Il Calendario "Sorres"
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Il Calendario "Sorres"
Sorres, un’altra vita per le donne, di Rete delle Donne. Il Calendario “Sorres” nasce dalla volontà della Rete delle Donne di Sassari di trovare strumenti concreti di sensibilizzazione e di lotta per quella che sembra essere nel mondo, in Italia e anche in Sardegna, un’emergenza sociale in ascesa: la violenza contro le donne e il femminicidio. Le nostre donne che subiscono violenze e maltrattamenti, non senza difficoltà, si rivolgono ai pochi centri antiviolenza esistenti nel territorio, per trovare aiuto e protezione. Il Calendario, simbolo del tempo che scorre, per chi opera nella quotidianità, nel susseguirsi dei giorni sottolinea il diritto delle donne a vivere senza paura, a vivere con arte, armonicamente appunto; da qui l’idea di scandire lo scorrere del tempo con poesie e racconti a tema, immagini di donne raccontate da altre donne, con una sensibilità e solidarietà tutte femminili. “Sorres” sorelle, diciotto artiste, dodici visive e sei scrittrici, sarde di nascita o di adozione, unite per far riflettere e stimolare soluzioni per quella che sembra essere una nuova guerra. I proventi dell’iniziativa verranno destinati al progetto Un’altra vita per le Donne, a sostegno delle donne che lasciano la casa protetta del Centro Antiviolenza Aurora di Sassari. Il Calendario è quindi un piccolo dono per un grande progetto, un gesto d’amore, tangibile e significativo, della Rete delle Donne di Sassari, sorelle per sorelle. Durante il 2014, la Rete delle Donne darà pubblicamente conto dell’esito dell’iniziativa. Non c’è un fuori: siamo tutti dentro, di Alberto Masala. Portare la colpa del mio genere? Non posso e non devo. Ma posso assumere personalmente la sacralità di ciascuno nel mondo. E la separatezza da chi, assegnandomi identità, vorrebbe prestabilire il mio arbitrio: un maschile cui non appartengo. Con questa coscienza dichiaro che è colpevole chi agisce, ma lo è ugualmente chi tace, non guarda, sostiene, rinfocola l’ignoranza che crea il percorso della violenza. È colpevole lo sguardo sulla donna costruito dall’arroganza ipocrita della morale, quanto la meschinità dell’esercitarlo. Mi assento da quel maschile che non ha mai conformato il mio spirito. Scelgo l’Etica che si prende cura di chi, per debolezza culturale, isolamento, fragilità affettiva, s’incolpa della propria disgrazia come se dipendesse da un’ancestrale incapacità di genere. E, invece di ribellarsi, si svaluta, tace, tollera, sopporta sofferenza e depressione nella fatalistica frustrazione di un falso destino che crede implicito del proprio essere femminile. Eccomi ancora qui: da sempre sto con chi parla, pensa, scrive, immagina e coltiva lo sguardo. Sto con le donne che ringrazio per aver creato questo calendario. Restiamo testimoni per usare diversamente il simbolo della massima oppressione: il Tempo, manovrato dai Sistemi che controllano e stabiliscono i nostri bisogni. Rovesciamolo insieme questo Tempo, con la sua cultura di violenza e di mediocrità. Per le donne, di Mariolina Cosseddu. Sono scatti emozionati quelli che dodici fotografe realizzano per le donne, per tutte le donne fragili e in balia della violenza maschile. Un’emozione controllata dalla professionalità di chi l’obbiettivo lo usa come mezzo privilegiato di espressione ma che, nell’irragionevolezza del tema, vede vacillare l’oggettività della denuncia. Prevale, di volta in volta, di immagine in immagine, lo sdegno e la rabbia, l’amarezza e la dolorosa rivelazione, accuse che fremono e vibrano nelle intense composizioni. Inquadrature e tagli decisi che vanno al cuore del problema e dicono sottovoce o quasi urlando, un dolore da condividere con la coscienza di tutti, con l’urgenza di una verità finora inascoltata. Una questione spinosa, difficile da dire, più difficile