PATRIMONIO RURALE E VALORIZZAZIONE DEI PRODOTTI DEL
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PATRIMONIO RURALE E VALORIZZAZIONE DEI PRODOTTI DEL
PATRIMONIO RURALE E VALORIZZAZIONE DEI PRODOTTI DEL TERRITORIO PARTE PRIMA La geografia umana e l'ecologia storica per il patrimonio rurale Questo testo è un tentativo di divulgare degli argomenti scientifici come la geografia umana e l'ecologia storica e di introdurli come ausilio teorico per la tutela e la valorizzazione dell'agricoltura ligure e dei suoi prodotti d'eccellenza. Credo che per il buon esito di queste intenzioni sia importante la consapevolezza da parte degli agricoltori liguri della propria identità culturale, della qualità di quel che producono e del valore ambientale della nostra regione. L'identità culturale degli agricoltori liguri è minacciata da molteplici fattori legati ad una congiuntura economica e sociale difficile. La sua fine, ci renderebbe tutti più poveri anche perché ci priverebbe di un elemento costitutivo di una grande ricchezza: il patrimonio rurale della Liguria. Le frasi su queste pagine non risolveranno i problemi dell'agricoltura ligure, ma forse daranno un piccolo contributo per affrontarli, comunque mi sento moralmente obbligato a scriverle, anche perché migliorare la nostra conoscenza della storia e dell'identità della nostra regione può aiutarci ad affrontare il futuro. Attraverso corsi mirati alla formazione di assaggiatori d'olio, l'Organizzazione Assaggiatori Liguri cerca di promuovere nei produttori e nei consumatori un livello ottimale di conoscenza della qualità degli oli extra vergine, con una particolare attenzione per la produzione locale, anche di olive Taggiasche in salamoia. La Liguria possiede molti altri prodotti eccellenti, creare la consapevolezza di questo tra chi li produce e tra chi li potrebbe consumare ne è la condizione base per la valorizzazione, ma è un lavoro impegnativo e difficile. Vedremo più avanti come si potrebbe coniugare la qualità con la bellezza ambientale e con l'identità culturale. Questa sinergia è forse fondamentale per aumentare il valore della nostra agricoltura. Proviamo ora a prendere coscienza della bellezza dell'ambiente e del territorio ligure attraverso le parole che letterati, scienziati e viaggiatori hanno scritto in varie epoche storiche. Le loro testimonianze descrivono e giudicano il paesaggio e la cultura che lo accompagna, il modo dei liguri di costruirlo e di viverlo. Confrontandole con l'aspetto attuale del territorio, ci permettono di capire l'entità e la qualità dei cambiamenti che, nel trascorrere del tempo, hanno coinvolto e a volte sconvolto il patrimonio rurale, e quindi anche il paesaggio. Oltre ad altre fonti, faremo riferimento all'opera del Prof. Massimo Quaini L'ombra del paesaggio – L'orizzonte di un'utopia conviviale. Questo libro è un saggio di geografia umana, la disciplina geografica che studia la presenza antropica sulla terra e le relazioni dell'uomo con l'ambiente. Ci limiteremo ad alcuni nomi che ci sembrano più significativi ai fini del nostro discorso, tra i molti che sono stati studiati da Quaini. Uno fra questi è Giovanni Boine, la cui opera è sicuramente una delle fonti più interessanti per quanto riguarda la storia del patrimonio rurale, di cui il paesaggio è una componente. Foto Giovanni Boine 1 Il suo articolo La crisi degli ulivi in Liguria venne pubblicato anche sulla “Voce” nel 1911, e fu forse la sua denuncia più forte. A quei tempi, Oneglia e Porto Maurizio erano le principali piazze di commercializzazione degli oli d'oliva in Italia, arrivando a controllare il mercato internazionale. Qui si fissava il prezzo di riferimento italiano per gli oli d'oliva. Qui lo straordinario volume delle contrattazioni finì per formare enormi ricchezze. Foto porto di Oneglia 2 foto porto di P. Maurizio Ne sono una prova le bellissime ville con i loro grandi parchi costruite dai commercianti oleari nella prima metà del novecento. Foto panorama Oneglia e P.M. 3 Nei secoli precedenti il crescente consumo di oli di oliva aveva indotto gli agricoltori del ponente ligure a impiantare nuove coltivazioni di ulivi. Nelle nostre vallate venne messa a dimora principalmente la cultivar Taggiasca. Ne è una testimonianza un brano scritto dal Dott. Francesco Ramoino nelle Memorie storiche di Pontedassio: Abbiamo già visto che il nostro territorio era anticamente coltivato a cereali e a viti, che vi era molto bestiame vaccino che profittava dei pascoli di Nimunte, ove esistevano vari caseifici. La popolazione viveva dei suoi prodotti e stava bene. Dopo che fu introdotto l'olivo - il quale sul principio venne piantato sui confini del podere, quale termine divisorio - si sviluppò l'industria dell'olio, prima per uso familiare e locale, poi per esportazione. Nel 1700 i nostri oliveti soppiantarono un po' per volta prima i seminativi poi i vigneti tanto che la popolazione abbandonò il poco redditizio mestiere del caseificio e si dedicò completamente agli oliveti che rendevano molto per il continuo aumento del prezzo dell'olio e trascurando il bestiame lattifero. Sul 1800 erano famose le squadre di muli che da Pontedassio e da Villa Guardia partivano pel Piemonte carichi di otri, o “pelli” cioè pelli di capre conservate. La nostra valle costituiva la via più breve per trasportare l'olio in Piemonte ed era quindi la più battuta. Varie famiglie di Pontedassio apersero in Torino dei negozi d'olio e diventarono ricche. (…) Dopo il 1880 incominciò la decadenza. Diminuì il prezzo degli oli e degli oliveti. Molti agricoltori che avevano comperato terreni a prezzi alti nella speranza che ancora crescessero, ricorrendo a prestiti con ipoteche, caddero lentamente nella miseria, perché gli interessi divoravano il capitale. Quali furono le cause di tale lenta decadenza della nostra olivicoltura? Foto piroscafo 4 Le cause sono complesse, io le raggruppo però tutte in una parola: la modernità. (… ) L'adozione del vapore per le ferrovie e per le navi, della elettricità per forza motrice ha profondamente modificato i nostri commerci. La navigazione a vapore ha sostituito quasi completamente il vecchio bastimento a vela ed ha accentrato nelle mani di poche compagnie quasi tutta l'industria dei trasporti marittimi, diminuendone i prezzi. Quella modernità la quale poggiando sovrattutto sullo sviluppo rapido e gigantesco della chimica e della elettricità, rese facili le vie di trasporto per terra, creò il commercio oltreoceanico dell'olio, e tutte le manipolazioni del medesimo, che fecero arricchire i negozianti e gettarono nella miseria gli olivicoltori. Foto oneglia il ponte Ed inoltre Ramoino scriveva: Il lavoro, dei nostri antichi progenitori per rendere adatti alla coltivazione dell'ulivo quei terreni sterili e dirupati, fu immane, faticoso, secolare. Non solo si dovette con mine e mazze rompere i macigni per costruire i muri a secco, ma abbisognò trasportare il terreno dall'alto al basso per colmare i vuoti fra i muri e la collina per formare la così detta fascia e dare alla regione l'aspetto come di un immenso anfiteatro. Il libro del Ramoino è stato scritto a partire dai primi anni del novecento, fino alla morte dell'autore, avvenuta il 5 febbraio 1929. Quindi egli aveva vissuto e scritto anche negli stessi anni in cui era attivo Giovanni Boine. Infatti le notizie e i fatti narrati coincidono: i due autori sono concordi nella descrizione dell'immane fatica per la costruzione dei “maxei” (muri) e nell'individuare tra le cause della crisi dell'olivicoltura in Liguria il proliferare del commercio degli oli d'importazione. Foto uliveto Taggiasca 5 Boine scrive: il popolo del mare che impingua, la tribù dei commercianti che arricchisce sicura attraverso il controllo del mercato internazionale dell'olio. Egli ha un legame di religiosa ammirazione per gli agricoltori che hanno elevato: terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro per quindici per venti chilometri dal mare alla montagna (… ) hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin su alla montagna, facendo ogni generazione sacrificio di se stessa alla generazione veniente e lasciando come il popolo di una città medioevale, la cattedrale sua sulla montagna. E' evidente come entrambi gli autori abbiano compreso, seppur con sensibilità ed esiti letterari diversi, di quale portata fosse la pratica di attivazione della risorsa olivicola. Le parole più ricorrenti nel descriverla sono: immane, ciclopico, faticoso, secolare, tenacemente, faticosamente, religiosamente. Nelle parole di Boine, quest'analisi ha dei felici risultati letterari, che sono stati riconosciuti dai più autorevoli critici. Attraverso delle interviste raccolte tra l'anno 2009 e il 2010 a cui si sono volontariamente sottoposti degli agricoltori di genere ed età differenti, è facile cogliere la consapevolezza diffusa del sacrificio necessario per costruire una tale mole di terrazzamenti, certezza che coincide in modo impressionante con gli scritti di Ramoino e di Boine. Foto uliveto 6 Era di Boine una delle prime denunce della contraddizione fra la speculazione commerciale e il destino dell'agricoltore: il futuro di famiglie intere dipendeva dal prezzo dell'olio, e il prezzo dell'olio dipendeva molto spesso dalla volontà degli speculatori. E scriveva che il contadino, a differenza del commerciante, “non sa mutare col mutar delle cose”, ma Quaini aggiunge “non può mutare perché la sua base è la terra, il suo