Interventi al convegno A Quale prova per il risarcimento del danno
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Interventi al convegno A Quale prova per il risarcimento del danno
Gli interessi civili nel processo penale Torino, 13 novembre 2008 Marco Bona Interventi al convegno A Quale prova per il risarcimento del danno non patrimoniale? Sentenze SS.UU. 26972/26973/26974/26975 del 11 novembre 2008 Il danno non patrimoniale, che derivi da reato o dalla lesione di diritti inviolabili della persona, è categoria che si riferisce ai pregiudizi ammontanti a “danni conseguenze” (conseguenze in termini di pregiudizi naturalisticamente intesi). Questi pregiudizi devono essere: 1) allegati; 2) provati. Rilevano tutti i pregiudizi non pecuniari naturalisticamente intesi? Per le Sezioni Unite la risposta è negativa (in senso, forse, eccessivamente restrittivo). Vengono individuati 2 limiti: 1) condizioni di risarcibilità (ravvisabilità di una fattispecie che permette il risarcimento; restrizione su vari fronti, sia extracontrattuale e sia contrattuale) 2) ulteriore limite: la “gravità dell’offesa” (dovere di tolleranza, dunque no ai pregiudizi “futili”). [N.B.: le SS.UU., sul versante civilistico, hanno letteralmente inventato una serie di limiti non previsti da alcuna norma: ad es., sicuramente fondato è il richiamo alla Costituzione, ma non già la delimitazione ai soli diritti inviolabili; priva di fondamento è la condizione della “gravità dell’offesa”: se il pregiudizio ontologicamente sussiste ed è stata lesa una posizione costituzionalmente garantita oppure, in campo contrattuale, un interesse dedotto in contratto o deducibile da questo o vi è dolo contrattuale, esso dovrebbe essere risarcito]. 1 Sul versante penale il danno non patrimoniale è sempre risarcibile, laddove sia ravvisabile una fattispecie di reato (ciò, come confermato dalle Sezioni Unite, a prescindere che il reato abbia leso diritti inviolabili della persona). Risolte le questioni della risarcibilità del danno non patrimoniale, ai fini del risarcimento, possono rilevare tutti i pregiudizi (biologici, esistenziali e morali): la loro risarcibilità, a questo punto, dipende solo dalla prova. Principi generali sulla prova SS.UU. A. No al danno evento B. No al “danno in re ipsa” (in quanto il risarcimento “verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”) Sul danno in re ipsa Morena Belli Valletta e altri c. Monte dei Paschi di Siena1 e Cancani c. Paglierini2: sostenere che il danno è in re ipsa non comporta negare la distinzione ontologica tra lesione di un determinato valore, inteso come bene protetto dall’ordinamento, e la conseguenziale perdita (o diminuzione) dello stesso, ma solo assumere che provata la prima risulta provata anche la seconda, secondo criteri di tipo presuntivo ed indiziario. E’ ancora possibile operare questo ragionamento probatorio? In realtà sì, ma con le dovute accortezze: ossia il magistrato non deve omettere nella motivazione il ricorso al ragionamento probatorio-presuntivo. Ciò premesso, il principio base cui fare riferimento rimane indubbiamente quello della prova specifica del pregiudizio subito, criterio sancito dall’art. 2697 c.c., in base al quale chi vuol far valere in giudizio un diritto è tenuto a provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Questo, però, è un principio che è soggetto, nella maggior parte dei casi di danni areddituali, a stemperarsi notevolmente attraverso due meccanismi che possono a pieno titolo intervenire nella gestione dei profili probatori del danno non patrimoniale: il ricorso alle presunzioni (artt. 2727 e 2729 c.c.) 1 2 Cass., sez. III, 3 aprile 2001, n. 4881, in Guida al diritto, 2001, n. 19, 58. Cass., sez. III, 10 maggio 2001, n. 6507, in Guida al diritto, 2001, n. 21, 32. 2 il ricorso al fatto notorio (art. 115, 2° comma, c.p.c.) (id quod plerumque accidit). Altro principio sicuramente fondamentale discende dall’art. 1226 c.c., per cui, “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”. Siffatto principio, richiamato dall’art. 2056 c.c., evidentemente incide non solo sulla liquidazione, ma anche sulla prova dell’entità del danno non patrimoniale, imponendo al magistrato (il danno “è” liquidato, non già il giudice “può”) di colmare, con apprezzamento equitativo, le lacune sussistenti al fine di una precisa determinazione del quantum, laddove, ovviamente, queste siano risultate inevitabili per la vittima. Elenco dei mezzi di prova Le Sezioni Unite hanno distinto fra: 1) danno biologico; 2) pregiudizi non biologici 1) Danno biologico: accertamento medico legale SS.UU. “Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (artt. 138 e 139 d. lgs. N. 209/2005) richiede l’accertamento medicolegale” (“si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre”. In realtà, la valenza probatoria dell’accertamento medico legale è limitata sia dal punto di vista giuridico che scientifico. Limiti scientifici Esempio: l’accertamento medico legale del danno biologico permanente da “colpo di frusta”, laddove difettino dati comprovabili obbiettivamente, risulta connotato da un elevato grado di soggettività3, con la conseguenza che dal punto di vista medico legale, tolti alcuni casi, non vi può essere scientifica certezza sulla reale sussistenza della micropermanente in questione, ma, semmai, verosimiglianza e plausibilità. Ciò però – è bene precisarlo - non significa affatto che il campo in esame si contraddistingua per una sostanziale “ascientificità nelle valutazioni”4: come opportunamente puntualizzato dalla dottrina medico legale5 il fatto che vengano in rilievo alterazioni percepibili soltanto sul piano semeiologo fisico e sintomi che 3 Il punto è sottolineato da tutta la letteratura medico legale. E’ stato rilevato che solo nel 18% dei casi il paziente si presenta al medico legale con una realtà obiettiva già documentata; per il rimanente 82%, solo nel 35% dei casi il silenzio obiettivo iniziale è risultato giustificato da carenti accertamenti ed è stato possibile riscontrare esiti anatomici delle parti molli con la xerografia o radiografie con proiezioni particolari: cfr. L. PALMIERI e P. PAGLIUSO, Soggettività ed indennizzabilità: il rachide cervicale, in La valutazione del danno alla persona da invalidità permanente, a cura di M. CANALE e A. GIANELLI CASTIGLIONE, Milano, 1990, 239-240. 