Dal referendum inglese a quello italiano. Perché un centrodestra

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Dal referendum inglese a quello italiano. Perché un centrodestra
IL FOGLIO
quotidiano
Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XXI NUMERO 148
Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
VENERDÌ 24 GIUGNO 2016 - € 1,50
DIRETTORE CLAUDIO CERASA
Dal referendum inglese a quello italiano. Perché un centrodestra che rincorre i populismi è destinato a regalare il paese ai populisti
L
a Grecia nel luglio 2015, con il referendum sull’austerity. La Gran
Bretagna nel giugno 2016, con il referendum sulla Brexit. L’Italia
nell’ottobre 2016, con il referendum sulla riforma costituzionale. Tre
referendum diversi, tre temi differenti, tre storie non sovrapponibili
ma alla fine un unico filo conduttore: il futuro dei grandi partiti di
governo, l’abilità nell’assorbire le pulsioni populiste, la volontà di
educare gli elettori senza doverli inseguire e la capacità di resistere, da Varoufakis a Le Pen passando per Salvini, Farage e Podemos,
alle varie declinazioni degli istinti anti sistema. In Grecia, un anno
fa, abbiamo assistito alla conversione improvvisa e sorprendente di
Alexis Tsipras, che da leader anti tutto (a morte la Troika) si è trasformato in un leader più pragmatico, facendo deprimere il carrozzone politico europeo (destra e sinistra, c’era anche Brunetta) che aveva investito sentimentalmente sul leader di Syriza, individuandolo co-
me possibile capo dei disubbidienti del continente. Un anno dopo,
lo stesso fronte che provò a spingere Tsipras sulla strada del Vday
all’Europa oggi si ritrova più o meno compatto a sostegno dell’uscita
della Gran Bretagna dall’Unione europea e ha scelto di sostituire allo sguardo un tempo sovversivo di Alexis la chioma ribelle di Boris
Johnson (ex sindaco di Londra, conservatore, a favore della Brexit).
Vedremo quali saranno i risultati definitivi del referendum ma ancora prima del voto di ieri il caso inglese è utile per mettere in luce
un fenomeno che merita di essere approfondito e che riguarda l’identità più delle destre che delle sinistre europee. Il problema è semplice. Mentre le sinistre europee, dopo schiaffi su schiaffi, hanno capito che per recuperare consenso e risultare credibili hanno il dovere di far proprie alcune tematiche sposate e sponsorizzate dalla destra (Daniel Cohn-Bendit, grande rivoluzionario ecologista, ha scrit-
LA BREXIT NON FINISCE QUI
Dove arriva la voglia di “exit”. Così
il referendum diventa “un’arma
per sfidare le élite politiche” in Ue
Ecco quel che resta del grande
scontro tra i media inglesi,
tra i cocci e un tifo scatenato
Bruxelles. Boris Johnson,
Michael Gove e Nigel Farage
possono cantare vittoria nella loro guerra politico-cultuDI
DAVID CARRETTA
Milano. Nell’ultimo giorno utile per invitare gli inglesi ad andare a votare al
referendum, i giornali hanDI
PAOLA PEDUZZI
rale all’Europa, dopo aver sostenuto la Brexit
nel referendum sulla permanenza del Regno
Unito all’Unione europea. I cittadini britannici ieri hanno deciso le sorti del loro paese. Ma
se, oltre alla Brexit, Boris & Co. speravano anche di paralizzare il club Ue ci sono riusciti: la
Commissione ha congelato tutti i dossier controversi, dalla liberalizzazione dei visti alla
Turchia alla nuova Strategia globale per la politica estera, in attesa dell’esito ufficiale del
voto britannico. Se l’intenzione era di impedire ai Ventotto ulteriori balzi di integrazione,
l’esito è stato raggiunto: i capi di stato e di governo non sono in grado di mettersi d’accordo
su come rispondere a nuove minacce di uscita dal club, se non con una vaga dichiarazione di intenti faticosamente scritta a Parigi e
Berlino. Se volevano avviare un processo di disintegrazione dell’Ue, la missione è compiuta: il referendum sull’Europa è destinato a diventare il grande mantra delle prossime campagne elettorali nazionali. Perché, indipendentemente da quel che diranno i leader nei
prossimi giorni per garantire a tutti che il progetto europeo è irreversibile e non ci sarà un
effetto domino di “exit”, i movimenti e i partiti populisti della rivolta contro l’Ue intendono impossessarsi del referendum “come arma
per sfidare le élite politiche tradizionali”,
spiega l’European Council on Foreign Relations (Ecfr) in un rapporto che sarà pubblicato lunedì. Oltre a prolungare l’agonia dell’Ue,
che dal “no” francese al trattato costituzionale del 29 maggio 2005 si paralizza ogni volta
che è davanti a un voto popolare, l’effetto sarà
di sabotare la politica europea. “Anche se i
partiti della rivolta non prendono direttamente il potere, sono così potenti dal punto di vista politico che stanno costringendo i partiti
del mainstream a adottare le loro posizioni”,
spiega Mark Leonard, il direttore del think
(segue a pagina tre)
tank.
no avuto ancora una volta un ruolo importante. Anche di sintesi: il Sun titolava sul
giorno dell’indipendenza che stava sorgendo, quello in cui il Regno Unito si libera dell’Europa, con una luce in fondo a dare speranza, mentre il Mirror aveva un buco nero
sulla copertina, un vortice, la scritta non fatevi trascinare nel buio, votate per rimanere in Europa. Queste due immagini raccontano bene lo stato d’animo, i sostenitori della Brexit contano su un avvenire radioso, i
sostenitori del “remain” vedono soltanto il
disastro in arrivo. I media inglesi negli ultimi giorni hanno fatto i loro endorsement ufficiali, e non ci sono state grandi sorprese:
dopo che si è scoperto – abbastanza di recente, ma si sa che la sensibilità aumenta quando il verdetto s’avvicina – che gli esperti, i
fatti, i commenti oculati e precisi non servivano granché, i giornali hanno iniziato a fare il tifo senza preoccuparsi troppo della verità (qualunque cosa s’intenda per verità).
Abbiamo visto pubblicati dilemmi della Regina mai confermati, numeri a caso sull’immigrazione, sui rapporti commerciali tra Europa e Regno Unito, sulle ripercussioni economiche, sociali e familiari di questo o quell’altro scenario, e anche noi lettori ci siamo
persi nel tifo. La sintesi degli endorsement
vede i giornali più legati al mondo del business e della City e quelli laburisti a favore
del “remain”: anche il Times, che fin da subito aveva detto di avere orecchie e occhi
aperti sulla campagna per valutare strada
facendo, ha infine deciso per il “remain”. Al
di là dei posizionamenti alle elezioni generali, significa che dal punto di vista economico, i sostenitori della Brexit non sono riusciti a far passare un messaggio di stabilità: nell’immediato l’incertezza ha sempre effetti
negativi sui mercati, è difficile sostenere il
(segue a pagina tre)
contrario.
La Brexit di Trump
Il risveglio
The Donald accarezza i sentimenti
antiglobalisti dalla Scozia, il teatro
del suo “dream from my mother”
C’è un gran disordine mondiale
all’ombra di scelte “epocali”. Ma pure
il populismo si stanca. Ecco come
New York. Il senatore repubblicano John Thune è
confuso circa il motivo del
viaggio di Donald Trump in
Milano. Il voto sulla
Brexit ha creato uno squarcio nel dibattito internazionale sull’Europa ma anche
su globalizzazione, liberismo, capitalismo. Guardando i posizionamenti dei vari partiti e movimenti è chiaro
che, al di là del verdetto sull’euroscetticismo
britannico, lo scontro ideologico è destinato
a durare, e che il disordine sia in arrivo, anzi, già qui. Questo spiega perché da qualche
settimana, il voto del Regno Unito è diventato “epocale”, non soltanto per gli inglesi e
per gli europei. Il progressivo affermarsi di
movimenti e leader antisistema che criticano
il potere centrale, l’establishment, in tutte le
sue declinazioni, e che vogliono dare uno
scossone allo status quo ha fatto nascere molti interrogativi: gli opinionisti hanno raccontato come una serie di eventi, da ieri al prossimo futuro, può indebolire se non sovvertire l’ordine mondiale liberale, generando prima di tutto instabilità e poi contagi di cui ancora non si conosce l’entità. I toni allarmistici sono diventati una costante, ma ieri il Financial Times ha pubblicato un articolo di
John Paul Rathbone che ha risollevato un po’
gli animi, o almeno ha allentato la morsa del
catastrofismo che ci stringe tutti. La sintesi
è che il disordine può essere brutale ma anche temporaneo: si esce, a un certo punto.
Rathbone è stato il responsabile della column Lex del Financial Times e ora si occupa di America latina e racconta come il continente sudamericano abbia attraversato ormai un decennio di populismi al potere e che
abbia scoperto, ora che la sua esperienza si
è consolidata, la strada per tornare alla moderazione. Nulla è roseo né semplice: se pensiamo al Brasile oggi tutto ci viene in mente
tranne che la moderazione e la stabilità, per
non parlare del Venezuela da cui arrivano
racconti agghiaccianti di vita quotidiana. Ma
quel che Rathbone cerca di spiegare, con
l’aiuto di molte voci esperte del continente o
che hanno un ruolo di responsabilità politica, è che esiste una “populism fatigue”, cioè
a un certo punto anche la verve antisistema
(Peduzzi segue a pagina tre)
s’estingue.
DI
MATTIA FERRARESI
Scozia che comincia oggi: “Spero che torni indietro il prima possibile”, ha detto, inquadrando un sentimento diffuso fra gli alleati,
specialmente quelli che hanno dovuto ingoiare Trump a naso turato. Il candidato ha i ranghi della campagna in subbuglio, deve sciogliere diversi nodi sulle modalità di finanziamento da qui a novembre e ha appena lanciato una nuova fase della guerra contro Hillary
Clinton: una visita di natura commerciale e
pubblicitaria ai suoi golf club in Scozia non
sembra rientrare nella lista delle priorità. Ma
per Trump non esiste un confine fra gli affari
e la politica, la sfera pubblica e quella personale hanno un’ampia area di intersezione, forse coincidono interamente, e ogni gesto che
coinvolge il brand scolpito a lettere dorate è
intimamente connesso con il progetto presidenziale. Dal suo punto di vista la missione
scozzese non è una distrazione: “Tutti gli occhi
del mondo saranno puntati su di lui”, ha spiegato il figlio Eric, che si è occupato degli investimenti in Europa. Poco importa se, come ha
raccontato il Washington Post con un’inchiesta
al solito tagliente, il campo da golf con faraonico resort di Aberdeen (uno dei due che
Trump visita in questi giorni) doveva cambiare la storia dello sport e dell’economia locale,
dando lavoro a settemila persone, mentre nella realtà è un baraccone semideserto snobbato dai campioni che ha soltanto 150 dipendenti. Trump già in primavera aveva spiegato a
una testata scozzese che, oltre all’operazione
commerciale, la visita avrebbe avuto anche un
senso “narrativo”, tracciando un parallelo alla corsa per la Casa Bianca: “Quando sono arrivato per la prima volta ad Aberdeen, gli abitanti mi hanno messo alla prova per vedere se
facevo sul serio, esattamente come i cittadini
americani hanno fatto per la corsa alla Casa
Bianca”, ha scritto in un editoriale intitolato
“Come la Scozia mi aiuterà a diventare presi(segue a pagina tre)
dente”.
to in Francia un saggio indirizzato alla sinistra intitolato “E se la finissimo di sparare cazzate?”) molte destre europee, per recuperare
consenso e non farsi rosicchiare terreno dalle forze anti sistema, stanno viceversa cominciando a fare un ragionamento opposto, simile a
quello offerto in Inghilterra da Johnson: per contenere i populismi bisogna inseguire i populisti sul loro stesso terreno. Tra queste destre
europee, ahinoi, c’è anche quella italiana e da molti punti di vista la
sua identità verrà messa in discussione al prossimo referendum costituzionale – che come ha scritto due giorni fa Bloomberg in un editoriale firmato dall’editorial Board (“Europe’s Other Historic Referendum”) potrebbe avere una portata storica simile a quella che ha
oggi il referendum inglese. Su questo terreno il Cav. ha scelto di seguire il modello Johnson e pur di non dare soddisfazione a Renzi si
è messo in scia a Salvini e a Grillo, rinnegando una precisa tradizio-
Magistrato rampante
VARDY UN PO’
Sabella e gli altri. Guida minima
per riconoscere i tic e le delizie dei
“coraggiosi” pm prestati alla politica
Il bomber del Leicester rovina la
retorica nostalgica sul calcio pane
e salame. Cercansi maglie azzurre
E
vitate, se potete, di chiedere
dov’è. Perché in questo momento starà di sicuro parlando
con l’editore per decidere la data d’uscita del prossimo libro,
scritto a quattro mani con il suo
LA LINEA SOTTILE
giornalista di fiducia, per cantare le lodi
della giustizia più bella del mondo; oppure starà discutendo con il produttore cinematografico per gli ultimi ritocchi alla sceneggiatura del film che la Rai manderà in
onda, con ogni probabilità, il prossimo 23
maggio, venticinquesimo anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, per sottolineare ancora una volta il proprio impegno antimafia; oppure starà nella redazione del giornale impegnato sul fronte della
legalità per ribadire, in un’intervista ad
ampio raggio, ci mancherebbe altro, la necessità di inasprire leggi e pene contro la
corruzione. Oppure – e qui il riferimento è
ad Alfonso Sabella – starà nella segreteria
del candidato sindaco di Roma che lo ha
appena designato come futuro assessore
magari per preannunciargli una pubblica
dichiarazione che poi, al di là delle intenzioni e delle successive puntualizzazioni,
ha finito per mascariare, con una spruzzatina di facile sospetto, la candidata del partito concorrente.
E non chiedetevi nemmeno se lui – il
magistrato in carriera che Roberto Giachetti voleva nella giunta capitolina – presti servizio in procura o alla Corte di assise o al Tribunale del riesame; o se, per meglio seguire la sua strada, si è messo in
aspettativa. Perché un magistrato è per
sempre, come il diamante della De Beers,
e quando parla non sentirete mai l’alito
cattivo di un particolare interesse politico;
dalla sua bocca verrà fuori sempre e comunque il profumo iridato di tante belle
parole messe insieme come in un bouquet
di fiori: c’è il sapore della legalità e pure
quello dell’antimafia; c’è il sapore della
società civile e pure quello fascinoso e
inebriante della rivoluzione: ricordate Antonio Ingroia, l’esuberante procuratore di
Palermo che, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, imbastì il monumentale
processo sulla fantomatica trattativa tra lo
Stato e i boss di Cosa nostra? Se ne andava ai comizi, saliva sul palco con i Ray-Ban
a goccia e la mano in tasca, e se qualcuno
osava sollevare un dubbio sull’opportunità di quel suo comportamento rispondeva, con urtante spocchia, che lui si riteneva un partigiano – “un partigiano della Costituzione” – e in quanto tale rivendicava
il diritto di zampettare da una manifestazione politica a un’altra senza che nessuno
potesse dirgli nulla. Meno che meno quei
quattro imparruccati membri della commissione disciplinare del Csm. Perché se
un magistrato è per sempre, il magistrato
che ha intramato la propria carriera tra
lotta alla mafia e interviste ai giornali, porta una croce d’oro sul petto ed è più uguale degli altri. Sono intoccabili, sono inattaccabili. Qualunque cosa dicano, qualunque cosa facciano. E non azzardatevi a sostenere che, magari, hanno buttato soldi su
un’inchiesta senza capo né coda o che hanno istruito un processo senza prove. Non
azzardatevi. Perché molti di questi intrepidi coltivano anche l’innocente vizietto di
correre subito nelle stanze del piano superiore a piagnucolare “per l’oltraggio ricevuto”, a battere i piedini per ottenere “solidarietà e protezione” e a calare lì in mezzo, tra una gnagnera e l’altra, quelle due o
tre paroline che sembrano fatte apposta
per richiamare chissà quali congiure, chissà quali complotti, chissà quali attentati,
chissà quale mafia alle porte. E’ la mistica della persecuzione. Ormai lo sanno pure le pietre: parole pesanti come “intimidazione”, o come “delegittimazione” verdeggiano da anni in un formulario grazie
al quale dentro i palazzi di giustizia si è costruita la filiera dei cosiddetti “magistrati
coraggiosi”, una definizione che Giovanni
Falcone o Paolo Borsellino, che di coraggio ne avevano da vendere, odiavano come
la morte; ma che oggi, paradossalmente,
ha finito per segnare una particolarissima
casta: quella dei magistrati che oltre a essere super scortati e super coccolati da
giornalisti e conduttori televisivi – dettagli
che puntualmente alimentano e ingigantiscono la loro aureola di eroi in servizio
permanente effettivo – vengono anche corteggiati e richiesti a gran voce dalla poli(Giuseppe Sottile segue a pagina quattro)
tica.
ne riformista del centrodestra berlusconiano. La differenza sostanziale con l’Inghilterra è però evidente. In Gran Bretagna, la posizione del
centrodestra alla Johnson è equilibrata dalla posizione dei Cameron
(premier conservatore, contrario alla Brexit). In Italia, invece, la posizione del centrodestra alla Johnson non è equilibrata da nessun leader con propensione alle sfide di governo. Il modello salviniano, come hanno dimostrato le elezioni amministrative, resta un modello
perdente ma misteriosamente è l’unico in campo nel nostro centrodestra. Se si vuole competere per non vincere, si può seguire questo modello. Se si vuole competere per governare, Brexit o non Brexit, al
centrodestra serve invece con urgenza un suo Cameron che sappia riequilibrare il metodo Johnson. Un metodo che in Inghilterra può funzionare, forse, ma che alla lunga, in Italia, rischia di
produrre un unico risultato: regalare il paese ai populisti.
C
hissà a che cosa starà pensando, in
queste ore, Massimo Gramellini. Appena un paio di settimane fa ci informava in prima pagina della Stampa che
DI JACK
O’MALLEY
pensava “spesso ai bambini di Leicester
a cui la vita ha ammazzato il primo sogno”. Pedofilia? Strage famigliare? Macché. “Avevano appena finito di appendere alle pareti i poster di Vardy e Mahrez,
i cavalieri che fecero l’impresa di conquistare la vittoria più improbabile del
mondo. Sennonché i cavalieri si sono rivelati dei comuni mercenari e hanno
tradito i bambini che avevano creduto in
loro per andare a divertire quelli di
squadre più titolate”. Come sempre Gramellini titillava il grillino che è in noi,
buttandola sul numero di ville con piscina che Vardy si sarebbe potuto comprare con i soldi sporchi del tradimento. Ridateci il calcio pane e salame, urlava il
buon Massimo, quello probabilmente
mai esistito in cui un ventinovenne campione d’Inghilterra non se ne sarebbe
mai andato all’Arsenal. Mi chiedo però
adesso quale lezione di morale calcistica stia escogitando, dopo che il Leicester
ha annunciato di avere prolungato il
contratto di Vardy per altri quattro anni. Forse che nel calcio l’amore vince a
volte sull’invidia e sull’odio? Tutto è bene quel che finisce bene, e la sola idea
che le lacrime dei bambini di Leicester
abbiano smesso di scorrere mi solleva.
Eppure Gramellini era quello che qualche mese fa sperava che il Leicester non
vincesse più nulla, per non intossicarsi
con le brutture del calcio moderno. Forse vendendo Vardy sarebbe stato più facile. Invece il bomber rimane, per di più
con uno stipendio altissimo. Roba da farci almeno un altro paio di lezioni di vita sul calcio, per fortuna.
Cosa pensa, invece, il commentatore
sportivo collettivo della campagna italiana per convincere i tifosi a indossare
la maglia azzurra allo stadio non c’è bisogno di immaginarlo. Sono tutti felici di
promuovere il colore dei Savoia, ma
guardo con profonda tenerezza lo sforzo
di imporre a forza di hashtag un sentimento patrio nel più pallido e artificiale dei nazionalismi europei. Gli altri fanno muraglie gialle o rosse o verdi sugli
spalti, gli italiani compongono un camouflage d’abiti civili, e non è una novità. Un po’ di retorica sulla squadra
operaia basta a trasformare milioni di
italiani in garibaldini in giubba rossa e
bersaglieri di Porta Pia? La spedizione
dei Mille era sorvegliata da due navi da
guerra di Sua Maestà, l’Angus e la Intrepid, e laddove i soldati hanno aperto la
breccia ora sorge l’ambasciata inglese.
La maglia azzurra ha una sua tradizione
nobile, s’intende, e perlomeno il tifoso
italiano, esaltato ma cum juicio, ci evita
la retorica da carie ai denti su quanto sono belli e gioiosi irlandesi e islandesi
(arriverà un “Buongiorno” anche su di
loro, vedrete); ma farsi venire il sentimento patrio a forza è un po’ come farsi
piacere il sushi per non passare per trogloditi in società.
Allora. Il 17 per cento della
popolazione israeliana è
musulmano. Più di 300
imam e muezzin sono stipendiati dallo Stato. Un milione e 400mila israeliani
musulmani parlano l’arabo, che è una delle due lingue ufficiali di Israele. 26mila
musulmani studiano negli istituti accademici israeliani. I musulmani in Israele sono cresciuti di 10 volte rispetto al 1948. Sono colà diffuse 6 differenti correnti dell’Islam, le moschee sono cresciute del 500 per
cento sempre dal 1948, 13 deputati alla
Knesset sono arabi e 1700 musulmani prestano servizio nell’esercito con la stella. Visto? Pure gli ebrei neonazisti-razzisti a loro insaputa, ci dovevano capitare.
Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30
IL PRIMO ASSEDIO A RENZI
Per la prima volta, il Pd mette a tema l’indicibile: cosa si fa se il governo
finisce davvero ko? Trame, sospetti, tradimenti possibili. Oggi la direzione
con la reazione del premier. “Ma che sta combinando Franceschini?”