da rappresentare. Una follia, una vergogna contemporanea con radici antiche, che scatena una indignata risposta. Il mezzo fotografico svela il suo potere e ci conduce laddove non vorremmo inoltrarci, su un sentiero che vorremmo mai tracciato. Se il linguaggio scelto dalle artiste è diretto e forte come una lacerante scoperta, il colore e la luce ne sono i complementi necessari: anche laddove il bianco e il nero dominano nella livida luminosità, è il colore a prevalere, ad invadere le immagini come segno di una sottile speranza che riscatti chi è stata abusata e maltrattata, violentata e offesa. Ogni immagine racconta una storia, con accenti realistici o attraverso liriche metafore, in ogni caso mostra una ferita da risanare, una prigione dell’anima e del corpo da divellere, una perduta innocenza da denunciare. Spingendo l’immagine verso una forte capacità evocativa, ineluttabilmente allusiva di una strisciante violenza mai nascosta, le fotografe artiste non rinunciano mai all’estetica compositiva, all’impaginazione raffinata, alla suggestione lirica, estremo omaggio ad una bellezza femminile troppe volte oltraggiata. Claudia Baldus “Silenzio”. Hotel. Di Lalla Careddu. Interrompimi quando ti va Benvenuti a dogville, la città dei cani. Qua non ci sono pompe di benzina, ma greppie piene di storie e gioiellieri che fanno dondolare catene di oro finto. Quando i cani la presero lei forse canticchiava Mercedes Benz, con i capelli sporchi e le unghie ridotte a un’idea di unghie, lei ridotta a un’idea di donna. Il sesso un ricordo e nemmeno troppo importante. Janis, lei è la mia madonna. Infilzata di aghi e assunta all’inferno della mia memoria. Interrompimi se ti va Benvenuti ad aracnoville, la città dei ragni. Qua non ci sono bar, ma stanze piene di quadri dipinti con le mani, e farmacisti che dondolano lacci emostatici veri. Quando i ragni lo mangiarono lui si era fatto tre maratone e due figli, una sfilza di seghe e nessun amico. Non che i ragni si preoccupino, ma lui ci teneva. Ai figli dico. Ma riconobbe gli occhi dei bambini nei ragni. Interrompimi se vuoi GENNAIO Benvenuti a sharkville, la città degli squali. Qua non ci sono teatri, ma pesci enormi che succhiano e non mordono, e pizzaioli che dondolano pomodori di sangue. Quando gli squali la succhiarono lei scriveva brutte poesie e annodava collane inutili. Ventre piatto e sterile, madonna di nessuno, croce di qualcuno. Quando venne risucchiata nella gola del pesce lei pensava a una poesia. Interrompimi se puoi Benvenuti a wormville, la città dei vermi. Qua non ci sono cinema, ma vermi gentili con bocche di velluto, e sindaci che dondolano cappi di nylon. Quando i vermi l’accarezzarono la ragazza era innamorata del nulla e del tutto e cantava girando sulla griglia di gesso giù in strada. Non furono i vermi, ma il cappio. Che sfiga Interrompimi se sei stanco Benvenuti a honeyville, la città di miele. Qua non ci sono market, ma martiri e santi, e troie dal canto sublime. Quando il miele la soffocò lei stava potando un ciliegio con mani di strega, le labbra socchiuse, gli occhi velati di pianto. Nemmeno un martire a continuare il lavoro. E ora dormi se puoi Giusy Calia “Nada te turbe”. Prima che vengano a prenderci. Di Lalla Careddu. La collana che ho disegnato sul tuo collo con il vetro non sanguina più, amore mio, mia dolce Elena. Ti stendo sul mio letto, apro le finestre su questo agosto deserto e mi stendo vicino a te. Voglio la tua gioia, prima che vengano a prenderci. Voglio vederti fiorire su questo lenzuolo, nuda come una bambina appena nata, la mia bimba con la collana al collo, la mia bimba adorata e zitta zitta zitta. La prima fase è il rigor mortis: la decadenza dell’adenosintrifosfato causa l’irrigidimento di tutti i muscoli del corpo, a partire dalla mascella. Oggi mi tieni il broncio, Elena. Capirai più avanti quale meraviglia