4 Così, invece, G.d.P. Foggia, 14 marzo 2002, Est. Carrillo, in Arch. Giur. Circolaz., 2002, 871. 5 F. BUZZI, “Riconoscimento e valutazione del colpo di frusta” – La posizione del CTU medico legale, in Il colpo di frusta cervicale- Dalla clinica alla valutazione medico-legale, a cura di S. LAFISCA & L. RICCIARDI, Milano, 1999, 435. 3 sfuggono alla ricognizione strumentale non toglie che questi esiti possano essere riscontrati, ancorché con le dovute cautele, alla visita medica e risultino scientificamente plausibili sul piano delle conoscenze fisio-patologiche e delle osservazioni clinico-statistiche. Inoltre, l’elevata soggettività non implica che l’accertamento medico legale si regga solo su quanto dichiarato dal periziato e su una valutazione esclusivamente soggettiva da parte del medico legale delle affermazioni rese dalla vittima: in sede di anamnesi, ad esempio, il medico legale può verificare la compatibilità di quanto riferito dall’interessato con il quadro clinico, con le circostanze riportate nei referti e nelle relazioni scritte, con la possibilità di individuare eventuali incongruenze; in occasione dell’esame obiettivo il medico legale è in grado di differenziare la contrattura muscolare dalla contrazione volontaria6. Le perizie medico legali sono più una questione di valore persuasivo delle stesse Limiti giuridici La consulenza costituisce fonte oggettiva di prova solo quando il consulente accerta fatti (consulente percipiente), non già quando li valuta (consulente deducente): la consulenza tecnica non costituisce in linea di massima mezzo di prova bensì strumento di valutazione della prova acquisita, ma può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova quando si risolve nell'accertamento di fatti rilevabili unicamente con l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (così, ad esempio, Cass. civ., Sez. III, 19/01/2006, n.1020). Dunque cautela nel ritenere che la prova del danno biologico sia medico legale Le stesse Sezioni Unite hanno specificato che: 1) “la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario” 2) rimane “nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico” 3) “del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perché deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni! N.B. (1) vanno tenuti disgiunti due diversi ambiti: 6 Su questi ed altri punti relativi all’accertamento medico legale della distorsione del rachide cervicale cfr. amplius, AMERICAN MEDICAL ASSOCIATION, Guida alla valutazione dell’invalidità permanente, a cura di L. COCCHIARELLA e G. B. J. ANDERSSON, 5° ed. americana (traduzione a cura di S. Jourdan), Torino, 2004, 374 e ss. 4 da un lato, la prova dei «profili statici» del danno biologico, relativi al tipo ed al grado di alterazione dell’integrità psicofisica subita dal danneggiato, prova che generalmente richiede una competenza medica; dall’altro lato, la prova dei c.d. «profili dinamici» (e/o “pregiudizi esistenziali”) del danno biologico, non dipendente dal contributo medico legale, il quale al massimo può fornire una valutazione sull’incidenza delle lesioni personali su tutta una serie di attività, lavorative ed extralavorative, generiche e specifiche, rientranti nel bagaglio esistenziale, passato e futuro, della vittima N.B. (2) Il giudicante rimane perito peritorum, e cioè può sempre decidere di subentrare al consulente nella valutazione medico legale che conduce al riconoscimento dell’esistenza del danno biologico e delle sue incidenze sulla sfera personale della vittima. Soprattutto sul versante del danno biologico di natura psichica, del danno biologico temporaneo e delle lesioni lievissime7 il giudice, adeguatamente motivando (anche ricorrendo al criterio indicato dall’art. 1226 c.c.), può ben giungere a qualificare i pregiudizi subiti dal danneggiato come “danno biologico”, oppure può spingersi a ritenere ravvisabili e riconducibili entro siffatta categoria gli eventuali profili “dinamici” della lesione sfuggiti al vaglio del proprio consulente, autonomamente valutando la documentazione medica prodotta dalla vittima, nonché (e, in taluni casi, soprattutto) le altre prove, anche testimoniali, acquisite in relazione ai diversi pregiudizi subiti dal danneggiato (prove spesso non considerate dai consulenti, o in quanto acquisite successivamente all’espletamento della consulenza tecnica oppure in quanto, più semplicemente, trascurate). In merito alla possibilità del magistrato di farsi carico di valutare per suo conto il materiale probatorio a disposizione, abbiamo già avuto occasione di ricordare come il Tribunale di Torino, in Fassina ed altri c. Bonelli ed Augusta Assicurazioni S.p.A.8, abbia ritenuto risarcibile il danno biologico (psichico) temporaneo sulla base dello stato di depressione in cui si erano venuti a trovare i danneggiati in seguito alle gravi lesioni occorse ad un loro congiunto, pur avendo i consulenti tecnici d’ufficio escluso la ravvisabilità del danno biologico sia sotto il profilo dell’invalidità temporanea che di quella permanente. Parimenti, la Sezione Lavoro del Tribunale di Torino, in Erriquez c. Ergom Materie Plastiche S.p.A. e in Stomeo c. Ziliani S.p.A.9, ha ritenuto ravvisabile il danno biologico temporaneo da mobbing, pur in assenza di uno specifico contributo medico-legale in tal senso e sulla sola scorta delle prove 7 Sul punto è stato osservato che “in alcuni casi limite il danno ben può essere apprezzato e liquidato equitativamente, anche senza l’intervento del medico legale: ad esempio, nei casi di lesioni lievissime, documentate da un solo referto e prive di storia clinica successiva (lievi contusioni, lievi ecchimosi, piccole ferite lacero-contuse, e simili; sui casi in cui può essere superfluo o inammissibile il ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio medico legale …)”, ROSSETTI, Il danno da lesione della salute, Padova, 2001, 334. 