Roma. Il cattivo umore in generale, i nervi, un certo senso di diffusa insofferenza regnano sovrani. Nel Pd si fanno discorsi dall’aria drammatica e vagabonda, s’intravedo-
greta, già si fanno i nomi dei possibili traditori, s’indicano i movimenti nell’ombra, persino dentro il governo, in quei gruppi parlamentari che eletti nel 2013 rispondono ancora alle vecchie logiche pre-rottamazione,
DI SALVATORE MERLO
pre-renziane. Dunque al Nazareno, tra i deno complotti, manovre, si sospettano tradi- putati più amici del segretario, si indicano
menti, “adesso esplodono tutte le contraddi- delle facce, dei profili disegnati nell’aria, si
zioni che ci siamo tenuti dentro troppo a lun- uniscono i puntini tra fatti forse scollegati
go”, dice allora Stefano Esposito, senatore tra loro, ci si tormenta con i sospetti: Dario
della corrente dei giovani turchi, “io temo il Franceschini… che sta facendo Franceschidisfacimento del Pd”. E allora tutti aspetta- ni? E perché tutti raccontano dei suoi inconno Matteo Renzi, il presidente del Consiglio tri, delle sue telefonate, delle sue allusioni
e segretario del partito, oggi, alla direzione agli errori di Renzi? Così circolano leggennazionale, dove ciascuno si metterà in fila, de, racconti veri, falsi, verosimili: in troppi
srotolando il suo Cahier de doléance, ciascu- adesso pensano che Franceschini, il più ginna delle correnti (“troppe correnti”, dice En- nasticato dei capi tribù, l’uomo la cui storia
zo Lattuca, bersaniano, il più giovane dei de- è una carriera di corridoio tra gorghi di corputati, “qua nessuno si è occupato del par- renti e sottocorrenti, tra lobby e fazioni, lui
tito e il risultato è l’anarchia correntizia”), al quale in tanti devono la loro elezione in
dunque tutti di fronte al segretario in diffi- Parlamento, voglia sostituirsi a Renzi per
coltà, sconfitto alle amministrative, tutti a approvare la nuova legge elettorale. Ed ecchiedere qualcosa, e a minacciare, un po’, in colo allora, Franceschini, avvolto in questo
controluce. “In direzione misureremo la ca- groviglio di timori e sospetti, eccolo che nei
ratura di Renzi”, dice
racconti si eleva a caMiguel Gotor, che della
po di un governo del
Voci.
“Adesso
esplodono
tutte
sinistra interna incarpresidente, un governa le pulsioni più batle contraddizioni che ci siamo no d’emergenza e di
tagliere, spesso aggressalute pubblica (sia il
tenuti dentro troppo a lungo”. governo Letta sia il
sive, ma anche più spiritose e in fondo distacgoverno Renzi nac“C’è anarchia correntizia”.
cate, “fare il leader con
quero per fare la legil vento in poppa è facige elettorale), un ese“Come si comporterà Renzi
le”, dice, “esserlo nella
cutivo benedetto, ovavendo sulle spalle la
difficoltà è più difficiviamente, dal capo
le. Bisogna vedere, e
dello stato, da quel
scimmietta
invisibile
di
sono curioso, come si
Sergio Mattarella che
comporterà
Renzi
con Franceschini ha
questa sconfitta elettorale?”
avendo sulle spalle la
una vecchia e solida
scimmietta invisibile
consuetudine.
di questa sconfitta elettorale”.
“Bisogna vedere (e sono curioso) come si
E così mentre Gianni Cuperlo vorrà insi- comporterà Renzi in direzione”, dice dunstere, chiedendo che venga modificata la que Gotor. E sarà un Renzi spavaldo, quello
legge elettorale, mentre Roberto Speranza di oggi, o un Renzi capace di umiltà e di
forse spingerà ancora perché Renzi lasci la aperture, come forse si augura il suo più causegreteria del partito (anche a rischio che il to consigliere, cioè Graziano Delrio? “La
nuovo segretario diventi Luca Lotti o Maria scelta”, dice spiritosamente Gotor, “è tra veElena Boschi?), mentre tutti insomma si pre- rismo e dannunzianesimo”, insomma tra
parano a chiedere o a pretendere qualcosa realismo e ribalderia, sostiene lui. Ma ieri
dal presidente del Consiglio e segretario mattina il presidente del Consiglio e segreammaccato, nell’ombra si consuma però un tario non sapeva ancora cosa fare, oscillava
dibattito parallelo e segreto, inquietante, fra il terribile e il dolce, fra un’aria di rimtutto un pissi pissi, un torrido mormorare e provero, censure, rifiuti e un’altra di simparullare di tamburelli: bisogna prepararsi, tia, consensi, piaceri. Quello che Renzi si
preparare un’alternativa al governo di Ren- aspetta in direzione, oggi, forse non è prozi, un governo che in caso di sconfitta al re- prio un assalto, ma quasi. E che farà di tutferendum di ottobre possa approvare quella ta questa matassa composta di complotti, tralegge elettorale che Renzi non sembra in- me e paure? Siamo al 25 luglio del governo?
tenzionato a cambiare (malgrado ieri matti- “C’è molto movimento, ma c’è anche di mezna il presidente del Consiglio avesse chie- zo l’estate”, dicevano ieri sera a Palazzo Chisto a Emanuele Fiano di buttarla lì, quasi gi, lasciando intendere che i ragazzi toscani
per caso, per vedere l’effetto che fa: “Sull’I- restano sicuri e chiusi in un guscio forse sitalicum penso che verrà fatta una riflessio- curo, prezioso, inalterabile, o forse invece di
ne…”). E allora, in una strana carambola se- una fragilità estrema.
Staino all’Unità e il passato che forse ha un futuro
C
i sono giorni in cui le notizie
danno l’impressione fisica di
un salto all’indietro, ti domandi se
è vero o se sogni. No, non la notizia
CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA
che Michele Santoro torna alla Rai. La notizia che riporta d’un tratto al tempo in cui
la politica esisteva, o esisteva la sinistra, è
che Sergio Staino, il Bobo dell’immaginario
comunista collettivo, potrebbe diventare il
direttore dell’Unità. Lui ha confermato,
gliel’hanno chiesto, e ha detto di sì con
“grande entusiasmo, più di pancia che di testa”, in attesa di sapere che ne pensa Matteo Renzi, come dire l’editore. Ed è una bella notizia, se andrà così, quella di un vignet-
tista che prende la guida di un giornale politico, nel paese in cui c’è un sacco di politici che fanno la satira di se stessi. Eppure
Staino alla guida dell’Unità non è un carpiato all’indietro, quello semmai è Santoro.
Perché Staino ha appena fatto un un romanzo a vignette, s’intitola Alla ricerca della pecora Fassina. E ha appena scritto a Gianni
Cuperlo, e gli ha detto che non è sempre
tempo di dividersi, che bisogna far politica
“senza distruggere il partito, anzi, prendendo atto che Renzi è il nostro segretario e il
nostro premier”. Riemergi dal tuffo e pensi che invece, per una volta, è la notizia di
un balzo in avanti: anche la sinistra, divenuta (quasi) vecchia e saggia, magari non voterà a favore, ma nemmeno sempre contro.
ANNO XXI NUMERO 148 - PAG 2
La cadrega
Risvolti ironici e politici del ricorso
di Cappato per un posto in
Comune (e conseguenze per Sala)
Milanese di nascita e con
studi a Monza, Marco Cappato
non avrà difficoltà, come
Aldo nella celeberrima gag
di Tre uomini e una gamba, a
distinguere tra una mela
RIPA DEL NAVIGLIO
(avvelenata) e una “cadrega”, quando si
verrà al dunque. Ma la vicenda del
ricorso per vedersi assegnato un seggio
nel nuovo Consiglio comunale da parte
della lista Radicali con Cappato,
apparentatasi al ballottaggio con Beppe
Sala, ha i suoi risvolti ironici e invita a
deduzioni politiche. Martedì i Radicali
hanno richiesto al Tar della Lombardia
un pronunciamento d’urgenza contro
l’assegnazione dei seggi che li vede
esclusi, in base a un contrasto
(“discrepanza”) tra le indicazioni del
Viminale per l’applicazione delle norme –
che li escluderebbe in quanto al primo
turno la lista non ha superato lo
sbarramento del 3 per cento – e le fonti
giurisprudenziali che invece indicano di
non tenere conto del risultato, nel caso di
successivo apparentamento. Le norme in
questione sono nel Testo unico per gli
enti locali. Art. 72, comma 7, e soprattutto
art. 73, comma 7: “Non sono ammesse
all’assegnazione dei seggi quelle liste che
abbiano ottenuto al primo turno meno del
3 per cento dei voti validi e che non
appartengano a nessun gruppo di liste
che abbia superato tale soglia”. Le
indicazioni del Viminale si attengono a
questo, ma è un “interpretazione errata”,
secondo Cappato. Esistono infatti una
sentenza del Tar della Lombardia del
2003 che afferma il contrario (e due
analoghe nel 2010 e 2013) e soprattutto
una sentenza del Consiglio di stato del
2015, secondo cui “la ripartizione dei
seggi va fatta tenendo inderogabilmente
conto dell’apparentamento”. E’ stato
obiettato, ai Radicali, che al momento del
voto per l’Ufficio elettorale faceva testo
solo la legge e l’indicazione del ministero,
e questo anche i Radicali erano in grado
di saperlo. Politica e cavilli. A breve si
saprà come andrà a finire.
Qualche dubbio nel mondo politico
milanese, sull’appellarsi ex post di Cappato
su una regola da nessuno contestata
prima, è stata determinata anche da altri
fatti. Uno legale, ovvero l’esposto di
ineleggibilità presentato alla Procura
contro Sala prima delle elezioni proprio
da Cappato, e rimasto lì, ufficialmente,
anche dopo l’apparentamento con il
candidato ineleggibile del primo turno.
L’altro è politico. Presentando
l’apparentamento tra i Radicali e la
propria coalizione, Beppe Sala aveva
ventilato (non promesso) un
coinvolgimento di Emma Bonino, che
nell’arcipelago radicale è vicina a
Cappato, per un ruolo nelle relazioni
internazionali del Comune. Va detto che,
esperienze mondiali a parte, Bonino è
stata molto presente a Milano, lo scorso
anno, come attivissimo presidente di WEWomen for Expo e le prospettive di
Milano nel mondo le conosce bene. Ma da
qui a paracadutarla con un ruolo a
Palazzo Marino è sembrato a molti, non
solo nel centrodestra, una mossa
elettorale e d’immagine un po’ forzata.
Attendendo la soluzione del dilemma
della “cadrega”, c’è un aspetto politico
interessante da osservare: il ruolo che
Sala deciderà di riservare agli alleati
Radicali, sia nel caso di ingresso di un
loro esponente in Consiglio, sia nel caso
venisse confermato un ruolo per Bonino.
Il tipo di ricompensa per l’appoggio (forse
decisivo) ottenuto al ballottaggio sarà un
segnale anche per l’indirizzo politico che
il nuovo sindaco deciderà di seguire. Le
scelte si sapranno al più tardi all’inizio
della prossima settimana, ma la
sensazione che Sala punterà a essere un
sindaco di coalizione, con molta
attenzione alla sinistra e alle politiche
verdi care ai Radicali è già evidente.
Non si sono rassegnati alla vittoria, gli
odiatori di “Mr.Expo” al Fatto Quotidiano.
Ieri Gianni Barbacetto ha iniziato una
nuova guerra preventiva sulla possibile
(indiscrezioni) scelta di Sala di nominare
assessore al Bilancio Roberto Tasca,
professionista stimato e ordinario di
Economia degli intermediari finanziari a
Bologna, nonché consulente della Procura
di Milano. Ma con una gran macchia:
risulta essere socio di un’azienda,
Kenergy, assieme proprio a Sala. E, per
soprammercato, Tasca risulta essere stato
socio di un’altra società in cui fino al 2008
Sala figurava come presidente, la
Medhelan Management & Finance: E,
udite udite, c’era anche Mario Rossetti, ex
manager Fastweb finito vittima innocente
di una vergognosa storia giudiziaria (ci ha
scritto un libro, Io non avevo l’avvocato,
Mondadori). Ma che importa?
L’“inestricabile intreccio di interessi
pubblici e privati” è dietro l’angolo, ci
sarà pane per i denti di Barbacetto.
Il Centro balneare Caimi, a Porta
Romana, è un gioiello di architettura
razionalista degli Anni 30 con piscine
all’aperto, verde, gradinate. Abbandonato
da tempo, ora riapre (ufficialmente il 30
giugno), magnificamente restaurato grazie
a un accordo tra comune e la Fondazione
Pier Lombardo guidata da Andrè Ruth
Shammah – la struttura è a fianco e
collegata al Teatro Franco Parenti – che
ha trovato finanziamenti privati. Si
chiamerà Bagni Misteriosi, un omaggio a
De Chirico. Gestito dal Parenti, il Caimi
ospiterà i bagnanti, ma anche attività
culturali e teatrali. State freschi.
Maurizio Crippa
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 24 GIUGNO 2016
INTERVISTA A JOHN MULLER, VICEDIRETTORE DI EL ESPAÑOL
Un importante giornalista spagnolo ha due previsioni choc per le elezioni
Madrid. “E se dicessi che esiste un 40 per
cento di possibilità che si torni alle urne?”.
John Muller, vicedirettore di El Español, progetto editoriale innovativo fondato nel 2015
dallo storico ex direttore del Mundo, Pedro J.
Ramírez, apre le braccia sconsolato: “Disgraziatamente la politica spagnola non ha una
tradizione di alleanze. Non è facile cestinare da un giorno all’altro una storia di governi monocolore”, dice al Foglio. Muller, economista raffinato e tra i fondatori del Mundo,
fa parte di quella ridotta di fuoriusciti dal
giornale dell’establishment spagnolo che,
fondando El Español, si è imbarcata in un
progetto editoriale che per ora sta riscuotendo successo anche per le sue posizioni forti:
fin dalla prima campagna elettorale, El
Español ha fatto chiari endorsement per il
centrista Albert Rivera. “Ciudadanos è l’unico partito che ha un discorso europeista deciso. Concorda sia con l’ala più a destra del
Partito socialista sia con l’elettorato più centrista del Partito popolare. La sua è una narrativa coerente”. Lo scenario politico tuttavia
non sembra molto diverso da quello già visto
a dicembre. Domenica, in caso di vittoria, il
premier ad interim Mariano Rajoy ha già fatto sapere che ripeterà lo stesso schema tattico: se sprovvisto di appoggio, andrà nottetempo dal re Felipe e così ricomincerà il circo
dei negoziati. “La situazione è molto complessa: Ciudadanos si arroga il ruolo chiave
per la formazione di un governo di larghe intese ma tutte le soluzioni passano dal Psoe. I
socialisti, anche questa volta, saranno l’ago
della bilancia: o un governo col o del Pp (se
decidono di astenersi) o un patto con Unidos
Podemos”. Resta l’attacco a sorpresa di Pablo Iglesias, e qui Muller fa un’altra previsione choc. “Considerando gli ultimi scandali all’interno del Partito popolare, c’è una buona
probabilità che Podemos non solo superi i socialisti ma possa raggiungere o perfino superare il Pp”. John Muller, che secondo indiscrezioni sarebbe nella rosa dei nomi che il
giornale di Rcs maneggia per trovare un nuovo direttore, dopo la recente destituzione di
BORDIN LINE
di Massimo Bordin
Nel suo lungo articolo di ieri su
Repubblica, Carlo Bonini tira un
bilancio del processo Mafia capitale giunto grosso modo a metà del suo percorso. Già
nel titolo c’è la parola “allarme”, le cose
non vanno secondo le previsioni. Si elencano una serie di cause dal ‘genius loci’ al risultato elettorale per denunciare un “ritorno alla normalità” che intende consegnare
il processo all’oblio, se non alla irrilevanza, mentre è ancora in svolgimento. La causa principale comunque Bonini la individua nella frammentazione in decine di processi che “da soli nulla dicono della mafiosità della città ma che, letti insieme, la documentano”. Così decontestualizzate le vicende criminali, sostiene Bonini, la trama
che le unisce viene azzerata in ogni proces-
David Jimenez, sistema gli occhialini sul naso. Secondo i sondaggi, il partito di Rajoy è
saldamente in testa, ma mercoledì è scoppiato sui media lo scandalo delle registrazioni in
cui il ministro dell’Interno, Jorge Fernández
Díaz, “suggerisce” all’Ufficio antrifrode catalano di aprire qualche fascicolo ad hoc contro gli indipendentisti alla vigilia del referendum del 2014. I dati statistici dicono che il 30
per cento degli spagnoli è ancora indeciso su
chi votare, ma secondo Muller le ultime campagne a mezzo stampa potrebbero far proso. “Come accadeva in Sicilia negli anni
Sessanta di fronte alla mafia”. L’osservazione non è banale né infondata ma forse fa
l’economia di un passaggio. La svolta vera
in Sicilia avviene quando Falcone ottiene
da Buscetta la descrizione, corredata da
prove, della mafia come organizzazione
unitaria, ramificata ma gerarchica. Nel processo romano non c’è un Buscetta ma una
intercettazione di Carminati che parafrasa
Tolkien. Troppo poco per non rendere azzardata l’utilizzazione del 416 bis. Non si
tratta di minimizzare l’inquietante realtà
dell’intreccio criminale romano che, nel libro che Bonini ha scritto col giudice De Cataldo, è certo ben descritto. Ma fare un romanzo, o anche una inchiesta giornalistica,
è cosa diversa dal portare a buon fine un
processo. Purtroppo, per certi versi. Per fortuna, per altri e non irrilevanti.
pendere più voti del previsto verso i puri e intransigenti di Podemos. “Con loro la Spagna
sarebbe assolutamente diversa”, dice il giornalista. Da Madrid a Caracas il passaggio è
d’obbligo. Nel 1996 Muller, cileno di nascita,
dirigeva El Universal, tra i quotidiani più importanti del Venezuela. “Ho vissuto la parte
finale della crisi del paese che ha aperto la
strada all’arrivo di Chávez”. Proprio per questo, quando in Spagna nasce Podemos, Muller scrive un pamphlet dal titolo inequivocabile: “Deconstruyendo a Pablo Iglesias”.
Ci sono delle connessioni evidenti. “E’ difficile provare che Podemos è finanziato dal
chavismo”, dice, ma è vero che “i fondatori
del partito sono stati nel libro paga di Chávez,
incluso Pablo Iglesias”. “Ricordo ancora la
notte elettorale di due anni fa, quando il partito conquistava cinque seggi al Parlamento
europeo. Pablo Iglesias disse: ‘Por ahora no
hemos alcanzado nuestro objetivo’ (al momento non abbiamo raggiunto il nostro obiettivo). Era la stessa frase che aveva pronunciato Chávez di fronte alla Camera subito dopo
il colpo di stato. Un discorso che segna l’inizio del regime bolivariano”. Per questo, secondo Muller, quelli di Podemos “non sono
semplici simpatizzanti: hanno seminato i germi del modello bolivariano. Sono fatti documentati”. Nel corso della campagna elettorale, però, Iglesias ha moderato il suo messaggio fino ad autodefinirsi socialdemocratico.
“Un passaggio che non sappiamo se sia onesto o un mero artificio”, conclude Muller.
Silvia Ragusa
“VOI C’AVETE GOMORRA, NOI C’AVEMO GAD”
C’è un nuovo incubo a Viale Mazzini: la trasformazione della Rai in Sky
E
ro lì che mi fumavo la mia bella sigaretta sulle scale antincendio lato via Pasubio quando vedo passare uno: bel tipo,
snello, vestito moderno, abito skinny, sbarbato, capello in ordine, scarpa lucida. E mi
dico: anvedi, questo sarà l’ennesimo esterno che hanno preso, perché conciato così di
sicuro non è uno dei nostri. E insomma, non
so perché, sai quelle cose che ti restano in
mente – mentre cammino per tornare alla
scrivania sto giusto pensando che devo
chiedere al mio collega chi è questo nuovo
quando mi ferma una ragazza: camicetta,
fresca di messa in piega, sguardo seducente: “Scusa, tu ti ricordi se questa cosa riguarda My Rai o Rai on demand?”. Non faccio tempo a dire “ma che cazzo stai a di’”
che riconosco la voce: “Scusa, ma tu non sei
la ***?”. “E lei: “Sì, certo, perché?”. Mi appoggio al muro: la *** è una segretaria di
Rieti che sino al giorno prima girava in ciabatte per il corridoio, soprannominata – un
po’ grevemente, mi rendo conto – la scorreggiona. Non capisco, inizio ad agitarmi,
corro nella mia stanza, spalanco la porta e
racconto tutto al mio collega: del tipo con
l’abito skinny, della *** vestita da sexy manager e delle cose in inglese che mi ha det-
to. Lui – stupito – mi guarda e poi dice:
“Guagliò, sta senz’ penzier”. Allora lì capisco, non ci vuole molto, tutti si sono già adeguati: siamo diventati Sky.
Solo che stavolta reagisco: eh no, questa
azienda ha una storia, una sua anima. Questi corridoi sono stati calpestati per sessant’anni da gente come me, gente semplice: con le grisaglie, i documenti da presentare in duplice copia, le vacanze in Abruzzo, la macchina presa a rate con le agevolazioni, la filiale di banca interna. Ora non
è che possiamo trasformarci così: io ho capito che Campo Dall’Orto nostro (iddio lo
abbia in gloria) viene da Mtv, da Milano,
però a tutto c’è un limite.
Decido quindi seduta stante che bisogna
organizzare una resistenza: e da dove deve
partire uno per organizzarla? Non è forse
vero che le prime brigate partigiane si costituirono nelle Prealpi, laddove ardeva
più forte il fuoco della Libertà? Così non ho
esitazioni: corro subito al primo piano dove resiste ancora qualcuno dei Vianello
boys che tengono le fette di porchetta nei
cassetti e in macchina ascoltano Venditti,
nonostante Dariuccia abbia imposto le
nuove regole per cui ora tutte sono vestite
come Audrey Hepburn e per i corridoi senti la musica dei Sigur Ros.
“Regà: voi nun ce crederete…”, faccio
per dire, ma trovo le guardie di rete che
stanno perquisendo al muro uno dei Vianello’s: il vicino di scrivania si era accorto
che al posto di guardare una puntata di
“Making a murderer”, come previsto dal
programma di rieducazione, stava guardando una partita degli europei mangiando pane e salsiccia. Il vicino krumiro ha cominciato a gridare: “Tu manciaaa!”, come il
professor Birkermaier, e l’hanno catturato.
“Cazzo”, mi dico, “forse è già tardi”. Così scappo, mi nascondo nei cessi, e sento
due che parlano: “Semprini è bravo…”.
Santo cielo, penso: siamo proprio all’invasione. “E poi Dariuccia va dicendo in giro
che vuole un programma più tecnologico”.
A quel punto, come un eroe partigiano della Brigata Garibaldi, esco allo scoperto:
“Ennò, eh! Ma che cazzo state a di’! E Giannini? E le polemiche con Anza? Pure quelle ci volete togliere? Ma che ‘Ballarò’ è
senza un corpo a corpo con Anza? Ma, dico: siamo matti? Questa è la Rai! Erre - a i!”. Quelli mi guardano, non si scompongono, e mi dicono: “Infatti non si chiamerà
più ‘Ballarò’”.
