Dal referendum inglese a quello italiano. Perché un centrodestra
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Dal referendum inglese a quello italiano. Perché un centrodestra
IL FOGLIO quotidiano Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1 ANNO XXI NUMERO 148 Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO VENERDÌ 24 GIUGNO 2016 - € 1,50 DIRETTORE CLAUDIO CERASA Dal referendum inglese a quello italiano. Perché un centrodestra che rincorre i populismi è destinato a regalare il paese ai populisti L a Grecia nel luglio 2015, con il referendum sull’austerity. La Gran Bretagna nel giugno 2016, con il referendum sulla Brexit. L’Italia nell’ottobre 2016, con il referendum sulla riforma costituzionale. Tre referendum diversi, tre temi differenti, tre storie non sovrapponibili ma alla fine un unico filo conduttore: il futuro dei grandi partiti di governo, l’abilità nell’assorbire le pulsioni populiste, la volontà di educare gli elettori senza doverli inseguire e la capacità di resistere, da Varoufakis a Le Pen passando per Salvini, Farage e Podemos, alle varie declinazioni degli istinti anti sistema. In Grecia, un anno fa, abbiamo assistito alla conversione improvvisa e sorprendente di Alexis Tsipras, che da leader anti tutto (a morte la Troika) si è trasformato in un leader più pragmatico, facendo deprimere il carrozzone politico europeo (destra e sinistra, c’era anche Brunetta) che aveva investito sentimentalmente sul leader di Syriza, individuandolo co- me possibile capo dei disubbidienti del continente. Un anno dopo, lo stesso fronte che provò a spingere Tsipras sulla strada del Vday all’Europa oggi si ritrova più o meno compatto a sostegno dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e ha scelto di sostituire allo sguardo un tempo sovversivo di Alexis la chioma ribelle di Boris Johnson (ex sindaco di Londra, conservatore, a favore della Brexit). Vedremo quali saranno i risultati definitivi del referendum ma ancora prima del voto di ieri il caso inglese è utile per mettere in luce un fenomeno che merita di essere approfondito e che riguarda l’identità più delle destre che delle sinistre europee. Il problema è semplice. Mentre le sinistre europee, dopo schiaffi su schiaffi, hanno capito che per recuperare consenso e risultare credibili hanno il dovere di far proprie alcune tematiche sposate e sponsorizzate dalla destra (Daniel Cohn-Bendit, grande rivoluzionario ecologista, ha scrit- LA BREXIT NON FINISCE QUI Dove arriva la voglia di “exit”. Così il referendum diventa “un’arma per sfidare le élite politiche” in Ue Ecco quel che resta del grande scontro tra i media inglesi, tra i cocci e un tifo scatenato Bruxelles. Boris Johnson, Michael Gove e Nigel Farage possono cantare vittoria nella loro guerra politico-cultuDI DAVID CARRETTA Milano. Nell’ultimo giorno utile per invitare gli inglesi ad andare a votare al referendum, i giornali hanDI PAOLA PEDUZZI rale all’Europa, dopo aver sostenuto la Brexit nel referendum sulla permanenza del Regno Unito all’Unione europea. I cittadini britannici ieri hanno deciso le sorti del loro paese. Ma se, oltre alla Brexit, Boris & Co. speravano anche di paralizzare il club Ue ci sono riusciti: la Commissione ha congelato tutti i dossier controversi, dalla liberalizzazione dei visti alla Turchia alla nuova Strategia globale per la politica estera, in attesa dell’esito ufficiale del voto britannico. Se l’intenzione era di impedire ai Ventotto ulteriori balzi di integrazione, l’esito è stato raggiunto: i capi di stato e di governo non sono in grado di mettersi d’accordo su come rispondere a nuove minacce di uscita dal club, se non con una vaga dichiarazione di intenti faticosamente scritta a Parigi e Berlino. Se volevano avviare un processo di disintegrazione dell’Ue, la missione è compiuta: il referendum sull’Europa è destinato a diventare il grande mantra delle prossime campagne elettorali nazionali. Perché, indipendentemente da quel che diranno i leader nei prossimi giorni per garantire a tutti che il progetto europeo è irreversibile e non ci sarà un effetto domino di “exit”, i movimenti e i partiti populisti della rivolta contro l’Ue intendono impossessarsi del referendum “come arma per sfidare le élite politiche tradizionali”, spiega l’European Council on Foreign Relations (Ecfr) in un rapporto che sarà pubblicato lunedì. Oltre a prolungare l’agonia dell’Ue, che dal “no” francese al trattato costituzionale del 29 maggio 2005 si paralizza ogni volta che è davanti a un voto popolare, l’effetto sarà di sabotare la politica europea. “Anche se i partiti della rivolta non prendono direttamente il potere, sono così potenti dal punto di vista politico che stanno costringendo i partiti del mainstream a adottare le loro posizioni”, spiega Mark Leonard, il direttore del think (segue a pagina tre) tank. no avuto ancora una volta un ruolo importante. Anche di sintesi: il Sun titolava sul giorno dell’indipendenza che stava sorgendo, quello in cui il Regno Unito si libera dell’Europa, con una luce in fondo a dare speranza, mentre il Mirror aveva un buco nero sulla copertina, un vortice, la scritta non fatevi trascinare nel buio, votate per rimanere in Europa. Queste due immagini raccontano bene lo stato d’animo, i sostenitori della Brexit contano su un avvenire radioso, i sostenitori del “remain” vedono soltanto il disastro in arrivo. I media inglesi negli ultimi giorni hanno fatto i loro endorsement ufficiali, e non ci sono state grandi sorprese: dopo che si è scoperto – abbastanza di recente, ma si sa che la sensibilità aumenta quando il verdetto s’avvicina – che gli esperti, i fatti, i commenti oculati e precisi non servivano granché, i giornali hanno iniziato a fare il tifo senza preoccuparsi troppo della verità (qualunque cosa s’intenda per verità). Abbiamo visto pubblicati dilemmi della Regina mai confermati, numeri a caso sull’immigrazione, sui rapporti commerciali tra Europa e Regno Unito, sulle ripercussioni economiche, sociali e familiari di questo o quell’altro scenario, e anche noi lettori ci siamo persi nel tifo. La sintesi degli endorsement vede i giornali più legati al mondo del business e della City e quelli laburisti a favore del “remain”: anche il Times, che fin da subito aveva detto di avere orecchie e occhi aperti sulla campagna per valutare strada facendo, ha infine deciso per il “remain”. Al di là dei posizionamenti alle elezioni generali, significa che dal punto di vista economico, i sostenitori della Brexit non sono riusciti a far passare un messaggio di stabilità: nell’immediato l’incertezza ha sempre effetti negativi sui mercati, è difficile sostenere il (segue a pagina tre) contrario. La Brexit di Trump Il risveglio The Donald accarezza i sentimenti antiglobalisti dalla Scozia, il teatro del suo “dream from my mother” C’è un gran disordine mondiale all’ombra di scelte “epocali”. Ma pure il populismo si stanca. Ecco come New York. Il senatore repubblicano John Thune è confuso circa il motivo del viaggio di Donald Trump in Milano. Il voto sulla Brexit ha creato uno squarcio nel dibattito internazionale sull’Europa ma anche su globalizzazione, liberismo, capitalismo. Guardando i posizionamenti dei vari partiti e movimenti è chiaro che, al di là del verdetto sull’euroscetticismo britannico, lo scontro ideologico è destinato a durare, e che il disordine sia in arrivo, anzi, già qui. Questo spiega perché da qualche settimana, il voto del Regno Unito è diventato “epocale”, non soltanto per gli inglesi e per gli europei. Il progressivo affermarsi di movimenti e leader antisistema che criticano il potere centrale, l’establishment, in tutte le sue declinazioni, e che vogliono dare uno scossone allo status quo ha fatto nascere molti interrogativi: gli opinionisti hanno raccontato come una serie di eventi, da ieri al prossimo futuro, può indebolire se non sovvertire l’ordine mondiale liberale, generando prima di tutto instabilità e poi contagi di cui ancora non si conosce l’entità. I toni allarmistici sono diventati una costante, ma ieri il Financial Times ha pubblicato un articolo di John Paul Rathbone che ha risollevato un po’ gli animi, o almeno ha allentato la morsa del catastrofismo che ci stringe tutti. La sintesi è che il disordine può essere brutale ma anche temporaneo: si esce, a un certo punto. Rathbone è stato il responsabile della column Lex del Financial Times e ora si occupa di America latina e racconta come il continente sudamericano abbia attraversato ormai un decennio di populismi al potere e che abbia scoperto, ora che la sua esperienza si è consolidata, la strada per tornare alla moderazione. Nulla è roseo né semplice: se pensiamo al Brasile oggi tutto ci viene in mente tranne che la moderazione e la stabilità, per non parlare del Venezuela da cui arrivano racconti agghiaccianti di vita quotidiana. Ma quel che Rathbone cerca di spiegare, con l’aiuto di molte voci esperte del continente o che hanno un ruolo di responsabilità politica, è che esiste una “populism fatigue”, cioè a un certo punto anche la verve antisistema (Peduzzi segue a pagina tre) s’estingue. DI MATTIA FERRARESI Scozia che comincia oggi: “Spero che torni indietro il prima possibile”, ha detto, inquadrando un sentimento diffuso fra gli alleati, specialmente quelli che hanno dovuto ingoiare Trump a naso turato. Il candidato ha i ranghi della campagna in subbuglio, deve sciogliere diversi nodi sulle modalità di finanziamento da qui a novembre e ha appena lanciato una nuova fase della guerra contro Hillary Clinton: una visita di natura commerciale e pubblicitaria ai suoi golf club in Scozia non sembra rientrare nella lista delle priorità. Ma per Trump non esiste un confine fra gli affari e la politica, la sfera pubblica e quella personale hanno un’ampia area di intersezione, forse coincidono interamente, e ogni gesto che coinvolge il brand scolpito a lettere dorate è intimamente connesso con il progetto presidenziale. Dal suo punto di vista la missione scozzese non è una distrazione: “Tutti gli occhi del mondo saranno puntati su di lui”, ha spiegato il figlio Eric, che si è occupato degli investimenti in Europa. Poco importa se, come ha raccontato il Washington Post con un’inchiesta al solito tagliente, il campo da golf con faraonico resort di Aberdeen (uno dei due che Trump visita in questi giorni) doveva cambiare la storia dello sport e dell’economia locale, dando lavoro a settemila persone, mentre nella realtà è un baraccone semideserto snobbato dai campioni che ha soltanto 150 dipendenti. Trump già in primavera aveva spiegato a una testata scozzese che, oltre all’operazione commerciale, la visita avrebbe avuto anche un senso “narrativo”, tracciando un parallelo alla corsa per la Casa Bianca: “Quando sono arrivato per la prima volta ad Aberdeen, gli abitanti mi hanno messo alla prova per vedere se facevo sul serio, esattamente come i cittadini americani hanno fatto per la corsa alla Casa Bianca”, ha scritto in un editoriale intitolato “Come la Scozia mi aiuterà a diventare presi(segue a pagina tre) dente”. to in Francia un saggio indirizzato alla sinistra intitolato “E se la finissimo di sparare cazzate?”) molte destre europee, per recuperare consenso e non farsi rosicchiare terreno dalle forze anti sistema, stanno viceversa cominciando a fare un ragionamento opposto, simile a quello offerto in Inghilterra da Johnson: per contenere i populismi bisogna inseguire i populisti sul loro stesso terreno. Tra queste destre europee, ahinoi, c’è anche quella italiana e da molti punti di vista la sua identità verrà messa in discussione al prossimo referendum costituzionale – che come ha scritto due giorni fa Bloomberg in un editoriale firmato dall’editorial Board (“Europe’s Other Historic Referendum”) potrebbe avere una portata storica simile a quella che ha oggi il referendum inglese. Su questo terreno il Cav. ha scelto di seguire il modello Johnson e pur di non dare soddisfazione a Renzi si è messo in scia a Salvini e a Grillo, rinnegando una precisa tradizio- Magistrato rampante VARDY UN PO’ Sabella e gli altri. Guida minima per riconoscere i tic e le delizie dei “coraggiosi” pm prestati alla politica Il bomber del Leicester rovina la retorica nostalgica sul calcio pane e salame. Cercansi maglie azzurre E vitate, se potete, di chiedere dov’è. Perché in questo momento starà di sicuro parlando con l’editore per decidere la data d’uscita del prossimo libro, scritto a quattro mani con il suo LA LINEA SOTTILE giornalista di fiducia, per cantare le lodi della giustizia più bella del mondo; oppure starà discutendo con il produttore cinematografico per gli ultimi ritocchi alla sceneggiatura del film che la Rai manderà in onda, con ogni probabilità, il prossimo 23 maggio, venticinquesimo anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, per sottolineare ancora una volta il proprio impegno antimafia; oppure starà nella redazione del giornale impegnato sul fronte della legalità per ribadire, in un’intervista ad ampio raggio, ci mancherebbe altro, la necessità di inasprire leggi e pene contro la corruzione. Oppure – e qui il riferimento è ad Alfonso Sabella – starà nella segreteria del candidato sindaco di Roma che lo ha appena designato come futuro assessore magari per preannunciargli una pubblica dichiarazione che poi, al di là delle intenzioni e delle successive puntualizzazioni, ha finito per mascariare, con una spruzzatina di facile sospetto, la candidata del partito concorrente. E non chiedetevi nemmeno se lui – il magistrato in carriera che Roberto Giachetti voleva nella giunta capitolina – presti servizio in procura o alla Corte di assise o al Tribunale del riesame; o se, per meglio seguire la sua strada, si è messo in aspettativa. Perché un magistrato è per sempre, come il diamante della De Beers, e quando parla non sentirete mai l’alito cattivo di un particolare interesse politico; dalla sua bocca verrà fuori sempre e comunque il profumo iridato di tante belle parole messe insieme come in un bouquet di fiori: c’è il sapore della legalità e pure quello dell’antimafia; c’è il sapore della società civile e pure quello fascinoso e inebriante della rivoluzione: ricordate Antonio Ingroia, l’esuberante procuratore di Palermo che, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, imbastì il monumentale processo sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra? Se ne andava ai comizi, saliva sul palco con i Ray-Ban a goccia e la mano in tasca, e se qualcuno osava sollevare un dubbio sull’opportunità di quel suo comportamento rispondeva, con urtante spocchia, che lui si riteneva un partigiano – “un partigiano della Costituzione” – e in quanto tale rivendicava il diritto di zampettare da una manifestazione politica a un’altra senza che nessuno potesse dirgli nulla. Meno che meno quei quattro imparruccati membri della commissione disciplinare del Csm. Perché se un magistrato è per sempre, il magistrato che ha intramato la propria carriera tra lotta alla mafia e interviste ai giornali, porta una croce d’oro sul petto ed è più uguale degli altri. Sono intoccabili, sono inattaccabili. Qualunque cosa dicano, qualunque cosa facciano. E non azzardatevi a sostenere che, magari, hanno buttato soldi su un’inchiesta senza capo né coda o che hanno istruito un processo senza prove. Non azzardatevi. Perché molti di questi intrepidi coltivano anche l’innocente vizietto di correre subito nelle stanze del piano superiore a piagnucolare “per l’oltraggio ricevuto”, a battere i piedini per ottenere “solidarietà e protezione” e a calare lì in mezzo, tra una gnagnera e l’altra, quelle due o tre paroline che sembrano fatte apposta per richiamare chissà quali congiure, chissà quali complotti, chissà quali attentati, chissà quale mafia alle porte. E’ la mistica della persecuzione. Ormai lo sanno pure le pietre: parole pesanti come “intimidazione”, o come “delegittimazione” verdeggiano da anni in un formulario grazie al quale dentro i palazzi di giustizia si è costruita la filiera dei cosiddetti “magistrati coraggiosi”, una definizione che Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, che di coraggio ne avevano da vendere, odiavano come la morte; ma che oggi, paradossalmente, ha finito per segnare una particolarissima casta: quella dei magistrati che oltre a essere super scortati e super coccolati da giornalisti e conduttori televisivi – dettagli che puntualmente alimentano e ingigantiscono la loro aureola di eroi in servizio permanente effettivo – vengono anche corteggiati e richiesti a gran voce dalla poli(Giuseppe Sottile segue a pagina quattro) tica. ne riformista del centrodestra berlusconiano. La differenza sostanziale con l’Inghilterra è però evidente. In Gran Bretagna, la posizione del centrodestra alla Johnson è equilibrata dalla posizione dei Cameron (premier conservatore, contrario alla Brexit). In Italia, invece, la posizione del centrodestra alla Johnson non è equilibrata da nessun leader con propensione alle sfide di governo. Il modello salviniano, come hanno dimostrato le elezioni amministrative, resta un modello perdente ma misteriosamente è l’unico in campo nel nostro centrodestra. Se si vuole competere per non vincere, si può seguire questo modello. Se si vuole competere per governare, Brexit o non Brexit, al centrodestra serve invece con urgenza un suo Cameron che sappia riequilibrare il metodo Johnson. Un metodo che in Inghilterra può funzionare, forse, ma che alla lunga, in Italia, rischia di produrre un unico risultato: regalare il paese ai populisti. C hissà a che cosa starà pensando, in queste ore, Massimo Gramellini. Appena un paio di settimane fa ci informava in prima pagina della Stampa che DI JACK O’MALLEY pensava “spesso ai bambini di Leicester a cui la vita ha ammazzato il primo sogno”. Pedofilia? Strage famigliare? Macché. “Avevano appena finito di appendere alle pareti i poster di Vardy e