PATRIMONIO RURALE E VALORIZZAZIONE DEI PRODOTTI DEL

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PATRIMONIO RURALE E VALORIZZAZIONE DEI PRODOTTI DEL
PATRIMONIO RURALE E VALORIZZAZIONE DEI PRODOTTI DEL TERRITORIO
PARTE PRIMA
La geografia umana e l'ecologia storica per il patrimonio rurale
Questo testo è un tentativo di divulgare degli argomenti scientifici come la geografia umana e
l'ecologia storica e di introdurli come ausilio teorico per la tutela e la valorizzazione dell'agricoltura
ligure e dei suoi prodotti d'eccellenza.
Credo che per il buon esito di queste intenzioni sia importante la consapevolezza da parte degli
agricoltori liguri della propria identità culturale, della qualità di quel che producono e del valore
ambientale della nostra regione.
L'identità culturale degli agricoltori liguri è minacciata da molteplici fattori legati ad una
congiuntura economica e sociale difficile. La sua fine, ci renderebbe tutti più poveri anche perché
ci priverebbe di un elemento costitutivo di una grande ricchezza: il patrimonio rurale della Liguria.
Le frasi su queste pagine non risolveranno i problemi dell'agricoltura ligure, ma forse daranno un
piccolo contributo per affrontarli, comunque mi sento moralmente obbligato a scriverle, anche
perché migliorare la nostra conoscenza della storia e dell'identità della nostra regione può aiutarci
ad affrontare il futuro.
Attraverso corsi mirati alla formazione di assaggiatori d'olio, l'Organizzazione Assaggiatori Liguri
cerca di promuovere nei produttori e nei consumatori un livello ottimale di conoscenza della qualità
degli oli extra vergine, con una particolare attenzione per la produzione locale, anche di olive
Taggiasche in salamoia. La Liguria possiede molti altri prodotti eccellenti, creare la consapevolezza
di questo tra chi li produce e tra chi li potrebbe consumare ne è la condizione base per la
valorizzazione, ma è un lavoro impegnativo e difficile.
Vedremo più avanti come si potrebbe coniugare la qualità con la bellezza ambientale e con l'identità
culturale. Questa sinergia è forse fondamentale per aumentare il valore della nostra agricoltura.
Proviamo ora a prendere coscienza della bellezza dell'ambiente e del territorio ligure attraverso le
parole che letterati, scienziati e viaggiatori hanno scritto in varie epoche storiche. Le loro
testimonianze descrivono e giudicano il paesaggio e la cultura che lo accompagna, il modo dei
liguri di costruirlo e di viverlo. Confrontandole con l'aspetto attuale del territorio, ci permettono di
capire l'entità e la qualità dei cambiamenti che, nel trascorrere del tempo, hanno coinvolto e a volte
sconvolto il patrimonio rurale, e quindi anche il paesaggio.
Oltre ad altre fonti, faremo riferimento all'opera del Prof. Massimo Quaini L'ombra del paesaggio –
L'orizzonte di un'utopia conviviale. Questo libro è un saggio di geografia umana, la disciplina
geografica che studia la presenza antropica sulla terra e le relazioni dell'uomo con l'ambiente.
Ci limiteremo ad alcuni nomi che ci sembrano più significativi ai fini del nostro discorso, tra i molti
che sono stati studiati da Quaini.
Uno fra questi è Giovanni Boine, la cui opera è sicuramente una delle fonti più interessanti per
quanto riguarda la storia del patrimonio rurale, di cui il paesaggio è una componente.
Foto Giovanni Boine
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Il suo articolo La crisi degli ulivi in Liguria venne pubblicato anche sulla “Voce” nel 1911, e fu
forse la sua denuncia più forte. A quei tempi, Oneglia e Porto Maurizio erano le principali piazze di
commercializzazione degli oli d'oliva in Italia, arrivando a controllare il mercato internazionale. Qui
si fissava il prezzo di riferimento italiano per gli oli d'oliva. Qui lo straordinario volume delle
contrattazioni finì per formare enormi ricchezze.
Foto porto di Oneglia
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foto porto di P. Maurizio
Ne sono una prova le bellissime ville con i loro grandi parchi costruite dai commercianti oleari nella
prima metà del novecento.
Foto panorama Oneglia e P.M.
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Nei secoli precedenti il crescente consumo di oli di oliva aveva indotto gli agricoltori del ponente
ligure a impiantare nuove coltivazioni di ulivi. Nelle nostre vallate venne messa a dimora
principalmente la cultivar Taggiasca. Ne è una testimonianza un brano scritto dal Dott. Francesco
Ramoino nelle Memorie storiche di Pontedassio:
Abbiamo già visto che il nostro territorio era anticamente coltivato a cereali e a viti, che vi era
molto bestiame vaccino che profittava dei pascoli di Nimunte, ove esistevano vari caseifici. La
popolazione viveva dei suoi prodotti e stava bene. Dopo che fu introdotto l'olivo - il quale sul
principio venne piantato sui confini del podere, quale termine divisorio - si sviluppò l'industria
dell'olio, prima per uso familiare e locale, poi per esportazione. Nel 1700 i nostri oliveti
soppiantarono un po' per volta prima i seminativi poi i vigneti tanto che la popolazione abbandonò
il poco redditizio mestiere del caseificio e si dedicò completamente agli oliveti che rendevano molto
per il continuo aumento del prezzo dell'olio e trascurando il bestiame lattifero. Sul 1800 erano
famose le squadre di muli che da Pontedassio e da Villa Guardia partivano pel Piemonte carichi di
otri, o “pelli” cioè pelli di capre conservate. La nostra valle costituiva la via più breve per
trasportare l'olio in Piemonte ed era quindi la più battuta. Varie famiglie di Pontedassio apersero
in Torino dei negozi d'olio e diventarono ricche. (…) Dopo il 1880 incominciò la decadenza.
Diminuì il prezzo degli oli e degli oliveti. Molti agricoltori che avevano comperato terreni a prezzi
alti nella speranza che ancora crescessero, ricorrendo a prestiti con ipoteche, caddero lentamente
nella miseria, perché gli interessi divoravano il capitale.
Quali furono le cause di tale lenta decadenza della nostra olivicoltura?
Foto piroscafo
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Le cause sono complesse, io le raggruppo però tutte in una parola: la modernità. (… ) L'adozione
del vapore per le ferrovie e per le navi, della elettricità per forza motrice ha profondamente
modificato i nostri commerci. La navigazione a vapore ha sostituito quasi completamente il vecchio
bastimento a vela ed ha accentrato nelle mani di poche compagnie quasi tutta l'industria dei
trasporti marittimi, diminuendone i prezzi. Quella modernità la quale poggiando sovrattutto sullo
sviluppo rapido e gigantesco della chimica e della elettricità, rese facili le vie di trasporto per
terra, creò il commercio oltreoceanico dell'olio, e tutte le manipolazioni del medesimo, che fecero
arricchire i negozianti e gettarono nella miseria gli olivicoltori.
Foto oneglia il ponte
Ed inoltre Ramoino scriveva: Il lavoro, dei nostri antichi progenitori per rendere adatti alla
coltivazione dell'ulivo quei terreni sterili e dirupati, fu immane, faticoso, secolare. Non solo si
dovette con mine e mazze rompere i macigni per costruire i muri a secco, ma abbisognò trasportare
il terreno dall'alto al basso per colmare i vuoti fra i muri e la collina per formare la così detta
fascia e dare alla regione l'aspetto come di un immenso anfiteatro.
Il libro del Ramoino è stato scritto a partire dai primi anni del novecento, fino alla morte dell'autore,
avvenuta il 5 febbraio 1929. Quindi egli aveva vissuto e scritto anche negli stessi anni in cui era
attivo Giovanni Boine. Infatti le notizie e i fatti narrati coincidono: i due autori sono concordi nella
descrizione dell'immane fatica per la costruzione dei “maxei” (muri) e nell'individuare tra le cause
della crisi dell'olivicoltura in Liguria il proliferare del commercio degli oli d'importazione.
Foto uliveto Taggiasca
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Boine scrive: il popolo del mare che impingua, la tribù dei commercianti che arricchisce sicura
attraverso il controllo del mercato internazionale dell'olio. Egli ha un legame di religiosa
ammirazione per gli agricoltori che hanno elevato:
terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro per quindici
per venti chilometri dal mare alla montagna (… ) hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno
religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a
migliaia, dal mare fin su alla montagna, facendo ogni generazione sacrificio di se stessa alla
generazione veniente e lasciando come il popolo di una città medioevale, la cattedrale sua sulla
montagna.
E' evidente come entrambi gli autori abbiano compreso, seppur con sensibilità ed esiti letterari
diversi, di quale portata fosse la pratica di attivazione della risorsa olivicola. Le parole più ricorrenti
nel descriverla sono: immane, ciclopico, faticoso, secolare, tenacemente, faticosamente,
religiosamente. Nelle parole di Boine, quest'analisi ha dei felici risultati letterari, che sono stati
riconosciuti dai più autorevoli critici.
Attraverso delle interviste raccolte tra l'anno 2009 e il 2010 a cui si sono volontariamente sottoposti
degli agricoltori di genere ed età differenti, è facile cogliere la consapevolezza diffusa del sacrificio
necessario per costruire una tale mole di terrazzamenti, certezza che coincide in modo
impressionante con gli scritti di Ramoino e di Boine.
Foto uliveto
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Era di Boine una delle prime denunce della contraddizione fra la speculazione commerciale e il
destino dell'agricoltore: il futuro di famiglie intere dipendeva dal prezzo dell'olio, e il prezzo
dell'olio dipendeva molto spesso dalla volontà degli speculatori. E scriveva che il contadino, a
differenza del commerciante, “non sa mutare col mutar delle cose”, ma Quaini aggiunge “non può
mutare perché la sua base è la terra, il suo capitale sono le piante d'ulivo “lentissime a crescere”,
sono i muri a secco che richiedono cure e manutenzione anche negli anni di carestia.”
