Interventi al convegno A Quale prova per il risarcimento del danno

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Interventi al convegno A Quale prova per il risarcimento del danno
Gli interessi civili nel processo penale
Torino, 13 novembre 2008
Marco Bona
Interventi al convegno
A
Quale prova per il risarcimento del danno non patrimoniale?
Sentenze SS.UU. 26972/26973/26974/26975 del 11 novembre 2008
Il danno non patrimoniale, che derivi da reato o dalla lesione di diritti inviolabili della
persona, è categoria che si riferisce ai pregiudizi ammontanti a “danni conseguenze”
(conseguenze in termini di pregiudizi naturalisticamente intesi).
Questi pregiudizi devono essere:
1) allegati;
2) provati.
Rilevano tutti i pregiudizi non pecuniari naturalisticamente intesi?
Per le Sezioni Unite la risposta è negativa (in senso, forse, eccessivamente
restrittivo).
Vengono individuati 2 limiti:
1) condizioni di risarcibilità (ravvisabilità di una fattispecie che permette il
risarcimento; restrizione su vari fronti, sia extracontrattuale e sia contrattuale)
2) ulteriore limite: la “gravità dell’offesa” (dovere di tolleranza, dunque no ai
pregiudizi “futili”).
[N.B.: le SS.UU., sul versante civilistico, hanno letteralmente inventato una serie di
limiti non previsti da alcuna norma: ad es., sicuramente fondato è il richiamo alla
Costituzione, ma non già la delimitazione ai soli diritti inviolabili; priva di
fondamento è la condizione della “gravità dell’offesa”: se il pregiudizio
ontologicamente sussiste ed è stata lesa una posizione costituzionalmente garantita
oppure, in campo contrattuale, un interesse dedotto in contratto o deducibile da
questo o vi è dolo contrattuale, esso dovrebbe essere risarcito].
1
Sul versante penale il danno non patrimoniale è sempre risarcibile, laddove sia
ravvisabile una fattispecie di reato (ciò, come confermato dalle Sezioni Unite, a
prescindere che il reato abbia leso diritti inviolabili della persona).
Risolte le questioni della risarcibilità del danno non patrimoniale, ai fini del
risarcimento, possono rilevare tutti i pregiudizi (biologici, esistenziali e morali): la
loro risarcibilità, a questo punto, dipende solo dalla prova.
Principi generali sulla prova
SS.UU.
A. No al danno evento
B. No al “danno in re ipsa” (in quanto il risarcimento “verrebbe concesso non in
conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata
per un comportamento lesivo”)
Sul danno in re ipsa
Morena Belli Valletta e altri c. Monte dei Paschi di Siena1 e Cancani c. Paglierini2:
sostenere che il danno è in re ipsa non comporta negare la distinzione ontologica tra
lesione di un determinato valore, inteso come bene protetto dall’ordinamento, e la
conseguenziale perdita (o diminuzione) dello stesso, ma solo assumere che provata la
prima risulta provata anche la seconda, secondo criteri di tipo presuntivo ed
indiziario.
E’ ancora possibile operare questo ragionamento probatorio?
In realtà sì, ma con le dovute accortezze: ossia il magistrato non deve omettere nella
motivazione il ricorso al ragionamento probatorio-presuntivo.
Ciò premesso, il principio base cui fare riferimento rimane indubbiamente quello
della prova specifica del pregiudizio subito, criterio sancito dall’art. 2697 c.c., in
base al quale chi vuol far valere in giudizio un diritto è tenuto a provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento.
Questo, però, è un principio che è soggetto, nella maggior parte dei casi di danni
areddituali, a stemperarsi notevolmente attraverso due meccanismi che possono a
pieno titolo intervenire nella gestione dei profili probatori del danno non
patrimoniale:
il ricorso alle presunzioni (artt. 2727 e 2729 c.c.)
1
2
Cass., sez. III, 3 aprile 2001, n. 4881, in Guida al diritto, 2001, n. 19, 58.
Cass., sez. III, 10 maggio 2001, n. 6507, in Guida al diritto, 2001, n. 21, 32.
2
il ricorso al fatto notorio (art. 115, 2° comma, c.p.c.) (id quod plerumque
accidit).
Altro principio sicuramente fondamentale discende dall’art. 1226 c.c., per cui, “se il
danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice
con valutazione equitativa”. Siffatto principio, richiamato dall’art. 2056 c.c.,
evidentemente incide non solo sulla liquidazione, ma anche sulla prova dell’entità
del danno non patrimoniale, imponendo al magistrato (il danno “è” liquidato, non
già il giudice “può”) di colmare, con apprezzamento equitativo, le lacune sussistenti
al fine di una precisa determinazione del quantum, laddove, ovviamente, queste siano
risultate inevitabili per la vittima.
Elenco dei mezzi di prova
Le Sezioni Unite hanno distinto fra: 1) danno biologico; 2) pregiudizi non biologici
1) Danno biologico: accertamento medico legale
SS.UU. “Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente
normativa (artt. 138 e 139 d. lgs. N. 209/2005) richiede l’accertamento medicolegale” (“si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre”.
In realtà, la valenza probatoria dell’accertamento medico legale è limitata sia dal
punto di vista giuridico che scientifico.
Limiti scientifici
Esempio: l’accertamento medico legale del danno biologico permanente da “colpo di
frusta”, laddove difettino dati comprovabili obbiettivamente, risulta connotato da un
elevato grado di soggettività3, con la conseguenza che dal punto di vista medico
legale, tolti alcuni casi, non vi può essere scientifica certezza sulla reale sussistenza
della micropermanente in questione, ma, semmai, verosimiglianza e plausibilità.
Ciò però – è bene precisarlo - non significa affatto che il campo in esame si
contraddistingua per una sostanziale “ascientificità nelle valutazioni”4: come
opportunamente puntualizzato dalla dottrina medico legale5 il fatto che vengano in
rilievo alterazioni percepibili soltanto sul piano semeiologo fisico e sintomi che
3
Il punto è sottolineato da tutta la letteratura medico legale. E’ stato rilevato che solo nel 18% dei casi il paziente si
presenta al medico legale con una realtà obiettiva già documentata; per il rimanente 82%, solo nel 35% dei casi il
silenzio obiettivo iniziale è risultato giustificato da carenti accertamenti ed è stato possibile riscontrare esiti anatomici
delle parti molli con la xerografia o radiografie con proiezioni particolari: cfr. L. PALMIERI e P. PAGLIUSO, Soggettività
ed indennizzabilità: il rachide cervicale, in La valutazione del danno alla persona da invalidità permanente, a cura di
M. CANALE e A. GIANELLI CASTIGLIONE, Milano, 1990, 239-240.
4
Così, invece, G.d.P. Foggia, 14 marzo 2002, Est. Carrillo, in Arch. Giur. Circolaz., 2002, 871.
