accelerando il
ripensamento epocale del nostro modo di considerare il rapporto natura-cultura. Questi circuiti
neurali ci aprono una finestra sulle complesse modalità con le quali la biologia si connette alla
psicologia. Vilayanur Ramachandran, neuroscienziato della University of California di San Diego,
afferma che la scoperta dei meccanismi biologici che rendono possibile la consapevolezza empatica,
e dei catalizzatori culturali che li attivano, ci permette di cominciare a capire in che modo natura e
ambiente interagiscano nella creazione della natura umana. Ramachandran suggerisce che lo studio
dei neuroni specchio modificherà il nostro modo di considerare la psicologia tanto quanto la
scoperta del DNA ha fatto con la biologia.16
Gli scienziati che studiano il comportamento animale sono convinti che molte specie, oltre
ai primati, dispongano probabilmente di un sistema di neuroni specchio, per quanto rudimentale.
Elefanti, delfini, cani e altri «animali sociali» sono ai primi posti nella lista delle specie che si
sospetta posseggano i meccanismi biologici capaci di generare almeno una primitiva risposta
empatica. Gli elefanti - e forse i delfini - sono candidati particolarmente promettenti perché, come
gli scimpanzé, sono in grado di cogliere il concetto di sé. E molti scienziati cognitivi ritengono che
per poter leggere i sentimenti e le intenzioni di un’altra creatura sia necessario possedere una
qualche forma di consapevolezza di sé.
Sappiamo da tempo che gli scimpanzé hanno consapevolezza di sé come identità separata.
Essi superano senza problemi il test dello specchio che gli scienziati usano per verificare se
l’animale abbia consapevolezza di sé: se, per esempio, si fa un segno con il rossetto sulla fronte di
uno scimpanzé e lo si pone davanti a uno specchio, questi esamina il segno, lo tocca e a volte cerca
25
di cancellarlo, dimostrando di essere consapevole che l’immagine riflessa dallo specchio è la sua.
Esperimenti recentemente condotti dai ricercatori dello Yerkes Primate Center di Atlanta e
della Wildlife Conservation Society, pubblicati in rete nei «Proceedings of the National Academy of
Science», dimostrano che anche gli elefanti superano il test del segno di rossetto: i ricercatori hanno
disegnato una X bianca sulla guancia sinistra di un’elefantessa di nome Happy. Di fronte allo
specchio, Happy ha ripetutamente toccato il segno con la proboscide, dimostrando di aver capito
che il segno era sulla sua guancia, e non sullo specchio. Un’altra elefantessa, Maxine, ha usato lo
specchio per esaminare l’interno della propria bocca e del proprio orecchio: un tipo di
comportamento rivolto a se stesso che in precedenza i guardiani dei giardini zoologici non avevano
mai riscontrato.17 Insomma, gli elefanti manifestano anche comportamenti che si possono definire
solo «empatia». Nel suo libro Quando gli elefanti piangono, Jeffrey Masson racconta la storia di un
elefante che tentò di salvare il cucciolo di un rinoceronte rimasto intrappolato nel
fango: questo elefante adulto si avvicinò lentamente al piccolo rinoceronte, accarezzandolo
gentilmente con la proboscide, per poi inginocchiarsi e mettere le sue zanne sotto il ventre del
cucciolo, nel tentativo di sollevarlo dal fango. La madre del rinoceronte, notato l’elefante, lo caricò,
costringendolo alla ritirata. Solo dopo ripetuti tentativi di salvare il cucciolo di rinoceronte, finiti
invariabilmente con una carica della madre, l’elefante abbandonò l’impresa. La spiegazione più
plausibile del comportamento dell’elefante è il senso di empatia per la sofferenza del piccolo
rinoceronte e la sua determinazione a soccorrerlo.18
Gli scienziati sospettano che anche i delfini riconoscano la propria identità. Altre specie, per
quanto ne sappiamo, non ne sono in grado: di fronte a uno specchio non hanno alcuna coscienza del
riflesso di sé; semplicemente non sanno che l’immagine che vedono nello specchio è la propria.
Sebbene solo poche specie superino il test dello specchio, e nonostante il fatto che i sistemi
dei neuroni specchio, a oggi, siano stati individuati solo in poche di esse (ma la maggior parte non è
ancora stata studiata), gli esperimenti dimostrano che molte specie manifestano, nel loro
comportamento, di possedere una teoria della mente.19
Alcuni esperimenti condotti da Brian Hare, della Harvard University, e da Michael
Tomasello, del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, hanno dimostrato che
«i cani domestici capiscono cosa significa quando un uomo indica qualcosa (come, per esempio, “il
cibo è qui sotto”)».20 Noi diamo per scontato che, quando qualcuno indica un oggetto, l’altro sappia
cosa cercare, ma per fare altrettanto un cane deve sapere che «i tuoi movimenti non riguardano solo
il braccio e la mano, ma anche la mente che li comanda».21 Questa consapevolezza presuppone che
il cane sia in grado di interpretare la mente di un individuo e di comprendere le intenzioni che lo
hanno indotto al gesto. In altre parole, deve avere una teoria della mente.
Alcune specie animali posseggono anche un’idea di equità che richiede una sofisticata
consapevolezza di sé in relazione all’altro. L’antropologa Sarah Brosnan della Emory University ha
diretto diversi esperimenti nei quali ad alcune scimmie veniva insegnato a scambiare con
l’addestratore un «gettone» per avere del cibo. Se una scimmia vedeva una compagna scambiare un
gettone per un ambitissimo grappolo d’uva, nella maggior parte dei casi rifiutava di cedere il
proprio per un meno gradito cetriolo, a causa dell’iniquità dello scambio.22
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Il Darwin che non abbiamo mai conosciuto
Con la sua attenta osservazione degli animali, Charles Darwin anticipò le recenti scoperte
delle scienze cognitive e, soprattutto, l’importanza della socialità nell’evoluzione. Nei suoi ultimi
lavori, La discendenza dell’uomo e L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Darwin
notava la natura sociale, e perfino le emozioni e la responsabilità morale, della maggior parte degli
animali. Sulla loro natura sociale, scriveva:
Ognuno può avere notato quanto sono tristi i cavalli, i cani, le pecore allorché vengono
separati dai loro compagni; e quanto affetto dimostrino quando sono nuovamente insieme.23
Darwin notava anche le abitudini di accudimento reciproco negli animali. Affermava di
essere affascinato dal modo in cui gli animali sociali si scambiano piccoli favori l’un l’altro: «I
cavalli si mordicchiano e le vacche si leccano le une le altre in ogni punto ove sentono prurito o
pizzicore: le scimmie si liberano scambievolmente dai parassiti».24
Darwin era molto colpito dal senso dell’umorismo degli animali. Osservava che
[i] cani mostrano quello che può correttamente essere chiamato senso dell’umorismo,
distinto dal semplice gioco. Se gli si lancia un bastoncino o un oggetto analogo, lui spesso si
allontana un po’ con questo e si stende a terra, con l’oggetto davanti a sé, aspettando che il padrone
si avvicini abbastanza per afferrarlo. A quel punto il cane riafferra l’oggetto e corre via, trionfante,
ripetendo la stessa manovra e godendo manifestamente dello scherzo.25
Darwin è stato indebitamente descritto come un fiero sostenitore di un’idea di natura «rossa
di zanne e d’artigli», campo di battaglia dove solo il più adatto sopravvive, mentre le sue idee erano
in realtà molto meno radicali e più sfumate. Aveva osservato che «la maggior parte delle emozioni
più complesse sono comuni a noi e agli animali più evoluti», e che «gli animali non solo amano, ma
desiderano essere amati».26 (L’interpretazione errata del suo pensiero è in gran parte da attribuire a
Herbert Spencer, che distorse e manipolò le sue teorie per adattarle alla propria teoria sociale. Gli
storici si sarebbero riferiti a questa interpretazione erronea delle ipotesi di Darwin come al
«darwinismo sociale».)
In anni successivi, Darwin assunse sull’evoluzione un punto di vista molto diverso da quello
tracciato in L’origine delle specie. Si era convinto che gli animali superiori fossero esseri sociali,
pieni di emozioni e dotati della capacità di preoccuparsi per la sofferenza e le difficoltà dei propri
simili. Forse la cosa più sorprendente è l’affermazione di Darwin che gli animali provano simpatia
per altri animali nei guai. Rammentava in proposito la sua personale esperienza con un cane «che
non passava mai davanti a un gatto che giaceva malato in un cesto ed era suo amico, senza leccarlo
un po’: il più chiaro segno di un sentimento amichevole in un cane».27 Scrisse che «molti animali
certamente simpatizzano l’un con l’altro in condizioni di disagio o pericolo».28
E interessante notare come, nelle sue opere successive, Darwin si soffermi sempre di più a
27
descrivere la natura sociale delle creature e perfino i loro legami affettivi, cosa che dovrebbe
apparire decisamente sorprendente a un darwiniano ortodosso. Inoltre, Darwin era convinto che la
sopravvivenza del più adatto dipendesse tanto dalla competizione individuale quanto dalla capacità
di cooperazione, di simbiosi e di reciprocità, e che il più adatto potesse con uguale probabilità
stabilire legami di cooperazione con i propri simili.
Nonostante la teoria della sopravvivenza del più adatto, elaborata da Darwin in L’origine
delle specie, sembri offrire una giustificazione biologica all’etica utilitaristica dell’interesse
personale tipica del periodo, nei suoi ultimi scritti egli mise in discussione il pensiero di John Stuart
Mill e di altri utilitaristi dell’epoca affermando che «gli impulsi [dell’uomo] non sempre derivano
dall’anticipazione del piacere».29 Per dimostrare questo punto, Darwin ricorre all’esempio di un
individuo che soccorre uno sconosciuto in un incendio, mettendosi in grave pericolo, senza il
minimo pensiero di una qualsiasi forma di ricompensa. Darwin afferma che tale comportamento
proviene da un impulso umano molto più profondo della spinta al piacere: l’istinto sociale.30
Vivendo in un’epoca precedente all’ascesa della coscienza psicologica, in un mondo in cui la
parola «empatia» doveva ancora essere inventata, Darwin aveva comunque intuito l’importanza del
legame empatico. Nel caso dell’uomo che salva la vittima di un incendio, il salvatore percepisce
istintivamente come propria la lotta della vittima per la sopravvivenza, accorrendo in suo aiuto e
offrendo conforto. Questo è ciò che Darwin intendeva per «istinto sociale».
In un passaggio memorabile, Darwin scrive, con preveggenza, di una società prossima
ventura in cui gli uomini estenderanno i propri istinti sociali e impulsi simpatetici, che diventeranno
«più teneri e più ampiamente diffusi, fino a essere estesi a tutti gli esseri senzienti». Riguardo a
come questo sarebbe potuto avvenire, Darwin scrive:
Non appena sarà onorata e praticata da alcuni di noi, questa virtù si diffonderà attraverso
l’istruzione e l’esempio ai giovani e, alla fine, sarà incorporata nella pubblica opinione.31
28
Gioco e sviluppo
Oggi gli studiosi delle scienze cognitive stanno dando sostanza alle intuizioni di Darwin
riguardo alla natura e, così facendo, stanno cambiando il modo di interpretare l’evoluzione
dell’uomo. Dalle loro scoperte emerge che, per quanto riguarda gli aspetti più importanti della vita
sociale, molte altre specie di mammiferi manifestano comportamenti notevolmente simili a quelli
umani. Le specie sociali - soprattutto i mammiferi -, per poter allevare la propria progenie e creare
legami sociali con gli altri membri della loro specie, devono avere un minimo di sensibilità
empatica ed essere capaci di leggere i sentimenti e le intenzioni della propria prole e dei propri
simili.
Molti zoologi odierni ritengono che il «gioco» svolga un ruolo decisivo nello sviluppo
dell’empatia e nell’instaurazione di comportamenti pro sociali, proprio come accade fra gli uomini.
Il gioco è il mezzo per creare attaccamento, attenzione, fiducia, affetto e legami sociali durante la
crescita e per mantenere la socialità nell’età adulta.
Se si nega loro la possibilità di giocare, i giovani animali spesso non riescono a sviluppare le
competenze sociali che permettono di comportarsi adeguatamente nella vita adulta all’interno della
comunità. Gli allevatori di cavalli, per esempio, hanno osservato che se un puledro viene allevato
senza che abbia l’esperienza di gioco con altri puledri, spesso dimostra competenze sociali
insufficienti e da adulto manifesta comportamenti antisociali, e non viene mai accettato
completamente nella mandria. La dottoressa Karen Hayes, specialista di riproduzione equina,
osserva che, come i bambini, dopo aver creato un legame con la madre i puledri cominciano a
giocare con gli altri cavalli: «Se non acquisiscono competenze sociali, sono destinati a una vita di
confusione e stress … imparano a sopravvivere, ma la loro sarà una vita stressante».32
Il naturalista Jaak Panksepp osserva che tutti i cuccioli di animale sono biologicamente
programmati per giocare. Nel suo libro
Affective Neuroscience, egli evidenzia come gli stessi circuiti cerebrali che attivano il gioco
stimolino anche la gioia, e si trovino in tutti gli animali.33
Per l’uomo, il gioco diventa una caratteristica fondamentale dello sviluppo. Il medico e
neuroscienziato Paul MacLean scrive che «dal punto di vista dell’evoluzione umana, nessuno
sviluppo comportamentale avrebbe potuto avere un’importanza più fondamentale» dell’attitudine al
gioco del cervello. MacLean è convinto che il gioco «abbia determinato l’ambito della vita
famigliare che, con le sue responsabilità in evoluzione e con le sue affiliazioni, ha portato
all’acculturazione del mondo».34
I legami sociali che nascono dal gioco, secondo MacLean, «hanno favorito l’evoluzione del
senso umano dell’empatia…».35
Per comprendere l’importanza del gioco nello sviluppo del potenziale empatico, dobbiamo
fare qualche passo indietro ed esaminarne i connotati essenziali. Tanto per cominciare, il gioco ha
natura profondamente partecipativa. È un’esperienza fisica: in genere non pensiamo al gioco come a
qualcosa che si fa autonomamente, nella propria testa (quella sarebbe solo una fantasia); al
contrario, il gioco è un’attività che ci impegna con gli altri. Spesso è una gioia condivisa, più che un
piacere solitario. E raramente è strumentale: il gioco è un fine in sé e per sé.
Apertura e accettazione sono parti integranti di un ambiente di gioco. Sebbene le azioni di
ciascuno abbiano delle conseguenze, tutti i partecipanti si sentono liberi di esprimersi, di essere
vulnerabili, perché la comprensione permea il gioco. «Facevo per finta» è la classica battuta che
ogni bambino, in ogni epoca, ha sentito e pronunciato a sua volta durante il gioco.