capitale sono le piante d'ulivo “lentissime a crescere”, sono i muri a secco che richiedono cure e manutenzione anche negli anni di carestia.” In quegli anni iniziò l'abbandono delle campagne, molti alberi furono tagliati per farne legna da ardere. Lentamente, ma inesorabilmente, i paesi furono abbandonati, a cominciare da quelli più isolati. Foto Montalto Ligure 7 La società ligure viveva nel mito del progresso futurista, che era allora intriso di tecnologia, di industria, di commercio sempre più specializzato e veloce. Foto Genova Poi, come documenterà anche Italo Calvino, si trasformerà in una devastante speculazione edilizia, 8 in un turismo di massa soffocante per gli stessi turisti. Foto attico Sanremo Oggi, come Quaini ci dice, possiamo abbozzare un bilancio di questo modello di sviluppo e accorgerci che “non è sviluppo quello che ha lasciato e lascia crollare la cattedrale”, costruita sulla montagna dalla “civiltà della pietra”. Pietra su pietra, con secoli di fatica, fatica che ha consumato i corpi degli uomini, delle donne, dei bambini. Alcuni pensano che la loro anima sia rimasta sulle pietre, colorata dal tempo, sulle fronde degli ulivi, sull'erba che si apre al vento, che la svela. Gli stessi sperano che finché la cattedrale sarà in piedi, l'anima non morirà. Gli uliveti non avrebbero mai potuto avere, in Liguria, un'estensione così ampia senza l'attivazione dei terrazzamenti in pietra a secco. Le pratiche di coltivazione utilizzate ancora negli anni sessanta del novecento prevedevano la raccolta a mano delle olive cadute a terra, e quindi era necessario un lavoro di preparazione del terreno, sarchiarlo, perché le dita delle raccoglitrici non incontrassero ostacoli: questo sarebbe stato impossibile su un terreno scosceso. I “maxei” di pietra divennero un fattore strategico per la nostra agricoltura, e caratterizzante nell'attivazione e perennizzazione della risorsa olivicola. La pietra e l'ulivo trascendono la loro materia e donano un'identità ad ampie zone della Liguria. Questo era stato intuito e descritto da Boine più di cento anni fa, ma forse la sua opera non ha avuto tutta la fortuna che meritava. Quarant'anni dopo la pubblicazione delle denunce di Boine, i contadini liguri del ponente riapparvero, nel 1945, sulle corrispondenze da Sanremo di Italo Calvino, foto Calvino 9 che Quaini ci segnala pubblicate sul “Politecnico” di Elio Vittorini: Liguria magra e ossuta. Non solo alberghi e palmizi, in Riviera di Ponente, ma anche contadini poveri. La contraddizione denunciata da Boine fra il denaro e la Terra si è trasformata nel contrasto fra il paesaggio del lusso 10 balneare e quello della fatica contadina e della montagna più povera: Sopra al placido mondo dei campi da tennis, delle hall guarnite di palme, nelle “fasce” degradanti il contadino continua una vana, solitaria lotta a colpi di bidente. Foto le palme coprono le case 11 foto vigneto terrazzato E nella successiva inchiesta “Riviera di Ponente”: E' una storia in discesa, in cui a poco a poco i paesi di montagna e di collina si spopolano, le campagne più alte vanno in sfacelo, gli abitanti scendono man mano a valle. Alla fine la vita è quasi solo più sulla costa: vita comoda per chi non ha voglia di lavorare, vita dura per chi deve lavorare sul serio ancora. Per questo, salendo sopra i duemila metri, si continua a vedere la montagna terrazzata a “fasce”. Ma sono fasce incolte, piene di cespugli, senza più muri, fasce forse di dieci secoli fa, dalla terra impoverita e dura. E paesi ammucchiati e grigi, case costruite a secco, con le stalle a pianterreno, i tetti di lavagna, case che sembrano si sostengano l'un all'altra, paesi dove abitano solo pochi vecchi, paesi per venirci a morire. Sembra non ci siano che pietre. Pietre nei selciati delle mulattiere, case fatte di pietre senza intonaco, muri a secco nelle fasce, la terra nei campi piena di pietre. Anche i vecchi, rimasti nei paesi, sembra siano di pietra. Forse per questo sono rimasti. Foto Piaggia Negli anni successivi al 1945 Calvino descriveva, dunque, quel patrimonio rurale costruito con le pietre, ed evidenziava i risultati dell'abbandono di quei manufatti essenziali alla vita della “cattedrale” di Boine. Quel che Boine aveva intuito, e con angoscia previsto, era avvenuto, nell'indifferenza di molti e soprattutto di molti potenti, rovo dopo rovo, frana dopo frana, era avvenuto. Foto effetti dell'abbandono 12 All'inizio degli anni settanta Calvino scriveva: Domani altri sviluppi economici e sociali si succederanno, nasceranno altri modi di passare le vacanze e di godere la vita; forse quel paesaggio che nel giro d'appena una decina d'anni è stato distrutto in fretta e furia tornerebbe a essere un bene godibile per un nuovo costume, per un nuovo tipo di convivenze umane. Ma non ci sarà più, e al suo posto resterà l'immancabile sfilata dei casermoni malcostruiti. Foto fiori e panorama di Sanremo Furono gli anni della cementificazione sfrenata del litorale ligure, qui sorsero in breve tempo intere città balneari. Scomparvero molte delle ville ottocentesche e del primo novecento con i loro giardini, quasi tutti i pascoli in riva al mare e gli orti antichi, persino i campeggi degli anni 13 sessanta. Ma Italo Calvino non smise di sperare in una possibile rinascita, anche se difficile, dopo tanta devastazione. Foto villa S. Croce foto Sanremo Forse si potrebbe addirittura parlare di sogno, se pensiamo che la Liguria veniva descritta, dai viaggiatori ottocenteschi e del primo novecento, come un “immenso giardino”, lembo beato e paradisiaco d'Italia”, o come un “magico spettacolo”. A determinare queste impressioni sono i 14 paesaggi agrari, in cui i borghi costieri sono legati indissolubilmente all'entroterra montano. Foto uliveti vigneti terrazze Cinque terre foto raccolta dei fiori Nell'ottocento, nelle guide delle località costiere di turismo invernale, la spiaggia e il mare sono un elemento dell'offerta turistica al pari della collina. Venivano propagandati Dolceacqua, la valle Argentina, i borghi arroccati, e perfino i paesaggi alpini. Questi erano i paesaggi descritti da Giovanni Ruffini nel romanzo Doctor Antonio, pubblicato ad Edimburgo nel 1855, che tanto colpì l'immaginazione dei lettori inglesi. Molti di essi vollero vedere i paesaggi che, sulla strada da Alassio a Nizza, facevano da scena al romanzo, divenuto un 15 importante esempio di promozione del territorio ligure. Foto Dolceacqua Foto costa levante Sanremo Ruffini scriveva: Ci sono poche strade più belle di questa in Europa e poche certamente, come questa, riuniscono in sé tre condizioni di bellezza naturale: il Mediterraneo da un lato, dall'altro gli Appennini e di sopra il puro cielo d'Italia e poi: l'industria (l'opera) dell'uomo (che) ha fatto ogni sforzo se non per superare, almeno per non rimanere inferiore alla natura. E ancora: palazzi marmorei e ville dipinte eretti fra vigneti aprichi, giardini vagamente fioriti e boschetti di aranci e limoni; un'infinità di bianchi casini con gelosie verdi, sparsi per i declivi di quei colli, sterili un tempo, ora coperti di terrazzine, l'una sull'altra elevate a raccogliere il poco terreno e vestiti in cima di oliveti. Tutto insomma quanto v'è, creazione della mano dell'uomo, 16 mostra l'operosità e l'industria di una razza di popolo vigorosa e gentile. Foto via Baragallo2 foto 17 Quaini aggiunge che se l'uomo ha operato in accordo con la natura, ne deriva che per tutelare il paesaggio era ed è necessario conservare le condizioni per mantenere quest'alleanza. Esiste l'ipotesi che i nostri antenati fossero consapevoli che il destino della Riviera fosse legato a quello della collina e della montagna. Possiamo, però, affermare con sicurezza che, oggi come allora, le due parti, montagna e mare, non possano esistere da sole. I problemi dell'entroterra e del litorale, la dicotomia tra le due parti con l'apparente supremazia di una sull'altra e, per riassumere, la rottura dell'armonia costruita pietra su pietra, come una cattedrale, si ripercuoterà, prima o poi, su entrambe, come ci insegna l'alluvione delle Cinque Terre. Foto alluvione Cinque Terre 18 E' necessario citare altre testimonianze, come quella di Charles Garnier, celebre architetto parigino, che nel 1883 aveva segnalato agli artisti e agli amministratori locali di Bordighera che i paesaggi che circondavano la città alta erano meritevoli di essere rappresentati e salvaguardati. Un tedesco, Lodovico Winter fu l'artefice dei giardini Hanbury e di altri parchi della Riviera. Nel 1885 pubblicò un manifesto diretto alle amministrazioni comunali rivierasche: Coltiviamo dunque le nostre campagne. Il non coltivarle è un venir meno agli obblighi che ogni possidente ha verso la Società. Educhiamo i nostri figli acciocché si appassionino alla coltura del suolo (…). Coltivando bene le nostre campagne il forestiero verrà più volentieri da noi ad ospitarsi. Non occorrono per ciò costosi boulevards che non fanno altro che guastare il carattere bello della campagna. Rendiamo piuttosto le campagne accessibili per i trasporti agricoli con strade di larghezza sufficiente ed in linee che si adattino alla topografia dei luoghi, conservando così quel carattere campestre ed incantevole. Foto uliveto con maxe basso 19 foto Bordighera E' evidente quanto questi stranieri fossero innamorati del carattere più autentico della Liguria: i suoi orti, la sua campagna ben coltivata. Per Alassio Quaini ci offre la testimonianza