Il Calendario "Sorres"

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Il Calendario "Sorres"
Sorres, un’altra vita per le donne, di Rete delle Donne.
Il Calendario “Sorres” nasce dalla volontà della Rete delle Donne di Sassari di trovare
strumenti concreti di sensibilizzazione e di lotta per quella che sembra essere nel
mondo, in Italia e anche in Sardegna, un’emergenza sociale in ascesa: la violenza
contro le donne e il femminicidio. Le nostre donne che subiscono violenze e maltrattamenti, non senza difficoltà, si rivolgono ai pochi centri antiviolenza esistenti nel
territorio, per trovare aiuto e protezione.
Il Calendario, simbolo del tempo che scorre, per chi opera nella quotidianità, nel susseguirsi dei giorni sottolinea il diritto delle donne a vivere senza paura, a vivere con
arte, armonicamente appunto; da qui l’idea di scandire lo scorrere del tempo con
poesie e racconti a tema, immagini di donne raccontate da altre donne, con una sensibilità e solidarietà tutte femminili.
“Sorres” sorelle, diciotto artiste, dodici visive e sei scrittrici, sarde di nascita o di adozione, unite per far riflettere e stimolare soluzioni per quella che sembra essere una
nuova guerra. I proventi dell’iniziativa verranno destinati al progetto Un’altra vita per
le Donne, a sostegno delle donne che lasciano la casa protetta del Centro Antiviolenza Aurora di Sassari.
Il Calendario è quindi un piccolo dono per un grande progetto, un gesto d’amore, tangibile e significativo, della Rete delle Donne di Sassari, sorelle per sorelle.
Durante il 2014, la Rete delle Donne darà pubblicamente conto dell’esito dell’iniziativa.
Non c’è un fuori: siamo tutti dentro, di Alberto Masala.
Portare la colpa del mio genere? Non posso e non devo. Ma posso assumere personalmente la sacralità di ciascuno nel mondo. E la separatezza da chi, assegnandomi
identità, vorrebbe prestabilire il mio arbitrio: un maschile cui non appartengo. Con
questa coscienza dichiaro che è colpevole chi agisce, ma lo è ugualmente chi tace,
non guarda, sostiene, rinfocola l’ignoranza che crea il percorso della violenza. È colpevole lo sguardo sulla donna costruito dall’arroganza ipocrita della morale, quanto
la meschinità dell’esercitarlo. Mi assento da quel maschile che non ha mai conformato il mio spirito. Scelgo l’Etica che si prende cura di chi, per debolezza culturale,
isolamento, fragilità affettiva, s’incolpa della propria disgrazia come se dipendesse
da un’ancestrale incapacità di genere. E, invece di ribellarsi, si svaluta, tace, tollera,
sopporta sofferenza e depressione nella fatalistica frustrazione di un falso destino
che crede implicito del proprio essere femminile.
Eccomi ancora qui: da sempre sto con chi parla, pensa, scrive, immagina e coltiva lo
sguardo. Sto con le donne che ringrazio per aver creato questo calendario. Restiamo
testimoni per usare diversamente il simbolo della massima oppressione: il Tempo,
manovrato dai Sistemi che controllano e stabiliscono i nostri bisogni.
Rovesciamolo insieme questo Tempo, con la sua cultura di violenza e di mediocrità.
Per le donne, di Mariolina Cosseddu.
Sono scatti emozionati quelli che dodici fotografe realizzano per le donne, per tutte
le donne fragili e in balia della violenza maschile.
Un’emozione controllata dalla professionalità di chi l’obbiettivo lo usa come mezzo
privilegiato di espressione ma che, nell’irragionevolezza del tema, vede vacillare
l’oggettività della denuncia.
Prevale, di volta in volta, di immagine in immagine, lo sdegno e la rabbia, l’amarezza
e la dolorosa rivelazione, accuse che fremono e vibrano nelle intense composizioni.