Questa è brutta, questa fa male, non me
l’aspettavo, barcollo. Mi trascino agli ascensori gridando per il corridoio: “Ma che cazzo di Sky e Sky… pure l’Annunziata li ha
mannati affanculo l’altro giorno”. Ma sono
debole, sto perdendo le forze. “Forse a RaiSue”, penso, “forse da lì, dalla rete che fu
di ‘Annozero’, si può provare a organizzare
una resistenza, un qualcosa che non ci trasformi in quella robballà”. Si aprono le
porte dell’ascensore e al piano trovo una
gigantografia di Mika: “Ti aspetto su RaiDue”, c’è scritto. E’ troppo, ho capito: abbiamo perso.
Mogio, torno alla mia scrivania. “Siamo
Sky”, mi ripeto, “Siamo sky”. Apro il pc, forse anche io dovrei vedermi questo “Making
a murderer”, non so. Poi vedo un titolo:
“Viale Mazzini: il ritorno di Santoro”. Penso: non è possibile, premo compulsivamente F5: aggiorna, aggiorna, aggiorna.
Invece è tutto vero. Torna Santoro. E poi
l’apoteosi: torna Gad. Gaaaad, cazzo, Gad!
Mi appoggio indietro allo schienale, respiro e sorrido. Cara Sky, non ci avrai. Voi c’avete Gomorra, noi c’avemo Gad.
Anonimo Rai
CONSIGLI PER NON PERDERSI LA BELLEZZA DELLE GALASSIE
Il cielo è stellato sopra di noi, nonostante l’inquinamento luminoso
M
i è capitato un paio di volte di attraversare l’Atlantico di notte durante un viaggio aereo. Lo sanno tutti che non si possono
aprire gli oscuranti dei finestrini per non disturbare la percezione giorno/notte, soprattutto in caso di attraversamento di fusi orari.
Ma ho voluto sfidare l’hostess tedesca della
Lufthansa. Si viaggiava di notte, saranno state le 3: vi prego, fatelo. Guardate il cielo dal
finestrino. Uno spettacolo incredibile di stelle, migliaia di stelle. Poi è successo di tutto:
l’hostess mi ha rimproverato fulminandomi
con il suo sguardo tedesco e un paio di passeggeri si sono svegliati. Ma ne è valsa la pena. Ero nella condizione ideale: altezza di oltre 10 km e buio totale. Chi fa una crociera in
mezzo al nulla avrà fatto un’esperienza simile. Che spettacolo il buio totale in contrasto
con la volta celeste luminosa: senza la luminosità artificiale terrestre il cielo dà il meglio
di se. Un po’ di anni prima – nel 1975 – Rino
Gaetano cantava “Ma il cielo è sempre più
blu” e non poteva certo immaginare che nel
2016 l’Italia sarebbe diventato il paese al
mondo con più inquinamento luminoso, al-
meno secondo il Nuovo atlante mondiale dell’inquinamento luminoso, di recente pubblicazione. Di notte il Bel Paese si illumina
d’immenso. Per spiegare il fenomeno dell’inquinamento luminoso si può pensare a una
analogia: tutti abbiamo ricevuto un sms alle 4
del mattino e siamo riusciti a leggerlo con
grande fatica per gli occhi. Lo stesso principio per cui quando incrociamo una macchina
con gli abbaglianti facciamo fatica a guidare,
il campo visivo umano è “abbagliato”. Aggiungiamo un pochino di fattori: la qualità
dell’aria, un paio di etti di CO2 e il gioco è fatto. Si però che palle. Ogni volta un nuovo inquinamento, non se ne può più. E dobbiamo
pure pagare le bollette della luce. Come se
non bastasse, c’è pure una giornata nazionale contro l’inquinamento luminoso. Quest’anno cade il 29 ottobre e ci saranno eventi organizzati in tutta Italia per far conoscere l’inquinamento luminoso e le normative per limitarlo. Ora non è che tutti siano nati come
me nove mesi dopo l’uscita del singolo “Figli
delle stelle”, o abbiano un cognome che ha a
che fare con le Galassie. Non è che tutti guar-
diamo il cielo, soprattutto in città. La maggior
parte di noi passa il 75 per cento del proprio
tempo a farsi abbagliare dallo schermo (pc,
smartphone, tablet). C’è da dire che bisogna
fare dei distinguo: gli scienziati fanno le medie a livello nazionale, un po’ come le proiezioni elettorali. Quindi ci sono zone incontaminate in tutta Italia, lontano dalle grandi
città, per non parlare delle coste e delle montagne. Personalmente ho visto dei cieli stellati in Sardegna o in Salento da fare invidia alla Cristoforetti nello spazio. Dal vivo e da vicino gli oggetti celesti sono spettacolari e luminosissimi, ma data la distanza dalla Terra
li vediamo in differita e con una luminosità
molto bassa. Ogni oggetto del cielo ha una sua
luminosità proporzionale alla sua energia
(per semplificare pensate alle lampadine), in
alcuni casi questa “energia” è fornita da altri (come il Sole con i pianeti). Quanta luminosità pensate che riesca a raggiungere i nostri occhi nel mezzo di città densamente abitate? La maggior parte dei cittadini italiani
(soprattutto nei centri storici) a fatica riesce
a scorgere alcune costellazioni. E la nostra
Galassia? Ma si, la Via Lattea. Tutti abbiamo
acceso uno zampirone a spirale per le zanzare: ecco, la via Lattea ha la forma di uno zampirone e noi ci troviamo all’interno di uno dei
suoi bracci. Quasi tutti gli oggetti che si possono vedere a occhio nudo fanno parte della
nostra galassia: una galassia come la nostra
raggiunge facilmente un centinaio di miliardi di stelle. Son tante si, ma quante se ne possono vedere a occhio nudo? Con occhi sufficientemente buoni, all’incirca 6.000. E non
tutte hanno lo stesso colore, dirò di più: pensate a un colore di una Converse All Star. Bene, per ogni Converse è possibile trovare una
stella con quel colore. Con l’inquinamento luminoso ci siamo giocati quasi del tutto il colore delle stelle. Badate bene, non sono qui
a rimproverare nessuno: mettiamo pure le lucine di natale sui balconi e giochiamo a calcio la sera con le luci. Ma d’altra parte un terzo della popolazione mondiale non vede più
la Via Lattea e un europeo su due vede solo
qualche costellazione. Parafrasando Rino
Gaetano, “il cielo stellato è sempre più tabù”.
Paolo Galati
TRA LOTTERIA DEI RIGORI E RECORD DI BANALIT A’
Franza o Spagna? Al Bar del Foglio si pensa più all’Islanda che all’Italia
Trastevere. Dopo la sconfitta a tratti imbarazzante degli Azzurri contro l’Irlanda siamo
tutti Antonio Conte. Ma non per senso patriottico particolare – che c’è, sia chiaro, e
BAR SPORT FOGLIO
batte forte nei nostri petti – né perché particolarmente simpatetici con le sofferenze degli sconfitti (anche se sì, non ci dispiacciono
quelli che talvolta la prendono in quel posto). Intervistato su Sky dopo l’infausta partita, il nostro Commissario tecnico si è lasciato sfuggire un “Forza Italia è meglio” che subito ci ha fatto sentire tanta nostalgia. Forti
di questa certezza, aprima il Bar Sport alla
vigilia degli ottavi di finale contro la Spagna,
e ci chiediamo come finirà. E poché vogliamo essere banali fino in fondo, ci interroghiamo su chi sia la vera sorpresa dell’Europeo. La prima profezia è da grattata: 2-1 per
la Spagna. Peduzzi però frena: “Solo una richiesta prima di partire. Ieri ho visto la prima partita di questi Europei: voglio sapere
chi è il parrucchiere della Nazionale, subito”. Risponde l’esperto Gambardella: “Paola,
è il mio stesso barbiere. Un giorno doveva
farmi le meches. Il resto è cronaca degli ultimi anni”. Valensise sa tutto: “Paola di sicuro Roberto D’Antonio parr di Valeria Bruni
Tedeschi Sabr Ferilli Santanché, amato anche da Pietrangelo”. Poi ecco la profezia:
“Avendo indovinato la vittoria della penultima partita, e non essendomi espressa sull’ultima (che per l’appunto abbiamo perso)
scommetto apotropaicamente che lunedi
contro la Spagna vinciamo, tanto più che
Lanfranco Pace ci ha appena spiegato tutti i
motivi profondi della rivalsa. Dunque Olé e
Tié…”. Pompili, romantica: “Ma non li ha già
vinti l’Islanda questi europei?”. Valensise
osè: “Se alludi al campionato orgasmatico
del tifo sì”. Qualcuno però fa notare a Marina che “tolto il telecronista impazzito al 94’
il campionato orgasmico del tifo lo vince fisso l’Irlanda”. Cerasa torna a bomba sul pezzo, ispirato dalle note vicende: “Galles. Irlanda. Islanda. Il vento è cambiato. My dream:
con la Spagna catenaccio orrendo e poi rigore rubato al 94’. La sorpresa sarà la Croazia”.
Merlo la sa lunga: “Catenaccio è una di quel-
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
Era coccolata da tutti, dice un
titolo. Era stata abusata più volte
prima d’essere assassinata, dice una perizia. Le torture indicibili inflitte ai
bambini, nelle loro case, nelle case dei
vicini, nelle scuole, nelle chiese, negli
innumerevoli parchi di giochi loro dedicati, improvvisamente vengono vomitate sulle cronache. Indicibili, alla lettera: non dette né dai torturatori né dalle piccole vittime. Si guarda ai bambini
e ci si chiede che cosa sanno che non
possono dire, che non vogliamo sentire.
le parole italiane che nel mondo conoscono
tutti. Vendetta, pizza, Ferrari e… Catenaccio”. Pompili è certa che “comunque la Spagna merita di perdere. Ma per questioni politiche”. Matzuzzi sbadiglia: “Sono talmente
noiosi questi europei che a innescare la scintilla ci ha pensato Collina, decidendo che
Galles-Irlanda del Nord sarà diretta da un
inglese di Bradford (Yorkshire). Una cosa
mai vista e potenzialmente più devastante di
una serata alcolica tra russi e croati”. Capone sogghigna: “Con la Spagna partiamo sfavoriti, siamo molto più scarsi. Ma a questo giro gli spagnoli sono fiacchi e, un po’ come
suggerisce il panorama politico iberico, incerti e divisi. Unidos Podemos!”. E prima
che Capone possa dirci che la Germania è da
tenere d’occhio (chissà perché, poi), da Mediaset irrompe Giuseppe De Filippi, divinatorio: “Vince l’Ungheria e vi invito tutti a cena
con gli 800 euro che incasso (contro 10?). Giocata nostalgica, anni Trenta”. Ce lo segniamo
tutti, De Filippi insiste: “Correggo, se vince
Ungheria ne prendo 4000 mentre 800 con Italia o Croazia. L’arbitro di mercoledì comunque facciamocelo ridare”. “L’arbitro di mercoledì è appena stato rimandato a casa, comunica l’Uefa con una nota ufficiale che
neanche al Quirinale avrebbero scritto”, fa
notare Matzuzzi. Rizzini ha pensato a lungo
alla domanda iniziale di Peduzzi: “Dai Paola, stavolta quelli che hanno giocato (diversi
dalle altre volte?) sembravano pettinati meglio. I tatuaggi anche mi paiono in aumento.
Con la Spagna? Ottimismo della volontà”.
Antonucci persino ottimista: “Ce la giochiamo, finiamo ai supplementari o ai rigori…”.
Attimo di silenzio, tutti sperano che non lo
dica. E invece: “…e lì poi è una lotteria”. Valensise attacca le scommesse di De Filippi:
“Ma noi qui al massimo scommettiamo una
virgola, un avverbio, un punto esclamativo:
comunque l’importante è farti dimenticare il
golf e relativo handicap”. Lui non ci sta: “Sei
pazza?? Si parla solo di golf, anche quando si
parla di calcio”. Battistuzzi ci rinuncia: “Scusate, ma dopo la partitaccia di ieri ho deciso che guardare questi Europei è tempo
sprecato. Lunedì, essendo a Rouen inizierò a
bere Calvados a mezzogiorno per affrontare
al meglio il prepartita come Jack insegna.
Dato che giochiamo alle 18 ho tutto il tempo
per vedere doppio”. Valensise non perdona:
“A Rouen allora tifa Islanda così magari vai
ai quarti con la Fra e vedi che campionato
da tifo orgasmatico”. Parodi scroccona: “Mi
dispiace dirlo, ma ho la sensazione che vincerà la Spagna, anche se li faremo sudare.
Per consolarmi, spero che i miei vicini di Madrid mi invitino a mangiare la paella con loro. I bambini del piano di sopra invece (di
cui non oso mettere in dubbio l’autorità in
materia) dicono che alla fine l’Islanda ci
spiazzerà tutti”. L’alcol è finito, il Bar sta per
chiudere. Ma c’è tempo per l’ordinazione di
Ferrara: “Vojo fa’ proprio lo stronzo, er banale, er saviano: Franza o Spagna purché nun
se li magna. Baci”. (pv)
E Barca?
Alla ricerca dell’ex “moralizzatore”
pd, con la sezione Giubbonari
oscurata da Juan Carlos di Spagna
Un fantasma s’aggira per
la Roma post-voto, nei
giorni dell’insediamento
del neo-sindaco a Cinque
stelle Virginia Raggi (non
CAMPO DE’ FIORI
“sindaca”, ha detto Raggi al culmine del
dibattito linguistico, a differenza della
collega torinese Chiara Appendino, che
ha scelto la versione al femminile
dell’appellativo). Un fantasma s’aggira
per le lande angosciate del Nazareno,
ma non è l’ex avversario di Raggi ed ex
candidato dem Roberto Giachetti, ieri
inedito in versione “lanciafiamme” (“il
Pd ha toccato il fondo”, ha detto in
un’intervista al Messaggero).
No: nel momento della resa dei conti
nel partito, tra un’accusa e l’altra, con
Romano Prodi e Massimo D’Alema a
orchestrare dall’esterno la critica, e il
ministro della Funzione Pubblica
Marianna Madia a orchestrare
dall’interno l’autocritica (“siamo stati
rottamati dai cittadini”, ha detto a
Repubblica), ci si domanda dove mai la
città abbia nascosto, a livello di dibattito
politico, Fabrizio Barca, ex ministro
della Coesione territoriale nel governo
Monti ed ex autore di viaggi in Italia
anche conosciuti sotto il nome de “La
traversata”, (ed. Feltrinelli) saggio su
“un’altra idea di partito e governo” da
diffondere a suon di “mobilitazione
cognitiva” e “piattaforme dei luoghi
ideali”, ma al netto del “catoplepismo”.
Non solo: Barca è anche e soprattutto
l’ex moralizzatore del Partito
democratico post Mafia Capitale, l’uomo
incaricato dal commissario e presidente
pd Matteo Orfini della “mappaturacircoli” che tanto fece arrabbiare i
circoli, non contenti di vedersi suddivisi
in categorie con graduatoria in negativo
(c’erano infatti i circoli disfunzionali per
via dell’attitudine a inseguire il “potere
per il potere”, quelli in cui si mettevano
davanti “gli interessi particolari” e
quelli “inerti” ma “catturabili”, cioè
scalabili dall’esterno). E insomma, un
anno fa, alla presentazione della
relazione-Barca, si apprese che, su 108
circoli del Pd, ventisette erano
considerati “dannosi” e a rischio
chiusura in quanto ricettacolo di vizi,
primo fra tutti la promozione di una
certa “fedeltà di filiera”. D’altronde
Barca, nell’aprile 2013, in un altro brutto
momento per il Pd (elezioni Politiche
vinte soltanto di misura, e conseguente
palude), si era iscritto al partito nella
storica sezione Giubbonari (Campo de’
Fiori per ubicazione, Weltanschauung e
sostanza), che è come dire il Circolo dei
Circoli.
Al confino, su Twitter
E ieri, mentre Roberto Giachetti, dal
Messaggero, nominava l’ex ministro per
dire che sì, “il lavoro di Barca e il
commissariamento hanno inciso” sul Pd,
ma “non abbastanza”, parlando quasi
come un Barca al quadrato
(“…ricominciamo dai comitati di
quartiere, dalle reti dei cittadini senza
piangerci addosso e facendo tesoro delle
cavolate fatte in passato…”, diceva
Giachetti), il Barca d’antan restava
confinato al suo pur attivissimo account
Twitter. Né i romani che si fermavano a
leggere l’Unità fuori dalla sezione
suddetta, ieri pomeriggio, parevano
preoccuparsene (alla domanda “scusi ma
lei sa che fine ha fatto Fabrizio Barca?”,
il signor Gianni Altieri, elettore pd non
iscritto né alla sezione-circolo
Giubbonari né altrove, rispondeva “di
non averne idea”. E la signora Anna,
fermatasi a leggere un articolo sul M5s e
il Pd in Sicilia, iscritta in un circolo più
periferico, diceva “i problemi ora sono
altri”). La sezione Giubbonari se ne
restava lì, come tutti i giorni, con la
porta aperta e due sedie fuori, mentre il
fantasma di Barca (e della “mappatura
circoli” che non era bastata a evitare il
crollo) appariva lontano, e nella via
Giubbonari medesima si diffondeva,
incontrollata, la voce che re Juan Carlos
di Spagna, la sera precedente, fosse stato
a cena al Ristorante Salumeria Roscioli
(centro metri più avanti). E pareva tutto
un malinconico segno dei tempi.
Marianna Rizzini
PREGHIERA
di Camillo Langone
Uber,
risparmiami
l’imbruttimento automobilistico delle città italiane, delle mie
amate capitaline, Parma, Mantova, Modena, Lucca, e pure di Verona e di Firenze e di chissà quante altre preziose città d’arte deturpate dai taxi impestati di pubblicità, sporchi di scritte
come treni della Circumvesuviana.
Uber, trova il modo di sbarcare in forze nelle piccole e medie città italiane,
perché i tassisti abusivi o presunti tali sono più decorosi dei tassisti legali:
le vetture Uber mi risultano essere in
tinta unita e spesso scure… Le corporazioni dei tassisti, con le loro macchine nella migliore delle ipotesi color lavatrice, vengano espulse dai centri storici per indegnità cromatica. O almeno
consentano al cliente la scelta fra un
taxi impestato e un taxi dalle fiancate
pulite. A Modena, ed ero davanti al Palazzo Ducale mica alla Bruciata, mi è
capitato un taxi con scritto “Bingo Globo. Sala bingo e slot machines” e ho
preferito andare a piedi perché salendoci sarei divenuto complice di bingo
e slot. Uber, ti prego, migliora esteticamente un settore inguardabile.
ANNO XXI NUMERO 148 - PAG 3
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 24 GIUGNO 2016
EDITORIALI
LA PROSSIMA BREXIT STRATEGY
Cosentino è un camorrista o un Corona?
Dalle “exit” al Ttip, 32 nuovi referendum europei scuotono l’Ue
Condanna rapida per l’iPod in cella, niente sentenze sulla ciccia
F
inalmente è arrivata la prima tanto
attesa condanna di Nicola Cosentino.
Dopo quasi dieci anni di indagini sul riciclaggio di soldi e rifiuti, inchieste sui
rapporti con il clan dei Casalesi, accuse
di favori alla criminalità in cambio di voti, di estorsione e concorso esterno in associazione camorristica, il malacarne
Nick ’o ’mericano ha subìto una condanna in primo grado a 4 anni di reclusione.
La sentenza però non riguarda nessuno
dei processi per cui è agli arresti ormai
da quasi mille giorni e di cui si attendono ancora le sentenze di primo grado, ma
proprio il suo comportamento da carcerato preventivo. Cosentino è stato condannato per la corruzione di un agente
penitenziario al fine di poter ricevere in
cella benefit non previsti, come cibo, abiti e un iPod per ascoltare la musica. L’ex
sottosegretario all’Economia del Pdl era
entrato nel carcere di Secondigliano nel
2014 e l’anno successivo, dopo il ritrovamento dell’apparecchio musicale durante un’ispezione, viene trasferito al carcere di Terni con il divieto di incontrare la
moglie (anch’ella condannata per la stessa vicenda). Poi Cosentino viene mandato ai domiciliari in Molise (ma lontano
dalla famiglia), dopo un altro anno, e fanno due, di carcerazione preventiva, che
gli è servita a fargli meritare una condanna. Degli altri quattro processi, quelli
per cui l’avevano messo in galera e ora ai
domiciliari, sul monopolio nella distribuzione di carburante dell’azienda di famiglia e sulla collusione con i Casalesi,
ancora non si sa nulla. Descritto come
l’amico dei boss che ha fatto entrare la
camorra nelle istituzioni, per adesso è
solo un Fabrizio Corona che ha fatto entrare un iPod in cella.
I 5 stelle sono il nuovo Zentrum! Sorrisi
La loro vittoria rilancia il ’94 del Cav., dice il Giornale. Sogni a destra
L
a politica ha sempre bisogno del colpo d’ala della fantasia. Specialmente nel centrodestra, specialmente in questi tempi confusi e con il Cavaliere in
convalescenza e in cui tanti, nel centrodestra, sembra non ricordino nemmeno
più cosa fu la cavalcata del ’94. Renato
Farina, gran penna della Prima, della
Seconda e presumibilmente della Terza
Repubblica se la ricorda benissimo. Ma
certe volte il colpo d’ala vale di più. Sul
Giornale di ieri, tirando a lucido la linea
già tracciata dal direttore Sallusti, ha
scritto della “marcia al centro dei Cinque stelle”, “un centro che non ha nulla
della palude, ma semmai riprende il
Zentrum cattolico che caratterizzò la ripresa tedesca dell’800, fatto di attenzione
sociale e morale”. E se i Cinque stelle
hanno affascinato l’opinione pubblica da
bar e molto elettorato ex centrodestra
(da sempre sensibile al bar) è perché non
c’è più il “vaffa”, ma pure loro vendono
sogni: impossibili ma rassicuranti. Certo,
non è un “endorsement tardivo”, anzi è
l’allarme per un incauto elettorato del
centrodestra che ai ballottaggi ha contribuito, senza nulla in cambio, a “creare
un mostro politico apparentemente invincibile”. Ma se la nuova invincibilità
deli (ex?) grillini sta nell’effimera sostanza dei sogni, allora secondo Farina (e forse anche Sallusti), “torna straordinariamente di attualità lo spirito berlusconiano che punta al buono e al bello, prima
che urlare contro il nemico. Il ’94 azzurro fu così”. Che sarebbe un bel colpo d’ala di fantasia, se soltanto assomigliasse
alla realtà. Alla realtà di un centrodestra
che invece da molto tempo strizza l’occhio all’antipolitica, e regala voti al nuovo Zentrum di Virginia Raggi.