29
Il gioco tende a essere aperto: il suo mondo è spesso un regno senza tempo, perché chiunque
vi sia stato coinvolto profondamente sa quanto sia facile perdere la nozione del tempo. Ma il gioco
si svolge anche in uno spazio che simbolicamente è separato dallo spazio strumentale. Il «terreno di
gioco» è un porto sicuro, indipendente dal «mondo reale». Un «terreno di gioco» non è uno spazio
che qualcuno possiede, ma piuttosto un’area fittizia che gli individui condividono
temporaneamente.
Il gioco, quindi, ha luogo in una dimensione spaziale e temporale, ma spesso è percepito
come sospeso nello spazio e nel tempo. È l’esperienza stessa a essere «sospesa», cosa che le
attribuisce una caratteristica di trascendenza, una sensazione allo stesso tempo mondana e
ultramondana.
L’ambiente di gioco è la scuola in cui apprendiamo a essere empatìa con i nostri simili, in
cui esercitiamo la nostra immaginazione mettendoci nei panni e nel ruolo di altri personaggi,
cercando di sentire, pensare e comportarci come pensiamo farebbero loro. Quando i bambini
giocano, e sono cani e cavalli, medici e pazienti, padri e madri, sorelle maggiori e fratelli minori,
maestri di scuola e presidenti degli Stati Uniti, stanno facendo pratica di estensione empatica.
Obiettivamente è difficile immaginare come si possa sviluppare l’empatia in assenza di
gioco. Lo storico Johan Huizinga giunge addirittura a definire l’uomo come Homo ludens, l’uomo
che gioca. Egli ipotizza che tutte le culture abbiano radici nel gioco: «Con quei giochi la collettività
esprime la sua interpretazione della vita e del mondo».36
Lev S. Vygotskij, il grande psicologo dei primi anni del Novecento, ci ricorda che «dal punto
di vista dello sviluppo, creare una situazione immaginaria può essere considerato un mezzo per
sviluppare il pensiero astratto».37 Per esempio, se un bambino cerca di immaginare come potrebbe
essere cavalcare un cavallo, può prendere una scopa, mettersela fra le gambe e cominciare a
galoppare, nitrendo, lungo il corridoio. La scopa diventa il simbolo immaginario del cavallo e lo
strumento attraverso cui il bambino crea la simulazione e la vive. Analogamente, quando i bambini
giocano al dottore, trasformando un bicchiere di plastica in uno stetoscopio con il quale si
auscultano reciprocamente il cuore, fanno sì che la loro immaginazione apra la porta
all’esplorazione dell’essere dell’altro. Vygotskij, giustamente, considera il gioco «il livello più alto
di sviluppo prescolare».38
Ciò che rende il gioco uno strumento così potente di socializzazione è il fatto che si tratta del
mezzo attraverso cui si scatena l’immaginazione: nel gioco creiamo realtà alternative, nelle quali ci
immergiamo per un periodo in cui il tempo è sospeso; nel gioco diventiamo esploratori degli
sconfinati reami di ciò che è altro da noi, di tutti gli infiniti domini delle esistenze possibili.
Attraverso il gioco incorporiamo in noi stessi parti di queste realtà immaginate. Così diventiamo
connessi.
Il processo di immaginazione ci permette di legare esperienze corporee, emozioni e pensieri
astratti in un unico insieme: la mente empatica. In questo senso, l’immaginazione umana è tanto
emotiva quanto cognitiva: simultaneamente esprimiamo emozioni e creiamo pensieri astratti.
Molti filosofi considerano il gioco la più alta espressione dello sviluppo umano. Nelle sue
Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, scritte nel 1795, Friedrich Schiller osserva che «l’uomo
gioca solo quando è nel senso più pieno della parola un essere umano, ed è pienamente un essere
umano solo quando gioca».39 Questo perché in ambito culturale il gioco è la suprema espressione di
ciò che lega gli uomini: giochiamo l’uno con l’altro per amore della comunicazione umana. Il gioco
è il più profondo atto di partecipazione fra le persone ed è reso possibile dalla fiducia reciproca: la
sensazione che ogni giocatore possa rinunciare alle proprie difese e abbandonarsi, per la durata del
gioco, alla cura dell’altro in modo da poter sperimentare l’euforia che viene dalla comunione.
Libertà e gioco, dunque, hanno basi comuni. Il gioco puro è sempre una manifestazione di
volontà: nessuno può essere costretto a giocare. Chi gioca si dona liberamente «per amore del
gioco», il cui obiettivo è la gioia e la riaffermazione dell’istinto vitale. È attraverso l’esperienza del
gioco nella sfera culturale che si apprende a partecipare apertamente all’interazione con altri esseri
30
umani. Diventiamo veramente umani solo rivelandoci all’altro. L’essere umano non può essere
realmente libero se non è in grado di lasciarsi pienamente coinvolgere in un gioco. Fu il filosofo
Jean-Paul Sartre ad affermare che, quando l’uomo si apprende libero e desidera usare la propria
libertà, la sua attività è il gioco. Ci si sente mai tanto liberi come quando si gioca?
Il gioco, quindi, è tutt’altro che un’attività frivola e inutile: è il luogo in cui espandiamo la
nostra coscienza empatica e apprendiamo a diventare veramente umani.
31
Le radici empatiche del linguaggio
Le nuove scoperte nel campo dei neuroni specchio e del gioco nello sviluppo sociale hanno
stimolato l’interesse riguardo alla questione delle origini e dello sviluppo del linguaggio. Il
tradizionale concetto di linguaggio innato, meccanismo biologico autonomo, articolato nella sua
forma più recente da Noam Chomsky e altri, viene ora messo in discussione da una nuova
generazione di scienziati neurocognitivi.
L’ipotesi del sistema dei neuroni specchio, avanzata da Michael Arbib, fa risalire lo sviluppo
del linguaggio a quei meccanismi neurali dei nostri antenati primati che favorivano l’imitazione dei
movimenti della mano. Arbib individua una progressione evolutiva dai movimenti della mano verso
una più complessa pantomima con la quale si comunica, piuttosto che limitarsi a manipolare
oggetti, per poi passare ai proto-segni, che estendono il repertorio della comunicazione manuale e
creano le fondamenta della «protolingua».40
Gli studiosi del comportamento animale stanno cominciando a studiare i nostri parenti più
prossimi, le grandi scimmie e gli altri primati, sia in ambiente naturale sia in laboratorio, per cercare
di capire come possa essersi evoluto il linguaggio. Ciò che sospettano è che il linguaggio sia, in
realtà, un sofisticato meccanismo per esprimere la comunicazione empatica, e che possa essersi
evoluto attraverso l’esercizio dei movimenti della mano nel gioco e nell’accudimento reciproco fra
primati.41
La vita dei primati, per molti aspetti, è simile alla nostra, anche se in forma più primitiva.
Gli scimpanzé sono particolarmente interessanti da osservare, perché il loro comportamento
presenta notevoli somiglianze con quello di bambini di 2 o 3 anni. Come l’uomo e gli altri animali
sociali, gli scimpanzé organizzano la loro vita sociale per gerarchie. Sebbene non creino grandi
narrazioni concettuali per spiegare razionalmente le proprie relazioni con gli altri e con il mondo
che li circonda, possiedono una cultura rudimentale: insegnano ai propri cuccioli a usare utensili,
sono coinvolti in attività reciproche, cooperano e competono nel gioco, esprimono una vasta gamma
di emozioni, hanno una primitiva coscienza di sé, si intrattengono a vicenda ed esprimono empatia
nei confronti dell’altro. Su quest’ultimo punto, un numero crescente di studiosi dei primati
suggerisce, sulla base di decenni di ricerche, che una forma elementare di empatia sia alla radice
della natura comunicativa dello scimpanzé. Il primatologo Frans de Waal giunge a ipotizzare che
l’empatia [nei primati] è la forma originale, prelinguistica, del rapporto interindividuale che
solo in un secondo tempo ha subito l’influenza del linguaggio e della cultura.42
De Waal, come Jane Goodall, Dian Fossey e altri primatologi, ritiene che «nei primati non
umani quasi tutta la comunicazione sia mediata attraverso le emozioni».43
De Waal nota che la selezione naturale deve aver favorito i meccanismi che permettono a un
individuo di leggere i sentimenti e le intenzioni degli altri individui, in modo da rispondere
adeguatamente e costruire legami cooperativi e solidarietà sociale. Questo è, dopotutto, il nucleo
centrale di ciò che costituisce la comunicazione.
Se è veramente così, afferma de Waal, allora «l’empatia è proprio uno di questi
meccanismi».44 In altre parole, l’impulso empatico è il mezzo biologico per promuovere la
comunicazione, almeno fra le specie più evolute di mammiferi.
L’attenta osservazione di altre specie dimostra un costante sviluppo dell’impulso empatico
32
nell’evoluzione biologica. Per esempio, in un classico studio condotto più di mezzo secolo fa,
alcuni ricercatori hanno scoperto «che dei ratti che avevano appreso a schiacciare una barra per
ottenere del cibo, smettevano di farlo se il loro intervento era accompagnato dall’emissione di una
scarica elettrica su un ratto vicino, a loro visibile».45 Successivi esperimenti con le scimmie rhesus
hanno portato a risultati analoghi, con la sola differenza di una reazione emotiva più duratura e dalle
conseguenze più profonde: una scimmia ha smesso di premere la leva per cinque giorni, un’altra per
dodici, dopo aver visto l’effetto che quel gesto aveva su un’altra scimmia. Le scimmie erano
disposte a morire di fame pur di non essere responsabili del dolore inflitto a un loro simile.46
Dunque, il comportamento di topi e scimmie rhesus non sarebbe spiegabile se non entrassero in
gioco gli impulsi empatici.
La maggior parte delle risposte empatiche si osserva nell’ambito della stessa specie. Tuttavia
i ricercatori riportano infiniti esempi di animali che hanno esteso il legame empatico oltre il confine
della propria specie, come dimostra l’esempio sopra citato dell’elefante che tenta di salvare il
cucciolo di rinoceronte.
De Waal racconta di aver assistito alla cattura di uno storno ferito da parte di una scimmia
bonobo di nome Kuni. La scimmia l’aveva raccolto con una mano e si era arrampicata su un albero.
Poi, delicatamente, aveva spiegato le ali dell’uccello e l’aveva lanciato in avanti, verso un recinto.
Lo storno, però, era caduto in uno stagno. Allora Kuni si era avvicinata per osservarlo e
sorvegliarlo. De Waal rileva che la scimmia non avrebbe potuto fare tutto ciò senza adottare in una
certa misura il punto di vista dell’uccello e condividere la sua sofferenza. Spiega de Waal:
Quello che aveva fatto Kuni evidentemente sarebbe stato non adeguato nei confronti di un
membro della sua stessa specie. Avendo visto tante volte volare gli uccelli, sembrò avere la nozione
di cosa sarebbe andato bene per uno di loro, dandoci così una versione antropoide della capacità
empatica.47
I primatologi hanno anche notato la capacità degli scimpanzé di consolare: un atto emotivo
che richiede una comunicazione empatica piuttosto evoluta. Nelle comunità di scimpanzé non è raro
che un terzo intervenga in uno scontro fra due suoi simili, e tenti di consolare la vittima
dell’aggressione. Questo livello di sofisticazione emotiva non si nota nei macachi e in altre
scimmie. Sebbene i ricercatori abbiano registrato svariati esempi di riconciliazione in molte specie
diverse, consolare è una cosa diversa: de Waal precisa che la riconciliazione è guidata
principalmente dal proprio interesse e dal desiderio di ripristinare l’armonia sociale; la
consolazione, invece, è un atto puramente empatico, senza alcun altro scopo che riconoscere la
sofferenza dell’altro e alleviarla. Gli scienziati suggeriscono che la ragione per cui queste scimmie
sono capaci di consolazione è che gli scimpanzé, diversamente dai macachi, manifestano una
consapevolezza di sé (superano il test dello specchio sull’identità e perciò sono in grado di
riconoscere la differenza fra sé e gli altri) che permette loro di consolare l’altro, consapevoli che i
loro sentimenti sono diretti esclusivamente alla condizione altrui.48
II comportamento consolatorio ha un ruolo significativo nella vita degli scimpanzé, ma non
meno importante è l’esperienza della «gratitudine»: un’emozione che abbiamo a lungo creduto
prerogativa esclusiva delle relazioni sociali umane. Nelle società di scimpanzé la gratitudine in
genere è comunicata attraverso il dono di cibo a chi ha offerto servizi di accudimento. Si può
correttamente affermare che l’accudimento sia fra le attività sociali più importanti nelle società di
scimpanzé e occupa una parte rilevante del tempo che questi animali passano da svegli. De Waal
riferisce di un esperimento in cui i ricercatori hanno misurato centinaia di episodi spontanei di
accudimento fra scimpanzé nelle ore mattutine. A mezzogiorno, a ciascuno scimpanzé venivano dati
da mangiare due fasci di foglie e un ramo. I ricercatori hanno registrato circa 7000 interazioni che
riguardavano il cibo, scoprendo che gli scimpanzé sono molto più disponibili a condividere la
propria razione con i soggetti che li hanno accuditi.49 De Waal sottolinea come fosse trascorso un
33
notevole lasso di tempo fra gli episodi di accudimento e la condivisione del cibo, a significare che
gli scimpanzé hanno memoria delle gentilezze ricevute e, a distanza di tempo, manifestano
gratitudine condividendo il cibo. I gesti di gratitudine legano i membri della comunità in vincoli
sociali più intimi.
Ma l’accudimento fra adulti non si limita a suscitare gratitudine. Gli studiosi del
comportamento animale e un crescente numero
di scienziati cognitivi ritengono che esso sia la chiave dello sviluppo cerebrale di percorsi
empatici e dell’evoluzione della comunicazione a partire dai gesti, dai protosegni e dalla
protolingua fino alla parlata umana. Il perfezionamento della comunicazione, a sua volta, offre
strumenti sempre più articolati per interpretare i sentimenti, capire le intenzioni e creare connessioni
empatiche.