8 Trib. Torino, 15 febbraio 2001, n. 1293, in Giur. It., 2002, 953, con nota di BONA. 9 Trib. Torino, sez. lav., 16 novembre 1999 e Trib. Torino, sez. lav., 30 dicembre 1999, in MONATERI, BONA e OLIVA, Mobbing – Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000, 205 ss. 5 testimoniali e della documentazione medica, che avevano evidenziato dei periodi di malattia, oltre stati di insonnia ed ansia, sindromi ansioso-depressive e crisi di pianto. In effetti, come già si sostenne in altra sede10, non pare del tutto peregrino sostenere che il danno biologico temporaneo possa essere individuato dal giudice senza necessariamente ricorrere all’ausilio del medico-legale: la vera prova, infatti, risiede nella documentazione medica attestante i ricoveri oppure nelle certificazioni comprovanti la somministrazione di farmaci, così come le prescrizioni di periodi di riposo. In breve, se la matrice medico-legale del danno biologico è un dato da cui non si può più prescindere, pur tuttavia esso non può tradursi in un’invalicabile limitazione al potere discrezionale del magistrato anche con riguardo alla valutazione delle prove; semmai, il giudicante sarà ovviamente chiamato a motivare eventuali scelte compiute equitativamente (art. 1226 c.c.) e che si discostino dalle indicazioni ricevute dai consulenti. Si aggiunga poi che dalla tipologia della lesioni psicofisica occorsa al danneggiato, posta a confronto con altri dati fattuali (ad esempio, l’età della vittima, oppure la sua attività o il suo sesso, la composizione della sua famiglia, ecc.), il giudicante, facendo ricorso agli schemi tipici della prova presuntiva, ben può sviluppare propri convincimenti sull’esistenza ed entità dei profili dinamici del danno biologico: ciò sia che il medico-legale abbia fornito un suo contributo sul punto oppure si sia limitato al mestiere del mero “conta dita”. E il magistrato ben può spingersi a ritenere dimostrati in re ipsa tutta una serie di pregiudizi “biologicoesistenziali” (la vittima che si trovi in uno stato vegetativo evidentemente non potrà più svolgere qualsivoglia attività; un padre privato di un arto incontrerà non pochi problemi a prendere in braccio il proprio figlioletto, senza che sia necessario dimostrare che effettivamente prima lo faceva, ecc.). 2) Mezzi di prova dei pregiudizi non biologici SS.UU. “Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva”. SS.UU. attribuiscono particolare rilevanza della prova presuntiva: “Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, è potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri … Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ingiusto” Questa costituisce invero solo una conferma (cfr., ad esempio, Cass. civ., Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546). 10 Cfr. BONA, Danno biologico, in MONATERI, BONA, OLIVA, PECCENINI, TULLINI, Il danno alla persona, Torino, 2000, Tomo I, 38. 6 ….. E PER LE PERSONE GIURIDICHE? Cassazione - Sezione prima civile - 2 luglio 2008, n. 18153 “anche per le persone giuridiche, il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è, tenuto conto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, e non diversamente da quanto avviene per gli individui persone fisiche, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri; sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimonia1e in re ipsa - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla ragionevole durata del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non sussistano, nel caso concreto, circostanze particolari, le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dalla ricorrente”. B IL DOLO PUO’ RILEVARE IN SENO ALLA PERSONALIZZAZIONE DEL DANNO NON PATRIMONIALE? Vi sono vicende di cronaca (si pensi, ad esempio, al caso torinese dei lavoratori della Thyssen oppure agli investimenti di pedoni da parte di conducenti che hanno abusato di alcol; si consideri altresì i danni subiti su larga scala da consumatori ed investitori per effetto di strategie di grandi imprese che, per ragioni di profitto, consegnano intenzionalmente prodotti viziati) che pongono alcuni interrogativi circa pregi e lacune dell’attuale sistema risarcitorio, così come riscritto negli ultimi anni dalla giurisprudenza e dalla dottrina in chiave squisitamente “riparatoria”. In particolare, emergono alcuni dubbi sulla reale capacità del sistema della responsabilità civile di assolvere alla funzione, che da tempo le è stata riconosciuta (non solo in Italia), di disincentivare determinate condotte, se non di sanzionarle. Il riferimento è in particolare ai casi in cui l’agente non cagiona il danno per un tragico momento di disattenzione o per una deviazione dai comportamenti esigibili dovuta ad una superficialità nella previsione del danno, ma in quanto ha agito con consapevolezza delle conseguenze, e cioè o si è posto volontariamente nelle condizioni di nuocere (l’autista impregnato di alcol), oppure ha voluto con tutto se stesso il danno del suo prossimo, magari programmandolo con cura o attuandolo con efferatezza o con suo piacere, od ancora ha fatto i suoi calcoli ed ha compiuto delle scelte ben precise, mettendo in bilancio il danno del prossimo, talvolta anche dagli esiti gravi. 7 In particolare vi è da chiedersi se in questi casi, atteso che la mera allocazione di “danni puramente compensativi” rischia di non attuare la funzione essenziale della RC di prevenire il costo degli incidenti, sia possibile “aggiungere” un quid pluris al risarcimento del danno, che sia effettivamente tale da scoraggiare per il futuro determinate condotte, rendendole economicamente non convenienti. Vi è altresì da domandarsi, laddove non si tratti di scoraggiare condotte future se sia possibile sanzionare civilisticamente le condotte intenzionali o particolarmente efferate. Il legislatore del ’42, invero, nella Relazione al Re sul Codice Civile inquadrò il danno non patrimoniale come una forma di sanzione civile, tant’è che la ancorò alle fattispecie di reato: con il risarcimento del danno non patrimoniale l’ordinamento doveva reagire non già a determinati pregiudizi in concreto subiti dalle vittime, ma a specifiche e qualificate condotte penalmente rilevanti. Il danno non patrimoniale dipendeva dalla gravità della condotta, non già tanto dei danni. Nondimeno, questa visione del danno non patrimoniale, sicuramente insoddisfacente e vetusta sul piano della riparazione dei danni effettivamente patiti dai danneggiati, è poi caduta nel dimenticatoio. I benefici dello smantellamento della lettura tradizionale dell’art. 2059 c.c. sono stati, sul versante civilistico, per certo notevoli e non occorre qui enunciarli: basti pensare all’esperienza