Inquadrature e tagli decisi che vanno al cuore del problema e dicono sottovoce o
quasi urlando, un dolore da condividere con la coscienza di tutti, con l’urgenza di una
verità finora inascoltata.
Una questione spinosa, difficile da dire, più difficile da rappresentare. Una follia, una
vergogna contemporanea con radici antiche, che scatena una indignata risposta.
Il mezzo fotografico svela il suo potere e ci conduce laddove non vorremmo inoltrarci,
su un sentiero che vorremmo mai tracciato.
Se il linguaggio scelto dalle artiste è diretto e forte come una lacerante scoperta, il
colore e la luce ne sono i complementi necessari: anche laddove il bianco e il nero
dominano nella livida luminosità, è il colore a prevalere, ad invadere le immagini
come segno di una sottile speranza che riscatti chi è stata abusata e maltrattata, violentata e offesa.
Ogni immagine racconta una storia, con accenti realistici o attraverso liriche metafore, in ogni caso mostra una ferita da risanare, una prigione dell’anima e del corpo
da divellere, una perduta innocenza da denunciare.
Spingendo l’immagine verso una forte capacità evocativa, ineluttabilmente allusiva
di una strisciante violenza mai nascosta, le fotografe artiste non rinunciano mai all’estetica compositiva, all’impaginazione raffinata, alla suggestione lirica, estremo
omaggio ad una bellezza femminile troppe volte oltraggiata.
Claudia Baldus “Silenzio”.
Hotel. Di Lalla Careddu.
Interrompimi quando ti va
Benvenuti a dogville, la città dei cani. Qua non ci sono pompe di benzina, ma
greppie piene di storie e gioiellieri che fanno dondolare catene di oro finto.
Quando i cani la presero lei forse canticchiava Mercedes Benz, con i capelli
sporchi e le unghie ridotte a un’idea di unghie, lei ridotta a un’idea di donna. Il
sesso un ricordo e nemmeno troppo importante. Janis, lei è la mia madonna.
Infilzata di aghi e assunta all’inferno della mia memoria.
Interrompimi se ti va
Benvenuti ad aracnoville, la città dei ragni. Qua non ci sono bar, ma stanze
piene di quadri dipinti con le mani, e farmacisti che dondolano lacci emostatici
veri.
Quando i ragni lo mangiarono lui si era fatto tre maratone e due figli, una sfilza
di seghe e nessun amico. Non che i ragni si preoccupino, ma lui ci teneva. Ai
figli dico. Ma riconobbe gli occhi dei bambini nei ragni.
Interrompimi se vuoi
GENNAIO
Benvenuti a sharkville, la città degli squali. Qua non ci sono teatri, ma pesci
enormi che succhiano e non mordono, e pizzaioli che dondolano pomodori di
sangue.
Quando gli squali la succhiarono lei scriveva brutte poesie e annodava collane
inutili. Ventre piatto e sterile, madonna di nessuno, croce di qualcuno. Quando
venne risucchiata nella gola del pesce lei pensava a una poesia.
Interrompimi se puoi
Benvenuti a wormville, la città dei vermi. Qua non ci sono cinema, ma vermi
gentili con bocche di velluto, e sindaci che dondolano cappi di nylon.
Quando i vermi l’accarezzarono la ragazza era innamorata del nulla e del tutto
e cantava girando sulla griglia di gesso giù in strada. Non furono i vermi, ma
il cappio. Che sfiga
Interrompimi se sei stanco
Benvenuti a honeyville, la città di miele. Qua non ci sono market, ma martiri e
santi, e troie dal canto sublime.
Quando il miele la soffocò lei stava potando un ciliegio con mani di strega, le
labbra socchiuse, gli occhi velati di pianto. Nemmeno un martire a continuare
il lavoro.
E ora dormi se puoi
Giusy Calia “Nada te turbe”.
Prima che vengano a prenderci. Di Lalla Careddu.