Come il gioco, l’accudimento fra adulti crea vincoli di socialità. In organizzazioni sociali
altrimenti gerarchiche - tipiche delle specie sociali - il gioco e l’accudimento fra adulti spesso
offrono tempi e luoghi per allentare le distinzioni e le barriere di status e permettono agli individui
di connettersi su «una base più intima ed egualitaria». In alcune specie, più del 20% del tempo della
giornata è dedicato ad attività di accudimento fra adulti.50
Tanto il gioco quanto l’accudimento fra adulti promuovono l’empatia e una comunicazione
più profonda. Il gioco, tuttavia, è spesso un esercizio di gruppo, mentre l’accudimento è sempre una
questione fra due individui. Nel praticare l’accudimento, i due individui coinvolti usano la gamma
completa dei propri sensi per esplorare la fisicità e la mentalità dell’altro. Accudire un altro
individuo richiede attenzione ai suoi bisogni e ai suoi sentimenti: ciò che lo fa soffrire e ciò che gli
dà piacere. L’individuo oggetto di accudimento, a sua volta, deve essere in grado di comunicare i
propri bisogni e sentimenti, in modo che l’accudente possa capire. L’accudimento è la forma più
intima di comunicazione per le altre specie, molto più dei rapporti sessuali, ed è anche la principale
modalità utilizzata dagli animali per condividere la propria intimità. L’esperienza dell’accudimento
comincia con la primissima infanzia e le cure genitoriali e, insieme al gioco, è il modo in cui gli
animali apprendono a comunicare l’uno con l’altro. L’accudimento stimola la produzione degli
oppiacei naturali del corpo, le endorfine, che hanno un effetto narcotico e provocano il
rilassamento.51 Ma altrettanta importanza riveste nel creare fiducia reciproca e legami di amicizia,
entrambi essenziali per l’esistenza di una vita sociale.
Se l’accudimento, insieme al gioco, è la forma più elementare di comunicazione fra animali
sociali, in che rapporto è con lo sviluppo del linguaggio umano, uno dei grandi misteri irrisolti
dell’evoluzione biologica?
L’antropologo e biologo evoluzionista Robin Dunbar, nel suo libro Dalla nascita del
linguaggio alla Babele delle lingue, presenta in proposito una tesi affascinante quanto controversa.
Partendo dall’ipotesi che l’accudimento fra adulti sia il meccanismo essenziale per la creazione di
legami di intimità, fiducia e socialità fra gli animali, Dunbar ha notato un interessante fenomeno
biologico: la dimensione della neocorteccia del cervello dei mammiferi determina, in gran parte, la
dimensione del gruppo sociale. La neocorteccia è la parte del cervello dove ha origine il pensiero
cosciente. Dunbar osserva anche che nella maggior parte dei mammiferi la neocorteccia rappresenta
fra il 30 e il 40% della massa cerebrale, mentre nei primati oscilla «dal 50%, in alcune proscimmie,
all‘80% del volume encefalico totale nell’uomo».52
Si scopre così che la dimensione della neocorteccia è correlata abbastanza strettamente con
la dimensione del gruppo sociale caratteristico della specie: più grande è la porzione di massa
cerebrale occupata dalla neocorteccia, maggiore è il numero di individui del gruppo sociale.
Secondo Dunbar, la ragione è che l’animale sociale deve continuamente «monitorare» i sentimenti e
le interazioni degli altri individui, e adattarsi ai loro umori e bisogni, al fine di mantenere un
adeguato grado di coesione sociale nel gruppo.
Più grande è la neocorteccia, maggiore è la capacità di organizzare complesse relazioni
sociali fra un gran numero di individui. Gli esseri umani, che tra i primati hanno la neocorteccia più
34
ampia, sono anche quelli che vivono nei gruppi sociali più estesi. Il gruppo primario è il clan, in
genere formato da circa 150 individui. I clan si organizzano in gruppi più ampi ma meno
strettamente affiliati, detti «megabande», di solito composti da circa 500 individui; e le megabande
si affiliano in gruppi ancora più larghi detti «tribù», di solito uniti da una lingua o dialetto e la cui
composizione varia dai 1500 ai 2000 individui.53 Se guardiamo ai nostri parenti più prossimi, fra i
primati, e giù giù lungo la linea che ci collega agli altri mammiferi, notiamo che la dimensione del
gruppo è in correlazione diretta con il tempo dedicato all’accudimento sociale fra adulti, a causa
della funzione sociale da esso svolta nel creare e consolidare le relazioni sociali e la coesione di
gruppo. Come detto, gli altri primati dedicano fino al 20% della propria giornata ad attività di
accudimento fra adulti e vivono in gruppi composti mediamente da 40 a 50 individui. Gli studi sulle
società di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti dimostrano che uomini e donne dedicano circa il
25% del proprio tempo quotidiano alla socializzazione, il che corrisponde approssimativamente al
tempo che i primati dedicano all’accudimento sociale fra adulti.54 Ma per gli uomini che vivono in
clan di 150 individui, fatte le debite proporzioni, questo significherebbe che, per mantenere
un’adeguata misura di coesione sociale, il 40% del tempo sociale dovrebbe essere dedicato
all’accudimento fra adulti. A tale proposito, Dunbar ritiene che, quando il gruppo sociale diventa
così vasto, come quello umano, da richiedere più del 30% del tempo dedicato ad attività di
accudimento fra adulti (una misura che metterebbe a repentaglio le attività di raccolta e caccia e le
altre attività necessarie alla sopravvivenza dei singoli), entrano in gioco forme di accudimento
vocale, in sostituzione dell’accudimento fisico-igienico, al fine di facilitare l’estensione dei legami
sociali. Dunbar suggerisce che il linguaggio sia cominciato come «chiacchiere», cioè come modo
per vocalizzare l’accudimento fra adulti e stabilire relazioni sociali più estese.55
Naturalmente lo sviluppo del linguaggio orale, della scrittura a mano e stampata, e ora delle
nuove connessioni elettroniche, ha permesso all’uomo di estendere enormemente le reti sociali e di
vivere in ambiti sociali più densamente popolati e complessi. In ogni fase della nostra evoluzione
sociale, il compito primario della comunicazione è stato espandere la sfera dell’empatia indipendentemente dal fatto che il mezzo usato sia l’accudimento fra adulti o lo scambio di
pettegolezzi via Internet - in modo da esprimere la nostra natura sociale e il nostro profondo
desiderio della compagnia dei nostri simili.
Comprendere l’importanza del gioco e dell’accudimento nel processo di sviluppo della
cultura dell’uomo è fondamentale per ripensare la natura della natura umana. E importante
rammentare che gli studiosi del comportamento animale ritenevano che il gioco fosse uno
strumento per affinare le competenze competitive istintuali, utili nella caccia e nella guerra, nel caso
dei maschi, e le competenze domestiche, utili nell’allevamento della prole, nel caso delle femmine.
Insomma, ne enfatizzavano la funzione utilitaristica. Analogamente, nel caso dell’accudimento fra
adulti ipotizzavano che avesse come scopo primario l’igiene e fosse mirato a garantire la salute dei
singoli individui e del gruppo. Gli studiosi del comportamento animale e gli scienziati cognitivi non
negano queste funzioni strettamente utilitaristiche, ma oggi sono più propensi ad attribuire
maggiore importanza alla funzione di creazione e consolidamento del legame sociale connessa con
tali comportamenti. La crescente consapevolezza che il gioco e l’accudimento fra adulti sono, in
primo luogo e soprattutto, mezzi per connettere sentimenti, emozioni, intenzioni e desideri, e per
stabilire legami sociali, ha alimentato un nuovo fecondo dibattito sull’origine del linguaggio. Tanto
nel gioco quanto nell’accudimento, i ricercatori notano che la comunicazione fra gli animali è
un’esperienza fisica, e questo ha portato a ipotizzare che il linguaggio possa essersi sviluppato a
partire dalla gestualità.
Arbib suggerisce che l’evoluzione abbia dotato l’uomo di un «”cervello predisposto al
linguaggio”, ovvero in grado di impadronirsene durante la naturale maturazione del bambino in una
società che usa il linguaggio», ma che lo sviluppo del linguaggio in sé sia stato determinato
culturalmente. In altre parole, i bambini non cominciano a parlare a 2 anni grazie a un’innata
«grammatica universale», ma apprendono a parlare dopo aver attraversato fasi gestuali legate
35
all’estensione empatica. A ogni successiva fase dello sviluppo infantile, modalità di comunicazione
gestuale più complesse attivano i neuroni specchio e stabiliscono circuiti di risonanza più elaborati,
gettando le basi per l’acquisizione della forma più complessa di comunicazione empatica: la lingua
parlata. Il punto è che non nasciamo già con la capacità di parlare.56 Al contrario, la lingua parlata è
lo stadio finale di una progressiva complessità della comunicazione gestuale, resa possibile
dall’estensione empatica e dalla trasmissione culturale.
David McNeill, docente di linguistica e di psicologia alla University of Chicago, sostiene
che gestualità e linguaggio si sviluppino insieme. Nel suo libro Hand and Mind, McNeill giunge
alla conclusione che «i gesti sono una parte integrante del linguaggio, come le parole, le frasi, i
periodi: gestualità e linguaggio sono un unico sistema».57 Le prime forme di comunicazione
gestuale rimangono a nostra disposizione e accompagnano la lingua parlata nel corso di tutta la
nostra vita: la comunicazione parlata è quasi invariabilmente accompagnata da gesti delle mani,
espressioni facciali e movimenti del corpo che costituiscono una sorta di controcanto visivo che
amplifica, qualifica e modifica la parola. Ancorando la nostra comunicazione in una Gestalt
spaziotemporale e contribuendo a far sì che l’altro interpreti correttamente ciò che significhiamo, la
gestualità è altrettanto importante del tono e dell’inflessione nel trasmettere l’intenzione.
L’idea che l’evoluzione del linguaggio abbia origine nei movimenti della mano sembrerebbe
fornire ulteriore credibilità alla tesi secondo cui la comunicazione sarebbe cominciata con il gioco e
l’accudimento sociale fra i primati. Nell’atto dell’accudimento, le mani dei primati diventano
strumenti che rilevano - e nel contempo rispondono a - sensazioni, emozioni, bisogni e desideri di
un altro individuo. La mano diventa dunque il linguaggio intimo di comunicazione durante il
processo di accudimento. La mano dell’accudente indaga le reazioni corporee e le espressioni
facciali dell’accudito e si adatta continuamente alla presenza «sentita» dell’altro. In altre parole, la
mano diventa un organo e il tatto la fonte primaria di una primitiva comunicazione empatica. Non è
difficile immaginare come il processo di accudimento si possa trasformare ed evolvere in una
pantomima più astratta e in un sistema di proto segni simbolici per esprimere sensazioni fisiche e
intenzioni, ed estendere un legame empatico.
Arbib e altri affermano che, senza un sistema di neuroni specchio in funzione, il linguaggio
sarebbe impossibile. Semplicemente, non saremmo capaci di apprendere a leggere la mente
dell’altro e di rispondere adeguatamente; in parole povere, non saremmo in grado di comunicare. I
bambini autistici, che hanno un sistema di neuroni specchio molto ridotto, non sono in grado di
imparare il linguaggio perché non sono in possesso degli strumenti empatici potenziali che servono
a costruirlo, i neuroni specchio, e sono perciò incapaci di apprendere dagli altri e sugli altri.
La tesi di Arbib sull’evoluzione del linguaggio umano e altre recenti scoperte e intuizioni nel
campo della biologia ci stanno aiutando a dipingere un quadro molto più chiaro delle origini
biologiche emotive, cognitive e perfino comunicative dell’evoluzione umana. Ciò che gli scienziati
stanno scoprendo è che gli esseri umani condividono con gli altri mammiferi una storia molto più
ricca di quanto si pensasse in passato. Ora sappiamo che i mammiferi provano sentimenti, giocano,
educano i piccoli, mostrano affetto e, almeno nel caso di alcune specie, hanno una rudimentale
cultura ed esprimono un primitivo disagio empatico.
Stiamo scoprendo affinità di spirito con le altre creature. Improvvisamente, il nostro senso di
solitudine esistenziale nell’universo non sembra più così profondo. Abbiamo lanciato messaggi
radio che possono giungere alle propaggini più distanti del cosmo nella speranza di trovare altre
forme di vita intelligente e sensibile, solo per scoprire che ciò che stiamo disperatamente cercando
nello spazio esiste già qui, accanto a noi, sulla terra. Questa scoperta non può che risvegliare un
nuovo senso di comunione con gli altri esseri viventi, e contribuire a farci progredire sulla strada
verso una coscienza biosferica.
Grazie alla recente scoperta della predisposizione dell’uomo e di molti animali all’empatia,
oggi i ricercatori dispongono dei fondamenti scientifici per un’indagine più rigorosa sull’interazione
fra natura e cultura nella creazione dell’essere sociale. Ciò che gli scienziati stanno imparando sul
36
modo in cui si sviluppa il bambino sta contribuendo a cambiare le nostre più elementari opinioni su
ciò che significa essere uomini.
37
Diventare umani
Nel corso della storia i genitori non hanno sempre considerato allo stesso modo i loro figli.
Alla fine del primo millennio dell’era volgare, un genitore cristiano guardava negli occhi il proprio
figlio appena nato cercando indizi di una presenza satanica pronta a possederlo. Oggi, all’inizio del
terzo millennio, più probabilmente un genitore scruta negli occhi del proprio figlio appena nato alla
ricerca dei segni di una predisposizione alla bontà e alla socievolezza. Questo non significa che i
genitori di oggi si aspettino che i propri figli crescano per diventare dei novelli Mahatma Gandhi o
Nelson Mandela o Martin Luther King. Semplicemente, sperano che i loro figli somiglino più a
questi personaggi che ad altri, come Adolf Hitler o Iosif Stalin. Tutto questo ci porta a considerare il
fatto che, sebbene nella maggior parte dei casi gli esseri umani non siano né santi né mostri, in
generale ci aspettiamo dalle persone che ci stanno accanto un comportamento pro sociale, piuttosto
che antisociale. Questo perché è nella nostra natura essere affettuosi e amorevoli, e non distanti e
ostili. In tutte le culture, il misantropo è sempre l’eccezione, mai la regola. Siamo nati per stare
insieme.
Oggi una nuova generazione di psicologi, biologi dello sviluppo, scienziati della cognizione
e ricercatori pediatrici sta studiando in modo sempre più approfondito il complesso percorso dello
sviluppo umano, sottolineando il ruolo fondamentale che l’espressione dell’empatia svolge nel
creare esseri umani pienamente formati.
I sei livelli di sviluppo della coscienza umana
Stanley Greenspan, docente di psichiatria clinica alla Medicai School della George
Washington University, ci guiderà attraverso le fasi di sviluppo della consapevolezza, mentre
Martin L. Hoffman,docente di psicologia alla New York University, ci spiegherà come l’espressione
empatica si manifesti in forme sempre più complesse e raffinate in ogni successiva fase del percorso
verso la coscienza di sé, il sé e l’integrazione sociale.