del danno biologico. Ma forse sarebbe stato opportuno continuare a riflettere con la dovuta attenzione sulle altre funzioni della tutela risarcitoria, ricordandosi come del resto la dottrina (ma anche la giurisprudenza) abbia sempre individuato, come tuttora (basti leggere i primari trattati in materia), tre funzioni principali di siffatta protezione rimediale11: la funzione compensativa, quella sanzionatoria12, e quella preventiva. Oggi il tema del danno punitivo non vive comunque una stagione particolarmente propizia: il danno punitivo è stato associato al sistema statunitense e di questo modello, complice la disinformazione prodotta anche da taluni giuristi, si è fornita spesso un’immagine distorta, ove il danno punitivo sarebbe oltreoceano fonte di disastri e sconquassi, emblema di una giustizia da non imitare. Invero, negli USA il danno punitivo, riconosciuto peraltro in un numero ristretto di casi, è servito a sanzionare condotte decisamente censurabili poste in essere, con dolo, da grandi imprese calcolatrici e alla ricerca di profitti ingiusti. Non bisogna, dunque, farsi ingannare dalla mitologia che si è sviluppata sul sistema statunitense, fermo restando che vi sono delle diversità tra quell’ordinamento e il nostro (ad esempio, la giuria) che rendono per certo difficile immaginare una trasposizione diretta di quel modello nel sistema risarcitorio italiano. L’ipotesi del danno punitivo, nonostante la sua “cattiva immagine”, è stata comunque considerata recentemente da una parte del nostro Parlamento in seno a talune proposte sulla class action. Al riguardo va debitamente ricordato che nel corso della XV legislatura sono stati avanzati vari progetti (i Disegni di legge Camera dei Deputati nn. 1834, 1330, 1443 e 1882, tutti presentati nel corso del 2006 e sostanzialmente coincidenti nei contenuti) inequivocabilmente schierati a sostegno 11 Cfr. sul punto G. ALPA, M. BESSONE e V. ZENO ZENCOVICH, 1995, 26 ss. Su cui cfr. P. CENDON, Il profilo della sanzione nella r. c., a cura di P. CENDON, La responsabilità extracontrattuale, Milano, 1994, 71 ss. 12 8 dell’introduzione nel nostro ordinamento di un modello molto simile a quello della class action statunitense, a tal punto da prevedere espressamente il risarcimento del danno punitivo, da liquidarsi in misura “pari al vantaggio economico derivante [in capo al convenuto] dagli illeciti plurioffensivi accertati”. Tuttavia la prospettiva della class action ispirata al modello USA è stata rigettata per dare vita ad un modello di tutela collettiva (l’azione collettiva risarcitoria) decisamente più blando, in primis verso le imprese. Come noto, in tempi recenti la Cassazione13 a sua volta ha rigettato l’idea del danno punitivo, rilevando che essa sarebbe “estranea alla responsabilità civile”, essendo il risarcimento del danno fondato esclusivamente sull’esistenza di una lesione e sulla prova delle conseguenze pregiudizievoli sofferte dal danneggiato. Secondo questa decisione, ai fini del risarcimento rimangono indifferenti la condotta del danneggiante, lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell’obbligato. Va però osservato come si tratti di un precedente che, riguardando peraltro la delibazione di una sentenza targata «USA» e dunque di un danno punitivo effettivamente estraneo alle nostre logiche, non appare decisivo sulla questione in esame, ricordandosi soprattutto al riguardo come in diverse altre sentenze (del resto, in conformità con il richiamo all’art. 185 c.p.c.) la stessa Cassazione abbia riconosciuto e perorato la possibilità di considerare in seno alla liquidazione del danno non patrimoniale la gravità della condotta tenuta dal responsabile: “Nella liquidazione equitativa del danno non patrimoniale derivante da fatto illecito, deve tenersi conto della gravità dell'illecito penale e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso specifico. Ne consegue che il ricorso da parte del giudice di merito al criterio della determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno morale in una frazione dell'importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico, non è di per sé illegittimo, a condizione che si tenga conto delle peculiarità del caso concreto, effettuando la necessaria personalizzazione del criterio alla specifica situazione, ed apportando, se del caso, i necessari correttivi, senza che la liquidazione del danno sia rimessa ad un puro automatismo”14. Premesso questo quadro, ove non vi è in realtà ancora nulla di decisivo né in un senso e né nell’altro, può essere utile porre sul tavolo alcuni spunti per un discorso concettualmente diverso dal danno punitivo secondo il modello USA. In particolare, si può qui rilevare come non manchi la possibilità di sviluppare una serie di logiche a favore di un risarcimento che permetta al magistrato, secondo i principi del nostro ordinamento, di considerare adeguatamente, in seno alla definizione ed alla liquidazione dei danni, la gravità di particolari condotte e cioè di dare luogo, in alcuni casi, ad una reazione da parte della responsabilità civile effettivamente idonea a promuovere nuovi e più che opportuni incentivi alla prevenzione di determinati eventi dannosi, soprattutto quelli gravi e più contrari al 13 14 Cass., Sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183, in Resp. civ. e prev., 2007, 9, 1890, in Resp. civ. e prev., 2007, 10 2100. Cass., Sez. III, 25 maggio 2004, n. 10035, in Danno e resp., 2004, 1065. 