Mahrez, i cavalieri che fecero l’impresa di conquistare la vittoria più improbabile del mondo. Sennonché i cavalieri si sono rivelati dei comuni mercenari e hanno tradito i bambini che avevano creduto in loro per andare a divertire quelli di squadre più titolate”. Come sempre Gramellini titillava il grillino che è in noi, buttandola sul numero di ville con piscina che Vardy si sarebbe potuto comprare con i soldi sporchi del tradimento. Ridateci il calcio pane e salame, urlava il buon Massimo, quello probabilmente mai esistito in cui un ventinovenne campione d’Inghilterra non se ne sarebbe mai andato all’Arsenal. Mi chiedo però adesso quale lezione di morale calcistica stia escogitando, dopo che il Leicester ha annunciato di avere prolungato il contratto di Vardy per altri quattro anni. Forse che nel calcio l’amore vince a volte sull’invidia e sull’odio? Tutto è bene quel che finisce bene, e la sola idea che le lacrime dei bambini di Leicester abbiano smesso di scorrere mi solleva. Eppure Gramellini era quello che qualche mese fa sperava che il Leicester non vincesse più nulla, per non intossicarsi con le brutture del calcio moderno. Forse vendendo Vardy sarebbe stato più facile. Invece il bomber rimane, per di più con uno stipendio altissimo. Roba da farci almeno un altro paio di lezioni di vita sul calcio, per fortuna. Cosa pensa, invece, il commentatore sportivo collettivo della campagna italiana per convincere i tifosi a indossare la maglia azzurra allo stadio non c’è bisogno di immaginarlo. Sono tutti felici di promuovere il colore dei Savoia, ma guardo con profonda tenerezza lo sforzo di imporre a forza di hashtag un sentimento patrio nel più pallido e artificiale dei nazionalismi europei. Gli altri fanno muraglie gialle o rosse o verdi sugli spalti, gli italiani compongono un camouflage d’abiti civili, e non è una novità. Un po’ di retorica sulla squadra operaia basta a trasformare milioni di italiani in garibaldini in giubba rossa e bersaglieri di Porta Pia? La spedizione dei Mille era sorvegliata da due navi da guerra di Sua Maestà, l’Angus e la Intrepid, e laddove i soldati hanno aperto la breccia ora sorge l’ambasciata inglese. La maglia azzurra ha una sua tradizione nobile, s’intende, e perlomeno il tifoso italiano, esaltato ma cum juicio, ci evita la retorica da carie ai denti su quanto sono belli e gioiosi irlandesi e islandesi (arriverà un “Buongiorno” anche su di loro, vedrete); ma farsi venire il sentimento patrio a forza è un po’ come farsi piacere il sushi per non passare per trogloditi in società. Allora. Il 17 per cento della popolazione israeliana è musulmano. Più di 300 imam e muezzin sono stipendiati dallo Stato. Un milione e 400mila israeliani musulmani parlano l’arabo, che è una delle due lingue ufficiali di Israele. 26mila musulmani studiano negli istituti accademici israeliani. I musulmani in Israele sono cresciuti di 10 volte rispetto al 1948. Sono colà diffuse 6 differenti correnti dell’Islam, le moschee sono cresciute del 500 per cento sempre dal 1948, 13 deputati alla Knesset sono arabi e 1700 musulmani prestano servizio nell’esercito con la stella. Visto? Pure gli ebrei neonazisti-razzisti a loro insaputa, ci dovevano capitare. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30 IL PRIMO ASSEDIO A RENZI Per la prima volta, il Pd mette a tema l’indicibile: cosa si fa se il governo finisce davvero ko? Trame, sospetti, tradimenti possibili. Oggi la direzione con la reazione del premier. “Ma che sta combinando Franceschini?” Roma. Il cattivo umore in generale, i nervi, un certo senso di diffusa insofferenza regnano sovrani. Nel Pd si fanno discorsi dall’aria drammatica e vagabonda, s’intravedo- greta, già si fanno i nomi dei possibili traditori, s’indicano i movimenti nell’ombra, persino dentro il governo, in quei gruppi parlamentari che eletti nel 2013 rispondono ancora alle vecchie logiche pre-rottamazione, DI SALVATORE MERLO pre-renziane. Dunque al Nazareno, tra i deno complotti, manovre, si sospettano tradi- putati più amici del segretario, si indicano menti, “adesso esplodono tutte le contraddi- delle facce, dei profili disegnati nell’aria, si zioni che ci siamo tenuti dentro troppo a lun- uniscono i puntini tra fatti forse scollegati go”, dice allora Stefano Esposito, senatore tra loro, ci si tormenta con i sospetti: Dario della corrente dei giovani turchi, “io temo il Franceschini… che sta facendo Franceschidisfacimento del Pd”. E allora tutti aspetta- ni? E perché tutti raccontano dei suoi inconno Matteo Renzi, il presidente del Consiglio tri, delle sue telefonate, delle sue allusioni e segretario del partito, oggi, alla direzione agli errori di Renzi? Così circolano leggennazionale, dove ciascuno si metterà in fila, de, racconti veri, falsi, verosimili: in troppi srotolando il suo Cahier de doléance, ciascu- adesso pensano che Franceschini, il più ginna delle correnti (“troppe correnti”, dice En- nasticato dei capi tribù, l’uomo la cui storia zo Lattuca, bersaniano, il più giovane dei de- è una carriera di corridoio tra gorghi di corputati, “qua nessuno si è occupato del par- renti e sottocorrenti, tra lobby e fazioni, lui tito e il risultato è l’anarchia correntizia”), al quale in tanti devono la loro elezione in dunque tutti di fronte al segretario in diffi- Parlamento, voglia sostituirsi a Renzi per coltà, sconfitto alle amministrative, tutti a approvare la nuova legge elettorale. Ed ecchiedere qualcosa, e a minacciare, un po’, in colo allora, Franceschini, avvolto in questo controluce. “In direzione misureremo la ca- groviglio di timori e sospetti, eccolo che nei ratura di Renzi”, dice racconti si eleva a caMiguel Gotor, che della po di un governo del Voci. “Adesso esplodono tutte sinistra interna incarpresidente, un governa le pulsioni più batle contraddizioni che ci siamo no d’emergenza e di tagliere, spesso aggressalute pubblica (sia il tenuti dentro troppo a lungo”. governo Letta sia il sive, ma anche più spiritose e in fondo distacgoverno Renzi nac“C’è anarchia correntizia”. cate, “fare il leader con quero per fare la legil vento in poppa è facige elettorale), un ese“Come si comporterà Renzi le”, dice, “esserlo nella cutivo benedetto, ovavendo sulle spalle la difficoltà è più difficiviamente, dal capo le. Bisogna vedere, e dello stato, da quel scimmietta invisibile di sono curioso, come si Sergio Mattarella che comporterà Renzi con Franceschini ha questa sconfitta elettorale?” avendo sulle spalle la una vecchia e solida scimmietta invisibile consuetudine. di questa sconfitta elettorale”. “Bisogna vedere (e sono curioso) come si E così mentre Gianni Cuperlo vorrà insi- comporterà Renzi in direzione”, dice dunstere, chiedendo che venga modificata la que Gotor. E sarà un Renzi spavaldo, quello legge elettorale, mentre Roberto Speranza di oggi, o un Renzi capace di umiltà e di forse spingerà ancora perché Renzi lasci la aperture, come forse si augura il suo più causegreteria del partito (anche a rischio che il to consigliere, cioè Graziano Delrio? “La nuovo segretario diventi Luca Lotti o Maria scelta”, dice spiritosamente Gotor, “è tra veElena Boschi?), mentre tutti insomma si pre- rismo e dannunzianesimo”, insomma tra parano a chiedere o a pretendere qualcosa realismo e ribalderia, sostiene lui. Ma ieri dal presidente del Consiglio e segretario mattina il presidente del Consiglio e segreammaccato, nell’ombra si consuma però un tario non sapeva ancora cosa fare, oscillava dibattito parallelo e segreto, inquietante, fra il terribile e il dolce, fra un’aria di rimtutto un pissi pissi, un torrido mormorare e provero, censure, rifiuti e un’altra di simparullare di tamburelli: bisogna prepararsi, tia, consensi, piaceri. Quello che Renzi si preparare un’alternativa al governo di Ren- aspetta in direzione, oggi, forse non è prozi, un governo che in caso di sconfitta al re- prio un assalto, ma quasi. E che farà di tutferendum di ottobre possa approvare quella ta questa matassa composta di complotti, tralegge elettorale che Renzi non sembra in- me e paure? Siamo al 25 luglio del governo? tenzionato a cambiare (malgrado ieri matti- “C’è molto movimento, ma c’è anche di mezna il presidente del Consiglio avesse chie- zo l’estate”, dicevano ieri sera a Palazzo Chisto a Emanuele Fiano di buttarla lì, quasi gi, lasciando intendere che i ragazzi toscani per caso, per vedere l’effetto che fa: “Sull’I- restano sicuri e chiusi in un guscio forse sitalicum penso che verrà fatta una riflessio- curo, prezioso, inalterabile, o forse invece di ne…”). E allora, in una strana carambola se- una fragilità estrema. Staino all’Unità e il passato che forse ha un futuro C i sono giorni in cui le notizie danno l’impressione fisica di un salto all’indietro, ti domandi se è vero o se sogni. No, non la notizia CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA che Michele Santoro torna alla Rai. La notizia che riporta d’un tratto al tempo in cui la politica esisteva, o esisteva la sinistra, è che Sergio Staino, il Bobo dell’immaginario comunista collettivo, potrebbe diventare il direttore dell’Unità. Lui ha confermato, gliel’hanno chiesto, e ha detto di sì con “grande entusiasmo, più di pancia che di testa”, in attesa di sapere che ne pensa Matteo Renzi, come dire l’editore. Ed è una bella notizia, se andrà così, quella di un vignet- tista che prende la guida di un giornale politico, nel paese in cui c’è un sacco di politici che fanno la satira di se stessi. Eppure Staino alla guida dell’Unità non è un carpiato all’indietro, quello semmai è Santoro. Perché Staino ha appena fatto un un romanzo a vignette, s’intitola Alla ricerca della pecora Fassina. E ha appena scritto a Gianni Cuperlo, e gli ha detto che non è sempre tempo di dividersi, che bisogna far politica “senza distruggere il partito, anzi, prendendo atto che Renzi è il nostro segretario e il nostro premier”. Riemergi dal tuffo e pensi che invece, per una volta, è la notizia di un balzo in avanti: anche la sinistra, divenuta (quasi) vecchia e saggia, magari non voterà a favore, ma nemmeno sempre contro. ANNO XXI NUMERO 148 - PAG 2 La cadrega Risvolti ironici e politici del ricorso di Cappato per un posto in Comune (e conseguenze per Sala) Milanese di nascita e con studi a Monza, Marco Cappato non avrà difficoltà, come Aldo nella celeberrima gag di Tre uomini e una gamba, a distinguere tra una mela RIPA DEL NAVIGLIO (avvelenata) e una “cadrega”, quando si verrà al dunque. Ma la vicenda del ricorso per vedersi assegnato un seggio nel nuovo Consiglio comunale da parte della lista Radicali con Cappato, apparentatasi al ballottaggio con Beppe Sala, ha i suoi risvolti ironici e invita a deduzioni politiche. Martedì i Radicali hanno richiesto al Tar della Lombardia un pronunciamento d’urgenza contro l’assegnazione dei seggi che li vede esclusi, in base a un contrasto (“discrepanza”) tra le indicazioni del Viminale per l’applicazione delle norme – che li escluderebbe in quanto al primo turno la lista non ha superato lo sbarramento del 3 per cento – e le fonti giurisprudenziali che invece indicano di non tenere conto del risultato, nel caso di successivo apparentamento. Le norme in questione sono nel Testo unico per gli enti locali. Art. 72, comma 7, e soprattutto art. 73, comma 7: “Non sono ammesse all’assegnazione dei seggi quelle liste che abbiano ottenuto al primo turno meno del 3 per cento dei voti validi e che non appartengano a nessun gruppo di liste che abbia superato tale soglia”. Le indicazioni del Viminale si attengono a questo, ma è un “interpretazione errata”, secondo Cappato. Esistono infatti una sentenza del Tar della Lombardia del 2003 che afferma il contrario (e due analoghe nel 2010 e 2013) e soprattutto una sentenza del Consiglio di stato del 2015, secondo cui “la ripartizione dei seggi va fatta tenendo inderogabilmente conto dell’apparentamento”. E’ stato obiettato, ai Radicali, che al momento del voto per l’Ufficio elettorale faceva testo solo la legge e l’indicazione del ministero, e questo anche i Radicali erano in grado di saperlo. Politica e cavilli. A breve si saprà come andrà a finire. Qualche dubbio nel mondo politico milanese, sull’appellarsi ex post di Cappato su una regola da nessuno contestata prima, è stata determinata anche da altri fatti. Uno legale, ovvero l’esposto di ineleggibilità presentato alla Procura contro Sala prima delle elezioni proprio da Cappato, e rimasto lì, ufficialmente, anche dopo l’apparentamento con il candidato ineleggibile del primo turno. L’altro è politico. Presentando l’apparentamento tra i Radicali e la propria coalizione, Beppe Sala aveva ventilato (non promesso) un coinvolgimento di Emma Bonino, che nell’arcipelago radicale è vicina a Cappato, per un ruolo nelle relazioni internazionali del Comune. Va detto che, esperienze mondiali a parte, Bonino è stata molto presente a Milano, lo scorso anno, come attivissimo presidente di WEWomen for Expo e le prospettive di Milano nel mondo le conosce bene. Ma da qui a paracadutarla con un ruolo a Palazzo Marino è sembrato a molti, non solo nel centrodestra, una mossa elettorale e d’immagine un po’ forzata. Attendendo la soluzione del dilemma della “cadrega”, c’è un aspetto politico interessante da osservare: il ruolo che Sala deciderà di riservare agli alleati Radicali, sia nel caso di ingresso di un loro esponente in Consiglio, sia nel caso venisse confermato un ruolo per Bonino. Il tipo di ricompensa per l’appoggio (forse decisivo) ottenuto al ballottaggio sarà un segnale anche per l’indirizzo politico che il nuovo sindaco deciderà di seguire. Le scelte si sapranno al più tardi all’inizio della prossima settimana, ma la sensazione che Sala punterà a essere un sindaco di coalizione, con molta attenzione alla sinistra e alle politiche verdi care ai Radicali è già evidente. Non si sono rassegnati alla vittoria, gli odiatori di “Mr.Expo” al Fatto Quotidiano. Ieri Gianni Barbacetto ha iniziato una nuova guerra preventiva sulla possibile (indiscrezioni) scelta di Sala di nominare assessore al Bilancio Roberto Tasca, professionista stimato e ordinario di Economia degli intermediari finanziari a Bologna, nonché consulente della Procura di Milano. Ma con una gran macchia: risulta essere socio di un’azienda, Kenergy, assieme proprio a Sala. E, per soprammercato, Tasca risulta essere stato socio di un’altra società in cui fino al 2008 Sala figurava come presidente, la Medhelan Management & Finance: E, udite udite, c’era anche Mario Rossetti, ex manager Fastweb finito vittima innocente di una vergognosa storia giudiziaria (ci ha scritto un libro, Io non avevo l’avvocato, Mondadori). Ma che importa? L’“inestricabile intreccio di interessi pubblici e privati” è dietro l’angolo, ci sarà pane per i denti di Barbacetto. Il Centro balneare Caimi, a Porta Romana, è un gioiello di architettura razionalista degli Anni 30 con piscine all’aperto, verde, gradinate. Abbandonato da tempo, ora riapre (ufficialmente il 30 giugno), magnificamente restaurato grazie a un accordo tra comune e la Fondazione Pier Lombardo guidata da Andrè Ruth Shammah – la struttura è a fianco e collegata al Teatro Franco Parenti – che ha trovato finanziamenti privati. Si chiamerà Bagni Misteriosi, un omaggio a De Chirico. Gestito dal Parenti, il Caimi ospiterà i bagnanti, ma anche attività culturali e teatrali. State freschi. Maurizio Crippa IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 24 GIUGNO 2016 INTERVISTA A JOHN MULLER, VICEDIRETTORE DI EL ESPAÑOL Un importante giornalista spagnolo ha due previsioni choc per le elezioni Madrid. “E se dicessi che esiste un 40 per cento di possibilità che si torni alle urne?”