In quegli anni iniziò l'abbandono delle campagne, molti alberi furono tagliati per farne legna da
ardere. Lentamente, ma inesorabilmente, i paesi furono abbandonati, a cominciare da quelli più
isolati.
Foto Montalto Ligure
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La società ligure viveva nel mito del progresso futurista, che era allora intriso di tecnologia, di
industria, di commercio sempre più specializzato e veloce.
Foto Genova
Poi, come documenterà anche Italo Calvino, si trasformerà in una devastante speculazione edilizia,
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in un turismo di massa soffocante per gli stessi turisti.
Foto attico Sanremo
Oggi, come Quaini ci dice, possiamo abbozzare un bilancio di questo modello di sviluppo e
accorgerci che “non è sviluppo quello che ha lasciato e lascia crollare la cattedrale”, costruita sulla
montagna dalla “civiltà della pietra”.
Pietra su pietra, con secoli di fatica, fatica che ha consumato i corpi degli uomini, delle donne, dei
bambini. Alcuni pensano che la loro anima sia rimasta sulle pietre, colorata dal tempo, sulle fronde
degli ulivi, sull'erba che si apre al vento, che la svela. Gli stessi sperano che finché la cattedrale sarà
in piedi, l'anima non morirà.
Gli uliveti non avrebbero mai potuto avere, in Liguria, un'estensione così ampia senza l'attivazione
dei terrazzamenti in pietra a secco. Le pratiche di coltivazione utilizzate ancora negli anni sessanta
del novecento prevedevano la raccolta a mano delle olive cadute a terra, e quindi era necessario un
lavoro di preparazione del terreno, sarchiarlo, perché le dita delle raccoglitrici non incontrassero
ostacoli: questo sarebbe stato impossibile su un terreno scosceso. I “maxei” di pietra divennero un
fattore strategico per la nostra agricoltura, e caratterizzante nell'attivazione e perennizzazione della
risorsa olivicola.
La pietra e l'ulivo trascendono la loro materia e donano un'identità ad ampie zone della Liguria.
Questo era stato intuito e descritto da Boine più di cento anni fa, ma forse la sua opera non ha avuto
tutta la fortuna che meritava.
Quarant'anni dopo la pubblicazione delle denunce di Boine, i contadini liguri del ponente
riapparvero, nel 1945, sulle corrispondenze da Sanremo di Italo Calvino,
foto Calvino
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che Quaini ci segnala pubblicate sul “Politecnico” di Elio Vittorini: Liguria magra e ossuta. Non
solo alberghi e palmizi, in Riviera di Ponente, ma anche contadini poveri. La contraddizione
denunciata da Boine fra il denaro e la Terra si è trasformata nel contrasto fra il paesaggio del lusso
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balneare e quello della fatica contadina e della montagna più povera: Sopra al placido mondo dei
campi da tennis, delle hall guarnite di palme, nelle “fasce” degradanti il contadino continua una
vana, solitaria lotta a colpi di bidente.
Foto le palme coprono le case
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foto vigneto terrazzato
E nella successiva inchiesta “Riviera di Ponente”:
E' una storia in discesa, in cui a poco a poco i paesi di montagna e di collina si spopolano, le
campagne più alte vanno in sfacelo, gli abitanti scendono man mano a valle. Alla fine la vita è
quasi solo più sulla costa: vita comoda per chi non ha voglia di lavorare, vita dura per chi deve
lavorare sul serio ancora. Per questo, salendo sopra i duemila metri, si continua a vedere la
montagna terrazzata a “fasce”. Ma sono fasce incolte, piene di cespugli, senza più muri, fasce
forse di dieci secoli fa, dalla terra impoverita e dura. E paesi ammucchiati e grigi, case costruite a
secco, con le stalle a pianterreno, i tetti di lavagna, case che sembrano si sostengano l'un all'altra,
paesi dove abitano solo pochi vecchi, paesi per venirci a morire.
Sembra non ci siano che pietre. Pietre nei selciati delle mulattiere, case fatte di pietre senza
intonaco, muri a secco nelle fasce, la terra nei campi piena di pietre. Anche i vecchi, rimasti nei
paesi, sembra siano di pietra. Forse per questo sono rimasti.
Foto Piaggia
Negli anni successivi al 1945 Calvino descriveva, dunque, quel patrimonio rurale costruito con le
pietre, ed evidenziava i risultati dell'abbandono di quei manufatti essenziali alla vita della
“cattedrale” di Boine. Quel che Boine aveva intuito, e con angoscia previsto, era avvenuto,
nell'indifferenza di molti e soprattutto di molti potenti, rovo dopo rovo, frana dopo frana, era
avvenuto.
Foto effetti dell'abbandono
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All'inizio degli anni settanta Calvino scriveva:
Domani altri sviluppi economici e sociali si succederanno, nasceranno altri modi di passare le
vacanze e di godere la vita; forse quel paesaggio che nel giro d'appena una decina d'anni è stato
distrutto in fretta e furia tornerebbe a essere un bene godibile per un nuovo costume, per un nuovo
tipo di convivenze umane. Ma non ci sarà più, e al suo posto resterà l'immancabile sfilata dei
casermoni malcostruiti.
Foto fiori e panorama di Sanremo
Furono gli anni della cementificazione sfrenata del litorale ligure, qui sorsero in breve tempo intere
città balneari. Scomparvero molte delle ville ottocentesche e del primo novecento con i loro
giardini, quasi tutti i pascoli in riva al mare e gli orti antichi, persino i campeggi degli anni
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sessanta. Ma Italo Calvino non smise di sperare in una possibile rinascita, anche se difficile, dopo
tanta devastazione.
Foto villa S. Croce
foto Sanremo
Forse si potrebbe addirittura parlare di sogno, se pensiamo che la Liguria veniva descritta, dai
viaggiatori ottocenteschi e del primo novecento, come un “immenso giardino”, lembo beato e
paradisiaco d'Italia”, o come un “magico spettacolo”. A determinare queste impressioni sono i
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paesaggi agrari, in cui i borghi costieri sono legati indissolubilmente all'entroterra montano.
Foto uliveti vigneti terrazze Cinque terre
foto raccolta dei fiori
Nell'ottocento, nelle guide delle località costiere di turismo invernale, la spiaggia e il mare sono un
elemento dell'offerta turistica al pari della collina. Venivano propagandati Dolceacqua, la valle
Argentina, i borghi arroccati, e perfino i paesaggi alpini.
Questi erano i paesaggi descritti da Giovanni Ruffini nel romanzo Doctor Antonio, pubblicato ad
Edimburgo nel 1855, che tanto colpì l'immaginazione dei lettori inglesi. Molti di essi vollero vedere
i paesaggi che, sulla strada da Alassio a Nizza, facevano da scena al romanzo, divenuto un
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importante esempio di promozione del territorio ligure.
Foto Dolceacqua
Foto costa levante Sanremo
Ruffini scriveva: Ci sono poche strade più belle di questa in Europa e poche certamente, come
questa, riuniscono in sé tre condizioni di bellezza naturale: il Mediterraneo da un lato, dall'altro gli
Appennini e di sopra il puro cielo d'Italia e poi: l'industria (l'opera) dell'uomo (che) ha fatto ogni
sforzo se non per superare, almeno per non rimanere inferiore alla natura.
E ancora: palazzi marmorei e ville dipinte eretti fra vigneti aprichi, giardini vagamente fioriti e
boschetti di aranci e limoni; un'infinità di bianchi casini con gelosie verdi, sparsi per i declivi di
quei colli, sterili un tempo, ora coperti di terrazzine, l'una sull'altra elevate a raccogliere il poco
terreno e vestiti in cima di oliveti. Tutto insomma quanto v'è, creazione della mano dell'uomo,
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mostra l'operosità e l'industria di una razza di popolo vigorosa e gentile.
Foto via Baragallo2
foto
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Quaini aggiunge che se l'uomo ha operato in accordo con la natura, ne deriva che per tutelare il
paesaggio era ed è necessario conservare le condizioni per mantenere quest'alleanza.
Esiste l'ipotesi che i nostri antenati fossero consapevoli che il destino della Riviera fosse legato a
quello della collina e della montagna. Possiamo, però, affermare con sicurezza che, oggi come
allora, le due parti, montagna e mare, non possano esistere da sole. I problemi dell'entroterra e del
litorale, la dicotomia tra le due parti con l'apparente supremazia di una sull'altra e, per riassumere, la
rottura dell'armonia costruita pietra su pietra, come una cattedrale, si ripercuoterà, prima o poi, su
entrambe, come ci insegna l'alluvione delle Cinque Terre.
Foto alluvione Cinque Terre
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E' necessario citare altre testimonianze, come quella di Charles Garnier, celebre architetto parigino,
che nel 1883 aveva segnalato agli artisti e agli amministratori locali di Bordighera che i paesaggi
che circondavano la città alta erano meritevoli di essere rappresentati e salvaguardati.
Un tedesco, Lodovico Winter fu l'artefice dei giardini Hanbury e di altri parchi della Riviera. Nel
1885 pubblicò un manifesto diretto alle amministrazioni comunali rivierasche:
Coltiviamo dunque le nostre campagne. Il non coltivarle è un venir meno agli obblighi che ogni
possidente ha verso la Società. Educhiamo i nostri figli acciocché si appassionino alla coltura del
suolo (…). Coltivando bene le nostre campagne il forestiero verrà più volentieri da noi ad ospitarsi.
Non occorrono per ciò costosi boulevards che non fanno altro che guastare il carattere bello della
campagna. Rendiamo piuttosto le campagne accessibili per i trasporti agricoli con strade di
larghezza sufficiente ed in linee che si adattino alla topografia dei luoghi, conservando così quel
carattere campestre ed incantevole.
Foto uliveto con maxe basso
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foto Bordighera
E' evidente quanto questi stranieri fossero innamorati del carattere più autentico della Liguria: i suoi
orti, la sua campagna ben coltivata.