9 rispetto dei più basilari diritti dell’uomo, oppure quelli che, prodotti da condotte intenzionali e rivolte al profitto, colpiscono su larga scala. Quali sono queste logiche che potrebbero mettere in grado il magistrato di incrementare in misura confacente il quantum debeatur in questi casi? Tale incremento potrebbe invero trovare le sue ragioni: o in primis, nella constatazione, effettuata anche in giurisprudenza (si pensi al Caso Gucci deciso dal Tribunale di Milano ove si incrementò il quantum del danno non patrimoniale subito dalla convivente dell’assassinato nella misura di 50.000,00 in considerazione della particolare efferatezza dell’omicidio), che la condotta, per le sue caratteristiche particolarmente riprovevoli, ha aggravato nel danneggiato il senso dell’ingiustizia subita e, dunque, il suo turbamento e la sua offesa morale (maggiore è l’evitabilità di una morte, più elevata è la difficoltà ad accettarla) (in questi termini si potrebbe parlare allora di “danno aggravato dalla condotta”); o in secondo luogo nell’esigenza che, laddove emergano violazioni significativamente riprovevoli e di elevato disvalore sociale, il risarcimento del danno, una volta individuate le somme da risarcirsi secondo i consueti criteri riparatori (ormai standardizzati, prevedibili dall’impresa, suscettibili di analisi costi-benefici nella prevenzione degli infortuni e, sempre in questa prospettiva, assicurabili), debba differenziarsi a seconda della particolare gravità della condotta, ciò onde: 1) scongiurare che - contrariamente a quanto statuito all’art. 3 Cost. - azioni od omissioni, tra loro diverse quanto ad evitabilità e prevenibilità dell’evento dannoso, siano poste sullo stesso piano, con conseguente depotenziamento della funzione preventiva (o di “deterrence”) del sistema risarcitorio (“danno commisurato alla gravità della condotta” o “danno precauzionale”); 2) rendere possibile alla tutela risarcitoria - in piena conformità con gli obiettivi dell’ordine pubblico e di promozione della tutela dei diritti fondamentali - di segnalare ai consociati il particolare disvalore sociale di determinate condotte in un determinato momento storico (“danno esemplare”); 3) sempre in ragione dell’art. 3 Cost., evitare che la condanna al risarcimento del danno, quale meccanismo che interviene a sanzionare il responsabile civile, esprima sanzioni uguali pur a fronte di condotte di gravità diversa, e cioè far sì che la condanna risarcitoria costituisca una sanzione corretta e proporzionata al livello di antigiuridicità della condotta (“danno punitivo costituzionalmente necessitato”). In realtà, al magistrato non dovrebbe essere del tutto precluso di svolgere considerazioni di questo tipo, sol considerandosi che il medesimo si trova a liquidare il danno con valutazione equitativa, la quale implica un apprezzamento di tutte le circostanze del caso (artt. 1226 e 2056 c.c.). In altri termini, si potrebbe inquadrare l’incremento in questione, retto sulle considerazioni di cui sopra, quale contenuto di un “secondo livello della personalizzazione” (ossia della valutazione in via equitativa). In seno al primo livello il danno di base viene personalizzato in considerazione dei pregiudizi subiti dal soggetto; entro il secondo livello il magistrato personalizza ulteriormente il danno in considerazione delle peculiarità della condotta 10 subita dal soggetto, atteso che per certo l’offesa è maggiore per il danneggiato, che sia stato vittima di una condotta intenzionale o comunque accettata dal responsabile civile in vista di un profitto, e che sarebbe discriminatorio e insensato ai fini della responsabilità civile trattare allo stesso modo un soggetto che ha cagionato un danno quasi per sventura (un maledetto momento di disattenzione o di imprudenza, od ancora un errore umano in ambiti delicati e sempre a rischio, come nel caso di tutta una serie di attività mediche) e un soggetto che ha agito con dolo o messo in bilancio di cagionare un danno. In definitiva, non pare insensato sostenere che un giudice possa considerare, attraverso questo meccanismo e sulla base di questi ragionamenti, la gravità della condotta o gli obiettivi (un ingiusto profitto a danno di terzi) della stessa. Una soluzione chiusa a questa prospettiva presenta il rischio di sminuire eccessivamente il ruolo che la nostra società riconosce alla responsabilità civile. In particolare, due sono i rischi: 1) che la prospettiva del risarcimento del danno non incuta alcun timore a chi può permettersi di assicurarlo od internalizzarlo tra i costi della propria attività; 2) che il responsabile, il quale abbia agito intenzionalmente, paghi allo stesso modo di chi è incorso in una colpa eventualmente lieve. Si aggiunga infine la seguente considerazione: una sentenza che consideri questi profili recherebbe, in termini di giustizia, un messaggio più pregnante e ricco di significati non solo per le vittime, ma anche per i consociati. C VITTIME DI REATO E DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO 11 1 - LA SOLLECITAZIONE COMUNITARIA Da tempo c’è forte polemica sulle significative difficoltà per le parti lese da reati di ottenere un risarcimento. Questa situazione delle vittime si è sempre più aggravata ed è particolarmente evidente in Italia: tralasciamo i numerosissimi casi in cui il responsabile neppure viene individuato (tanto che nell’ambito della microcriminalità spesso il cittadino neppure denuncia il fatto) ed i deprimenti dati statistici su tale aspetto snocciolati annualmente dai Procuratori Generali, e pensiamo ai tanti fatti (omicidi, stupri, lesioni personali, sinistri mortali in stato di ubriachezza, furti, rapine, ecc.) il cui esito è la scarcerazione del responsabile, subita dalla parte lesa o dai suoi eredi o familiari come ulteriore e più odiosa offesa, spesso in assenza di ogni risarcimento anche a fronte di condanna. Pensiamo altresì ai tanti casi in cui gli imputati approfittano degli arresti domiciliari per rendersi latitanti, od ancora alle situazioni in cui la vittima, stante le condizioni economiche del suo offensore, non può azionare utilmente le sue pretese risarcitorie. Per tutelare le vittime in queste ipotesi già il Consiglio d’Europa, con la Convenzione europea sul risarcimento delle vittime di crimini violenti del 1983, impegnava i Paesi aderenti ad adottare un sistema di risarcimento statale per le vittime di reato violento e intenzionale impossibilitate a conseguire una copertura risarcitoria dagli offensori. Successivamente, stante la mancata adozione da parte di alcuni Paesi - tra cui l’Italia - di tale disciplina, veniva emanata la Direttiva 2004/80/CE del 29 aprile 2004 con oggetto l’adozione da parte degli Stati membri che ancora non si erano adeguati alla Convenzione del 1983 di un sistema che garantisse il risarcimento delle vittime di reati violenti ed intenzionali. Tra le tappe fondamentali del percorso che hanno condotto alla Direttiva 2004/80/CE si possono ricordare soprattutto le seguenti: Parlamento Europeo: Risoluzione sulle vittime di violenza criminale (1989); Consiglio Europeo, riunione di Tampere (15 e 16 ottobre 1999): in questa occasione