. John Muller, vicedirettore di El Español, progetto editoriale innovativo fondato nel 2015 dallo storico ex direttore del Mundo, Pedro J. Ramírez, apre le braccia sconsolato: “Disgraziatamente la politica spagnola non ha una tradizione di alleanze. Non è facile cestinare da un giorno all’altro una storia di governi monocolore”, dice al Foglio. Muller, economista raffinato e tra i fondatori del Mundo, fa parte di quella ridotta di fuoriusciti dal giornale dell’establishment spagnolo che, fondando El Español, si è imbarcata in un progetto editoriale che per ora sta riscuotendo successo anche per le sue posizioni forti: fin dalla prima campagna elettorale, El Español ha fatto chiari endorsement per il centrista Albert Rivera. “Ciudadanos è l’unico partito che ha un discorso europeista deciso. Concorda sia con l’ala più a destra del Partito socialista sia con l’elettorato più centrista del Partito popolare. La sua è una narrativa coerente”. Lo scenario politico tuttavia non sembra molto diverso da quello già visto a dicembre. Domenica, in caso di vittoria, il premier ad interim Mariano Rajoy ha già fatto sapere che ripeterà lo stesso schema tattico: se sprovvisto di appoggio, andrà nottetempo dal re Felipe e così ricomincerà il circo dei negoziati. “La situazione è molto complessa: Ciudadanos si arroga il ruolo chiave per la formazione di un governo di larghe intese ma tutte le soluzioni passano dal Psoe. I socialisti, anche questa volta, saranno l’ago della bilancia: o un governo col o del Pp (se decidono di astenersi) o un patto con Unidos Podemos”. Resta l’attacco a sorpresa di Pablo Iglesias, e qui Muller fa un’altra previsione choc. “Considerando gli ultimi scandali all’interno del Partito popolare, c’è una buona probabilità che Podemos non solo superi i socialisti ma possa raggiungere o perfino superare il Pp”. John Muller, che secondo indiscrezioni sarebbe nella rosa dei nomi che il giornale di Rcs maneggia per trovare un nuovo direttore, dopo la recente destituzione di BORDIN LINE di Massimo Bordin Nel suo lungo articolo di ieri su Repubblica, Carlo Bonini tira un bilancio del processo Mafia capitale giunto grosso modo a metà del suo percorso. Già nel titolo c’è la parola “allarme”, le cose non vanno secondo le previsioni. Si elencano una serie di cause dal ‘genius loci’ al risultato elettorale per denunciare un “ritorno alla normalità” che intende consegnare il processo all’oblio, se non alla irrilevanza, mentre è ancora in svolgimento. La causa principale comunque Bonini la individua nella frammentazione in decine di processi che “da soli nulla dicono della mafiosità della città ma che, letti insieme, la documentano”. Così decontestualizzate le vicende criminali, sostiene Bonini, la trama che le unisce viene azzerata in ogni proces- David Jimenez, sistema gli occhialini sul naso. Secondo i sondaggi, il partito di Rajoy è saldamente in testa, ma mercoledì è scoppiato sui media lo scandalo delle registrazioni in cui il ministro dell’Interno, Jorge Fernández Díaz, “suggerisce” all’Ufficio antrifrode catalano di aprire qualche fascicolo ad hoc contro gli indipendentisti alla vigilia del referendum del 2014. I dati statistici dicono che il 30 per cento degli spagnoli è ancora indeciso su chi votare, ma secondo Muller le ultime campagne a mezzo stampa potrebbero far proso. “Come accadeva in Sicilia negli anni Sessanta di fronte alla mafia”. L’osservazione non è banale né infondata ma forse fa l’economia di un passaggio. La svolta vera in Sicilia avviene quando Falcone ottiene da Buscetta la descrizione, corredata da prove, della mafia come organizzazione unitaria, ramificata ma gerarchica. Nel processo romano non c’è un Buscetta ma una intercettazione di Carminati che parafrasa Tolkien. Troppo poco per non rendere azzardata l’utilizzazione del 416 bis. Non si tratta di minimizzare l’inquietante realtà dell’intreccio criminale romano che, nel libro che Bonini ha scritto col giudice De Cataldo, è certo ben descritto. Ma fare un romanzo, o anche una inchiesta giornalistica, è cosa diversa dal portare a buon fine un processo. Purtroppo, per certi versi. Per fortuna, per altri e non irrilevanti. pendere più voti del previsto verso i puri e intransigenti di Podemos. “Con loro la Spagna sarebbe assolutamente diversa”, dice il giornalista. Da Madrid a Caracas il passaggio è d’obbligo. Nel 1996 Muller, cileno di nascita, dirigeva El Universal, tra i quotidiani più importanti del Venezuela. “Ho vissuto la parte finale della crisi del paese che ha aperto la strada all’arrivo di Chávez”. Proprio per questo, quando in Spagna nasce Podemos, Muller scrive un pamphlet dal titolo inequivocabile: “Deconstruyendo a Pablo Iglesias”. Ci sono delle connessioni evidenti. “E’ difficile provare che Podemos è finanziato dal chavismo”, dice, ma è vero che “i fondatori del partito sono stati nel libro paga di Chávez, incluso Pablo Iglesias”. “Ricordo ancora la notte elettorale di due anni fa, quando il partito conquistava cinque seggi al Parlamento europeo. Pablo Iglesias disse: ‘Por ahora no hemos alcanzado nuestro objetivo’ (al momento non abbiamo raggiunto il nostro obiettivo). Era la stessa frase che aveva pronunciato Chávez di fronte alla Camera subito dopo il colpo di stato. Un discorso che segna l’inizio del regime bolivariano”. Per questo, secondo Muller, quelli di Podemos “non sono semplici simpatizzanti: hanno seminato i germi del modello bolivariano. Sono fatti documentati”. Nel corso della campagna elettorale, però, Iglesias ha moderato il suo messaggio fino ad autodefinirsi socialdemocratico. “Un passaggio che non sappiamo se sia onesto o un mero artificio”, conclude Muller. Silvia Ragusa “VOI C’AVETE GOMORRA, NOI C’AVEMO GAD” C’è un nuovo incubo a Viale Mazzini: la trasformazione della Rai in Sky E ro lì che mi fumavo la mia bella sigaretta sulle scale antincendio lato via Pasubio quando vedo passare uno: bel tipo, snello, vestito moderno, abito skinny, sbarbato, capello in ordine, scarpa lucida. E mi dico: anvedi, questo sarà l’ennesimo esterno che hanno preso, perché conciato così di sicuro non è uno dei nostri. E insomma, non so perché, sai quelle cose che ti restano in mente – mentre cammino per tornare alla scrivania sto giusto pensando che devo chiedere al mio collega chi è questo nuovo quando mi ferma una ragazza: camicetta, fresca di messa in piega, sguardo seducente: “Scusa, tu ti ricordi se questa cosa riguarda My Rai o Rai on demand?”. Non faccio tempo a dire “ma che cazzo stai a di’” che riconosco la voce: “Scusa, ma tu non sei la ***?”. “E lei: “Sì, certo, perché?”. Mi appoggio al muro: la *** è una segretaria di Rieti che sino al giorno prima girava in ciabatte per il corridoio, soprannominata – un po’ grevemente, mi rendo conto – la scorreggiona. Non capisco, inizio ad agitarmi, corro nella mia stanza, spalanco la porta e racconto tutto al mio collega: del tipo con l’abito skinny, della *** vestita da sexy manager e delle cose in inglese che mi ha det- to. Lui – stupito – mi guarda e poi dice: “Guagliò, sta senz’ penzier”. Allora lì capisco, non ci vuole molto, tutti si sono già adeguati: siamo diventati Sky. Solo che stavolta reagisco: eh no, questa azienda ha una storia, una sua anima. Questi corridoi sono stati calpestati per sessant’anni da gente come me, gente semplice: con le grisaglie, i documenti da presentare in duplice copia, le vacanze in Abruzzo, la macchina presa a rate con le agevolazioni, la filiale di banca interna. Ora non è che possiamo trasformarci così: io ho capito che Campo Dall’Orto nostro (iddio lo abbia in gloria) viene da Mtv, da Milano, però a tutto c’è un limite. Decido quindi seduta stante che bisogna organizzare una resistenza: e da dove deve partire uno per organizzarla? Non è forse vero che le prime brigate partigiane si costituirono nelle Prealpi, laddove ardeva più forte il fuoco della Libertà? Così non ho esitazioni: corro subito al primo piano dove resiste ancora qualcuno dei Vianello boys che tengono le fette di porchetta nei cassetti e in macchina ascoltano Venditti, nonostante Dariuccia abbia imposto le nuove regole per cui ora tutte sono vestite come Audrey Hepburn e per i corridoi senti la musica dei Sigur Ros. “Regà: voi nun ce crederete…”, faccio per dire, ma trovo le guardie di rete che stanno perquisendo al muro uno dei Vianello’s: il vicino di scrivania si era accorto che al posto di guardare una puntata di “Making a murderer”, come previsto dal programma di rieducazione, stava guardando una partita degli europei mangiando pane e salsiccia. Il vicino krumiro ha cominciato a gridare: “Tu manciaaa!”, come il professor Birkermaier, e l’hanno catturato. “Cazzo”, mi dico, “forse è già tardi”. Così scappo, mi nascondo nei cessi, e sento due che parlano: “Semprini è bravo…”. Santo cielo, penso: siamo proprio all’invasione. “E poi Dariuccia va dicendo in giro che vuole un programma più tecnologico”. A quel punto, come un eroe partigiano della Brigata Garibaldi, esco allo scoperto: “Ennò, eh! Ma che cazzo state a di’! E Giannini? E le polemiche con Anza? Pure quelle ci volete togliere? Ma che ‘Ballarò’ è senza un corpo a corpo con Anza? Ma, dico: siamo matti? Questa è la Rai! Erre - a i!”. Quelli mi guardano, non si scompongono, e mi dicono: “Infatti non si chiamerà più ‘Ballarò’”. Questa è brutta, questa fa male, non me l’aspettavo, barcollo. Mi trascino agli ascensori gridando per il corridoio: “Ma che cazzo di Sky e Sky… pure l’Annunziata li ha mannati affanculo l’altro giorno”. Ma sono debole, sto perdendo le forze. “Forse a RaiSue”, penso, “forse da lì, dalla rete che fu di ‘Annozero’, si può provare a organizzare una resistenza, un qualcosa che non ci trasformi in quella robballà”. Si aprono le porte dell’ascensore e al piano trovo una gigantografia di Mika: “Ti aspetto su RaiDue”, c’è scritto. E’ troppo, ho capito: abbiamo perso. Mogio, torno alla mia scrivania. “Siamo Sky”, mi ripeto, “Siamo sky”. Apro il pc, forse anche io dovrei vedermi questo “Making a murderer”, non so. Poi vedo un titolo: “Viale Mazzini: il ritorno di Santoro”. Penso: non è possibile, premo compulsivamente F5: aggiorna, aggiorna, aggiorna. Invece è tutto vero. Torna Santoro. E poi l’apoteosi: torna Gad. Gaaaad, cazzo, Gad! Mi appoggio indietro allo schienale, respiro e sorrido. Cara Sky, non ci avrai. Voi c’avete Gomorra, noi c’avemo Gad. Anonimo Rai CONSIGLI PER NON PERDERSI LA BELLEZZA DELLE GALASSIE Il cielo è stellato sopra di noi, nonostante l’inquinamento luminoso M i è capitato un paio di volte di attraversare l’Atlantico di notte durante un viaggio aereo. Lo sanno tutti che non si possono aprire gli oscuranti dei finestrini per non disturbare la percezione giorno/notte, soprattutto in caso di attraversamento di fusi orari. Ma ho voluto sfidare l’hostess tedesca della Lufthansa. Si viaggiava di notte, saranno state le 3: vi prego, fatelo. Guardate il cielo dal finestrino. Uno spettacolo incredibile di stelle, migliaia di stelle. Poi è successo di tutto: l’hostess mi ha rimproverato fulminandomi con il suo sguardo tedesco e un paio di passeggeri si sono svegliati. Ma ne è valsa la pena. Ero nella condizione ideale: altezza di oltre 10 km e buio totale. Chi fa una crociera in mezzo al nulla avrà fatto un’esperienza simile. Che spettacolo il buio totale in contrasto con la volta celeste luminosa: senza la luminosità artificiale terrestre il cielo dà il meglio di se. Un po’ di anni prima – nel 1975 – Rino Gaetano cantava “Ma il cielo è sempre più blu” e non poteva certo immaginare che nel 2016 l’Italia sarebbe diventato il paese al mondo con più inquinamento luminoso, al- meno secondo il Nuovo atlante mondiale dell’inquinamento luminoso, di recente pubblicazione. Di notte il Bel Paese si illumina d’immenso. Per spiegare il fenomeno dell’inquinamento luminoso si può pensare a una analogia: tutti abbiamo ricevuto un sms alle 4 del mattino e siamo riusciti a leggerlo con grande fatica per gli occhi. Lo stesso principio per cui quando incrociamo una macchina con gli abbaglianti facciamo fatica a guidare, il campo visivo umano è “abbagliato”. Aggiungiamo un pochino di fattori: la qualità dell’aria, un paio di etti di CO2 e il gioco è fatto. Si però che palle. Ogni volta un nuovo inquinamento, non se ne può più. E dobbiamo pure pagare le bollette della luce. Come se non bastasse, c’è pure una giornata nazionale contro l’inquinamento luminoso. Quest’anno cade il 29 ottobre e ci saranno eventi organizzati in tutta Italia per far conoscere l’inquinamento luminoso e le normative per limitarlo. Ora non è che tutti siano nati come me nove mesi dopo l’uscita del singolo “Figli delle stelle”, o abbiano un cognome che ha a che fare con le Galassie. Non è che tutti guar- diamo il cielo, soprattutto in città. La maggior parte di noi passa il 75 per cento del proprio tempo a farsi abbagliare dallo schermo (pc, smartphone, tablet). C’è da dire che bisogna fare dei distinguo: gli scienziati fanno le medie a livello nazionale, un po’ come le proiezioni elettorali. Quindi ci sono zone incontaminate in tutta Italia, lontano dalle grandi città, per non parlare delle coste e delle montagne. Personalmente ho visto dei cieli stellati in Sardegna o in Salento da fare invidia alla Cristoforetti nello spazio. Dal vivo e da vicino gli oggetti celesti sono spettacolari e luminosissimi, ma data la distanza dalla Terra li vediamo in differita e con una luminosità molto bassa. Ogni oggetto del cielo ha una sua luminosità proporzionale alla sua energia (per semplificare pensate alle lampadine), in alcuni casi questa “energia” è fornita da altri (come il Sole con i pianeti). Quanta luminosità pensate che riesca a raggiungere i nostri occhi nel mezzo di città densamente abitate? La maggior parte dei cittadini italiani (soprattutto nei centri storici) a fatica riesce a scorgere alcune costellazioni. E la nostra Galassia? Ma si, la Via Lattea. Tutti abbiamo acceso uno zampirone a spirale per le zanzare: ecco, la via Lattea ha la forma di uno zampirone e noi ci troviamo all’interno di uno dei suoi bracci. Quasi tutti gli oggetti che si possono vedere a occhio nudo fanno parte della nostra galassia: una galassia come la nostra raggiunge facilmente un centinaio di miliardi di stelle. Son tante si, ma quante se ne possono vedere a occhio nudo? Con occhi sufficientemente buoni, all’incirca 6.000. E non tutte hanno lo stesso colore, dirò di più: pensate a un colore di una Converse All Star. Bene, per ogni Converse è possibile trovare una stella con quel colore. Con l’inquinamento luminoso ci siamo giocati quasi del tutto il colore delle stelle. Badate bene, non sono qui a rimproverare nessuno: mettiamo pure le lucine di natale sui balconi e giochiamo a calcio la sera con le luci. Ma d’altra parte un terzo della popolazione mondiale non vede più la Via Lattea e un europeo su due vede solo qualche costellazione. Parafrasando Rino Gaetano, “il cielo stellato è sempre più tabù”. Paolo Galati TRA LOTTERIA DEI RIGORI E RECORD DI BANALIT A’ Franza o Spagna? Al Bar del Foglio si pensa più all’Islanda che all’Italia Trastevere. Dopo la sconfitta a tratti imbarazzante degli Azzurri contro l’Irlanda siamo tutti Antonio Conte. Ma non per senso patriottico particolare – che c’è, sia chiaro, e BAR SPORT FOGLIO batte forte nei nostri petti – né perché particolarmente simpatetici con le sofferenze degli sconfitti (anche se sì, non ci dispiacciono quelli che talvolta la prendono in quel posto). Intervistato su Sky dopo l’infausta partita, il nostro Commissario tecnico si è lasciato sfuggire un “Forza Italia è meglio” che subito ci ha fatto sentire tanta nostalgia. Forti di questa certezza, aprima il Bar Sport alla vigilia degli ottavi di finale contro la Spagna, e ci chiediamo come finirà. E poché vogliamo essere banali fino in fondo, ci interroghiamo su chi sia la vera sorpresa dell’Europeo. La prima profezia è da grattata: 2-1 per la Spagna. Peduzzi però frena: “Solo una richiesta prima di partire. Ieri ho visto la prima partita di questi Europei: voglio sapere chi è il parrucchiere della Nazionale, subito”. Risponde l’esperto Gambardella: “Paola, è il mio stesso barbiere. Un giorno doveva farmi le meches. Il resto è cronaca degli ultimi anni”. Valensise sa tutto: “Paola di sicuro Roberto D’Antonio parr di Valeria Bruni Tedeschi Sabr Ferilli Santanché, amato anche da Pietrangelo”. Poi ecco la profezia: “Avendo indovinato la vittoria della penultima partita, e non essendomi espressa sull’ultima (che per l’appunto abbiamo perso) scommetto apotropaicamente che lunedi contro la Spagna vinciamo, tanto più che Lanfranco Pace ci ha appena spiegato tutti i motivi profondi della rivalsa. Dunque Olé e Tié…”. Pompili, romantica: “Ma non li ha già vinti l’Islanda questi europei?”. Valensise osè: “Se alludi al campionato orgasmatico del tifo sì”. Qualcuno però fa notare a Marina che “tolto il telecronista impazzito al 94’ il campionato orgasmico del tifo lo vince fisso l’Irlanda”. Cerasa torna a bomba sul pezzo, ispirato dalle note vicende: “Galles. Irlanda. Islanda. Il vento è cambiato. My dream: con la Spagna catenaccio orrendo e poi rigore rubato al 94’. La sorpresa sarà la Croazia”. Merlo la sa lunga: “Catenaccio è una di quel- PICCOLA POSTA di Adriano Sofri Era coccolata da tutti, dice un titolo. Era stata abusata più volte prima d’essere assassinata, dice una perizia. Le torture indicibili inflitte ai bambini, nelle loro case, nelle case dei vicini, nelle scuole, nelle chiese, negli innumerevoli parchi di giochi loro dedicati, improvvisamente vengono vomitate sulle cronache. Indicibili, alla lettera: non dette né dai torturatori né dalle piccole vittime. Si guarda ai bambini e ci si chiede che cosa sanno che non possono dire, che non vogliamo sentire. le parole italiane che nel mondo conoscono tutti. Vendetta, pizza, Ferrari e… Catenaccio”. Pompili è certa che “comunque la Spagna merita di perdere. Ma per questioni politiche”. Matzuzzi sbadiglia: “Sono talmente noiosi questi europei che a innescare la scintilla ci ha pensato Collina, decidendo che Galles-Irlanda del Nord sarà diretta da un inglese di Bradford (Yorkshire). Una cosa mai vista e potenzialmente più devastante di una serata alcolica tra russi e croati”. Capone sogghigna: “Con la Spagna partiamo sfavoriti, siamo molto più scarsi. Ma a questo giro gli spagnoli sono fiacchi e, un po’ come suggerisce il panorama politico iberico, incerti e divisi. Unidos Podemos!”