di un inglese, Gordon Home, che nel 1908 scrisse: (…) il Comune sembra propenso a spazzar via ogni traccia della città conosciuta e amata dai padri; anno dopo anno i fondi pubblici sono dissipati in operazioni che avranno fine solo quando 20 l'ultimo brandello di ciò che è peculiare e pittoresco in Alassio sarà cancellato in una nuvola di polvere di cantieri. (…) Ora ampi viali sono stati costruiti a spese di continue demolizioni e del taglio di venerabili ulivi. Foto Alassio storica Questa denuncia da parte dei turisti inglesi è un segnale di quanto essi amassero i connotati del patrimonio rurale ligure, composto di orti, uliveti, frutteti, pascoli in riva al mare, e fa pensare a quel che ne direbbero oggi, vedendo lo scempio del paesaggio che continua, apparentemente inarrestabile. Non dimentichiamo, però, che gli inglesi furono anche la principale causa di questi cambiamenti, proprio perché “turisti”, e alcuni di loro furono anche attivi nella speculazione edilizia. Foto Alassio litorale 1929 21 Lo sviluppo turistico “classico” è un fenomeno di consumo che si nutre della novità di luoghi incantevoli e sconosciuti ai più. Li occupa progressivamente in modo fisico, spesso sconvolgendone il tessuto sociale, la cultura, gli stili di vita, a volte fino all'esaurimento del loro territorio e delle risorse umane. Foto spiaggia affollata ad Alassio 22 E' necessario, specialmente in Liguria, pensare a modelli di turismo differenti, che possano coniugarsi con la tutela di quel che rimane del patrimonio rurale. Forse Italo Calvino ha incarnato il trauma che le due riviere della Liguria hanno subito nel secondo dopoguerra. La cattedrale sul mare era in un delicato, ma ancora sostenibile equilibrio, era una società rurale e marinara precocemente industrializzata nei suoi centri maggiori, con significative, ma non opprimenti presenze turistiche in alcuni borghi costieri. Ebbe in pochi anni uno sviluppo turistico che purtroppo si può identificare con una speculazione edilizia tra le più devastanti e caotiche. Infatti Calvino faceva descrivere così il cambiamento del paesaggio di Sanremo (che se ne andava così sotto il cemento) da Quinto, il protagonista del libro La speculazione edilizia: Quando Quinto saliva alla sua villa, un tempo dominante la distesa dei tetti della città nuova e i bassi quartieri della marina e il porto, più in qua il mucchio di case muffite e lichenose della città vecchia, tra il versante della collina a ponente dove sopra gli orti si infittiva l'oliveto, e, a levante, un reame di ville e alberghi verdi come un bosco, sotto il dosso brullo dei campi di garofani scintillanti di serre fino al Capo: ora più nulla, non vedeva che un sovrapporsi geometrico di parallelepipedi e di poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti e finestre, muri ciechi per servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei gabinetti uno sopra l'altro. Foto zona salita ospedale attuale 23 I luoghi di Calvino sono come quelli che molti di noi hanno visto e vissuto durante la propria giovinezza o l'infanzia, sono divenuti irriconoscibili, sono stati sconvolti, sono stati cancellati irrimediabilmente. Prevedendo tutto questo, Italo si arrese, decise di vendere la proprietà di famiglia e scelse un volontario esilio. Francesco Biamonti scriveva: Timoroso che quel punto della sua vita venisse cancellato prima o dopo (...)con un atto improvviso lo cancellò lui stesso, vendendo, per tirarsi fuori dai rimpianti, per dare un taglio netto. Pensava che Parigi potesse bastargli. Ma il rimosso tornò non esente da un senso di colpa e lo scrittore si sentì esule su tutte le rive del mondo (…) e la terra lavorata dal padre – cedri, limoni, aranci in faccia al mare – divenne l'Eden perduto, la gloria assente di un mondo scomparso. Così commenta queste frasi il prof. Quaini: Tutti noi, liguri di Riviera dovremmo in fondo al nostro cuore albergare lo stesso sentimento e provare la sensazione dolorosa di un mondo scomparso, di un Eden perduto, non per farci soverchiare dalla nostalgia, ma per capire e costruire uno scenario migliore di quello iscritto nel paesaggio che la generazione operante negli anni Cinquanta e Sessanta ci ha trasmesso. Uno scenario che trovi ancora la sua ispirazione nel paesaggio mediterraneo, dopo che la cultura regionale si è per più di un secolo ufficialmente ispirata a modelli estranei e stranianti. Un importantissimo geografo storico come Fernand Braudel, descriveva la Liguria come una montagna che sorge in mezzo a due grandi pianure: la pianura liquida del mare e la pianura terrestre della Padania. Quaini pensa che sia questo suo essere “isola” e montagna che la faccia essere qualcosa di simile all'Eden, una terra dove crescono le piante di tutti i climi, un vero regno della biodiversità. Foto hanbury 24 Questa traccia di testimonianze riguardo al patrimonio rurale ligure può forse continuare con un libro che mi permetto di segnalare all'attenzione dei lettori, oltre che per il suo valore letterario, per l'attenzione e la precisione con cui coglie i particolari e l'essenza del patrimonio rurale ligure: nel suo Battitore libero, Riccardo Giordano ha saputo compiere un lavoro che sembra ispirato alla geografia storica e umana e all'ecologia storica. Nella sua ricerca letteraria, Giordano si rifà esplicitamente all'opera di Giovanni Boine e al rapporto di quest'ultimo con la sovrumana costruzione del terreno coltivabile, la famosa “cattedrale di pietra”. Vengono piacevolmente descritte altre pratiche di coltivazione, la lavanda, gli ulivi, gli alpeggi e, con un accenno all'ecologia storica, le coltivazioni ormai abbandonate e che apparentemente non hanno lasciato traccia come il grano e le patate, ma che sono rimaste nella memoria della gente e in quella della terra. Foto valle del Maro Leggiamone una pagina: 25 A monte della strada, invece, c'erano i resti di altri campi, e per quanto ci si trovasse ad oltre settecento metri d'altitudine, accompagnavano intatti le pieghe del terreno, incuranti del tempo, centinaia e centinaia di muri a secco, che scalavano verso la sommità del monte Follia. Un lavoro disumano, tirarli su fino a quelle altitudini, e Carluccio lo sapeva. Un lavoro di creature più dure di quella pietra che solo la tenacia ed il sacrificio avevano insegnato sapientemente a posare. I muri contenevano le fasce, che avevano ospitato gli alpeggi, i campi di grano, quelli di patate, gli orti e tutto quanto servisse per addomesticare quel territorio. “Ora li stiamo abbandonando...” si disse. (…) Ora la strada menava di nuovo tra castagneti da frutto. Giù in basso si vedeva qualche vigneto e infine gli ulivi, distese d'ulivi sin quasi a lambire il mare. E così era ai tempi di suo padre e di suo nonno ed è ancora dappertutto, in Liguria, lo sapeva, malgrado gli scempi degli speculatori dell'edilizia in prossimità della riva. Per centinaia e centinaia di chilometri in lunghezza e per centinaia e centinaia di metri in altezza, muri di pietra, nei boschi, nei prati, per le strade, nei rii, muri di pietra ovunque. Furono davvero gli uomini a realizzare tutto questo? Se lo chiedeva e si rispondeva: no, non furono gli uomini, è impossibile. Furono i ciclopi, furono creature gigantesche, dalla forza sovrumana, che dimoravano sui monti e per raggiungere più comodamente le loro case, al ritorno dal lavoro, avevano costruito delle gradinate alla portata dei loro passi e dei loro piedi. Furono i ciclopi, non poteva essere che così. Ancora oggi (…) si scorgono le ossa dei loro giganteschi femori, delle loro tibie, che fuoriescono dal terreno. Loro, i ciclopi, presero tutta la poca terra disponibile per riempire i gradini e gliene rimase pochissima per seppellire i corpi enormi dei loro morti. E ancora: Gli alberi di ulivo sono stati potati e nelle fasce l'erba è alta un palmo. Dov'è già stato falciato, s'ingigantisce di luce il profilo pulito dei muri a secco. (...) Non è come le campagne francesi. E' tutto più piccolo, tranne la gradinata di muri, tutto più raccolto. Non è neanche campagna. Dà piuttosto l'idea di un grande manufatto. Foto uliveto con maxei prino E' forse quest'ultima parola, “manufatto”, a spiegare meglio l'essenza della campagna ligure: un lavoro disumano, tale da evocare il mito dei ciclopi, compiuto generazione dopo generazione, ma il risultato è un patrimonio rurale tra i più suggestivi del pianeta. Giordano utilizza il concetto di manufatto per descrivere la vegetazione di un sito, e questo è uno dei fondamenti dell'ecologia storica, anche se poi idealizza e generalizza nel confrontare l'aspetto delle campagne francesi a quelle liguri. L'ecologia storica è una scienza che si occupa dello studio di quel che avviene tra gli esseri viventi e il loro ambiente, individuando necessariamente un luogo (sito) in cui effettuare la ricerca e considerandolo nella propria dinamica storica, ovvero nei cambiamenti dovuti al lavoro e alla presenza umana, animale e vegetale nel corso del tempo. Un uliveto terrazzato con muri a secco è quindi un manufatto nel senso che per realizzarlo i contadini avevano a disposizione un terreno di cui conosciamo scientificamente poco, e che quindi si dovrebbe esaminare per capire come fosse in origine. Ma tutte le testimonianze, compresa quella del Ramoino, sono concordi nel dire che di solito si trattasse di pendii scoscesi, con delle rocce affioranti e della copertura vegetale. Si procedeva con il taglio della vegetazione e l'utilizzo del fuoco per eliminarla, lo spacco delle rocce per ottenere delle pietre da assemblare a secco e la successiva costruzione del “maxe”, il riempimento dello spazio ottenuto tra il muro e il suolo con terra trovata nelle vicinanze o trasportata da luoghi più remoti. Infine l'impianto degli ulivi e la conseguente coltivazione. 