sarà la tua vita, replicata milioni e milioni di volte. Sfioro il tuo corpo nudo e accarezzo la collana che ti ho disegnato, non sanguina più. Frugo a toccare le tue corde vocali, ferme. La vita non parla, Elena amore, la vita schiocca, fruscia, sibila ma non parla. Ti restituisco la parola della vita recidendo i tuoi fili biancastri, corde di un osceno clavicembalo. Le mangerò, stasera, per tacere anch’io. Prima che vengano a prenderci. La seconda fase è quella dell’ autolisi ed autodigestione. L’autolisi consiste nell’autodistruzione dei tessuti del cadavere ad opera di enzimi proteolitici lisosomiali che si liberano dopo la morte della cellula.. FEBBRAIO Stamattina le tue labbra hanno scoperto i tuoi dentini, e mi sorridi. Finalmente tesoro mio hai capito quanto io ti amo. Siamo soli in questa estate oscena, i mostri del piano di sopra saranno al mare ancora per molto tempo. Mostri che zampettano per le strade che aspettano di uccidere la vita chiudendo i loro morti in casse di metallo, consegnandoli ad una eternità sterile, con le loro pelli avvizzite e dure come il cuoio. Inutilmente eterni. La terza fase è lo stadio cromatico: è caratterizzato da macchie verdi che si diffondono su tutta la cute. È dovuta al combinarsi del pigmento ematico con l’idrogeno solforato dell’intestino e produzione di solfoemoglobina. Il tuo corpo è un prato, e il sole ti illumina caldo. Per un attimo ho avuto paura che respirassi e ho affondato il vetro nella tua bocca per scacciarlo. Non avere paura anima mia, non permetterò che la vita di questi poveri stronzi ti prenda, tu sei già nella vita perfetta che io ti ho creata, nel movimento gassoso che sento sotto i polpastrelli. È arrivato il tuo menarca, lo vedo dalle macchie scure che si allargano sotto il tuo culo, sul lenzuolo aggrinzito. Rendo grazie al tuo sangue mestruale nuovo, lo adoro, costruisco un altare prima che vengano a prenderci. La quarta fase è quella colliquativa: i germi anaerobi si diffondono fino alla cute; la putrefazione, che in fase cromatica e gassosa aveva un decorso centrifugo, acquista ora un andamento centripeto. Sono arrivate le mosche. Un’ora fa eran solo due e una sul mio cazzo colloso. Ho aperto un cancello nel tuo ventre, giù sino alla fica, l’ho aperto con un coltello piccolo. Sei così cedevole, amore mio, vergine santa del mio amore benedetto. Ora le mosche sono milioni, sono un velo di tulle sulla mia sposa, sulla madre della terra. Ti fecondano anche loro e tu le fecondi, Elena bella, Elena mia, Elena troia. Porteranno il tuo seme ovunque nel mondo, sarai giglio, pomodoro, sarai pesce e sarai cane. Ti lasciano uova nelle narici aperte, sul platino che ha trasformato i tuoi occhi. Prima che vengano a prenderci, Elena madonna, Elena bella, Elena amore nasceranno i tuoi figli, regina delle ali, regina delle mosche. Prima che vengano a prenderci. Patrizia Cau “Io merito rispetto”. Bobboti. Di Luana Farina. Da una radio accesa lontano arrivano le note: “Muta senza respiro non più pugni sul viso urlati al posto di parole che pur facendo male uccidono solo il cuore… tara tatà…tarà tatà.” Muta senza respiro il sangue cola dal labbro sputa un dente spezzato le gambe livide tremano sotto il sesso violato… tara tatà…tarà tatà.” Per anni l’ho guardato con occhi ciechi; con gli occhi di chi guarda un amore malato. Malato come i miei occhi e quando tutto succedeva, bastava coprirli con la mano sudata di paura. E poi toglierla E rimetterla. E toglierla. E rimetterla, fin quando tutto sembrava svanire come facevo da piccola quando nel buio scorgevo Bobboti. si spegnevano nel piscio tiepido della paura. Vicini e parenti e amici: tutti ciechi e sordi e muti come le tre scimmiette. Nessuno mai chiese conto dei lamenti, dei lividi, degli occhiali indossati anche dopo il tramonto, o delle smorfie di dolore per un abbraccio o mettendomi a sedere. Chissà