. E prima che Capone possa dirci che la Germania è da tenere d’occhio (chissà perché, poi), da Mediaset irrompe Giuseppe De Filippi, divinatorio: “Vince l’Ungheria e vi invito tutti a cena con gli 800 euro che incasso (contro 10?). Giocata nostalgica, anni Trenta”. Ce lo segniamo tutti, De Filippi insiste: “Correggo, se vince Ungheria ne prendo 4000 mentre 800 con Italia o Croazia. L’arbitro di mercoledì comunque facciamocelo ridare”. “L’arbitro di mercoledì è appena stato rimandato a casa, comunica l’Uefa con una nota ufficiale che neanche al Quirinale avrebbero scritto”, fa notare Matzuzzi. Rizzini ha pensato a lungo alla domanda iniziale di Peduzzi: “Dai Paola, stavolta quelli che hanno giocato (diversi dalle altre volte?) sembravano pettinati meglio. I tatuaggi anche mi paiono in aumento. Con la Spagna? Ottimismo della volontà”. Antonucci persino ottimista: “Ce la giochiamo, finiamo ai supplementari o ai rigori…”. Attimo di silenzio, tutti sperano che non lo dica. E invece: “…e lì poi è una lotteria”. Valensise attacca le scommesse di De Filippi: “Ma noi qui al massimo scommettiamo una virgola, un avverbio, un punto esclamativo: comunque l’importante è farti dimenticare il golf e relativo handicap”. Lui non ci sta: “Sei pazza?? Si parla solo di golf, anche quando si parla di calcio”. Battistuzzi ci rinuncia: “Scusate, ma dopo la partitaccia di ieri ho deciso che guardare questi Europei è tempo sprecato. Lunedì, essendo a Rouen inizierò a bere Calvados a mezzogiorno per affrontare al meglio il prepartita come Jack insegna. Dato che giochiamo alle 18 ho tutto il tempo per vedere doppio”. Valensise non perdona: “A Rouen allora tifa Islanda così magari vai ai quarti con la Fra e vedi che campionato da tifo orgasmatico”. Parodi scroccona: “Mi dispiace dirlo, ma ho la sensazione che vincerà la Spagna, anche se li faremo sudare. Per consolarmi, spero che i miei vicini di Madrid mi invitino a mangiare la paella con loro. I bambini del piano di sopra invece (di cui non oso mettere in dubbio l’autorità in materia) dicono che alla fine l’Islanda ci spiazzerà tutti”. L’alcol è finito, il Bar sta per chiudere. Ma c’è tempo per l’ordinazione di Ferrara: “Vojo fa’ proprio lo stronzo, er banale, er saviano: Franza o Spagna purché nun se li magna. Baci”. (pv) E Barca? Alla ricerca dell’ex “moralizzatore” pd, con la sezione Giubbonari oscurata da Juan Carlos di Spagna Un fantasma s’aggira per la Roma post-voto, nei giorni dell’insediamento del neo-sindaco a Cinque stelle Virginia Raggi (non CAMPO DE’ FIORI “sindaca”, ha detto Raggi al culmine del dibattito linguistico, a differenza della collega torinese Chiara Appendino, che ha scelto la versione al femminile dell’appellativo). Un fantasma s’aggira per le lande angosciate del Nazareno, ma non è l’ex avversario di Raggi ed ex candidato dem Roberto Giachetti, ieri inedito in versione “lanciafiamme” (“il Pd ha toccato il fondo”, ha detto in un’intervista al Messaggero). No: nel momento della resa dei conti nel partito, tra un’accusa e l’altra, con Romano Prodi e Massimo D’Alema a orchestrare dall’esterno la critica, e il ministro della Funzione Pubblica Marianna Madia a orchestrare dall’interno l’autocritica (“siamo stati rottamati dai cittadini”, ha detto a Repubblica), ci si domanda dove mai la città abbia nascosto, a livello di dibattito politico, Fabrizio Barca, ex ministro della Coesione territoriale nel governo Monti ed ex autore di viaggi in Italia anche conosciuti sotto il nome de “La traversata”, (ed. Feltrinelli) saggio su “un’altra idea di partito e governo” da diffondere a suon di “mobilitazione cognitiva” e “piattaforme dei luoghi ideali”, ma al netto del “catoplepismo”. Non solo: Barca è anche e soprattutto l’ex moralizzatore del Partito democratico post Mafia Capitale, l’uomo incaricato dal commissario e presidente pd Matteo Orfini della “mappaturacircoli” che tanto fece arrabbiare i circoli, non contenti di vedersi suddivisi in categorie con graduatoria in negativo (c’erano infatti i circoli disfunzionali per via dell’attitudine a inseguire il “potere per il potere”, quelli in cui si mettevano davanti “gli interessi particolari” e quelli “inerti” ma “catturabili”, cioè scalabili dall’esterno). E insomma, un anno fa, alla presentazione della relazione-Barca, si apprese che, su 108 circoli del Pd, ventisette erano considerati “dannosi” e a rischio chiusura in quanto ricettacolo di vizi, primo fra tutti la promozione di una certa “fedeltà di filiera”. D’altronde Barca, nell’aprile 2013, in un altro brutto momento per il Pd (elezioni Politiche vinte soltanto di misura, e conseguente palude), si era iscritto al partito nella storica sezione Giubbonari (Campo de’ Fiori per ubicazione, Weltanschauung e sostanza), che è come dire il Circolo dei Circoli. Al confino, su Twitter E ieri, mentre Roberto Giachetti, dal Messaggero, nominava l’ex ministro per dire che sì, “il lavoro di Barca e il commissariamento hanno inciso” sul Pd, ma “non abbastanza”, parlando quasi come un Barca al quadrato (“…ricominciamo dai comitati di quartiere, dalle reti dei cittadini senza piangerci addosso e facendo tesoro delle cavolate fatte in passato…”, diceva Giachetti), il Barca d’antan restava confinato al suo pur attivissimo account Twitter. Né i romani che si fermavano a leggere l’Unità fuori dalla sezione suddetta, ieri pomeriggio, parevano preoccuparsene (alla domanda “scusi ma lei sa che fine ha fatto Fabrizio Barca?”, il signor Gianni Altieri, elettore pd non iscritto né alla sezione-circolo Giubbonari né altrove, rispondeva “di non averne idea”. E la signora Anna, fermatasi a leggere un articolo sul M5s e il Pd in Sicilia, iscritta in un circolo più periferico, diceva “i problemi ora sono altri”). La sezione Giubbonari se ne restava lì, come tutti i giorni, con la porta aperta e due sedie fuori, mentre il fantasma di Barca (e della “mappatura circoli” che non era bastata a evitare il crollo) appariva lontano, e nella via Giubbonari medesima si diffondeva, incontrollata, la voce che re Juan Carlos di Spagna, la sera precedente, fosse stato a cena al Ristorante Salumeria Roscioli (centro metri più avanti). E pareva tutto un malinconico segno dei tempi. Marianna Rizzini PREGHIERA di Camillo Langone Uber, risparmiami l’imbruttimento automobilistico delle città italiane, delle mie amate capitaline, Parma, Mantova, Modena, Lucca, e pure di Verona e di Firenze e di chissà quante altre preziose città d’arte deturpate dai taxi impestati di pubblicità, sporchi di scritte come treni della Circumvesuviana. Uber, trova il modo di sbarcare in forze nelle piccole e medie città italiane, perché i tassisti abusivi o presunti tali sono più decorosi dei tassisti legali: le vetture Uber mi risultano essere in tinta unita e spesso scure… Le corporazioni dei tassisti, con le loro macchine nella migliore delle ipotesi color lavatrice, vengano espulse dai centri storici per indegnità cromatica. O almeno consentano al cliente la scelta fra un taxi impestato e un taxi dalle fiancate pulite. A Modena, ed ero davanti al Palazzo Ducale mica alla Bruciata, mi è capitato un taxi con scritto “Bingo Globo. Sala bingo e slot machines” e ho preferito andare a piedi perché salendoci sarei divenuto complice di bingo e slot. Uber, ti prego, migliora esteticamente un settore inguardabile. ANNO XXI NUMERO 148 - PAG 3 IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 24 GIUGNO 2016 EDITORIALI LA PROSSIMA BREXIT STRATEGY Cosentino è un camorrista o un Corona? Dalle “exit” al Ttip, 32 nuovi referendum europei scuotono l’Ue Condanna rapida per l’iPod in cella, niente sentenze sulla ciccia F inalmente è arrivata la prima tanto attesa condanna di Nicola Cosentino. Dopo quasi dieci anni di indagini sul riciclaggio di soldi e rifiuti, inchieste sui rapporti con il clan dei Casalesi, accuse di favori alla criminalità in cambio di voti, di estorsione e concorso esterno in associazione camorristica, il malacarne Nick ’o ’mericano ha subìto una condanna in primo grado a 4 anni di reclusione. La sentenza però non riguarda nessuno dei processi per cui è agli arresti ormai da quasi mille giorni e di cui si attendono ancora le sentenze di primo grado, ma proprio il suo comportamento da carcerato preventivo. Cosentino è stato condannato per la corruzione di un agente penitenziario al fine di poter ricevere in cella benefit non previsti, come cibo, abiti e un iPod per ascoltare la musica. L’ex sottosegretario all’Economia del Pdl era entrato nel carcere di Secondigliano nel 2014 e l’anno successivo, dopo il ritrovamento dell’apparecchio musicale durante un’ispezione, viene trasferito al carcere di Terni con il divieto di incontrare la moglie (anch’ella condannata per la stessa vicenda). Poi Cosentino viene mandato ai domiciliari in Molise (ma lontano dalla famiglia), dopo un altro anno, e fanno due, di carcerazione preventiva, che gli è servita a fargli meritare una condanna. Degli altri quattro processi, quelli per cui l’avevano messo in galera e ora ai domiciliari, sul monopolio nella distribuzione di carburante dell’azienda di famiglia e sulla collusione con i Casalesi, ancora non si sa nulla. Descritto come l’amico dei boss che ha fatto entrare la camorra nelle istituzioni, per adesso è solo un Fabrizio Corona che ha fatto entrare un iPod in cella. I 5 stelle sono il nuovo Zentrum! Sorrisi La loro vittoria rilancia il ’94 del Cav., dice il Giornale. Sogni a destra L a politica ha sempre bisogno del colpo d’ala della fantasia. Specialmente nel centrodestra, specialmente in questi tempi confusi e con il Cavaliere in convalescenza e in cui tanti, nel centrodestra, sembra non ricordino nemmeno più cosa fu la cavalcata del ’94. Renato Farina, gran penna della Prima, della Seconda e presumibilmente della Terza Repubblica se la ricorda benissimo. Ma certe volte il colpo d’ala vale di più. Sul Giornale di ieri, tirando a lucido la linea già tracciata dal direttore Sallusti, ha scritto della “marcia al centro dei Cinque stelle”, “un centro che non ha nulla della palude, ma semmai riprende il Zentrum cattolico che caratterizzò la ripresa tedesca dell’800, fatto di attenzione sociale e morale”. E se i Cinque stelle hanno affascinato l’opinione pubblica da bar e molto elettorato ex centrodestra (da sempre sensibile al bar) è perché non c’è più il “vaffa”, ma pure loro vendono sogni: impossibili ma rassicuranti. Certo, non è un “endorsement tardivo”, anzi è l’allarme per un incauto elettorato del centrodestra che ai ballottaggi ha contribuito, senza nulla in cambio, a “creare un mostro politico apparentemente invincibile”. Ma se la nuova invincibilità deli (ex?) grillini sta nell’effimera sostanza dei sogni, allora secondo Farina (e forse anche Sallusti), “torna straordinariamente di attualità lo spirito berlusconiano che punta al buono e al bello, prima che urlare contro il nemico. Il ’94 azzurro fu così”. Che sarebbe un bel colpo d’ala di fantasia, se soltanto assomigliasse alla realtà. Alla realtà di un centrodestra che invece da molto tempo strizza l’occhio all’antipolitica, e regala voti al nuovo Zentrum di Virginia Raggi. Perché Confindustria dice sì al referendum Boccia supera il primo voto di fiducia, gli associati sono con Renzi I l presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha superato la prima prova di fiducia del Consiglio generale, chiamato a esprimersi sul referendum costituzionale di ottobre. Il Consiglio ha votato a favore della principale riforma istituzionale del governo Renzi appoggiando la linea già espressa da Boccia in sostegno del “sì” al referendum più importante d’Europa dopo quello sulla Brexit. I rappresentanti dei grandi associati hanno assecondato il presidente all’unanimità dei votanti in un’assise segnata da assenze non straordinarie (120 presenti circa su 198 componenti, assente il 40 per cento). Alla vigilia si ventilava una fronda da parte della corrente che nella corsa elettorale sosteneva lo sfidante di Boccia, Alberto Vacchi – a quanto pare non c’era nulla di organizzato in tal senso visto che ieri parte dell’opposizione era rappresentata. Non solo: alcuni esponenti delle territoriali “vacchiane” sono stati nominati nei comitati tecnici, sanando così una potenziale frattura. I critici dicevano di non avere interesse a esprimersi su una questione politica divisiva, rivelando di non condividere con i vertici confindustriali la passione per i contenuti della riforma che migliorerebbero il clima per l’impresa; vedi soprattutto la riduzione del potere di veto delle regioni in materie concorrenti. Nel 2006 Montezemolo non appoggiò la riforma costituzionale di Berlusconi, condivisa solo in parte. Confindustria è per ora l’unica associazione di attori economici ad appoggiare Renzi nella sua battaglia, confermando tale postura anche dopo l’esito deludente delle amministrative. Boccia ha superato un voto che si preannunciava sfavorevole, potrà rivendicarlo. La presidenza imperiale di Obama Il presidente spaccia per xenofoba una sentenza sull’abuso di potere O rfana di un giudice, la Corte suprema americana si è divisa a metà a proposito delle misure, varate due anni fa da Barack Obama con una serie di ordini esecutivi, che avrebbero protetto dall’ordine di rimpatrio milioni di immigrati clandestini che rispettano le leggi e hanno una vita in America. Il pareggio 4-4 ha rimandato il caso alla decisione della Corte d’appello di New Orleans, che si era espressa contro la manovra del presidente, invocando un abuso del potere esecutivo. Per Obama è una sonante sconfitta politica, aggravata dal fatto che con l’ascesa di Donald Trump l’immigrazione è diventata uno dei temi dominanti della campagna elettorale, cosa che non era immediatamente prevedibile al tempo degli ordini di protezione. Un irritato Obama ha parlato di una decisione “frustrante per coloro che lavorano per la crescita economica e sperano di portare razionalità nel sistema d’immigrazione”, un pronunciamento “che spezza il cuore ai milioni di immigrati che si sono fatti una vita qui”. Non c’è nulla di più facile che rappresentare la disputa come uno scontro fra i buoni che favoriscono l’immigrazione misericordiosa e i cattivi che vogliono il muro al confine con il Messico. Il fatto, però, è che la decisione del tribunale e la (non) decisione della Corte suprema non parlano dell’immigrazione, ma della divisione dei poteri. Ciò che stabilisce è che il presidente non ha il potere di emettere ordini del genere se non invadendo le prerogative del Congresso, cioè dei legislatori eletti dal popolo. Ma Obama, si sa, preferisce il modello della “presidenza imperiale”, con le toghe imparziali ridotte ad ancelle del potere esecutivo. (segue dalla prima pagina) La contabilità dell’Ecfr dice che i “partiti della rivolta” – nuovi e vecchi populisti che vanno dall’estrema destra all’estrema DI DAVID CARRETTA sinistra – stanno chiedendo 32 referendum su questioni che hanno a che fare con l’appartenenza del loro paese all’Ue. A voler imitare il Regno Unito con un voto popolare sulla exit totale dall’Europa sono in tanti: il Front national e il Partito comunista in Francia; Alternative für Deutschland in Germania; il Partito della libertà di Geert Wilders in Olanda; la Lega nord in Italia; i comunisti del Kscm, i libertari del Partito dei cittadini liberi e i fascisti della coalizione Alba nazionale in Repubblica ceca; i Democratici svedesi in Svezia; il Partito del popolo danese in Danimarca; il Vlaams Belang fiammingo in Belgio; i nazionalisti di sinistra di Ataka in Bulgaria, i neonazisti del Jobbik in Ungheria; la destra del Partito conservatore del popolo in Estonia. I tedeschi di Afd vogliono anche un referendum sull’uscita dall’euro, come il Movimento 5 stelle (non conteggiato nella ricerca dell’Ecfr). I portoghesi del Blocco di sinistra (che sostengono il governo di minoranza del socialista António Costa) lo chiedono sul Pat- to di stabilità. Il referendum sull’allargamento è un tema prediletto degli austriaci della Fpö, il Fronte patriottico bulgaro si limita alla Turchia, mentre fiamminghi e tedeschi vogliono imitare il Pvv di Wilders sull’accordo di associazione con l’Ucraina. Altro tema alla moda è l’immigrazione (interna o esterna all’Ue), con un partito di governo, il Fidesz del premier ungherese Viktor Orbán, che intende far votare i suoi cittadini sulle quote per ripartire i richiedenti asilo. Il Ttip è in cima alla classifica dei referendum proposti dai populisti di estrema sinistra. Gli spagnoli di Podemos sono una minaccia per via del referendum sull’indipendenza della Catalogna, che potrebbe innescare una valanga di secessioni nazionali con richieste di adesione all’Ue. Le ultime elezioni presidenziali in Austria, con la vittoria per 30 mila voti del verde europeista Alexander Van der Bellen sull’euroscettico della Fpö Norbert Hofer, dimostrano che anche i voti puramente nazionali si stanno trasformando in referendum sull’Ue. In Spagna domenica è Unidos Podemos che rappresenta il campo della rivolta, con il suo leader Pablo Iglesias che potrebbe rivendicare il posto di primo ministro dopo aver superato i socialisti del Psoe nei sondaggi. Il calendario elettorale del 2017 è ricco di occasioni per rivendicare referendum: politiche in Olanda en- tro marzo (con il Pvv di Wilders in testa nei sondaggi), presidenziali e Assemblea nazionale in Francia ad aprile e maggio (con il Front national di Marine Le Pen che al primo turno potrebbe arrivare in testa) ed elezioni federali in Germania in autunno (con Afd al 15 per cento e la grande coalizione Cdu-Spd sotto il 50 per cento). Come ha già fatto, Le Pen avrà gioco facile a presentarsi come “il difensore della libertà dei popoli di disporre del loro destino” e accusare i suoi rivali di appoggiare un’Ue “totalitaria” perché è da “11 anni che i francesi non sono interrogati”. A forza di sentire evocare referendum, le opinioni pubbliche si stanno convincendo che è necessario. Un sondaggio del Monde di marzo dice che il 53 per cento dei francesi vorrebbe esprimersi sulla “Frexit”. In Olanda è il 54 per cento, secondo una ricerca più recente della televisione pubblica. Almeno i referendum hanno un effetto chiarificatore. Il premier populista di Syriza, Alexis Tsipras, è stato costretto a una clamorosa marcia indietro sul suo referendum dello scorso anno, dopo aver capito che la “Grexit” avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per la Grecia. Ma fino a quando non ci sarà un incidente vero, senza espedienti giuridici o politici per rientrare dalla finestra, l’Ue rimarrà esposta allo tsunami del populismo referendario. Brand e politica estera. La Brexit vista dal golf club di Trump (segue dalla prima pagina) L’opera di persuasione del popolo scozzese era una specie di prova generaMATTIA FERRARESI le, fatta non a caso nel paese della madre di Trump, che veniva dalle depresse isole Ebridi e aveva una particolare ammirazione per la corte britannica. E’ una specie di “dreams from my mother” in versione scozzese e golfista. Di solito i candidati alla Casa Bianca fanno viaggi all’estero in campagna elettorale per aumentare la loro credibilità internazionale, ma Trump recita la sua parte seguendo il canovaccio dell’outsider di suc- cesso, non quello del politico “all talk, no action”. E sullo sfondo, naturalmente, c’è la Brexit. La Reuters qualche giorno fa scriveva che la Brexit è “il trumpismo senza Trump”, un mix nostalgico-xenofobo, e al netto delle semplificazioni transatlantiche e delle notti in cui tutti i populismi sono neri, il candidato agita temi generali che sono affini agli istinti del fronte del “leave”. La