26 Si potrebbe confermare questa descrizione con un'ulteriore testimonianza tratta dal libro Le carte della memoria di Antonio Rebaudo che si riferisce alla pratica attivazione di un vigneto, identica per quanto riguarda la fase costruttiva dei terrazzamenti a quella di un uliveto (1): A. cominciò a disboscare un ripido castagneto marginale e poco produttivo per farne una vigna. Si procedeva così: si tagliavano gli alberi e si bruciavano gli sterpi. Poi, cominciando dal fondo del declivio, si scavavano le fondamenta del muro di sostegno del primo terrazzo che veniva riempito di terra scavata con piccone e pala (…) I massi trovati sul posto bisognava spaccarli. Provò prima col fuoco, poi passò alla dinamite, anche per preparare le pietre necessarie all'erezione dei muri. I terrazzi così eretti furono sette per una lunghezza di una settantina di metri. Foto vigneto terrazzato Sanremo E' relativamente semplice associare un concetto astratto come quello di “manufatto” alla vegetazione di un uliveto o di un vigneto terrazzato con muri in pietra a secco, perché questo implica la costruzione di opere che resteranno tangibili e visibili per secoli. Più complicato è invece accostare il medesimo termine ad un semplice prato utilizzato da secoli per il taglio del fieno o come pascolo. In realtà entrambe le coperture vegetali sono dei manufatti. Foto prato da sfalcio Per “attivare” lo strato erboso adatto a produrre foraggio è necessario tagliare e ardere la vegetazione preesistente, rimuovere e accatastare le eventuali rocce o pietre affioranti. Inoltre le specie vegetali foraggere migliori si sviluppano solo in seguito allo sfalcio o alla pastura, mentre i prati abbandonati sono infestati da erbe di scarso valore per l'alimentazione animale. Per questi motivi l'ecologia storica definisce “manufatto” anche un semplice prato, naturalmente 27 dopo averne studiato la storia. Questa pratica di attivazione per un prato è ampiamente documentata nel libro Memoria verde di Roberta Cevasco (2). Dopo aver letto le testimonianze dei vari autori credo che sia inequivocabile il loro apprezzamento alla bellezza e al clima della nostra regione. Però essi non si fermano a questo giudizio, capiscono il valore di un paesaggio agrario costruito dall'uomo, ne colgono il valore dato dalla faticosa precisione nel costruire un delicato sistema idrogeologico, in cui un muro a secco si appoggia alla fascia retta da quello inferiore, dove la pendenza del terreno fa confluire le acque piovane in un lungo canale di scolo, perché possano convogliarsi in un rio, il tutto ripetuto centinaia di volte, passando attraverso decine, centinaia di proprietà private. Questo sistema non venne pianificato da un'autorità superiore, come per le “trappole idrauliche” asiatiche, ma fu il risultato dell'accordo e del lavoro della gente, del bisogno coltivare le campagne, di preservarne il valore per le generazioni future. Fu una cultura del cooperare tenace, che seppe superare e al tempo stesso preservare i limiti della proprietà privata attraverso il rispetto di regole scritte e soprattutto non scritte, che resse per secoli il destino di un territorio bellissimo e fragilissimo. Forse fu il risultato paesaggistico di questa cultura che affascinò e stupì la mente di quegli stranieri colti. I liguri detentori di quella cultura, riuscirono sempre meno a trasmetterla alle generazioni successive che vissero e vivono sempre più spesso senza la consapevolezza di quell'identità ormai dimenticata. Molto è dunque perduto, siamo più poveri, ma le testimonianze che abbiamo appena letto dovrebbero farci riflettere e capire che attraverso la conoscenza del passato della nostra terra possiamo prendere coscienza delle sue e nostre potenzialità, che vanno oltre la mera speculazione edilizia e che dovrebbero concretizzarsi, nelle aree dove è ancora possibile, in uno sviluppo in equilibrio tra agricoltura, cultura e turismo. Pensiamo dunque che il patrimonio rurale sia anche un bene culturale, in cui possiamo ritrovare valori etici, morali, spirituali ed economici. Un vero patrimonio su cui investire ed a cui attingere per uno sviluppo sostenibile e duraturo della società rurale. 28 PARTE SECONDA Alcuni tentativi di tutela del territorio Nel tentativo di tutelare il paesaggio la Regione Liguria emanò la legge sui parchi regionali del 1977, che porta il titolo di Norme per la salvaguardia dei valori naturalistici e per la promozione di parchi e riserve in Liguria e in seguito istituì il Piano Territoriale di Coordinamento Paesistico (PTCP) conseguente alla legge nazionale 431/1985 (legge Galasso). Le notizie che ci sono pervenute sull'esito operativo di entrambi i provvedimenti sono negative, soprattutto a causa dei loro limiti culturali. Nel primo le aree da proteggere sono state definite cercando di escludere dalla loro gestione la presenza degli abitanti delle “aree protette”, considerati come “disturbatori” delle “comunità” animali e vegetali. I paesaggi di queste zone vengono considerati “naturali” dal legislatore, che probabilmente non conosceva o interpretava in questo senso la storia di quei luoghi, del loro ambiente, quindi la loro ecologia storica. Foto bosco delle navette Anche il PTCP risentiva dell'impostazione “naturalistica” di cui abbiamo accennato e, di fatto, impedì o ritardò una corretta tutela paesistica, che per anni non riuscì ad andare oltre l'impostazione vincolistica. La legge regionale 23 ottobre 2007 n. 34 che istituisce il Parco naturale delle Alpi Liguri risente delle impostazioni dei provvedimenti di cui abbiamo accennato, anche se segnaliamo dei miglioramenti importanti. Nell'articolo 2, tra i suoi scopi, leggiamo: al punto a): la tutela e la valorizzazione del patrimonio naturale, con particolare riferimento alle conformazioni e singolarità geologiche, alle risorse idriche, alle risorse forestali, alle connessioni ecologiche, agli habitat, alle specie vegetali ed animali rare, endemiche, vulnerabili, ovvero protette da convenzioni e obblighi internazionali e comunitari o da leggi statali e regionali, alle espressioni caratterizzanti il territorio del parco di compresenza di specie appartenenti a fasce 29 climatiche diverse. Si pone sempre come priorità la tutela e la valorizzazione del patrimonio naturale, mettendo dunque in secondo piano il fattore antropico, in una zona dove il lavoro dell'uomo ha riguardato la maggior parte del territorio, almeno fino ai duemila metri, attraverso le coltivazioni, l'attività forestale, il taglio del fieno e il pascolo. Al punto b) viene poi aggiunta la tutela e valorizzazione del patrimonio etno-antropologico, storico, culturale della comunità locale, come se l'aspetto naturale e quello culturale fossero due entità distinte. Se non lo abbiamo già chiarito, vedremo in seguito come questi due fattori siano ormai, per la maggior parte del territorio, indissolubilmente legati. Foto mucche al pascolo Al punto c) la tutela e la valorizzazione del paesaggio, quale espressione della equilibrata integrazione fra le risorse degli ambienti naturali e l'uso che la comunità locale ne ha fatto nel corso della sua storia. Anche se è evidente una volontà equilibratrice della dicotomia tra natura e cultura, si prende a riferimento un'entità astratta come il paesaggio quale “espressione della equilibrata integrazione” fra un ambiente, che dopo migliaia di anni di presenza e lavoro umano si continua a definire “naturale” e un “uso” di cui la comunità locale è beneficiaria. Il paesaggio, nel corso del tempo, ha subito dei cambiamenti dovuti a fattori naturali, ma, almeno nella nostra regione e nelle aree limitrofe, soprattutto umani. Sorge il dubbio che si voglia fissarlo entro determinati canoni che potrebbero non rispondere più alle necessità delle comunità locali. In ogni caso, le modifiche del paesaggio dovrebbero avvenire in modo tale da non violentare il territorio, perpetuando l'armonia di cura e di proporzioni che hanno così favorevolmente impressionato i sensi di tanti visitatori e viaggiatori in Liguria. Occorre precisare, però che il parco sorge in zone poco abitate, dove quindi le esigenze della popolazione sono meno pressanti. Al punto d) la promozione per lo studio, la divulgazione, la fruizione pubblica dei valori e delle peculiarità naturali e culturali dell'area. 30 Al punto e) il concorso allo sviluppo culturale, sociale ed economico delle comunità locali, valorizzando l'identità delle tradizioni e dei luoghi, e promuovendo come risorsa la qualità e la diversificazione ambientale, naturale e culturale. Al punto f) la promozione di iniziative coordinate in campo naturalistico, forestale, agricolo, culturale, turistico, artigianale, commerciale, di riqualificazione ambientale e di miglioramento dei servizi, anche in collaborazione con le regioni limitrofe. Notiamo dunque la continua separazione tra le istanze naturali e agricole, segno che non si è ancora recepito in sede legislativa la teoria scientifica alla base dell'ecologia storica e quindi è assente il concetto di patrimonio rurale. Questa volontà del legislatore, porta a conseguenze curiose nell'ambito