Greenspan identifica sei livelli nello sviluppo della coscienza umana. Al primo livello di
sviluppo, il bambino è impegnato a organizzare le proprie percezioni sensoriali - tatto, olfatto, udito
e vista - e inizia il difficile compito di controllare i propri movimenti, in modo da poter cominciare
ad agire sul mondo. In questa primissima fase, il bambino non ha il senso di sé e del mondo,
nessuna sensazione di essere un individuo: bambino e mondo sono ancora indifferenziati, in uno
stato che Freud ha definito «sentimento oceanico» di unità. William James si riferiva a questo stato
come a «una fiorita, ronzante confusione».1 L’unico sforzo del bambino è ordinare le proprie
sensazioni e controllare i propri movimenti corporei. In questo stadio, il bambino sta imparando a
focalizzare la propria attenzione, facoltà essenziale alla formazione della coscienza.
Nel momento in cui il bambino ha acquisito la capacità di essere attento, è pronto a notare «i
toni, le espressioni e le azioni di chi gli sta vicino e nel giro di poco tempo incomincia a reagire con
38
piacere».2 Questo segna il passaggio alla fase due: l’inizio dell’intimità, in genere con una figura
adulta accudente primaria. Sebbene il bambino non sia ancora in grado di differenziare se stesso
dall’altro da sé, gradatamente comincia a distinguere il mondo vivente delle relazioni umane dal
mondo inanimato che gli sta intorno: inizia a esistere in relazione agli altri; diventa consapevole del
piacere che gli provoca l’interazione con la figura accudente primaria e prova dispiacere se le sue
aperture non trovano riscontro. Il bambino comincia a comunicare con la figura accudente mediante
espressioni facciali, versi e altre manifestazioni di questo tipo. Se l’adulto risponde secondo le sue
speranze e i suoi desideri, il bambino comincia ad avvertire il senso di sé e dell’altro da sé. Per
esempio, se il bambino getta volontariamente del cibo dal piatto a terra per esprimere il proprio
disgusto le reazioni facciali, sonore, gestuali ed emotive dell’adulto gradualmente creano un segnale
distintivo fra «chi sono io» e «chi è l’altro che voglio influenzare»,3 anche se in questo stadio il
senso di sé e dell’altro da sé è avvertito solo marginalmente.
La capacità di comunicare un desiderio o un bisogno e di ottenere una risposta adeguata
getta la base per il senso dell’intenzionalità. Il bambino avverte la propria volontà ed è incoraggiato
da una risposta appropriata alle sue intenzioni. Questo terzo livello di sviluppo, quando il bambino
comincia a esercitare la propria intenzionalità verso gli altri e a percepire le reazioni di feedback,
rappresenta il vero inizio delle relazioni umane. La madre o il padre e il bambino sono ora
impegnati in un ricco dialogo preverbale. Il bambino comincia ad avvertire il confine fra «io» e
«tu». Comincia anche ad avere una vaga percezione dell’esistenza di altri, oltre alle figure accudenti
primarie, con i quali può entrare in relazione.
Greenspan avverte che in questo stadio, se la figura accudente primaria è scostante o poco
reattiva nei confronti del bambino (per esempio, non lo prende in braccio per coccolarlo quando il
bambino si sporge in avanti o ignora le emissioni sonore volte a richiamare la sua attenzione), lo
sviluppo del bambino può essere gravemente rallentato, provocando un danno alla successiva
capacità di creare relazioni intime.
A questo terzo livello, il bambino manifesta la propria volontà e comincia ad agire
«reciprocamente e contingentemente». Secondo Greenspan,
è a questo punto che il bambino comincia a percepirsi come entità distinta; non ha ancora un
sé intero, integrato e organizzato, ma nemmeno è incapace di distinguersi dal resto del mondo.4
Quanto affermato da Greenspan e altri convalida le osservazioni teoriche e cliniche dei
pionieri della teoria della relazione oggettuale, secondo i quali ogni individuo si forma nella
relazione con l’altro, contrariamente all’idea tradizionale che considerava possibili le relazioni solo
tra individui già formati.
A circa 18 mesi, il bambino è pronto ad avanzare al quarto livello di sviluppo. Egli è in
grado di indirizzare la madre, per esempio accompagnandola davanti al frigorifero e indicandole ciò
che desidera. Il suo repertorio gestuale si arricchisce, comincia a leggere i volti e il linguaggio del
corpo, e può riconoscere le emozioni principali, come gioia e dolore. Comincia a «[mettere] a fuoco
le varie situazioni sulla base di indizi comportamentali anche lievi».5
Ora il bambino ha acquisito sufficiente fiducia per separarsi dalla madre e dal padre per
brevi periodi, al fine di esplorare l’ambiente, ma sempre con la rassicurazione della loro vicinanza.
Il bambino comincia a imitare le espressioni e i gesti degli altri, per esempio mescolando un cibo
immaginario in un pentolino giocattolo, proprio come fa la madre quando cucina. In questa fase, il
bambino sperimenta se stesso come un altro: il campo di addestramento fondamentale per
sviluppare l’espressione dell’empatia. Greenspan afferma che questo periodo apre la porta a
un’ondata di sensazioni
umane più complesse, come «collera, amore, intimità, affermazione di sé, curiosità [e]
dipendenza».6
Fra il secondo e il terzo anno, il bambino compie un balzo in avanti, al quinto livello, nel
39
quale comincia a formare immagini e idee. Il bambino sviluppa la capacità di astrarre in simboli le
proprie emozioni e sensazioni. Può cominciare a impegnarsi in giochi di finzione, per esempio
facendo cullare una bambola da un’altra, ed esprimere le proprie sensazioni a parole: per esempio,
può dire alla madre di sentirsi triste o felice, o di desiderare il latte, invece di prenderla per mano e
condurla davanti al frigorifero.7
È questa l’età in cui il bambino inizia ad apprendere come riflettere sulle proprie azioni e
sulle situazioni in cui si trova. Per esempio, il bambino può esprimere il desiderio di andare in
automobile, al che i genitori possono rispondere domandandogli perché, inducendolo a riflettere
sulle proprie intenzioni.8 Nel gioco di finzione, il bambino può ora mettersi nei panni di un’altra
persona e imitarne i comportamenti. Per farlo, deve essere in grado di immaginare com’è l’altra
persona, deve farsene un’idea nella propria mente; poi deve sospendere la propria identità e
acquisire, per un tempo limitato, l’identità dell’altro. Questo tipo di processo cognitivo
estremamente complicato si osserva solo occasionalmente negli scimpanzé adulti - il cui grado di
coscienza equivale a quello di un bambino di 2 anni e mezzo - quando imitano un altro essere, ma è
raro in tutte le altre specie di mammiferi.
Quando compie 3 anni, il bambino è in grado di impegnarsi in forme piuttosto elaborate di
giochi di finzione, interpretando ruoli e personaggi e recitando scene che implicano trame
rudimentali e cambi di ambientazione.9
Fra il terzo e il quarto anno di vita, il bambino matura al sesto livello di coscienza e
comincia a connettere le idee alle emozioni. Greenspan ricorre all’esempio del bambino che
afferma: «Sono triste perché non posso vedere la nonna». Il bambino inizia a comprendere il tempo
e può distinguere concetti come passato, presente e futuro. Grazie a questo nuovo orizzonte
temporale, il bambino sviluppa la capacità di fare progetti in anticipo e di porsi obiettivi. Può
cominciare a capire come azioni presenti possano avere conseguenze in futuro: per esempio, essere
cattivo può significare non poter guardare il film o il cartone animato preferito alla televisione.
Anche l’orientamento spaziale diventa comprensibile: il bambino inizia a distinguere fra qui e là.
Comincia anche a capire la differenza tra fantasia e realtà.10 Può anche afferrare il concetto di
«altro», sia nella realtà sia nella propria immaginazione. In breve, sta diventando cosciente di sé e
acquistando un’identità individuale.
Greenspan puntualizza immediatamente che lo sviluppo di un’identità cosciente di sé è
totalmente dipendente dalla relazione empatica fra genitori e bambino.11 È solo grazie alla capacità
continua e coerente dei genitori di leggere accuratamente il suo stato emotivo, e di rispondere
efficacemente, che il bambino comincia a reagire in modo appropriato. La connessione empatica
apre la mente del bambino al mondo emotivo e sociale che lo circonda, gli offre il calore e l’affetto
di cui ha bisogno per avere fiducia, ma anche la sicurezza di poter agire sugli altri e di ricevere una
risposta positiva, in maniera reciproca.
Greenspan ci fa superare la dicotomia natura-cultura con un’osservazione semplice ma
importante: il corpo del bambino ottiene informazioni attraverso i sensi, ma sono la relazione intima
e l’esperienza emotiva che si formano fra lui e l’adulto accudente ciò che il sistema nervoso del
bambino astrae in elementi che le codificano. In altre parole, «la coscienza si sviluppa da questa
continua interazione, in cui la biologia organizza l’esperienza e l’esperienza organizza la
biologia».12
Quando utilizziamo il termine «coscienza sviluppata», afferma Greenspan, ci si riferisce alla
capacità
di riconoscere in noi stessi e negli altri le emozioni umane fondamentali e di riflettere su di
esse nel contesto della famiglia, della società, della cultura e dell’ambiente a cui apparteniamo.13
Questo non è che un altro modo per dire che una coscienza sviluppata è l’espressione di una
sensibilità empatica matura. Greenspan, come i teorici della relazione oggettuale che lo hanno
40
preceduto, afferma a chiare lettere che «la capacità di tenere in considerazione i sentimenti dell’altro
in maniera attenta e compassionevole deriva soprattutto dalla sensazione di essere stati amati e
accuditi da piccoli».14 La salute mentale, secondo Greenspan, «richiede un senso di comunione con
l’umanità…» il quale, a sua volta, richiede «un buon grado di empatia».15
Come si sviluppa l’empatia nel bambino
Greenspan ci offre un’utile mappa per ripercorrere il sentiero del bambino verso la coscienza
di sé e la formazione della personalità; Martin L. Hoffman, da parte sua, ci offre invece una
spiegazione
di come la predisposizione innata del bambino al legame empatico si manifesti in ogni
stadio del processo di maturazione, fornendo all’individuo le fondamenta cognitive ed emotive per
diventare un essere sociale compiutamente formato.
Hoffman identifica cinque modalità di manifestazione dell'empatia nel processo di sviluppo.
Le prime tre sono preverbali, automatiche e in gran parte involontarie: «la mimesi motoria e la
retroazione afferente che ne segue; il condizionamento chimico; l’associazione diretta fra indizi
provenienti dalla vittima o dalla sua situazione e le passate esperienze dolorose dell’osservatore».16
Hoffman sottolinea che questi comportamenti preverbali precedono qualsiasi forma di senso di sé e
sono tanto più potenti perché dimostrano che gli esseri umani sono biologicamente predisposti,
dalla nascita, a esprimere empatia e a creare legami di intimità e socialità.
Due modalità cognitive di ordine più elevato sono l’associazione mediata e l’assunzione di
ruolo o di prospettiva. La prima consente all’osservatore di associare la sofferenza della vittima alle
proprie dolorose esperienze passate; la seconda permette di immaginare come si sente la vittima,
come se si trattasse di un’esperienza diretta.17 Con il progredire da una modalità all’altra, il bambino
diviene gradualmente più abile nell’espressione empatica, e la padronanza di tale abilità, a sua
volta, gli permette di diventare sempre più cosciente e consapevole di sé.
E interessante notare come Adam Smith sia stato tra i primi a riconoscere l’importanza
dell’imitazione mimica. Il filosofo che, più di qualsiasi altro pensatore dell’epoca illuminista, ha
reso popolare l’idea di una pulsione innata dell’individuo all’interesse personale senza riguardo per
l’interesse altrui, a dispetto di ciò ha riconosciuto anche un altro aspetto della natura umana,
sebbene non abbia mai sviluppato tale intuizione o indagato le sue implicazioni riguardo alla
propria teoria della natura egoistica dell’uomo. Smith scrisse:
Quando vediamo che la gamba o il braccio di un’altra persona stanno per ricevere un colpo,
istintivamente ci contraiamo e ritiriamo la nostra gamba o il nostro braccio … La folla, quando
guarda in alto verso un funambolo che danza, istintivamente si contorce, dimena e oscilla i corpi,
come vede fare da lui.18
I ricercatori hanno notato che gli infanti, appena nati, cominciano a mimare le espressioni
facciali. I bambini di un mese già sorridono, mostrano la lingua e aprono la bocca quando osservano
qualcuno fare altrettanto.19 Anzi, nei primi tre mesi di vita la capacità visiva del bambino di
riconoscere i volti è maggiore che in qualsiasi altro momento della sua vita. Un bambino di
quell’età può riconoscere una fotografia deformata di sua madre con la stessa rapidità di un’analoga
foto non alterata; i bambini più grandi non sono altrettanto abili in questo esercizio. A 9 mesi, il
41
bambino imita le espressioni di gioia e di tristezza della madre. La madre e gli altri adulti,
analogamente, imitano le espressioni del bambino, per quanto involontariamente.20 L’imitazione
delle espressioni facciali prosegue per tutta la vita: alcuni studi hanno dimostrato che gli spettatori
di un programma televisivo imitano inconsapevolmente le espressioni dei personaggi che stanno
guardando sullo schermo.21 E ancora, l’imitazione è, per la maggior parte, inconsapevole: in un
esperimento, condotto utilizzando tecnologie di elettromiografia (EMG), alcuni ricercatori hanno
analizzato i movimenti facciali impercettibili dei soggetti mentre osservavano immagini di volti
felici e tristi, scoprendo che «i soggetti muovevano i muscoli del sorriso» quando veniva loro
mostrata l’immagine di un volto sorridente, e i muscoli deputati alla contrazione delle sopracciglia
quando vedevano immagini di persone accigliate.22
L’uomo imita anche accento, tono di voce e ritmo del linguaggio parlato.23 Per esempio, in
uno studio che ha osservato conversazioni della durata di venti minuti tra due individui, i
conversanti non solo si equilibravano in termini di tempo parlato, che approssimativamente
coincideva, ma si adattavano al ritmo del parlato dell’altro e perfino alla durata delle pause e dei
silenzi fra un’interlocuzione e l’altra.24 Pure in questo caso, la corrispondenza dei comportamenti è,
per la maggior parte, involontaria e automatica, a suggerire le profonde radici biologiche della
socialità.
Anche le posture corporali spesso sono imitate: uno studio ha rivelato che gli studenti
imitano frequentemente le posture dei propri insegnanti, e quanto più evidente è l’imitazione tanto
più forte è il rapporto fra studenti e insegnante. Analoghi studi sulle coppie dimostrano che quanto
più sincronici sono i movimenti dei partner tanto più forte è il legame emotivo.25
Anche l’imitazione emotiva è estremamente comune, ma abbiamo la tendenza a non
avvertirla, sia perché è involontaria e automatica, sia perché ci piace pensare di avere una sorta di
controllo sui nostri sentimenti. Quando i partecipanti a una serie di esperimenti ascoltavano nastri
registrati di oratori tristi o allegri, il loro umore mutava a seconda di quello dell’oratore, senza
peraltro che riconoscessero il nesso di causalità.