logica nazionalista, il disprezzo viscerale per le istituzioni internazionali, dalla Nato a Bruxelles – sono strumenti nelle mani dell’odiata ideologia globalista – l’inclinazione verso la protezione, che si declina nell’imposizione di dazi per proteggere la produzione interna e nell’innalzamento dei muri per scorag- giare l’immigrazione, tutte queste cose sono in qualche forma rappresentate in un referendum ad alto coefficiente simbolico. Per Trump non c’è luogo più adatto di un campo da golf in Scozia per accogliere la decisione della Gran Bretagna, e il messaggio politico vale a prescindere dall’esito del referendum. Alla vigilia del viaggio che confonde gli alleati in patria e ha l’aria di una stravagante perdita di tempo è arrivato anche l’endorsement di Donald Rumsfeld, ovvero l’appoggio della più importante tra le figure del Partito repubblicano dei Bush. Giocando sulla sua famosa distinzione logica fra il noto e l’ingnoto, Rumsfeld ha detto che Trump è un “known unknown”, cioè qualcosa che sappiamo di non conoscere: “Sono molto più a mio agio con un ‘known unknown’ a cui darò il mio sostegno che con un ‘known known’ che è inaccettabile”, ovvero Hillary Clinton. In linea di principio, ha spiegato Rumsfeld, “sono d’accordo con l’idea di riformare la Nato” e ha manifestato sostegno anche per la sospensione del flusso di migranti dalla Siria verso gli Stati Uniti. L’ex segretario della Difesa non arriva a dire, con Trump, che la Nato è “obsoleta”, ma ha incaricato una persona del suo staff di mettere a confronto ciò che il candidato ha effettivamente detto sull’Alleanza atlantica e quello che i media hanno riportato. Le due versioni, dice, sono molto diverse fra loro. Twitter @mattiaferraresi Anche tra i media inglesi inizia oggi un regolamento di conti (segue dalla prima pagina) La scelta del Times è stata molto discussa perché riguarda soprattutto il ruolo di Rupert Murdoch nella politica inglese. Da DI PAOLA PEDUZZI un punto di vista strettamente editoriale la spiegazione è chiara: i lettori del Times sono più metropolitani ed eurofili rispetto ai lettori del Sun, il tabloid del gruppo News Corp., che infatti non ha mai segnalato alcuna cautela – non è nella sua natura – e anzi ha inaugurato la stagione degli endorsement facendo tremare il fronte del “remain”. Il nuovo numero dello Spectator, magazine conservatore che si è schierato per il “leave”, segnala al di là del risultato del referendum (è uscito ieri) che esiste una frattura enorme all’interno del paese, ed è quella che divide l’élite metropolitana dal resto del paese. E’ la stessa frattura che si è vista durante la campagna sintetizzata dall’espressione “Establishment vs People”, che riguarda come si sa non soltanto il Regno Unito e che continuerà a farsi sentire anche oggi che pure c’è il verdetto sulla Brexit. Sky News, che è sempre del gruppo di Murdoch, è stata invece più in linea con l’atteggiamento del Times senza schierarsi in modo troppo smaccato. Naturalmente la domanda è: c’è qualche strategia in corso in casa Murdoch di cui ancora non si conoscono i contorni? La risposta non è ancora stata trovata, è troppo presto, ma di certo al momento la chiacchiera più grande è quella che riguarda la presenza del neosindaco di Londra Sadiq Khan al cocktail estivo che la settimana scorsa Rupert Murdoch ha tenuto a Londra: il laburista musulmano a casa dello Squalo? A molti suoi compagni di partito devono essere venuti i capelli dritti, ma si sa che Khan non è considerato un alleato sicuro e fedele dalla leadership del Labour: quando era in campagna elettorale per Londra, Khan si è tenuto il più possibile distaccato da Jeremy Corbyn (pur avendo contribuito alla sua nomina) e quando era in campagna referendaria per il “remain” si è presentato su un palco assieme al premier conservatore David Cameron, cosa che Corbyn non si è mai sognato di fare (soltanto l’uccisione di Jo Cox ha unito i due leader nel cordoglio). Se inizia una nuova fase di assestamento della politica britannica dopo il tormento referendario, anche nei media le ripercussioni si sentiranno. E’ stata siglata una petizione – ci sono già 50 mila firme – contro il direttore del Daily Mail, Paul Dacre, personaggio istrionico e influente, per come ha trattato i temi più importanti del referendum, in par- ticolare l’immigrazione. Lo chiamano “il Nigel Farage dei giornali”, dicono che ha fatto titoli estremi e in parte falsi, che hanno aumentato la brutalità del dibattito. Il tabloid risponde dicendo che si è limitato a raccontare un sentimento molto presente nel paese, ma anche qui il regolamento di conti deve ancora cominciare. Con un piccolo dettaglio: l’edizione domenicale del Mail si è pronunciata a favore del “remain”, sottolineando ancora una volta la frattura esistente nel paese. A confondere ancora più un contesto già affaticato da mesi di urli, c’è stato anche il mondo dei social che, secondo le analisi, è sempre stato molto più a favore del “leave”. Essendo i social uno strumento ben più volatile rispetto ai media tradizionali – che rispondono a editori e lettori – è facile immaginare che la turbolenza si calmerà più in fretta, fermo restando che come spesso accade la percezione della realtà è condizionata dall’attualità e che, soprattutto sui social, c’è poca memoria storica. Chi ha votato anche nel 1975, l’ultimo referendum europeo del paese, sostiene che oggi, in confronto ad allora, i toni sono molto più delicati. Per gli osservatori sembra impossibile, e non fanno che ripetere che tornare a una maggiore moderazione è un imperativo a cominciare da adesso. Il populismo è come un’anestesia, a un certo punto ci si sveglia (segue dalla prima pagina) Il trend in Europa e negli Stati Uniti come si sa è totalmente l’opposto: la campagna referendaria inglese ha portato molti altri paesi a interrogarsi sul proprio ruolo in Europa e le rilevazioni sull’opinione pubblica rivelano una stanchezza nei confronti del modello capitalista, non certo riguardo ai populisti. Il successo di Donald Trump nelle primarie americane repubblicane non ha fatto altro che confermare la sensazione che tutti gli schemi adottati finora siano saltati. C’è la tendenza a non farsi dare troppe lezioni dai paesi sudamericani, ma le argomentazioni di Rathbone sono convincenti (e alimenta- G ià prima della ricorrenza centenaria, anche l’escursionista estivo, l’alpinista per caso cui non siano sfuggiti qua e là sulle cime delle Dolomiti, sulla Marmolada o l’Adamello certi residui della Grande guerra – segni e testimonianze di un’ardita presenza arroccata su un picco, di un improbabile avamposto, di un rifugio scavato nella roccia – fermandosi un momento sotto il cielo più azzurro, si sarà chiesto stupito “ma come avran fatto?”. Come avranno fatto quei soldati, italiani o austriaci, non solo a combattere e morire, ma a vivere e sopravvivere fin lassù, ad arrivarci con i loro zaini, le armi, l’equipaggiamento. E a essere in tanti, una massa che in pochi mesi popolò quei territori. E a sopportare il freddo d’inverno, che vuol dire notti col termometro a dieci, quindici, venti gradi sotto zero, e la neve fuori alta tre o quattro metri. Quei soldati – semplice dirlo ora – avevano dovuto conquistare, prima della vittoria, la montagna. Montagna “bieca, arcigna, inflessibile”, scriveva nel 1916 un ufficiale italiano. Come fecero, che cosa comportò la “guerra verticale” per gli uomini, gli animali e le cose, per gli eserciti che misero in campo nuove tecniche e nuovi saperi e per lo stesso spazio-paesaggio alpino, lo spiega con l’esattezza dei dati e dei documenti e con l’agilità del racconto appassionato il volume di Diego no la speranza che non tutto sia perduto, speranza di cui c’è grande fame). Il risveglio moderato è stato rapido – sei mesi – ed è stato indotto da due fattori: prima di tutto il collasso del Venezuela, “lo specchio in cui tutta la regione si riflette restando inorridita da quel che vede”, scrive Rathbone. Quando il Venezuela è entrato nel dibattito elettorale spagnolo – si vota domenica – per i legami tra Unidos Podemos e Caracas, il leader di Ciudadanos Albert Rivera ha detto: “Se vogliono importare quel modello, devono spiegarci bene il perché”. Non c’è nulla di così potente come un esempio tanto negativo. Il secondo fattore del risveglio è stata la consapevolezza che molti governi andati al potere per aiutare i più poveri e LIBRI Diego Leoni LA GUERRA VERTICALE Einaudi, 576 pp., 36 euro Leoni, compendio di trent’anni di studi e ricerche sulle carte d’archivio, la pubblicistica degli anni del conflitto e la grande mole della memorialistica. In quota, dunque, sempre più in alto, ma una volta fatti arrivare gli uomini, si doveva portare fin lassù l’acqua (perché era “un arsimento continuo” e soffrire la sete fu più frequente e feroce di quanto si possa immaginare) e con l’acqua gli alimenti per gli uomini e gli animali, il vestiario, gli attrezzi, le armi (“non vi fu parete di montagna, nessun monte, nessun ghiacciaio, nessuna valle alpina dove non siano stati issati cannoni”, scrisse poi un ufficiale austriaco). Bisognava costruire baraccamenti e tettoie, predisporre assi per le trincee, pali per il filo spinato, sostegni per le linee telefoniche ed elettriche. Per portare in quota tutto questo servivano uomini, animali e mezzi che avrebbero avuto bisogno di strade e sentieri, e per fa- proteggerli dall’irresponsabilità di multinazionali e banche – dei capitalisti – si fossero rivelati invece corrotti e più attenti ai loro interessi che a quelli degli elettori. Quando questo è stato chiaro, come dice un commentatore argentino, l’egemonia politica del populismo – lui parla del modello Kirchner in Argentina – è stata “mandata a terra con un pugno”. La reazione non è stata sempre moderata: la piazza brasiliana per esempio è contenta di vedere intoccabili andare in prigione, così come in Colombia c’è stata una sollevazione quando una legge contro l’assenteismo al Congresso non è passata perché non si sono presentati abbastanza parlamentari a votarla. Ma sempre nella piazza brasiliana, sottolinea Rathre questo servivano, in un sistema che si autoproduceva all’infinito, altri uomini, animali e mezzi che li costruissero. Per il trasporto, all’inizio delle ostilità risultò insostituibile la forza animale: asini, muli, cavalli e perfino i cani in quantità. Soffrirono, senza combattere, anche gli animali: da parte italiana si contarono 76 mila perdite su un totale di 350 mila quadrupedi impiegati. Poi arrivarono le macchine: gli autocarri e le teleferiche, che si rivelarono fondamentali nella gestione logistica della guerra in quota, ma anche nuovi motori in grado di spingere l’acqua sempre più in alto, e una rete impressionante di acquedotti. “Quel che hanno costruito i soldati sui seicento chilometri del nostro fronte asprissimo, supera ogni concezione”, scriveva il tenente Michele Campana. Costruzione e distruzione, infine, perché “gli eserciti si impadronirono dello spazio alpino, lo scomposero e lo ricomposero”. Così lo vide nell’agosto del 1919 Alcide De Gasperi, rientrato da poco in Trentino: “Tutte queste montagne mostrano dappertutto ancora i solchi profondi che la guerra ha scavato fin dentro la loro ossatura, le lacerazioni della loro veste di verzura, gli schianti delle loro foreste”. E aveva appena alzato lo sguardo da quello che era stato un avamposto italiano, lì dove giacevano “ancora a brandelli alcuni cadaveri”. bone, si sentivano più cori di chi diceva “più Argentina meno Venezuela”, indicando che la strada moderata di Buenos Aires, con l’elezione di Mauricio Macri, è apprezzata (certo nessuno vorrebbe diventare come il Venezuela). Rathbone lascia la conclusione della sua lunga analisi a Gabriela Michetti, vicepresidente argentina, che dice: “Il populismo genera una certa anestesia. E’ una patologia sociale in cui la gente preferisce vivere una realtà che non è reale, è falsa”. Quest’anestesia collettiva sta svanendo in Argentina, dice, ma “ancora abbiamo bisogno di una storia epica da raccontare, di una visione”. E’ così che il populismo si stanca. Twitter @paolapeduzzi IL FOGLIO quotidiano Direttore Responsabile: Claudio Cerasa Condirettore: Alessandro Giuli Vicedirettori: Maurizio Crippa e Marco Valerio Lo Prete Coordinamento: Piero Vietti Redazione: Giovanni Battistuzzi, Annalena Benini, Alberto Brambilla, Eugenio Cau, Mattia Ferraresi, Luca Gambardella, Matteo Matzuzzi, Giulio Meotti, Salvatore Merlo, Paola Peduzzi, Giulia Pompili, Daniele Raineri, Marianna Rizzini. 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ISSN 1128 - 6164 www.ilfoglio.it e-mail: [email protected] ANNO XXI NUMERO 148 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 24 GIUGNO 2016 La Giornata I colpevoli fino a prova contraria. Idea per Renzi sul referendum * * * In Italia GUERINI: “BASTA CON QUESTO DIBATTITO SURREALE SUL PD”. Il vicesegretario del Partito democratico, Lorenzo Guerini, ha chiesto “più sobrietà nelle dichiarazioni” commentando l’invito rivolto dal ministro Madia al commissario del Pd a Roma, Orfini, a dimettersi dall’incarico. “Inviterei a finirla con questo dibattito sul post elezioni di Roma: lavoriamo per ripartire, più che discutere tra di noi e su noi stessi”, ha chiosato Guerini. “Sono d’accordo con il compagno Speranza, come si diceva una volta. Il voto così negativo non può non apire una pagina nuova del Pd”. Così Vasco Errani durante la riunione della minoranza dem. * * * Quaranta interventi nel Canale di Sicilia sono stati condotti ieri dalla Guardia costiera locale per portare in salvo 4.400 migranti. Nelle ultime ventiquattro ore, ammontano a cinquemila le persone soccorse. * * * Quasi deserto l’aumento Veneto Banca. L’aumento di capitale è stato sottoscritto dai soci per solo il 2,2 per cento del controvalore totale di un miliardo di euro. Il mercato non si aspetta reazioni nemmeno dagli investitori istituzionali. Probabile l’intervento del fondo Atlante. “Non c’entriamo niente, abbiamo svolto un intervento di agevolazione della comunicazione tra due realtà molto conflittuali”, ha detto il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco sulla mancata fusione tra Veneto Banca e Popolare di Vicenza. * * * Erdemir si sfila dalla gara per Ilva. Ali Pandir, mananging director del gruppo siderurgico turco, ha detto che “non si hanno informazioni abbastanza solide” in vista dell’offerta del 30 giugno. Erdemir fa parte della cordata ben vista da Cassa depositi e prestiti per soccorrere l’acciaieria italiana. Al direttore - E quindi, niente: è #Madiacapitale. Giuseppe De Filippi Al direttore - La panna, si sa, a furia di montarla prima o poi impazzisce. Ecco quindi che a 100 giorni dal voto Renzi deve correre ai ripari. Per evitare che il referendum sulla sua riforma costituzionale si trasformi in un pasticcio, il premier deve sciogliere tre nodi. Il primo: il quesito unico su una legge che modifica il 35 per cento della Costituzione in maniera disomogenea si rivela ogni giorno inopportuno oltre che, ad avviso nostro e di molti, fuori dagli standard democratici. Costringendo gli italiani a votare sì o no in blocco, il referendum non potrà che essere un plebiscito su Renzi (ma poi, gli conviene?) anziché un esercizio di democrazia. Con l’effetto, chiunque vinca, di unulteriore aumento della crisi di legittimità del sistema. Il secondo nodo riguarda l’approccio del governo alle “questioni di democrazia”. Come insegna il caso del referendum sulle trivellazioni, il modo in cui si arriverà al voto ha un valore centrale tanto quanto il merito del quesito. L’arbitrio e l’arroganza con cui l’esecutivo ha interpretato la propria funzione di sovrintendere alla procedura referendaria dello scorso aprile, dalla data del voto alla campagna mediatica (senza parlare del “ciaone”), ha solo alimentato l’antipatia verso il segretario pd. Ci sono poi le incognite che la riforma porta con sé. E’ il caso degli strumenti di democrazia diretta, unico contropotere dei cittadini a fronte dell’aumento del potere decisionale del governo e del partito di maggioranza. Senza modificare le attuali regole sulla raccolta firme, ridurre il quorum per chi ne raccoglie 800 mila sarebbe una mera controriforma. Lo stesso vale per le leggi di iniziativa popolare, finché i regolamenti parlamentari non introdurranno l’obbligo d’esaminarle, e per i referendum propositivi e consultivi, solo annunciati e rinviati a una futura legge costituzionale. (segue dalla prima pagina) O, meglio, da quegli esponenti politici che, intruppandoli nel loro staff, credono di potere alzare davanti agli elettori un collaudato vessillo di correttezza, di trasparenza e legalità. Borsa di Milano. FtseMib +3,71 per cento. Differenziale tra Btp e Bund a 131. L’euro chiude invariato a 1,13 sul dollaro. Nel mondo * * * Borse in crescita sperando nel “remain”. Nel giorno del referendum sulla Brexit le Borse europee hanno chiuso le contrattazioni con un rialzo sostenuto, segno di una speranza diffusa nella permanenza del Regno unito nell’Ue. Anche la sterlina si è attestata sopra quota 1,49 dollari. Il risultato definitivo è atteso per questa mattina. * * * La Corte suprema blocca il piano Obama sull’immigrazione. Un voto in perfetto pareggio (4 a 4) tra i giudici della Corte ha fermato il piano dell’Amministrazione che intendeva legalizzare la posizione di oltre 4 milioni di immigrati irregolari. Il piano immigrazione è da sempre uno dei capisaldi del programma del presidente. I democratici hanno concluso ieri pomeriggio un sit-in di protesta durato due giorni, in cui decine di deputati hanno occupato l’Aula del Congresso per chiedere l’approvazione di nuove leggi sul controllo della vendita delle armi da fuoco. * * * Le Sdf riconquistano Manbij, città siriana in mano allo Stato islamico e strategica per recuperare la striscia di territorio vicino al confine turco in mano al gruppo. Le Sdf, Forze siriane democratiche, sono un gruppo militare sostenuto dagli Stati Uniti. Per il segretario americano alla Difesa Carter gli islamisti avevano utilizzato Manbij come base per organizzare attacchi in Europa. IL RIEMPITIVO di Pietrangelo Buttafuoco Saffo, ieri, se ne stava seduta in metropolitana col dizionario Rocci sulle ginocchia. Aiutava i ragazzi a esercitarsi prima dell’esame di greco. E mormorava qualcosa a proposito di un altro amore, di un cuore chiamato a pagare per cose mai fatte: “Un altro amore, prima di me, ha reso il tuo cuore triste e malinconico”. E così traduceva per chiedere a se stessa: “Come faccio a sciogliere il tuo cuore, freddo?”