5
F. BUZZI, “Riconoscimento e valutazione del colpo di frusta” – La posizione del CTU medico legale, in Il colpo di
frusta cervicale- Dalla clinica alla valutazione medico-legale, a cura di S. LAFISCA & L. RICCIARDI, Milano, 1999,
435.
3
sfuggono alla ricognizione strumentale non toglie che questi esiti possano essere
riscontrati, ancorché con le dovute cautele, alla visita medica e risultino
scientificamente plausibili sul piano delle conoscenze fisio-patologiche e delle
osservazioni clinico-statistiche. Inoltre, l’elevata soggettività non implica che
l’accertamento medico legale si regga solo su quanto dichiarato dal periziato e su una
valutazione esclusivamente soggettiva da parte del medico legale delle affermazioni
rese dalla vittima: in sede di anamnesi, ad esempio, il medico legale può verificare la
compatibilità di quanto riferito dall’interessato con il quadro clinico, con le
circostanze riportate nei referti e nelle relazioni scritte, con la possibilità di
individuare eventuali incongruenze; in occasione dell’esame obiettivo il medico
legale è in grado di differenziare la contrattura muscolare dalla contrazione
volontaria6.
Le perizie medico legali sono più una questione di valore persuasivo delle stesse
Limiti giuridici
La consulenza costituisce fonte oggettiva di prova solo quando il consulente accerta
fatti (consulente percipiente), non già quando li valuta (consulente deducente): la
consulenza tecnica non costituisce in linea di massima mezzo di prova bensì
strumento di valutazione della prova acquisita, ma può assurgere al rango di fonte
oggettiva di prova quando si risolve nell'accertamento di fatti rilevabili unicamente
con l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (così, ad esempio,
Cass. civ., Sez. III, 19/01/2006, n.1020).
Dunque cautela nel ritenere che la prova del danno biologico sia medico legale
Le stesse Sezioni Unite hanno specificato che:
1) “la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario”
2) rimane “nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del
consulente tecnico”
3) “del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo
nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perché
deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente,
superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili
acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di
comune esperienza e delle presunzioni!
N.B. (1)
vanno tenuti disgiunti due diversi ambiti:
6
Su questi ed altri punti relativi all’accertamento medico legale della distorsione del rachide cervicale cfr. amplius,
AMERICAN MEDICAL ASSOCIATION, Guida alla valutazione dell’invalidità permanente, a cura di L. COCCHIARELLA e G.
B. J. ANDERSSON, 5° ed. americana (traduzione a cura di S. Jourdan), Torino, 2004, 374 e ss.
4
da un lato, la prova dei «profili statici» del danno biologico, relativi al tipo ed
al grado di alterazione dell’integrità psicofisica subita dal danneggiato, prova
che generalmente richiede una competenza medica;
dall’altro lato, la prova dei c.d. «profili dinamici» (e/o “pregiudizi
esistenziali”) del danno biologico, non dipendente dal contributo medico
legale, il quale al massimo può fornire una valutazione sull’incidenza delle
lesioni personali su tutta una serie di attività, lavorative ed extralavorative,
generiche e specifiche, rientranti nel bagaglio esistenziale, passato e futuro,
della vittima
N.B. (2)
Il giudicante rimane perito peritorum, e cioè può sempre decidere di subentrare al
consulente nella valutazione medico legale che conduce al riconoscimento
dell’esistenza del danno biologico e delle sue incidenze sulla sfera personale della
vittima. Soprattutto sul versante del danno biologico di natura psichica, del danno
biologico temporaneo e delle lesioni lievissime7 il giudice, adeguatamente
motivando (anche ricorrendo al criterio indicato dall’art. 1226 c.c.), può ben giungere
a qualificare i pregiudizi subiti dal danneggiato come “danno biologico”, oppure può
spingersi a ritenere ravvisabili e riconducibili entro siffatta categoria gli eventuali
profili “dinamici” della lesione sfuggiti al vaglio del proprio consulente,
autonomamente valutando la documentazione medica prodotta dalla vittima, nonché
(e, in taluni casi, soprattutto) le altre prove, anche testimoniali, acquisite in relazione
ai diversi pregiudizi subiti dal danneggiato (prove spesso non considerate dai
consulenti, o in quanto acquisite successivamente all’espletamento della consulenza
tecnica oppure in quanto, più semplicemente, trascurate). In merito alla possibilità del
magistrato di farsi carico di valutare per suo conto il materiale probatorio a
disposizione, abbiamo già avuto occasione di ricordare come il Tribunale di Torino,
in Fassina ed altri c. Bonelli ed Augusta Assicurazioni S.p.A.8, abbia ritenuto
risarcibile il danno biologico (psichico) temporaneo sulla base dello stato di
depressione in cui si erano venuti a trovare i danneggiati in seguito alle gravi lesioni
occorse ad un loro congiunto, pur avendo i consulenti tecnici d’ufficio escluso la
ravvisabilità del danno biologico sia sotto il profilo dell’invalidità temporanea che di
quella permanente. Parimenti, la Sezione Lavoro del Tribunale di Torino, in Erriquez
c. Ergom Materie Plastiche S.p.A. e in Stomeo c. Ziliani S.p.A.9, ha ritenuto
ravvisabile il danno biologico temporaneo da mobbing, pur in assenza di uno
specifico contributo medico-legale in tal senso e sulla sola scorta delle prove
7
Sul punto è stato osservato che “in alcuni casi limite il danno ben può essere apprezzato e liquidato equitativamente,
anche senza l’intervento del medico legale: ad esempio, nei casi di lesioni lievissime, documentate da un solo referto e
prive di storia clinica successiva (lievi contusioni, lievi ecchimosi, piccole ferite lacero-contuse, e simili; sui casi in cui
può essere superfluo o inammissibile il ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio medico legale …)”, ROSSETTI, Il danno
da lesione della salute, Padova, 2001, 334.
8
Trib. Torino, 15 febbraio 2001, n. 1293, in Giur. It., 2002, 953, con nota di BONA.