In un capitolo di The New Unconsciuos, Tanya Chartrand, William Maddux e Jessica Lakin
notano che l’imitazione non conscia è un processo automatico. Secondo Chartrand e gli altri
coautori, la funzione adattiva primaria dell’imitazione, da un punto di vista biologico, è «che
vincola e lega le persone e stimola l’empatia…».26 La recente scoperta dei neuroni specchio nella
corteccia premotoria delle scimmie e dell’uomo offre la spiegazione neurologica alle modalità di
attivazione di tale imitazione.27
Gli psicologi Robert W. Levenson e Anna M. Ruef spiegano che la sincronia fisiologica e
quella emotiva sono bidirezionali, cioè «la sincronia emotiva può produrre sincronia fisiologica, e la
sincronia fisiologica può produrre sincronia emotiva».28 Pur notando tale natura bidirezionale,
Hoffman ritiene che quella fisiologica sia una componente determinante in misura maggiore rispetto
a quanto ipotizzato in precedenza. William James punta l’attenzione sull’importanza dell’innesco
fisiologico nell’indurre uno stato emotivo, osservando che «ci sentiamo tristi perché piangiamo e
impauriti perché tremiamo».29 Questo effetto viene chiamato «feedback afferente» (un termine reso
popolare da Norbert Wiener, il padre della teoria cibernetica, negli anni Cinquanta).
In un interessante studio condotto negli anni Settanta, alcuni ricercatori sono riusciti a
fornire sostegno scientifico alle ipotesi teoriche formulate da James. Dopo aver applicato degli
elettrodi al viso dei soggetti presi in esame, i ricercatori ne sistemavano il volto in espressioni
emotive (sorridente o accigliata) senza che i soggetti ne fossero consapevoli, semplicemente
chiedendo loro di distendere o contrarre alcuni muscoli. Alla fine dell’esperimento, i soggetti
«sorridenti» si sentivano più felici di quelli appartenenti al gruppo di controllo, mentre i soggetti
«accigliati» riferivano un umore più tetro di quelli del rispettivo gruppo di controllo. Se veniva loro
mostrato lo stesso cartone animato, i soggetti «sorridenti» lo valutavano più divertente rispetto ai
soggetti «accigliati». Ma, cosa ancor più rilevante, i soggetti «sorridenti» avevano maggiore facilità
a ricordare eventi allegri della propria vita rispetto a quelli tristi, mentre per i soggetti «accigliati»
42
valeva esattamente il contrario.
Uno dei soggetti dell’esperimento, successivamente, riferì la propria sorpresa nel constatare
l’effetto che la sua espressione facciale aveva avuto sulle sue emozioni:
Quando avevo la mascella serrata e le sopracciglia aggrottate, cercavo di non essere
arrabbiata, ma l’espressione mi costringeva a esserlo. Non ero affatto di cattivo umore, ma i miei
pensieri si dirigevano verso cose che mi fanno arrabbiare, il che, mi sembra, è un po’ stupido.
Sapevo di partecipare a un esperimento e sapevo di non aver alcuna ragione per sentirmi in quel
modo, ma avevo semplicemente perso il controllo.30
Il feedback afferente suggerisce che un bambino possa cominciare a empatizzare con le
sensazioni di un altro prima ancora di averle sperimentato personalmente. James D. Laird, docente
di psicologia alla Clark University, che ha condotto esperimenti pionieristici sull’espressione
facciale e la formazione degli stati d’animo, afferma che esiste un’inferenza sia afferente sia
cognitiva, e fa notare che
alcuni sono felici perché sorridono, furiosi perché accigliati, e tristi perché imbronciati; altri
definiscono le proprie esperienze emotive in termini di aspettative situazionali. 31
In altre parole, si può diventare più empatici sia interiorizzando lo stato emotivo dell’altro
sia confrontandolo con le proprie esperienze emotive passate.
Per molto tempo, antropologi e psicologi hanno sospettato che le espressioni facciali e le
emozioni fossero determinate socialmente, anziché biologicamente. Ora sappiamo che alcune
espressioni facciali indicano il medesimo stato d’animo in tutte le culture e per tutti gli esseri
umani. L’antropologo E. Richard Sorenson e gli psicologi Paul Ekman e Wallace V. Friesen hanno
studiato una tribù preletterata della Nuova Guinea e hanno rilevato e identificato le stesse
espressioni facciali, corrispondenti alle stesse sensazioni ed emozioni, che caratterizzano la
popolazione di Stati Uniti, Brasile e Giappone.32 Le diverse culture, tuttavia, piegano e modellano
tali espressioni e stati d’animo comuni in accordo con le rispettive etiche sociali.33
Secondo Hoffman, ci sono le prove scientifiche per affermare che
la mimesi è probabilmente un processo di attivazione dell’empatia, «cablato» a livello
neurale, i cui due stadi, l’imitazione e la retroazione, sono diretti da comandi del sistema nervoso
centrale.34
Studi citati da Hoffman indicano che quando le persone si imitano, esprimono solidarietà:
manifestando una reazione appropriata alla situazione di un altro, l’osservatore comunica
consapevolezza, riguardo, sostegno e conforto.35 La mimesi richiede che l’uno sia «attento» all’altro
e «in sintonia» con il suo stato emotivo: entrambe condizioni necessarie alla promozione
dell’espressione empatica e del legame di socialità.
Quando raggiunge l’anno di età, il bambino può cominciare a leggere le espressioni degli
altri e a percepirne lo stato emotivo. Andrew Meltzoff, docente di psicologia alla University of
Washington, ha esaminato gli sguardi di migliaia di bambini e, insieme alla sua collega Rechele
Brooks, ha scoperto che se a 12 mesi i bambini dimostravano scarse competenza osservative, era
più probabile che, a 24 mesi, mostrassero minori competenze linguistiche. Meltzoff sostiene che
si può dire molto degli individui - a cosa sono interessati e che cosa intendono fare in futuro
- semplicemente osservando i loro occhi. Sembra che lo sappiano perfino i bambini … È questo il
modo in cui apprendono a diventare membri maturi della nostra cultura.36
43
Il condizionamento classico è la fase successiva di manifestazione empatica nel processo di
sviluppo. Per esempio, se la madre sta provando ansietà e irrigidisce il proprio corpo, il suo disagio
si può trasmettere al bambino, che lo interiorizza. Le espressioni facciali e verbali materne che
manifestano tensione possono provocare disagio nel bambino anche quando questo non è in
contatto fisico con la madre. E il bambino avverte il medesimo disagio quando osserva analoghe
espressioni in altri individui.
Il terzo livello di sviluppo empatico, l’associazione diretta, si raggiunge quando la
condizione di un altro soggetto richiama esperienze passate simili e le relative emozioni nel ricordo
dell’osservatore. Hoffman cita l’esempio di un ragazzino che, alla vista di un altro bambino che si
tagliava e si metteva a piangere, ricordava una propria simile esperienza passata e ne avvertiva il
dolore. Diversamente dal condizionamento, in cui il disagio dell’uno è commisurato al disagio
dell’altro, nel caso dell’associazione diretta è sufficiente all’osservatore collegare la specifica
esperienza dolorosa dell’altro con la sensazione del dolore da lui provato in un’esperienza analoga,
non necessariamente identica, per innescare una risposta empatica.37 Per esempio, come abbiamo
accennato nel capitolo I, non è inusuale che un bambino di 13-15 mesi cerchi di confortare un
compagno di giochi che piange accompagnandolo dalla propria madre, anche se è presente quella
dell’altro. Questo dimostra che il bambino avverte tramite empatia una sofferenza causata dalla
sofferenza dell’altro, ma non è ancora in grado di distinguere il proprio disagio da quello altrui.
Questo perché, sebbene il bambino sia consapevole che l’altro è un essere separato, ancora non
comprende che egli prova sentimenti propri, e quindi attribuisce al compagno in lacrime il proprio
disagio, ragion per cui lo conduce dalla propria madre affinché ne tragga conforto.
Imitazione, condizionamento e associazione diretta sono tutte forme involontarie e in certa
misura primitive della manifestazione empatica. Ma dimostrano in modo eloquente le profonde
radici biologiche dell’espressione empatica nell’animale uomo. Siamo predisposti ad «avvertire
fortemente le emozioni dell’altro» come se fossero le nostre.38
Ma affinché venga espressa un’empatia matura, è necessario aggiungere all’equazione
emotiva il linguaggio e lo sviluppo cognitivo. Quando questo accade, il bambino è maturo per i
livelli quattro e cinque: l’associazione mediata e l’assunzione di ruolo.
Con l’associazione mediata, la situazione emotiva della vittima è comunicata attraverso il
linguaggio. L’osservatore recepisce le parole della vittima (per esempio: «Ho paura perché mia
madre sta morendo»), le decodifica verificandone il significato rispetto alla propria esperienza
passata (una valutazione cognitiva) e dà loro seguito con una risposta empatica. L’associazione
mediata combina funzioni sia affettive sia cognitive per elaborare la risposta empatica.
L’assunzione di ruolo è il quinto e ultimo livello della manifestazione dell’empatia secondo
il modello di sviluppo di Hoffman, perché richiede un’elaborazione cognitiva di livello elevato: è
necessario che l’osservatore immagini come potrebbe essere trovarsi nella stessa situazione
dell’altro. I primi studi sull’assunzione di ruolo come meccanismo di manifestazione empatica sono
stati condotti da Ezra Stotland alla fine degli anni Sessanta. Ai soggetti dell’esperimento di Stotland
veniva chiesto come si sarebbero sentiti se fossero stati oggetto del medesimo, doloroso trattamento
con il calore a cui era sottoposto un altro individuo che potevano osservare da dietro un falso
specchio. Questi soggetti mostravano un disagio empatico maggiore di quelli a cui era richiesto
semplicemente di osservare attentamente i movimenti della vittima; mostravano anche una reazione
empatica superiore rispetto a coloro a cui veniva chiesto di immaginare come si sentisse la vittima.
In altre parole, l’assunzione di ruolo centrata su se stessi stimolava un disagio empatico maggiore
rispetto all’assunzione di ruolo focalizzata sull’altro.
Hoffman avverte che il disagio empatico provocato dall’assunzione di ruolo centrata su se
stessi può portare a ciò che egli chiama «deriva egoistica»: il rischio che, con l’intensificarsi della
risposta empatica, l’esperienza diventi più autoreferenziale e quindi meno autenticamente
empatica.39
Dunque, in che modo i bambini apprendono a trasformare la propria innata spinta biologica
44
all’espressione empatica in una coscienza empatica matura? Secondo Hoffman, la risposta al se e al
come il bambino sviluppa una sensibilità empatica matura è riconducibile, in larga parte, al modo in
cui i genitori lo sottopongono alla disciplina delle regole: è nell’esperienza della disciplina che il
bambino sviluppa un chiaro senso dell’espressione empatica.
Hoffman osserva che raramente ai bambini vengono imposte regole nel primo anno di età,
dopodiché cominciano a essere sottoposti più frequentemente alla disciplina: in media, nell’arco di
tempo compreso tra i 12 e i 15 mesi, una volta ogni undici minuti.40 Nel momento in cui il bambino
ha raggiunto l’età che i genitori di cultura anglosassone chiamano «i terribili due» e sta
cominciando a diventare sempre più volitivo, due terzi delle interazioni genitore-bambino sono
legati alla disciplina, in particolare al tentativo del genitore di modificare il comportamento del
bambino contro la sua volontà.41 Fra i 2 e i 10 anni, questo tentativo viene compiuto dai genitori
circa ogni 6-9 minuti, in quella che diventa una vera e propria guerra di volontà e determinazione.42
Una buona percentuale degli episodi di correzione riguarda in qualche misura un danno, fisico o
emotivo, che il bambino ha inflitto a qualcun altro.
Inserire il senso della moralità nell’esperienza del bambino non è facile. Studi condotti dai
docenti di psicologia William F. Arsenio e Anthony Lover negli anni Novanta hanno dimostrato che,
quando a un bambino di età inferiore agli 8 anni si racconta la storia di un coetaneo che ruba o si
rifiuta di fare il proprio dovere, il bambino pensa che il personaggio della storia sia felice di quello
che ha fatto e per nulla preoccupato del disagio provocato dal suo comportamento.43 La chiave per
trasformare gli impulsi empatici innati in risposte empatiche mature è nelle modalità con cui si
educa alle regole.
Ovviamente, infliggere punizioni corporali a un bambino a fronte di trasgressioni sociali ha
un’elevata probabilità di sortire l’effetto opposto e rendere il giovane meno empatico nel futuro.
Invece, il miglior modo di portare un bambino a esprimere tutto il proprio potenziale empatico è
l’induzione, «nella quale i genitori mettono in evidenza il punto di vista dell’altro, sottolineano la
sua sofferenza e chiariscono che la causa di questa sofferenza è stata la condotta del bambino».44 Se
tale intervento viene compiuto con cura, sensibilità ed equità, e se il bambino si rende genuinamente
conto di aver causato disagio all’altro, può portare al senso di colpa, al rimorso e a un sincero
impegno a fare ammenda. Per esempio, se un bambino sottrae un giocattolo a un altro, il genitore
potrebbe sedersi accanto a lui e domandargli come si sentirebbe se qualcuno gli facesse la stessa
cosa. Dopodiché potrebbe domandargli di immaginare come si sente, adesso, l’altro bambino.
Così, l’induzione, come altre forme di insegnamento della disciplina, porta il bambino a
rendersi consapevole della disapprovazione dei genitori e gli offre anche delle occasioni di
apprendimento sociale. Sottolineando il disagio della vittima e chiedendo al bambino come si
sentirebbe lui nelle medesime circostanze, il genitore fa sì che si inneschino i meccanismi di stimolo
dell’empatia. Per esempio, il genitore potrebbe chiedere al figlio di raggiungere l’altro bambino e
guardarlo negli occhi: lo sguardo triste della vittima e le lacrime che rigano il suo viso possono
provocare una reazione di imitazione automatica nel trasgressore, che potrebbe a sua volta
scoppiare in lacrime. Analogamente, chiedendo al bambino di immaginare come si sente l’altro, si
può innescare un’associazione mediata. L’insorgere del disagio empatico si trasforma in senso di
colpa e in desiderio di risarcire la vittima.