La collana che ho disegnato sul tuo collo con il vetro non sanguina più, amore mio,
mia dolce Elena. Ti stendo sul mio letto, apro le finestre su questo agosto deserto
e mi stendo vicino a te. Voglio la tua gioia, prima che vengano a prenderci. Voglio
vederti fiorire su questo lenzuolo, nuda come una bambina appena nata, la mia
bimba con la collana al collo, la mia bimba adorata e zitta zitta zitta.
La prima fase è il rigor mortis: la decadenza dell’adenosintrifosfato causa l’irrigidimento di tutti i muscoli del corpo, a partire dalla mascella.
Oggi mi tieni il broncio, Elena. Capirai più avanti quale meraviglia sarà la tua vita,
replicata milioni e milioni di volte. Sfioro il tuo corpo nudo e accarezzo la collana
che ti ho disegnato, non sanguina più. Frugo a toccare le tue corde vocali, ferme. La
vita non parla, Elena amore, la vita schiocca, fruscia, sibila ma non parla. Ti restituisco la parola della vita recidendo i tuoi fili biancastri, corde di un osceno clavicembalo. Le mangerò, stasera, per tacere anch’io.
Prima che vengano a prenderci.
La seconda fase è quella dell’ autolisi ed autodigestione. L’autolisi consiste nell’autodistruzione dei tessuti del cadavere ad opera di enzimi proteolitici lisosomiali che
si liberano dopo la morte della cellula..
FEBBRAIO
Stamattina le tue labbra hanno scoperto i tuoi dentini, e mi sorridi. Finalmente tesoro mio hai capito quanto io ti amo. Siamo soli in questa estate oscena, i mostri
del piano di sopra saranno al mare ancora per molto tempo. Mostri che zampettano
per le strade che aspettano di uccidere la vita chiudendo i loro morti in casse di
metallo, consegnandoli ad una eternità sterile, con le loro pelli avvizzite e dure come
il cuoio. Inutilmente eterni.
La terza fase è lo stadio cromatico: è caratterizzato da macchie verdi che si diffondono su tutta la cute. È dovuta al combinarsi del pigmento ematico con l’idrogeno
solforato dell’intestino e produzione di solfoemoglobina.
Il tuo corpo è un prato, e il sole ti illumina caldo. Per un attimo ho avuto paura che
respirassi e ho affondato il vetro nella tua bocca per scacciarlo. Non avere paura
anima mia, non permetterò che la vita di questi poveri stronzi ti prenda, tu sei già
nella vita perfetta che io ti ho creata, nel movimento gassoso che sento sotto i polpastrelli. È arrivato il tuo menarca, lo vedo dalle macchie scure che si allargano
sotto il tuo culo, sul lenzuolo aggrinzito. Rendo grazie al tuo sangue mestruale
nuovo, lo adoro, costruisco un altare prima che vengano a prenderci.
La quarta fase è quella colliquativa: i germi anaerobi si diffondono fino alla cute; la
putrefazione, che in fase cromatica e gassosa aveva un decorso centrifugo, acquista
ora un andamento centripeto.
Sono arrivate le mosche. Un’ora fa eran solo due e una sul mio cazzo colloso. Ho
aperto un cancello nel tuo ventre, giù sino alla fica, l’ho aperto con un coltello piccolo. Sei così cedevole, amore mio, vergine santa del mio amore benedetto. Ora le
mosche sono milioni, sono un velo di tulle sulla mia sposa, sulla madre della terra.
Ti fecondano anche loro e tu le fecondi, Elena bella, Elena mia, Elena troia. Porteranno il tuo seme ovunque nel mondo, sarai giglio, pomodoro, sarai pesce e sarai
cane. Ti lasciano uova nelle narici aperte, sul platino che ha trasformato i tuoi occhi.
Prima che vengano a prenderci, Elena madonna, Elena bella, Elena amore nasceranno i tuoi figli, regina delle ali, regina delle mosche.
Prima che vengano a prenderci.