9
Trib. Torino, sez. lav., 16 novembre 1999 e Trib. Torino, sez. lav., 30 dicembre 1999, in MONATERI, BONA e OLIVA,
Mobbing – Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000, 205 ss.
5
testimoniali e della documentazione medica, che avevano evidenziato dei periodi di
malattia, oltre stati di insonnia ed ansia, sindromi ansioso-depressive e crisi di pianto.
In effetti, come già si sostenne in altra sede10, non pare del tutto peregrino sostenere
che il danno biologico temporaneo possa essere individuato dal giudice senza
necessariamente ricorrere all’ausilio del medico-legale: la vera prova, infatti, risiede
nella documentazione medica attestante i ricoveri oppure nelle certificazioni
comprovanti la somministrazione di farmaci, così come le prescrizioni di periodi di
riposo.
In breve, se la matrice medico-legale del danno biologico è un dato da cui non si può
più prescindere, pur tuttavia esso non può tradursi in un’invalicabile limitazione al
potere discrezionale del magistrato anche con riguardo alla valutazione delle prove;
semmai, il giudicante sarà ovviamente chiamato a motivare eventuali scelte compiute
equitativamente (art. 1226 c.c.) e che si discostino dalle indicazioni ricevute dai
consulenti.
Si aggiunga poi che dalla tipologia della lesioni psicofisica occorsa al danneggiato,
posta a confronto con altri dati fattuali (ad esempio, l’età della vittima, oppure la sua
attività o il suo sesso, la composizione della sua famiglia, ecc.), il giudicante, facendo
ricorso agli schemi tipici della prova presuntiva, ben può sviluppare propri
convincimenti sull’esistenza ed entità dei profili dinamici del danno biologico: ciò sia
che il medico-legale abbia fornito un suo contributo sul punto oppure si sia limitato al
mestiere del mero “conta dita”. E il magistrato ben può spingersi a ritenere dimostrati
in re ipsa tutta una serie di pregiudizi “biologicoesistenziali” (la vittima che si trovi
in uno stato vegetativo evidentemente non potrà più svolgere qualsivoglia attività; un
padre privato di un arto incontrerà non pochi problemi a prendere in braccio il
proprio figlioletto, senza che sia necessario dimostrare che effettivamente prima lo
faceva, ecc.).
2) Mezzi di prova dei pregiudizi non biologici
SS.UU. “Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova
testimoniale, documentale e presuntiva”.
SS.UU. attribuiscono particolare rilevanza della prova presuntiva: “Attenendo il
pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva
è destinato ad assumere particolare rilievo, è potrà costituire anche l’unica fonte per
la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di
rango inferiore agli altri … Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi
che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti
che consentano di risalire al fatto ingiusto”
Questa costituisce invero solo una conferma (cfr., ad esempio, Cass. civ., Sez. III, 12
giugno 2006, n. 13546).
10
Cfr. BONA, Danno biologico, in MONATERI, BONA, OLIVA, PECCENINI, TULLINI, Il danno alla persona, Torino, 2000,
Tomo I, 38.
6
….. E PER LE PERSONE GIURIDICHE?
Cassazione - Sezione prima civile - 2 luglio 2008, n. 18153
“anche per le persone giuridiche, il danno non patrimoniale, inteso come danno
morale soggettivo, è, tenuto conto della giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo, e non diversamente da quanto avviene per gli individui persone
fisiche, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della
violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei
turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca
alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri; sicché, pur dovendo
escludersi la configurabilità di un danno non patrimonia1e in re ipsa - ossia di un
danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla ragionevole
durata del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non
sussistano, nel caso concreto, circostanze particolari, le quali facciano positivamente
escludere che tale danno sia stato subito dalla ricorrente”.
B
IL DOLO PUO’ RILEVARE IN SENO ALLA PERSONALIZZAZIONE DEL
DANNO NON PATRIMONIALE?
Vi sono vicende di cronaca (si pensi, ad esempio, al caso torinese dei lavoratori della
Thyssen oppure agli investimenti di pedoni da parte di conducenti che hanno abusato
di alcol; si consideri altresì i danni subiti su larga scala da consumatori ed investitori
per effetto di strategie di grandi imprese che, per ragioni di profitto, consegnano
intenzionalmente prodotti viziati) che pongono alcuni interrogativi circa pregi e
lacune dell’attuale sistema risarcitorio, così come riscritto negli ultimi anni dalla
giurisprudenza e dalla dottrina in chiave squisitamente “riparatoria”. In particolare,
emergono alcuni dubbi sulla reale capacità del sistema della responsabilità civile di
assolvere alla funzione, che da tempo le è stata riconosciuta (non solo in Italia), di
disincentivare determinate condotte, se non di sanzionarle. Il riferimento è in
particolare ai casi in cui l’agente non cagiona il danno per un tragico momento di
disattenzione o per una deviazione dai comportamenti esigibili dovuta ad una
superficialità nella previsione del danno, ma in quanto ha agito con consapevolezza
delle conseguenze, e cioè o si è posto volontariamente nelle condizioni di nuocere
(l’autista impregnato di alcol), oppure ha voluto con tutto se stesso il danno del suo
prossimo, magari programmandolo con cura o attuandolo con efferatezza o con suo
piacere, od ancora ha fatto i suoi calcoli ed ha compiuto delle scelte ben precise,
mettendo in bilancio il danno del prossimo, talvolta anche dagli esiti gravi.
7
In particolare vi è da chiedersi se in questi casi, atteso che la mera allocazione di
“danni puramente compensativi” rischia di non attuare la funzione essenziale della
RC di prevenire il costo degli incidenti, sia possibile “aggiungere” un quid pluris al
risarcimento del danno, che sia effettivamente tale da scoraggiare per il futuro
determinate condotte, rendendole economicamente non convenienti. Vi è altresì da
domandarsi, laddove non si tratti di scoraggiare condotte future se sia possibile
sanzionare civilisticamente le condotte intenzionali o particolarmente efferate.
Il legislatore del ’42, invero, nella Relazione al Re sul Codice Civile inquadrò il
danno non patrimoniale come una forma di sanzione civile, tant’è che la ancorò alle
fattispecie di reato: con il risarcimento del danno non patrimoniale l’ordinamento
doveva reagire non già a determinati pregiudizi in concreto subiti dalle vittime, ma a
specifiche e qualificate condotte penalmente rilevanti. Il danno non patrimoniale
dipendeva dalla gravità della condotta, non già tanto dei danni.