La disciplina induttiva è una sorta di sceneggiatura, afferma Hoffman, che segue un copione
prevedibile: prima «la trasgressione del bambino, seguita dall’induzione del genitore, seguita dal
sentimento di sofferenza empatica del bambino e dal suo senso di colpa», in un processo che
termina con il suggerimento da parte del genitore di una soluzione riparatoria - chiedere scusa alla
vittima, o abbracciarla, o darle un bacio - e il conseguente insorgere nel bambino di un senso di
sollievo e di diminuzione della colpa. Questa trama si consolida nella memoria e diventa parte dei
circuiti cerebrali: ogni ripetizione della sceneggiatura consolida il repertorio di esperienze
empatiche del bambino e, allo stesso tempo, costruisce una biblioteca di esperienze a cui fare
appello nelle future interazioni sociali.45
45
Di solito i bambini sono introdotti a queste sceneggiature di induzione nel terzo anno di vita,
quando l’azione disciplinante dei genitori diventa più sofisticata e la comunicazione fra genitore e
figlio più ricca, varia e interattiva.46 È interessante notare come
questo stadio dello sviluppo empatico in genere si manifesti poco dopo l’acquisizione da
parte del bambino della capacità di riconoscersi nello specchio, che indica la consapevolezza di sé.47
La disciplina induttiva funziona, in questa fase, perché il bambino sta cominciando a diventare
consapevole del fatto che gli altri hanno stati d’animo propri - emozioni, desideri, pensieri - spesso
diversi dai suoi. Questo è l’inizio del sé riflessivo: il crescente senso di sé e il riconoscimento degli
altri come esseri separati con pensieri e sentimenti propri permettono al bambino di imparare,
attraverso la disciplina induttiva, a essere più empatico.
La disciplina induttiva è una pratica che comporta la manipolazione di delicati equilibri.
Hoffman ci rammenta che i genitori sono figure potenti nella vita infantile: sono gli agenti del
nutrimento e l’ancora di salvezza emotiva e personale del bambino nel mondo. La capacità di
attirare l’attenzione del figlio e di affermare la propria volontà e, nello stesso tempo, di ritirare il
proprio affetto, conferisce loro una forza formidabile nella vita del bambino. Ciò considerato, se un
genitore è troppo permissivo e manca di offrire un quadro normativo prevedibile, il bambino può
finire per ignorare la sua volontà quando viene manifestata. D’altra parte, se i genitori sono
eccessivamente autoritari e sopraffanno il bambino con il proprio potere assertivo, questi rischia di
diventare aggressivo e rabbioso, o di rifuggire il contatto emotivo. Il genitore sufficientemente
capace - come direbbe Winnicott - nei momenti in cui esercita la propria funzione disciplinante
applica sul bambino solo le pressioni strettamente necessarie, affinché sia disposto ad ascoltare ciò
che ha da dirgli sul disagio provocato a qualcun altro. Se si approccia il comportamento del
bambino in maniera non giudicante, ma attenta e partecipe, è molto probabile che si inneschi il
disagio empatico e il senso di colpa, con il conseguente desiderio di riparazione nei confronti della
vittima.
Ciò che l’azione disciplinante induttiva insegna realmente al bambino è la sostanza della
moralità umana: responsabilità per le proprie azioni, compassione per gli altri, disponibilità ad
accorrere in loro aiuto e confortarli, un adeguato senso di equità e giustizia. La maturazione
dell'empatia e lo sviluppo del senso morale sono la stessa cosa.
Avendo parlato di colpa, vale la pena di sottolineare che questa non deve essere confusa con
la vergogna. Spesso i due termini sono usati come sinonimi, ma in realtà sono assai diversi. Mentre
la colpa può innescare il disagio empatico e il desiderio di farsi avanti e fare ammenda nei confronti
della persona che è stata ferita, la vergogna ci umilia e ci fa sentire privi di valore e di umanità.
Essere additati alla vergogna significa essere rifiutati. La vergogna è un modo per isolare la persona
dalla collettività, facendola diventare estranea, una non persona. La vergogna ha l’effetto di
spegnere l’impulso empatico innato: se ci si sente una non persona, socialmente ostracizzata e priva
di valore individuale, non si può essere in grado di attingere alle riserve di empatia per far propria la
sofferenza dell’altro e, incapaci di connettersi emotivamente agli altri, ci si ritira nella fuga o si
agisce mossi dal senso di abbandono, manifestando rabbia nei confronti degli altri. Perché rabbia?
Perché spesso, in questi casi, è l’unico modo che si ha a disposizione per comunicare con gli altri.
La figura del «lupo solitario», isolato dalla comunità e pieno di rabbia verso i propri simili, è un
fenomeno comune a tutte le società.
Quando, invece, qualcuno viene messo di fronte alla propria responsabilità, si fa appello alla
sua umanità in modo che il torto fatto all’altro venga corretto. Diversamente dalla vergogna, che
isola dall’umanità, la colpa è un meccanismo interiore che ci ricorda le nostre profonde connessioni
sociali e il bisogno di riparare i legami con gli altri.
La colpa deve essere usata con cura. Se la disciplina induttiva del genitore crea nel bambino
un eccessivo senso di colpa, questi probabilmente crescerà nella convinzione che nulla di ciò che
può fare potrà mai costituire un risarcimento adeguato per riparare al male provocato o ripristinare i
legami sociali. Ma se, d’altra parte, l’azione dei genitori non riesce a instillare almeno un minimo di
46
senso di colpa nel bambino, questi crescerà nell’incapacità di riflettere sugli effetti del proprio
comportamento sugli altri e di innescare un disagio empatico sufficiente a indurlo a riparare i
legami sociali compromessi. Il genitore sufficientemente capace fa sì che il bambino capisca di aver
fatto qualcosa di sbagliato, ma in modo affezionato, così da fargli capire di essere comunque amato
e considerato una persona. Nello spiegare al bambino come si può sentire l’altro e nel chiedergli
come si sentirebbe lui stesso nella medesima situazione, il genitore gli fa sapere che si fida della sua
innata bontà e del suo desiderio di empatizzare con gli altri e fare ammenda. Altrettanto importante
è che i genitori implicitamente confermino al bambino che il loro amore non è diminuito a causa del
suo comportamento sbagliato: nessuno è perfetto; il meglio che ci si può aspettare dagli altri è che
imparino dai propri errori e si impegnino a fare meglio la prossima volta.
Facendo vergognare il bambino, invece, i genitori gli comunicano che non è all’altezza delle
loro aspettative e, perciò, non è degno della loro considerazione. Sono le loro aspettative, e non le
doti umane del bambino, a diventare il punto centrale dell’azione disciplinante: il bambino rimane
con la sensazione che la sua esistenza sia ragione di disappunto e, pertanto, di doversi conformare a
una «immagine ideale» di ciò che i genitori si aspettano da lui, oppure di patire le conseguenze del
rifiuto.
La cultura della colpa crea esseri umani molto diversi dalla cultura della vergogna. La
filosofa Martha Nussbaum lo spiega così:
La colpa morale è tanto migliore della vergogna, perché può essere espiata, e non macchia
l’intero nostro essere. E un’emozione dignitosa, compatibile con l’ottimismo riguardo alle nostre
prospettive … Piuttosto che porre una severa e oppressiva esigenza di perfezione, abbraccia la
bambina nelle sue imperfezioni, dicendole che il mondo contiene possibilità di perdono e pietà, e
che è amata come persona dotata di interesse e valore intrinseco. Non deve quindi temere che la sua
umana imperfezione causerà la distruzione del suo mondo. E, non essendo paralizzata da
un’annichilente vergogna per la propria imperfezione, avrà meno bisogno di invidia e gelosia,
emozioni che esprimono il suo desiderio di controllo onnipotente delle fonti del bene.48
Paradossalmente, per quanto una cultura della vergogna pretenda di aderire ai più elevati
standard di perfezione morale, in realtà produce una cultura di odio contro se stessi e invidia,
gelosia e rabbia verso gli altri. Le culture della vergogna, in tutta la storia, sono state le più
aggressive e violente, perché bloccano l’impulso empatico e, con questo, la capacità di provare la
sofferenza dell’altro e reagire con atti di compassione. Crescendo in una cultura della vergogna, il
bambino si convince di doversi conformare a un ideale di perfezione o di purezza, o di dover patire
la maledizione della comunità, ed è quindi portato a giudicare gli altri sulla base delle medesime
rigide e inflessibili regole. Mancando di empatia, non è capace di provare la sofferenza degli altri
come se fosse propria ed è quindi portato a considerare ciascun altro responsabile della propria
sofferenza, perché non rientra nell’ideale di perfezione richiesto dalla società.
Le culture della vergogna esistono ancora nelle società tradizionali. In tali contesti, non è
raro avere notizia di una giovane donna violentata che, proprio per aver subito violenza, viene
lapidata dai parenti e dalla comunità a cui appartiene, perché ha portato la vergogna su di sé e sulla
propria famiglia; anziché empatizzare con la sua sofferenza, la comunità le infligge una punizione
ancora più grande, togliendole la vita: agli occhi della comunità la vittima porta la vergogna dello
stupro, anche se di fatto è innocente. Tuttavia, secondo il punto di vista della famiglia e della
comunità, è per sempre infangata e impura e perciò un oggetto di disgusto da ostracizzare. La
capacità delle culture della vergogna di annichilire l’empatia e di trasformare gli esseri umani in
mostri è terrificante.
Va notato che la disciplina induttiva è uno strumento di apprendimento relativamente nuovo
e, forse, costituisce il cambiamento più rivoluzionario nei comportamenti genitoriali avvenuto nel
corso della storia. In passato, in genere, quando il bambino si comportava male nei confronti degli
47
altri era sanzionato con la punizione corporale e la vergogna: i genitori non avevano ancora alcuna
dimestichezza con il pensiero terapeutico e non erano in grado di guidare il figlio attraverso un
processo di induzione. Far capire a un bambino in che modo il suo comportamento influenzi gli altri
e come si sentirebbe lui stesso se fosse vittima del medesimo comportamento richiede genitori con
una coscienza psicologica ben sviluppata. Aiutare un bambino piccolo a riflettere sul proprio
comportamento, indurlo a provare un giusto senso di colpa e rimorso e a fare un tentativo di
riparazione è un processo profondamente terapeutico nel quale, in effetti, i genitori diventano il
primo terapeuta del bambino e gli permettono di fare gli adeguati collegamenti emotivi per
incentivare comportamenti pro sociali. Questo tipo di atteggiamento genitoriale sarebbe stato
impossibile da concepire prima dell’era della coscienza psicologica.
Freud avrebbe considerato sbagliato il concetto di «disciplina induttiva». Pur essendo
convinto che la colpa fosse fondamentale nello stabilire il senso morale, il suo concetto di colpa si
fonda su premesse diametralmente opposte a quelle dei teorici della relazione oggettuale e dei
sostenitori delle teorie dell’attaccamento. Freud riteneva che la colpa fosse attivata dalla paura della
punizione inflitta dai genitori, non dalla sofferenza dell’altro. I bambini nascono narcisisti e sono
costantemente impegnati in uno scontro di volontà con i genitori per promuovere il proprio interesse
libidico personale. Da una parte, temono il controllo e l’autorità parentale; dall’altra, secondo
Freud, hanno bisogno della protezione dei genitori per sopravvivere. Dunque, la relazione del
bambino con i genitori è fin dall’inizio ambivalente e manipolativa: il bambino adotta
costantemente svariati mezzi per ottenere ciò di cui ha bisogno, ma è sempre ansioso per il timore
della punizione e dell’abbandono. È la paura di perdere la protezione dei genitori, suggerisce Freud,
la molla che fa scattare la colpa e induce il bambino a diventare morale.
Il sentimento di colpa può dunque trarre origine da due fonti: dal timore che suscita
l’autorità e dal successivo timore che suscita il Superio. La prima fonte obbliga a rinunciare al
soddisfacimento pulsionale, la seconda, oltre a ciò e poiché è impossibile nascondere al Superio che
i desideri proibiti continuano a persistere, preme per la punizione.49
Così, secondo Freud, il senso di colpa insorge per paura dell’autorità dei genitori, e quella
colpa viene interiorizzata e costringe il bambino a essere morale, per paura della punizione, prima
dei genitori, poi della società. La moralità, in questo contesto, è indotta negativamente: nonostante
la sua istintiva pulsione a realizzare la propria egoistica volontà a spese dei propri simili, l’uomo è
morale per evitare la punizione. Freud, come Hobbes, crede che le società siano organizzate per
frenare l’interesse personale degli individui, che altrimenti sarebbe fuori controllo, e che il
comportamento morale sia imposto, in forma di legge, per garantire un livello minimo di coesione
sociale.
La visione pessimistica della natura umana di Freud, però, già nella sua epoca non fu
accettata supinamente. Nel 1919 il sociologo Wilfred Trotter avanzò la tesi che l’uomo sia un
animale gregario con una pulsione istintiva di protezione reciproca, e che tale comportamento
favorisca la sopravvivenza sia del singolo sia del gruppo. L’altruismo, secondo Trotter, è il modo in
cui l’essere umano esprime il proprio istinto gregario ed è al centro del suo essere biologico. Ecco
un’altra interpretazione del fenomeno della selezione naturale che contrasta con la visione
convenzionale dell’epoca di Freud: l’uomo si sente responsabile per gli altri e accorre ad assisterli.
La misura in cui ci si sente responsabili, al di fuori del contesto della cerchia dei consanguinei, è
condizionata dal contesto sociale in cui si vive.
Per Freud, la teoria di Trotter era un’eresia, perché, se si fosse rivelata corretta, avrebbe
smentito la teoria da lui accuratamente elaborata, rivelandone l’infondatezza da un punto di vista
biologico. Freud rispose all’ipotesi di Trotter formulando una contro tesi:
Ci sentiamo perciò di rettificare l’affermazione di Trotter che l’uomo è un animale che vive
48
in gregge, sostenendo che egli è piuttosto un animale che vive in orda, un essere singolo
appartenente a un’orda guidata da un capo supremo.50
Nell’orda, secondo la visione freudiana, il padre è la figura potente, dominante e
spregiudicatamente autoritaria, che pretende fedeltà assoluta. Pieni di rabbia verso il padre, i figli
complottano incessantemente per deporlo e ucciderlo, per poter godere di un piacere incestuoso con
la madre e dominare il branco.
La ricerca sullo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino negli ultimi cinquant’anni ha
finalmente accantonato la spiegazione, alquanto bizzarra, che Freud ha dato della natura umana.
Trotter, in verità, aveva intuito qualcosa, e i teorici della relazione oggettuale e i ricercatori nel
campo dello sviluppo del bambino hanno confermato le sue intuizioni. Ora sappiamo che il disagio
empatico è ereditato biologicamente, e che quando si manifesta, in conseguenza dell’esposizione
alla sofferenza di un altro, soprattutto se è avvertito, in qualche misura, come effetto di una
sofferenza causata da un proprio comportamento, può portare al senso di colpa e al desiderio di fare
ammenda.