Patrizia Cau “Io merito rispetto”.
Bobboti. Di Luana Farina.
Da una radio accesa lontano arrivano le note:
“Muta senza respiro
non più pugni sul viso
urlati al posto di parole
che pur facendo male
uccidono solo il cuore…
tara tatà…tarà tatà.”
Muta senza respiro
il sangue cola dal labbro
sputa un dente spezzato
le gambe livide tremano
sotto il sesso violato…
tara tatà…tarà tatà.”
Per anni l’ho guardato con occhi ciechi; con gli occhi di chi guarda un amore malato. Malato
come i miei occhi e quando tutto succedeva, bastava coprirli con la mano sudata di paura.
E poi toglierla
E rimetterla.
E toglierla.
E rimetterla, fin quando tutto sembrava svanire come facevo da piccola quando nel buio
scorgevo Bobboti.
si spegnevano nel piscio tiepido della paura. Vicini e parenti e amici: tutti ciechi e sordi e
muti come le tre scimmiette. Nessuno mai chiese conto dei lamenti, dei lividi, degli occhiali indossati anche dopo il tramonto, o delle smorfie di dolore per un abbraccio o mettendomi a sedere.
Chissà perché ora hanno tutti tanto da dire su ciò che hanno visto o sentito. Ora che i miei
occhi sono guariti e anche le mie orecchie e la mia bocca.
Da qui sento e vedo. Tutto.
E non starò più zitta. Mai più.
Ero lì, mentre portavano via Bobboti, in tre, lui gridava ancora il suo falso amore, assieme
alla rabbia, perché andavo via “amore mio, ci vogliono dividere ma tu sei mia, solo mia…
”urlava.
Anche gli altri che finalmente sentono, vedono e parlano, di quanto eravamo felici, di come
lui fosse un bravo ragazzo, e anche io, forse un tantino triste, ma gentile e riservata, e
poi anche i giornali e la tv…roba da montarsi la testa!
Ora lo sono davvero “riservata”, in questo tunnel dove mi avete messa e da cui vi vedo
tutti, in questo buco nero dove fiori, onori e lacrime di coccodrillo mi fanno compagnia.
Da una radio accesa lontano arrivano le note:
“Muta senza respiro
non più pugni sul viso
urlati al posto di parole
che pur facendo male
uccidono solo il cuore…
tara tatà…tarà tatà.”
Il canto d’oblio copriva lo schifo, come quando da piccola ripetevo a cantilena – BLA BLA
BLA BLA – tappando le orecchie, per non sentire qualsiasi cosa mi disturbasse.
Nemmeno il mio corpo voleva più sentire i colpi che, a tradimento, arrivavano sul volto,
sulle costole, i denti piantati sulle braccia e sul seno, i calci alle gambe e alla schiena.
Nemmeno i miei vicini di casa, eppure erano le mie le orecchie “sorde d’amore”, non le
loro; loro sì, avrebbero dovuto sentire, quando in terra, nuda, raggomitolata su me stessa,
ancora non muta, guaivo per il dolore, “come una cagna ferita”, diceva Bobboti. Sghignazzava e mi lanciava fiammiferi accesi, come si fa nei combattimenti fra cani, che per fortuna
Muta senza respiro
il sangue cola dal labbro
sputa un dente spezzato
le gambe livide tremano
sotto il sesso violato…
tara tatà…tarà tatà.”
MARZO
Il mio Bobboti di donna, comunque, restava lì; i miei occhi si rifiutavano di vederlo e le
mie orecchie di sentirlo, quando, senza motivo, mi usava come tirassegno per i suoi insulti.
Dal mare del dolore facevo emergere voci di sirene che cantavano le rare parole che lui,
il Bobboti, mi aveva spacciato per amore.
Giulia Mameli “Inizio della fine - presa di coscienza”.
Tu mi volevi quercia salda a terra. Di Roberta Tomaselli.