Nondimeno, questa visione del danno non patrimoniale, sicuramente insoddisfacente e
vetusta sul piano della riparazione dei danni effettivamente patiti dai danneggiati, è poi
caduta nel dimenticatoio. I benefici dello smantellamento della lettura tradizionale
dell’art. 2059 c.c. sono stati, sul versante civilistico, per certo notevoli e non occorre
qui enunciarli: basti pensare all’esperienza del danno biologico. Ma forse sarebbe stato
opportuno continuare a riflettere con la dovuta attenzione sulle altre funzioni della
tutela risarcitoria, ricordandosi come del resto la dottrina (ma anche la giurisprudenza)
abbia sempre individuato, come tuttora (basti leggere i primari trattati in materia), tre
funzioni principali di siffatta protezione rimediale11: la funzione compensativa, quella
sanzionatoria12, e quella preventiva.
Oggi il tema del danno punitivo non vive comunque una stagione particolarmente
propizia: il danno punitivo è stato associato al sistema statunitense e di questo
modello, complice la disinformazione prodotta anche da taluni giuristi, si è fornita
spesso un’immagine distorta, ove il danno punitivo sarebbe oltreoceano fonte di
disastri e sconquassi, emblema di una giustizia da non imitare. Invero, negli USA il
danno punitivo, riconosciuto peraltro in un numero ristretto di casi, è servito a
sanzionare condotte decisamente censurabili poste in essere, con dolo, da grandi
imprese calcolatrici e alla ricerca di profitti ingiusti. Non bisogna, dunque, farsi
ingannare dalla mitologia che si è sviluppata sul sistema statunitense, fermo restando
che vi sono delle diversità tra quell’ordinamento e il nostro (ad esempio, la giuria)
che rendono per certo difficile immaginare una trasposizione diretta di quel modello
nel sistema risarcitorio italiano.
L’ipotesi del danno punitivo, nonostante la sua “cattiva immagine”, è stata comunque
considerata recentemente da una parte del nostro Parlamento in seno a talune
proposte sulla class action. Al riguardo va debitamente ricordato che nel corso della
XV legislatura sono stati avanzati vari progetti (i Disegni di legge Camera dei
Deputati nn. 1834, 1330, 1443 e 1882, tutti presentati nel corso del 2006 e
sostanzialmente coincidenti nei contenuti) inequivocabilmente schierati a sostegno
11
Cfr. sul punto G. ALPA, M. BESSONE e V. ZENO ZENCOVICH, 1995, 26 ss.
Su cui cfr. P. CENDON, Il profilo della sanzione nella r. c., a cura di P. CENDON, La responsabilità extracontrattuale,
Milano, 1994, 71 ss.
12
8
dell’introduzione nel nostro ordinamento di un modello molto simile a quello della
class action statunitense, a tal punto da prevedere espressamente il risarcimento del
danno punitivo, da liquidarsi in misura “pari al vantaggio economico derivante [in
capo al convenuto] dagli illeciti plurioffensivi accertati”.
Tuttavia la prospettiva della class action ispirata al modello USA è stata rigettata per
dare vita ad un modello di tutela collettiva (l’azione collettiva risarcitoria)
decisamente più blando, in primis verso le imprese.
Come noto, in tempi recenti la Cassazione13 a sua volta ha rigettato l’idea del danno
punitivo, rilevando che essa sarebbe “estranea alla responsabilità civile”, essendo il
risarcimento del danno fondato esclusivamente sull’esistenza di una lesione e sulla
prova delle conseguenze pregiudizievoli sofferte dal danneggiato. Secondo questa
decisione, ai fini del risarcimento rimangono indifferenti la condotta del
danneggiante, lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale
dell’obbligato.
Va però osservato come si tratti di un precedente che, riguardando peraltro la
delibazione di una sentenza targata «USA» e dunque di un danno punitivo
effettivamente estraneo alle nostre logiche, non appare decisivo sulla questione in
esame, ricordandosi soprattutto al riguardo come in diverse altre sentenze (del resto,
in conformità con il richiamo all’art. 185 c.p.c.) la stessa Cassazione abbia
riconosciuto e perorato la possibilità di considerare in seno alla liquidazione del
danno non patrimoniale la gravità della condotta tenuta dal responsabile: “Nella
liquidazione equitativa del danno non patrimoniale derivante da fatto illecito, deve
tenersi conto della gravità dell'illecito penale e di tutti gli elementi della fattispecie
concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso specifico. Ne
consegue che il ricorso da parte del giudice di merito al criterio della determinazione
della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno morale in una frazione
dell'importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico, non è di per sé
illegittimo, a condizione che si tenga conto delle peculiarità del caso concreto,
effettuando la necessaria personalizzazione del criterio alla specifica situazione, ed
apportando, se del caso, i necessari correttivi, senza che la liquidazione del danno
sia rimessa ad un puro automatismo”14.
Premesso questo quadro, ove non vi è in realtà ancora nulla di decisivo né in un senso
e né nell’altro, può essere utile porre sul tavolo alcuni spunti per un discorso
concettualmente diverso dal danno punitivo secondo il modello USA.
In particolare, si può qui rilevare come non manchi la possibilità di sviluppare una
serie di logiche a favore di un risarcimento che permetta al magistrato, secondo i
principi del nostro ordinamento, di considerare adeguatamente, in seno alla
definizione ed alla liquidazione dei danni, la gravità di particolari condotte e cioè di
dare luogo, in alcuni casi, ad una reazione da parte della responsabilità civile
effettivamente idonea a promuovere nuovi e più che opportuni incentivi alla
prevenzione di determinati eventi dannosi, soprattutto quelli gravi e più contrari al
13
14
Cass., Sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183, in Resp. civ. e prev., 2007, 9, 1890, in Resp. civ. e prev., 2007, 10 2100.
Cass., Sez. III, 25 maggio 2004, n. 10035, in Danno e resp., 2004, 1065.
9
rispetto dei più basilari diritti dell’uomo, oppure quelli che, prodotti da condotte
intenzionali e rivolte al profitto, colpiscono su larga scala.
Quali sono queste logiche che potrebbero mettere in grado il magistrato di
incrementare in misura confacente il quantum debeatur in questi casi?