Vale la pena sottolineare un punto già menzionato: disagio, senso di colpa e desiderio di
riparazione sono, in sé, limitati dalla selezione naturale. Esistono delle soglie minime e massime di
espressione empatica. Ci sono infinite situazioni in cui la sofferenza dell’altro non è tale da
innescare il disagio empatico, perché l’altro è un estraneo o appartiene a un gruppo che si è stati
condizionati a considerare sfavorevolmente o perché non si percepisce la sua sofferenza come
vicina, nel tempo o nello spazio. Gli individui possono provare anche una sovrastimolazione
empatica, che secondo Hoffman è
un processo involontario che ha luogo quando la sofferenza empatica dell’osservatore
diventa così dolorosa e intollerabile da trasformarsi in un vivissimo sentimento di sofferenza
personale, che può far uscire del tutto la persona dalla modalità empatica. 51
Le persone che professionalmente si occupano della cura del prossimo, soprattutto
infermieri e medici, sono esposte al cosiddetto fenomeno della «fatica da compassione». E lo stesso
accade a persone che svolgono professioni di assistenza, come gli assistenti sociali e i volontari
delle missioni umanitarie in zone di guerra o colpite da calamità naturali. La continua sovra
stimolazione empatica può portare a un esaurimento emotivo, con l’indebolimento della risposta
empatica e la ritirata emotiva.
Se tutti provassimo disagio empatico e tenessimo sempre un comportamento altruista, non
potremmo occuparci adeguatamente dei nostri bisogni e garantire il nostro benessere emotivo,
cognitivo e fisico. Il nostro equilibrio psicologico sembra esserne consapevole e stabilisce una
soglia minima e un limite massimo di stimolo empatico.
Il processo di maturazione empatica si velocizza nel periodo prescolare, quando il bambino
acquisisce competenze nell’uso del linguaggio per esprimere e rivelare le emozioni,52 e sviluppa la
capacità di leggere fra le righe e capire che l’aspetto esteriore e il comportamento dell’altro possono
mascherare emozioni interiori ben diverse.53
Fra i 4 e i 5 anni, il bambino matura il senso della reciprocità sociale: comincia a capire cosa
ci si aspetta da lui in termini di adeguata risposta sociale alla relazione con altri bambini e ad azioni
a lui rivolte, ed è in grado di provare senso di colpa se ferisce un altro bambino non ricambiandolo
appropriatamente.54 Per esempio, se un amico condivide i suoi giocattoli, ma il bambino rifiuta di
fare altrettanto condividendo i propri, e lo fa piangere, il senso di colpa può innescare una risposta
empatica e portare al tentativo di una riparazione in qualche forma.
Intorno ai 7 anni, il bambino comincia ad accorgersi quando avverte la risposta empatica alla
sofferenza dell’altro. Uno studio che ha coinvolto bambini di 5, 7,8 e 13 anni ha rivelato che i
bambini di 7 o più anni sono consapevoli di essere empatia, mentre i più piccoli non lo sono. Ai
49
bambini coinvolti sono stati mostrati filmati di bambini in situazioni fortemente stressanti: un
bambino punito ingiustamente dai genitori; un bambino disabile che impara a salire le scale usando
le stampelle; un bambino allontanato a forza dalla famiglia. I bambini di 7 o più anni hanno
affermato di sentirsi tristi a causa delle situazioni mostrate nei filmati, lasciando intendere di essere
consapevoli che la loro tristezza era la reazione alla sofferenza di un altro bambino e che quella che
stavano provando era una reazione empatica. I bambini più piccoli, invece, non erano in grado di
comprendere che il loro disagio era legato causalmente all’esperienza mediata della condizione
dell’altro bambino: non si rendevano conto di provare un sentimento empatico.55
Fra i 6 e gli 8 anni, il bambino aggiunge al proprio repertorio morale il senso del dovere
sociale: per esempio, impara che mantenere le promesse è essenziale per il consolidamento delle
amicizie e che il non farlo può provocare nell’altro un senso di tradimento e dolore.56 Anche in
questo caso, se tale comportamento provoca senso di colpa e desiderio di riparazione, il bambino
impara a diventare un essere morale.
Fra gli 8 e i 9 anni, un bambino riesce a intuire il livello di autostima dell’altro.57 Inoltre, è in
grado di modificare la propria risposta empatica alla situazione dell’altro sulla base di circostanze
esterne. Per esempio, a un gruppo di bambini è stato chiesto quanto sarebbero stati arrabbiati se un
altro bambino avesse rubato loro il gatto. In seguito, sono stati informati del fatto che il gatto di quel
bambino, il ladro, era scappato e che i suoi genitori si rifiutavano di procurargli un nuovo cucciolo.
Sulla base della nuova informazione, i bambini «di 8 o più anni hanno dichiarato di essere meno
arrabbiati», dopo aver saputo la ragione per cui l’altro aveva commesso quella brutta azione,
rispetto a un gruppo di controllo al quale non era stata data l’informazione aggiuntiva. I bambini di
7 anni o meno, invece, non erano affatto influenzati dall’informazione aggiuntiva, a indicare che i
bambini non sono in grado di valutare le esperienze passate degli altri nella propria risposta
empatica fino a circa 8 anni di età.58
Fra i 10 e i 12 anni, il bambino è in grado di pensare in maniera astrattamente morale su
quale debba essere il proprio comportamento nella società. Può provare un senso generale di
responsabilità morale e di colpa che travalica le immediate circostanze e cominciare a riflettere su
cosa significhi essere una brava persona, un essere umano moralmente retto, e condurre la propria
vita sulla base di una propria bussola morale che lo indirizza. Ora, anche il suo senso di colpa è
astratto: interiorizza il senso di colpa sociale provando angoscia e frustrazione qualora non riesca a
soddisfare la norma morale della società.59
A 10-11 anni, il bambino è in grado di comprendere l’idea che si possano provare
simultaneamente sentimenti contrastanti: per esempio, una persona può sentirsi in imbarazzo perché
ha un famigliare disabile ma, allo stesso tempo, provare empatia verso di lui.60 Intorno alla stessa
età, il bambino è in grado di capire che un sentimento negativo può essere provocato tanto dal
ricordo di esperienze passate quanto dalla reazione a eventi contingenti.61
Nella prima adolescenza, fra i 12 e i 13 anni, i ragazzi diventano molto più perspicaci nelle
loro risposte emotive agli altri: sono in grado di individuare diverse gradazioni di manifestazione
emotiva, al punto da capire se e quando la reazione dell’altro può essere determinata da altri fattori,
oltre alle immediate contingenze. Per esempio, la tristezza potrebbe essere causata da una
depressione più profonda qualora apparisse troppo grave per essere legata semplicemente alle
circostanze attuali.62
Così si giunge a quel punto del percorso di maturazione della coscienza empatica in cui un
giovane adulto diventa capace di notare, emotivamente e cognitivamente, l’esistenza dell’altro nella
sua completezza e di sviluppare una reazione empatica alla totalità della sua esperienza e del suo
essere. Per esempio, si può sentire empatia per l’esistenza fortemente limitata di una persona o per
una sua grave disabilità fisica o mentale. Si può anche provare empatia per la condizione di una
persona che è inconsapevole della propria stessa sofferenza. Hoffman riferisce il racconto della
reazione empatica di un suo studente alla situazione di un bambino inconsapevole della propria
condizione:
50
La madre di mio cugino morì. Lui era troppo piccolo per capire quello che era successo e
alla notizia continuò a giocare. Mi sforzai di sorridere e di giocare con lui, ma non smettevo di
chiedermi quanto la perdita della madre lo avrebbe influenzato. Mai più dolci abbracci quando
cadeva e si sbucciava un ginocchio … Tutto quello a cui riuscivo a pensare era che la tenerezza
della madre non c’era più. Ma lui non se ne rendeva conto. Credeva che tutto andasse per il
meglio.63
Infine, la forma più matura di risposta empatica è la capacità di sentire la sofferenza di un
intero gruppo di uomini, o perfino di altre specie, come se fosse la propria.64 Spesso, questo accade
se si empatizza con una sofferenza personale, ma questa sofferenza è contemporaneamente simbolo
della condizione di un intero gruppo (per esempio, le donne stuprate, certe minoranze religiose o gli
omosessuali, tutte categorie che soffrono a causa del rifiuto da parte della cultura dominante).
L’universalizzazione dell’empatia, fino a includere gruppi di persone o categorie di esseri, tende al
concetto di coscienza universale.
Le World Values Surveys, di cui parleremo nel capitolo XI, mostrano una chiara tendenza
verso l’universalizzazione dell’empatia fra le giovani generazioni, almeno nelle nazioni più
sviluppate del mondo. Cambiamenti fondamentali nelle modalità di accudimento genitoriale e nei
comportamenti di attaccamento, il prolungamento dell’adolescenza, la maggiore esposizione alla
varietà di persone, comunità e culture, una maggiore connettività globale, una crescente
interdipendenza economica e stili di vita più cosmopoliti contribuiscono all’universalizzazione della
coscienza empatica.
51
Altruismo e interesse personale
Poco dopo la divulgazione della teoria della selezione naturale di Charles Darwin, Herbert
Spencer vi applicò il proprio orientamento politico, suggerendo che essa offrisse la prova scientìfica
che la vita è una lotta crudele, una competizione spietata in cui a dominare è l’interesse personale e
solo i migliori sopravvivono. Ma altri non ne erano così certi. Lo scienziato Pétr Alekseevic
Kropotkin affermò che in natura la sopravvivenza dipende anche dalla cooperazione e dalla
reciprocità. Il dibattito sulla natura della natura, e specialmente della natura umana, divenne
incandescente nel momento in cui Darwin pubblicò la propria teoria e scienziati, filosofi e sociologi
si divisero sulla questione, difendendo le rispettive opinioni con un livello di intensità indicativo di
quanto sia importante per la nostra specie la risposta a questa domanda. In senso esistenziale, siamo
ansiosi di sapere chi siamo e cosa ci guida. Cosa significa essere umani?
Nuovi studi sullo sviluppo del bambino, per non parlare della cospicua quantità di nuovi dati
empirici sul comportamento dei mammiferi nostri simili, ci stanno finalmente suggerendo una
possibile risposta.
Siamo, allo stesso tempo, animali cooperativi e competitivi. Ma è questa prima natura a
essere inscritta nella nostra biologia e a dettare le regole fondamentali. Siamo, in primo luogo e
soprattutto, una specie sociale. In tale contesto, a volte competiamo per far prevalere il nostro
interesse personale. Ma se questo ci porta troppo al di là dei vincoli sociali, rischiamo di subire
l’ostracismo.
I sostenitori di una visione della natura umana basata sull’interesse individuale, però,
ribattono che la propensione dell’uomo a impegnarsi in comportamenti sociali, basati sulla
reciprocità-cooperazione, è più il risultato di una negoziazione del tipo do ut des che una
manifestazione profondamente sentita di conforto e assistenza dei propri simili. Anche nel caso
dell’altruismo, estrema manifestazione di considerazione empatica degli altri, i cinici affermano che
nella decisione di sacrificarsi a vantaggio dell’altro si possono riscontrare segreti obiettivi egoistici.
Per esempio, possiamo diventare altruisti per alleviare il nostro disagio o per provare un piacere e
una gioia personali nell’aiutare l’altro, oppure perché crediamo che questo possa far aumentare il
nostro «valore» morale o elevare il nostro status nella comunità. Così, ciò che pare altruismo in
realtà maschera una sottile forma di egoismo che alimenta le nostre pulsioni libidiche e promuove i
nostri obiettivi utilitaristici.
La questione se l’altruismo sia veramente innato e privo di connotati egoistici è difficile da
risolvere. In passato ci siamo affidati a prove aneddotiche, esempi apparentemente eroici di
altruismo: gente qualunque che ha compiuto sacrifici straordinari, giungendo a dare la propria vita
per aiutare persone in stato di necessità. E certamente ognuno di noi è stato testimone di fatti del
genere. Ma come possiamo sapere se l’altruismo, nella sua forma più pura, sia la norma e non
l’eccezione?
In anni recenti, i ricercatori hanno escogitato ingegnosi studi sperimentali per verificare la
tesi dell’altruismo puro. Le loro scoperte offrono sempre nuove prove a conferma del fatto che
siamo empatici per natura e che l’altruismo è l’espressione più matura della nostra attenzione
empatica nei confronti degli altri.
Uno studio condotto da ricercatori della Yale University su bambini fra i 6 e i 10 mesi,
pubblicato sulla rivista «Nature» nel 2007, ha testato empiricamente se i bambini sapessero
distinguere fra «buoni samaritani» e persone poco gentili, e quali trovassero più attraenti. I risultati
52
sono stati inequivocabili: perfino bambini nella loro prima infanzia, prima ancora di aver sviluppato
il più rudimentale senso di sé, preferiscono gli individui che li aiutano a quelli più indifferenti.
I ricercatori hanno ideato due esperimenti. Nel primo, mostravano a bambini in tenera età un
pupazzo (un alpinista di legno con gli occhi incollati) immobile ai piedi di una montagna: i suoi
primi due tentativi di scalare la montagna fallivano; al terzo, il pupazzo veniva aiutato da un
personaggio che lo spingeva in alto, e ostacolato da un altro che lo respingeva verso il basso.65 A
questo punto, ai bambini veniva chiesto di scegliere fra la persona che aveva aiutato l’alpinista e
quella che lo aveva ostacolato. Quattordici bambini di 10 mesi, su sedici, e dodici bambini di 12
mesi, su dodici, hanno scelto la persona che aveva aiutato il pupazzo.66 Nel secondo esperimento, il
pupazzo alpinista si avvicinava alternativamente alla persona che lo aveva aiutato (il che non è
sorprendente) e a quella che lo aveva ostacolato (il che è sorprendente): i bambini di 10 mesi
osservavano con maggiore attenzione la seconda scena, «a indicare che consideravano stupefacente
che il pupazzo avvicinasse la persona che lo aveva ostacolato». Invece i bambini di 6 mesi non
mostravano di distinguere le due situazioni, a indicare che a quell’età ancora non capivano perché
l’atteggiamento del pupazzo nei confronti delle due persone dovesse essere diverso, anche se
avevano mostrato di preferire la persona che lo aveva aiutato a quella che lo aveva ostacolato. Per i
ricercatori, questo secondo esperimento potrebbe indicare che la «capacità di valutazione sociale
possa svilupparsi prima della capacità di inferire le valutazioni degli altri».67 I ricercatori sono giunti
alla conclusione che:
la capacità di valutare gli individui sulla base delle loro azioni sociali può anche essere una
delle basi per lo sviluppo del sistema cognitivo morale. In altri termini, molti aspetti di un sistema
morale compiuto sono al di fuori della portata di un bambino in età preverbale: ma la capacità di
giudicare differentemente chi esegue azioni socialmente positive e negative può formare la base
essenziale di qualsiasi sistema che alla fine includa concetti più astratti di bene e male.68
Gli studi di Yale dimostrano che i bambini di età inferiore ai 12 mesi sono in grado di
distinguere il «buon samaritano», o un comportamento gentile, da uno antisociale o sgarbato. Altri
studi recenti dimostrano che già a 18 mesi i bambini sono capaci di agire altruisticamente. Il
ricercatore Felix Warneken, del Max Planck Institute of Evolutionary Anthropology, ha pubblicato i
risultati di uno studio che ha rilevato nei bambini la comparsa di comportamenti altruistici prima del
previsto, dimostrando ancora una volta la natura biologica dell’altruismo umano.