il Consiglio sollecitò l’elaborazione di “norme minime sulla tutela delle vittime della criminalità, in particolare sull’accesso delle vittime alla giustizia e sui loro diritti al risarcimento dei danni, comprese le spese legali”; lo stesso Consiglio auspicò, comunque, l’adesione degli Stati membri alla Convenzione Europea el 1983; Parlamento Europeo: Risoluzione sulle vittime di crimini nell’Unione Europea (2001); 12 adozione il 15 marzo 2001 da parte del Consiglio d’Unione Europea della Decisione quadro relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale; il Libro Verde «Risarcimento alle vittime di reati», presentato dalla Commissione in data 28 settembre 2001, che avviava, come di prassi, “una consultazione con tutte le parti interessate sulle possibili misure da adottarsi a livello comunitario per migliorare il risarcimento da parte dello Stato delle vittime di reati all’interno dell’Unione europea”15. Infine, dopo questi vari passaggi, il legislatore comunitario è approdato alla citata DIRETTIVA 2004/80/CE del CONSIGLIO del 29 aprile 2004 “relativa all’indennizzo delle vittime di reato”. Le motivazioni addotte dalla Commissione per l’adozione della direttiva sono state essenzialmente le seguenti: “le vittime di reato nell’Unione europea dovrebbero avere il diritto di ottenere un indennizzo equo e adeguato per le lesioni subite, indipendentemente dal luogo della Comunità europea in cui il reato è stato commesso” (considerando n. 6); poiché “le vittime di reato, in molti casi, non possono ottenere un risarcimento dall’autore del reato, in quanto questi può non possedere le risorse necessarie per ottemperare a una condanna al risarcimento dei danni, oppure può non essere identificato o perseguito” (considerando n. 10), “dovrebbe essere pertanto istituito in tutti gli Stati membri un meccanismo di indennizzo” (considerando n. 7), tale da garantire i cittadini europei sia nel proprio Stato di residenza (per i reati ivi commessi) e sia all’estero, qualora colpiti da un crimine in uno Stato dell’Unione Europea diverso da quello di residenza. Importante rilevare che il Consiglio dell’Unione Europea segnalava, per l’appunto a giustificazione dell’intervento in questione, come del resto “la maggior parte degli Stati membri [avesse] già istituito questi sistemi di indennizzo, alcuni di essi in adempimento dei loro obblighi derivanti dalla convenzione europea del 24 novembre 1983 sul risarcimento alle vittime di atti di violenza” (considerando n. 8). Fulcro della Direttiva 2004/80/CE è il disposto dell’art. 12: 1. Le disposizioni della presente direttiva riguardanti l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere si applicano sulla base dei sistemi degli Stati membri in materia di indennizzo 15 Nelle conclusioni del Libro Verde la Commissione sottolineò “l’esigenza di cogliere” l’opportunità offerta dalla consultazione “per fare ulteriori passi avanti nel risarcimento da parte dello Stato delle vittime di reati. Dalla convenzione europea del 1983, attraverso la quale si è compiuto il primo passo verso una maggiore convergenza su disposizioni minime, sono stati compiuti notevoli progressi nella comprensione e l’interesse verso la situazione delle vittime di reati. Allo stesso tempo, l’Unione europea si è prefissata l’obiettivo di creare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Sembra che adesso siano riunite le condizioni per raggiungere, a livello comunitario, obiettivi ambiziosi a vantaggio delle vittime di reati”. 13 delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori. 2. Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime. Il comma 2 dell’art. 12 della Direttiva, pertanto, è assolutamente chiaro nel sancire l’obbligo per gli Stati membri (Italia compresa) di approdare ad un risultato ben preciso, quello consistente nell’istituzione a favore delle vittime di reati intenzionali violenti, impossibilitate a conseguire un risarcimento dagli autori delle condotte criminose in questione, di un meccanismo di “compensation” (così la versione inglese), cioè di un sistema tale da garantire a queste vittime il diritto alla corresponsione, da parte dello Stato di appartenenza/residenza, di somme risarcitorie necessariamente “eque ed adeguate” (nella versione francese: “indemnisation juste et appropriée des victimes”; nella versione inglese : “fair and appropriate compensation”; nella versione spagnola: “indemnización justa y adecuada por los perjuicios sufridos”). La Direttiva non precisa quali siano esattamente i contenuti minimi del risarcimento da riconoscersi in capo alle vittime di reati violenti intenzionali, né i criteri di liquidazione: agli Stati viene posta unicamente la condizione-risultato che le somme risarcite dal siano eque ed adeguate, criteri questi che peraltro paiono indicare una natura più risarcitoria che indennitaria della tutela rimediale apprestata dal legislatore comunitario. In merito alla scelta tra “indennizzo” e “risarcimento”, che come sappiamo possono dare effetti molto diversi nella quantificazione, vale la pena rilevare che il Libro Verde della Commissione Europea, aveva sempre utilizzato, anche nella versione italiana, l’espressione “risarcimento” e che la stessa traduzione in italiano della Convenzione Europea del 1983 utilizzava quest’ultima espressione. L’adozione del termine “indennizzo” è quindi il frutto della penna dei traduttori o, comunque, curatori della versione italiana, non già del legislatore europeo. Del resto, occorre considerare come nelle versioni inglese e francese non vi è stata alcuna mutazione terminologica rispetto alle precedenti impostazioni: nella versione inglese si continua ad utilizzare l’espressione “compensation” e in quella francese il termine “indemnification”, concetti giuridici che, rapportati al nostro sistema, abbracciano sia la fattispecie del risarcimento che quella dell’indennizzo. Ed è esattamente in questi ultimi termini che è da interpretarsi la Direttiva in esame, ogniqualvolta, nella versione italiana, si rinviene il termine “indennizzo”, ossia nel senso di abbracciare sia l’ipotesi del risarcimento quanto quella dell’indennizzo, fermo restando che i requisiti di equità ed 14 adeguatezza, posti dalla Direttiva quali criteri che devono rispettare le somme allocate dai sistemi nazionali