Perché Confindustria dice sì al referendum
Boccia supera il primo voto di fiducia, gli associati sono con Renzi
I
l presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha superato la prima prova
di fiducia del Consiglio generale, chiamato a esprimersi sul referendum costituzionale di ottobre. Il Consiglio ha votato a favore della principale riforma istituzionale del governo Renzi appoggiando la linea già espressa da Boccia in sostegno del “sì” al referendum più importante d’Europa dopo quello sulla Brexit.
I rappresentanti dei grandi associati
hanno assecondato il presidente all’unanimità dei votanti in un’assise segnata da
assenze non straordinarie (120 presenti
circa su 198 componenti, assente il 40 per
cento). Alla vigilia si ventilava una fronda da parte della corrente che nella corsa elettorale sosteneva lo sfidante di
Boccia, Alberto Vacchi – a quanto pare
non c’era nulla di organizzato in tal senso visto che ieri parte dell’opposizione
era rappresentata. Non solo: alcuni esponenti delle territoriali “vacchiane” sono
stati nominati nei comitati tecnici, sanando così una potenziale frattura. I critici dicevano di non avere interesse a
esprimersi su una questione politica divisiva, rivelando di non condividere con
i vertici confindustriali la passione per i
contenuti della riforma che migliorerebbero il clima per l’impresa; vedi soprattutto la riduzione del potere di veto delle regioni in materie concorrenti. Nel
2006 Montezemolo non appoggiò la riforma costituzionale di Berlusconi, condivisa solo in parte. Confindustria è per ora
l’unica associazione di attori economici
ad appoggiare Renzi nella sua battaglia,
confermando tale postura anche dopo
l’esito deludente delle amministrative.
Boccia ha superato un voto che si preannunciava sfavorevole, potrà rivendicarlo.
La presidenza imperiale di Obama
Il presidente spaccia per xenofoba una sentenza sull’abuso di potere
O
rfana di un giudice, la Corte suprema
americana si è divisa a metà a proposito delle misure, varate due anni fa da
Barack Obama con una serie di ordini
esecutivi, che avrebbero protetto dall’ordine di rimpatrio milioni di immigrati
clandestini che rispettano le leggi e hanno una vita in America. Il pareggio 4-4 ha
rimandato il caso alla decisione della
Corte d’appello di New Orleans, che si
era espressa contro la manovra del presidente, invocando un abuso del potere
esecutivo. Per Obama è una sonante
sconfitta politica, aggravata dal fatto che
con l’ascesa di Donald Trump l’immigrazione è diventata uno dei temi dominanti della campagna elettorale, cosa che
non era immediatamente prevedibile al
tempo degli ordini di protezione. Un irritato Obama ha parlato di una decisione
“frustrante per coloro che lavorano per
la crescita economica e sperano di portare razionalità nel sistema d’immigrazione”, un pronunciamento “che spezza il
cuore ai milioni di immigrati che si sono
fatti una vita qui”. Non c’è nulla di più facile che rappresentare la disputa come
uno scontro fra i buoni che favoriscono
l’immigrazione misericordiosa e i cattivi
che vogliono il muro al confine con il
Messico. Il fatto, però, è che la decisione
del tribunale e la (non) decisione della
Corte suprema non parlano dell’immigrazione, ma della divisione dei poteri.
Ciò che stabilisce è che il presidente non
ha il potere di emettere ordini del genere se non invadendo le prerogative del
Congresso, cioè dei legislatori eletti dal
popolo. Ma Obama, si sa, preferisce il
modello della “presidenza imperiale”,
con le toghe imparziali ridotte ad ancelle del potere esecutivo.
(segue dalla prima pagina)
La contabilità dell’Ecfr dice che i “partiti della rivolta” – nuovi e vecchi populisti
che vanno dall’estrema destra all’estrema
DI
DAVID CARRETTA
sinistra – stanno chiedendo 32 referendum su questioni che
hanno a che fare con l’appartenenza del loro paese all’Ue. A
voler imitare il Regno Unito con un voto popolare sulla exit
totale dall’Europa sono in tanti: il Front national e il Partito
comunista in Francia; Alternative für Deutschland in Germania; il Partito della libertà di Geert Wilders in Olanda; la Lega nord in Italia; i comunisti del Kscm, i libertari del Partito
dei cittadini liberi e i fascisti della coalizione Alba nazionale in Repubblica ceca; i Democratici svedesi in Svezia; il Partito del popolo danese in Danimarca; il Vlaams Belang fiammingo in Belgio; i nazionalisti di sinistra di Ataka in Bulgaria, i neonazisti del Jobbik in Ungheria; la destra del Partito
conservatore del popolo in Estonia. I tedeschi di Afd vogliono anche un referendum sull’uscita dall’euro, come il Movimento 5 stelle (non conteggiato nella ricerca dell’Ecfr). I portoghesi del Blocco di sinistra (che sostengono il governo di
minoranza del socialista António Costa) lo chiedono sul Pat-
to di stabilità. Il referendum sull’allargamento è un tema prediletto degli austriaci della Fpö, il Fronte patriottico bulgaro si limita alla Turchia, mentre fiamminghi e tedeschi vogliono imitare il Pvv di Wilders sull’accordo di associazione con
l’Ucraina. Altro tema alla moda è l’immigrazione (interna o
esterna all’Ue), con un partito di governo, il Fidesz del premier ungherese Viktor Orbán, che intende far votare i suoi
cittadini sulle quote per ripartire i richiedenti asilo. Il Ttip
è in cima alla classifica dei referendum proposti dai populisti di estrema sinistra. Gli spagnoli di Podemos sono una minaccia per via del referendum sull’indipendenza della Catalogna, che potrebbe innescare una valanga di secessioni nazionali con richieste di adesione all’Ue.
Le ultime elezioni presidenziali in Austria, con la vittoria
per 30 mila voti del verde europeista Alexander Van der
Bellen sull’euroscettico della Fpö Norbert Hofer, dimostrano che anche i voti puramente nazionali si stanno trasformando in referendum sull’Ue. In Spagna domenica è Unidos Podemos che rappresenta il campo della rivolta, con il
suo leader Pablo Iglesias che potrebbe rivendicare il posto
di primo ministro dopo aver superato i socialisti del Psoe
nei sondaggi. Il calendario elettorale del 2017 è ricco di occasioni per rivendicare referendum: politiche in Olanda en-
tro marzo (con il Pvv di Wilders in testa nei sondaggi), presidenziali e Assemblea nazionale in Francia ad aprile e
maggio (con il Front national di Marine Le Pen che al primo turno potrebbe arrivare in testa) ed elezioni federali in
Germania in autunno (con Afd al 15 per cento e la grande
coalizione Cdu-Spd sotto il 50 per cento). Come ha già fatto,
Le Pen avrà gioco facile a presentarsi come “il difensore
della libertà dei popoli di disporre del loro destino” e accusare i suoi rivali di appoggiare un’Ue “totalitaria” perché
è da “11 anni che i francesi non sono interrogati”. A forza
di sentire evocare referendum, le opinioni pubbliche si
stanno convincendo che è necessario. Un sondaggio del
Monde di marzo dice che il 53 per cento dei francesi vorrebbe esprimersi sulla “Frexit”. In Olanda è il 54 per cento, secondo una ricerca più recente della televisione pubblica. Almeno i referendum hanno un effetto chiarificatore. Il
premier populista di Syriza, Alexis Tsipras, è stato costretto a una clamorosa marcia indietro sul suo referendum dello scorso anno, dopo aver capito che la “Grexit” avrebbe
avuto conseguenze catastrofiche per la Grecia. Ma fino a
quando non ci sarà un incidente vero, senza espedienti giuridici o politici per rientrare dalla finestra, l’Ue rimarrà
esposta allo tsunami del populismo referendario.
Brand e politica estera. La Brexit vista dal golf club di Trump
(segue dalla prima pagina)
L’opera di persuasione
del popolo scozzese era
una specie di prova generaMATTIA FERRARESI
le, fatta non a caso nel paese della madre di
Trump, che veniva dalle depresse isole
Ebridi e aveva una particolare ammirazione
per la corte britannica. E’ una specie di
“dreams from my mother” in versione scozzese e golfista.
Di solito i candidati alla Casa Bianca fanno viaggi all’estero in campagna elettorale
per aumentare la loro credibilità internazionale, ma Trump recita la sua parte seguendo il canovaccio dell’outsider di suc-
cesso, non quello del politico “all talk, no action”. E sullo sfondo, naturalmente, c’è la
Brexit.
La Reuters qualche giorno fa scriveva che
la Brexit è “il trumpismo senza Trump”, un
mix nostalgico-xenofobo, e al netto delle
semplificazioni transatlantiche e delle notti in cui tutti i populismi sono neri, il candidato agita temi generali che sono affini agli
istinti del fronte del “leave”. La logica nazionalista, il disprezzo viscerale per le istituzioni internazionali, dalla Nato a Bruxelles – sono strumenti nelle mani dell’odiata
ideologia globalista – l’inclinazione verso la
protezione, che si declina nell’imposizione
di dazi per proteggere la produzione interna e nell’innalzamento dei muri per scorag-
giare l’immigrazione, tutte queste cose sono
in qualche forma rappresentate in un referendum ad alto coefficiente simbolico.
Per Trump non c’è luogo più adatto di un
campo da golf in Scozia per accogliere la decisione della Gran Bretagna, e il messaggio
politico vale a prescindere dall’esito del referendum. Alla vigilia del viaggio che
confonde gli alleati in patria e ha l’aria di
una stravagante perdita di tempo è arrivato
anche l’endorsement di Donald Rumsfeld,
ovvero l’appoggio della più importante tra
le figure del Partito repubblicano dei Bush.
Giocando sulla sua famosa distinzione logica fra il noto e l’ingnoto, Rumsfeld ha detto
che Trump è un “known unknown”, cioè
qualcosa che sappiamo di non conoscere:
“Sono molto più a mio agio con un ‘known
unknown’ a cui darò il mio sostegno che con
un ‘known known’ che è inaccettabile”, ovvero Hillary Clinton.
In linea di principio, ha spiegato Rumsfeld, “sono d’accordo con l’idea di riformare la Nato” e ha manifestato sostegno anche
per la sospensione del flusso di migranti
dalla Siria verso gli Stati Uniti. L’ex segretario della Difesa non arriva a dire, con
Trump, che la Nato è “obsoleta”, ma ha incaricato una persona del suo staff di mettere a confronto ciò che il candidato ha effettivamente detto sull’Alleanza atlantica e
quello che i media hanno riportato. Le due
versioni, dice, sono molto diverse fra loro.
Twitter @mattiaferraresi
Anche tra i media inglesi inizia oggi un regolamento di conti
(segue dalla prima pagina)
La scelta del Times è stata molto discussa perché riguarda soprattutto il ruolo di
Rupert Murdoch nella politica inglese. Da
DI
PAOLA PEDUZZI
un punto di vista strettamente editoriale la spiegazione è
chiara: i lettori del Times sono più metropolitani ed eurofili rispetto ai lettori del Sun, il tabloid del gruppo News
Corp., che infatti non ha mai segnalato alcuna cautela – non
è nella sua natura – e anzi ha inaugurato la stagione degli
endorsement facendo tremare il fronte del “remain”. Il nuovo numero dello Spectator, magazine conservatore che si è
schierato per il “leave”, segnala al di là del risultato del referendum (è uscito ieri) che esiste una frattura enorme all’interno del paese, ed è quella che divide l’élite metropolitana dal resto del paese. E’ la stessa frattura che si è vista
durante la campagna sintetizzata dall’espressione “Establishment vs People”, che riguarda come si sa non soltanto il
Regno Unito e che continuerà a farsi sentire anche oggi che
pure c’è il verdetto sulla Brexit. Sky News, che è sempre
del gruppo di Murdoch, è stata invece più in linea con l’atteggiamento del Times senza schierarsi in modo troppo
smaccato. Naturalmente la domanda è: c’è qualche strategia
in corso in casa Murdoch di cui ancora non si conoscono i
contorni? La risposta non è ancora stata trovata, è troppo
presto, ma di certo al momento la chiacchiera più grande è
quella che riguarda la presenza del neosindaco di Londra
Sadiq Khan al cocktail estivo che la settimana scorsa Rupert
Murdoch ha tenuto a Londra: il laburista musulmano a casa dello Squalo? A molti suoi compagni di partito devono essere venuti i capelli dritti, ma si sa che Khan non è considerato un alleato sicuro e fedele dalla leadership del Labour: quando era in campagna elettorale per Londra, Khan
si è tenuto il più possibile distaccato da Jeremy Corbyn (pur
avendo contribuito alla sua nomina) e quando era in campagna referendaria per il “remain” si è presentato su un palco assieme al premier conservatore David Cameron, cosa
che Corbyn non si è mai sognato di fare (soltanto l’uccisione di Jo Cox ha unito i due leader nel cordoglio).
Se inizia una nuova fase di assestamento della politica
britannica dopo il tormento referendario, anche nei media
le ripercussioni si sentiranno. E’ stata siglata una petizione
– ci sono già 50 mila firme – contro il direttore del Daily
Mail, Paul Dacre, personaggio istrionico e influente, per come ha trattato i temi più importanti del referendum, in par-
ticolare l’immigrazione. Lo chiamano “il Nigel Farage dei
giornali”, dicono che ha fatto titoli estremi e in parte falsi,
che hanno aumentato la brutalità del dibattito. Il tabloid risponde dicendo che si è limitato a raccontare un sentimento molto presente nel paese, ma anche qui il regolamento
di conti deve ancora cominciare. Con un piccolo dettaglio:
l’edizione domenicale del Mail si è pronunciata a favore del
“remain”, sottolineando ancora una volta la frattura esistente nel paese.
A confondere ancora più un contesto già affaticato da mesi di urli, c’è stato anche il mondo dei social che, secondo
le analisi, è sempre stato molto più a favore del “leave”. Essendo i social uno strumento ben più volatile rispetto ai media tradizionali – che rispondono a editori e lettori – è facile immaginare che la turbolenza si calmerà più in fretta, fermo restando che come spesso accade la percezione della
realtà è condizionata dall’attualità e che, soprattutto sui social, c’è poca memoria storica. Chi ha votato anche nel 1975,
l’ultimo referendum europeo del paese, sostiene che oggi, in
confronto ad allora, i toni sono molto più delicati. Per gli osservatori sembra impossibile, e non fanno che ripetere che
tornare a una maggiore moderazione è un imperativo a cominciare da adesso.
Il populismo è come un’anestesia, a un certo punto ci si sveglia
(segue dalla prima pagina)
Il trend in Europa e negli Stati Uniti come si sa è
totalmente l’opposto: la
campagna referendaria inglese ha portato molti altri paesi a interrogarsi sul proprio ruolo in Europa e le rilevazioni sull’opinione pubblica rivelano una
stanchezza nei confronti del modello capitalista, non certo riguardo ai populisti. Il
successo di Donald Trump nelle primarie
americane repubblicane non ha fatto altro
che confermare la sensazione che tutti gli
schemi adottati finora siano saltati. C’è la
tendenza a non farsi dare troppe lezioni dai
paesi sudamericani, ma le argomentazioni
di Rathbone sono convincenti (e alimenta-
G
ià prima della ricorrenza centenaria, anche l’escursionista estivo,
l’alpinista per caso cui non siano sfuggiti qua e là sulle cime delle Dolomiti,
sulla Marmolada o l’Adamello certi residui della Grande guerra – segni e testimonianze di un’ardita presenza arroccata su un picco, di un improbabile
avamposto, di un rifugio scavato nella
roccia – fermandosi un momento sotto il
cielo più azzurro, si sarà chiesto stupito “ma come avran fatto?”. Come avranno fatto quei soldati, italiani o austriaci,
non solo a combattere e morire, ma a vivere e sopravvivere fin lassù, ad arrivarci con i loro zaini, le armi, l’equipaggiamento. E a essere in tanti, una massa
che in pochi mesi popolò quei territori.
E a sopportare il freddo d’inverno, che
vuol dire notti col termometro a dieci,
quindici, venti gradi sotto zero, e la neve fuori alta tre o quattro metri. Quei
soldati – semplice dirlo ora – avevano
dovuto conquistare, prima della vittoria, la montagna. Montagna “bieca, arcigna, inflessibile”, scriveva nel 1916 un
ufficiale italiano.
Come fecero, che cosa comportò la
“guerra verticale” per gli uomini, gli
animali e le cose, per gli eserciti che misero in campo nuove tecniche e nuovi
saperi e per lo stesso spazio-paesaggio
alpino, lo spiega con l’esattezza dei dati e dei documenti e con l’agilità del racconto appassionato il volume di Diego
no la speranza che non tutto sia perduto,
speranza di cui c’è grande fame). Il risveglio moderato è stato rapido – sei mesi – ed
è stato indotto da due fattori: prima di tutto il collasso del Venezuela, “lo specchio in
cui tutta la regione si riflette restando inorridita da quel che vede”, scrive Rathbone.
Quando il Venezuela è entrato nel dibattito elettorale spagnolo – si vota domenica –
per i legami tra Unidos Podemos e Caracas,
il leader di Ciudadanos Albert Rivera ha
detto: “Se vogliono importare quel modello,
devono spiegarci bene il perché”. Non c’è
nulla di così potente come un esempio tanto negativo. Il secondo fattore del risveglio
è stata la consapevolezza che molti governi
andati al potere per aiutare i più poveri e
LIBRI
Diego Leoni
LA GUERRA VERTICALE
Einaudi, 576 pp., 36 euro
Leoni, compendio di trent’anni di studi
e ricerche sulle carte d’archivio, la pubblicistica degli anni del conflitto e la
grande mole della memorialistica. In
quota, dunque, sempre più in alto, ma
una volta fatti arrivare gli uomini, si doveva portare fin lassù l’acqua (perché
era “un arsimento continuo” e soffrire
la sete fu più frequente e feroce di
quanto si possa immaginare) e con l’acqua gli alimenti per gli uomini e gli animali, il vestiario, gli attrezzi, le armi
(“non vi fu parete di montagna, nessun
monte, nessun ghiacciaio, nessuna valle alpina dove non siano stati issati cannoni”, scrisse poi un ufficiale austriaco). Bisognava costruire baraccamenti e
tettoie, predisporre assi per le trincee,
pali per il filo spinato, sostegni per le linee telefoniche ed elettriche. Per portare in quota tutto questo servivano uomini, animali e mezzi che avrebbero avuto bisogno di strade e sentieri, e per fa-
proteggerli dall’irresponsabilità di multinazionali e banche – dei capitalisti – si fossero rivelati invece corrotti e più attenti ai loro interessi che a quelli degli elettori.
Quando questo è stato chiaro, come dice un
commentatore argentino, l’egemonia politica del populismo – lui parla del modello
Kirchner in Argentina – è stata “mandata a
terra con un pugno”. La reazione non è stata sempre moderata: la piazza brasiliana
per esempio è contenta di vedere intoccabili andare in prigione, così come in Colombia c’è stata una sollevazione quando una
legge contro l’assenteismo al Congresso non
è passata perché non si sono presentati abbastanza parlamentari a votarla. Ma sempre nella piazza brasiliana, sottolinea Rathre questo servivano, in un sistema che si
autoproduceva all’infinito, altri uomini, animali e mezzi che li costruissero.
Per il trasporto, all’inizio delle ostilità
risultò insostituibile la forza animale:
asini, muli, cavalli e perfino i cani in
quantità. Soffrirono, senza combattere,
anche gli animali: da parte italiana si
contarono 76 mila perdite su un totale
di 350 mila quadrupedi impiegati. Poi
arrivarono le macchine: gli autocarri e
le teleferiche, che si rivelarono fondamentali nella gestione logistica della
guerra in quota, ma anche nuovi motori in grado di spingere l’acqua sempre
più in alto, e una rete impressionante di
acquedotti. “Quel che hanno costruito i
soldati sui seicento chilometri del nostro fronte asprissimo, supera ogni concezione”, scriveva il tenente Michele
Campana. Costruzione e distruzione, infine, perché “gli eserciti si impadronirono dello spazio alpino, lo scomposero
e lo ricomposero”. Così lo vide nell’agosto del 1919 Alcide De Gasperi, rientrato da poco in Trentino: “Tutte queste
montagne mostrano dappertutto ancora
i solchi profondi che la guerra ha scavato fin dentro la loro ossatura, le lacerazioni della loro veste di verzura, gli
schianti delle loro foreste”. E aveva appena alzato lo sguardo da quello che era
stato un avamposto italiano, lì dove giacevano “ancora a brandelli alcuni cadaveri”.
bone, si sentivano più cori di chi diceva
“più Argentina meno Venezuela”, indicando che la strada moderata di Buenos Aires,
con l’elezione di Mauricio Macri, è apprezzata (certo nessuno vorrebbe diventare come il Venezuela).
Rathbone lascia la conclusione della sua
lunga analisi a Gabriela Michetti, vicepresidente argentina, che dice: “Il populismo genera una certa anestesia. E’ una patologia
sociale in cui la gente preferisce vivere una
realtà che non è reale, è falsa”. Quest’anestesia collettiva sta svanendo in Argentina,
dice, ma “ancora abbiamo bisogno di una
storia epica da raccontare, di una visione”.
E’ così che il populismo si stanca.
Twitter @paolapeduzzi
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ANNO XXI NUMERO 148 - PAG 4
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 24 GIUGNO 2016
La Giornata I colpevoli fino a prova contraria. Idea per Renzi sul referendum
* * *
In Italia
GUERINI: “BASTA CON QUESTO DIBATTITO SURREALE SUL PD”. Il vicesegretario del Partito democratico, Lorenzo
Guerini, ha chiesto “più sobrietà nelle dichiarazioni” commentando l’invito rivolto
dal ministro Madia al commissario del Pd
a Roma, Orfini, a dimettersi dall’incarico.
“Inviterei a finirla con questo dibattito sul
post elezioni di Roma: lavoriamo per ripartire, più che discutere tra di noi e su noi
stessi”, ha chiosato Guerini.
“Sono d’accordo con il compagno Speranza, come si diceva una volta. Il voto così negativo non può non apire una pagina
nuova del Pd”. Così Vasco Errani durante
la riunione della minoranza dem.
* * *
Quaranta interventi nel Canale di Sicilia
sono stati condotti ieri dalla Guardia costiera locale per portare in salvo 4.400 migranti. Nelle ultime ventiquattro ore, ammontano a cinquemila le persone soccorse.