Tale incremento potrebbe invero trovare le sue ragioni:
o in primis, nella constatazione, effettuata anche in giurisprudenza (si pensi al
Caso Gucci deciso dal Tribunale di Milano ove si incrementò il quantum del
danno non patrimoniale subito dalla convivente dell’assassinato nella misura di
50.000,00 in considerazione della particolare efferatezza dell’omicidio), che la
condotta, per le sue caratteristiche particolarmente riprovevoli, ha aggravato
nel danneggiato il senso dell’ingiustizia subita e, dunque, il suo turbamento e la
sua offesa morale (maggiore è l’evitabilità di una morte, più elevata è la
difficoltà ad accettarla) (in questi termini si potrebbe parlare allora di “danno
aggravato dalla condotta”);
o in secondo luogo nell’esigenza che, laddove emergano violazioni
significativamente riprovevoli e di elevato disvalore sociale, il risarcimento del
danno, una volta individuate le somme da risarcirsi secondo i consueti criteri
riparatori (ormai standardizzati, prevedibili dall’impresa, suscettibili di analisi
costi-benefici nella prevenzione degli infortuni e, sempre in questa prospettiva,
assicurabili), debba differenziarsi a seconda della particolare gravità della
condotta, ciò onde: 1) scongiurare che - contrariamente a quanto statuito all’art.
3 Cost. - azioni od omissioni, tra loro diverse quanto ad evitabilità e
prevenibilità dell’evento dannoso, siano poste sullo stesso piano, con
conseguente depotenziamento della funzione preventiva (o di “deterrence”) del
sistema risarcitorio (“danno commisurato alla gravità della condotta” o
“danno precauzionale”); 2) rendere possibile alla tutela risarcitoria - in piena
conformità con gli obiettivi dell’ordine pubblico e di promozione della tutela
dei diritti fondamentali - di segnalare ai consociati il particolare disvalore
sociale di determinate condotte in un determinato momento storico (“danno
esemplare”); 3) sempre in ragione dell’art. 3 Cost., evitare che la condanna al
risarcimento del danno, quale meccanismo che interviene a sanzionare il
responsabile civile, esprima sanzioni uguali pur a fronte di condotte di gravità
diversa, e cioè far sì che la condanna risarcitoria costituisca una sanzione
corretta e proporzionata al livello di antigiuridicità della condotta (“danno
punitivo costituzionalmente necessitato”).
In realtà, al magistrato non dovrebbe essere del tutto precluso di svolgere
considerazioni di questo tipo, sol considerandosi che il medesimo si trova a liquidare
il danno con valutazione equitativa, la quale implica un apprezzamento di tutte le
circostanze del caso (artt. 1226 e 2056 c.c.). In altri termini, si potrebbe inquadrare
l’incremento in questione, retto sulle considerazioni di cui sopra, quale contenuto di
un “secondo livello della personalizzazione” (ossia della valutazione in via
equitativa). In seno al primo livello il danno di base viene personalizzato in
considerazione dei pregiudizi subiti dal soggetto; entro il secondo livello il magistrato
personalizza ulteriormente il danno in considerazione delle peculiarità della condotta
10
subita dal soggetto, atteso che per certo l’offesa è maggiore per il danneggiato, che
sia stato vittima di una condotta intenzionale o comunque accettata dal responsabile
civile in vista di un profitto, e che sarebbe discriminatorio e insensato ai fini della
responsabilità civile trattare allo stesso modo un soggetto che ha cagionato un danno
quasi per sventura (un maledetto momento di disattenzione o di imprudenza, od
ancora un errore umano in ambiti delicati e sempre a rischio, come nel caso di tutta
una serie di attività mediche) e un soggetto che ha agito con dolo o messo in bilancio
di cagionare un danno.
In definitiva, non pare insensato sostenere che un giudice possa considerare,
attraverso questo meccanismo e sulla base di questi ragionamenti, la gravità della
condotta o gli obiettivi (un ingiusto profitto a danno di terzi) della stessa.
Una soluzione chiusa a questa prospettiva presenta il rischio di sminuire
eccessivamente il ruolo che la nostra società riconosce alla responsabilità civile. In
particolare, due sono i rischi: 1) che la prospettiva del risarcimento del danno non
incuta alcun timore a chi può permettersi di assicurarlo od internalizzarlo tra i costi
della propria attività; 2) che il responsabile, il quale abbia agito intenzionalmente,
paghi allo stesso modo di chi è incorso in una colpa eventualmente lieve.
Si aggiunga infine la seguente considerazione: una sentenza che consideri questi
profili recherebbe, in termini di giustizia, un messaggio più pregnante e ricco di
significati non solo per le vittime, ma anche per i consociati.
C
VITTIME DI REATO
E DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO
11
1 - LA SOLLECITAZIONE COMUNITARIA
Da tempo c’è forte polemica sulle significative difficoltà per le parti lese da reati di ottenere un
risarcimento. Questa situazione delle vittime si è sempre più aggravata ed è particolarmente
evidente in Italia: tralasciamo i numerosissimi casi in cui il responsabile neppure viene individuato
(tanto che nell’ambito della microcriminalità spesso il cittadino neppure denuncia il fatto) ed i
deprimenti dati statistici su tale aspetto snocciolati annualmente dai Procuratori Generali, e
pensiamo ai tanti fatti (omicidi, stupri, lesioni personali, sinistri mortali in stato di ubriachezza,
furti, rapine, ecc.) il cui esito è la scarcerazione del responsabile, subita dalla parte lesa o dai suoi
eredi o familiari come ulteriore e più odiosa offesa, spesso in assenza di ogni risarcimento anche a
fronte di condanna. Pensiamo altresì ai tanti casi in cui gli imputati approfittano degli arresti
domiciliari per rendersi latitanti, od ancora alle situazioni in cui la vittima, stante le condizioni
economiche del suo offensore, non può azionare utilmente le sue pretese risarcitorie.
Per tutelare le vittime in queste ipotesi già il Consiglio d’Europa, con la Convenzione europea
sul risarcimento delle vittime di crimini violenti del 1983, impegnava i Paesi aderenti ad
adottare un sistema di risarcimento statale per le vittime di reato violento e intenzionale
impossibilitate a conseguire una copertura risarcitoria dagli offensori.
Successivamente, stante la mancata adozione da parte di alcuni Paesi - tra cui l’Italia - di tale
disciplina, veniva emanata la Direttiva 2004/80/CE del 29 aprile 2004 con oggetto l’adozione da
parte degli Stati membri che ancora non si erano adeguati alla Convenzione del 1983 di un sistema
che garantisse il risarcimento delle vittime di reati violenti ed intenzionali.