Per Alassio Quaini ci offre la testimonianza di un inglese, Gordon Home, che nel 1908 scrisse:
(…) il Comune sembra propenso a spazzar via ogni traccia della città conosciuta e amata dai
padri; anno dopo anno i fondi pubblici sono dissipati in operazioni che avranno fine solo quando
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l'ultimo brandello di ciò che è peculiare e pittoresco in Alassio sarà cancellato in una nuvola di
polvere di cantieri. (…) Ora ampi viali sono stati costruiti a spese di continue demolizioni e del
taglio di venerabili ulivi.
Foto Alassio storica
Questa denuncia da parte dei turisti inglesi è un segnale di quanto essi amassero i connotati del
patrimonio rurale ligure, composto di orti, uliveti, frutteti, pascoli in riva al mare, e fa pensare a
quel che ne direbbero oggi, vedendo lo scempio del paesaggio che continua, apparentemente
inarrestabile.
Non dimentichiamo, però, che gli inglesi furono anche la principale causa di questi cambiamenti,
proprio perché “turisti”, e alcuni di loro furono anche attivi nella speculazione edilizia.
Foto Alassio litorale 1929
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Lo sviluppo turistico “classico” è un fenomeno di consumo che si nutre della novità di luoghi
incantevoli e sconosciuti ai più. Li occupa progressivamente in modo fisico, spesso sconvolgendone
il tessuto sociale, la cultura, gli stili di vita, a volte fino all'esaurimento del loro territorio e delle
risorse umane.
Foto spiaggia affollata ad Alassio
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E' necessario, specialmente in Liguria, pensare a modelli di turismo differenti, che possano
coniugarsi con la tutela di quel che rimane del patrimonio rurale.
Forse Italo Calvino ha incarnato il trauma che le due riviere della Liguria hanno subito nel secondo
dopoguerra. La cattedrale sul mare era in un delicato, ma ancora sostenibile equilibrio, era una
società rurale e marinara precocemente industrializzata nei suoi centri maggiori, con significative,
ma non opprimenti presenze turistiche in alcuni borghi costieri. Ebbe in pochi anni uno sviluppo
turistico che purtroppo si può identificare con una speculazione edilizia tra le più devastanti e
caotiche. Infatti Calvino faceva descrivere così il cambiamento del paesaggio di Sanremo (che se ne
andava così sotto il cemento) da Quinto, il protagonista del libro La speculazione edilizia:
Quando Quinto saliva alla sua villa, un tempo dominante la distesa dei tetti della città nuova e i
bassi quartieri della marina e il porto, più in qua il mucchio di case muffite e lichenose della città
vecchia, tra il versante della collina a ponente dove sopra gli orti si infittiva l'oliveto, e, a levante,
un reame di ville e alberghi verdi come un bosco, sotto il dosso brullo dei campi di garofani
scintillanti di serre fino al Capo: ora più nulla, non vedeva che un sovrapporsi geometrico di
parallelepipedi e di poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti e finestre, muri ciechi per
servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei gabinetti uno sopra l'altro.
Foto zona salita ospedale attuale
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I luoghi di Calvino sono come quelli che molti di noi hanno visto e vissuto durante la propria
giovinezza o l'infanzia, sono divenuti irriconoscibili, sono stati sconvolti, sono stati cancellati
irrimediabilmente. Prevedendo tutto questo, Italo si arrese, decise di vendere la proprietà di famiglia
e scelse un volontario esilio.
Francesco Biamonti scriveva: Timoroso che quel punto della sua vita venisse cancellato prima o
dopo (...)con un atto improvviso lo cancellò lui stesso, vendendo, per tirarsi fuori dai rimpianti, per
dare un taglio netto. Pensava che Parigi potesse bastargli. Ma il rimosso tornò non esente da un
senso di colpa e lo scrittore si sentì esule su tutte le rive del mondo (…) e la terra lavorata dal
padre – cedri, limoni, aranci in faccia al mare – divenne l'Eden perduto, la gloria assente di un
mondo scomparso.
Così commenta queste frasi il prof. Quaini: Tutti noi, liguri di Riviera dovremmo in fondo al nostro
cuore albergare lo stesso sentimento e provare la sensazione dolorosa di un mondo scomparso, di
un Eden perduto, non per farci soverchiare dalla nostalgia, ma per capire e costruire uno scenario
migliore di quello iscritto nel paesaggio che la generazione operante negli anni Cinquanta e
Sessanta ci ha trasmesso. Uno scenario che trovi ancora la sua ispirazione nel paesaggio
mediterraneo, dopo che la cultura regionale si è per più di un secolo ufficialmente ispirata a
modelli estranei e stranianti.
Un importantissimo geografo storico come Fernand Braudel, descriveva la Liguria come una
montagna che sorge in mezzo a due grandi pianure: la pianura liquida del mare e la pianura terrestre
della Padania. Quaini pensa che sia questo suo essere “isola” e montagna che la faccia essere
qualcosa di simile all'Eden, una terra dove crescono le piante di tutti i climi, un vero regno della
biodiversità.
Foto hanbury
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Questa traccia di testimonianze riguardo al patrimonio rurale ligure può forse continuare con un
libro che mi permetto di segnalare all'attenzione dei lettori, oltre che per il suo valore letterario, per
l'attenzione e la precisione con cui coglie i particolari e l'essenza del patrimonio rurale ligure: nel
suo Battitore libero, Riccardo Giordano ha saputo compiere un lavoro che sembra ispirato alla
geografia storica e umana e all'ecologia storica.
Nella sua ricerca letteraria, Giordano si rifà esplicitamente all'opera di Giovanni Boine e al rapporto
di quest'ultimo con la sovrumana costruzione del terreno coltivabile, la famosa “cattedrale di
pietra”. Vengono piacevolmente descritte altre pratiche di coltivazione, la lavanda, gli ulivi, gli
alpeggi e, con un accenno all'ecologia storica, le coltivazioni ormai abbandonate e che
apparentemente non hanno lasciato traccia come il grano e le patate, ma che sono rimaste nella
memoria della gente e in quella della terra.
Foto valle del Maro
Leggiamone una pagina:
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A monte della strada, invece, c'erano i resti di altri campi, e per quanto ci si trovasse ad oltre
settecento metri d'altitudine, accompagnavano intatti le pieghe del terreno, incuranti del tempo,
centinaia e centinaia di muri a secco, che scalavano verso la sommità del monte Follia.
Un lavoro disumano, tirarli su fino a quelle altitudini, e Carluccio lo sapeva.
Un lavoro di creature più dure di quella pietra che solo la tenacia ed il sacrificio avevano
insegnato sapientemente a posare.
I muri contenevano le fasce, che avevano ospitato gli alpeggi, i campi di grano, quelli di patate, gli
orti e tutto quanto servisse per addomesticare quel territorio.
“Ora li stiamo abbandonando...” si disse.
(…)
Ora la strada menava di nuovo tra castagneti da frutto. Giù in basso si vedeva qualche vigneto e
infine gli ulivi, distese d'ulivi sin quasi a lambire il mare.
E così era ai tempi di suo padre e di suo nonno ed è ancora dappertutto, in Liguria, lo sapeva,
malgrado gli scempi degli speculatori dell'edilizia in prossimità della riva. Per centinaia e
centinaia di chilometri in lunghezza e per centinaia e centinaia di metri in altezza, muri di pietra,
nei boschi, nei prati, per le strade, nei rii, muri di pietra ovunque.
Furono davvero gli uomini a realizzare tutto questo? Se lo chiedeva e si rispondeva: no, non furono
gli uomini, è impossibile.
Furono i ciclopi, furono creature gigantesche, dalla forza sovrumana, che dimoravano sui monti e
per raggiungere più comodamente le loro case, al ritorno dal lavoro, avevano costruito delle
gradinate alla portata dei loro passi e dei loro piedi.
Furono i ciclopi, non poteva essere che così.
Ancora oggi (…) si scorgono le ossa dei loro giganteschi femori, delle loro tibie, che fuoriescono
dal terreno.
Loro, i ciclopi, presero tutta la poca terra disponibile per riempire i gradini e gliene rimase
pochissima per seppellire i corpi enormi dei loro morti.
E ancora:
Gli alberi di ulivo sono stati potati e nelle fasce l'erba è alta un palmo. Dov'è già stato falciato,
s'ingigantisce di luce il profilo pulito dei muri a secco. (...)
Non è come le campagne francesi. E' tutto più piccolo, tranne la gradinata di muri, tutto più
raccolto. Non è neanche campagna. Dà piuttosto l'idea di un grande manufatto.
Foto uliveto con maxei prino
E' forse quest'ultima parola, “manufatto”, a spiegare meglio l'essenza della campagna ligure: un
lavoro disumano, tale da evocare il mito dei ciclopi, compiuto generazione dopo generazione, ma il
risultato è un patrimonio rurale tra i più suggestivi del pianeta.
Giordano utilizza il concetto di manufatto per descrivere la vegetazione di un sito, e questo è uno
dei fondamenti dell'ecologia storica, anche se poi idealizza e generalizza nel confrontare l'aspetto
delle campagne francesi a quelle liguri.
L'ecologia storica è una scienza che si occupa dello studio di quel che avviene tra gli esseri viventi e
il loro ambiente, individuando necessariamente un luogo (sito) in cui effettuare la ricerca e
considerandolo nella propria dinamica storica, ovvero nei cambiamenti dovuti al lavoro e alla
presenza umana, animale e vegetale nel corso del tempo. Un uliveto terrazzato con muri a secco è
quindi un manufatto nel senso che per realizzarlo i contadini avevano a disposizione un terreno di
cui conosciamo scientificamente poco, e che quindi si dovrebbe esaminare per capire come fosse in
origine. Ma tutte le testimonianze, compresa quella del Ramoino, sono concordi nel dire che di
solito si trattasse di pendii scoscesi, con delle rocce affioranti e della copertura vegetale. Si
procedeva con il taglio della vegetazione e l'utilizzo del fuoco per eliminarla, lo spacco delle rocce
per ottenere delle pietre da assemblare a secco e la successiva costruzione del “maxe”, il
riempimento dello spazio ottenuto tra il muro e il suolo con terra trovata nelle vicinanze o
trasportata da luoghi più remoti. Infine l'impianto degli ulivi e la conseguente coltivazione.