. Così, ieri, Saffo. Prima di scendere alla fermata Anagnina, capolinea. Per poi proseguire la versione nel più difficile degli esami, l’amore. INNAMORATO FISSO di Maurizio Milani Alicia Keys, siete bellissima, e quindi vi amo. Sono un giovane (si fa oer dire) italiano di 39 anni. Come lavoro sto traducendo “I Promessi Sposi” in arabo. Il grande romanzo era stato tradotto già nel 1931 in tutte le lingue del mondo, però in alcune edizioni non era precisa la traduzione (es. si dice che Renzo era alto 199 cm e Luci 156, invece è il contrario). Comunque tutto sommato la storia è quella. Alicia, amore, non finirei mai di guardarti. Le tue canzoni sono bellissime. Domani sto a letto tutto il giorno. Alta Società Lo chef dell’Hassler, Francesco Apreda, fa il miglior soufflé di Roma. Dolce o salato che sia. ferendum propositivi e consultivi sul modello di Svizzera e California; con la modifica dei regolamenti parlamentari in materia di leggi di iniziativa popolare. Sciolti questi tre nodi, molto dell’astio che circola potrà essere riassorbito, per concentrarsi sul merito delle questioni. Mario Staderini, Riccardo Magi, Fulco Lanchester Al direttore - Bossetti, Schettino, Schwazer. L’Italia ha sentenziato: al rogo! Tortora evidentemente non ci ha insegnato nulla. Jori Diego Cherubini Siamo tutti sempre colpevoli fino a prova contraria. Al direttore - Dure critiche a Renzi da Prodi e D’Alema, detti anche i gemelli dell’autogol. Giovanni De Merulis Al direttore - Nella campagna elettorale romana non si è parlato di urbanistica ma al ballottaggio si è acceso lo scontro su due progetti, lo stadio e le Olimpiadi. Non ho intenzione di aggiungere la mia voce a questo delirio. Sento il dovere, avendo avuto parte nella vicenda, di correggere imprecisioni ed errori, in modo che il dibattito pubblico si fondi su fatti documentati. In merito all’articolo di Francesco Karrer e Sergio Pasanisi del 22 giugno: Il progetto Tor di Valle non ha alcuna affinità con la problematica delle varianti puntuali, la proposta del privato si basa su una legge nazionale, che affida all’equilibrio economico la realizzazione di attrezzature sportive, consentendo, a questo fine, di prevedere anche altre utilizzazioni. La delibera di pubblico interesse è stata approvata in attuazione della norma Delrio e non c’è ricorso a strumenti derogatori. Il Prg del 2008, di cui Francesco Karrer fu importante consulente, prevede in quell’area, funzioni sportive e parco tematico che consentono al privato di realizzare, in attuazione diretta, fino a 354 mila metri cubi. Il proponente, in accordo con una società sportiva, presenta la proposta su un’area di sua proprietà, questo recita la legge. Ecco perché l’area è quella. La concorrenza è assicurata, la legge è valida per tutti gli operatori. Il comune può dire che non va, che va bene o può condizionare il suo sì. Abbiamo scelto quest’ultima strada perché il progetto, a precise condizioni, si inserisce come un tassello coerente, nel disegno pubblico di sviluppo della città. Le opere pubbliche per lo Stadio ammontano, come giustamente si rileva, a 300 milioni di euro a carico del privato. Ma non sono oggetto di compensazione, come invece si riporta nell’articolo. Il Comune ha condizionato la dichiarazione del pubblico interesse alle sole opere pubbliche che servono anche alla città, per un ammontare di 195 milioni di euro (donde la quota di superficie edificabile aggiuntiva): il prolungamento della metro B, lo svincolo con la Roma-Fiumicino, il ponte sul Tevere, la bretella di collegamento con la via Ostiense via del Mare, la riunificazione delle due arterie fino al Gra, un ponte ciclo pedonale, la messa in sicurezza del fosso di Vallerano a Decima, costituiscono la patrimonializzazione pubblica pari a circa il 27 per cento di un investimento tutto privato e i cui rischi sono assunti dal solo privato. Questa sì una cosa nuova a Roma. Per le opere di pubblico interesse resta l’obbligo di legge (neanche a dirlo) della gara di appalto di evidenza pubblica e, data la rilevanza, saranno gare europee. La verità è che lo stadio è osteggiato da operatori che si sono assicurati soldi pubblici per cantieri mai finiti e per opere di dubbia utilità, ottenuti senza competizione pubblica. Auspico che il sindaco colga l’occasione, con tutto il rigore necessario e nel solo interesse pubblico. I poteri di veto e i no “a prescindere”, possono avere facile gioco ma non fanno il bene della città. Giovanni Caudo La posta va inviata a [email protected] (10 righe, non più di 600 battute) Sabella e i “pm coraggiosi” sempre sospesi tra giurisdizione e cura del potere * * * UN UOMO ARMATO SI E’ BARRICATO IN UN CINEMA IN GERMANIA, prendendo ostaggi e sparando alcuni colpi in aria prima di essere ucciso dalle forze speciali tedesche. E’ successo ieri a Viernheim, cittadina vicino a Francoforte, in un multisala della catena Kinopolis. Le prime testimonianze avevano parlato di almeno 20 feriti, ma il ministro dell’Interno del Land dell’Assia, Peter Beuth, ha poi smentito la notizia. Secondo l’agenzia di stampa tedesca Dpa, i servizi di sicurezza ritengono il caso opera di un folle piuttosto che un attentato terroristico. Convinti che la posta in gioco sia superiore al futuro politico di un singolo, ecco le nostre proposte a Renzi per uscire dall’impasse. Per evitare il plebiscito e restituire agli italiani un vero potere di scelta, occorre permettere di votare distintamente sui principali aspetti della revisione costituzionale senza inficiarne la coerenza complessiva. Con il referendum per parti separate, infatti, cinque sarebbero gli aspetti su cui esprimersi e convincere: fine del bicameralismo; Senato non elettivo; voto a data fissa dei disegni di legge del governo; iniziativa legislativa popolare e referendum; riforma del regionalismo. Il Comitato per la libertà di voto ha depositato sia in Parlamento che in Cassazione il quesito per parti separate e due referendum parziali. C’è tempo fino al 14 luglio per le firme dei parlamentari, visto che quelle dei cittadini sono una chimera perché non si è voluto modificare le procedure irragionevoli e restrittive su autenticatori e certificazioni. Quanto alle questioni di democrazia, il governo può dimostrare di essere diverso dai suoi predecessori. Anziché individuare la data a seconda della propria convenienza, si coinvolgano i comitati promotori nella scelta e si codifichi l’obbligo di neutralità. E per garantire una corretta informazione ai cittadini si realizzi un opuscolo informativo da inviare nelle case di tutti gli italiani, dove favorevoli e contrari potranno esprimere alla pari le loro posizioni. Infine, sulle questioni lasciate aperte dalla riforma, si chiarisca tutto prima del voto: con l’approvazione di un Referendum act che sostituisca le procedure della legge n. 352 del 1970 e consenta la raccolta delle firme online; con la presentazione di una legge costituzionale che definisca i re- LA LINEA SOTTILE Dispiace dirlo, ma ci cascano tutti: Matteo Renzi si è inventato Raffaele Cantone, che viene dalla lotta alla camorra, e lo ha messo a capo dell’Anticorruzione; Rosario Crocetta, governatore della Sicilia, ha accolto felicemente tra le sue braccia Antonio Ingroia, seriamente disastrato dallo zero virgola ottenuto alle elezioni di due anni fa, e gli ha regalato persino un lussuoso incarico di sottogoverno; Giachetti voleva provarci con Sabella, seguendo l’esempio dell’ex sindaco Ignazio Marino, ma gli è andata male, malissimo: non solo ha perso le elezioni, asfaltato in malo modo dal plebiscito che ha portato Virginia Raggi al 67 per cento; ma le ha pure perse con il so- spetto che la maledetta dichiarazione, con la quale Sabella ipotizzava addirittura un avviso di garanzia per la Raggi, colpevole sì e no di un insignificante malinteso burocratico, avesse provocato nelle ultime ore della campagna elettorale una sorta di rigetto nei confronti di un Pd, intrappolato ancora una volta nella sua logica sbirresca. Teoricamente, lo zelo dimostrato nell’ ultima performance potrebbe persino scalfire l’aureola di “magistrato coraggioso” che, fin dalla stagione di Palermo vissuta nel pool antimafia di Gian Carlo Caselli, cinge la testa di Alfonso Sabella. Teoricamente però. Perché se è vero che, dopo la sortita sulla Raggi, il Consiglio superiore ha aperto un fascicolo, è altrettanto vero che la commissione disciplinare non troverà mai né la forza né il coraggio di mettere in discussione le parole e le opere di una toga che vanta nel suo curriculum il merito di avere catturato boss come Leoluca Bagarella, cognato e braccio destro di Totò Riina. Sarebbe come “delegittimare” – ecco la formula magica – la lotta alla mafia. Del resto, il Csm ha sempre mostrato su questo fronte estrema cautela: ha archiviato Ingroia che, girovagando tra i palazzi della politica in vista della sua discesa in campo, era finito sul palco del congresso Pdci, quello di Oliviero Diliberto, per sostenere che “i magistrati non possono essere trasformati in esecutori materiali di leggi ingiuste”; e ha archiviato anche Vittorio Teresi, procuratore aggiunto di Palermo, che ha pubblicamente bocciato con un quattro in pagella, i giudici che avevano assolto l’ex generale dei carabinieri Mario Mori, costretto ormai da quasi vent’anni a salire e scendere le scale del Palazzo di giustizia. Volete che non dimostri altrettanto buon animo nei confronti di Alfonso Sabella o che gli avveleni la festa per l’arrivo nelle sale del film che, ricostruendo l’arresto di Bagarella, inevitabilmente finisce per intonare un inno alla sua immagine di duro e puro, alla sua storia di cacciatore di mafiosi? Tranquilli. Sabella, come quasi tutti i “magistrati coraggiosi”, resterà sempre una spanna sopra gli altri, sospeso a metà tra il cielo e la terra, tra la politica e la giustizia, tra la giurisdizione e la cura del potere. In quel mondo di mezzo, dolcemente tempestoso e sottilmente inquieto, che è la dimora metafisica degli uomini che, in forza del loro impegno profondo e melodioso, meritano un posto più alto di quello assegnato ai comuni mortali. Ricordate la favola del Barone rampante, narrata per tutti gli uomini che ancora amano Voltaire, da un Italo Calvino straordinariamente illuminista e calvinista? Cosimo Piovasco di Rondò per sfuggire all’angheria del padre che gli impone di mangiare le lumache, decide a dodici anni di salire su un albero, dove rimane felice e gaudente per tutta la sua esistenza. Il padre tenta in tutti i modi di convincerlo a scendere, ma Cosimo non vuole sentire: “Io dagli alberi piscio più lontano”, risponde beffardo. Ed è a quel punto che il barone padre, indicando il cielo carico di nuvole, lo avverte: “Attento, figlio, c’è Chi può pisciare su tutti noi”. Giuseppe Sottile I Radicali e il necessario Congresso di un partito che non c’è più HA RAGIONE SOFRI, SI RIPRENDA L’INIZIATIVA TRANSNAZIONALE PER CONTINUARE A VIVERE. NO A RENDITE DI POSIZIONE INTERNE A driano Sofri da queste colonne ha invitato i Radicali, nella speranza che essi abbiano un futuro o sappiano conquistarselo dopo Marco Pannella, a preservare il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito e quindi la sua vocazione di forza politica federalista e internazionalista e, a farlo, tornando allo statuto. Sofri va ringraziato per il suo intervento sul Foglio perché solo se si farà valere sulle vicissitudini interne radicali il valore aggiunto di una qualche attenzione e partecipazione esterna, si può sperare di scrivere qualche altra pagina significativa della storia radicale. Allo stato dei fatti quel partito che i Radicali sono amichevolmente invitati a salvaguardare, rilanciare e promuovere nelle sue ambizioni e nelle sue ragioni costitutive oggi purtroppo semplicemente non esiste. Esistono alcune centinaia di iscritti, di cui pochi i non italiani e fra gli italiani alcune doppie tessere. Ma non esiste un segretario politico perché quello eletto nell’ultimo congresso del 2011 non si è mai insediato. Non esistono organi deliberativi in grado di convocare un congresso. Vengono invece convocate assemblee informali non si sa da chi e a che titolo, introdotte da relazioni e interventi programmati non si sa da chi e a che titolo previsti e assegnati. La prossima, dopo una prima svoltasi a Roma, si svolgerà il 25 giugno a Teramo (e nonostante queste fondate riserve formali vi avrei comunque partecipato se altri impegni non mi portassero altrove). Io condivido con Sofri l’opinione che oggi come non mai c’è bisogno di un partito nonviolento dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto: oggi più assai di quando nel 1988/1989 il Partito radicale assunse per la prima volta le sue forme transnazionali e transpartitiche. E’ in atto in Europa e in tutto il mondo occidentale uno scontro micidiale tra società aperte e società chiuse, che si vogliono di nuovo divise da muri, fili spinati e frontiere. E fuori d’Europa in medio oriente e in Africa un fondamentalismo islamico, da tempo divenuto protervo e terroristico, si rivolge apparentemente contro i valori e i princìpi della democrazia liberale ma in realtà è espressione di una guerra civile interna al mondo musulmano riguardante il mondo sunnita prima ancora che le relazioni fra sunniti e sciiti, una guerra civile rivolta soprattutto contro le rivendicazioni di libertà e di emancipazione interne a quelle società, in particolare quelle delle donne musulmane. Di tutto questo il Partito non ha mai trovato una sede per discutere non foss’altro che per aggiornare le sue analisi della realtà e i suoi paradigmi interpretativi. Siamo rimasti fermi all’analisi delle “demo- crazie reali”, che andava bene forse dieci anni fa, non oggi che ricompaiono minacciosi i fantasmi (nazionalisti e ahinoi razzisti) di un lontano passato, addirittura prebellico. Io non so se, come teme Sofri, il diritto alla conoscenza sia soprattutto una tautologia o se, come sostiene Angiolo Bandinelli, sia invece un grande progetto politico. Ma anche ammesso che sia un maturo e vincente progetto politico, rischieremmo una volta che fosse votato sormontando mille ostacoli e difficoltà dall’Assemblea delle Nazioni Unite, di doverci amaramente accorgere che l’Onu non è più da alcuno riconosciuta come fonte e luogo deputato della legalità internazionale mentre ovunque nel mondo il suo “Radicali per il Sì-Sì per i Radicali”. Ben vengano i radicali per il “no”. Ben vengano i Radicali del “Sì però” (il mio ad esempio è ancora un “sì” esitante e incerto a fronte di un però grande come una casa perché queste riforme sono brutte assai e, se approvate, devono essere rapidamente modificate e corrette). Ben vengano il dibattito, il confronto, perfino la divisione: sempre meglio dell’assenza, del silenzio, dell’indifferenza. Esiste invece chi, avvalendosi di una continuità giuridica della Lista Pannella, tenta di trasformarla in continuità e in eredità politica. Esiste tra polemiche e divisioni una galassia di associazioni e movi- si accumulano le macerie di ciò che resta dello stato di diritto. Su tutto questo il Partito non è esistito come luogo di confronto, di analisi, di dialogo e di discussione. E le iniziative di chi come Emma Bonino di questi problemi si è costantemente occupata, utilizzando l’autorevolezza e la influenza conquistate per la politica radicale all’interno delle istituzioni, sono state considerate (e liquidate) come atti fuorvianti di mero presenzialismo personale. In politica interna è accaduto lo stesso. Quello che dagli ormai lontani anni 80 ha cercato di essere il Partito della riforma del sistema politico non si è praticamente accorto che negli ultimi due anni si è aperta una stagione di riforma costituzionale e istituzionale. Non siamo stati quelli del referendum Segni (in realtà Segni-Pannella) e dell’uninominale? Non abbiamo tenuto a battesimo il Mattarellum? Non proponemmo a metà degli anni 90 la triade presidenzialismo-uninominale-federalismo, tentando di convincere Berlusconi e Bossi? E nel 2011-2012 non abbiamo cominciato noi l’attacco al Porcellum riproponendo con Pannella, Ichino, Baldassarri la Lega per l’uninominale? Il silenzio su tutto questo è ora assordante. Ben venga Giovanni Negri con menti radicali legati tra loro solo, fino a ieri, dal comune vincolo con Marco Pannella e dalla appartenenza a un Senato del Partito radicale, da tempo non più convocato. Esistono poi le lacerazioni delle quali bisogna dire che sono state pervicacemente e a lungo coltivate, provocate, ingigantite. Attribuirle a Radicali italiani e alle sue scelte congressuali mi sembra sbagliato e ingiusto. Caso mai quelle scelte sono state la conseguenza di una politica fondata sul rifiuto del dialogo, sull’esclusione, su una malcelata volontà di espulsione. Ed è del tutto pretestuoso indicare nella partecipazione alle elezioni amministrative di Roma e Milano, nate da una efficace presenza politica nei due consigli comunali e da iniziative militanti nelle due città, la violazione di chi sa quale ortodossia radicale. Per quanto mi riguarda ho più volte dichiarato di ritenere deboli le scelte congressuali di Radicali italiani e sbagliato abbandonare il terreno del confronto all’interno del Partito radicale e ho proposto altre forme di