Tra le tappe fondamentali del percorso che hanno condotto alla Direttiva 2004/80/CE si possono
ricordare soprattutto le seguenti:
Parlamento Europeo: Risoluzione sulle vittime di violenza criminale (1989);
Consiglio Europeo, riunione di Tampere (15 e 16 ottobre 1999): in questa
occasione il Consiglio sollecitò l’elaborazione di “norme minime sulla tutela delle
vittime della criminalità, in particolare sull’accesso delle vittime alla giustizia e sui
loro diritti al risarcimento dei danni, comprese le spese legali”; lo stesso Consiglio
auspicò, comunque, l’adesione degli Stati membri alla Convenzione Europea el
1983;
Parlamento Europeo: Risoluzione sulle vittime di crimini nell’Unione Europea
(2001);
12
adozione il 15 marzo 2001 da parte del Consiglio d’Unione Europea della
Decisione quadro relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale;
il Libro Verde «Risarcimento alle vittime di reati», presentato dalla Commissione
in data 28 settembre 2001, che avviava, come di prassi, “una consultazione con
tutte le parti interessate sulle possibili misure da adottarsi a livello comunitario
per migliorare il risarcimento da parte dello Stato delle vittime di reati all’interno
dell’Unione europea”15.
Infine, dopo questi vari passaggi, il legislatore comunitario è approdato alla citata DIRETTIVA
2004/80/CE del CONSIGLIO del 29 aprile 2004 “relativa all’indennizzo delle vittime di reato”.
Le motivazioni addotte dalla Commissione per l’adozione della direttiva
sono state
essenzialmente le seguenti:
“le vittime di reato nell’Unione europea dovrebbero avere il diritto di ottenere un
indennizzo equo e adeguato per le lesioni subite, indipendentemente dal luogo della
Comunità europea in cui il reato è stato commesso” (considerando n. 6);
poiché “le vittime di reato, in molti casi, non possono ottenere un risarcimento dall’autore
del reato, in quanto questi può non possedere le risorse necessarie per ottemperare a una
condanna al risarcimento dei danni, oppure può non essere identificato o perseguito”
(considerando n. 10), “dovrebbe essere pertanto istituito in tutti gli Stati membri un
meccanismo di indennizzo” (considerando n. 7), tale da garantire i cittadini europei sia nel
proprio Stato di residenza (per i reati ivi commessi) e sia all’estero, qualora colpiti da un
crimine in uno Stato dell’Unione Europea diverso da quello di residenza.
Importante rilevare che il Consiglio dell’Unione Europea segnalava, per l’appunto a
giustificazione dell’intervento in questione, come del resto “la maggior parte degli Stati membri
[avesse] già istituito questi sistemi di indennizzo, alcuni di essi in adempimento dei loro obblighi
derivanti dalla convenzione europea del 24 novembre 1983 sul risarcimento alle vittime di atti di
violenza” (considerando n. 8).
Fulcro della Direttiva 2004/80/CE è il disposto dell’art. 12:
1. Le disposizioni della presente direttiva riguardanti l’accesso
all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere si applicano sulla
base dei sistemi degli Stati membri in materia di indennizzo
15
Nelle conclusioni del Libro Verde la Commissione sottolineò “l’esigenza di cogliere” l’opportunità offerta dalla
consultazione “per fare ulteriori passi avanti nel risarcimento da parte dello Stato delle vittime di reati. Dalla
convenzione europea del 1983, attraverso la quale si è compiuto il primo passo verso una maggiore convergenza su
disposizioni minime, sono stati compiuti notevoli progressi nella comprensione e l’interesse verso la situazione delle
vittime di reati. Allo stesso tempo, l’Unione europea si è prefissata l’obiettivo di creare uno spazio di libertà, sicurezza
e giustizia. Sembra che adesso siano riunite le condizioni per raggiungere, a livello comunitario, obiettivi ambiziosi a
vantaggio delle vittime di reati”.
13
delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei
rispettivi territori.
2. Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative
nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo
delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei
rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed
adeguato delle vittime.
Il comma 2 dell’art. 12 della Direttiva, pertanto, è assolutamente chiaro nel sancire l’obbligo per
gli Stati membri (Italia compresa) di approdare ad un risultato ben preciso, quello consistente
nell’istituzione a favore delle vittime di reati intenzionali violenti, impossibilitate a conseguire
un risarcimento dagli autori delle condotte criminose in questione, di un meccanismo di
“compensation” (così la versione inglese), cioè di un sistema tale da garantire a queste vittime il
diritto alla corresponsione, da parte dello Stato di appartenenza/residenza, di somme risarcitorie
necessariamente “eque ed adeguate” (nella versione francese: “indemnisation juste et appropriée
des victimes”; nella versione inglese : “fair and appropriate compensation”; nella versione
spagnola: “indemnización justa y adecuada por los perjuicios sufridos”).
La Direttiva non precisa quali siano esattamente i contenuti minimi del risarcimento da
riconoscersi in capo alle vittime di reati violenti intenzionali, né i criteri di liquidazione: agli Stati
viene posta unicamente la condizione-risultato che le somme risarcite dal siano eque ed
adeguate, criteri questi che peraltro paiono indicare una natura più risarcitoria che indennitaria
della tutela rimediale apprestata dal legislatore comunitario.
In merito alla scelta tra “indennizzo” e “risarcimento”, che come sappiamo possono dare effetti
molto diversi nella quantificazione, vale la pena rilevare che il Libro Verde della Commissione
Europea, aveva sempre utilizzato, anche nella versione italiana, l’espressione “risarcimento” e che
la stessa traduzione in italiano della Convenzione Europea del 1983 utilizzava quest’ultima
espressione. L’adozione del termine “indennizzo” è quindi il frutto della penna dei traduttori o,
comunque, curatori della versione italiana, non già del legislatore europeo. Del resto, occorre
considerare come nelle versioni inglese e francese non vi è stata alcuna mutazione terminologica
rispetto alle precedenti impostazioni: nella versione inglese si continua ad utilizzare l’espressione
“compensation” e in quella francese il termine “indemnification”, concetti giuridici che, rapportati
al nostro sistema, abbracciano sia la fattispecie del risarcimento che quella dell’indennizzo. Ed è
esattamente in questi ultimi termini che è da interpretarsi la Direttiva in esame, ogniqualvolta,
nella versione italiana, si rinviene il termine “indennizzo”, ossia nel senso di abbracciare sia
l’ipotesi del risarcimento quanto quella dell’indennizzo, fermo restando che i requisiti di equità ed
14
adeguatezza, posti dalla Direttiva quali criteri che devono rispettare le somme allocate dai sistemi
nazionali di tutela delle vittime di reati, sembrano indicare come il modello sia più vicino a
logiche risarcitorie che indennitarie.