di tutela delle vittime di reati, sembrano indicare come il modello sia più vicino a logiche risarcitorie che indennitarie. Essendo comunque chiaro che il risarcimento deve essere “equo” e “adeguato” e che l’obiettivo della disciplina è di garantire un risarcimento a quelle vittime impossibilitate a conseguire il risarcimento dei danni subiti dagli autori materiali della condotta penalmente rilevante, si può agevolmente dedurre come questo risarcimento debba necessariamente riguardare altresì i pregiudizi non patrimoniali. A questo preciso riguardo si osservi che la stessa Relazione esplicativa della Convenzione Europea del 1983, come già sopra illustrato, ha ammesso la risarcibilità di questi danni in seno al sistema statale di tutela delle vittime di reati violenti intenzionali. Inoltre, nella maggior parte degli Stati Membri, che hanno attuato la Direttiva 2004/80/CE, il risarcimento dei danni non materiali è espressamente ammesso. Sul punto va soprattutto ricordato come la stessa Commissione Europea, nel Libro Verde del 2001, abbia rilevato quanto segue, indicando una precisa via, sicuramente utile anche ai fini dell’interpretazione della direttiva stessa: “…se ci si richiama all’esigenza di adottare il punto di vista della vittima, i danni non materiali non devono essere trascurati. […] Escludere i danni non materiali creerebbe … grandi differenze tra quello che la vittima può ottenere dallo Stato. […] … sembrano profilarsi forti motivi per fare rientrare i danni non materiali nella normativa minima”. Aggiungasi del resto come sostenere in tutta una serie di casi che la disciplina in esame non contempli anche (anzi, in primis) il risarcimento dei danni non patrimoniali implicherebbe svuotare il sistema istituito dal legislatore comunitario di qualsivoglia significato concreto (in altri termini, la protezione risarcitoria si ridurrebbe a ben poca cosa, contrariamente alle finalità perseguite dall’Unione Europea). 2- LA MANCATA ADOZIONE DA PARTE DELLO STATO ITALIANO DELLA TUTELA RIMEDIALE PREDISPOSTA DALLA DIRETTIVA 2004/80/CE Il diritto al risarcimento dei danni sancito dal legislatore comunitario in seno alla Direttiva 2004/80/CE non ha avuto attuazione dallo Stato italiano, che non si è ancora dotato di un sistema di risarcimento/indennizzo nazionale previsto dall’art. 12, comma 2, della Direttiva, né tale carenza è stata superata con l’emanazione del d.lgs. 9 novembre 2007 n. 20416. Infatti, questo provvedimento, seppur intitolato «Attuazione della direttiva 2004/80/CE relativa all’indennizzo 16 Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 261 del 9 novembre 2007 – Supplemento ordinario n. 228. 15 delle vittime di reato», non ha istituito, come la Direttiva imponeva, un sistema nazionale di risarcimento delle vittime dei reati in questione. Basta scorrere il testo di questo decreto legislativo in questione per rendersi conto come l’art. 12, comma 2, della Direttiva non sia stato in alcun modo contemplato, né si può considerare che ciò dipenda dall’esercizio da parte del legislatore delegato nostrano dei margini di discrezionalità che le direttive normalmente lasciano in capo agli Stati membri in sede di attuazione. Nello specifico il Governo italiano, con una scelta ben precisa (estremamente riduttiva rispetto agli scopi perseguiti dalla Direttiva) e pur nella consapevolezza di non avere ratificato la Convenzione Europea del 1983 (dunque, di essere già ampiamente in difetto nella protezione delle vittime di reati intenzionali e violenti), ha ritenuto la sufficienza, ai fini dell’attuazione della Direttiva, delle disposizioni emanate nel passato in Italia a favore di determinate vittime di crimini, posizione del resto già sostenuta, senza successo, avanti la Corte di Giustizia nella causa C-112/07 terminata con la condanna dell’Italia con sentenza del 29 novembre 2007, in cui la Repubblica Italiana si era difesa osservando “che determinate leggi già vigenti nell’ordinamento giuridico italiano prevedono l’indennizzo delle vittime di atti di terrorismo e della criminalità organizzata nonché delle vittime di richieste estorsive e di usura”. Questa scelta del Governo italiano, riduttiva e volta al risparmio, è, tuttavia, palesemente contraria a quanto disposto dalla stessa Direttiva, perché, se è vero che alcune nostre leggi, emanate precedentemente alla Direttiva, prevedono interventi economici a carico dello Stato a favore di talune vittime di reati (peraltro in tutta una serie di casi senza prevedere un equo ed adeguato risarcimento/indennizzo), tuttavia ciascuna di queste norme è ritagliata ad hoc per determinate e circoscritte categorie di vittime - peraltro con trattamenti tra loro differenziati quanto all’estensione dei risarcimenti/indennizzi accordati (dunque, con la prospettiva di una discriminazione tra vittime non ammessa dall’ordinamento comunitario), alcune delle quali (vittime dei reati di usura ed estorsione) neppure rientranti nella nozione di vittime di “reati violenti” -, con la conseguenza che - in senso contrario agli obiettivi della Direttiva e dell’art. 12 della stessa - tutta una serie vittime di reati violenti ed intenzionali decisamente gravi (si pensi ai casi di omicidio non ricollegabili a fenomeni di terrorismo o di mafia, oppure allo stupro) rimangono indubbiamente escluse dalla tutela apprestata dalla direttiva. I casi di stupro sono emblematici quanto all’inadempimento dello Stato italiano: come risulta confermato dalla comparazione delle varie schede pubblicate sul «Judicial Atlas - Compensation to Crime Victims», accessibile sul sito della Commissione Europea, in tutti gli Stati membri dell’Unione Europa (ivi compresi quelli che non hanno ancora ratificato la Convenzione Europea del 1983), ad eccezione delle sole Grecia ed Italia, tutte le vittime di crimini 16 implicanti violenze sessuali sono tutelate in conformità a quanto statuito dalla Direttiva 2004/80/CE, essendosi negli ultimi anni adeguate agli obiettivi comunitari anche Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria e Bulgaria. In altri termini, il trattamento, a livello di tutela risarcitoria statale, oggi riservato dallo Stato italiano alle donne stuprate in Italia17 - siano esse residenti oppure turiste o lavoratrici di altri Paesi - risulta palesemente carente rispetto agli altri Stati Membri dell’Unione Europea, con evidente discriminazione di chi abbia la sventura di subire violenze di questo tipo nel nostro Paese rispetto a chi sia colpito dagli stessi eventi in altri Stati dell’Unione Europea (discriminazione manifestazione contraria agli obiettivi della Direttiva, imperniati sulla libera e sicura circolazione delle persone nell’Unione Europea). 