delle attività colturali. Ad esempio gli uliveti abbandonati sono classificati “bosco” dalle autorità forestali, quindi con il divieto di tagliare gli alberi spontanei, come le querce. Però dalle autorità fiscali sono sempre considerati dedicati all'attività agricola, con il conseguente valore da dichiarare in caso di vendita. Sono sempre le querce ad essere protagoniste delle attenzioni delle autorità forestali nei terreni terrazzati di proprietà di F., che avrebbe la possibilità di sfruttarne le fronde tagliandole e vendendole come verde decorativo. In questo modo si otterrebbero dei risultati economici positivi per l'azienda agricola F., e il terreno sotto gli alberi sarebbe mantenuto pulito e al riparo da incendi. Ma la potatura delle querce, per essere remunerativa, dovrebbe avvenire in una stagione in cui vige il divieto di taglio delle piante, che sono considerate naturali, anche se le fasce dove vegetano sono chiaramente il risultato di una pratica colturale precedente. Proprio in casi come questo si può apprezzare il risvolto pratico di una scienza come l'ecologia storica. Lo studio della storia ecologica di quel sito molto probabilmente ne dimostrerebbe la destinazione agricola. In entrambi gli esempi il legislatore applica delle regole di tutela della vegetazione in aree un tempo coltivate, impedendone quindi la riattivazione dell'attività colturale. E' auspicabile, e forse questo sta già avvenendo, un riorientamento della volontà legislativa verso il recupero dei terreni agricoli abbandonati, per troppo tempo sconsideratamente tutelati come “naturali”. Credo sia il caso di citare, grazie al lavoro della prof. Roberta Cevasco, il parco di Lygra (Heathland Centre) in Norvegia per la valorizzazione archeologica e storico-ambientale della brughiera atlantica. La storia del luogo è stata documentata da oltre trent'anni di ricerche condotte dall'Università di Bergen. Il patrimonio rurale di Lygra è il risultato di cinquemila anni di sistemi di gestione delle risorse ambientali, quindi di lavoro umano, è ricco di ripari dell'Età della Pietra, collinette tombali dell'Età del Ferro, fattorie e carbonaie dell'Età Vichinga. Fino agli anni '50 del novecento si pensava che la brughiera fosse dovuta a un deterioramento climatico avvenuto 2500 anni fa, che impediva la presenza del bosco. In realtà era la conseguenza di una lunga storia di interazione tra attività di pascolo e fuoco controllato a partire dall'Età del Bronzo. Foto brughiera di Lygra in Norvegia 31 La sua attuale gestione è in gran parte affidata agli allevatori locali: le fattorie che vi rientrano sono state coinvolte nella progettazione del parco sin dalle prime fasi. La cooperazione con la comunità locale e quindi l'integrazione tra le informazioni sul patrimonio storico-ambientale e l'osservazione diretta delle attività locali di allevamento e pesca è stata determinante perché l'UNESCO desse il suo riconoscimento. I ricercatori hanno studiato le aziende agricole ancora attive, che in molti casi esercitano anche la pesca, e hanno cercato con successo dei riscontri con i risultati archeologici e storico ambientali. La brughiera di Lygra era invasa da ginepri a causa del progressivo abbandono del pascolo verificatosi a partire dal 1960. Nel 1992 iniziò l'opera di ricostruzione con il taglio degli alberi e l'incendio controllato a mosaico per rinnovare le risorse erbacee. Congiuntamente venne aumentato il numero di pecore della vecchia razza norvegese (wild sheep) in grado di pascolare nella brughiera tutto l'anno, permettendo così il mantenimento della brughiera. Con l'aiuto degli allevatori più anziani gli outfields delle aziende sono state riportate ai livelli di produzione degli anni quaranta del novecento, con il pascolo ovino invernale, l'incendio controllato, il taglio e la raccolta della torba, lo sfalcio del fieno e la raccolta delle alghe. Foto pascoli di Lygra 32 Per mostrare al pubblico i cambiamenti avvenuti nel sistema di pascolo costiero negli ultimi sessant'anni è previsto che gli infields delle fattorie siano gestite secondo tre modalità: il sistema attivo negli anni quaranta, il sistema “biologico” e il sistema con l'uso di fertilizzanti artificiali, meccanizzazione e razze bovine moderne. I siti che descrivono l'attività attuale del parco la qualificano come “tradizionale”. Il lavoro compiuto ha un ritorno economico, in quanto questo territorio è una meta del turismo culturale e ambientale. E' quindi un esempio di quel che i ricercatori chiamano “esternalità positiva” delle produzioni locali, individuandole come “beni culturali e ambientali”. Mi ritornano in mente le parole che ho ascoltato anni fa nel corso della presentazione dell'Atlante dei manufatti in pietra a secco delle Valli Imperiesi-L'architettura delle caselle degli Architetti Paolo Gollo e Barbara Moretto, con introduzione del prof. Lorenzo Mamino dell'Università di Torino. I professori torinesi presenti erano affascinati e stupiti dalla qualità e dalla quantità dei manufatti in pietra presenti nel territorio ligure, tanto da dire esplicitamente che meriterebbero la tutela dell'UNESCO. Inutile dire che i politici locali, presenti fino a livelli di eccellenza, si esibirono in suggestivi discorsi, a cui seguì, sul piano delle iniziative concrete, il nulla. Diverso è il discorso per le Cinque Terre, che sono tutelate da un Parco Nazionale e dal riconoscimento dell'UNESCO. 33 Foto uliveti vigneti terrazzati Cinque Terre A parte le vicissitudini relative all'amministrazione del parco e alla disastrosa alluvione del 25 novembre 2011, il ritorno di immagine per le comunità locali è positivo. Il parco ha comunque il merito di aver valorizzato dei luoghi unici per la loro bellezza e per un patrimonio di terrazzamenti in pietra a secco coltivati posti a strapiombo sul mare. Forse le Cinque terre sono il miglior esempio in Liguria per quanto riguarda la promozione di un turismo ambientale in cui i prodotti locali vengano considerati anche nel loro valore di beni ambientali e culturali. E' ai contadini che caparbiamente curano al vigna e gli orti sui pendii bruciati dal sole e dal vento a cui va il merito della tutela dal dissesto idrogeologico. Senza le altre due valenze, però, il prezzo del loro buon vino sarebbe probabilmente fuori mercato. Credo inoltre che la corretta gestione del patrimonio rurale dovrebbe spingersi anche alla zona montana, mentre lo statuto del parco delimita una zona 1 in cui “l'ambiente naturale è conservato nella sua integrità”. Questo approccio al territorio mi pare in linea con le altre impostazioni già viste per i parchi naturali regionali. Non conosco la geografia storica per le Cinque terre, ma forse è improbabile che dei contadini che costruirono chilometri di muri per poter coltivare anche il più abbarbicato pendio abbiano lasciato allo stato di natura delle aree, seppur poste ad altitudine relativamente più elevata, e sorge il dubbio che la vegetazione spontanea di questo “ambiente naturale” non sia altro che il risultato di un abbandono di terreni un tempo coltivati e/o gestiti. 34 PARTE TERZA Accenni di ecologia storica applicata alla tutela del patrimonio rurale Per approfondire il concetto di patrimonio rurale, tentiamone un'analisi basata sull'ecologia storica. In una prospettiva di sviluppo locale autosostenibile ai fini della pianificazione e della gestione delle risorse ambientali e culturali, il patrimonio rurale si considera composto da: - Componenti viventi: a) Produttori locali con: 1- I loro saperi, le pratiche di coltivazione; 2- la cultura di cui le pratiche e i saperi sono l'espressione, compresi gli idiomi che ne sono lo strumento di comunicazione; 3- le produzioni locali; b) Le coperture vegetali, i suoli e tutte le risorse ambientali; - Componenti storiche, architettoniche, artistiche e archeologiche delle comunità rurali (2). Prima di procedere oltre dovremmo cercare di chiarire il significato del termine “natura”. Per alcuni, la “natura”, è intesa come condizione dell'ambiente che non ha subito l'intervento dell'uomo. Secondo questa concezione, lo sviluppo di questi elementi naturali darà origine al “climax”, cioè a quello stato in cui ambiente e esseri viventi animali e vegetali interagiranno fino ad arrivare ad un equilibrio. Dobbiamo considerare che le ricerche effettuate dimostrano che in Liguria e nell'Europa occidentale, la natura è stata precocemente e profondamente antropizzata. Possiamo affermare che il lavoro dell'uomo ha modellato l'ambiente selvaggio, fino a costruire un sistema di cui sono parte tutte le componenti citate poco sopra. Abbiamo avuto una crescita del patrimonio rurale fino agli inizi del novecento. Poi è iniziata una lenta dismissione delle attività agricole. Alcune aree sono state occupate da insediamenti industriali, altre destinate a case da abitazione, altre ancora, sono in stato di abbandono. In questi terreni le piante coltivate sono scomparse o languono, mentre le specie spontanee hanno ripreso il sopravvento, condizionato però da tutto quel che l'attività umana ha modificato rispetto alla condizione originaria. Nella maggior parte dei casi quel che viene definito come natura non è altro che territorio un tempo coltivato, quindi con uno sviluppo morfologico, vegetativo e faunistico fortemente condizionato dall'uomo. La ricerca scientifica relativa a questo argomento è stata effettuata da: Oliver Rackham, George Peterken e da altri come Diego Moreno, Massimo