Essendo comunque chiaro che il risarcimento deve essere “equo” e “adeguato” e che l’obiettivo
della disciplina è di garantire un risarcimento a quelle vittime impossibilitate a conseguire il
risarcimento dei danni subiti dagli autori materiali della condotta penalmente rilevante, si può
agevolmente dedurre come questo risarcimento debba necessariamente riguardare altresì i
pregiudizi non patrimoniali.
A questo preciso riguardo si osservi che la stessa Relazione esplicativa della Convenzione
Europea del 1983, come già sopra illustrato, ha ammesso la risarcibilità di questi danni in seno al
sistema statale di tutela delle vittime di reati violenti intenzionali. Inoltre, nella maggior parte
degli Stati Membri, che hanno attuato la Direttiva 2004/80/CE, il risarcimento dei danni non
materiali è espressamente ammesso. Sul punto va soprattutto ricordato come la stessa
Commissione Europea, nel Libro Verde del 2001, abbia rilevato quanto segue, indicando una
precisa via, sicuramente utile anche ai fini dell’interpretazione della direttiva stessa: “…se ci si
richiama all’esigenza di adottare il punto di vista della vittima, i danni non materiali non devono
essere trascurati. […] Escludere i danni non materiali creerebbe … grandi differenze tra quello
che la vittima può ottenere dallo Stato. […] … sembrano profilarsi forti motivi per fare rientrare
i danni non materiali nella normativa minima”. Aggiungasi del resto come sostenere in tutta una
serie di casi che la disciplina in esame non contempli anche (anzi, in primis) il risarcimento dei
danni non patrimoniali implicherebbe svuotare il sistema istituito dal legislatore comunitario di
qualsivoglia significato concreto (in altri termini, la protezione risarcitoria si ridurrebbe a ben poca
cosa, contrariamente alle finalità perseguite dall’Unione Europea).
2- LA MANCATA ADOZIONE DA PARTE DELLO STATO ITALIANO DELLA
TUTELA RIMEDIALE PREDISPOSTA DALLA DIRETTIVA 2004/80/CE
Il diritto al risarcimento dei danni sancito dal legislatore comunitario in seno alla Direttiva
2004/80/CE non ha avuto attuazione dallo Stato italiano, che non si è ancora dotato di un sistema
di risarcimento/indennizzo nazionale previsto dall’art. 12, comma 2, della Direttiva, né tale
carenza è stata superata con l’emanazione del d.lgs. 9 novembre 2007 n. 20416. Infatti, questo
provvedimento, seppur intitolato «Attuazione della direttiva 2004/80/CE relativa all’indennizzo
16
Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 261 del 9 novembre 2007 – Supplemento ordinario n. 228.
15
delle vittime di reato», non ha istituito, come la Direttiva imponeva, un sistema nazionale di
risarcimento delle vittime dei reati in questione.
Basta scorrere il testo di questo decreto legislativo in questione per rendersi conto come l’art. 12,
comma 2, della Direttiva non sia stato in alcun modo contemplato, né si può considerare che ciò
dipenda dall’esercizio da parte del legislatore delegato nostrano dei margini di discrezionalità che
le direttive normalmente lasciano in capo agli Stati membri in sede di attuazione.
Nello specifico il Governo italiano, con una scelta ben precisa (estremamente riduttiva rispetto
agli scopi perseguiti dalla Direttiva) e pur nella consapevolezza di non avere ratificato la
Convenzione Europea del 1983 (dunque, di essere già ampiamente in difetto nella protezione
delle vittime di reati intenzionali e violenti), ha ritenuto la sufficienza, ai fini dell’attuazione della
Direttiva, delle disposizioni emanate nel passato in Italia a favore di determinate vittime di
crimini, posizione del resto già sostenuta, senza successo, avanti la Corte di Giustizia nella causa
C-112/07 terminata con la condanna dell’Italia con sentenza del 29 novembre 2007, in cui la
Repubblica Italiana si era difesa osservando “che determinate leggi già vigenti nell’ordinamento
giuridico italiano prevedono l’indennizzo delle vittime di atti di terrorismo e della criminalità
organizzata nonché delle vittime di richieste estorsive e di usura”.
Questa scelta del Governo italiano, riduttiva e volta al risparmio, è, tuttavia, palesemente
contraria a quanto disposto dalla stessa Direttiva, perché, se è vero che alcune nostre leggi,
emanate precedentemente alla Direttiva, prevedono interventi economici a carico dello Stato a
favore di talune vittime di reati (peraltro in tutta una serie di casi senza prevedere un equo ed
adeguato risarcimento/indennizzo), tuttavia ciascuna di queste norme è ritagliata ad hoc per
determinate e circoscritte categorie di vittime - peraltro con trattamenti tra loro differenziati
quanto all’estensione dei risarcimenti/indennizzi accordati (dunque, con la prospettiva di una
discriminazione tra vittime non ammessa dall’ordinamento comunitario), alcune delle quali
(vittime dei reati di usura ed estorsione) neppure rientranti nella nozione di vittime di “reati
violenti” -, con la conseguenza che - in senso contrario agli obiettivi della Direttiva e dell’art.
12 della stessa - tutta una serie vittime di reati violenti ed intenzionali decisamente gravi (si
pensi ai casi di omicidio non ricollegabili a fenomeni di terrorismo o di mafia, oppure allo
stupro) rimangono indubbiamente escluse dalla tutela apprestata dalla direttiva.
I casi di stupro sono emblematici quanto all’inadempimento dello Stato italiano: come risulta
confermato dalla comparazione delle varie schede pubblicate sul «Judicial Atlas - Compensation
to Crime Victims», accessibile sul sito della Commissione Europea, in tutti gli Stati membri
dell’Unione Europa (ivi compresi quelli che non hanno ancora ratificato la Convenzione
Europea del 1983), ad eccezione delle sole Grecia ed Italia, tutte le vittime di crimini
16
implicanti violenze sessuali sono tutelate in conformità a quanto statuito dalla Direttiva
2004/80/CE, essendosi negli ultimi anni adeguate agli obiettivi comunitari anche Lituania,
Lettonia, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria e Bulgaria. In altri termini, il trattamento, a
livello di tutela risarcitoria statale, oggi riservato dallo Stato italiano alle donne stuprate in
Italia17 - siano esse residenti oppure turiste o lavoratrici di altri Paesi - risulta palesemente
carente rispetto agli altri Stati Membri dell’Unione Europea, con evidente discriminazione di
chi abbia la sventura di subire violenze di questo tipo nel nostro Paese rispetto a chi sia colpito
dagli stessi eventi in altri Stati dell’Unione Europea (discriminazione manifestazione contraria
agli obiettivi della Direttiva, imperniati sulla libera e sicura circolazione delle persone
nell’Unione Europea).