partecipazione elettorale rispetto a quella che è stata invece prescelta. Ma riconosco a Radicali italiani il merito di aver tenuto vivo un associazionismo radicale e una iniziativa militante senza i quali non può esistere alcun Partito radicale. E quanto alle liste invito i critici a fare il confronto con le precedenti ultime, e fallimentari, esperienze elettorali. Riconosco inoltre all’Associazione Luca Coscioni, alla cui vita partecipo per quanto posso attivamente, di aver mantenuto il protagonismo radicale nella politica dei diritti civili e per la libertà di ricerca, ottenendo grazie a Filomena Gallo significativi successi politici e giurisdizionali che gli sono riconosciuti ben oltre i confini del nostro piccolo mondo. Non sarà possibile purtroppo il ritorno allo statuto auspicato da Sofri perché lo statuto cui lui fa riferimento è quello del 1967, non quello di oggi. Quello statuto aveva tracciato e proposto un modello teorico di partito libertario e federativo, alternativo al modello centralistico dei partiti comunisti e a quello dei partiti democristiani e socialdemocratici. Di esso nel nuovo statuto non sopravvive quasi nulla a cominciare dai congressi annuali a data fissa. E’ giusto invece il suo consiglio di un congresso per discutere del possibile futuro radicale. Un partito o è una comunità politica che si riunisce, discute, delibera oppure non è. Suggerisco di fissare un tempo per una campagna di iscrizione e di convocare il congresso allo scadere di questo tempo. E mi auguro che a questa campagna e a questo dibattito partecipi anche Adriano e tanti altri oltre a lui in modo da far entrare aria fresca in un ambiente rimasto troppo a lungo chiuso in se stesso in attesa di input dall’alto che con ogni evidenza non potevano più venire. Non sarà forse possibile conquistare basi materiali e consistenza transnazionale al partito. Non ne abbiamo le risorse finanziarie e mancano le condizioni in termini di alleanze e di rapporti a livelli di parlamenti e di governi. Per altro siamo stati bravi anche in passato a organizzare le domande di democrazia e di diritto delle minoranze e a volte di maggioranze oppresse che ne erano prive, ma non abbiamo mai trovato forze disponibili a ricercare e promuovere insieme a noi le risposte a quelle domande, all’interno del Parlamento europeo e della Ue come nell’Onu. Oggi di tutta evidenza questo è ancora più difficile da realizzare. Dobbiamo allora iniziare con il chiederci cosa fare per salvare intanto le ragioni costitutive del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito. E dobbiamo farlo facendo cadere pregiudiziali e incompatibilità inconcepibili in un partito laico e libertario. Gianfranco Spadaccia Già segretario e senatore del Partito radicale L’origine dei guai La solitudine di Renzi ha un suo inizio: la fine del patto del Nazareno. A cosa servirebbe un grande accordo N on doveva andare così. Lo schema di ingaggio di Renzi era indovinato. E aveva funzionato. Fino all’elezione di Mattarella. Lì avviene il turning point. La fase felice del renzismo coincide con il tempo del Nazareno: ritmo accelerato di riforme, stabilità parlamentare, maggioranza istituzionale per le modifiche istituzionali, opposizioni disarticolate. In quel renzismo, efficace e vincente, non c’era nemmeno quello che la sinistra ha imputato a Renzi in questi mesi: il patto consociativo con un settore della destra, la nenia su Verdini. Questo perché lo schema politico del Nazareno appariva visibilmente come la modalità del radicamento, attraverso l’Italicum e l’intesa sulle riforme costituzionali, di una imminente (elezioni del 2018) dialettica bipolare “europea” e repubblicana: tra una lista di centrosinistra e una di centrodestra. Ricordate: la minoranza di sinistra pd, in quella fase, non contestò questo schema. Pur nell’evidente impaccio e nella sofferenza per il patto con Berlusconi, la stessa minoranza del Pd accettava la naturalezza e la forza di una promessa di cambiamento elettorale il cui esito non era la consociazione con la destra ma il reciproco patto per stabilizzarsi, Pd e una nuova Forza Italia, come poli dell’alternanza fissata nell’Italicum. La battaglia della sinistra pd non riguardò lo schema politico dell’Italicum, il bipartitismo col centrodestra. Riguardò il tema del bicameralismo e quello dei meccanismi elettivi dell’Italicum. Ma non il vero disegno della riforma elettorale: stabilizzare la competizione tra centrosinistra e centrodestra. Il patto del Nazareno, nonostante i dileggi nervosi della sinistra pd, si rivelò assai meno contestabile delle attese di sinistra. Apparve come un oggettivo patto costituente di riforma della dialettica politica. Insomma: ebbe una sua forza egemonica. Di effettivo cambiamento. Che si riverberò su tutta la stagione, rapida e concentrata, delle riforme renziane. Le opposizioni che stavano fuori dal recinto del Nazareno erano in affanno evidente. I 5 stelle e la Lega non riuscirono ad imbastire un’efficace controffensiva. Apparivano disarticolate e frustrate. Accentuarono lo scivolamento estremista. Si determinarono alla deriva populista dell’onda antieuro. Senza mai apparire, realmente, alternativi. Il patto del Nazareno, per la fase in cui durò, chiuse effettivamente gli spazi alla credibilità e alla plausibilità di un “terzo polo” della politica italiana. Tutto questo si interrompe con l’elezione di Mattarella. Da allora tutto è rivoltato. Renzi e Berlusconi dichiarano la fine del Nazareno. E la geografia politica cambia. Innanzitutto cambiano le regole di ingaggio dell’Italicum. Lo schema bipartitico cambia. Per una ragione semplice: Forza Italia sciolta dal patto, impoverita dalla svalutazione delle sue shares nella partita del cambiamento istituzionale, depotenziata e ricondotta al ruolo di “opposizione tra altre opposizioni”, senza alcuna specialità, collassa. E Renzi sottovaluta le conseguenze e la portata distruttiva, di questo collasso della destra moderata, per il suo stesso schema di gioco. Laddove, con lo schema del Nazareno, c’era evidenza coalizzatrice del renzismo, ora si prefigura una condizione di solitudine: l’uomo solo al comando non è una distorsione psicologica di Renzi ma diventa un dato della realtà e un mantra del parterre intero della politica italiana. Inoltre la fine del Nazareno degrada la portata della riforma elettorale e dell’Italicum: non è più chiaro, visto il declino di Forza Italia, chi sarà il secondo partito, qual è la forza alternativa al Pd nello schema bipartitico della nuova legge elettorale. La rinascita dei 5 Stelle, conseguenza ineluttabile del collasso del centrodestra prodotto dalla fine del Nazareno, è inevitabile. Il tripolarismo nasce così! Ma l’Italicum non era fatto per il tripolarismo. Era fatto per affermare il bipartitismo europeo: centrosinistra versus centrodestra, due “partiti della Nazione”, forze tranquille e dal reciproco riconoscimento. E, insieme, contro il populismo estremista: da contenere e puntare a rendere innocuo. Questo schema, rassicurante, la verità del Nazareno, è stato fatto saltare. Direbbe Gramsci con una reciproca catastrofe delle forze in campo, le due forze del patto. FI si è consegnata all’inconsistenza di un declino senza rete. Renzi, invece, si ritrova con il disegno elettorale, politico e istituzionale, all’origine bipolare, compromesso da una imprevista e drammatica possibilità: diventare il primo paese europeo, della famiglia dei fondatori, in cui una forza populista, dai tratti indefiniti, antieuropea, estremista per molti tratti, può diventare l’alternativa di governo al Pd. Da paese tendenzialmente più stabile e sicuro d’Europa, quale era l’immagine dell’Italia, nella fase alta del Nazareno, l’Italia rischia di scivolare verso uno scenario stravagante: quello tra un centrosinistra appesantito e un movimento politicamente (ancora) improbabile in ascesa. Non doveva andare così. Potenza della fine del Nazareno. Umberto Minopoli ANNO XXI NUMERO 148 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 24 GIUGNO 2016 IL FiGLIO E’ PER IL TUO BENE Maturità t’avessi presa prima. Melissa P. e la sua lunghissima, eterna notte prima degli esami M entre i miei compagni di classe facevano l’esame di maturità io ero in giro a fare promozione del mio primo romanzo, “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire”. Avevo lasciato la scuola pochi mesi prima perché, fra professori che mi toglievano il saluto e chi evitava di pronunciare il mio nome all’appello, e quel simpaticone che si divertiva a fare scritte oscene col mio nome davanti al cancello di scuola, non è stato facile. Non è stato facile nemmeno a casa far digerire quel libro e soprattutto il fatto che, nemmeno maggiorenne, avessi già spiccato il volo. Ma a casa niente è mai stato facile e se scrivevo e a sedici anni mandavo lettere di presentazione agli editori con manoscritto allegato era perché, appunto, a casa non volevo più starci. E quella era la mia occasione, anche se significava rinunciare all’esame di maturità, al diploma, a tutte quelle cose che avevo dato per scontate prima di avere la brillante idea di pubblicare un romanzo che in poco tempo si era trasformato nel caso editoriale più clamoroso degli ultimi venti anni. Quindi mi trasferii a Roma, avevo diciotto anni. Chiesi a un noto liceo del centro di accogliermi come studentessa e la risposta fu: “I nostri programmi sono troppo difficili per una come te. Meglio che cerchi un’altra scuola”. La cercai, ne trovai una vicino Colle Oppio. Ci andavo tutti i giorni, alcune insegnanti non perdevano occasione per insultarmi dandomi della poco di buono e i compagni erano tutti molto incuriositi, mi seguivano in bagno per farmi domande, mi chiedevano autografi e io mi sentivo sempre più un’aliena. Poi arrivò altra promozione: Giappone, Argentina, Cile e persi molte settimane. Lasciai la scuola. M’impegnai con un insegnante privato per gli esami da privatista, ma c’era un’altra prova da superare: prima avrei dovuto ripetere le materie in cui ero stata rimandata in secondo liceo. Nel frattempo, ancora promozione: Olanda, Spagna, Portogallo, Francia, tutta l’Europa tranne credo l’Albania e il Montenegro. Decisi che avrei tentato l’anno dopo. Ogni anno ho deciso che avrei tentato l’anno dopo e alla fine eccomi qui, a trent’anni, con molta promozione alle spalle e una licenza di terza media. Una lunghissima, lunghissima notte prima degli esami. I miei genitori non si opposero all’abbandono prematuro dei miei studi e, una volta a Roma, credo non sapessero nemmeno che avevo tentato l’iscrizione e la frequentazione nei due licei. Mio padre tuttavia aveva una preoccupazione: mi raccomandava sempre di studiare le lingue e grazie a tutta quella promozione fu esattamente quello che feci: inglese, spagnolo, francese, per almeno un paio d’anni non feci che prendere aerei e fare interviste nelle hall degli alberghi di tutto il mondo e alla fine qualcosa la imparai. Ma lui diceva che il futuro era la Cina e che avrei dovuto studiare cinese, ma quando il mio editore cinese diede il via alla stampa del mio romanzo il governo decise di bloccare la produzione perché il libro era troppo sconcio e allora in Cina non sono mai andata e il cinese non l’ho mai imparato, deludendo molto mio padre. Alle elementari frequentavo una ricca scuola di gesuiti. “Perché è la migliore di tutte”, e lo era. Mia madre diceva che con delle buone basi sarei poi riuscita a cavarmela ovunque e comunque e quindi, da allora, con quelle ottime basi, la mia educazione è stata solo affar mio. Certe mattine era lei a propormi di rimanere a casa, ché le sembravo stanca. Ma io andavo lo stesso perché sapevo che se avessi perso il mio senso di responsabilità, con esso sarebbe andata via anche la possibilità di ottenere quel biglietto di sola andata verso la vita che avevo scelto per me. E l’avevo sognata così forte, quella vita, che presto era accaduta senza darmi nemmeno il tempo di organizzarmi. Se i miei genitori mi avessero spinto a continuare a studiare non li avrei ascoltati, come probabilmente non mi ascolterà quel figlio che un giorno avrò e con cui mi vedrò costretta a usare frasi oscene tipo: “E’ per il tuo bene”. Lo dirò, sono certa, e quel giorno riderò di me stessa. Ma mi piace pensare che sarò capace di allevare un figlio che avrà una propria coscienza che gli suggerisca cosa è bene per lui. Se nella costituzione che avrà deciso di scrivere per sé ci sarà la voce “Studia e prendi il diploma”, io sarò molto felice e anche molto curiosa di sapere come va questa faccenda del diploma che non ho mai preso. Ma sarei felice lo stesso se quella voce fosse sostituita da “Sii responsabile e curioso sempre”, anzi forse lo sarei di più, perché il segreto è solo quello. Davvero, io ce l’ho messa tutta. Era mio dovere finire quello che avevo iniziato anche se ero salita su una giostra mostruosa che non voleva saperne di fermarsi: il diploma era quello che dovevo ottenere. Ma non ce l’ho fatta perché un paio d’anni e diversi libri e promozioni dopo mi ero già dimenticata dell’ottativo, del genitivo, non sarei più stata capace di parafrasare l’Inferno di Dante. Continuo però a pensare mi sarei divertita molto a sostenere la prova scritta. E questo è il mio unico rammarico. Melissa Panarello a cura di Annalena Il summer camp di “Shining”, la febbre alta e i baci sulle guance Le conseguenze dei campi estivi e l’emergenza educativa nei messaggi di supplica: venite a prendermi di Annalena Benini S ei ore dopo che avete abbracciato vostro figlio per salutarlo, e giurato che no, l’albergo di montagna non assomiglia per niente a quello di “Shining”, e sarà una settimana magnifica e faranno rafting, e comunque sette giorni passano in fretta, sei ore dopo lo sguardo carico di apprensione e gratitudine lanciato al maestro del summer camp in bermuda color khaki, sei ore dopo la libertà, i progetti, l’ubriacatura da solitudine, a casa in mutande e vino ghiacciato, sigarette con la finestra chiusa e pensieri anche sconci, cominciano i messaggi. “Portatemi via da qui”. “Non ho amici”. “Mi fa schifo”, “Ti prego mamma, se mi vuoi bene vieni a prendermi”. I figli furbi di madri apprensive selezionano con più attenzione le torture psicologiche: “Qui è pieno di burroni, nessuno sta attento a noi, ho paura”. I figli più piccoli, che sono andati al campo estivo senza telefono e senza tariffa estiva con messaggi illimitati, fanno chiamare direttamente dai responsabili: “Febbre alta, rifiuta la tachipirina”. “Dice che gli fa malissimo la gola, ma abbiamo l’impressione che stia mentendo”. L’euforia è svanita, il programma della serata e dei prossimi giorni di trance è distrutto. Niente di quello che si era sognato durante l’inverno si realizzerà: imbucarsi a una festa, scrivere un romanzo, mandare un messaggio alla ragazza dell’enoteca, passare a prenderla in Vespa con addosso la maglietta di un concerto, o tuffarsi in una fontana, finire a bere gli shottini di tequila nei bar dei ventenni, recuperare il matrimonio, divorziare, ballare, fare un altro figlio. Bisogna andare a riprendere il ragazzino al campeggio, ha le convulsioni. Oppure no, bisogna lasciare che se la cavi da solo questa volta. E’ grande. Sta facendo finta. Gli farà bene. “Non lascio mio figlio con la febbre alta da solo in montagna nelle mani di un uomo in bermuda”. “Non ha la febbre alta, ha trentasette e tre, quell’uomo porta i bermuda perché è il suo ruolo, un ruolo in bermuda”. “Parli così per- ché non hai letto La settimana bianca di Carrère, non conosci lo strazio di un bambino con la febbre in un posto sconosciuto”, “L’ho letto invece, e l’assassino era il padre, meglio stare con gli animatori che con i genitori, anche senza febbre”, “Dici cose strumentali”, “Ma non mi muovo da questo divano”. La discussione può durare anche per sempre, e in ogni caso molto oltre la fine del campo estivo. Di solito la febbre passa invece in un paio d’ore (nel caso in cui si sia andati davvero a prendere il figlio in montagna, la febbre passa nel momento in cui sale in macchina, e il giorno dopo bisogna riportarlo), il ragazzino si diverte, impara anche un po’ di inglese (impara: room, mister e breakfast, parole che conosceva anche prima, ma adesso le dice molto meglio quindi davvero ne è valsa la pena), si diverte, litiga con il compagno di stanza e gli riempie i capelli di fango raccolto vicino al torrente, si innamora di una bambina di Terni e quando torna a casa con il pullman e con il maestro color khaki, la madre gli tende le braccia e piange, dice: come sei cresciuto, sei diventato più alto, amore mio. Sono solo sei notti, ma è come se fosse passato un anno, perché lui adesso si scosta, si vergogna, la ragazzina di Terni lo guarda da sotto la frangetta e ride, e lui decide che da questo momento non sopporterà mai più le smancerie di sua madre, perché è diventato grande. “Ciao” è il massimo che riesce a dire, masticandolo. “Ciao” accompagnato dal lancio del trolley carico di roba fangosa e bagnata. “Ciao” e il nuovo mondo è qui, il passaggio è compiuto: non scriverà mai più a sua madre: voglio tornare a casa. Non si farà più abbracciare, se non in circostanze eccezionali e segrete, non offrirà più le guance ai baci, e avrà l’aria di chi va solo per il mondo. Lo scopo del summer camp, la socializzazione, l’indipendenza, la crescita: ha funzionato tutto, maledizione. Christopher Hitchens, scrittore, giornalista e polemista inglese, ha ricordato nelle sue memorie quanto amasse la madre alla follia, ma lei lo mandò, bambino, in collegio per “farlo arrivare in alto”, lui soffrì enormemente, tornò a casa dopo due mesi per le vacanze di Natale, trasformato e distante, e chiamava sua madre “signora” e le dava del lei, per dispetto, per farla soffrire, anche se lei era “l’unica madre di cui si potesse andare fieri durante le visite in collegio dei genitori”. Anche se lo scopo della tua vita è essere