3-LE CONSEGUENZE A CARICO DELLO STATO ITALIANO PER L’OMESSA ADOZIONE DELLA DIRETTIVA 2004/80/ CE Il cittadino italiano, dinanzi a situazioni di gravi omissioni da parte del proprio legislatore nell’assolvimento dei suoi obblighi sorgenti dalla partecipazione all’Unione Europea, dispone, laddove pregiudicato dall’inadempimento del proprio Stato, di un solo strumento di tutela rimediale: l’affermazione, per via giudiziaria, della responsabilità civile dello Stato inadempiente e la condanna di quest’ultimo al risarcimento dei danni. La ravvisabilità di una siffatta responsabilità civile dello Stato sembra ormai pacifica sia nella giurisprudenza comunitaria e sia nella giurisprudenza italiana ed essa è sicuramente ravvisabile nei casi di violazione da parte dello Stato italiano del diritto delle vittime di reato violento al risarcimento dei danni. Sul punto occorre segnalare la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, come noto determinante in materia, la quale fa derivare la responsabilità civile degli Stati membri dall’art. 10 del Trattato CE (oggi art. 4 Trattato UE) che impone agli Stati di adottare “tutte le misure di carattere generale e particolare” finalizzate agli scopi del Trattato, nonché, per quanto concerne nello specifico la mancata o tardiva attuazione di direttive, dall’obbligo per gli Stati membri di raggiungere il risultato prefissato dalle direttive (Art. 249, comma 3, del Trattato CE, oggi Art. 288 Trattato UE: “La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salvo restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”). 17 Si rileva che il 31,9% delle donne italiane hanno subito violenza fisica o sessuale (Fonte: Ministero dell’Interno, dato del 2006). 17 Sulla posizione della Corte di Giustizia CE si può succintamente ricordare come abbia costituito un vero e proprio punto di svolta l’ormai storica sentenza Francovich c. Repubblica Italiana e Bonifici c. Repubblica Italiana (Corte di Giustizia CE, 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90): in questa occasione, infatti, i giudici europei, peraltro proprio con riferimento allo Stato italiano, affermarono a chiare lettere la configurabilità della responsabilità civile degli Stati membri per il mancato adeguamento della normativa interna alle disposizioni degli organi comunitari: poiché “il Trattato CEE ha istituito un ordinamento giuridico proprio, integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri che si impone ai loro giudici, i cui soggetti sono non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini e che, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, il diritto comunitario è altresì volto a creare diritti che entrano a far parte del loro patrimonio giuridico”, “il diritto comunitario impone il principio secondo cui gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili”. Più nello specifico, fu statuito che, “qualora … uno Stato membro violi l’obbligo, ad esso incombente in forza dell’art. 189, terzo comma, del Trattato, di prendere tutti i provvedimenti necessari a conseguire il risultato prescritto da una direttiva, la piena efficacia di questa norma di diritto comunitario esige che sia riconosciuto un diritto al risarcimento”. In altri termini, sottolineandosi l’obbligo, del tutto pacifico ed incontrovertibile, degli Stati aderenti alla Comunità ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dalla partecipazione alla Comunità, fu riconosciuta dalla Corte di Giustizia a favore dei cittadini europei non solo la titolarità dei diritti nascenti dall’istituzione dell’ordinamento comunitario, ma altresì lo specifico diritto a vedere recepita dallo Stato di appartenenza la normativa comunitaria, con conseguente diritto al risarcimento del danno in caso di inadempimento del legislatore nazionale, ritenendosi questa soluzione imprescindibile, essendo che altrimenti “sarebbe inficiata la tutela dei diritti riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione di diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro”. Successivamente la stessa Corte di Giustizia è ritornata in più occasioni a ribadire il suo orientamento: “il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato” (così, ex plurimis, Palmisani c. Inps e altri, Corte giustizia CE, 10 luglio 1997, procedimento C-261/95, in Riv. It. Dir. Pubbl. Comunitario, 1998, 509). La giurisprudenza italiana, dopo alcuni tentennamenti iniziali e talune resistenze, ha recepito integralmente i dettami della Corte di Giustizia CE, come conferma la recente Cass., Sez. III, 12 febbraio 2008, n. 3283, in cui si è ribadito come la “mancata tempestiva attuazione delle 18 [direttive comunitarie] a livello interno” possa dare luogo ad un danno tale da costituire “una conseguenza immediata e diretta (art. 1223 cod. civ.) dell’illecito (art. 2043 cod. civ.) integrato dalla violazione, da parte dello Stato italiano, degli obblighi derivanti dal Trattato”. Questa sentenza ultima non ha ovviamente mancato di richiamarsi al precedente, fondamentale nel panorama italiano, recato da Cass., Sez. III, 16 maggio 2003, n. 7630, che, ricordato l’orientamento della Corte di Giustizia CE ed in aderenza allo stesso, ha affermato la “risarcibilità del danno subito dal singolo in conseguenza di violazione delle norme comunitarie da parte del legislatore per mancata attuazione di direttiva non autoesecutiva, in ambedue le ipotesi di unione di un diritto soggettivo di un interesse legittimo”, e cioè, come precisato dalla massima ufficiale, “sia che l’interesse leso giuridicamente rilevante sia qualificabile come interesse legittimo sia come diritto soggettivo”18. 18 Nel caso della direttiva n. 80/2004, non vi è ombra di dubbio, come si ricava dalla stessa direttiva (cfr., ad esempio, il considerando n. 6), che si sia dinanzi ad un vero e proprio “diritto” delle vittime di reato “di ottenere un indennizzo equo e adeguato per le lesioni subite”. 19