perché ora hanno tutti tanto da dire su ciò che hanno visto o sentito. Ora che i miei occhi sono guariti e anche le mie orecchie e la mia bocca. Da qui sento e vedo. Tutto. E non starò più zitta. Mai più. Ero lì, mentre portavano via Bobboti, in tre, lui gridava ancora il suo falso amore, assieme alla rabbia, perché andavo via “amore mio, ci vogliono dividere ma tu sei mia, solo mia… ”urlava. Anche gli altri che finalmente sentono, vedono e parlano, di quanto eravamo felici, di come lui fosse un bravo ragazzo, e anche io, forse un tantino triste, ma gentile e riservata, e poi anche i giornali e la tv…roba da montarsi la testa! Ora lo sono davvero “riservata”, in questo tunnel dove mi avete messa e da cui vi vedo tutti, in questo buco nero dove fiori, onori e lacrime di coccodrillo mi fanno compagnia. Da una radio accesa lontano arrivano le note: “Muta senza respiro non più pugni sul viso urlati al posto di parole che pur facendo male uccidono solo il cuore… tara tatà…tarà tatà.” Il canto d’oblio copriva lo schifo, come quando da piccola ripetevo a cantilena – BLA BLA BLA BLA – tappando le orecchie, per non sentire qualsiasi cosa mi disturbasse. Nemmeno il mio corpo voleva più sentire i colpi che, a tradimento, arrivavano sul volto, sulle costole, i denti piantati sulle braccia e sul seno, i calci alle gambe e alla schiena. Nemmeno i miei vicini di casa, eppure erano le mie le orecchie “sorde d’amore”, non le loro; loro sì, avrebbero dovuto sentire, quando in terra, nuda, raggomitolata su me stessa, ancora non muta, guaivo per il dolore, “come una cagna ferita”, diceva Bobboti. Sghignazzava e mi lanciava fiammiferi accesi, come si fa nei combattimenti fra cani, che per fortuna Muta senza respiro il sangue cola dal labbro sputa un dente spezzato le gambe livide tremano sotto il sesso violato… tara tatà…tarà tatà.” MARZO Il mio Bobboti di donna, comunque, restava lì; i miei occhi si rifiutavano di vederlo e le mie orecchie di sentirlo, quando, senza motivo, mi usava come tirassegno per i suoi insulti. Dal mare del dolore facevo emergere voci di sirene che cantavano le rare parole che lui, il Bobboti, mi aveva spacciato per amore. Giulia Mameli “Inizio della fine - presa di coscienza”. Tu mi volevi quercia salda a terra. Di Roberta Tomaselli. APRILE tu mi volevi quercia salda a terra a sorreggere la tua debolezza e mi volevi fiore a darti profumo gentilezza amore come un fiore appassito poi mi butti via. Così non so più ciò che sono sono una cosa smarrita calpestata dal tuo orgoglio di maschio prepotente. Paola Rizzu “Cosificazione _ senza scadenza”. Stanotte tra stelle fuggenti. Di Savina Dolores Massa. Fu viola come il fiore del pensiero con polvere di nocche sulle palpebre, la mandibola spezzata da parole parole! parole d’elemosina prima poi rancore. I capelli di una donna sono lunghi per nascondere il dolore e la vergogna MAGGIO La chiamava Amore ai primi tempi – sia chiaro. Le baciava possesso sul collo le mordeva le perle regalo di, Buon compleanno mio amore. Mio amore! Cadde uno specchio perché nessuno si guardasse. Lei sui frammenti strisciò i polsi, e i bracciali, e ogni costruzione di giorni, e nessun pianto Mio amore, rise la lama ferendo una veste con rose piccine una specie di seta. Dal baco fiorisce la farfalla, si narra. Nessun volo stanotte tra stelle fuggenti Lei, penetrata dal fallo della morte, [ebbe cura di tagliarsi i capelli sul tanfo di una porta che va via Paola Fiori “La fine del gioco”. Il tuo gioco bastardo. Di Roberta Tomaselli GIUGNO Di nascosto son passata sotto casa, nulla è cambiato: il giardino la siepe che ci vide felici. Rimpianto? Non so. So soltanto che la mia vita era avvelenata da speranze non vissute. Fino all’ultimo ho sopportato il tuo crudele essere uomo, le tue ingiuste obiezioni, i sospetti le crudeltà gli schiaffi e tutti quei progetti accarezzati