APRILE
tu mi volevi quercia salda a terra
a sorreggere la tua debolezza
e mi volevi fiore a darti profumo
gentilezza amore
come un fiore appassito poi
mi butti via.
Così non so più ciò che sono
sono una cosa smarrita
calpestata dal tuo orgoglio
di maschio prepotente.
Paola Rizzu “Cosificazione _ senza scadenza”.
Stanotte tra stelle fuggenti. Di Savina Dolores Massa.
Fu viola come il fiore del pensiero
con polvere di nocche sulle palpebre,
la mandibola spezzata da parole
parole!
parole d’elemosina prima
poi rancore. I capelli di una donna
sono lunghi per nascondere
il dolore e la vergogna
MAGGIO
La chiamava Amore ai primi tempi – sia chiaro.
Le baciava possesso sul collo
le mordeva le perle regalo di, Buon compleanno mio amore.
Mio amore!
Cadde uno specchio perché nessuno si guardasse.
Lei sui frammenti strisciò i polsi, e i bracciali,
e ogni costruzione di giorni,
e nessun pianto
Mio amore, rise la lama ferendo una veste con rose piccine
una specie di seta. Dal baco fiorisce la farfalla, si narra.
Nessun volo stanotte tra stelle fuggenti
Lei, penetrata dal fallo della morte,
[ebbe cura di tagliarsi i capelli sul tanfo
di una porta che va via
Paola Fiori “La fine del gioco”.
Il tuo gioco bastardo. Di Roberta Tomaselli
GIUGNO
Di nascosto son passata sotto casa, nulla è cambiato: il giardino la siepe che ci vide felici. Rimpianto? Non so.
So soltanto che la mia vita era avvelenata da speranze non vissute. Fino all’ultimo ho sopportato il tuo crudele essere uomo,
le tue ingiuste obiezioni, i sospetti le crudeltà gli schiaffi e tutti quei progetti accarezzati ma mai realizzati. Sei stato uno
schiavista con la pretesa che fossi pronta alle tue pretese quando tu eri pronto a possedermi come una cosa urlando le tue
gelosie e le tue voglie. Mi trascinavi a terra per i capelli e mi tiravi calci ovunque senza notare dove scagliavi il piede calzato
da scarpone e gli schiaffi. I bambini, sentendoti urlare andarono dai carabinieri. Ecco, allora compresi che non mi meritavi;
si risvegliò il mio orgoglio di donna e di madre e ti lasciai, con due valigie, i bimbi per mano, andai da mia madre. Tu continui
il tuo gioco bastardo, con qualcun’altra, ma io ed i bambini viviamo meglio.
Rosathea Cossu “La madre dell’uccisa”.
S’affumentu. Di Rita Bonomo. (Estratto da dìri dìri
dànna, 2006, edito da liberodiscrivere editore.)
LUGLIO
Ho spiato una notte che ritorna dalla finestra di
fronte, stanotte. Ne ho sentito i passi addosso che
ritornano –come quella notte- e con essi le maglie
dello scacco che, insieme ad una madre, m’ha fatto
ostaggio di una notte che non ho chiamato. Ho sentito una notte entrare nella mia stanza –senza permesso-. Arrivava dalla casa di fronte. Ho sentito i
suoi passi camminarmi addosso, senza permesso,
e con essi le maglie impossibili di una notte sotto
uno scacco impossibile. Ho ascoltato rumori dissacranti la notte, quella notte, li ho sentiti anche
stanotte. Ho sentito l’imponenza del loro suono addosso e con essa le maglie dello scacco di una
madre e dei suoi figli i cui singhiozzi inascoltati, mischiati a quella notte di stridore, non potrò mai più
dimenticare. Ho fatto i conti con quella notte, tante
di quelle notti, che la notte è ormai scacco perpetrato dal suono di una notte che urla tutto il suo dolore. E si erige, la notte. Urla la notte. Urla con bocca
di madre tutti i singhiozzi inascoltati. Urla la notte.