* * *
Quasi deserto l’aumento Veneto Banca.
L’aumento di capitale è stato sottoscritto
dai soci per solo il 2,2 per cento del controvalore totale di un miliardo di euro. Il mercato non si aspetta reazioni nemmeno dagli
investitori istituzionali. Probabile l’intervento del fondo Atlante.
“Non c’entriamo niente, abbiamo svolto
un intervento di agevolazione della comunicazione tra due realtà molto conflittuali”, ha detto il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco sulla mancata fusione tra
Veneto Banca e Popolare di Vicenza.
* * *
Erdemir si sfila dalla gara per Ilva. Ali
Pandir, mananging director del gruppo siderurgico turco, ha detto che “non si hanno informazioni abbastanza solide” in vista
dell’offerta del 30 giugno. Erdemir fa parte della cordata ben vista da Cassa depositi e prestiti per soccorrere l’acciaieria italiana.
Al direttore - E quindi, niente: è #Madiacapitale.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - La panna, si sa, a furia di montarla prima o poi impazzisce. Ecco quindi che
a 100 giorni dal voto Renzi deve correre ai ripari. Per evitare che il referendum sulla sua riforma costituzionale si trasformi in un pasticcio,
il premier deve sciogliere tre nodi. Il primo: il
quesito unico su una legge che modifica il 35
per cento della Costituzione in maniera disomogenea si rivela ogni giorno inopportuno oltre
che, ad avviso nostro e di molti, fuori dagli standard democratici. Costringendo gli italiani a votare sì o no in blocco, il referendum non potrà
che essere un plebiscito su Renzi (ma poi, gli
conviene?) anziché un esercizio di democrazia.
Con l’effetto, chiunque vinca, di unulteriore aumento della crisi di legittimità del sistema.
Il secondo nodo riguarda l’approccio del governo alle “questioni di democrazia”. Come insegna il caso del referendum sulle trivellazioni,
il modo in cui si arriverà al voto ha un valore
centrale tanto quanto il merito del quesito. L’arbitrio e l’arroganza con cui l’esecutivo ha interpretato la propria funzione di sovrintendere alla procedura referendaria dello scorso aprile,
dalla data del voto alla campagna mediatica
(senza parlare del “ciaone”), ha solo alimentato l’antipatia verso il segretario pd.
Ci sono poi le incognite che la riforma porta
con sé. E’ il caso degli strumenti di democrazia
diretta, unico contropotere dei cittadini a fronte dell’aumento del potere decisionale del governo e del partito di maggioranza. Senza modificare le attuali regole sulla raccolta firme, ridurre il quorum per chi ne raccoglie 800 mila sarebbe una mera controriforma. Lo stesso vale per le
leggi di iniziativa popolare, finché i regolamenti parlamentari non introdurranno l’obbligo
d’esaminarle, e per i referendum propositivi e
consultivi, solo annunciati e rinviati a una futura legge costituzionale.
(segue dalla prima pagina)
O, meglio, da quegli esponenti politici che, intruppandoli nel
loro staff, credono di potere alzare davanti agli elettori un collaudato vessillo di correttezza, di
trasparenza e legalità.
Borsa di Milano. FtseMib +3,71 per cento. Differenziale tra Btp e Bund a 131. L’euro chiude invariato a 1,13 sul dollaro.
Nel mondo
* * *
Borse in crescita sperando nel “remain”.
Nel giorno del referendum sulla Brexit le
Borse europee hanno chiuso le contrattazioni con un rialzo sostenuto, segno di una
speranza diffusa nella permanenza del Regno unito nell’Ue. Anche la sterlina si è attestata sopra quota 1,49 dollari. Il risultato
definitivo è atteso per questa mattina.
* * *
La Corte suprema blocca il piano Obama
sull’immigrazione. Un voto in perfetto pareggio (4 a 4) tra i giudici della Corte ha fermato il piano dell’Amministrazione che intendeva legalizzare la posizione di oltre 4
milioni di immigrati irregolari. Il piano immigrazione è da sempre uno dei capisaldi
del programma del presidente.
I democratici hanno concluso ieri pomeriggio un sit-in di protesta durato due giorni, in cui decine di deputati hanno occupato l’Aula del Congresso per chiedere l’approvazione di nuove leggi sul controllo della vendita delle armi da fuoco.
* * *
Le Sdf riconquistano Manbij, città siriana
in mano allo Stato islamico e strategica per
recuperare la striscia di territorio vicino al
confine turco in mano al gruppo. Le Sdf,
Forze siriane democratiche, sono un gruppo militare sostenuto dagli Stati Uniti. Per
il segretario americano alla Difesa Carter
gli islamisti avevano utilizzato Manbij come
base per organizzare attacchi in Europa.
IL RIEMPITIVO
di Pietrangelo Buttafuoco
Saffo, ieri, se ne stava seduta
in metropolitana col dizionario
Rocci sulle ginocchia. Aiutava i ragazzi
a esercitarsi prima dell’esame di greco.
E mormorava qualcosa a proposito di
un altro amore, di un cuore chiamato a
pagare per cose mai fatte: “Un altro
amore, prima di me, ha reso il tuo cuore triste e malinconico”. E così traduceva per chiedere a se stessa: “Come faccio a sciogliere il tuo cuore, freddo?”.
Così, ieri, Saffo. Prima di scendere alla
fermata Anagnina, capolinea. Per poi
proseguire la versione nel più difficile
degli esami, l’amore.
INNAMORATO FISSO
di Maurizio Milani
Alicia Keys, siete bellissima,
e quindi vi amo. Sono un giovane (si fa oer dire) italiano di 39
anni. Come lavoro sto traducendo “I Promessi Sposi” in arabo. Il
grande romanzo era stato tradotto già
nel 1931 in tutte le lingue del mondo,
però in alcune edizioni non era precisa
la traduzione (es. si dice che Renzo era
alto 199 cm e Luci 156, invece è il contrario). Comunque tutto sommato la storia
è quella. Alicia, amore, non finirei mai
di guardarti. Le tue canzoni sono bellissime. Domani sto a letto tutto il giorno.
Alta Società
Lo chef dell’Hassler, Francesco Apreda, fa il miglior soufflé di Roma.
Dolce o salato che sia.
ferendum propositivi e consultivi sul modello di
Svizzera e California; con la modifica dei regolamenti parlamentari in materia di leggi di iniziativa popolare. Sciolti questi tre nodi, molto dell’astio che circola potrà essere riassorbito, per concentrarsi sul merito delle questioni.
Mario Staderini, Riccardo Magi, Fulco Lanchester
Al direttore - Bossetti, Schettino, Schwazer.
L’Italia ha sentenziato: al rogo! Tortora evidentemente non ci ha insegnato nulla.
Jori Diego Cherubini
Siamo tutti sempre colpevoli fino a prova
contraria.
Al direttore - Dure critiche a Renzi da Prodi
e D’Alema, detti anche i gemelli dell’autogol.
Giovanni De Merulis
Al direttore - Nella campagna elettorale romana non si è parlato di urbanistica ma al ballottaggio si è acceso lo scontro su due progetti, lo
stadio e le Olimpiadi. Non ho intenzione di aggiungere la mia voce a questo delirio. Sento il dovere, avendo avuto parte nella vicenda, di correggere imprecisioni ed errori, in modo che il dibattito pubblico si fondi su fatti documentati. In merito all’articolo di Francesco Karrer e Sergio Pasanisi del 22 giugno: Il progetto Tor di Valle non
ha alcuna affinità con la problematica delle varianti puntuali, la proposta del privato si basa su
una legge nazionale, che affida all’equilibrio economico la realizzazione di attrezzature sportive,
consentendo, a questo fine, di prevedere anche
altre utilizzazioni. La delibera di pubblico interesse è stata approvata in attuazione della norma
Delrio e non c’è ricorso a strumenti derogatori.
Il Prg del 2008, di cui Francesco Karrer fu importante consulente, prevede in quell’area, funzioni
sportive e parco tematico che consentono al privato di realizzare, in attuazione diretta, fino a
354 mila metri cubi. Il proponente, in accordo
con una società sportiva, presenta la proposta
su un’area di sua proprietà, questo recita la legge. Ecco perché l’area è quella. La concorrenza
è assicurata, la legge è valida per tutti gli operatori. Il comune può dire che non va, che va bene
o può condizionare il suo sì. Abbiamo scelto quest’ultima strada perché il progetto, a precise condizioni, si inserisce come un tassello coerente, nel
disegno pubblico di sviluppo della città. Le opere pubbliche per lo Stadio ammontano, come
giustamente si rileva, a 300 milioni di euro a carico del privato. Ma non sono oggetto di compensazione, come invece si riporta nell’articolo. Il
Comune ha condizionato la dichiarazione del
pubblico interesse alle sole opere pubbliche che
servono anche alla città, per un ammontare di
195 milioni di euro (donde la quota di superficie
edificabile aggiuntiva): il prolungamento della
metro B, lo svincolo con la Roma-Fiumicino, il
ponte sul Tevere, la bretella di collegamento con
la via Ostiense via del Mare, la riunificazione delle due arterie fino al Gra, un ponte ciclo pedonale, la messa in sicurezza del fosso di Vallerano a Decima, costituiscono la patrimonializzazione pubblica pari a circa il 27 per cento di un
investimento tutto privato e i cui rischi sono assunti dal solo privato. Questa sì una cosa nuova a Roma. Per le opere di pubblico interesse resta l’obbligo di legge (neanche a dirlo) della gara di appalto di evidenza pubblica e, data la rilevanza, saranno gare europee.
La verità è che lo stadio è osteggiato da operatori che si sono assicurati soldi pubblici per
cantieri mai finiti e per opere di dubbia utilità,
ottenuti senza competizione pubblica. Auspico
che il sindaco colga l’occasione, con tutto il rigore necessario e nel solo interesse pubblico. I
poteri di veto e i no “a prescindere”, possono avere facile gioco ma non fanno il bene
della città.
Giovanni Caudo
La posta va inviata a [email protected]
(10 righe, non più di 600 battute)
Sabella e i “pm coraggiosi” sempre sospesi tra giurisdizione e cura del potere
* * *
UN UOMO ARMATO SI E’ BARRICATO
IN UN CINEMA IN GERMANIA, prendendo ostaggi e sparando alcuni colpi in aria
prima di essere ucciso dalle forze speciali
tedesche. E’ successo ieri a Viernheim, cittadina vicino a Francoforte, in un multisala della catena Kinopolis. Le prime testimonianze avevano parlato di almeno 20 feriti, ma il ministro dell’Interno del Land
dell’Assia, Peter Beuth, ha poi smentito la
notizia. Secondo l’agenzia di stampa tedesca Dpa, i servizi di sicurezza ritengono il
caso opera di un folle piuttosto che un attentato terroristico.
Convinti che la posta in gioco sia superiore
al futuro politico di un singolo, ecco le nostre
proposte a Renzi per uscire dall’impasse.
Per evitare il plebiscito e restituire agli italiani un vero potere di scelta, occorre permettere di
votare distintamente sui principali aspetti della
revisione costituzionale senza inficiarne la coerenza complessiva. Con il referendum per parti
separate, infatti, cinque sarebbero gli aspetti su
cui esprimersi e convincere: fine del bicameralismo; Senato non elettivo; voto a data fissa dei
disegni di legge del governo; iniziativa legislativa popolare e referendum; riforma del regionalismo. Il Comitato per la libertà di voto ha depositato sia in Parlamento che in Cassazione il quesito per parti separate e due referendum parziali. C’è tempo fino al 14 luglio per le firme dei parlamentari, visto che quelle dei cittadini sono una
chimera perché non si è voluto modificare le procedure irragionevoli e restrittive su autenticatori e certificazioni. Quanto alle questioni di democrazia, il governo può dimostrare di essere diverso dai suoi predecessori. Anziché individuare la
data a seconda della propria convenienza, si
coinvolgano i comitati promotori nella scelta e
si codifichi l’obbligo di neutralità. E per garantire una corretta informazione ai cittadini si realizzi un opuscolo informativo da inviare nelle case di tutti gli italiani, dove favorevoli e contrari
potranno esprimere alla pari le loro posizioni. Infine, sulle questioni lasciate aperte dalla riforma,
si chiarisca tutto prima del voto: con l’approvazione di un Referendum act che sostituisca le
procedure della legge n. 352 del 1970 e consenta
la raccolta delle firme online; con la presentazione di una legge costituzionale che definisca i re-
LA LINEA SOTTILE
Dispiace dirlo, ma ci cascano tutti: Matteo Renzi si è inventato Raffaele Cantone,
che viene dalla lotta alla camorra, e lo ha
messo a capo dell’Anticorruzione; Rosario
Crocetta, governatore della Sicilia, ha accolto felicemente tra le sue braccia Antonio Ingroia, seriamente disastrato dallo zero virgola ottenuto alle elezioni di due anni fa, e gli ha regalato persino un lussuoso
incarico di sottogoverno; Giachetti voleva
provarci con Sabella, seguendo l’esempio
dell’ex sindaco Ignazio Marino, ma gli è andata male, malissimo: non solo ha perso le
elezioni, asfaltato in malo modo dal plebiscito che ha portato Virginia Raggi al 67
per cento; ma le ha pure perse con il so-
spetto che la maledetta dichiarazione, con
la quale Sabella ipotizzava addirittura un
avviso di garanzia per la Raggi, colpevole sì
e no di un insignificante malinteso burocratico, avesse provocato nelle ultime ore
della campagna elettorale una sorta di rigetto nei confronti di un Pd, intrappolato
ancora una volta nella sua logica sbirresca.
Teoricamente, lo zelo dimostrato nell’ ultima performance potrebbe persino scalfire l’aureola di “magistrato coraggioso” che,
fin dalla stagione di Palermo vissuta nel
pool antimafia di Gian Carlo Caselli, cinge
la testa di Alfonso Sabella. Teoricamente
però. Perché se è vero che, dopo la sortita
sulla Raggi, il Consiglio superiore ha aperto un fascicolo, è altrettanto vero che la
commissione disciplinare non troverà mai
né la forza né il coraggio di mettere in discussione le parole e le opere di una toga
che vanta nel suo curriculum il merito di
avere catturato boss come Leoluca Bagarella, cognato e braccio destro di Totò Riina.
Sarebbe come “delegittimare” – ecco la formula magica – la lotta alla mafia. Del resto,
il Csm ha sempre mostrato su questo fronte estrema cautela: ha archiviato Ingroia
che, girovagando tra i palazzi della politica
in vista della sua discesa in campo, era finito sul palco del congresso Pdci, quello di
Oliviero Diliberto, per sostenere che “i magistrati non possono essere trasformati in
esecutori materiali di leggi ingiuste”; e ha
archiviato anche Vittorio Teresi, procuratore aggiunto di Palermo, che ha pubblicamente bocciato con un quattro in pagella, i
giudici che avevano assolto l’ex generale
dei carabinieri Mario Mori, costretto ormai
da quasi vent’anni a salire e scendere le
scale del Palazzo di giustizia. Volete che
non dimostri altrettanto buon animo nei
confronti di Alfonso Sabella o che gli avveleni la festa per l’arrivo nelle sale del film
che, ricostruendo l’arresto di Bagarella,
inevitabilmente finisce per intonare un inno alla sua immagine di duro e puro, alla
sua storia di cacciatore di mafiosi?
Tranquilli. Sabella, come quasi tutti i
“magistrati coraggiosi”, resterà sempre
una spanna sopra gli altri, sospeso a metà
tra il cielo e la terra, tra la politica e la giustizia, tra la giurisdizione e la cura del potere. In quel mondo di mezzo, dolcemente
tempestoso e sottilmente inquieto, che è la
dimora metafisica degli uomini che, in forza del loro impegno profondo e melodioso,
meritano un posto più alto di quello assegnato ai comuni mortali.
Ricordate la favola del Barone rampante, narrata per tutti gli uomini che ancora
amano Voltaire, da un Italo Calvino straordinariamente illuminista e calvinista? Cosimo Piovasco di Rondò per sfuggire all’angheria del padre che gli impone di mangiare le lumache, decide a dodici anni di salire su un albero, dove rimane felice e gaudente per tutta la sua esistenza. Il padre
tenta in tutti i modi di convincerlo a scendere, ma Cosimo non vuole sentire: “Io dagli alberi piscio più lontano”, risponde beffardo. Ed è a quel punto che il barone padre, indicando il cielo carico di nuvole, lo
avverte: “Attento, figlio, c’è Chi può pisciare su tutti noi”.
Giuseppe Sottile
I Radicali e il necessario Congresso di un partito che non c’è più
HA RAGIONE SOFRI, SI RIPRENDA L’INIZIATIVA TRANSNAZIONALE PER CONTINUARE A VIVERE. NO A RENDITE DI POSIZIONE INTERNE
A
driano Sofri da queste colonne ha invitato i Radicali, nella speranza che essi abbiano un futuro o sappiano conquistarselo dopo Marco Pannella, a preservare il
Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito e quindi la sua vocazione
di forza politica federalista e internazionalista e, a farlo, tornando allo statuto.
Sofri va ringraziato per il suo intervento
sul Foglio perché solo se si farà valere sulle vicissitudini interne radicali il valore aggiunto di una qualche attenzione e partecipazione esterna, si può sperare di scrivere qualche altra pagina significativa della
storia radicale. Allo stato dei fatti quel partito che i Radicali sono amichevolmente invitati a salvaguardare, rilanciare e promuovere nelle sue ambizioni e nelle sue ragioni costitutive oggi purtroppo semplicemente non esiste. Esistono alcune centinaia di
iscritti, di cui pochi i non italiani e fra gli
italiani alcune doppie tessere. Ma non esiste un segretario politico perché quello
eletto nell’ultimo congresso del 2011 non si
è mai insediato. Non esistono organi deliberativi in grado di convocare un congresso. Vengono invece convocate assemblee
informali non si sa da chi e a che titolo, introdotte da relazioni e interventi programmati non si sa da chi e a che titolo previsti
e assegnati. La prossima, dopo una prima
svoltasi a Roma, si svolgerà il 25 giugno a
Teramo (e nonostante queste fondate riserve formali vi avrei comunque partecipato
se altri impegni non mi portassero altrove).
Io condivido con Sofri l’opinione che oggi come non mai c’è bisogno di un partito
nonviolento dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto: oggi più assai
di quando nel 1988/1989 il Partito radicale
assunse per la prima volta le sue forme
transnazionali e transpartitiche. E’ in atto
in Europa e in tutto il mondo occidentale
uno scontro micidiale tra società aperte e
società chiuse, che si vogliono di nuovo divise da muri, fili spinati e frontiere. E fuori d’Europa in medio oriente e in Africa un
fondamentalismo islamico, da tempo divenuto protervo e terroristico, si rivolge apparentemente contro i valori e i princìpi della democrazia liberale ma in realtà è
espressione di una guerra civile interna al
mondo musulmano riguardante il mondo
sunnita prima ancora che le relazioni fra
sunniti e sciiti, una guerra civile rivolta soprattutto contro le rivendicazioni di libertà
e di emancipazione interne a quelle società, in particolare quelle delle donne musulmane. Di tutto questo il Partito non ha
mai trovato una sede per discutere non foss’altro che per aggiornare le sue analisi della realtà e i suoi paradigmi interpretativi.
Siamo rimasti fermi all’analisi delle “demo-
crazie reali”, che andava bene forse dieci
anni fa, non oggi che ricompaiono minacciosi i fantasmi (nazionalisti e ahinoi razzisti)
di un lontano passato, addirittura prebellico. Io non so se, come teme Sofri, il diritto
alla conoscenza sia soprattutto una tautologia o se, come sostiene Angiolo Bandinelli,
sia invece un grande progetto politico. Ma
anche ammesso che sia un maturo e vincente progetto politico, rischieremmo una volta che fosse votato sormontando mille ostacoli e difficoltà dall’Assemblea delle Nazioni Unite, di doverci amaramente accorgere
che l’Onu non è più da alcuno riconosciuta
come fonte e luogo deputato della legalità
internazionale mentre ovunque nel mondo
il suo “Radicali per il Sì-Sì per i Radicali”.
Ben vengano i radicali per il “no”. Ben vengano i Radicali del “Sì però” (il mio ad
esempio è ancora un “sì” esitante e incerto a fronte di un però grande come una casa perché queste riforme sono brutte assai
e, se approvate, devono essere rapidamente modificate e corrette). Ben vengano il dibattito, il confronto, perfino la divisione:
sempre meglio dell’assenza, del silenzio,
dell’indifferenza.
Esiste invece chi, avvalendosi di una
continuità giuridica della Lista Pannella,
tenta di trasformarla in continuità e in eredità politica. Esiste tra polemiche e divisioni una galassia di associazioni e movi-
si accumulano le macerie di ciò che resta
dello stato di diritto. Su tutto questo il Partito non è esistito come luogo di confronto,
di analisi, di dialogo e di discussione. E le
iniziative di chi come Emma Bonino di questi problemi si è costantemente occupata,
utilizzando l’autorevolezza e la influenza
conquistate per la politica radicale all’interno delle istituzioni, sono state considerate (e liquidate) come atti fuorvianti di mero presenzialismo personale.
In politica interna è accaduto lo stesso.
Quello che dagli ormai lontani anni 80 ha
cercato di essere il Partito della riforma
del sistema politico non si è praticamente
accorto che negli ultimi due anni si è aperta una stagione di riforma costituzionale e
istituzionale. Non siamo stati quelli del referendum Segni (in realtà Segni-Pannella)
e dell’uninominale? Non abbiamo tenuto a
battesimo il Mattarellum? Non proponemmo a metà degli anni 90 la triade presidenzialismo-uninominale-federalismo, tentando di convincere Berlusconi e Bossi? E nel
2011-2012 non abbiamo cominciato noi l’attacco al Porcellum riproponendo con Pannella, Ichino, Baldassarri la Lega per l’uninominale? Il silenzio su tutto questo è ora
assordante. Ben venga Giovanni Negri con
menti radicali legati tra loro solo, fino a ieri, dal comune vincolo con Marco Pannella e dalla appartenenza a un Senato del
Partito radicale, da tempo non più convocato. Esistono poi le lacerazioni delle quali bisogna dire che sono state pervicacemente e a lungo coltivate, provocate, ingigantite. Attribuirle a Radicali italiani e alle sue scelte congressuali mi sembra sbagliato e ingiusto. Caso mai quelle scelte sono state la conseguenza di una politica fondata sul rifiuto del dialogo, sull’esclusione,
su una malcelata volontà di espulsione. Ed
è del tutto pretestuoso indicare nella partecipazione alle elezioni amministrative di
Roma e Milano, nate da una efficace presenza politica nei due consigli comunali e
da iniziative militanti nelle due città, la
violazione di chi sa quale ortodossia radicale. Per quanto mi riguarda ho più volte
dichiarato di ritenere deboli le scelte congressuali di Radicali italiani e sbagliato
abbandonare il terreno del confronto all’interno del Partito radicale e ho proposto
altre forme di partecipazione elettorale rispetto a quella che è stata invece prescelta. Ma riconosco a Radicali italiani il merito di aver tenuto vivo un associazionismo
radicale e una iniziativa militante senza i
quali non può esistere alcun Partito radicale. E quanto alle liste invito i critici a fare il confronto con le precedenti ultime, e
fallimentari, esperienze elettorali. Riconosco inoltre all’Associazione Luca Coscioni,
alla cui vita partecipo per quanto posso attivamente, di aver mantenuto il protagonismo radicale nella politica dei diritti civili e per la libertà di ricerca, ottenendo grazie a Filomena Gallo significativi successi
politici e giurisdizionali che gli sono riconosciuti ben oltre i confini del nostro piccolo mondo.