ma mai realizzati. Sei stato uno schiavista con la pretesa che fossi pronta alle tue pretese quando tu eri pronto a possedermi come una cosa urlando le tue gelosie e le tue voglie. Mi trascinavi a terra per i capelli e mi tiravi calci ovunque senza notare dove scagliavi il piede calzato da scarpone e gli schiaffi. I bambini, sentendoti urlare andarono dai carabinieri. Ecco, allora compresi che non mi meritavi; si risvegliò il mio orgoglio di donna e di madre e ti lasciai, con due valigie, i bimbi per mano, andai da mia madre. Tu continui il tuo gioco bastardo, con qualcun’altra, ma io ed i bambini viviamo meglio. Rosathea Cossu “La madre dell’uccisa”. S’affumentu. Di Rita Bonomo. (Estratto da dìri dìri dànna, 2006, edito da liberodiscrivere editore.) LUGLIO Ho spiato una notte che ritorna dalla finestra di fronte, stanotte. Ne ho sentito i passi addosso che ritornano –come quella notte- e con essi le maglie dello scacco che, insieme ad una madre, m’ha fatto ostaggio di una notte che non ho chiamato. Ho sentito una notte entrare nella mia stanza –senza permesso-. Arrivava dalla casa di fronte. Ho sentito i suoi passi camminarmi addosso, senza permesso, e con essi le maglie impossibili di una notte sotto uno scacco impossibile. Ho ascoltato rumori dissacranti la notte, quella notte, li ho sentiti anche stanotte. Ho sentito l’imponenza del loro suono addosso e con essa le maglie dello scacco di una madre e dei suoi figli i cui singhiozzi inascoltati, mischiati a quella notte di stridore, non potrò mai più dimenticare. Ho fatto i conti con quella notte, tante di quelle notti, che la notte è ormai scacco perpetrato dal suono di una notte che urla tutto il suo dolore. E si erige, la notte. Urla la notte. Urla con bocca di madre tutti i singhiozzi inascoltati. Urla la notte. Urla una bocca di madre che piange con la voce bianca dei propri figli sotto scacco. Urla una voce bianca a tre gole, imprigionata per sempre nella notte. Urla la madre, urla tutto il rimorso che sanno fare le mie notti. Urla, per tutte le madri, quella richiesta di soccorso che, tra i suoni mischiati di quella notte, non ho saputo ascoltare. E ho una notte ammalata nelle orecchie, ho le orecchie ammalate di quella notte che si perpetra, tutte le notti, per ammalarmi di rimorso. E fare i conti con ognuno di loro -gestirli - hai detto. Ho scoperchiato le notti, una dopo l’altra, guardandoci dentro simultaneamente. Il fondo è lo stridere di un urlo malcontenuto dalla giugulare di un maiale castrato a fil di ferro che non può figliare amore Gli hanno ammazzato anche l’ultimo figlio -così hanno dettoEndofasia mal d’orecchi e rimedi popolari che sanno di caffè e fruscii Voglio una majalza che metta in fila gli anarchici neuroni e li scopi per me , spegnendo luci e rumori Credo avrebbe i vostri occhi stupiti che piangono di commozione -Nessun bau bau in camice bianco può frugarci dentro ritrovando poi il posto di ognunohai detto -Gestisci- hai detto Ma è l’idea del cruento ad avere segni viola sul collo -lì, appena vicino l’orecchioe ovatta a lenire il rumore sordo d’una minaccia sospesa a mezz’aria tra il rumore d’una porta e il soffitto che viene giù a togliere l’aria -Gestisci-hai detto Sangue su vetri e piante scalze che più non dolgono -vuoi ancora sentire?Chi si alzerà per primo avrà il pigiamino macchiato di rosso e piante ignifughe a vita l’altro terrà il conto del tempo che passa e dei vari espedienti per far cessare il latrare dei cani -senza trovarne unoe custodirà le urla appese ad un gancio in mezzo alla stanza -Gestisci-hai detto Sai, il candore delle perle si tutela solo a contatto con la pelle Io, ho preso un ago e del ghiaccio e anestetizzati con cura i lobi li ho forati -i lobi- con le mie stesse mani: tre volte il destro, quattro il sinistro per filtrare l’ udito, disperdendolo tra i fori abituandomi al dolore delle