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Si potrebbe confermare questa descrizione con un'ulteriore testimonianza tratta dal libro Le carte
della memoria di Antonio Rebaudo che si riferisce alla pratica attivazione di un vigneto, identica
per quanto riguarda la fase costruttiva dei terrazzamenti a quella di un uliveto (1):
A. cominciò a disboscare un ripido castagneto marginale e poco produttivo per farne una vigna. Si
procedeva così: si tagliavano gli alberi e si bruciavano gli sterpi. Poi, cominciando dal fondo del
declivio, si scavavano le fondamenta del muro di sostegno del primo terrazzo che veniva riempito
di terra scavata con piccone e pala (…)
I massi trovati sul posto bisognava spaccarli. Provò prima col fuoco, poi passò alla dinamite,
anche per preparare le pietre necessarie all'erezione dei muri.
I terrazzi così eretti furono sette per una lunghezza di una settantina di metri.
Foto vigneto terrazzato Sanremo
E' relativamente semplice associare un concetto astratto come quello di “manufatto” alla
vegetazione di un uliveto o di un vigneto terrazzato con muri in pietra a secco, perché questo
implica la costruzione di opere che resteranno tangibili e visibili per secoli.
Più complicato è invece accostare il medesimo termine ad un semplice prato utilizzato da secoli per
il taglio del fieno o come pascolo. In realtà entrambe le coperture vegetali sono dei manufatti.
Foto prato da sfalcio
Per “attivare” lo strato erboso adatto a produrre foraggio è necessario tagliare e ardere la
vegetazione preesistente, rimuovere e accatastare le eventuali rocce o pietre affioranti. Inoltre le
specie vegetali foraggere migliori si sviluppano solo in seguito allo sfalcio o alla pastura, mentre i
prati abbandonati sono infestati da erbe di scarso valore per l'alimentazione animale.
Per questi motivi l'ecologia storica definisce “manufatto” anche un semplice prato, naturalmente
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dopo averne studiato la storia.
Questa pratica di attivazione per un prato è ampiamente documentata nel libro Memoria verde di
Roberta Cevasco (2).
Dopo aver letto le testimonianze dei vari autori credo che sia inequivocabile il loro apprezzamento
alla bellezza e al clima della nostra regione. Però essi non si fermano a questo giudizio, capiscono il
valore di un paesaggio agrario costruito dall'uomo, ne colgono il valore dato dalla faticosa
precisione nel costruire un delicato sistema idrogeologico, in cui un muro a secco si appoggia alla
fascia retta da quello inferiore, dove la pendenza del terreno fa confluire le acque piovane in un
lungo canale di scolo, perché possano convogliarsi in un rio, il tutto ripetuto centinaia di volte,
passando attraverso decine, centinaia di proprietà private. Questo sistema non venne pianificato da
un'autorità superiore, come per le “trappole idrauliche” asiatiche, ma fu il risultato dell'accordo e
del lavoro della gente, del bisogno coltivare le campagne, di preservarne il valore per le generazioni
future. Fu una cultura del cooperare tenace, che seppe superare e al tempo stesso preservare i limiti
della proprietà privata attraverso il rispetto di regole scritte e soprattutto non scritte, che resse per
secoli il destino di un territorio bellissimo e fragilissimo.
Forse fu il risultato paesaggistico di questa cultura che affascinò e stupì la mente di quegli stranieri
colti.
I liguri detentori di quella cultura, riuscirono sempre meno a trasmetterla alle generazioni
successive che vissero e vivono sempre più spesso senza la consapevolezza di quell'identità ormai
dimenticata.
Molto è dunque perduto, siamo più poveri, ma le testimonianze che abbiamo appena letto
dovrebbero farci riflettere e capire che attraverso la conoscenza del passato della nostra terra
possiamo prendere coscienza delle sue e nostre potenzialità, che vanno oltre la mera speculazione
edilizia e che dovrebbero concretizzarsi, nelle aree dove è ancora possibile, in uno sviluppo in
equilibrio tra agricoltura, cultura e turismo.
Pensiamo dunque che il patrimonio rurale sia anche un bene culturale, in cui possiamo ritrovare
valori etici, morali, spirituali ed economici. Un vero patrimonio su cui investire ed a cui attingere
per uno sviluppo sostenibile e duraturo della società rurale.
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PARTE SECONDA
Alcuni tentativi di tutela del territorio
Nel tentativo di tutelare il paesaggio la Regione Liguria emanò la legge
sui parchi regionali del 1977, che porta il titolo di Norme per la salvaguardia dei valori
naturalistici e per la promozione di parchi e riserve in Liguria e in seguito istituì il Piano
Territoriale di Coordinamento Paesistico (PTCP) conseguente alla legge nazionale 431/1985 (legge
Galasso).
Le notizie che ci sono pervenute sull'esito operativo di entrambi i provvedimenti sono negative,
soprattutto a causa dei loro limiti culturali.
Nel primo le aree da proteggere sono state definite cercando di escludere dalla loro gestione la
presenza degli abitanti delle “aree protette”, considerati come “disturbatori” delle “comunità”
animali e vegetali. I paesaggi di queste zone vengono considerati “naturali” dal legislatore, che
probabilmente non conosceva o interpretava in questo senso la storia di quei luoghi, del loro
ambiente, quindi la loro ecologia storica.
Foto bosco delle navette
Anche il PTCP risentiva dell'impostazione “naturalistica” di cui abbiamo accennato e, di fatto,
impedì o ritardò una corretta tutela paesistica, che per anni non riuscì ad andare oltre l'impostazione
vincolistica.
La legge regionale 23 ottobre 2007 n. 34 che istituisce il Parco naturale delle Alpi Liguri risente
delle impostazioni dei provvedimenti di cui abbiamo accennato, anche se segnaliamo dei
miglioramenti importanti.
Nell'articolo 2, tra i suoi scopi, leggiamo:
al punto a): la tutela e la valorizzazione del patrimonio naturale, con particolare riferimento alle
conformazioni e singolarità geologiche, alle risorse idriche, alle risorse forestali, alle connessioni
ecologiche, agli habitat, alle specie vegetali ed animali rare, endemiche, vulnerabili, ovvero
protette da convenzioni e obblighi internazionali e comunitari o da leggi statali e regionali, alle
espressioni caratterizzanti il territorio del parco di compresenza di specie appartenenti a fasce
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climatiche diverse.
Si pone sempre come priorità la tutela e la valorizzazione del patrimonio naturale, mettendo dunque
in secondo piano il fattore antropico, in una zona dove il lavoro dell'uomo ha riguardato la maggior
parte del territorio, almeno fino ai duemila metri, attraverso le coltivazioni, l'attività forestale, il
taglio del fieno e il pascolo.
Al punto b) viene poi aggiunta la tutela e valorizzazione del patrimonio etno-antropologico, storico,
culturale della comunità locale, come se l'aspetto naturale e quello culturale fossero due entità
distinte. Se non lo abbiamo già chiarito, vedremo in seguito come questi due fattori siano ormai, per
la maggior parte del territorio, indissolubilmente legati.
Foto mucche al pascolo
Al punto c) la tutela e la valorizzazione del paesaggio, quale espressione della equilibrata
integrazione fra le risorse degli ambienti naturali e l'uso che la comunità locale ne ha fatto nel corso
della sua storia. Anche se è evidente una volontà equilibratrice della dicotomia tra natura e cultura,
si prende a riferimento un'entità astratta come il paesaggio quale “espressione della equilibrata
integrazione” fra un ambiente, che dopo migliaia di anni di presenza e lavoro umano si continua a
definire “naturale” e un “uso” di cui la comunità locale è beneficiaria.
Il paesaggio, nel corso del tempo, ha subito dei cambiamenti dovuti a fattori naturali, ma, almeno
nella nostra regione e nelle aree limitrofe, soprattutto umani. Sorge il dubbio che si voglia fissarlo
entro determinati canoni che potrebbero non rispondere più alle necessità delle comunità locali. In
ogni caso, le modifiche del paesaggio dovrebbero avvenire in modo tale da non violentare il
territorio, perpetuando l'armonia di cura e di proporzioni che hanno così favorevolmente
impressionato i sensi di tanti visitatori e viaggiatori in Liguria.
Occorre precisare, però che il parco sorge in zone poco abitate, dove quindi le esigenze della
popolazione sono meno pressanti.
Al punto d) la promozione per lo studio, la divulgazione, la fruizione pubblica dei valori e delle
peculiarità naturali e culturali dell'area.
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Al punto e) il concorso allo sviluppo culturale, sociale ed economico delle comunità locali,
valorizzando l'identità delle tradizioni e dei luoghi, e promuovendo come risorsa la qualità e la
diversificazione ambientale, naturale e culturale.
Al punto f) la promozione di iniziative coordinate in campo naturalistico, forestale, agricolo,
culturale, turistico, artigianale, commerciale, di riqualificazione ambientale e di miglioramento dei
servizi, anche in collaborazione con le regioni limitrofe.
Notiamo dunque la continua separazione tra le istanze naturali e agricole, segno che non si è ancora
recepito in sede legislativa la teoria scientifica alla base dell'ecologia storica e quindi è assente il
concetto di patrimonio rurale.
Questa volontà del legislatore, porta a conseguenze curiose nell'ambito delle attività colturali.
Ad esempio gli uliveti abbandonati sono classificati “bosco” dalle autorità forestali, quindi con il
divieto di tagliare gli alberi spontanei, come le querce. Però dalle autorità fiscali sono sempre
considerati dedicati all'attività agricola, con il conseguente valore da dichiarare in caso di vendita.