Quaini, Roberta Cevasco, Maria Angela Guido, Carlo Montanari, Georges Bertrand e Jean Paul Metailié, Charles Watkins, Keith Kirby, Pietro Piussi, Edoardo Grendi e da molti altri che non è possibile elencare qui. Per capire e gestire coerentemente il patrimonio rurale è necessario decifrare la sua storia. Negli anni quaranta alcuni studiosi di forestazione scandinavi, furono tra i primi ad intuire che la presenza e le attività umane sono state tali da modificare la storia della vegetazione e del paesaggio. Negli anni dal 1950 al 1960 è da segnalare il lavoro di palinologi come Knut Faegri (1909 – 2001). Negli anni sessanta e settanta, gli inglesi Oliver Rackham e George Peterken introducevano nuovi concetti per quanto riguarda la storia della vegetazione (3): – essa non può essere ricostruita attraverso generalizzazioni che tengano conto della sola composizione in specie presenti attualmente; – la vegetazione di un sito è da considerarsi un “artifact”, un manufatto; – qualsiasi porzione della copertura vegetale è parte della società locale, quando se ne studino 35 le condizioni ecologiche attuali alla scala topografica e nella loro dinamica storica (4). La ricerca scientifica che si basa su questi assunti procede in base a prove inoppugnabili che si trovano nelle coperture vegetali e nel terreno di un determinato sito. Quest'ultimo viene inteso come contesto topografico che contiene tracce “archeologiche” riferibili alla storia delle risorse ambientali, in altre parole, all'ecologia storica. Per capire meglio quel che dovremo trattare è necessario accennare ad alcuni argomenti che sono stati fondamentali per poter elaborare la teoria dell'ecologia storica: – La geobotanica, ovvero la scienza della vegetazione, indica la comunità vegetale come un insieme di specie che occupano uno spazio definito e tra loro interagenti: la convivenza non si limita ad una vicinanza spaziale del tutto casuale. – Il sistema determinato dall'interazione tra le specie presenti corrisponde all'associazione vegetale. Lo studio dell'associazione vegetale è oggetto di studio della fitosociologia, sviluppatasi attorno alle teorie del botanico svizzero Josias Braun-Blanquet (1884-1980). La fitosociologia si basa sull'assunto che ad un certo ambiente corrisponda una determinata comunità vegetale, e viceversa, ad una certa comunità corrisponda un determinato ambiente, con il risultato che la comunità divenga una prova biologica dei caratteri dell'ambiente. Analizzando la flora si ottiene una conoscenza indiretta dell'ambiente, ovvero dei suoi fattori ecologici: climatici, orografici, edafici (relazione tra la struttura fisico-meccanica del terreno e la distribuzione della flora), biotici (tra questi ultimi sono compresi quelli antropici). – Come la fitosociologia, l'ecologia storica adotta un approccio analitico allo studio della vegetazione, operando rilevamenti floristici di tipo analitico quantitativo alla scala topografica. La differenza è che l'approccio fitosociologico, sulla base di specie considerate caratteristiche, tende ad astrarre dal contesto topografico la parcella rilevata per ricondurla a un modello di associazione vegetale teorico e inteso valido alla scala biogeografica. L'approccio ecologico storico, invece, si concentra sul contesto topografico e l'identità specifica del sito, sviluppando un'indagine micro-analitica sulla base del comportamento ecologico attuale delle specie in relazione alle pratiche e ai sistemi di gestione o non gestione anche storici alla scala locale. L'obiettivo è di riconoscere nella copertura vegetale le evidenze, le tracce materiali, gli effetti dei sistemi colturali funzionanti e pregressi,secondo un metodo storico regressivo già sperimentato negli studi storici e geografici. Gli aggruppamenti vegetali individuati con l'approccio fitosociologico sono dunque utili per un inquadramento di base della vegetazione, anche se spesso non sono sufficienti a definire direzione e durata dei processi ecologici in corso. Per far questo è necessario introdurre categorie ecologiche più analitiche. Si scopre sovente che gli aggruppamenti vegetali e la loro ricchezza specifica dipendono da unità di gestione pregresse di cui, a volte, non è rimasta alcuna traccia storica. – Riconoscere la componente storica e sociale nell'ecologia dei popolamenti attuali consente di passare dalla conservazione biologica a quella ambientale, cioè dalla protezione di singole specie alla conservazione del loro habitat e di affrontare percorsi di ricerca analitici che vanno dallo studio della vegetazione a quello della storia economica, sociale e culturale. Diventa centrale lo studio delle “pratiche di attivazione” delle risorse ambientali, in tempi storici definiti e in spazi topografici concreti, che consente il recupero della complessità ambientale e l'aggancio con l'azione sociale. Per “pratica di attivazione” si intende l'attività compiuta dall'uomo per avere la possibilità di usufruire di terreni o di aree boschive ai fini delle 36 proprie necessità. – Esiste in Europa e in Italia un'impostazione della ricerca scientifica ambientale detta “ecologia del paesaggio” o “landscape ecology” che non riconosce la componente storica nell'ecologia attuale dei popolamenti animali e vegetali. Questo contribuisce a mantenere separati patrimonio “naturalistico” e “patrimonio culturale”: Quest'ultimo può spingersi ad includere la porzione “coltivata” del paesaggio agrario, cioè gli agro-ecosistemi, ma mai l'incolto, che resta “natura”, senza storia e senza cultura. Per obiettare a queste argomentazioni basterebbe ascoltare una persona nata all'inizio del novecento che ricordi dove e quanto fosse l'incolto nelle nostre vallate. Ma abbiamo già detto che negli anni 1950-1960, i lavori dei palinologi scandinavi, dimostravano che non esistono vegetazioni e paesaggi “naturali”, ossia non modificati o influenzati dall'uomo. – Si propone un approccio storico all'ecologia dei siti che si basa su alcuni assunti che qui possiamo elencare. Naturalmente per lavorare con questi assunti occorre partire dalle fonti utilizzate, classificate in: – fonti “di terreno”, a loro volta divise in osservazionali e sedimentarie. – fonti “documentarie e testuali”, divise in testuali e iconografiche – fonti “orali”, in particolare le interviste a degli informatori. Gli altri assunti che proponiamo sono: – l'approccio storico analitico: prevede un lavoro di decifrazione delle fonti; – la scala locale: il percorso storico analitico privilegia una scala di osservazione locale, topografica, caratteristica della “historical ecology” britannica (che si fonda sulla “local o topographical history”). La scelta della scala locale consente di rileggere l'ambiente e, in particolare, la copertura vegetale nella sua complessa dimensione storica, sociale e culturale, sottraendola alla consueta storia evolutiva, in cui la componente sociale è appiattita e convenzionalmente ridotta ad un fattore di disturbo (disturbo antropico, sfruttamento antropico); - il concetto di sito: nel senso di unità spaziale e topografica che contiene tracce archeologiche riferibili alla storia delle risorse ambientali. La scelta di lavorare alla scala di sito è legata alla scelta di fare storia e archeologia ambientale sulla base delle tracce conservate nell'ambiente e non per astrazioni successive, come avviene di norma negli studi ambientali; – il metodo regressivo: si riprende il metodo introdotto negli studi storici sulla realtà rurale da Marc Bloch negli anni trenta e si introduce la problematica della continuità/discontinuità nei processi storici che mettono in relazione ambiente e società; – la produzione di nuove fonti storiche, di cui abbiamo già scritto poco sopra; – la decifrazione realistica e l'incrocio delle fonti: il concetto di “decifrazione realistica è stato maturato dal prof. Diego Moreno in funzione dello studio storico-geografico dei sistemi agro-silvo-pastorali ed è stato ripreso nell'ambito della discussione sulla storia locale. La valutazione e l'utilizzo incrociato di una pluralità di fonti storiche si realizza attraverso la costruzione di “serie documentarie” e “reti” di fonti; – la sperimentazione: la possibilità di sperimentare e simulare azioni e pratiche di produzione/attivazione delle risorse ambientali consente di costruire modelli storici per la valutazione della sostenibilità passata e futura di tali azioni; – l'alta risoluzione: la ricerca dell'alta risoluzione nell'osservazione paleoecologica trasforma le unità stratigrafiche in una nuova fonte sedimentaria. L'approccio storico analitico all'ecologia dei siti suggerisce, dunque, una nuova dimensione storica per la ricerca geografica di terreno e nuove problematiche per la ricerca geografico-storica: 37 - Le dinamiche storiche della copertura vegetale. Si tratta di discutere la ricostruzione delle dinamiche storiche della copertura vegetale come risultato di processi di attivazione/abbandono a cui sono state sottoposte le risorse ambientali. - I sistemi e le pratiche di attivazione delle risorse. Le pratiche di “attivazione” delle risorse ambientali oggi estinte si riconoscono attraverso la documentazione storico-geografica convenzionale e soprattutto attraverso gli indicatori che si sono conservati nell'ecologia dei siti e nei depositi biostratigrafici (markers). L'attivazione è intesa come un effetto ecologico che si somma alla semplice produzione a cui la pratica è finalizzata in modo prioritario e influisce sul funzionamento ecologico dell'intero sistema. - I saperi locali. L'esplorazione alla scala locale dei saperi naturalistici (botanici, zoologici, geologici, ecc.) individuali o di gruppi, consente agli etnografi di identificare le categorie attraverso cui le risorse ambientali sono descritte, valutate e utilizzate dagli attori sociali (ad esempio utile/inutile, “domestico/selvatico”: un pastore originario delle Alpi Marittime riferiva che nel corso degli anni trenta del novecento aveva visto utilizzare un serpente come animale utile alla caccia dei topi. Il rettile veniva lasciato libero nel locale adibito ad abitazione dei pastori, dove era anche custodito il formaggio.). L'ecologia storica ricerca sul terreno le tracce “archeologiche” di azioni e pratiche modellate su questi saperi nella loro continua stratificazione. 