orecchie ma ancora non so occuparmi di quel candore Non conosco le preghiere ma ho riempito una tegola di foglie d’ulivo e grano li passo sopra,attorno e sotto i piedi in attesa che una madre le reciti per me. Francesca Randi “Nessuno ti sentirà”. L’infelicità di Sylvia Plath. Di Luana Farina. Dentro la testa della poetessa esausta per fare di un grande amore una grande poesia c’è il nulla vitale senza immagini che non si scioglierà mai invisibili agli occhi di chi la guarda. nemmeno fosse neve al sole Ingoia lacrime come veleno seduta sul divano pensava… piedi nudi affondati nella moquette nemmeno quando lei poetessa del dolore grigia come l’esistenza senza amore uccisa prima da lui mentre affoga il suo dolore inventato che tornava dalla pregna amante ché teme l’altra glielo porti via baciati i bambini e imburrate due fette di pane generato dalla sua stessa mente entrò con la testa dentro il forno posseduta dal verme della gelosia. per respirare silente gas liberatorio . Lui andò via e poi un giorno tornò Uscì così dalla propria vita come da quella casa lui bussò e lei aprì la porta dicendo avvolta in una bara rossa dopo l’ultimo bacio -forza entra!prendi qualcosa da bere?- che lui miserabile poeta le mandò Lo baciò e tutti i miserabili fantasmi sparirono un freddo giorno d’inverno dentro bocche incollate al sicuro da dietro la finestra della casa sessi che si mancavano che li conobbe amanti e poeti AGOSTO nati come due metà distinte che si uniscono mai felici. Veronica Muntoni “Nulla va nascosto”. S’ultima angaria. Di Tetta Becciu. Sola, frundida in su cuzolu ‘e unu terighinu murinu, s’ojada a car’a chelu jamat sos isteddos… a illebiare s’anima sua ferida. Falat, sulena s’ultima lagrima ‘e prata in su chizu ‘e rosa… In sa notte ch’istremutit sa luna… unu coro ‘e astrau, appoderiu* appeutat* sas fruas de unu lizu …* e fischinidas de bisos * de una femina… in fiore ‘e vida. Attesu… unu cane apeddat a sa luna mori-mori… nuschende s’attuffu ‘e sa morte. SETTEMBRE L’ultima violenza. (traduzione). Sola,/in un angolo/di una strada buia, /abbandonata/come un cencio/da buttar via…/lo sguardo rivolto/al cielo/chiama con flebile voce/le stelle…/ a lenire/la sua anima /ferita./Lenta,/l’ultima lacrima solca/il suo viso di rosa…/Lontano…/un cane/abbaia alla luna…/fiutando/l’odore acre della morte./Nella notte/dell’ultima violenza,/ anche i sassi han tremato…/un cuore di ghiaccio/ha calpestato/i germogli di un giglio.../e briciole di sogni/di una donna…/che apriva il varco/ai primi sentimenti… e promesse/d’amore! Rita Chessa “Natura morente”. Quando non si poteva contare fino a cento novanta quattro. Di Savina Dolores Massa. La casa clandestina era in palazzo salimmo scale, obbligate a non leggere cognomi veri ai campanelli a non vedere fiocchi rosa o azzurri sulle porte a non sentire alcun suono di parole verseggiate per insulto Ognuna, dei mobili in salotto, e delle altre non ne notò la forma, ma intatto resterà a vita quel ricordo, di come si cercassero tra loro le punte irrigidite di ogni scarpa Ognuna, entrò sola nella cucina il tavolo puzzava di cipolle triturate per un sugo, raffinate con la carne e le sue spezie il giorno prima OTTOBRE Ognuna, su quel tavolo si spogliò solo le gambe Il lutto era rosso nella vasca embrioni da lavare a candeggina o polvere abrasiva acqua calda per un prossimo turno atteso a testa bassa taciturno Scendemmo scale obbligandoci a non leggere cognomi veri ai campanelli a non rubare fiocchi rosa o azzurri dalle porte a non sentire alcun suono di parole verseggiate per insulto Fabiola Ledda “Sposa con rami”. Mascherata- Cherchez la femme. Di Rita Bonomo. (Estratto da dìri dìri dànna, edito da liberodiscrivere 2006). Incolume? Avete detto incolume? Pura strategia non deturpare i vostri annosi, affabili alfabeti (ipocriti, ho detto!) mia sufficienza guardare oltre ogni vostro