Sono sempre le querce ad essere protagoniste delle attenzioni delle autorità forestali nei terreni
terrazzati di proprietà di F., che avrebbe la possibilità di sfruttarne le fronde tagliandole e
vendendole come verde decorativo. In questo modo si otterrebbero dei risultati economici positivi
per l'azienda agricola F., e il terreno sotto gli alberi sarebbe mantenuto pulito e al riparo da incendi.
Ma la potatura delle querce, per essere remunerativa, dovrebbe avvenire in una stagione in cui vige
il divieto di taglio delle piante, che sono considerate naturali, anche se le fasce dove vegetano sono
chiaramente il risultato di una pratica colturale precedente.
Proprio in casi come questo si può apprezzare il risvolto pratico di una scienza come l'ecologia
storica. Lo studio della storia ecologica di quel sito molto probabilmente ne dimostrerebbe la
destinazione agricola.
In entrambi gli esempi il legislatore applica delle regole di tutela della vegetazione in aree un tempo
coltivate, impedendone quindi la riattivazione dell'attività colturale.
E' auspicabile, e forse questo sta già avvenendo, un riorientamento della volontà legislativa verso il
recupero dei terreni agricoli abbandonati, per troppo tempo sconsideratamente tutelati come
“naturali”.
Credo sia il caso di citare, grazie al lavoro della prof. Roberta Cevasco, il parco di Lygra (Heathland
Centre) in Norvegia per la valorizzazione archeologica e storico-ambientale della brughiera
atlantica. La storia del luogo è stata documentata da oltre trent'anni di ricerche condotte
dall'Università di Bergen. Il patrimonio rurale di Lygra è il risultato di cinquemila anni di sistemi di
gestione delle risorse ambientali, quindi di lavoro umano, è ricco di ripari dell'Età della Pietra,
collinette tombali dell'Età del Ferro, fattorie e carbonaie dell'Età Vichinga. Fino agli anni '50 del
novecento si pensava che la brughiera fosse dovuta a un deterioramento climatico avvenuto 2500
anni fa, che impediva la presenza del bosco. In realtà era la conseguenza di una lunga storia di
interazione tra attività di pascolo e fuoco controllato a partire dall'Età del Bronzo.
Foto brughiera di Lygra in Norvegia
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La sua attuale gestione è in gran parte affidata agli allevatori locali: le fattorie che vi rientrano sono
state coinvolte nella progettazione del parco sin dalle prime fasi. La cooperazione con la comunità
locale e quindi l'integrazione tra le informazioni sul patrimonio storico-ambientale e l'osservazione
diretta delle attività locali di allevamento e pesca è stata determinante perché l'UNESCO desse il
suo riconoscimento. I ricercatori hanno studiato le aziende agricole ancora attive, che in molti casi
esercitano anche la pesca, e hanno cercato con successo dei riscontri con i risultati archeologici e
storico ambientali.
La brughiera di Lygra era invasa da ginepri a causa del progressivo abbandono del pascolo
verificatosi a partire dal 1960. Nel 1992 iniziò l'opera di ricostruzione con il taglio degli alberi e
l'incendio controllato a mosaico per rinnovare le risorse erbacee. Congiuntamente venne aumentato
il numero di pecore della vecchia razza norvegese (wild sheep) in grado di pascolare nella brughiera
tutto l'anno, permettendo così il mantenimento della brughiera. Con l'aiuto degli allevatori più
anziani gli outfields delle aziende sono state riportate ai livelli di produzione degli anni quaranta del
novecento, con il pascolo ovino invernale, l'incendio controllato, il taglio e la raccolta della torba, lo
sfalcio del fieno e la raccolta delle alghe.
Foto pascoli di Lygra
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Per mostrare al pubblico i cambiamenti avvenuti nel sistema di pascolo costiero negli ultimi
sessant'anni è previsto che gli infields delle fattorie siano gestite secondo tre modalità: il sistema
attivo negli anni quaranta, il sistema “biologico” e il sistema con l'uso di fertilizzanti artificiali,
meccanizzazione e razze bovine moderne.
I siti che descrivono l'attività attuale del parco la qualificano come “tradizionale”.
Il lavoro compiuto ha un ritorno economico, in quanto questo territorio è una meta del turismo
culturale e ambientale. E' quindi un esempio di quel che i ricercatori chiamano “esternalità positiva”
delle produzioni locali, individuandole come “beni culturali e ambientali”.
Mi ritornano in mente le parole che ho ascoltato anni fa nel corso della presentazione dell'Atlante
dei manufatti in pietra a secco delle Valli Imperiesi-L'architettura delle caselle degli Architetti
Paolo Gollo e Barbara Moretto, con introduzione del prof. Lorenzo Mamino dell'Università di
Torino. I professori torinesi presenti erano affascinati e stupiti dalla qualità e dalla quantità dei
manufatti in pietra presenti nel territorio ligure, tanto da dire esplicitamente che meriterebbero la
tutela dell'UNESCO. Inutile dire che i politici locali, presenti fino a livelli di eccellenza, si
esibirono in suggestivi discorsi, a cui seguì, sul piano delle iniziative concrete, il nulla.
Diverso è il discorso per le Cinque Terre, che sono tutelate da un Parco Nazionale e dal
riconoscimento dell'UNESCO.
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Foto uliveti vigneti terrazzati Cinque Terre
A parte le vicissitudini relative all'amministrazione del parco e alla disastrosa alluvione del 25
novembre 2011, il ritorno di immagine per le comunità locali è positivo. Il parco ha comunque il
merito di aver valorizzato dei luoghi unici per la loro bellezza e per un patrimonio di terrazzamenti
in pietra a secco coltivati posti a strapiombo sul mare. Forse le Cinque terre sono il miglior esempio
in Liguria per quanto riguarda la promozione di un turismo ambientale in cui i prodotti locali
vengano considerati anche nel loro valore di beni ambientali e culturali. E' ai contadini che
caparbiamente curano al vigna e gli orti sui pendii bruciati dal sole e dal vento a cui va il merito
della tutela dal dissesto idrogeologico. Senza le altre due valenze, però, il prezzo del loro buon vino
sarebbe probabilmente fuori mercato.
Credo inoltre che la corretta gestione del patrimonio rurale dovrebbe spingersi anche alla zona
montana, mentre lo statuto del parco delimita una zona 1 in cui “l'ambiente naturale è conservato
nella sua integrità”. Questo approccio al territorio mi pare in linea con le altre impostazioni già viste
per i parchi naturali regionali. Non conosco la geografia storica per le Cinque terre, ma forse è
improbabile che dei contadini che costruirono chilometri di muri per poter coltivare anche il più
abbarbicato pendio abbiano lasciato allo stato di natura delle aree, seppur poste ad altitudine
relativamente più elevata, e sorge il dubbio che la vegetazione spontanea di questo “ambiente
naturale” non sia altro che il risultato di un abbandono di terreni un tempo coltivati e/o gestiti.
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PARTE TERZA
Accenni di ecologia storica applicata alla tutela del patrimonio rurale
Per approfondire il concetto di patrimonio rurale, tentiamone un'analisi basata sull'ecologia storica.
In una prospettiva di sviluppo locale autosostenibile ai fini della pianificazione e della gestione
delle risorse ambientali e culturali, il patrimonio rurale si considera composto da:
- Componenti viventi: a) Produttori locali con: 1- I loro saperi, le pratiche di coltivazione;
2- la cultura di cui le pratiche e i saperi sono
l'espressione, compresi gli idiomi che ne
sono lo strumento di comunicazione;
3- le produzioni locali;
b) Le coperture vegetali, i suoli e tutte le risorse ambientali;
- Componenti storiche, architettoniche, artistiche e archeologiche delle comunità rurali (2).
Prima di procedere oltre dovremmo cercare di chiarire il significato del termine “natura”. Per
alcuni, la “natura”, è intesa come condizione dell'ambiente che non ha subito l'intervento dell'uomo.
Secondo questa concezione, lo sviluppo di questi elementi naturali darà origine al “climax”, cioè a
quello stato in cui ambiente e esseri viventi animali e vegetali interagiranno fino ad arrivare ad un
equilibrio.
Dobbiamo considerare che le ricerche effettuate dimostrano che in Liguria e nell'Europa
occidentale, la natura è stata precocemente e profondamente antropizzata. Possiamo affermare che il
lavoro dell'uomo ha modellato l'ambiente selvaggio, fino a costruire un sistema di cui sono parte
tutte le componenti citate poco sopra.
Abbiamo avuto una crescita del patrimonio rurale fino agli inizi del novecento. Poi è iniziata una
lenta dismissione delle attività agricole. Alcune aree sono state occupate da insediamenti industriali,
altre destinate a case da abitazione, altre ancora, sono in stato di abbandono. In questi terreni le
piante coltivate sono scomparse o languono, mentre le specie spontanee hanno ripreso il
sopravvento, condizionato però da tutto quel che l'attività umana ha modificato rispetto alla
condizione originaria. Nella maggior parte dei casi quel che viene definito come natura non è altro
che territorio un tempo coltivato, quindi con uno sviluppo morfologico, vegetativo e faunistico
fortemente condizionato dall'uomo.
La ricerca scientifica relativa a questo argomento è stata effettuata da: Oliver Rackham, George
Peterken e da altri come Diego Moreno, Massimo Quaini, Roberta Cevasco, Maria Angela Guido,
Carlo Montanari, Georges Bertrand e Jean Paul Metailié, Charles Watkins, Keith Kirby, Pietro
Piussi, Edoardo Grendi e da molti altri che non è possibile elencare qui.
Per capire e gestire coerentemente il patrimonio rurale è necessario decifrare la sua storia.
Negli anni quaranta alcuni studiosi di forestazione scandinavi, furono tra i primi ad intuire che la
presenza e le attività umane sono state tali da modificare la storia della vegetazione e del paesaggio.