Warneken ha eseguito una serie di compiti davanti ai bambini: impilare libri o appendere
tovaglioli a un filo con una molletta. A volte, fingeva di avere difficoltà con l’esercizio, lasciando
cadere le mollette o facendo crollare la pila dei libri: tutti e ventiquattro i bambini osservati si sono
avvicinati gattonando per aiutarlo a raccogliere i libri o le mollette, ma solo nei casi in cui le sue
espressioni facciali e i movimenti del corpo lasciavano intendere che avesse bisogno di aiuto.
Warneken ha avuto cura di non chiedere mai aiuto o di riconoscere l’aiuto ricevuto con un
ringraziamento, allo scopo di non falsare i risultati dell’esperimento, condizionando i bambini ad
aiutarlo in cambio del gesto di approvazione. Warneken sottolinea che i bambini non hanno offerto
il proprio aiuto nei casi in cui faceva cadere di proposito un libro o una molletta, ma solo nei casi in
cui aveva chiaramente bisogno di aiuto, mostrando così una forte sensibilità nei confronti della sua
situazione e la volontà di essere d’aiuto.69
I bambini hanno manifestato puro senso di altruismo: l’offerta di aiuto senza l’aspettativa di
ottenere qualcosa in cambio.
Nonostante le prove sempre più schiaccianti del fatto che l’uomo sia programmato
biologicamente per l’empatia e che frequentemente esprima il proprio atteggiamento empatico con
azioni altruiste, i negazionisti ribattono argomentando che le persone si comportano così avendo
appreso, dalle esperienze del passato e per condizionamento, che aiutando gli altri si zittisce il
proprio disagio empatico e si prova un senso di sollievo - a volte, perfino di piacere -, avendo
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mostrato di essere moralmente apprezzabili. A tale proposito, Hoffman puntualizza che solo perché
ci si sente meglio per aver aiutato una persona non è detto che questo sia l’unico possibile movente
di un atto di altruismo: potrebbe essere un inatteso «effetto collaterale», ma non il principale fattore
motivante del comportamento altruistico. Anzi, Hoffman afferma che «non vi sono prove che le
persone prestino aiuto per sentirsi bene, mentre ve ne sono del contrario».70
Le prove a cui Hoffman si riferisce sono estremamente convincenti. Nei primi anni Novanta
C. Daniel Batson condusse una serie di esperimenti che dimostrano come la risposta empatica alla
sofferenza di un altro, in forma di puro altruismo, sia la norma. In un primo gruppo di esperimenti,
Batson verificò l’ipotesi che la prima motivazione di un passante nell’aiutare una persona in
difficoltà sia alleviare il proprio disagio empatico: in altre parole, che l’aiuto offerto sia motivato
egoisticamente. Dato che il disagio empatico dell’osservatore può essere alleviato solo prestando
aiuto alla persona sofferente o fuggendo dalla scena, l’esperimento creava alternativamente le
condizioni per una fuga facile o per una fuga difficile, al fine di valutare l’ipotesi che l’altruismo
abbia, in ultima analisi, un movente egoistico. Chi manifesta scarsa empatia ha maggiori probabilità
di scegliere la via della fuga, se relativamente facile, anziché restare e offrire aiuto, alleviando così
il proprio disagio empatico; ma chi manifesta una forte empatia è probabile che rimanga e presti
aiuto anche se la fuga è relativamente facile, perché la sua motivazione primaria è il puro altruismo,
cioè l’impulso di prendersi cura dell’altro, e non quello di alleviare il proprio disagio empatico.
Alcuni partecipanti all’esperimento furono informati che, se non avessero aiutato la vittima,
sarebbero stati costretti a continuare ad assistere alla somministrazione di scariche elettriche a un
lavoratore (fuga difficile); ad altri fu detto che avrebbero potuto allontanarsi in fretta dalla scena,
senza che fossero costretti ad assistere alla somministrazione di scosse elettriche (fuga facilitata). Il
risultato fu che solo fra quei partecipanti che mostravano elevati livelli di disagio personale, ma
bassi livelli di empatia, ci fu chi scelse la via della fuga facile; invece, fra quelli che mostravano
elevati livelli di empatia nessuno scelse l’opzione della fuga facile.
Il secondo gruppo di esperimenti sottoponeva a verifica l’ipotesi che alcuni individui si
comportassero altruisticamente per paura che, se non lo avessero fatto, sarebbero stati umiliati agli
occhi degli altri e puniti con la perdita di «valore» morale nell’ambito della comunità. Per scoprire
se la decisione di un individuo di aiutare un altro dipende dal timore di ciò che i membri della
comunità potrebbero dire o pensare, Batson aggiunse un’ulteriore informazione per giustificare
l’eventuale mancato aiuto.
Ai soggetti dello studio fu riferito che altri potenziali aiutanti avevano risposto
negativamente alla richiesta di aiutare la vittima, nella convinzione che questo avrebbe offerto ai
nuovi partecipanti una giustificazione per sottrarsi a loro volta. Batson informò i partecipanti che la
vittima era una giovane donna bisognosa di aiuto. Ai soggetti ad alta e bassa empatia fu offerta
l’opportunità di donare il proprio tempo per assisterla. Il modulo scritto con il quale ci si impegnava
all’aiuto conteneva anche i dati relativi alla risposta dei precedenti partecipanti all’esperimento: in
un modulo, ai partecipanti veniva comunicato che cinque dei sette partecipanti precedenti si erano
impegnati (bassa giustificazione per il rifiuto); nell’altro, che l’avevano fatto solo due (alta
giustificazione per il rifiuto). Come ci si aspettava, i soggetti a bassa empatia avevano una maggiore
probabilità di impegnarsi ad aiutare la vittima se pensavano che la maggioranza degli altri
partecipanti avesse fatto altrettanto, e una minore probabilità se pensavano che la maggioranza si
fosse rifiutata. I soggetti ad alta empatia, invece, si impegnavano ad assistere la vittima
indipendentemente dalle decisioni dei partecipanti precedenti.71
Il terzo gruppo di esperimenti verificò l’ipotesi che il comportamento altruistico fosse
motivato dal desiderio di provare gioia empatica e che l’alleviamento della sofferenza della vittima
fosse semplicemente strumentale a quel fine auto gratificante. L’ipotesi empatia-altruismo, al
contrario, afferma che la gioia di chi aiuta è «una conseguenza, e non il fine, dell’alleviare il
disagio».72
I soggetti dell’esperimento furono informati riguardo a una persona in stato di bisogno e
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quindi posti di fronte alla scelta se ricevere ulteriori informazioni sull’evolversi della sua
condizione o essere informati riguardo a un’altra persona. Prima di fare la scelta, i partecipanti
furono informati da esperti circa le probabilità che la situazione della vittima migliorasse
sensibilmente prima dell’aggiornamento delle informazioni. Ad alcuni fu detto che la probabilità del
miglioramento era solo del 20%; ad altri del 50% e ad altri ancora dell‘80%. L’ipotesi di lavoro era
che, se il senso di empatia verso un’altra persona in condizioni disagiate è attivato dal bisogno di
provare gioia empatica, fra i soggetti ad alta empatia ci sarebbe stata una relazione lineare fra la
probabilità che la condizione della vittima migliorasse e la scelta di avere informazioni aggiornate
sul suo stato. In altre parole, pochi lo avrebbero scelto se ci fosse stata una probabilità di solo il
20% di miglioramento; un numero maggiore lo avrebbe scelto se la probabilità fosse stata del 50%;
e un numero ancora maggiore se la probabilità fosse stata dell‘80%.73
Ma se la principale preoccupazione dei soggetti fosse stato il benessere della vittima, la
scelta di avere un aggiornamento sulle sue condizioni sarebbe stata più elevata in corrispondenza di
una probabilità di miglioramento del 50%, cioè nella situazione di maggiore incertezza. In altri
termini, la relazione sarebbe stata curvilinea, non lineare: nella misura in cui i soggetti già sanno
che l’aggiornamento sulle condizioni della vittima ha il 20% (o l‘80%) di probabilità di segnalare
un miglioramento, dovrebbero avvertire una minore necessità di essere ulteriormente informati.
I risultati dell’esperimento hanno mostrato che gli individui ad alta empatia hanno
dimostrato interesse ad avere ulteriori notizie, con un picco di frequenza al 50%, cioè in
corrispondenza della diagnosi più incerta, a conferma che la loro motivazione era la preoccupazione
per la persona in stato di bisogno e non il proprio desiderio di provare gioia. Se fosse stato
altrimenti, i soggetti avrebbero mostrato un desiderio di essere aggiornati sulle condizioni della
vittima tanto minore quanto minore era la sua probabilità di miglioramento. I soggetti a bassa
empatia, al contrario, hanno mostrato una relazione lineare nelle loro risposte, esprimendo un
maggiore desiderio di avere notizie della vittima a fronte di una maggiore probabilità di
miglioramento, confermando di essere mossi più dal desiderio di provare gioia nel ricevere una
buona notizia che dall’attenzione all’evoluzione della sua difficile situazione.74
Batson qualifica la tesi empatia-altruismo osservando che se il dolore inflitto a chi aiuta
diventa troppo grande (per esempio, dovendo subire dolorose ancorché innocue scariche elettriche),
anche chi ha fatto registrare elevati livelli di empatia per la persona in stato di bisogno può decidere
di mettere la preoccupazione per la propria incolumità al primo posto.75 E questo è più che
comprensibile. Ma ci sono comunque molte occasioni in cui le persone compiono notevoli sacrifici
e giungono perfino a dare la vita per gli altri, che a volte sono dei perfetti sconosciuti. Durante il
dominio nazista, nelle nazioni occupate di tutta Europa migliaia di persone hanno nascosto o aiutato
ebrei a fuggire, nonostante le terribili conseguenze a cui sarebbero andate incontro nel caso fossero
state scoperte.
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Variazioni culturali dell’empatia
Gli studiosi dello sviluppo infantile sono diventati sempre più esperti nell’identificare gli
stadi della crescita cognitiva e della maturità empatica. Tuttavia, essi sono pronti ad avvertire che,
per quanto le modalità con cui il processo si svolge sembrino avere caratteristiche universali comuni
a tutte le culture, gli stili di attaccamento e i condizionamenti culturali di alcune società possono
determinare l’arresto del processo a uno specifico stadio, o deviarlo su un percorso alternativo. In
altre parole, essi puntualizzano che, in condizioni ottimali per un tipo di approccio post-Bowlby al
comportamento di attaccamento, ci si può aspettare che il processo di sviluppo cognitivo ed
empatico segua il percorso che abbiamo delineato.
Riconosciuto ciò, è importante notare che, sebbene in quasi tutte le nazioni del mondo
sviluppato - in Oriente come in Occidente - i genitori e le istituzioni abbiano adottato quasi
universalmente l’attaccamento post-Bowlby, ogni cultura è giunta al nuovo stile di accudimento
dell’infanzia nel quadro della propria distinta tradizione culturale, che ha lasciato la propria
impronta nel processo.
Per esempio, nella cultura americana, con la sua lunga tradizione di sacralizzazione
dell’individualismo e dell’autonomia personale, l’enfasi genitoriale si concentra particolarmente sul
rafforzamento dell’autostima del bambino, mentre nelle culture asiatiche, e soprattutto in Cina,
Corea e Giappone, dove, tradizionalmente, l’attenzione nell’accudimento dei bambini è meno
rivolta alla creazione di un individuo autonomo e più alla preparazione del giovane a diventare parte
armonica delle complesse relazioni che compongono la società nel suo insieme, nella formazione di
una sensibilità empatica matura l’enfasi viene posta più sull’autocritica che sull’autostima. In queste
culture, affermano Shinobu Kitayama e i suoi coautori in un articolo pubblicato nel «Journal of
Personality and Social Psychology», nelle quali il buddismo esalta la compassione e il
confucianesimo i doveri che derivano dal proprio ruolo, i genitori nella loro opera educativa sono
più propensi a mettere l’accento sull’adattamento piuttosto che sull’autoaffermazione.76 La
differenza di approccio culturale influenza il modo in cui i genitori e, più avanti, gli insegnanti
impegnano il bambino nell’induzione della disciplina. Per esempio, nelle scuole americane
abbondano le istruzioni per l’autostima: se il comportamento di un bambino ferisce un altro,
l’insegnante chiede al primo di riflettere su come le proprie azioni possano aver influenzato
l’autostima del secondo e su come la sua stessa autostima sarebbe stata influenzata se un altro
bambino si fosse comportato nello stesso modo con lui.
In una scuola giapponese, invece, dove l’automiglioramento è privilegiato rispetto
all’autovalorizzazione, ai bambini viene chiesto ogni giorno, alla fine delle lezioni, di riflettere hansei - su «se e come la loro prestazione individuale o di gruppo è stata al di sotto degli obiettivi
della classe».77 Kitayama e i suoi coautori sottolineano che nella cultura giapponese
«l’automiglioramento è un atto simbolico di affermazione del valore della relazione della quale si è
parte, e perciò promuove ùn senso del sé come entità pienamente interdipendente».78 Quindi, se il
comportamento di un bambino giapponese causa sofferenza a un compagno, l’insegnante chiede al
primo di riflettere su come le sue azioni abbiano causato dolore non solo all’altro, ma anche al
gruppo, e minato le relazioni armoniche all’interno della classe. Analogamente, al bambino viene
chiesto come lui stesso e il gruppo si sentirebbero se un altro studente lo trattasse nello stesso modo,
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minando le relazioni armoniche all’interno della classe. Entrambi gli approcci, probabilmente,
riescono a innescare il senso di colpa, il disagio empatico e il desiderio di fare ammenda.
Sebbene la concezione che abbiamo della natura umana e le idee sull’educazione
dell’infanzia siano cambiate drasticamente negli ultimi .anni, il nostro pensiero filosofico e politico
è stato incredibilmente lento nel seguire questa evoluzione. Viviamo ancora in base ai principi
antiquati ereditati dal Settecento illuminista. Ma il ripensamento della natura umana impone ora un
corrispondente ripensamento del significato stesso dell’umana avventura e, insieme, delle nostre
profonde convinzioni su ciò che è più importante, delle nostre aspirazioni e del modo in cui
decidiamo di vivere la nostra vita.
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