annoso, affabile labiale. Ecco, sono l’ospite sbranata dal vostro credo indotto, siedo –per sconsiderata circostanza- alla destra del padre onorandolo, con devozione. Per due moine ci faccio all’amore –esorcizzando quell’imponenza che duoleUna leggerezza imperdonabile (lo so) guardare oltre ogni vostra annosa convenzione Eppure Credo in Dio Santo Onnipotente Creatore del cielo della terra Sono come mi volete, come m’ avete allevata, sono ossequiosamente morigerata! Quale straordinario raggiro, ora, questo incollarsi i vostri abbracci pietosi addosso? Sono la grande accerchiata cieca, mi dissepellisco –spuria marionettami contemplo nella cerchia e con benedetta boria mi distinguo -eccello per aborigeno ingegno!- NOVEMBRE Ecco un braccio, ci sono, rispondo all’appello Una mano. Oh, le mie unghie rosicchiate hanno smesso di graffiare Ecco le dita e uno spudorato anello –ancora- sull’anulare destro (un ostensorio d’indugi –ora- questo lauto perdono) Ecco il mio bacino rovesciato, sculettare adagio in accorta posa Una gamba infetta –è stata una zecca femmina che femmina m’ha infettataEcco la testa – orgoglio di padre perché parte buona di spermaEcco una grande bocca spalancata al ratto d’un prepuzio santo -Ah, quale consolatorio oblio la divorazione!-Perversa!- avete detto -Una ubbidita divinazione!- Ho risposto Questo l’altare dei miei natali onorato con riguardo un feticcio, un souvenir anch’esso, da riporre vicino alla catenina battesimale e ad un Cristo appeso alla sua croce, cui –affidata- lesinare una qualche benedizione -Raccapriccio!- avete detto -Un capriccio di esclusività, per la di me fautrice di me stessa, mia unica religione- ho risposto da portare in dote al mio promesso sposo insieme ai candidi e lindi lini di corredo che si convengono alla femmina bianca ch’avete allevato bianca femmina da affidare ad un uomo. Ed ecco il dorso e le tette, damigelle incaponite le areole e il bianco cosmo che verrà, con il suo latte, per un culetto rosso maschio da sculacciare in cambio d’un vagito pronunciante il mio nome Intento vano quell’inclinazione a spogliarsi d’un antico e vetusto ruolo Le femmine di casa acclamavano la femmina da consegnare e prima di rivestirsi di quella bonaria e presunta benevolenza dalla platea urlavano: - all’adempienza, all’adempienza!Riponetemi nel mio cul de sac –se credeteLì –tra i rondò del silenzio e i portaritratti vuoti delle vostre vuote faccefarò certo meno rumore Ed è strano non fosse carnevale ma faceva freddo da rivestirsi E piano piano andarono via, tutte, sfilando. -Ma che bella infornata!- Chiara Cossu “Yesterday”. Anima ‘e umbra. Di Tetta Becciu. In s’aidu ‘e sa notte dae sempre isetto unu carignu ‘e lughe. in s’anima mia de umbra ….imbalzamada… Chirco ‘olos de paghe… in trainos de mudesa e libertade, in alenos pasidos de ‘entu. E bizo, in coa ‘e sa notte furende cun ojos de ispera speranza dae sa tramas-presone de su “burqa”, farfaruzas de lughe a sos isteddos chi vagabundos fuen… dae sas manos de sa vida mia de femina (?) afghana… A lugore ‘e ammentos carigno peraulas chi ricaman avreschidas in coro. Trimizones de bisos atzenden relicchias de vida DICEMBRE Anima d’ombra (traduzione) Nel varco della notte/aspetto/ancora/una carezza di luce./Bramo voli di pace…/in rivoli di silenzio/e/libertà,/in pacati respiri/di vento./Abbracciata ai ricordi/ accarezzo parole/che ricamano albe/nel cuore./Rosari di sogni/accendono/reliquie di vita/nella mia anima/d’ombra/…imbalsamata…/E veglio,/in grembo alla notte/ rubando con occhi di speranza/dalle trame-prigione/del “burqa”,/briciole di luce/alle stelle/che vagabonde/fuggono…/dalle mani/della mia vita/di donna (?)/afghana… Le artiste e le scrittrici hanno collaborato a titolo gratuito alla realizzazione di questo calendario. Progetto grafico e impaginazione a titolo gratuito di Salvatore Palita -www.studiosegno.info.