Negli anni dal 1950 al 1960 è da segnalare il lavoro di palinologi come Knut Faegri (1909 – 2001).
Negli anni sessanta e settanta, gli inglesi Oliver Rackham e George Peterken introducevano nuovi
concetti per quanto riguarda la storia della vegetazione (3):
– essa non può essere ricostruita attraverso generalizzazioni che tengano conto della sola
composizione in specie presenti attualmente;
– la vegetazione di un sito è da considerarsi un “artifact”, un manufatto;
– qualsiasi porzione della copertura vegetale è parte della società locale, quando se ne studino
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le condizioni ecologiche attuali alla scala topografica e nella loro dinamica storica (4).
La ricerca scientifica che si basa su questi assunti procede in base a prove inoppugnabili che si
trovano nelle coperture vegetali e nel terreno di un determinato sito. Quest'ultimo viene inteso come
contesto topografico che contiene tracce “archeologiche” riferibili alla storia delle risorse
ambientali, in altre parole, all'ecologia storica.
Per capire meglio quel che dovremo trattare è necessario accennare ad alcuni argomenti che sono
stati fondamentali per poter elaborare la teoria dell'ecologia storica:
– La geobotanica, ovvero la scienza della vegetazione, indica la comunità vegetale come un
insieme di specie che occupano uno spazio definito e tra loro interagenti: la convivenza non
si limita ad una vicinanza spaziale del tutto casuale.
– Il sistema determinato dall'interazione tra le specie presenti corrisponde all'associazione
vegetale. Lo studio dell'associazione vegetale è oggetto di studio della fitosociologia,
sviluppatasi attorno alle teorie del botanico svizzero Josias Braun-Blanquet (1884-1980). La
fitosociologia si basa sull'assunto che ad un certo ambiente corrisponda una determinata comunità
vegetale, e viceversa, ad una certa comunità corrisponda un determinato ambiente, con il
risultato che la comunità divenga una prova biologica dei caratteri dell'ambiente.
Analizzando la flora si ottiene una conoscenza indiretta dell'ambiente, ovvero dei suoi fattori
ecologici: climatici, orografici, edafici (relazione tra la struttura fisico-meccanica del terreno
e la distribuzione della flora), biotici (tra questi ultimi sono compresi quelli antropici).
– Come la fitosociologia, l'ecologia storica adotta un approccio analitico allo studio della
vegetazione, operando rilevamenti floristici di tipo analitico quantitativo alla scala
topografica.
La differenza è che l'approccio fitosociologico, sulla base di specie considerate
caratteristiche, tende ad astrarre dal contesto topografico la parcella rilevata per ricondurla a
un modello di associazione vegetale teorico e inteso valido alla scala biogeografica.
L'approccio ecologico storico, invece, si concentra sul contesto topografico e l'identità
specifica del sito, sviluppando un'indagine micro-analitica sulla base del comportamento
ecologico attuale delle specie in relazione alle pratiche e ai sistemi di gestione o non
gestione anche storici alla scala locale.
L'obiettivo è di riconoscere nella copertura vegetale le evidenze, le tracce materiali, gli effetti dei
sistemi colturali funzionanti e pregressi,secondo un metodo storico regressivo già sperimentato
negli studi storici e geografici.
Gli aggruppamenti vegetali individuati con l'approccio fitosociologico sono dunque utili per
un inquadramento di base della vegetazione, anche se spesso non sono sufficienti a definire
direzione e durata dei processi ecologici in corso. Per far questo è necessario introdurre
categorie ecologiche più analitiche. Si scopre sovente che gli aggruppamenti vegetali e la
loro ricchezza specifica dipendono da unità di gestione pregresse di cui, a volte, non è
rimasta alcuna traccia storica.
– Riconoscere la componente storica e sociale nell'ecologia dei popolamenti attuali consente
di passare dalla conservazione biologica a quella ambientale, cioè dalla protezione di
singole specie alla conservazione del loro habitat e di affrontare percorsi di ricerca analitici
che vanno dallo studio della vegetazione a quello della storia economica, sociale e culturale.
Diventa centrale lo studio delle “pratiche di attivazione” delle risorse ambientali, in tempi
storici definiti e in spazi topografici concreti, che consente il recupero della complessità
ambientale e l'aggancio con l'azione sociale. Per “pratica di attivazione” si intende l'attività
compiuta dall'uomo per avere la possibilità di usufruire di terreni o di aree boschive ai fini delle
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proprie necessità.
– Esiste in Europa e in Italia un'impostazione della ricerca scientifica ambientale detta
“ecologia del paesaggio” o “landscape ecology” che non riconosce la componente storica
nell'ecologia attuale dei popolamenti animali e vegetali. Questo contribuisce a mantenere
separati patrimonio “naturalistico” e “patrimonio culturale”: Quest'ultimo può spingersi ad
includere la porzione “coltivata” del paesaggio agrario, cioè gli agro-ecosistemi, ma mai
l'incolto, che resta “natura”, senza storia e senza cultura. Per obiettare a queste
argomentazioni basterebbe ascoltare una persona nata all'inizio del novecento che ricordi
dove e quanto fosse l'incolto nelle nostre vallate. Ma abbiamo già detto che negli anni 1950-1960, i
lavori dei palinologi scandinavi, dimostravano che non esistono vegetazioni e paesaggi “naturali”,
ossia non modificati o influenzati dall'uomo.
– Si propone un approccio storico all'ecologia dei siti che si basa su alcuni assunti che qui
possiamo elencare.
Naturalmente per lavorare con questi assunti occorre partire dalle fonti utilizzate, classificate in:
– fonti “di terreno”, a loro volta divise in osservazionali e sedimentarie.
– fonti “documentarie e testuali”, divise in testuali e iconografiche
– fonti “orali”, in particolare le interviste a degli informatori.
Gli altri assunti che proponiamo sono:
– l'approccio storico analitico: prevede un lavoro di decifrazione delle fonti;
– la scala locale: il percorso storico analitico privilegia una scala di osservazione locale,
topografica, caratteristica della “historical ecology” britannica (che si fonda sulla “local o
topographical history”). La scelta della scala locale consente di rileggere l'ambiente e, in
particolare, la copertura vegetale nella sua complessa dimensione storica, sociale e
culturale, sottraendola alla consueta storia evolutiva, in cui la componente sociale è
appiattita e convenzionalmente ridotta ad un fattore di disturbo (disturbo antropico,
sfruttamento antropico);
- il concetto di sito: nel senso di unità spaziale e topografica che contiene tracce archeologiche
riferibili alla storia delle risorse ambientali. La scelta di lavorare alla scala di sito è legata alla scelta
di fare storia e archeologia ambientale sulla base delle tracce conservate nell'ambiente e non
per astrazioni successive, come avviene di norma negli studi ambientali;
– il metodo regressivo: si riprende il metodo introdotto negli studi storici sulla realtà rurale da
Marc Bloch negli anni trenta e si introduce la problematica della continuità/discontinuità
nei processi storici che mettono in relazione ambiente e società;
– la produzione di nuove fonti storiche, di cui abbiamo già scritto poco sopra;
– la decifrazione realistica e l'incrocio delle fonti: il concetto di “decifrazione realistica è stato
maturato dal prof. Diego Moreno in funzione dello studio storico-geografico dei sistemi
agro-silvo-pastorali ed è stato ripreso nell'ambito della discussione sulla storia locale. La
valutazione e l'utilizzo incrociato di una pluralità di fonti storiche si realizza attraverso la
costruzione di “serie documentarie” e “reti” di fonti;
– la sperimentazione: la possibilità di sperimentare e simulare azioni e pratiche di
produzione/attivazione delle risorse ambientali consente di costruire modelli storici per la
valutazione della sostenibilità passata e futura di tali azioni;
– l'alta risoluzione: la ricerca dell'alta risoluzione nell'osservazione paleoecologica trasforma
le unità stratigrafiche in una nuova fonte sedimentaria.
L'approccio storico analitico all'ecologia dei siti suggerisce, dunque, una nuova dimensione
storica per la ricerca geografica di terreno e nuove problematiche per la ricerca geografico-storica:
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- Le dinamiche storiche della copertura vegetale. Si tratta di discutere la ricostruzione delle
dinamiche storiche della copertura vegetale come risultato di processi di attivazione/abbandono a
cui sono state sottoposte le risorse ambientali.
- I sistemi e le pratiche di attivazione delle risorse. Le pratiche di “attivazione” delle risorse
ambientali oggi estinte si riconoscono attraverso la documentazione storico-geografica
convenzionale e soprattutto attraverso gli indicatori che si sono conservati nell'ecologia dei
siti e nei depositi biostratigrafici (markers). L'attivazione è intesa come un effetto ecologico
che si somma alla semplice produzione a cui la pratica è finalizzata in modo prioritario e
influisce sul funzionamento ecologico dell'intero sistema.
- I saperi locali. L'esplorazione alla scala locale dei saperi naturalistici (botanici, zoologici,
geologici, ecc.) individuali o di gruppi, consente agli etnografi di identificare le categorie
attraverso cui le risorse ambientali sono descritte, valutate e utilizzate dagli attori sociali (ad
esempio utile/inutile, “domestico/selvatico”: un pastore originario delle Alpi Marittime riferiva che
nel corso degli anni trenta del novecento aveva visto utilizzare un serpente come animale utile alla
caccia dei topi. Il rettile veniva lasciato libero nel locale adibito ad abitazione dei pastori, dove era
anche custodito il formaggio.).
L'ecologia storica ricerca sul terreno le tracce “archeologiche” di azioni e pratiche modellate
su questi saperi nella loro continua stratificazione.
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– Un ulteriore campo di indagine è costituito dalle modalità di circolazione dei saperi e delle
pratiche locali e dal ruolo che le istituzioni hanno avuto nella loro trasmissione.