Urla una bocca di madre che piange con la voce
bianca dei propri figli sotto scacco. Urla una voce
bianca a tre gole, imprigionata per sempre nella
notte. Urla la madre, urla tutto il rimorso che sanno
fare le mie notti. Urla, per tutte le madri, quella richiesta di soccorso che, tra i suoni mischiati di
quella notte, non ho saputo ascoltare. E ho una
notte ammalata nelle orecchie, ho le orecchie ammalate di quella notte che si perpetra, tutte le notti,
per ammalarmi di rimorso.
E fare i conti con ognuno di loro
-gestirli - hai detto.
Ho scoperchiato le notti, una dopo l’altra,
guardandoci dentro simultaneamente.
Il fondo è lo stridere di un urlo malcontenuto
dalla giugulare di un maiale castrato a fil di ferro
che non può figliare amore
Gli hanno ammazzato anche l’ultimo figlio
-così hanno dettoEndofasia
mal d’orecchi
e rimedi popolari
che sanno di caffè e fruscii
Voglio una majalza
che metta in fila gli anarchici neuroni
e li scopi per me , spegnendo luci e rumori
Credo avrebbe i vostri occhi stupiti
che piangono di commozione
-Nessun bau bau in camice bianco
può frugarci dentro
ritrovando poi il posto di ognunohai detto
-Gestisci- hai detto
Ma è l’idea del cruento
ad avere segni viola sul collo
-lì, appena vicino l’orecchioe ovatta a lenire il rumore sordo
d’una minaccia sospesa a mezz’aria
tra il rumore d’una porta e il soffitto
che viene giù a togliere l’aria
-Gestisci-hai detto
Sangue su vetri e piante scalze
che più non dolgono -vuoi ancora sentire?Chi si alzerà per primo
avrà il pigiamino macchiato di rosso
e piante ignifughe a vita
l’altro terrà il conto del tempo che passa
e dei vari espedienti per far cessare
il latrare dei cani
-senza trovarne unoe custodirà le urla appese ad un gancio
in mezzo alla stanza
-Gestisci-hai detto
Sai, il candore delle perle
si tutela solo a contatto con la pelle
Io, ho preso un ago e del ghiaccio
e anestetizzati con cura i lobi
li ho forati -i lobi- con le mie stesse mani:
tre volte il destro, quattro il sinistro
per filtrare l’ udito, disperdendolo tra i fori
abituandomi al dolore delle orecchie
ma ancora non so occuparmi di quel candore
Non conosco le preghiere
ma ho riempito una tegola
di foglie d’ulivo e grano
li passo sopra,attorno e sotto i piedi
in attesa che una madre le reciti per me.
Francesca Randi “Nessuno ti sentirà”.
L’infelicità di Sylvia Plath. Di Luana Farina.
Dentro la testa della poetessa esausta
per fare di un grande amore una grande poesia
c’è il nulla vitale senza immagini
che non si scioglierà mai
invisibili agli occhi di chi la guarda.
nemmeno fosse neve al sole
Ingoia lacrime come veleno seduta sul divano
pensava…
piedi nudi affondati nella moquette
nemmeno quando lei poetessa del dolore
grigia come l’esistenza senza amore
uccisa prima da lui
mentre affoga il suo dolore inventato
che tornava dalla pregna amante
ché teme l’altra glielo porti via
baciati i bambini e imburrate due fette di pane
generato dalla sua stessa mente
entrò con la testa dentro il forno
posseduta dal verme della gelosia.
per respirare silente gas liberatorio .
Lui andò via e poi un giorno tornò
Uscì così dalla propria vita come da quella casa
lui bussò e lei aprì la porta dicendo
avvolta in una bara rossa dopo l’ultimo bacio
-forza entra!prendi qualcosa da bere?-
che lui miserabile poeta le mandò
Lo baciò e tutti i miserabili fantasmi sparirono
un freddo giorno d’inverno
dentro bocche incollate
al sicuro da dietro la finestra della casa
sessi che si mancavano
che li conobbe amanti e poeti
AGOSTO
nati come due metà distinte che si uniscono
mai felici.