38 – Un ulteriore campo di indagine è costituito dalle modalità di circolazione dei saperi e delle pratiche locali e dal ruolo che le istituzioni hanno avuto nella loro trasmissione. – Uno dei risvolti applicativi per la valorizzazione dei beni ambientali suggeriti dall'etnografia è legato alla possibilità di estrarre, dal sapere naturalistico locale vivente, modelli di gestione futura degli spazi del patrimonio rurale (approccio etnobotanico). L'ecologia storica aggiunge un'importante prospettiva per la valutazione della sostenibilità passata e futura dei sistemi agro-silvo-pastorali storicamente documentabili in quegli stessi spazi. – Le produzioni locali. Le ricerche di ecologia storica nell'Italia nord occidentale si sono avviate anche con l'analisi della ”esternalità positiva” delle produzioni locali di origine animale e vegetale, al fine di discutere la sostenibilità ambientale dei sistemi locali. Questo percorso, di interesse strategico per il turismo rurale, si è sperimentato nell'ambito di un progetto dedicato alla caratterizzazione della tipicità dei “produits de terroir” nell'Europa meridionale. In questo quadro si è proposta la caratterizzazione storico ambientale delle produzioni locali, attraverso analisi di dettaglio delle relazioni storiche che legano le produzioni alimentari alla località (liens au lieu). Si sta sempre più cercando di legare le produzioni locali al territorio, alla sua storia e cultura. Esse possono essere riconosciute sia come “beni culturali” per le relazioni storiche che i saperi e le pratiche locali detengono con luoghi specifici, sia come “beni ambientali”, perché il loro ciclo di produzione svolge anche una funzione di “attivazione” ambientale. Con il termine “attivazione” ci si riferisce anche al benefico effetto che il pascolo ovino ha sulla varietà delle erbe presenti sui prati, riguardo alla tutela della biodiversità. Nel nostro caso, si potrebbe ampliare il concetto, dicendo che, visto che la produzione delle olive implica una buona conduzione dell'uliveto, compreso quindi lo sfalcio dell'erba e il ripristino dei muri a secco, si ottiene una tutela del territorio dai pericoli connessi agli incendi, alle frane e smottamenti e all'erosione. Pensiamo solo che i soldi pubblici spesi per la lotta agli incendi e per la riparazione dei danni derivati dal dissesto idrogeologico potrebbero essere risparmiati, almeno in Liguria, semplicemente attraverso una corretta conduzione del patrimonio rurale. Foto bosco in fiamme 39 – Il fondamento dello studio sui saperi locali, a volte, è custodito nella memoria delle persone, quindi è importante il dialogo tra il mondo scientifico e quello rurale, per riuscire a rendere quest'ultimo consapevole delle proprie potenzialità, premessa per qualsiasi valorizzazione. – Siti, aree, complessi di interesse storico ambientale. Con questa formula si propongono gli spazi concreti che conservano memoria delle relazioni ecologico-storiche tra gruppi sociali e risorse ambientali. Aree e siti definiti di interesse storico-ambientale, insieme ai processi, di natura geografica che li collegano alle società locali, sono gli oggetti che si propongono alla riflessione come potenziali risorse anche per il crescente turismo rurale. Tali unità possono funzionare da siti pilota per la sperimentazione di strategie innovative di gestione e valorizzazione del patrimonio ambientale e rurale delle aree protette, in un'ottica che intende superare la dicotomia tra elementi dell'ambiente “naturale” ed elementi dell'ambiente “antropizzato”, oltre ai concetti di “emergenza” e “monumento”. Cerchiamo di ricordare quanto già descritto per la brughiera di Lygra. Foto laghetto di Lucinasco 40 – Inoltre è da segnalare nella pubblicazione Un territorio alimentare da ricomporre, scritta da Diego Moreno e Roberta Cevasco (5) un'analisi e una proposta per la Liguria e per il suo ponente. Infatti il paragrafo “Patrimonio storico-ambientale, patrimonio rurale e paesaggi culturali” inizia con una citazione tratta da L'ombra del paesaggio- L'orizzonte di un'utopia conviviale, libro di Massimo Quaini: Specchio fedele del paese-Italia, concentrato dei suoi paesaggi e patrimoni oltre che grande “vetrina”(funzione turistica), la Liguria può proporsi come il “laboratorio” più significativo per studiare e sperimentare strategie di valorizzazione di un patrimonio storicoambientale di grande complessità che, in breve spazio e in maniera sempre intrecciata (intersettoriale), pone i problemi che in altre regioni si pongono con minor chiarezza e, spesso, successivamente. Viene proposta, quindi, una regione laboratorio attraverso il riferimento a un inedito”patrimonio storico ambientale”. Credo sia necessario citare Moreno e Cevasco quando scrivono: Oggi è possibile ricostruire attraverso musei e collezioni il legame degli oggetti, delle parole, delle pratiche con precisi spazi produttivi locali. Gli spazi della storia delle produzioni agro-silvo-pastorali locali, attraverso la ricostruzione delle loro pratiche e dei saperi ambientali pertinenti, un patrimonio culturale appartenuto alle generazioni precedenti e che a volte non ha lasciato alla comunità locale altro documento che quegli stessi oggetti e la loro memoria familiare. Ma è pure vero che precise pratiche e saperi sono tuttavia presenti, come un'eredità vivente, nella filiera delle produzioni locali. Foto transumanza in val d'Aveto 41 Queste ultime, a causa di norme sanitarie e interpretazioni restrittive, sono, a volte, confinate nell'autoconsumo o in circuiti di scambio confidenziali. Una normativa che non ammette deroghe per le piccole produzioni ottiene solo il risultato di porre sempre più fuori mercato le aziende marginali di un settore già in crisi come quello agro-pastorale. Moreno e Cevasco pongono una questione fondamentale: il patrimonio delle produzioni locali continuerà a restare estraneo all'aspetto storico/ambientale e culturale che le caratterizza e al patrimonio rurale europeo? E continuano con questi argomenti: occorre quindi legare la produzione locale a ciò che la rende unica: al territorio, ai luoghi, agli oggetti, alle attrezzature e agli impianti, agli edifici. – Nel recente passato la tutela del paesaggio era fissata dalla normativa attraverso il suo contenuto di “bellezze naturali” o di “emergenze” floro-faunistiche, senza alcun interesse per i produttori di quelle forme che soddisfano le esigenze estetiche e per i processi storici e ambientali che ne costituiscono l'ecologia. Abbiamo trattato dei parchi nell'entroterra, attraverso i quali si gestiscono vaste aree con il principio della “naturalità”. Invece va maturando in Europa una nuova idea di “paesaggio culturale”, che include nella propria definizione le azioni, le attività, l'uso delle risorse che i paesaggi hanno determinato. Si tratta di spazi anche del tutto “comuni”, quotidiani, che, una volta riconosciuti, identificati storicamente, possono entrare a far parte del più vasto e oggi “comune” patrimonio rurale europeo. Si scopre che a un paesaggio culturale, alla sua specifica gestione, nel tempo, corrispondono un'ecologia, un sistema ambientale, storico (appunto storico ambientale). Tra i risultati acquisiti per questa via troviamo che rendere perenne dal punto di vista ambientale un paesaggio culturale è possibile grazie al continuo esercizio delle attività produttive agricole e pastorali. – Mi pare scontato, quindi, concludere che, grazie al lavoro scientifico compiuto da tutti gli studiosi citati in questo breve scritto, e da altre persone che non è possibile qui ricordare, è doveroso tracciare una strategia di conservazione delle risorse ambientali e della biodiversità locale che si realizzi attraverso i modi del loro uso. Questo significa che il nostro patrimonio rurale costituisce una enorme ricchezza, una riserva di fertilità, insita nella biodiversità, una promessa di sicurezza, scolpita nelle pietre dei muri a secco ancora in piedi o ricostruiti. 