Non sarà possibile purtroppo il ritorno
allo statuto auspicato da Sofri perché lo
statuto cui lui fa riferimento è quello del
1967, non quello di oggi. Quello statuto aveva tracciato e proposto un modello teorico
di partito libertario e federativo, alternativo al modello centralistico dei partiti comunisti e a quello dei partiti democristiani e socialdemocratici. Di esso nel nuovo
statuto non sopravvive quasi nulla a cominciare dai congressi annuali a data fissa. E’
giusto invece il suo consiglio di un congresso per discutere del possibile futuro radicale. Un partito o è una comunità politica
che si riunisce, discute, delibera oppure
non è. Suggerisco di fissare un tempo per
una campagna di iscrizione e di convocare
il congresso allo scadere di questo tempo.
E mi auguro che a questa campagna e a
questo dibattito partecipi anche Adriano e
tanti altri oltre a lui in modo da far entrare aria fresca in un ambiente rimasto troppo a lungo chiuso in se stesso in attesa di
input dall’alto che con ogni evidenza non
potevano più venire.
Non sarà forse possibile conquistare basi materiali e consistenza transnazionale al
partito. Non ne abbiamo le risorse finanziarie e mancano le condizioni in termini
di alleanze e di rapporti a livelli di parlamenti e di governi. Per altro siamo stati
bravi anche in passato a organizzare le domande di democrazia e di diritto delle minoranze e a volte di maggioranze oppresse
che ne erano prive, ma non abbiamo mai
trovato forze disponibili a ricercare e promuovere insieme a noi le risposte a quelle
domande, all’interno del Parlamento europeo e della Ue come nell’Onu. Oggi di tutta evidenza questo è ancora più difficile da
realizzare. Dobbiamo allora iniziare con il
chiederci cosa fare per salvare intanto le
ragioni costitutive del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito. E
dobbiamo farlo facendo cadere pregiudiziali e incompatibilità inconcepibili in un
partito laico e libertario.
Gianfranco Spadaccia
Già segretario e senatore
del Partito radicale
L’origine dei guai
La solitudine di Renzi ha un suo
inizio: la fine del patto del Nazareno.
A cosa servirebbe un grande accordo
N
on doveva andare così. Lo schema di
ingaggio di Renzi era indovinato. E
aveva funzionato. Fino all’elezione di Mattarella. Lì avviene il turning point. La fase felice del renzismo coincide con il tempo del Nazareno: ritmo accelerato di riforme, stabilità parlamentare, maggioranza
istituzionale per le modifiche istituzionali,
opposizioni disarticolate. In quel renzismo, efficace e vincente, non c’era nemmeno quello che la sinistra ha imputato a
Renzi in questi mesi: il patto consociativo
con un settore della destra, la nenia su
Verdini. Questo perché lo schema politico
del Nazareno appariva visibilmente come
la modalità del radicamento, attraverso l’Italicum e l’intesa sulle riforme costituzionali, di una imminente (elezioni del 2018)
dialettica bipolare “europea” e repubblicana: tra una lista di centrosinistra e una
di centrodestra. Ricordate: la minoranza
di sinistra pd, in quella fase, non contestò
questo schema. Pur nell’evidente impaccio
e nella sofferenza per il patto con Berlusconi, la stessa minoranza del Pd accettava la naturalezza e la forza di una promessa di cambiamento elettorale il cui esito
non era la consociazione con la destra ma
il reciproco patto per stabilizzarsi, Pd e
una nuova Forza Italia, come poli dell’alternanza fissata nell’Italicum. La battaglia
della sinistra pd non riguardò lo schema
politico dell’Italicum, il bipartitismo col
centrodestra. Riguardò il tema del bicameralismo e quello dei meccanismi elettivi
dell’Italicum. Ma non il vero disegno della riforma elettorale: stabilizzare la competizione tra centrosinistra e centrodestra.
Il patto del Nazareno, nonostante i dileggi
nervosi della sinistra pd, si rivelò assai
meno contestabile delle attese di sinistra.
Apparve come un oggettivo patto costituente di riforma della dialettica politica.
Insomma: ebbe una sua forza egemonica.
Di effettivo cambiamento. Che si riverberò
su tutta la stagione, rapida e concentrata,
delle riforme renziane. Le opposizioni che
stavano fuori dal recinto del Nazareno erano in affanno evidente. I 5 stelle e la Lega
non riuscirono ad imbastire un’efficace
controffensiva. Apparivano disarticolate e
frustrate. Accentuarono lo scivolamento
estremista. Si determinarono alla deriva
populista dell’onda antieuro. Senza mai
apparire, realmente, alternativi. Il patto
del Nazareno, per la fase in cui durò, chiuse effettivamente gli spazi alla credibilità
e alla plausibilità di un “terzo polo” della
politica italiana. Tutto questo si interrompe con l’elezione di Mattarella. Da allora
tutto è rivoltato. Renzi e Berlusconi dichiarano la fine del Nazareno. E la geografia
politica cambia. Innanzitutto cambiano le
regole di ingaggio dell’Italicum. Lo schema
bipartitico cambia. Per una ragione semplice: Forza Italia sciolta dal patto, impoverita dalla svalutazione delle sue shares
nella partita del cambiamento istituzionale, depotenziata e ricondotta al ruolo di
“opposizione tra altre opposizioni”, senza
alcuna specialità, collassa. E Renzi sottovaluta le conseguenze e la portata distruttiva, di questo collasso della destra moderata, per il suo stesso schema di gioco. Laddove, con lo schema del Nazareno, c’era
evidenza coalizzatrice del renzismo, ora si
prefigura una condizione di solitudine:
l’uomo solo al comando non è una distorsione psicologica di Renzi ma diventa un
dato della realtà e un mantra del parterre
intero della politica italiana. Inoltre la fine del Nazareno degrada la portata della
riforma elettorale e dell’Italicum: non è
più chiaro, visto il declino di Forza Italia,
chi sarà il secondo partito, qual è la forza
alternativa al Pd nello schema bipartitico
della nuova legge elettorale. La rinascita
dei 5 Stelle, conseguenza ineluttabile del
collasso del centrodestra prodotto dalla fine del Nazareno, è inevitabile. Il tripolarismo nasce così! Ma l’Italicum non era fatto per il tripolarismo. Era fatto per affermare il bipartitismo europeo: centrosinistra versus centrodestra, due “partiti della Nazione”, forze tranquille e dal reciproco riconoscimento. E, insieme, contro il populismo estremista: da contenere e puntare a rendere innocuo. Questo schema, rassicurante, la verità del Nazareno, è stato
fatto saltare. Direbbe Gramsci con una reciproca catastrofe delle forze in campo, le
due forze del patto. FI si è consegnata all’inconsistenza di un declino senza rete.
Renzi, invece, si ritrova con il disegno elettorale, politico e istituzionale, all’origine
bipolare, compromesso da una imprevista
e drammatica possibilità: diventare il primo paese europeo, della famiglia dei fondatori, in cui una forza populista, dai tratti indefiniti, antieuropea, estremista per
molti tratti, può diventare l’alternativa di
governo al Pd. Da paese tendenzialmente
più stabile e sicuro d’Europa, quale era
l’immagine dell’Italia, nella fase alta del
Nazareno, l’Italia rischia di scivolare verso uno scenario stravagante: quello tra un
centrosinistra appesantito e un movimento politicamente (ancora) improbabile in
ascesa. Non doveva andare così. Potenza
della fine del Nazareno.
Umberto Minopoli
ANNO XXI NUMERO 148 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 24 GIUGNO 2016
IL FiGLIO
E’ PER IL TUO BENE
Maturità t’avessi presa prima.
Melissa P. e la sua lunghissima,
eterna notte prima degli esami
M
entre i miei compagni di classe facevano l’esame di maturità io ero in giro a fare promozione del mio primo romanzo, “Cento colpi di spazzola prima di
andare a dormire”. Avevo lasciato la scuola pochi mesi prima perché, fra professori che mi toglievano il saluto e chi evitava
di pronunciare il mio nome all’appello, e
quel simpaticone che si divertiva a fare
scritte oscene col mio nome davanti al
cancello di scuola, non è stato facile. Non
è stato facile nemmeno a casa far digerire quel libro e soprattutto il fatto che,
nemmeno maggiorenne, avessi già spiccato il volo. Ma a casa niente è mai stato facile e se scrivevo e a sedici anni mandavo
lettere di presentazione agli editori con
manoscritto allegato era perché, appunto,
a casa non volevo più starci. E quella era
la mia occasione, anche se significava rinunciare all’esame di maturità, al diploma, a tutte quelle cose che avevo dato per
scontate prima di avere la brillante idea
di pubblicare un romanzo che in poco
tempo si era trasformato nel caso editoriale più clamoroso degli ultimi venti anni.
Quindi mi trasferii a Roma, avevo diciotto anni. Chiesi a un noto liceo del centro di accogliermi come studentessa e la
risposta fu: “I nostri programmi sono troppo difficili per una come te. Meglio che
cerchi un’altra scuola”. La cercai, ne trovai una vicino Colle Oppio. Ci andavo tutti i giorni, alcune insegnanti non perdevano occasione per insultarmi dandomi della poco di buono e i compagni erano tutti
molto incuriositi, mi seguivano in bagno
per farmi domande, mi chiedevano autografi e io mi sentivo sempre più un’aliena.
Poi arrivò altra promozione: Giappone,
Argentina, Cile e persi molte settimane.
Lasciai la scuola. M’impegnai con un insegnante privato per gli esami da privatista,
ma c’era un’altra prova da superare: prima avrei dovuto ripetere le materie in cui
ero stata rimandata in secondo liceo. Nel
frattempo, ancora promozione: Olanda,
Spagna, Portogallo, Francia, tutta l’Europa tranne credo l’Albania e il Montenegro.
Decisi che avrei tentato l’anno dopo. Ogni
anno ho deciso che avrei tentato l’anno dopo e alla fine eccomi qui, a trent’anni, con
molta promozione alle spalle e una licenza di terza media.
Una lunghissima, lunghissima notte prima degli esami.
I miei genitori non si opposero all’abbandono prematuro dei miei studi e, una
volta a Roma, credo non sapessero nemmeno che avevo tentato l’iscrizione e la
frequentazione nei due licei. Mio padre
tuttavia aveva una preoccupazione: mi
raccomandava sempre di studiare le lingue e grazie a tutta quella promozione fu
esattamente quello che feci: inglese, spagnolo, francese, per almeno un paio d’anni non feci che prendere aerei e fare interviste nelle hall degli alberghi di tutto il
mondo e alla fine qualcosa la imparai. Ma
lui diceva che il futuro era la Cina e che
avrei dovuto studiare cinese, ma quando il
mio editore cinese diede il via alla stampa
del mio romanzo il governo decise di bloccare la produzione perché il libro era
troppo sconcio e allora in Cina non sono
mai andata e il cinese non l’ho mai imparato, deludendo molto mio padre.
Alle elementari frequentavo una ricca
scuola di gesuiti. “Perché è la migliore di
tutte”, e lo era. Mia madre diceva che con
delle buone basi sarei poi riuscita a cavarmela ovunque e comunque e quindi, da allora, con quelle ottime basi, la mia educazione è stata solo affar mio. Certe mattine
era lei a propormi di rimanere a casa, ché
le sembravo stanca. Ma io andavo lo stesso perché sapevo che se avessi perso il
mio senso di responsabilità, con esso sarebbe andata via anche la possibilità di ottenere quel biglietto di sola andata verso
la vita che avevo scelto per me. E l’avevo
sognata così forte, quella vita, che presto
era accaduta senza darmi nemmeno il
tempo di organizzarmi.
Se i miei genitori mi avessero spinto a
continuare a studiare non li avrei ascoltati, come probabilmente non mi ascolterà
quel figlio che un giorno avrò e con cui mi
vedrò costretta a usare frasi oscene tipo:
“E’ per il tuo bene”. Lo dirò, sono certa, e
quel giorno riderò di me stessa. Ma mi piace pensare che sarò capace di allevare un
figlio che avrà una propria coscienza che
gli suggerisca cosa è bene per lui. Se nella costituzione che avrà deciso di scrivere
per sé ci sarà la voce “Studia e prendi il
diploma”, io sarò molto felice e anche
molto curiosa di sapere come va questa
faccenda del diploma che non ho mai preso. Ma sarei felice lo stesso se quella voce
fosse sostituita da “Sii responsabile e curioso sempre”, anzi forse lo sarei di più,
perché il segreto è solo quello.
Davvero, io ce l’ho messa tutta. Era mio
dovere finire quello che avevo iniziato anche se ero salita su una giostra mostruosa
che non voleva saperne di fermarsi: il diploma era quello che dovevo ottenere. Ma
non ce l’ho fatta perché un paio d’anni e diversi libri e promozioni dopo mi ero già dimenticata dell’ottativo, del genitivo, non
sarei più stata capace di parafrasare l’Inferno di Dante. Continuo però a pensare mi
sarei divertita molto a sostenere la prova
scritta. E questo è il mio unico rammarico.
Melissa Panarello
a cura di Annalena
Il summer camp di “Shining”, la febbre alta e i baci sulle guance
Le conseguenze dei campi estivi e l’emergenza educativa nei messaggi di supplica: venite a prendermi
di Annalena Benini
S
ei ore dopo che avete abbracciato vostro
figlio per salutarlo, e giurato che no, l’albergo di montagna non assomiglia per
niente a quello di “Shining”, e sarà una settimana magnifica e faranno rafting, e comunque sette giorni passano in fretta, sei
ore dopo lo sguardo carico di apprensione
e gratitudine lanciato al maestro del summer camp in bermuda color khaki, sei ore
dopo la libertà, i progetti, l’ubriacatura da
solitudine, a casa in mutande e vino ghiacciato, sigarette con la finestra chiusa e pensieri anche sconci, cominciano i messaggi.
“Portatemi via da qui”. “Non ho amici”.
“Mi fa schifo”, “Ti prego mamma, se mi
vuoi bene vieni a prendermi”. I figli furbi
di madri apprensive selezionano con più
attenzione le torture psicologiche: “Qui è
pieno di burroni, nessuno sta attento a noi,
ho paura”. I figli più piccoli, che sono andati al campo estivo senza telefono e senza tariffa estiva con messaggi illimitati, fanno
chiamare direttamente dai responsabili:
“Febbre alta, rifiuta la tachipirina”. “Dice
che gli fa malissimo la gola, ma abbiamo
l’impressione che stia mentendo”.
L’euforia è svanita, il programma della
serata e dei prossimi giorni di trance è distrutto. Niente di quello che si era sognato
durante l’inverno si realizzerà: imbucarsi a
una festa, scrivere un romanzo, mandare
un messaggio alla ragazza dell’enoteca,
passare a prenderla in Vespa con addosso
la maglietta di un concerto, o tuffarsi in
una fontana, finire a bere gli shottini di tequila nei bar dei ventenni, recuperare il
matrimonio, divorziare, ballare, fare un altro figlio. Bisogna andare a riprendere il
ragazzino al campeggio, ha le convulsioni.
Oppure no, bisogna lasciare che se la cavi
da solo questa volta. E’ grande. Sta facendo finta. Gli farà bene. “Non lascio mio figlio con la febbre alta da solo in montagna
nelle mani di un uomo in bermuda”. “Non
ha la febbre alta, ha trentasette e tre, quell’uomo porta i bermuda perché è il suo ruolo, un ruolo in bermuda”. “Parli così per-
ché non hai letto La settimana bianca di
Carrère, non conosci lo strazio di un bambino con la febbre in un posto sconosciuto”,
“L’ho letto invece, e l’assassino era il padre, meglio stare con gli animatori che con
i genitori, anche senza febbre”, “Dici cose
strumentali”, “Ma non mi muovo da questo
divano”. La discussione può durare anche
per sempre, e in ogni caso molto oltre la fine del campo estivo. Di solito la febbre passa invece in un paio d’ore (nel caso in cui
si sia andati davvero a prendere il figlio in montagna, la febbre passa nel momento in cui sale
in macchina, e il giorno dopo bisogna
riportarlo), il
ragazzino si
diverte, impara anche
un po’ di inglese (impara: room, mister e breakfast, parole
che conosceva anche prima, ma adesso
le dice molto
meglio quindi
davvero ne è valsa la pena), si diverte, litiga con il compagno di stanza e gli riempie i
capelli di fango raccolto vicino al
torrente, si innamora di una bambina di
Terni e quando torna a casa con il pullman
e con il maestro color khaki, la madre gli
tende le braccia e piange, dice: come sei
cresciuto, sei diventato più alto, amore mio.
Sono solo sei notti, ma è come se fosse passato un anno, perché lui adesso si scosta, si
vergogna, la ragazzina di Terni lo guarda da
sotto la frangetta e ride, e lui decide che da
questo momento non sopporterà mai più le
smancerie di sua madre, perché è diventato grande. “Ciao” è il massimo che riesce a
dire, masticandolo. “Ciao” accompagnato
dal lancio del trolley carico di roba fangosa e bagnata. “Ciao” e il nuovo mondo è
qui, il passaggio è compiuto: non scriverà
mai più a sua madre: voglio tornare a casa.
Non si farà più abbracciare, se non in circostanze eccezionali e segrete, non offrirà
più le guance ai baci, e avrà l’aria di chi va
solo per il mondo. Lo scopo del summer
camp, la socializzazione, l’indipendenza, la
crescita: ha funzionato tutto, maledizione.
Christopher Hitchens, scrittore, giornalista
e polemista inglese, ha ricordato nelle sue
memorie quanto
amasse la madre alla follia,
ma
lei
lo
mandò, bambino, in collegio
per “farlo arrivare in alto”, lui
soffrì
enormemente, tornò a casa dopo due mesi
per le vacanze di
Natale, trasformato
e distante, e chiamava sua madre “signora” e le dava del
lei, per dispetto, per
farla soffrire, anche se
lei era “l’unica madre
di cui si potesse andare fieri durante le visite in collegio dei
genitori”.
Anche se lo scopo
della tua vita è essere
una madre allegra e dolce di cui andare
fieri durante le visite in collegio, o alla fine
del summer camp, o perfino soltanto alla fine di una giornata di intrattenimento estivo parrocchiale, con i bambini che giocano
a tirarsi i palloncini d’acqua dopo avere
ascoltato la storia di Madre Teresa di Calcutta, il prezzo da pagare per la fine della
scuola e la necessità di riempire il tempo
lungo dell’estate sarà sempre lo stesso: lui
ce l’avrà con te. Non vorrà essere salutato,
abbracciato, sbaciucchiato, salirà sul motorino, dietro, con indifferenza, risponderà a
monosillabi, dirà che non ha fame, non è
stanco, non ha niente, non gli manca sua so-
rella, non vuole un gelato, non vuole andare a mangiare la pizza, non vuole andare a
vedere “Angry Birds”, e alla domanda imprudente e un po’ disperata: “Ma ti piace
Valeria?”, risponderà serio: “Certo che no,
lei non è proprio adatta a me”. “E perché?”, “Perché lei è sempre felice”. Lui invece adesso è infelice perché ha perso la
guerra di palloncini d’acqua, “è stata una
bruttissima giornata”, e non vuole andare
mai più al campo estivo della parrocchia.
Vuole stare a casa, in pigiama, guardare la
televisione, annoiarsi, giocare a scacchi
con il computer, non ascoltare nessuna storia su Madre Teresa di Calcutta, non vuole
cantare nessuna canzone dopo avere giocato a moscacieca. Rivendica il diritto alla solitudine estiva, lo stesso al quale aspiriamo
noi e per godere del quale ci inventiamo i
summer camp in montagna o imploriamo i
nostri genitori di portare i nipoti al mare
anche se pioverà tutta la settimana.
A volte invece funziona tutto benissimo e
la bambina si è ambientata subito al campo estivo, e telefona solo la sera velocissima e squillante, con quella voce piena di
meraviglia e entusiasmo che rincorre le parole e le fa rotolare, le fa diventare vive:
“Mamma sono strafelice”, e nelle foto che
un altro maestro con altri bermuda manda
su whatsapp lei davvero ride sempre e tiene il pollice alto, e allora si possono relizzare tutti i sogni di libertà e andare a tuffarsi in quella fontana, lavorare fino all’alba, avere di nuovo vent’anni, e che cosa
aspetti: non ci sarà un altro giugno così, un
altro summer camp così perfetto, una casa
così silenziosa in cui nessuno ha rovesciato il latte per terra. Allora che cos’è questo
minuscolo buco nel cuore, che fa passare
l’aria e la lontananza, e fa fissare il telefono ogni sera alla stessa ora, anche dalla
fontana, dal cinema, dalla festa in cui ci si
è imbucati? Pronto mamma, volevo dirti
che mi mancate. Anche tu ci manchi, ma ti
manco più io o più il babbo? Tutti e due
uguale, dai mamma che domande fai. Certo certo, hai ragione, comunque domani
vengo a prenderti e me lo dici in un orecchio, buonanotte amore mio.