Veronica Muntoni “Nulla va nascosto”.
S’ultima angaria. Di Tetta Becciu.
Sola,
frundida in su cuzolu
‘e unu terighinu murinu,
s’ojada a car’a chelu
jamat sos isteddos…
a illebiare s’anima sua
ferida.
Falat,
sulena
s’ultima lagrima ‘e prata
in su chizu ‘e rosa…
In sa notte
ch’istremutit sa luna…
unu coro ‘e astrau,
appoderiu*
appeutat*
sas fruas de unu lizu …*
e fischinidas de bisos *
de una femina…
in fiore ‘e vida.
Attesu…
unu cane
apeddat
a sa luna mori-mori…
nuschende
s’attuffu ‘e sa morte.
SETTEMBRE
L’ultima violenza. (traduzione). Sola,/in un angolo/di una strada buia, /abbandonata/come un cencio/da buttar via…/lo sguardo rivolto/al cielo/chiama con flebile voce/le stelle…/
a lenire/la sua anima /ferita./Lenta,/l’ultima lacrima solca/il suo viso di rosa…/Lontano…/un cane/abbaia alla luna…/fiutando/l’odore acre della morte./Nella notte/dell’ultima violenza,/
anche i sassi han tremato…/un cuore di ghiaccio/ha calpestato/i germogli di un giglio.../e briciole di sogni/di una donna…/che apriva il varco/ai primi sentimenti… e promesse/d’amore!
Rita Chessa “Natura morente”.
Quando non si poteva contare fino a cento novanta quattro. Di Savina Dolores Massa.
La casa clandestina era in palazzo
salimmo scale, obbligate a non leggere
cognomi veri ai campanelli
a non vedere
fiocchi rosa o azzurri sulle porte
a non sentire alcun suono
di parole verseggiate per insulto
Ognuna, dei mobili in salotto, e delle altre
non ne notò la forma, ma intatto
resterà a vita quel ricordo, di come
si cercassero tra loro
le punte
irrigidite di ogni scarpa
Ognuna, entrò sola nella cucina
il tavolo puzzava di cipolle
triturate per un sugo, raffinate
con la carne e le sue spezie
il giorno prima
OTTOBRE
Ognuna, su quel tavolo
si spogliò solo le gambe
Il lutto era rosso nella vasca
embrioni da lavare a candeggina
o polvere abrasiva
acqua calda per un prossimo turno
atteso a testa bassa
taciturno
Scendemmo scale
obbligandoci a non leggere
cognomi veri ai campanelli
a non rubare
fiocchi rosa o azzurri dalle porte
a non sentire alcun suono
di parole verseggiate per insulto
Fabiola Ledda “Sposa con rami”.
Mascherata- Cherchez la femme. Di Rita Bonomo. (Estratto da dìri dìri dànna, edito da liberodiscrivere 2006).
Incolume? Avete detto incolume?
Pura strategia non deturpare i vostri annosi, affabili alfabeti
(ipocriti, ho detto!)
mia sufficienza guardare oltre ogni vostro annoso, affabile labiale.
Ecco, sono l’ospite sbranata dal vostro credo indotto,
siedo –per sconsiderata circostanza- alla destra del padre
onorandolo, con devozione.
Per due moine ci faccio all’amore –esorcizzando quell’imponenza che duoleUna leggerezza imperdonabile (lo so) guardare oltre ogni vostra annosa convenzione
Eppure
Credo in Dio Santo Onnipotente
Creatore del cielo della terra
Sono come mi volete, come m’ avete allevata, sono ossequiosamente morigerata!
Quale straordinario raggiro, ora, questo incollarsi i vostri abbracci pietosi addosso?