42 PARTE QUARTA Conclusioni La situazione economica attuale dell'olivicoltura ligure non è florida. I prezzi delle olive fresche, in genere, non permettono un adeguato ritorno economico, mentre la situazione per chi vende il prodotto finito è migliore, ma si fa sentire molto la concorrenza di prezzo degli oli e delle olive provenienti da altre zone di produzione. E' probabile che nei prossimi anni si accentuerà l'abbandono degli uliveti. Ma abbiamo il dovere di non scoraggiarci e continuare a lavorare perché il nostro patrimonio rurale continui a vivere. Studiarne il sistema storico-ambientale, applicando i metodi della geografia umana e storica e dell'ecologia storica, è un investimento per conoscerne le potenzialità. Dovremo capire e far capire quanto produrre oli e olive di alta qualità che siano riconosciuti come beni culturali e ambientali aumenti il loro valore economico. E' importante che l'agricoltura interagisca con il turismo per aumentare la redditività della produzione. E' la corretta conduzione di quest'ultima che protegge e attiva la bellezza della Liguria, uno dei luoghi più incantevoli e piacevoli, ma fragili, del pianeta. Se riusciremo in questo intento, potremo credere in un progresso sostenibile. Il fondamento della pratica di attivazione della quasi totalità degli uliveti nella nostra vallata e in quelle limitrofe sono le terrazze di terra sorrette dai muri di pietre a secco: senza di essi non sarebbe stato possibile falciare, arare e preparare il terreno per la raccolta a mano delle olive cadute a terra. Quest'ultima non era praticabile su un terreno sassoso o accidentato, infatti necessitava di una superficie sufficientemente liscia, sulla quale le dita delle raccoglitrici non trovassero ostacoli. Anche le grandi tende di cotone bianco usate per l'abbacchiatura non potevano essere impiegate su un terreno scosceso e inerbito. Foto uliveto con terrazze e reti In Liguria possediamo una delle varietà di ulivo più preziose del pianeta, da cui si ottiene un olio e delle olive da mensa con delle caratteristiche uniche, ma questi ottimi prodotti, per essere apprezzati fino in fondo e da tutta la loro potenziale clientela, anche da quella colta, hanno bisogno di un'identità, di una storia delle loro origini. Occorre legare l'ulivicoltura, e le altre produzioni locali, al territorio e alla cultura di cui sono l'espressione. I nostri prodotti, dovrebbero essere portatori di un'identità anche culturale che li renda riconoscibili e identificabili, che contribuisca a ricordarli ad un pubblico di potenziali consumatori. E' quindi necessario valorizzare la cultura che è da secoli racchiusa in tutta la filiera 43 produttiva: la storia delle olive Taggiasche, l'attivazione e la perennizzazione di questa risorsa, la trasformazione in olio, è parte integrante del patrimonio rurale, e come tale costituisce un valore, da riscoprire, da tutelare e su cui investire, anche per ampliare l'offerta turistica. Stampa antica frantoio Abbiamo visto, nelle pagine precedenti, come la pietra fosse determinante per una corretta coltivazione: senza di essa l'olivicoltura sarebbe stata notevolmente diversa, quasi sicuramente marginale. L'ulivo e la pietra trascendono la loro materia e insieme donano un'identità ad ampie zone della Liguria. Una semplice citazione di Giovanni Boine (6) può valere più di cento frasi: ”E noi fummo fra gli ulivi come un popolo antico nella sua cattedrale: ogni nostra speranza era lì, ogni nostra sicurezza era lì, negli ulivi.” La “cattedrale” è costruita anche con le pietre, e forse non è un caso che la rivista “Pietre”, fondata a Genova nel 1926, attirasse l'attenzione di uno psicologo degli oggetti come il poeta Eugenio Montale (7). Se volessimo aprire questa “cattedrale” agli altri, l'offerta turistica dovrebbe però essere in grado di assimilare e rendere fruibili tutti gli aspetti della cultura locale, ad esempio anche quello linguistico o della toponomastica. Più in generale, si dovrebbe affermare un'identità per essere capiti e apprezzati e quindi essere preparati a comprendere anche quella altrui. Per realizzare un progetto simile occorrerebbe anche un minimo di autostima da parte della popolazione locale. Soprattutto gli anziani, di solito, sono un poco scettici su iniziative del genere, forse perché sono assuefatti alla propria invisibilità. A tratti, affiora nei loro discorsi anche una certa fierezza, quando rivisitano con la mente la loro “cattedrale”. E' però presente la consapevolezza della marginalità del settore olivicolo e della società che lo esprime. Per questo non dobbiamo dimenticare che la Liguria ha un clima tra i più miti d'Europa, si affaccia sul mare mediterraneo in una posizione che è la più facilmente raggiungibile dalla fascia continentale che corrisponde grosso modo alla Svizzera, all'ovest della Germania, al BeNeLux e all'ovest scandinavo e offre dei paesaggi incantevoli. Tutte queste potenzialità sono state fino ad oggi sfruttate emarginando il patrimonio rurale, e ponendo le basi per una crisi futura dell'offerta turistica, visto l'eccessivo e a volte devastante sviluppo edilizio, soprattutto nella zona costiera. In altre parole, se in Liguria oggi esiste ed esisterà un turismo è grazie al clima, al mare, 44 alle bellezze naturali e artistiche e perché le donne e gli uomini della Liguria hanno coltivato e coltiveranno la terra. Ho già citato il prof. Massimo Quaini e la sua idea della Liguria come regione-laboratorio attraverso la tutela del “patrimonio storico ambientale” (8) e il prof. Diego Moreno e la prof.sa Roberta Cevasco, che propongono di applicare quel che viene già praticato in altre parti d'Europa al “paesaggio culturale”, che include nella propria definizione le azioni, le attività e l'uso delle risorse che hanno determinato quei paesaggi. In definitiva il lavoro che nel corso di secoli ha attivato e perpetuato l'olivicoltura e le altre risorse agricole, può rientrare a far parte a pieno titolo del patrimonio rurale europeo. E' mia opinione che molto si sia fatto e si stia facendo per lo studio e la tutela di questo patrimonio, ma credo che nonostante tutto il lavoro svolto, vi siano alcuni aspetti non ancora sufficientemente conosciuti. Esiste un'ultima carta da giocare: il turismo legato al patrimonio rurale, al territorio, alla cultura locale può essere il sistema per far apprezzare il valore aggiunto di cui sono portatori i prodotti locali. Molti hanno già compiuto questo tipo di scelta intraprendendo l'attività agrituristica, che consente di ottenere una buona integrazione al reddito agrario e di continuare l'esercizio dell'attività agricola. Essi hanno lavorato usufruendo degli incentivi dell'Unione Europea, dopo il doveroso controllo degli organi di vigilanza e coadiuvati dalle organizzazioni sindacali. Però non si è riusciti ancora a fare sistema, per passare dal “parco naturale” al “parco Agricolo” occorre coinvolgere le aziende agricole nella gestione del patrimonio rurale, superando il concetto di “naturalità”. Si potrebbero organizzare, ad esempio, dei percorsi “protetti” o guidati sulle vie del sale, sulle mulattiere che sono spesso lasciate nel massimo degrado, infestate dai rovi. Non si è lavorato alla valorizzazione della cultura locale, che secondo me fa parte del patrimonio rurale perché ne è l'espressione umana. Sarebbe interessante valorizzarne anche l'aspetto linguistico, il dialetto, visto come strumento di espressione della cultura insita nel patrimonio rurale e come mezzo con cui chi ne è portatore si rapporta con gli altri. Come dice il prof. Diego Moreno, il patrimonio rurale è anche un capitale su cui investire perché la nostra agricoltura possa vivere. Per continuare ad esistere, la “cattedrale” così cara a Boine, ha bisogno di persone che vi si incontrino e come un popolo antico si uniscano intorno a quegli ulivi, e qui trovino la speranza e la sicurezza per aprire le porte a chi vuole entrare. Giuseppe Gandolfo Note: 1- Antonio Rebaudo, Le carte della memoria, Arte&Stampa Litografia – Sanremo, 2011, pp. 54. 2- Cevasco Roberta, 2007. 3- Rackham, 1976 in Cevasco Roberta, 2007. 4- Peterken, 1975 in Cevasco Roberta, 2007. 5- Moreno Diego, Cevasco Roberta, 2006. 45 6- Dal libro di Marvaldi Laura, 1997, Zia Angela-Storia di donne e di ulivi, frasi tratte da La crisi dell'olivicoltura in Liguria, in Racconti vari e dispersi, Boine Giovanni, ed. Garzanti, 1983, Milano. 7- Lupo Giuseppe, 2006. 8- Quaini Massimo, 2006. Bibliografia: – Aavv, 1994, Pontedassio e la valle Impero: la storia, i profumi, l'arte e la pietra, conferenze 1992/93, Dominici Editore, Imperia, pp. 156. – Barichello Roberto (a cura di), 2007, Le varietà di olivo liguri, Regione Liguria, Assessorato all'Agricoltura, Genova, pp. 13-154. – Boine Giovanni, 1911, La crisi degli olivi in Liguria, in Il peccato, Plausi e botte, Frantumi, Altri scritti, Garzanti Editore s.p.a., 1983, Milano, pp 395-414. – Busca Emilio, Gamba Patrizio, 1999, Tecniche di produzione dell'oliva Taggiasca da mensa, Regolamento CE n° 1257/1999, Associazione Italiana per l'agricoltura biologica Liguria, Reg. Liguria Assessorato Agricoltura e Turismo, Genova, pp. 946. – Caneva Giulia (a cura di), Moreno Diego, Cevasco Roberta, Guido Maria Angela, Montanari Carlo, 2005, La biologia vegetale per i beni culturali, Vol. II°, Capitolo decimo, L'approccio storico – archeologico alla copertura vegetale: il contributo dell'archeologia ambientale e dell'ecologia storica, pp. 463-494 . – Cervini Fulvio, Giacobbe Alessandro, 1995, Guida storico artistica del Comune di Pontedassio, Dominici Editore, Imperia, pp 6-25. – Cevasco Roberta, 2007, Memoria verde. Nuovi spazi per la geografia, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, pp. 9-60. – Lupo Giuseppe (a cura di), 2006, Il secolo dei manifesti, Nino Aragno Editore, Torino, pp. 174-178. – Marvaldi Laura, 1997, Zia Angela-Storia di donne e di ulivi, Centro Editoriale Imperiese, Imperia. – Monzo Chiara, Oreggia Marco, Tiliacos Cristina, 2003, Olio extra vergine di oliva. 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