– Uno dei risvolti applicativi per la valorizzazione dei beni ambientali suggeriti dall'etnografia
è legato alla possibilità di estrarre, dal sapere naturalistico locale vivente, modelli di
gestione futura degli spazi del patrimonio rurale (approccio etnobotanico). L'ecologia storica
aggiunge un'importante prospettiva per la valutazione della sostenibilità passata e futura dei
sistemi agro-silvo-pastorali storicamente documentabili in quegli stessi spazi.
– Le produzioni locali. Le ricerche di ecologia storica nell'Italia nord occidentale si sono
avviate anche con l'analisi della ”esternalità positiva” delle produzioni locali di origine
animale e vegetale, al fine di discutere la sostenibilità ambientale dei sistemi locali. Questo
percorso, di interesse strategico per il turismo rurale, si è sperimentato nell'ambito di un
progetto dedicato alla caratterizzazione della tipicità dei “produits de terroir” nell'Europa
meridionale. In questo quadro si è proposta la caratterizzazione storico ambientale delle
produzioni locali, attraverso analisi di dettaglio delle relazioni storiche che legano le
produzioni alimentari alla località (liens au lieu). Si sta sempre più cercando di legare
le produzioni locali al territorio, alla sua storia e cultura. Esse possono essere riconosciute
sia come “beni culturali” per le relazioni storiche che i saperi e le pratiche locali detengono
con luoghi specifici, sia come “beni ambientali”, perché il loro ciclo di produzione svolge
anche una funzione di “attivazione” ambientale. Con il termine “attivazione” ci si riferisce
anche al benefico effetto che il pascolo ovino ha sulla varietà delle erbe presenti sui prati,
riguardo alla tutela della biodiversità. Nel nostro caso, si potrebbe ampliare il concetto,
dicendo che, visto che la produzione delle olive implica una buona conduzione dell'uliveto,
compreso quindi lo sfalcio dell'erba e il ripristino dei muri a secco, si ottiene una tutela del
territorio dai pericoli connessi agli incendi, alle frane e smottamenti e all'erosione. Pensiamo
solo che i soldi pubblici spesi per la lotta agli incendi e per la riparazione dei danni derivati
dal dissesto idrogeologico potrebbero essere risparmiati, almeno in Liguria, semplicemente
attraverso una corretta conduzione del patrimonio rurale.
Foto bosco in fiamme
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– Il fondamento dello studio sui saperi locali, a volte, è custodito nella memoria delle
persone, quindi è importante il dialogo tra il mondo scientifico e quello rurale, per riuscire
a rendere quest'ultimo consapevole delle proprie potenzialità, premessa per qualsiasi
valorizzazione.
– Siti, aree, complessi di interesse storico ambientale. Con questa formula si propongono gli
spazi concreti che conservano memoria delle relazioni ecologico-storiche tra gruppi sociali e
risorse ambientali. Aree e siti definiti di interesse storico-ambientale, insieme ai processi, di
natura geografica che li collegano alle società locali, sono gli oggetti che si propongono alla
riflessione come potenziali risorse anche per il crescente turismo rurale. Tali unità possono
funzionare da siti pilota per la sperimentazione di strategie innovative di gestione e
valorizzazione del patrimonio ambientale e rurale delle aree protette, in un'ottica che intende
superare la dicotomia tra elementi dell'ambiente “naturale” ed elementi dell'ambiente
“antropizzato”, oltre ai concetti di “emergenza” e “monumento”. Cerchiamo di ricordare quanto già
descritto per la brughiera di Lygra.
Foto laghetto di Lucinasco
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– Inoltre è da segnalare nella pubblicazione Un territorio alimentare da ricomporre, scritta da
Diego Moreno e Roberta Cevasco (5) un'analisi e una proposta per la Liguria e per il suo
ponente. Infatti il paragrafo “Patrimonio storico-ambientale, patrimonio rurale e paesaggi culturali”
inizia con una citazione tratta da L'ombra del paesaggio- L'orizzonte di un'utopia conviviale, libro
di Massimo Quaini: Specchio fedele del paese-Italia, concentrato dei suoi paesaggi e patrimoni
oltre che grande “vetrina”(funzione turistica), la Liguria può proporsi come il “laboratorio” più
significativo per studiare e sperimentare strategie di valorizzazione di un patrimonio storicoambientale di grande complessità che, in breve spazio e in maniera sempre intrecciata
(intersettoriale), pone i problemi che in altre regioni si pongono con minor chiarezza e, spesso,
successivamente. Viene proposta, quindi, una regione laboratorio attraverso il riferimento a un
inedito”patrimonio storico ambientale”.
Credo sia necessario citare Moreno e Cevasco quando scrivono: Oggi è possibile
ricostruire attraverso musei e collezioni il legame degli oggetti, delle parole, delle pratiche
con precisi spazi produttivi locali. Gli spazi della storia delle produzioni agro-silvo-pastorali
locali, attraverso la ricostruzione delle loro pratiche e dei saperi ambientali pertinenti, un
patrimonio culturale appartenuto alle generazioni precedenti e che a volte non ha lasciato
alla comunità locale altro documento che quegli stessi oggetti e la loro memoria familiare.
Ma è pure vero che precise pratiche e saperi sono tuttavia presenti, come un'eredità vivente,
nella filiera delle produzioni locali.
Foto transumanza in val d'Aveto
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Queste ultime, a causa di norme sanitarie e interpretazioni restrittive, sono, a volte, confinate
nell'autoconsumo o in circuiti di scambio confidenziali. Una normativa che non ammette deroghe
per le piccole produzioni ottiene solo il risultato di porre sempre più fuori mercato le aziende
marginali di un settore già in crisi come quello agro-pastorale.
Moreno e Cevasco pongono una questione fondamentale: il patrimonio delle produzioni
locali continuerà a restare estraneo all'aspetto storico/ambientale e culturale che le
caratterizza e al patrimonio rurale europeo?
E continuano con questi argomenti: occorre quindi legare la produzione locale a ciò che la
rende unica: al territorio, ai luoghi, agli oggetti, alle attrezzature e agli impianti, agli edifici.
– Nel recente passato la tutela del paesaggio era fissata dalla normativa attraverso il suo
contenuto di “bellezze naturali” o di “emergenze” floro-faunistiche, senza alcun interesse
per i produttori di quelle forme che soddisfano le esigenze estetiche e per i processi storici e
ambientali che ne costituiscono l'ecologia. Abbiamo trattato dei parchi nell'entroterra,
attraverso i quali si gestiscono vaste aree con il principio della “naturalità”. Invece va
maturando in Europa una nuova idea di “paesaggio culturale”, che include nella propria
definizione le azioni, le attività, l'uso delle risorse che i paesaggi hanno determinato. Si tratta
di spazi anche del tutto “comuni”, quotidiani, che, una volta riconosciuti, identificati
storicamente, possono entrare a far parte del più vasto e oggi “comune” patrimonio rurale
europeo. Si scopre che a un paesaggio culturale, alla sua specifica gestione, nel tempo,
corrispondono un'ecologia, un sistema ambientale, storico (appunto storico ambientale). Tra
i risultati acquisiti per questa via troviamo che rendere perenne dal punto di vista ambientale
un paesaggio culturale è possibile grazie al continuo esercizio delle attività produttive
agricole e pastorali.
– Mi pare scontato, quindi, concludere che, grazie al lavoro scientifico compiuto da tutti gli
studiosi citati in questo breve scritto, e da altre persone che non è possibile qui ricordare, è doveroso
tracciare una strategia di conservazione delle risorse ambientali e della biodiversità locale che si
realizzi attraverso i modi del loro uso.
Questo significa che il nostro patrimonio rurale costituisce una enorme ricchezza, una riserva di
fertilità, insita nella biodiversità, una promessa di sicurezza, scolpita nelle pietre dei muri a secco
ancora in piedi o ricostruiti.
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PARTE QUARTA
Conclusioni
La situazione economica attuale dell'olivicoltura ligure non è florida. I prezzi delle olive
fresche, in genere, non permettono un adeguato ritorno economico, mentre la situazione per chi
vende il prodotto finito è migliore, ma si fa sentire molto la concorrenza di prezzo degli oli e
delle olive provenienti da altre zone di produzione. E' probabile che nei prossimi anni si
accentuerà l'abbandono degli uliveti. Ma abbiamo il dovere di non scoraggiarci
e continuare a lavorare perché il nostro patrimonio rurale continui a vivere. Studiarne il
sistema storico-ambientale, applicando i metodi della geografia umana e storica e dell'ecologia
storica, è un investimento per conoscerne le potenzialità.
Dovremo capire e far capire quanto produrre oli e olive di alta qualità che siano riconosciuti come
beni culturali e ambientali aumenti il loro valore economico. E' importante che l'agricoltura
interagisca con il turismo per aumentare la redditività della produzione. E' la corretta conduzione di
quest'ultima che protegge e attiva la bellezza della Liguria, uno dei luoghi più incantevoli e
piacevoli, ma fragili, del pianeta.
Se riusciremo in questo intento, potremo credere in un progresso sostenibile.
Il fondamento della pratica di attivazione della quasi totalità degli uliveti nella nostra vallata
e in quelle limitrofe sono le terrazze di terra sorrette dai muri di pietre a secco: senza di essi
non sarebbe stato possibile falciare, arare e preparare il terreno per la raccolta a mano delle
olive cadute a terra. Quest'ultima non era praticabile su un terreno sassoso o accidentato,
infatti necessitava di una superficie sufficientemente liscia, sulla quale le dita delle
raccoglitrici non trovassero ostacoli. Anche le grandi tende di cotone bianco usate
per l'abbacchiatura non potevano essere impiegate su un terreno scosceso e inerbito.
Foto uliveto con terrazze e reti
In Liguria possediamo una delle varietà di ulivo più preziose del pianeta, da cui si ottiene un
olio e delle olive da mensa con delle caratteristiche uniche, ma questi ottimi prodotti, per
essere apprezzati fino in fondo e da tutta la loro potenziale clientela, anche da quella colta,
hanno bisogno di un'identità, di una storia delle loro origini. Occorre legare l'ulivicoltura, e
le altre produzioni locali, al territorio e alla cultura di cui sono l'espressione. I nostri
prodotti, dovrebbero essere portatori di un'identità anche culturale che li renda riconoscibili
e identificabili, che contribuisca a ricordarli ad un pubblico di potenziali consumatori.