Sono la grande accerchiata cieca, mi dissepellisco –spuria marionettami contemplo nella cerchia e con benedetta boria mi distinguo
-eccello per aborigeno ingegno!-
NOVEMBRE
Ecco un braccio, ci sono, rispondo all’appello
Una mano. Oh, le mie unghie rosicchiate hanno smesso di graffiare
Ecco le dita e uno spudorato anello –ancora- sull’anulare destro
(un ostensorio d’indugi –ora- questo lauto perdono)
Ecco il mio bacino rovesciato, sculettare adagio in accorta posa
Una gamba infetta –è stata una zecca femmina che femmina m’ha infettataEcco la testa – orgoglio di padre perché parte buona di spermaEcco una grande bocca spalancata al ratto d’un prepuzio santo
-Ah, quale consolatorio oblio la divorazione!-Perversa!- avete detto
-Una ubbidita divinazione!- Ho risposto
Questo l’altare dei miei natali onorato con riguardo
un feticcio, un souvenir anch’esso, da riporre vicino alla catenina battesimale
e ad un Cristo appeso alla sua croce, cui –affidata- lesinare una qualche benedizione
-Raccapriccio!- avete detto
-Un capriccio di esclusività, per la di me fautrice di me stessa, mia unica religione- ho risposto
da portare in dote al mio promesso sposo insieme ai candidi e lindi lini di corredo
che si convengono alla femmina bianca ch’avete allevato bianca femmina da affidare ad un uomo.
Ed ecco il dorso e le tette, damigelle incaponite le areole
e il bianco cosmo che verrà, con il suo latte, per un culetto rosso maschio da sculacciare
in cambio d’un vagito pronunciante il mio nome
Intento vano quell’inclinazione a spogliarsi d’un antico e vetusto ruolo
Le femmine di casa acclamavano la femmina da consegnare
e prima di rivestirsi di quella bonaria e presunta benevolenza
dalla platea urlavano: - all’adempienza, all’adempienza!Riponetemi nel mio cul de sac –se credeteLì –tra i rondò del silenzio e i portaritratti vuoti delle vostre vuote faccefarò certo meno rumore
Ed è strano non fosse carnevale ma faceva freddo da rivestirsi
E piano piano andarono via, tutte, sfilando.
-Ma che bella infornata!-
Chiara Cossu “Yesterday”.
Anima ‘e umbra. Di Tetta Becciu.
In s’aidu ‘e sa notte
dae sempre
isetto
unu carignu ‘e lughe.
in s’anima mia
de umbra
….imbalzamada…
Chirco ‘olos de paghe…
in trainos de mudesa
e
libertade,
in alenos pasidos
de ‘entu.
E bizo,
in coa ‘e sa notte
furende cun ojos de ispera
speranza
dae sa tramas-presone
de su “burqa”,
farfaruzas de lughe
a sos isteddos
chi vagabundos
fuen…
dae sas manos
de sa vida mia
de femina (?)
afghana…
A lugore ‘e ammentos
carigno peraulas
chi ricaman avreschidas
in coro.
Trimizones de bisos
atzenden
relicchias de vida
DICEMBRE
Anima d’ombra (traduzione) Nel varco della notte/aspetto/ancora/una carezza di luce./Bramo voli di pace…/in rivoli di silenzio/e/libertà,/in pacati respiri/di vento./Abbracciata ai ricordi/
accarezzo parole/che ricamano albe/nel cuore./Rosari di sogni/accendono/reliquie di vita/nella mia anima/d’ombra/…imbalsamata…/E veglio,/in grembo alla notte/
rubando con occhi di speranza/dalle trame-prigione/del “burqa”,/briciole di luce/alle stelle/che vagabonde/fuggono…/dalle mani/della mia vita/di donna (?)/afghana…
Le artiste e le scrittrici hanno collaborato a titolo gratuito alla realizzazione di questo calendario. Progetto grafico e impaginazione a titolo gratuito di Salvatore Palita -www.studiosegno.info.