3-LE CONSEGUENZE A CARICO DELLO STATO ITALIANO PER L’OMESSA
ADOZIONE DELLA DIRETTIVA 2004/80/ CE
Il cittadino italiano, dinanzi a situazioni di gravi omissioni da parte del proprio legislatore
nell’assolvimento dei suoi obblighi sorgenti dalla partecipazione all’Unione Europea, dispone,
laddove pregiudicato dall’inadempimento del proprio Stato, di un solo strumento di tutela
rimediale: l’affermazione, per via giudiziaria, della responsabilità civile dello Stato
inadempiente e la condanna di quest’ultimo al risarcimento dei danni.
La ravvisabilità di una siffatta responsabilità civile dello Stato sembra ormai pacifica sia nella
giurisprudenza comunitaria e sia nella giurisprudenza italiana ed essa è sicuramente ravvisabile
nei casi di violazione da parte dello Stato italiano del diritto delle vittime di reato violento al
risarcimento dei danni.
Sul punto occorre segnalare la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, come noto
determinante in materia, la quale fa derivare la responsabilità civile degli Stati membri dall’art. 10
del Trattato CE (oggi art. 4 Trattato UE) che impone agli Stati di adottare “tutte le misure di
carattere generale e particolare” finalizzate agli scopi del Trattato, nonché, per quanto concerne
nello specifico la mancata o tardiva attuazione di direttive, dall’obbligo per gli Stati membri di
raggiungere il risultato prefissato dalle direttive (Art. 249, comma 3, del Trattato CE, oggi Art.
288 Trattato UE: “La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il
risultato da raggiungere, salvo restando la competenza degli organi nazionali in merito alla
forma e ai mezzi”).
17
Si rileva che il 31,9% delle donne italiane hanno subito violenza fisica o sessuale (Fonte: Ministero dell’Interno, dato
del 2006).
17
Sulla posizione della Corte di Giustizia CE si può succintamente ricordare come abbia costituito
un vero e proprio punto di svolta l’ormai storica sentenza Francovich c. Repubblica Italiana e
Bonifici c. Repubblica Italiana (Corte di Giustizia CE, 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e
C-9/90): in questa occasione, infatti, i giudici europei, peraltro proprio con riferimento allo Stato
italiano, affermarono a chiare lettere la configurabilità della responsabilità civile degli Stati
membri per il mancato adeguamento della normativa interna alle disposizioni degli organi
comunitari: poiché “il Trattato CEE ha istituito un ordinamento giuridico proprio, integrato
negli ordinamenti giuridici degli Stati membri che si impone ai loro giudici, i cui soggetti sono
non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini e che, nello stesso modo in cui impone ai
singoli degli obblighi, il diritto comunitario è altresì volto a creare diritti che entrano a far parte
del loro patrimonio giuridico”, “il diritto comunitario impone il principio secondo cui gli Stati
membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario
ad essi imputabili”. Più nello specifico, fu statuito che, “qualora … uno Stato membro violi
l’obbligo, ad esso incombente in forza dell’art. 189, terzo comma, del Trattato, di prendere tutti i
provvedimenti necessari a conseguire il risultato prescritto da una direttiva, la piena efficacia di
questa norma di diritto comunitario esige che sia riconosciuto un diritto al risarcimento”.
In altri termini, sottolineandosi l’obbligo, del tutto pacifico ed incontrovertibile, degli Stati
aderenti alla Comunità ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad
assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dalla partecipazione alla Comunità, fu riconosciuta
dalla Corte di Giustizia a favore dei cittadini europei non solo la titolarità dei diritti nascenti
dall’istituzione dell’ordinamento comunitario, ma altresì lo specifico diritto a vedere recepita
dallo Stato di appartenenza la normativa comunitaria, con conseguente diritto al risarcimento
del danno in caso di inadempimento del legislatore nazionale, ritenendosi questa soluzione
imprescindibile, essendo che altrimenti “sarebbe inficiata la tutela dei diritti riconosciuti se i
singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una
violazione di diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro”.
Successivamente la stessa Corte di Giustizia è ritornata in più occasioni a ribadire il suo
orientamento: “il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da
violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato” (così, ex
plurimis, Palmisani c. Inps e altri, Corte giustizia CE, 10 luglio 1997, procedimento C-261/95, in
Riv. It. Dir. Pubbl. Comunitario, 1998, 509).
La giurisprudenza italiana, dopo alcuni tentennamenti iniziali e talune resistenze, ha recepito
integralmente i dettami della Corte di Giustizia CE, come conferma la recente Cass., Sez. III, 12
febbraio 2008, n. 3283, in cui si è ribadito come la “mancata tempestiva attuazione delle
18
[direttive comunitarie] a livello interno” possa dare luogo ad un danno tale da costituire “una
conseguenza immediata e diretta (art. 1223 cod. civ.) dell’illecito (art. 2043 cod. civ.) integrato
dalla violazione, da parte dello Stato italiano, degli obblighi derivanti dal Trattato”.
Questa sentenza ultima non ha ovviamente mancato di richiamarsi al precedente, fondamentale nel
panorama italiano, recato da Cass., Sez. III, 16 maggio 2003, n. 7630, che, ricordato
l’orientamento della Corte di Giustizia CE ed in aderenza allo stesso, ha affermato la “risarcibilità
del danno subito dal singolo in conseguenza di violazione delle norme comunitarie da parte del
legislatore per mancata attuazione di direttiva non autoesecutiva, in ambedue le ipotesi di
unione di un diritto soggettivo di un interesse legittimo”, e cioè, come precisato dalla massima
ufficiale, “sia che l’interesse leso giuridicamente rilevante sia qualificabile come interesse
legittimo sia come diritto soggettivo”18.
18
Nel caso della direttiva n. 80/2004, non vi è ombra di dubbio, come si ricava dalla stessa direttiva (cfr., ad esempio,
il considerando n. 6), che si sia dinanzi ad un vero e proprio “diritto” delle vittime di reato “di ottenere un indennizzo
equo e adeguato per le lesioni subite”.
19