E' quindi necessario valorizzare la cultura che è da secoli racchiusa in tutta la filiera
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produttiva: la storia delle olive Taggiasche, l'attivazione e la perennizzazione di questa
risorsa, la trasformazione in olio, è parte integrante del patrimonio rurale, e come tale
costituisce un valore, da riscoprire, da tutelare e su cui investire, anche per ampliare l'offerta
turistica.
Stampa antica frantoio
Abbiamo visto, nelle pagine precedenti, come la pietra fosse determinante per una corretta
coltivazione: senza di essa l'olivicoltura sarebbe stata notevolmente diversa, quasi
sicuramente marginale. L'ulivo e la pietra trascendono la loro materia e insieme donano un'identità
ad ampie zone della Liguria.
Una semplice citazione di Giovanni Boine (6) può valere più di cento frasi:
”E noi fummo fra gli ulivi
come un popolo antico nella sua cattedrale:
ogni nostra speranza era lì,
ogni nostra sicurezza era lì,
negli ulivi.”
La “cattedrale” è costruita anche con le pietre, e forse non è un caso che la rivista “Pietre”,
fondata a Genova nel 1926, attirasse l'attenzione di uno psicologo degli oggetti come il
poeta Eugenio Montale (7).
Se volessimo aprire questa “cattedrale” agli altri, l'offerta turistica dovrebbe però essere in
grado di assimilare e rendere fruibili tutti gli aspetti della cultura locale, ad esempio anche
quello linguistico o della toponomastica.
Più in generale, si dovrebbe affermare un'identità per essere capiti e apprezzati e quindi
essere preparati a comprendere anche quella altrui.
Per realizzare un progetto simile occorrerebbe anche un minimo di autostima da parte della
popolazione locale. Soprattutto gli anziani, di solito, sono un poco scettici su iniziative del
genere, forse perché sono assuefatti alla propria invisibilità. A tratti, affiora nei loro discorsi
anche una certa fierezza, quando rivisitano con la mente la loro “cattedrale”. E' però
presente la consapevolezza della marginalità del settore olivicolo e della società che lo
esprime. Per questo non dobbiamo dimenticare che la Liguria ha un clima tra i più miti
d'Europa, si affaccia sul mare mediterraneo in una posizione che è la più facilmente raggiungibile
dalla fascia continentale che corrisponde grosso modo alla Svizzera, all'ovest della Germania, al
BeNeLux e all'ovest scandinavo e offre dei paesaggi incantevoli. Tutte queste potenzialità sono state
fino ad oggi sfruttate emarginando il patrimonio rurale, e ponendo le basi per una crisi futura
dell'offerta turistica, visto l'eccessivo e a volte devastante sviluppo edilizio, soprattutto nella zona
costiera. In altre parole, se in Liguria oggi esiste ed esisterà un turismo è grazie al clima, al mare,
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alle bellezze naturali e artistiche e perché le donne e gli uomini della Liguria hanno coltivato e
coltiveranno la terra.
Ho già citato il prof. Massimo Quaini e la sua idea della Liguria come regione-laboratorio
attraverso la tutela del “patrimonio storico ambientale” (8) e il prof. Diego Moreno e la
prof.sa Roberta Cevasco, che propongono di applicare quel che viene già praticato in altre
parti d'Europa al “paesaggio culturale”, che include nella propria definizione le azioni, le
attività e l'uso delle risorse che hanno determinato quei paesaggi. In definitiva il lavoro che
nel corso di secoli ha attivato e perpetuato l'olivicoltura e le altre risorse agricole, può
rientrare a far parte a pieno titolo del patrimonio rurale europeo.
E' mia opinione che molto si sia fatto e si stia facendo per lo studio e la tutela di questo
patrimonio, ma credo che nonostante tutto il lavoro svolto, vi siano alcuni aspetti non ancora
sufficientemente conosciuti.
Esiste un'ultima carta da giocare: il turismo legato al patrimonio rurale, al territorio, alla
cultura locale può essere il sistema per far apprezzare il valore aggiunto di cui sono portatori
i prodotti locali. Molti hanno già compiuto questo tipo di scelta intraprendendo l'attività
agrituristica, che consente di ottenere una buona integrazione al reddito agrario e di
continuare l'esercizio dell'attività agricola. Essi hanno lavorato usufruendo degli incentivi
dell'Unione Europea, dopo il doveroso controllo degli organi di vigilanza e coadiuvati dalle
organizzazioni sindacali. Però non si è riusciti ancora a fare sistema, per passare dal “parco
naturale” al “parco Agricolo” occorre coinvolgere le aziende agricole nella gestione del patrimonio
rurale, superando il concetto di “naturalità”.
Si potrebbero organizzare, ad esempio, dei percorsi “protetti” o guidati sulle vie del sale, sulle
mulattiere che sono spesso lasciate nel massimo degrado, infestate dai rovi.
Non si è lavorato alla valorizzazione della cultura locale, che secondo me fa parte del patrimonio
rurale perché ne è l'espressione umana. Sarebbe interessante valorizzarne anche l'aspetto linguistico,
il dialetto, visto come strumento di espressione della cultura insita nel patrimonio rurale e come
mezzo con cui chi ne è portatore si rapporta con gli altri.
Come dice il prof. Diego Moreno, il patrimonio rurale è anche un capitale su cui investire
perché la nostra agricoltura possa vivere.
Per continuare ad esistere, la “cattedrale” così cara a Boine, ha bisogno di persone che vi si
incontrino e come un popolo antico si uniscano intorno a quegli ulivi, e qui trovino la speranza e
la sicurezza per aprire le porte a chi vuole entrare.
Giuseppe Gandolfo
Note:
1- Antonio Rebaudo, Le carte della memoria, Arte&Stampa Litografia – Sanremo, 2011, pp. 54.
2- Cevasco Roberta, 2007.
3- Rackham, 1976 in Cevasco Roberta, 2007.
4- Peterken, 1975 in Cevasco Roberta, 2007.
5- Moreno Diego, Cevasco Roberta, 2006.
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6- Dal libro di Marvaldi Laura, 1997, Zia Angela-Storia di donne e di ulivi, frasi tratte da La crisi
dell'olivicoltura in Liguria, in Racconti vari e dispersi, Boine Giovanni, ed. Garzanti, 1983, Milano.
7- Lupo Giuseppe, 2006.
8- Quaini Massimo, 2006.
Bibliografia:
– Aavv, 1994, Pontedassio e la valle Impero: la storia, i profumi, l'arte e la pietra,
conferenze 1992/93, Dominici Editore, Imperia, pp. 156.
– Barichello Roberto (a cura di), 2007, Le varietà di olivo liguri, Regione Liguria,
Assessorato all'Agricoltura, Genova, pp. 13-154.
– Boine Giovanni, 1911, La crisi degli olivi in Liguria, in Il peccato, Plausi e botte,
Frantumi, Altri scritti, Garzanti Editore s.p.a., 1983, Milano, pp 395-414.
– Busca Emilio, Gamba Patrizio, 1999, Tecniche di produzione dell'oliva Taggiasca da
mensa, Regolamento CE n° 1257/1999, Associazione Italiana per l'agricoltura
biologica Liguria, Reg. Liguria Assessorato Agricoltura e Turismo, Genova, pp. 946.
– Caneva Giulia (a cura di), Moreno Diego, Cevasco Roberta, Guido Maria Angela,
Montanari Carlo, 2005, La biologia vegetale per i beni culturali, Vol. II°, Capitolo
decimo, L'approccio storico – archeologico alla copertura vegetale: il contributo
dell'archeologia ambientale e dell'ecologia storica, pp. 463-494 .
– Cervini Fulvio, Giacobbe Alessandro, 1995, Guida storico artistica del Comune di
Pontedassio, Dominici Editore, Imperia, pp 6-25.
– Cevasco Roberta, 2007, Memoria verde. Nuovi spazi per la geografia, Edizioni
Diabasis, Reggio Emilia, pp. 9-60.
– Lupo Giuseppe (a cura di), 2006, Il secolo dei manifesti, Nino Aragno Editore,
Torino, pp. 174-178.
– Marvaldi Laura, 1997, Zia Angela-Storia di donne e di ulivi, Centro Editoriale
Imperiese, Imperia.
– Monzo Chiara, Oreggia Marco, Tiliacos Cristina, 2003, Olio extra vergine di oliva. I
valori della tradizione, la cultura della qualità, Nardini Editore, Firenze, pp. 13-37.
– Moreno Diego, Cevasco Roberta, 2006, Un territorio alimentare da ricomporre,
Progetto ECL, Our Common European Cultural Landscape Heritage, Framework
Programme “Culture 2000”, Laboratorio di Archeologia e Storia ambientale,
Università degli Studi di Genova, Allemandi, Milano, pp. 41-47.
– Odone Paolo, Bruzzo Francesco, Carozzi Sergio, Bottino Gianni, Paganuzzi
Vincenzo, Machiavello Franco, Daino Giuseppe, Pronzati Virgilio, 2001, Olio extra
vergine di oliva D.O.P. “Riviera Ligure”, Unione Camere Commercio Liguri,
Genova, pp. 9-81.
– Quaini Massimo, 2006, L'ombra del paesaggio-L'orizzonte di un'utopia conviviale,
Reggio Emilia, pp. 254, in Moreno Diego, Cevasco Roberta, 2006, Un territorio
alimentare da ricomporre, Allemandi, Milano, pp. 41-47.
– Ramoino Francesco, 1936, Memorie storiche di Pontedassio, ristampa anastatica a
cura del Comune di Pontedassio, Tipolitografia Dominici A.-Editore, Oneglia, 1978,
pp. 43-60, 126-171.
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