LA LETTERA. Una madre che illumina le stanze e il coraggio di alzare la mano e dire: anch’io
Cara Annalena,
ho letto su questa sua pagina Figlio la lettera di M.Costantini, che si è sentita inadeguata come madre, non abbastanza
bella e non abbastanza brava. Vorrei dire a lei e a tutte le madri come lei che non è colpa loro: siamo noi figlie, che non ci
va mai bene niente. Io che non ho figli e ho tre cani e due uomini e un pappagallo, ci ho messo tanti anni di analisi e di
infelicità ad ammetterlo: avrei tanto desiderato una madre così così, e per tutta la mia infanzia e anche dopo, quando cominciavo a lavorare, quando vivevo da sola, ho sofferto a causa
della bellezza (ma non era solo la bellezza, era tutto l’insieme
del corpo, la mente, il sorriso, i capelli, era che lei entrava in
una stanza e la illuminava) di mia madre, che adesso non c’è
più e mi manca ogni giorno. Io ho cinquantasette anni, quasi l’età di mia madre quando è mancata, ed era malata ma era
sempre bellissima. Era simpatica, generosa, portava le gonne
corte e io invece sempre i pantaloni perché non avevo le gambe belle come le sue, tutti gli uomini si innamoravano di lei, i
padri delle mie amiche anche, sui mariti delle sue amiche ho
alcuni sospetti e sono successe anche cose fastidiose sotto casa, ma le mie amiche mi dicevano che fortuna avere una madre così, che ti lascia fare tutto, che è sempre di buonumore. Volevano venire tutte a casa mia a dormire, non per me ma per
mia madre! (…) Mio padre era molto fiero di lei, la guardava
sempre, mio fratello anche era fiero e i suoi amici al liceo non
facevano la corte a me, che avevo tre anni meno di loro ed ero
sempre arrabbiata, ma a mia madre. Io le trovavo tutti i difetti del mondo, le dicevo che mi faceva vergognare con quelle gonne corte, le dicevo che le sue torte facevano schifo e invece faceva delle crostate deliziose con la crema, che a me non
sono mai riuscite. Desideravo che sparisse o che diventasse vecchia e brutta. Che stupida sono stata! Anzi, che stronza. Cara
M. Costantini e care tutte, spero di esservi d’aiuto: le figlie sono molto spesso stronze. Un saluto sincero, A. Bassi
Cara A., posso soltanto alzare la mano e dire: anch’io.
Scrivete le vostre lettere a [email protected] (non più di 10 righe, 600 battute)
Illustrazione di Anna Sutor
MIO GRANDE DAD, TI VOGLIO BENE E ACCETTO CHE TU SIA L’UOMO DI UN ALTRO AMORE
Mio grande Dad, (…) ti voglio bene, sei
mio padre e ti amo come sei, così vivo, con
quel tuo buon odore di pipa, le tue inflessioni di voce, il tuo modo di tirar fuori il
fazzoletto di tasca e soffiarti il naso.
Abbiamo tutti la tendenza a fermarci
all’aspetto esteriore, all’involucro del corpo che si logora, o all’immagine del padre
che ci siamo creati una volta per tutte e alla quale facciamo ben poche concessioni.
Non osiamo scavare un po’ più a fondo e
mettere in crisi quello che ci fa comodo
pensare. Restiamo ciechi.
E io sono stata cieca (o meglio ho voluto esserlo) in particolare su un punto della tua vita privata, forse il più importante: il tuo affetto per Teresa. parli della “resistenza” che i tuoi figli manifestano nei
suoi confronti. E’ vero. Per quel che riguarda me, non l’ho mai accettata, e spesso per ragioni vaghe che venivano dal mio
subconscio. Oggi mi rendo pienamente
conto di quanto fossi egoista: ti volevo tutto per me, sempre disponibile alle mie esi-
genze, ai miei capricci di bambina. Volevo
in esclusiva il “mio” Dad. Non ammettevo che tu fossi l’uomo di un altro amore.
Ma perché tu, da parte tua, non ci hai
mai presentato Teresa nel suo vero ruolo?
speravi forse che avremmo capito da soli?
Non è stato così. La sua posizione accanto a te era ambigua (…)
D’ora in poi accetterò Teresa di buon
grado. Non posso continuare a respingerla e contemporaneamente a voler bene a
te, dal momento che lei fa parte di te. Mi
viene da dire: d’ora in avanti prendo tutto! Il mio Dad, l’uomo, e il suo amore per
un’altra. Ho talmente bisogno di inglobarti tutto intero! Do un po’ i numeri, vero?
Sembra la lettera di una donna all’amante o al marito. Io sono solo tua figlia, ma
ti confesso che trovo affascinante dimenticarlo per un attimo e mostrarti il mio lato “femmina”. Con una strizzatina d’occhio. La tua piccola Marie-Jo
“Memorie intime” di Georges Simenon
(Adelphi)
PA D R I
La linea frastagliata dei miei
figli. Mi accompagnano a scuola
da vent’anni, e spero per sempre
S
ono vent’anni, più o meno, che porto i
miei figli a scuola. Non perché
mi sia intestardito nell’accompagnare chi tra pochi mesi avrà la
patente e potrebbe quindi accompagnare me al lavoro. Ma perché
sono vent’anni,
più o meno, che mi riproduco con tenace
ostinazione.
Quando mi chiedono: “Lei quanti figli
ha?” mi prendo sempre un attimo di sospensione per assestare il colpo e godermi la reazione dell’interlocutore. E’ una
piccola debolezza da sadico, ma non posso farne a meno. So già che quando risponderò: “Quattro”, mi guarderanno come si guarda un lemure. Magari mi diranno: “Che bravo, che coraggio”, ma quasi
sempre penseranno: “Che stupido irresponsabile”. E quando aggiungerò: “Da
due mamme. Straordinarie, una vera benedizione”, questi dentro di sé aggiungeranno: “Che stronzo”.
D’altra parte, c’è una foto che non hanno visto. Sono uno accanto all’altro, i miei
figli. E compongono una linea frastagliata, come una catena montuosa con picchi
e valli. A destra il più alto, Guido, che
non è il più grande. Accanto a lui si scende verso Nina, la più piccolina. Poi si risale con Elena. E se manca il primogenito Dario, che non è il più alto, è solo perché la sua sedia a rotelle non sarebbe arrivata alla Torre Vecchia di Gorgona dove quel giorno ci eravamo arrampicati. In
quella foto del cuore, in quel crinale di
alti e bassi, in quelle mani piccole e grandi che si stringono felici, c’è gran parte
di quello che non posso dire quando rispondo: “Quattro”. Tutte le discese ardite
e tutte le risalite di questi vent’anni. E
dunque i fallimenti, i dolori inflitti e
quelli subiti. Ma anche, e soprattutto, la
solidità di un argine più forte delle debolezze dei genitori. Un argine che si regge
sulla forza di coloro che sono tra noi per
essere protetti e tutelati, ma che forse ci
proteggono e ci tutelano più di quanto
normalmente siamo disposti ad ammettere quando raccontiamo a noi stessi e agli
altri il nostro “eroismo di genitori”.
In realtà ho sempre avuto qualche dubbio, fin da bambino, che ci fosse tutto
questo ardimento nel mettere al mondo
dei figli. Da piccolo era una percezione
molto vaga: guardavo quel babbo e quella mamma tanto amorevoli quanto litigiosi e sentivo che avrei dovuto aiutarli a tenere in ordine le loro vite diligenti e confuse. Non erano eroici, ma solo arruffati
e pieni di amore per i figli. Ognuno tendeva ad andare per conto suo, lungo linee
sempre più divergenti per passioni e
idiosincrasie. E solo la vita molto concreta mia e di mia sorella riportava tutto
quel circo a un minimo di ragionevolezza e metodo. L’ho capito meglio quando
sono diventato padre, alle prese con una
paternità meno perfetta di quella che
avevo immaginato. Già nei bisogni di un
neonato speciale c’era una direttiva che
non ammetteva repliche: “Guarda che di
me e di quello che mi serve te ne devi occupare proprio tu, adesso, insieme a
mamma. E non me ne fotte niente se hai
da fare o se sei preoccupato, deluso, distratto o altro. Ti devi muovere, vai”.
Con gli anni quella stessa intimazione
si è moltiplicata per quattro, diventando
la direttiva via via più complessa di bambini e adolescenti capaci di cumulare bisogni diversi e sempre originali. Ma in
ogni loro bisogno c’è sempre qualcosa di
più di una richiesta: un gancio piantato
nella realtà, un richiamo non negoziabile a occuparsi di quello da cui tendono a
portarti via le ambizioni, le passioni, le
delusioni e tutto l’armamentario di fantasmi che abitano il nostro monologo quotidiano. E quel gancio funziona e protegge: ricordandoti che comunque di questo
ti devi occupare, che ogni volta puoi fare
anche il giro lungo ma in ogni caso lì devi tornare. Se fossi un filosofo parlerei di
immanenza della genitorialità, e certamente non sarebbe poi così originale. Ma
filosofo non sono, e quindi mi accontento di essere protetto e trattenuto dalla
forza di quell’argine.
Soprattutto: mi godo lo spettacolo, finché dura. E per questo vorrei continuare
ad accompagnarli a scuola ogni giorno,
possibilmente per sempre e contro ogni
logica anagrafica. Perché quell’ora scarsa che passo nel traffico romano – depositando piccoli e grandi in tondo tra scuola media, asilo e liceo – serve ogni giorno a ritrovare la giusta misura delle cose e ad affrontare la giornata con qualche
dose in più di equilibrio. Serve a me più
che a loro, come ormai temo sia del tutto
chiaro persino ai miei figli. E mi aspetto
da un giorno all’altro che, una bella mattina, qualcuno di loro tiri il freno a mano e mi faccia scendere al semaforo: “Vai,
babbo. Ormai sei grande”.
Andrea Romano
editor Marsilio, docente universitario
e deputato Pd
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 24 GIUGNO 2016
PIXELL
ANNO XXI NUMERO 148 - PAG II
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Scritto per essere letto
un passo avanti
ANNO XXI NUMERO 148 - PAG III
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 24 GIUGNO 2016
STORIA D’UN GRANDE MASSACRO
Oggi il Papa arriverà in Armenia, un secolo dopo il genocidio che cancellò
l’antica comunità cristiana. La persecuzione raccontata dagli archivi vaticani
ll’inizio di giugno 1915 l’arcivescovo
Angelo Maria Dolci, delegato apostolico a Costantinopoli, era venuto per la prima volta a conoscenza di avvenimenti riguardanti le aree interne dell’Impero ottomano. “Centinaia di armeni – così riteneva
ancora in quel frangente e lo scriveva in un
telegramma cifrato a Roma – sarebbero in
fuga a causa delle persecuzioni perpetrate
da musulmani. Voci di massacri, veritiere
oppure artatamente diffuse, accompagnano questi flussi di profughi”.
Il 22 di giugno venne a sapere che anche
ad Adana era in corso un tentativo di “sradicare la componente armena e cristiana
dall’intera provincia”. Centinaia di famiglie venivano scacciate con la forza dalle
loro case, dai villaggi e dalle città e “messe sulla strada senza avere una meta certa
dove recarsi”.
All’inizio di luglio gli venne inoltre comunicato che 700 cattolici, tra i quali l’arcivescovo armeno-cattolico mons. Ignatius
Maloyan, erano stati vittime di un massacro
pianificato. Anche dalle altre province del-
sto non era stata espressa in forma vincolante , non è stata mantenuta” dichiarò a
Berlino in tono asciutto e referenziale il 27
dicembre anche il nuovo ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte Paul Wolff
Metternich.
In realtà in quel periodo le grandi deportazioni nei sette vilayets armeni si erano
già da tempo interrotte, solo pochi altri erano stati spediti tardivamente nel deserto. A
Costantinopoli quasi nessuno era a conoscenza di quanto accadeva da quelle parti
e cioè che nei campi di concentramento
non solo ogni giorno centinaia di armeni
morivano di fame e per le epidemie, ma venivano anche trucidati dai commando delle forze speciali. “La question arménienne
n’existe plus”, “non esiste più una questione armena” aveva spiegato Talaat Bey già
il 31 agosto all’ambasciatore tedesco ad interim, il conte Ernst Hohenlohe-Langenburg. Un solo risultato aveva ottenuto l’intervento del Papa: agli Armeni di Costantinopoli era stato risparmiato ogni ulteriore
provvedimento o deportazione. Non vennero inoltre adottate altre misure nei confronti delle istituzioni cattoliche.
Verso la fine dell’anno anche Monsignor
All’inizio di luglio del 1915 il
delegato
apostolico
a
Costantinopoli fu informato di
azioni pianificate contro i cristiani
“La questione armena non
esiste più”, disse il ministro
dell’Interno ottomano ricevendo
in udienza l’ambasciatore tedesco
l’est del paese gli arrivavano notizie di un
complessivo allontanamento forzato di tutti gli armeni cattolici e non, e dell’uccisione di migliaia di uomini tra i quali sacerdoti e vescovi.
Furono queste le ragioni che lo spinsero a indirizzare, all’inizio di luglio del 1915
una richiesta scritta di grazia al Gran Visir
dell’Impero ottomano, Said Halim. Nel
frattempo, mentre gli armeni ortodossi a
causa delle loro rivendicazioni per l’uguaglianza di diritti politici erano generalmente malvisti, e per i loro contatti con la sede
del catholicos di Etchmiadzin, la città santa degli armeni, situata nella parte russa
della loro area di insediamento, erano accusati di collaborazionismo con il nemico,
non sussisteva alcun dubbio sul fatto che
gli armeni legati a Roma fossero tra i più
fedeli sudditi del sultano. Anche nel caso
in cui i turchi avessero giustificato le deportazioni come misura di prevenzione
contro pericolose insurrezioni, non c’era
alcun motivo di coinvolgere i cattolici, proprio perché costoro avevano rinunciato a
qualsiasi attività politica, causando peraltro una forte irritazione nei loro confratelli ortodossi.
Eppure, per quanto il delegato apostolico facesse presente che con questo atto di
clemenza nei confronti dei cattolici armeni si sarebbe accattivato la benevolenza
della Santa Sede, il Gran visir non lo degnò
della benché minima risposta. “Alla luce
del male che questo stato stava causando
alle popolazioni non musulmane – scrisse
mons. Dolci il 19 luglio del 1915 al cardinal
Girolamo Gotti, le potenze cristiane avevano il dovere di intervenire”. Alla fine di luglio l’Osservatore Romano riferiva di massacri contro i cristiani di Diyarbekir.
Il mese successivo non c’era più alcun
dubbio sulla portata delle aggressioni poste in essere dai turchi. “Questo governo si
è reso colpevole di terribili atrocità nei
confronti di cittadini armeni innocenti nelle aree interne dell’Impero. In alcune regioni sono stati massacrati, in altre deportati in luoghi sconosciuti, per farli morire
di fame lungo il percorso. Ci sono madri
che hanno venduto i propri figli, per preservarli da morte certa. Si lavori instancabilmente per fermare questa barbarie”.
Questo scriveva il 20 agosto del 1915
monsignor Dolci al cardinal Pietro Gasparri, segretario di stato, per poi aggiungere
quello steso giorno “è uno spettacolo barbaro, che mi spezza il cuore e mi riempie di
orrore”. Più di ogni altra cosa però lo affliggeva il senso di personale impotenza. “Mi
sono recato più volte dal Gran visir e dal
sottosegretario per gli affari esteri. Nel corso dei colloqui il Gran visir mi ha sempre
dimostrato grande benevolenza nei confronti dei cattolici armeni, la cui fedeltà al
suo governo non gli era certo sfuggita, promettendomi che sarebbero stati rispettati.
Eppure alle promesse non ha fatto seguito
alcuna azione concreta”.
E infatti alla fine del mese altri 7.000 cattolici armeni vennero deportati da Angora
(Ankara). Altri loro confratelli erano stati
già deportati alla fine di luglio: tutti i maschi tra 15 e 70 anni dopo una marcia di sei
ore erano tasti aggrediti di sorpresa dalle
unità speciali turche e ammazzati a colpi di
Dolci dovette rassegnarsi a constatare che
un indescrivibile numero di almeno un milione di Armeni gregoriani, tra i quali 48
vescovi e 4.500 sacerdoti, era stato trucidato fino ad allora e un ulteriore mezzo milione doveva seguirli nella tomba nel 1916.
Inoltre fino a quel momento erano rimasti
vittima dei massacri cinque vescovi armeno-cattolici, 140 sacerdoti, 42 religiosi e circa 85.000 fedeli. Undici Diocesi (Angora,
Kaisery, Trebizon, Erzurum, Sivas, Malatya,
Kharput, Diyarbekir, Mardin, Musch e Adana) erano state totalmente evacuate, 70
chiese e anche molte scuole erano state
confiscate. In altre due diocesi, Aleppo e
Marasch, le persecuzioni proseguirono
mentre la sola diocesi di Brousse era stata
fino ad allora risparmiata. I turchi avevano palesemente infranto la promessa di risparmiare i cattolici armeni.
Deluso e amareggiato, Dolci scriveva
questa lettera a monsignor Eugenio Pacelli, segretario agli affari esteri all’interno
della segreteria di stato vaticana, proprio
l’uomo che un giorno sarebbe diventato Papa: “Per difendere gli armeni, ho perso il
favore di Cesare, il Nerone di questa infelice nazione. Intendo con queste parole il
Ministro dell’interno Talaat Pascha, Gran
maestro della Massoneria d’Oriente. Deve
essere venuto a sapere delle forti pressioni esercitate sulle altre Ambasciate dopo
l’intervento scritto del Santo Padre. Lo
penso perché da quel momento in poi mi
guarda davvero male.
Per Benedetto XV non sussisteva alcun
dubbio sul fatto che “lo sventurato popolo
armeno andasse incontro a un quasi totale
annientamento”. L’affermò testualmente il
6 dicembre 1915 in una allocuzione davanti al Concistoro, l’assemblea dei cardinali.
Che avesse ragione lo certifica un rapporto del patriarca armeno-cattolico che giunse a Roma sei mesi dopo, nel giugno del
1916. “Il progetto di annientamento del popolo armeno in Turchia procede sempre a
pieno regime. Gli armeni esiliati, esattamente come accaduto in precedenza, vengono condotti nel deserto e privati di ogni
mezzo di sussistenza. Periscono così miseramente per la fame, le epidemie, le condizioni climatiche estreme. E’ certo che il
governo ottomano ha deciso di eliminare il
cristianesimo dalla Turchia prima della fine del conflitto mondiale. E tutto questo accade sotto gli occhi del mondo cristiano.
Anche il tentativo da parte di Benedetto
XV di fermare il genocidio degli armeni attraverso un intervento diplomatico, fallì
miseramente. Eppure il Papa riuscì perlomeno ad attirare l’attenzione dei cristiani
sul triste destino dei loro fratelli nella fede nell’Impero ottomano e sui crimini commessi dal regime turco.
di Michael Hesemann*
A
“La prima grande tragedia inaudita, generalmente considerata il primo genocidio del XX secolo, ha colpito il vostro popolo armeno”, disse Papa Francesco lo scorso anno (foto LaPresse)
vanga, martello, ascia e scure, affinché
sembrasse un assalto delle popolazioni delle campagne. A molti dei circa 500 cadaveri, che rimasero insepolti sul fondo di una
valle per settimane, vennero amputati naso
e orecchie e cavati gli occhi.
Un mese dopo, il 27 agosto, 1.500 cattolici armeni tutti di sesso maschile vennero
arrestati, tra di loro anche il vescovo e 17
sacerdoti. In seguito al loro rifiuto di convertirsi all’islam, vennero privati di ogni
proprietà e imprigionati. Due giorni dopo,
prima un gruppo di 800 poi i restanti 700
dovettero abbandonare la città, incatenati
a coppie. Vennero però esiliati e non uccisi grazie a un intervento comune dell’ambasciata tedesca e austriaca, del mmministro degli esteri bulgaro e di monsignor
Dolci, che fecero forti pressioni sul ministro dell’Interno Talaat Bey per una soluzione diplomatica.
La settimana seguente vennero deportate le donne e i bambini di Angora, cui
spettò il privilegio di vedersi risparmiato
un tratto di strada a piedi verso il campo
di concentramento nel deserto siriano: poterono infatti viaggiare nei vagoni bestiame
di un treno.
Proprio questi risultati apparentemente
positivi, di cui beneficiarono i cattolici ar-
Alle donne e ai bambini fu
risparmiata la marcia verso il
campo di concentramento:
viaggiarono in vagoni bestiame
meni, irritarono gli ortodossi. Anche quando Dolci in un memorandum per il patriarca armeno-ortodosso assicurò di aver avviato un processo di allentamento delle persecuzioni, al quale verosimilmente anche
l’ambasciatore statunitense Morgenthau
avrebbe dato il suo apporto, disposto
com’era a intervenire su Scheich-ul Ilam,
Enver Pascha e Talaat Bey così come sul
ministro della giustizia Ibrahim Bey, rimase nell’aria un vago sentore di diffidenza.
Al Patriarca non piaceva che degli apparenti privilegi fossero riservato ai soli cattolici, il che nel vilayet di Angora aveva
portato perfino a dei passaggi in massa di
Armeni gregoriani nelle file della Chiesa
Cattolica, il che non rientrava certo tra gli
auspici del Papa. IN questo senso il Segretario di Stato Gasparri raccomandò al delegato apostolico che il suo impegno non fosse circoscritto ai cattolici “io sono padre di
tutti i cristiani, anche di quelli che non mi
accettano come tale”, sono le parole con le
quali Benedetto XV aveva definito un suo
“ecumenismo del sangue”.
Per un mese e mezzo Papa Benedetto XV
si era affidato al talento diplomatico del
suo delegato, a questo punto però prese direttamente lui in mano le redini. Sempre
durante il mese di agosto, così venne fatto
sapere a Dolci, il Pontefice dapprima si rivolse al kaiser Guglielmo II e all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe chiedendo loro di intercedere a favore degli armeni presso gli alleati turchi. Quindi prese
egli stesso la parola e scrisse di propria
mano al sultano. “Il Santo Padre – rese noto il cardinale Gasparri alla nunziatura di
Vienna – è sconvolto dalle notizie dei terribili massacri contro gli armeni commessi da musulmani, e con il cuore gonfio di
compassione per questi sventurati, ha deciso di scrivere a sua maestà, il sultano Mehmet V, per far sì che Egli, avvalendosi dei
suoi poteri istituzionali, ponga fine a questa atroce carneficina”. Attraverso l’ambasciata di Costantinopoli il testo autografo
giunse nelle mani di monsignor Dolci, che
doveva personalmente recapitarlo al palazzo del sultano. Vi si leggeva testualmente:
“Maestà, tra le afflizioni che ci procura la
grande guerra nella quale si trova coinvolto il potente impero di Vostra Maestà assieme alle grandi nazioni d’Europa, ci spezza
il cuore l’eco dei dolorosi lamenti di un intero popolo, che nel territorio governato
dagli ottomani è sottoposto a indescrivibili dolori. La nazione armena ha già visto
molti dei suoi figli giustiziati, mentre molti altri sono stati arrestati o mandati in esilio. Tra di loro ci sono anche numerosi religiosi e perfino alcuni vescovi.
E ci è stato recentemente riferito che gli
abitanti di interi villaggi e città sono stati
costretti ad abbandonare le proprie case,
per essere quindi dislocati in remoti campi di raccolta tra grandi dolori e pene indicibili, dove tra angherie psichiche e terribili privazioni, devono sopportare ogni tipo di mancanza e perfino i morsi della fame. Noi crediamo, Maestà, che eccessi di
questo genere si siano verificati contro la
volontà del governo di Vostra Maestà. Per
questa ragione ci rivolgiamo, colmi di fiducia nella Vostra Maestà, invitandovi fervidamente, nella Vostra sublime Magnanimità, a dimostrare compassione e a intervenire a favore di un popolo che proprio grazie alla religione nella quale si riconosce,
viene invitato a servire fedelmente e devotamente la persona della Vostra Maestà. Dovessero risultare tra gli armeni dei traditori della patria o persone responsabili di altri crimini, costoro dovranno essere giudicati e puniti in conformità al diritto vigente.
Possa quindi la Vostra Maestà in virtù del
suo grande senso di giustizia non lasciare
che degli innocenti ricevano la stessa pena
di chi è colpevole e possa la Vostra sovrana clemenza raggiungere anche coloro che
hanno commesso delle mancanze”.
La notizia dell’intervento del Papa venne resa nota dalla stampa, come previsto. Il
cardinale Gasparri, segretario di stato,
tentò inoltre di mobilitare la diplomazia
austriaca e tedesca. In due comunicazioni
scritte (del 15 settembre e del 2 ottobre) incaricò ambedue i nunzi, Scapinelli a Vienna e Fruehwirth a Monaco, di adoperarsi
preso quei governi “con discrezione ma anche con grande energia”, affinché “venisse
posta immediatamente fine a questo barbaro operato”. Se non avessero agito con sufficiente sollecitudine, Austria e Germania
si sarebbero rese corresponsabili dei massacri. Con queste parole mons. Fruehwirth
si rivolse a Mathias Erzberger, il delegato
centrale bavarese e alla commissione missionaria del Comitato centrale dei Cattolici di Germania, che si riunì il 29 ottobre del
1915 a Berlino. In quella stessa giornata
l’organismo decise di redigere una petizione rivolta al cancelliere del Reich Friedrich Alfred von Bethmann Hollweg, affinché
“venisse posta immediata fine alle misure
punitive oltremodo dure che venivano impiegate contro gli armeni da parte del governo turco” e venisse fermato “l’incombente annientamento dell’intero popolo armeno”. In una lettera del 10 novembre il
cancelliere agì di conseguenza dando mandato all’incaricato d’affari il Freiherr von
Neurath, di “far valere – in qualsiasi occasione gli si presentasse ed esercitando la
massima pressione – la sua influenza presso la Sublime Porta a favore degli armeni
e di prestare articolare attenzione affinché
le misure coercitive della Sublime Porta
non si estendessero ad altri gruppi della
popolazione cristiana residenti in Turchia”. Questo tentativo però non sortì alcun
effetto. Ciononostante l’impegno di ambedue i nunzi fu riconosciuto dal Papa che li
elevò al rango cardinalizio il 6 dicembre di
quello stesso anno. In quegli stessi giorni
monsignor Dolci si trovava di fronte a un
problema totalmente differente. La Sublime Porta si rifiutava infatti ostinatamente
di concedergli udienza presso il sultano,
che avrebbe ricevuto dalle sue mani la lettera autografa del Papa. Soltanto l’intercessione dell’ambasciata tedesca ottenne il risultato sperato: sei mesi dopo, il 23 ottobre
del 1915, il delegato apostolico venne finalmente ammesso al cospetto del sultano.
La risposta del sultano si fece attendere
altre quattro settimane e giunse il 19 novembre 1915. Tanto più deludente fu però
il suo contenuto, che si limitava a sbandierare la bugia propagandistica già diffusa
dalla Sublime Porta, secondo la quale “le
deportazioni erano la legittima risposta
del governo nei confronti di un complotto
degli armeni. Per questa ragione era impossibile per lo stato turco e i suoi ufficiali operare una distinzione tra elementi ribelli e pacifici”. Monsignor Dolci sperava
comunque che l’iniziativa del Papa avesse
quantomeno dimostrato una sua efficacia.
Il tentativo di mediazione del
Papa, la risposta del sultano
giunta un mese dopo: “Gli armeni
complottano contro lo stato”
“Il risultato era stato assai positivo. Non
soltanto si era ottenuto un improvviso miglioramento delle condizioni, ma anche le
barbariche persecuzioni erano quasi del
tutto cessate”, scriveva il 12 dicembre. Gli
era stata perfino promessa un’amnistia per
tutti gli armeni in occasione delle festività
natalizie. Soltanto poco a poco Dolci si rese conto di quanto fosse stato ingannato e
imbrogliato. In nessun caso i cattolici vennero fatti rientrare nelle loro città e nei loro villaggi. Al contrario, “ci sono ulteriori
casi di deportazioni e c altri massacri,” dovette infine malinconicamente ammettere
rivolgendosi ai suoi referenti a Roma.
“Questa promessa (del ministro degli Esteri Halil Bey a monsignor Dolci) , che del re-
*Storico e scrittore tedesco, ha compiuto
lunghe ricerche presso l’Archivio segreto vaticano, esaminando oltre 3.000 pagine di documenti fino ad allora inediti. Frutto di questo
lavoro è il libro “Voelkermord an Armenien”,
“Il genocidio armeno” (Monaco, 2015). Nell’autunno del 2015 ha presentato i suoi lavori
all’Accademia statale delle scienze della repubblica di Armenia, che lo ha insignito di un
titolo di dottorato ad honorem. Con Georg Ratzinger ha scritto il libro “Mio fratello il Papa”.
ANNO XXI NUMERO 148 - PAG IV
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 24 GIUGNO 2016
IL NUOVO INIZIO DI MOZART
Personaggi unici e melodie perfette. Con “Le nozze di Figaro” Amadeus insegna
il perdono che riapre la partita e fa ricominciare tutto. Da oggi in scena a Spoleto
Una momento delle prove di “Le nozze di Figaro” che andrà in scena a Spoleto da questa sera (© Fondazione Festival dei Due Mondi ONLUS/foto ML Antonelli/AGF)
di Mario Leone
F
igaro e il Conte di Almaviva, Susanna
e Cherubino. La lotta di classe, l’aristocrazia giocata e sconfitta dalla servitù. Gli
ideali della Rivoluzione Francese che circolano sempre più insistenti. Possibile ridurre la commedia umana per antonomasia a un manifesto sociale di vittoria sul potere da parte del debole?
In un lavoro durato dall’ottobre
1785 all’aprile 1786 Mozart ci
dona un’opera buffa ricca di
leggerezza, velocità, luminosità
“Le nozze di Figaro”, un’opera la cui genesi e le cui vicende legate alla censura
son state messe a fuoco da Piero Buscaroli nel volume “La morte di Mozart” (Edizioni Bur), sono soltanto l’inizio dell’eccellente collaborazione tra il compositore e il letterato, Mozart e Da Ponte. I due consegnano alla storia una trilogia che, inaugurata
dalle avventure del servo Figaro, prosegue
con il dissoluto cavaliere Don Giovanni e si
conclude con i giovani ufficiali Ferrando
e Guglielmo del “Così fan tutte”. Tre opere strettamente connesse, specchio del
rapporto tra Mozart e Da Ponte. Nel lavoro con i librettisti il genio di Salisburgo
pretende un controllo pressoché totale.
“La poesia deve essere serva obbediente
della musica”. Un’affermazione che la dice lunga sulle idee e sulle difficoltà che il
compositore ha nel rintracciare un libretto, a parer suo, degno della musica che vi
comporrà. Ne visionerà centinaia prima di
propendere per quello di Lorenzo Da Ponte, tratto dal romanzo “Le mariage de Figaro” di Beaumarchais (autore, quest’ultimo,
della trilogia di Figaro: “Il barbiere di Siviglia”, “Le nozze di Figaro” e “La madre
colpevole”).
In un lavoro durato dall’ottobre del 1785
all’aprile del 1786 Mozart ci dona un’opera
buffa connotata da leggerezza, velocità, luminosità (grazie al parco utilizzo di tonalità
minori) e situazioni al limite del parossismo ma anche da ambiguità e finzione, dove i confini tra vero e verosimile sono talmente impercettibili da essere spesso inafferrabili. In questo contesto si muovono
personaggi memorabili incisi nella drammaturgia, nell’unicità psicologica e nella
singolare connotazione musicale ampliata
grazie all’impiego di una grande varietà di
forme musicali, allo stesso tempo utilizza-
te e reinventate. Esemplare, in questo senso, l’uso della forma sonata la cui logica è
estesa al teatro musicale attraverso un gioco di tensione/distensione (omologo del
rapporto tonica/dominante) reso attraverso
una macrostruttura tonale così pensata: re
maggiore agli estremi (Ouverture e Finale
IV Atto); Finale del II atto (940 battute, per
la prima volta nella storia del melodramma, tutti i personaggi cantano in scena in
un monumentale montare musicale) punto
di massimo allontanamento e apogeo della
tensione (MI b maggiore).
Mozart concepisce un’orchestra di piccole dimensioni, funzionale al “colore” che
vuole dare alla folle giornata. Particolarmente curati i fiati, utilizzati al meglio delle possibilità espressive e organizzati per
Da oggi a domenica al Festival dei 2mondi
Da questa sera sino a domenica 26, nell’ambito del Festival dei 2mondi di Spoleto,
vanno in scena “Le nozze di Figaro”, opera
di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di
Lorenzo Da Ponte. La regia è curata da
Giorgio Ferrara (direttore artistico di tutto
il Festival), le scene da Dante Ferretti e
Francesca Lo Schiavo, i costumi da Mauri-
Tutte le storie d’amore parlano di una cosa sola: soldi
Q
uando la trama ristagna, già all’inizio
del secondo atto, Figaro se ne torna bel
bello a casa e cantando con ilare disinvoltura sancisce che la cosa è possibile è naturale: è possibile che un signore feudale
eserciti lo ius primae noctis su una serva, pertanto è naturale che il Conte voglia avvalersene nei riguardi della bella Susanna. Anche se è la sua promessa sposa, pazienza.
Susanna accusa il futuro marito di “trattar
scherzando un negozio sì serio” ma lui è serissimo, avendo colto con un secolo d’anticipo che “Le nozze di Figaro” sono il libretto più marxista di tutta la lirica. Di là dai
convoluti inghippi e dalle sùbite agnizioni,
permane dal primo all’ultimo verso una fedeltà mirabile al motto che la vecchia Marcellina brandisce nell’intento di obbligare
Figaro a sposarsi con lei: “Argent fait tout”,
il denaro fa tutto.
Il denaro stabilisce la gerarchia sulla quale sono disposti i personaggi. In cima il Conte, che ne dispone a sufficienza da poter regalare a Figaro un’intera stanza di casa senza impoverirsi, e da promettere a Susanna di
pagarla per ottenere favori che potrebbe arrogarsi gratis; in basso, contadini e contadinotte la cui ottusità rasenta la servitù volontaria: “Siamo tante contadine, e siam tutte
poverine, ma quel poco che rechiamo ve lo
diamo di buon cor”. Nel mezzo, i rapporti di
potere sono regolati da un complesso sistema
di compensi reciproci. Figaro non è immune
e rischia di trovarsi invischiato in un contratto sponsale che lo lega a Marcellina per via
di un vecchio debito di duemila monete,
“promesso matrimonio con prestanza di danar”. L’affidabilità di notabili come don Basilio viene trasposta in termini economici
(“Quel che compro io vendo”) e il potere stesso dei nobili viene identificato nel non pagare il dovuto, nel “dar novanta per cento”.
All’ossessione monetaria si assomma il
feticismo per gli oggetti. Sin dalla prima scena Susanna associa la felicità a un cappellino nuovo e Figaro a un nuovo letto, e per
tre ore non c’è oggetto che passi di mano
senza richiedere qualcosa in cambio: una
promessa, un equivoco, uno spavento. Il culmine è quando l’oggetto chiave della trama,
il biglietto galante, viene scambiato per
“sommario dei debiti”, equiparando l’impegno amoroso a una cambiale; del resto, di
fronte a Marcellina, a Figaro viene presentata l’alternativa secca “o pagarla, o sposarla”. Per questo l’amore vago e aereo, quello di cui Cherubino canta rivolgendosi “all’eco, all’aria, ai venti”, è mero simulacro
dell’amore vero e concreto, che mercifica
l’amato rendendolo “oggetto dell’abbandono”. La canzone “Voi che sapete” contiene
la rivelatrice quartina: “Ricerco un bene
fuori di me, non so chi’l tiene, non so cos’è”.
Ne consegue che su questa scala sociale
i pretendenti sono contrattabili alla stregua
di beni, e saggiamente tutti sconsigliano a
costruire una vera drammaturgia dei timbri. Da sottolineare, poi, l’utilizzo del clarinetto: tanto amato dal Compositore che
gli dedicherà l’ultimo concerto per strumento solista, esso accompagna, con le sue
sfumature calde e impalpabili, i momenti
d’amore e desiderio. E’ lo strumento che dà
voce allo struggimento di Cherubino o della Contessa. Gli ottoni invece intervengono
nei momenti in cui l’intreccio narrativo si
complica o l’esasperato livore sentimentale richiede un inspessimento del volume
sonoro. L’orchestra è frequentemente posta
in dialogo tra la sezione degli archi e quella dei fiati, ma anche con i protagonisti, divenendo anticipatrice di qualcosa che sta
per accadere ma anche specchio psicologico degli stessi personaggi. Mozart crea si-
Susanna di prendersi “un vile oggetto”, “un
paggio”, “un incognito”. Susanna ammette
la propria inferiorità di “donna triviale” ma
non rifugge da una certa ipocrisia pelosa.
Da un lato stigmatizza che il Conte, nel corteggiarla, venga “a contratto di denari”; dall’altro imposta la relazione con Figaro su
una dialettica servo/padrone piccata sin dal
primo recitativo: “Sei tu mio servo o no?”.
Susanna non vuol essere serva e oggetto per
il Conte però mercifica Figaro, non esita a
pagare per riscattarlo da Marcellina; e la
mercificazione diventa la strada della salvezza di Figaro in quanto figlio “perduto,
anzi rubato”, nella scena dell’agnizione in
cui sono “l’oro, le gemme e i ricamati panni”, insomma gli status symbol, “gl’indizi veri della nascita illustre”. Allora i “duemila
pezzi duri” che Figaro deve a Marcellina si
commutano in dote, e così i soldi raggranellati da Susanna e la regalia dell’inatteso padre don Bartolo, a riprova che l’amore è felice quando è ricco. D’altronde Figaro sa benissimo che il matrimonio è sempre una
messa in scena. In un accesso di metateatro,
annuncia che “per finirla lietamente e all’usanza teatrale, un’azion matrimoniale le faremo ora seguir”; e di fronte alle borse che
gli vengono profferte non esita a incitare:
“Bravi, gittate pur ch’io piglio ancora”, saldo nella consapevolezza che tutte le storie
d’amore parlano di soldi.
Antonio Gurrado
zio Galante. L’Orchestra Giovanile Luigi
Cherubini e l’International Opera Choir saranno diretti da James Conlon. Tra gli interpreti principali Alessandro Luongo nel
ruolo del Conte di Almaviva, Davinia Rodriguez nel ruolo della Contessa di Almaviva, Daniel Giulianini in quello di Figaro e
Lucia Cesaroni in quello di Susanna.
tuazioni con i singoli strumenti. Crea altri
personaggi o presenta i lati oscuri di quelli che si muovono in scena. La musica diventa regìa del dramma. Mai, prima di quest’opera, la partitura ricopre un ruolo tanto importante nella “realizzazione” degli
eventi drammatici. Come dice Richard Wagner: “Nel Figaro il dialogo si fa pura musica e la musica stessa diventa dialogo”.
Questo modo di trattare i protagonisti, sia
musicalmente sia drammaturgicamente,
traccia un solco enorme tra Amadé e Gluck.
Per quest’ultimo, i personaggi sono stereotipi e non individui veri e propri, quasi delle creature sovraumane che però presentano una certa staticità “evolutiva” nel percorso dell’opera. In Mozart invece sono figure complesse e connotate dalla mutevolezza degli stati d’animo. Il pubblico ha la
percezione di conoscere i personaggi e di
sentirli umanamente affini. La capacità di
creare archetipi è la caratteristica che, mutatis mutandis, lega la trilogia Dapontiana
di Mozart alla “trilogia popolare” di Giuseppe Verdi.
I colpi di scena (si pensi alle entrate inaspettate di Cherubino, ai travestimenti, al
Sestetto del III atto che assomiglia a un Finale anticipato), i fraintendimenti, il vorticoso succedersi degli eventi, ma anche
l’ambiguità umana, l’ambivalenza, l’istinti-
vo imperare dei sentimenti e degli imbrogli, culminano scenicamente nel conte inginocchiato che chiede perdono alla Contessa, perché “Le nozze di Figaro” sono anche
un’opera sul perdono. Finis coronat opus.
Tutti dovrebbero gioire perché “Or tutti
contenti saremo così”. Diavolo di un Mozart. Inventa una di quelle melodie tra le
più struggenti e melanconiche della sua
produzione, con gli archi che accompagnano e raddoppiano sino a esplodere nella fe-
Qui risiede la geniale e
struggente bellezza di tutta la sua
musica: quando sembra tutto
finito, si ricomincia da capo
sta che chiude questo giorno frenetico, folle. Anche l’esperto ascoltatore mozartiano
va via con la certezza che in ogni sua opera il compositore riapre la partita, consegnandoci un nuovo mondo da guardare e di
guardarsi, una nuova strada da percorrere.
Qui risiede la geniale e struggente bellezza di tutta la sua musica: quando sembra
tutto finito, si ricomincia da capo. Come diceva Gregorio di Nissa: “Da inizio a inizio,
attraverso inizi che non hanno mai fine”.
Tra tradimenti e inganni, qui nasce l’Europa moderna
V
isto il gran parlare che si è fatto quest’anno di corna legalizzate, travestitismo, mobilità sociale, amore come diritto
e viceversa, a Spoleto, per la 59esima edizione del Festival dei Due Mondi, s’è deciso di aprire le danze, questa sera, con “Le
Nozze di Figaro”, di Wolfgang Amadeus
Mozart (musica) e Lorenzo Da Ponte (libretto), il capolavoro che di ciascuno di
questi capisaldi del costume socio-erotico
è sontuosamente provvisto. E’ il 1786, sono i prodromi della rivoluzione che abbatterà la monarchia francese, cambiando i
connotati allo spirito del Vecchio continente, tumultuano in tutta Europa e Wolfgang, se vuole ottenere il permesso di rappresentare il Figaro dall’imperatore Giuseppe II (fratello di Marie Antoinette, la
quale, a Parigi, per colpa del libro da cui
Mozart trae l’opera, fatica a mantenere
l’ordine sociale), deve presentare un lavoro pulito da ogni granello di polvere da
sparo, da ogni possibile attizzatoio di riscatto di classe. Così, Mozart e Da Ponte
scrivono uno spassoso Beautiful al tempo
di Lady Oscar, in cui smontano, rimontano e intrecciano coppie morganatiche e
dell’establishment, amore e interesse, servi e padroni, travestendo, irridendo, compatendo ciascun personaggio, senza esclusione di colpi: a Giuseppe II sfuggì che il
focolaio egualitario stava esattamente in
questo, ben nascosto, ma fumante. L’opera
ha come sottotitolo “La folle giornata”
perché succede tutto in ventiquattr’ore,
come nell’Ulisse di Joyce, nella vita di
una farfalla e nei referendum per uscire
dall’Europa. Ma non si tratta di una corsa
contro il tempo, quanto piuttosto del percorso che conduce ad accettare che si è da
esso determinati (anche questo è amaramente egualitario).
Il Conte di Almaviva, uomo maturo avviato all’anzianità, non ha più l’età per
spassarsela con le fanciulle per merito:
non gli resta che pagarle, abusare del suo
ufficio. Invidioso del paggio Cherubino,
che ha l’età e le forze per fare il farfallone amoroso, vuole cacciarlo via in modo
che non possa più andare “notte e giorno
girando, delle belle turbando il riposo”. In
un impeto di dispotismo illuminato, ha
abolito lo ius primae noctis, ma ora che sta
per sposarsi Susanna, da lui assai desiderata (come tutti gli anzianotti un po’ bavosi, il conte confonde amore e desiderio),
vorrebbe trovare un modo sottile per ristabilirlo e prendersi ciò che, in altri tempi, gli sarebbe spettato di diritto. Sua moglie, la Contessa di Almaviva, viene allertata non solo del piano del consorte, ma
pure di come egli sia un traditore seriale:
reagisce come tutte le donne del suo rango, corrugando la fronte e lasciandosi
sfuggire un “ahimè”. Pungolata dalla terza classe, nella persona di Susanna, però,
la contessa finirà con l’ordire un tranello
ai danni del Conte: i suoi complici vogliono inchiodarlo per guadagnarsi il diritto
ad amarsi senza interferenze, lei vuole solo tornare a sentire il suo calore. Si traveste da Susanna, gli dà appuntamento in
giardino, di notte e lui arriva: per la prima
volta dopo chissà quanto, forse per la prima volta in assoluto, suo marito le rivolge
parole d'amore. Per lei, in quanto moglie,
cioè proprietà garantita, signora matura
che ha nel viso il memorandum della vecchiaia di entrambi, il Conte aveva smesso
di onorare le promesse matrimoniali più
dolci, badando solo a piantonarla come
fosse una cassaforte. Eppure in quel momento in cui lei è un’altra e lui è per un’altra, Mozart e Da Ponte inseriscono il primo, vero, assoluto momento di tenerezza
di tutta l’opera e l’assist per il disvelamento del suo senso: il perdono. E’ così intenso quel loro sfiorarsi nella menzogna che
le loro identità, sia vere che inventate, si
annullano e forse entrambi si guardano in
modo nuovo e si ritrovano. Poco più tardi,
quando l’inganno è svelato, infatti, la Contessa assolve il Conte e lui le prende la
mano. A volte per ritrovarsi ci si deve mascherare. Ci si deve tradire. Per questo è
importante che entrambe le cose restino
proibite. Parola di Figaro, la miccia dell’Europa moderna.
Simonetta Sciandivasci