una madre allegra e dolce di cui andare fieri durante le visite in collegio, o alla fine del summer camp, o perfino soltanto alla fine di una giornata di intrattenimento estivo parrocchiale, con i bambini che giocano a tirarsi i palloncini d’acqua dopo avere ascoltato la storia di Madre Teresa di Calcutta, il prezzo da pagare per la fine della scuola e la necessità di riempire il tempo lungo dell’estate sarà sempre lo stesso: lui ce l’avrà con te. Non vorrà essere salutato, abbracciato, sbaciucchiato, salirà sul motorino, dietro, con indifferenza, risponderà a monosillabi, dirà che non ha fame, non è stanco, non ha niente, non gli manca sua so- rella, non vuole un gelato, non vuole andare a mangiare la pizza, non vuole andare a vedere “Angry Birds”, e alla domanda imprudente e un po’ disperata: “Ma ti piace Valeria?”, risponderà serio: “Certo che no, lei non è proprio adatta a me”. “E perché?”, “Perché lei è sempre felice”. Lui invece adesso è infelice perché ha perso la guerra di palloncini d’acqua, “è stata una bruttissima giornata”, e non vuole andare mai più al campo estivo della parrocchia. Vuole stare a casa, in pigiama, guardare la televisione, annoiarsi, giocare a scacchi con il computer, non ascoltare nessuna storia su Madre Teresa di Calcutta, non vuole cantare nessuna canzone dopo avere giocato a moscacieca. Rivendica il diritto alla solitudine estiva, lo stesso al quale aspiriamo noi e per godere del quale ci inventiamo i summer camp in montagna o imploriamo i nostri genitori di portare i nipoti al mare anche se pioverà tutta la settimana. A volte invece funziona tutto benissimo e la bambina si è ambientata subito al campo estivo, e telefona solo la sera velocissima e squillante, con quella voce piena di meraviglia e entusiasmo che rincorre le parole e le fa rotolare, le fa diventare vive: “Mamma sono strafelice”, e nelle foto che un altro maestro con altri bermuda manda su whatsapp lei davvero ride sempre e tiene il pollice alto, e allora si possono relizzare tutti i sogni di libertà e andare a tuffarsi in quella fontana, lavorare fino all’alba, avere di nuovo vent’anni, e che cosa aspetti: non ci sarà un altro giugno così, un altro summer camp così perfetto, una casa così silenziosa in cui nessuno ha rovesciato il latte per terra. Allora che cos’è questo minuscolo buco nel cuore, che fa passare l’aria e la lontananza, e fa fissare il telefono ogni sera alla stessa ora, anche dalla fontana, dal cinema, dalla festa in cui ci si è imbucati? Pronto mamma, volevo dirti che mi mancate. Anche tu ci manchi, ma ti manco più io o più il babbo? Tutti e due uguale, dai mamma che domande fai. Certo certo, hai ragione, comunque domani vengo a prenderti e me lo dici in un orecchio, buonanotte amore mio. LA LETTERA. Una madre che illumina le stanze e il coraggio di alzare la mano e dire: anch’io Cara Annalena, ho letto su questa sua pagina Figlio la lettera di M.Costantini, che si è sentita inadeguata come madre, non abbastanza bella e non abbastanza brava. Vorrei dire a lei e a tutte le madri come lei che non è colpa loro: siamo noi figlie, che non ci va mai bene niente. Io che non ho figli e ho tre cani e due uomini e un pappagallo, ci ho messo tanti anni di analisi e di infelicità ad ammetterlo: avrei tanto desiderato una madre così così, e per tutta la mia infanzia e anche dopo, quando cominciavo a lavorare, quando vivevo da sola, ho sofferto a causa della bellezza (ma non era solo la bellezza, era tutto l’insieme del corpo, la mente, il sorriso, i capelli, era che lei entrava in una stanza e la illuminava) di mia madre, che adesso non c’è più e mi manca ogni giorno. Io ho cinquantasette anni, quasi l’età di mia madre quando è mancata, ed era malata ma era sempre bellissima. Era simpatica, generosa, portava le gonne corte e io invece sempre i pantaloni perché non avevo le gambe belle come le sue, tutti gli uomini si innamoravano di lei, i padri delle mie amiche anche, sui mariti delle sue amiche ho alcuni sospetti e sono successe anche cose fastidiose sotto casa, ma le mie amiche mi dicevano che fortuna avere una madre così, che ti lascia fare tutto, che è sempre di buonumore. Volevano venire tutte a casa mia a dormire, non per me ma per mia madre! (…) Mio padre era molto fiero di lei, la guardava sempre, mio fratello anche era fiero e i suoi amici al liceo non facevano la corte a me, che avevo tre anni meno di loro ed ero sempre arrabbiata, ma a mia madre. Io le trovavo tutti i difetti del mondo, le dicevo che mi faceva vergognare con quelle gonne corte, le dicevo che le sue torte facevano schifo e invece faceva delle crostate deliziose con la crema, che a me non sono mai riuscite. Desideravo che sparisse o che diventasse vecchia e brutta. Che stupida sono stata! Anzi, che stronza. Cara M. Costantini e care tutte, spero di esservi d’aiuto: le figlie sono molto spesso stronze. Un saluto sincero, A. Bassi Cara A., posso soltanto alzare la mano e dire: anch’io. Scrivete le vostre lettere a [email protected] (non più di 10 righe, 600 battute) Illustrazione di Anna Sutor MIO GRANDE DAD, TI VOGLIO BENE E ACCETTO CHE TU SIA L’UOMO DI UN ALTRO AMORE Mio grande Dad, (…) ti voglio bene, sei mio padre e ti amo come sei, così vivo, con quel tuo buon odore di pipa, le tue inflessioni di voce, il tuo modo di tirar fuori il fazzoletto di tasca e soffiarti il naso. Abbiamo tutti la tendenza a fermarci all’aspetto esteriore, all’involucro del corpo che si logora, o all’immagine del padre che ci siamo creati una volta per tutte e alla quale facciamo ben poche concessioni. Non osiamo scavare un po’ più a fondo e mettere in crisi quello che ci fa comodo pensare. Restiamo ciechi. E io sono stata cieca (o meglio ho voluto esserlo) in particolare su un punto della tua vita privata, forse il più importante: il tuo affetto per Teresa. parli della “resistenza” che i tuoi figli manifestano nei suoi confronti. E’ vero. Per quel che riguarda me, non l’ho mai accettata, e spesso per ragioni vaghe che venivano dal mio subconscio. Oggi mi rendo pienamente conto di quanto fossi egoista: ti volevo tutto per me, sempre disponibile alle mie esi- genze, ai miei capricci di bambina. Volevo in esclusiva il “mio” Dad. Non ammettevo che tu fossi l’uomo di un altro amore. Ma perché tu, da parte tua, non ci hai mai presentato Teresa nel suo vero ruolo? speravi forse che avremmo capito da soli? Non è stato così. La sua posizione accanto a te era ambigua (…) D’ora in poi accetterò Teresa di buon grado. Non posso continuare a respingerla e contemporaneamente a voler bene a te, dal momento che lei fa parte di te. Mi viene da dire: d’ora in avanti prendo tutto! Il mio Dad, l’uomo, e il suo amore per un’altra. Ho talmente bisogno di inglobarti tutto intero! Do un po’ i numeri, vero? Sembra la lettera di una donna all’amante o al marito. Io sono solo tua figlia, ma ti confesso che trovo affascinante dimenticarlo per un attimo e mostrarti il mio lato “femmina”. Con una strizzatina d’occhio. La tua piccola Marie-Jo “Memorie intime” di Georges Simenon (Adelphi) PA D R I La linea frastagliata dei miei figli. Mi accompagnano a scuola da vent’anni, e spero per sempre S ono vent’anni, più o meno, che porto i miei figli a scuola. Non perché mi sia intestardito nell’accompagnare chi tra pochi mesi avrà la patente e potrebbe quindi accompagnare me al lavoro. Ma perché sono vent’anni, più o meno, che mi riproduco con tenace ostinazione. Quando mi chiedono: “Lei quanti figli ha?” mi prendo sempre un attimo di sospensione per assestare il colpo e godermi la reazione dell’interlocutore. E’ una piccola debolezza da sadico, ma non posso farne a meno. So già che quando risponderò: “Quattro”, mi guarderanno come si guarda un lemure. Magari mi diranno: “Che bravo, che coraggio”, ma quasi sempre penseranno: “Che stupido irresponsabile”. E quando aggiungerò: “Da due mamme. Straordinarie, una vera benedizione”, questi dentro di sé aggiungeranno: “Che stronzo”. D’altra parte, c’è una foto che non hanno visto. Sono uno accanto all’altro, i miei figli. E compongono una linea frastagliata, come una catena montuosa con picchi e valli. A destra il più alto, Guido, che non è il più grande. Accanto a lui si scende verso Nina, la più piccolina. Poi si risale con Elena. E se manca il primogenito Dario, che non è il più alto, è solo perché la sua sedia a rotelle non sarebbe arrivata alla Torre Vecchia di Gorgona dove quel giorno ci eravamo arrampicati. In quella foto del cuore, in quel crinale di alti e bassi, in quelle mani piccole e grandi che si stringono felici, c’è gran parte di quello che non posso dire quando rispondo: “Quattro”. Tutte le discese ardite e tutte le risalite di questi vent’anni. E dunque i fallimenti, i dolori inflitti e quelli subiti. Ma anche, e soprattutto, la solidità di un argine più forte delle debolezze dei genitori. Un argine che si regge sulla forza di coloro che sono tra noi per essere protetti e tutelati, ma che forse ci proteggono e ci tutelano più di quanto normalmente siamo disposti ad ammettere quando raccontiamo a noi stessi e agli altri il nostro “eroismo di genitori”. In realtà ho sempre avuto qualche dubbio, fin da bambino, che ci fosse tutto questo ardimento nel mettere al mondo dei figli. Da piccolo era una percezione molto vaga: guardavo quel babbo e quella mamma tanto amorevoli quanto litigiosi e sentivo che avrei dovuto aiutarli a tenere in ordine le loro vite diligenti e confuse. Non erano eroici, ma solo arruffati e pieni di amore per i figli. Ognuno tendeva ad andare per conto suo, lungo linee sempre più divergenti per passioni e idiosincrasie. E solo la vita molto concreta mia e di mia sorella riportava tutto quel circo a un minimo di ragionevolezza e metodo. L’ho capito meglio quando sono diventato padre, alle prese con una paternità meno perfetta di quella che avevo immaginato. Già nei bisogni di un neonato speciale c’era una direttiva che non ammetteva repliche: “Guarda che di me e di quello che mi serve te ne devi occupare proprio tu, adesso, insieme a mamma. E non me ne fotte niente se hai da fare o se sei preoccupato, deluso, distratto o altro. Ti devi muovere, vai”. Con gli anni quella stessa intimazione si è moltiplicata per quattro, diventando la direttiva via via più complessa di bambini e adolescenti capaci di cumulare bisogni diversi e sempre originali. Ma in ogni loro bisogno c’è sempre qualcosa di più di una richiesta: un gancio piantato nella realtà, un richiamo non negoziabile a occuparsi di quello da cui tendono a portarti via le ambizioni, le passioni, le delusioni e tutto l’armamentario di fantasmi che abitano il nostro monologo quotidiano. E quel gancio funziona e protegge: ricordandoti che comunque di questo ti devi occupare, che ogni volta puoi fare anche il giro lungo ma in ogni caso lì devi tornare. Se fossi un filosofo parlerei di immanenza della genitorialità, e certamente non sarebbe poi così originale. Ma filosofo non sono, e quindi mi accontento di essere protetto e trattenuto dalla forza di quell’argine. Soprattutto: mi godo lo spettacolo, finché dura. E per questo vorrei continuare ad accompagnarli a scuola ogni giorno, possibilmente per sempre e contro ogni logica anagrafica. Perché quell’ora scarsa che passo nel traffico romano – depositando piccoli e grandi in tondo tra scuola media, asilo e liceo – serve ogni giorno a ritrovare la giusta misura delle cose e ad affrontare la giornata con qualche dose in più di equilibrio. Serve a me più che a loro, come ormai temo sia del tutto chiaro persino ai miei figli. E mi aspetto da un giorno all’altro che, una bella mattina, qualcuno di loro tiri il freno a mano e mi faccia scendere al semaforo: “Vai, babbo. Ormai sei grande”. Andrea Romano editor Marsilio, docente universitario e deputato Pd IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 24 GIUGNO 2016 PIXELL ANNO XXI NUMERO 148 - PAG II Altro che 80 euro, Il Foglio te ne dà 250. Abbonati al Foglio a soli 199 euro, riceverai sconti e promozioni per un importo complessivo pari a 250 euro. Per te 800 miglia del Programma MilleMiglia di Alitalia, 10 euro di sconto con Trenitalia, 5mila punti EnelPremia 3.0*, 20 euro di sconto con Airbnb, 5 euro di sconto al giorno con Autogrill, 4 euro di sconto al mese per un anno con Gnammo, 8 euro sul primo ordine con Deliveroo e uno sconto esclusivo con Fastweb.** *Utilizzabili per richiedere un bonus sconto di 50 euro sulla bolletta di Enel Energia. 2̆HUWDYDOLGDVRORSHUDEERQDPHQWLDQQXDOL³)XOO´H̆HWWXDWLVXOQRVWURVLWR¿QRDO ,QIRHFRQGL]LRQLGHOOHR̆HUWHVXDEERQDWLLOIRJOLRLW Scritto per essere letto un passo avanti ANNO XXI NUMERO 148 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 24 GIUGNO 2016 STORIA D’UN GRANDE MASSACRO Oggi il Papa arriverà in Armenia, un secolo dopo il genocidio che cancellò l’antica comunità cristiana. La persecuzione raccontata dagli archivi vaticani ll’inizio di giugno 1915 l’arcivescovo Angelo Maria Dolci, delegato apostolico a Costantinopoli, era venuto per la prima volta a conoscenza di avvenimenti riguardanti le aree interne dell’Impero ottomano. “Centinaia di armeni – così riteneva ancora in quel frangente e lo scriveva in un telegramma cifrato a Roma – sarebbero in fuga a causa delle persecuzioni perpetrate da musulmani. Voci di massacri, veritiere oppure artatamente diffuse, accompagnano questi flussi di profughi”. Il 22 di giugno venne a sapere che anche ad Adana era in corso un tentativo di “sradicare la componente armena e cristiana dall’intera provincia”. Centinaia di famiglie venivano scacciate con la forza dalle loro case, dai villaggi e dalle città e “messe sulla strada senza avere una meta certa dove recarsi”. All’inizio di luglio gli venne inoltre comunicato che 700 cattolici, tra i quali l’arcivescovo armeno-cattolico mons. Ignatius Maloyan, erano stati vittime di un massacro pianificato. Anche dalle altre province del- sto non era stata espressa in forma vincolante , non è stata mantenuta” dichiarò a Berlino in tono asciutto e referenziale il 27 dicembre anche il nuovo ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte Paul Wolff Metternich. In realtà in quel periodo le grandi deportazioni nei sette vilayets armeni si erano già da tempo interrotte, solo pochi altri erano stati spediti tardivamente nel deserto. A Costantinopoli quasi nessuno era a conoscenza di quanto accadeva da quelle parti e cioè che nei campi di concentramento non solo ogni giorno centinaia di armeni morivano di fame e per le epidemie, ma venivano anche trucidati dai commando delle forze speciali. “La question arménienne n’existe plus”, “non esiste più una questione armena” aveva spiegato Talaat Bey già il 31 agosto all’ambasciatore tedesco ad interim, il conte Ernst Hohenlohe-Langenburg. Un solo risultato aveva ottenuto l’intervento del Papa: agli Armeni di Costantinopoli era stato risparmiato ogni ulteriore provvedimento o deportazione. Non vennero inoltre adottate altre misure nei confronti delle istituzioni cattoliche. Verso la fine dell’anno anche Monsignor All’inizio di luglio del 1915 il delegato apostolico a Costantinopoli fu informato di azioni pianificate contro i cristiani “La questione armena non esiste più”, disse il ministro dell’Interno ottomano ricevendo in udienza l’ambasciatore tedesco l’est del paese gli arrivavano notizie di un complessivo allontanamento forzato di tutti gli armeni cattolici e non, e dell’uccisione di migliaia di uomini tra i quali sacerdoti e vescovi. Furono queste le ragioni che lo spinsero a indirizzare, all’inizio di luglio del 1915 una richiesta scritta di grazia al Gran Visir dell’Impero ottomano, Said Halim. Nel frattempo, mentre gli armeni ortodossi a causa delle loro rivendicazioni per l’uguaglianza di diritti politici erano generalmente malvisti, e per i loro contatti con la sede del catholicos di Etchmiadzin, la città santa degli armeni, situata nella parte russa della loro area di insediamento, erano accusati di collaborazionismo con il nemico, non sussisteva alcun dubbio sul fatto che gli armeni legati a Roma fossero tra i più fedeli sudditi del sultano. Anche nel caso in cui i turchi avessero giustificato le deportazioni come misura di prevenzione contro pericolose insurrezioni, non c’era alcun motivo di coinvolgere i cattolici, proprio perché costoro avevano rinunciato a qualsiasi attività politica, causando peraltro una forte irritazione nei loro confratelli ortodossi. Eppure, per quanto il delegato apostolico facesse presente che con questo atto di clemenza nei confronti dei cattolici armeni si sarebbe accattivato la benevolenza della Santa Sede, il Gran visir non lo degnò della benché minima risposta. “Alla luce del male che questo stato stava causando alle popolazioni non musulmane – scrisse mons. Dolci il 19 luglio del 1915 al cardinal Girolamo Gotti, le potenze cristiane avevano il dovere di intervenire”. Alla fine di luglio l’Osservatore Romano riferiva di massacri contro i cristiani di Diyarbekir. Il mese successivo non c’era più alcun dubbio sulla portata delle aggressioni poste in essere dai turchi. “Questo governo si è reso colpevole di terribili atrocità nei confronti di cittadini armeni innocenti nelle aree interne dell’Impero. In alcune regioni sono stati massacrati, in altre deportati in luoghi sconosciuti, per farli morire di fame lungo il percorso. Ci sono madri che hanno venduto i propri figli, per preservarli da morte certa. Si lavori instancabilmente per fermare questa barbarie”. Questo scriveva il 20 agosto del 1915 monsignor Dolci al cardinal Pietro Gasparri, segretario di stato, per poi aggiungere quello steso giorno “è uno spettacolo barbaro, che mi spezza il cuore e mi riempie di orrore”. Più di ogni altra cosa però lo affliggeva il senso di personale impotenza. “Mi sono recato più volte dal Gran visir e dal sottosegretario per gli affari esteri. Nel corso dei colloqui il Gran visir mi ha sempre dimostrato grande benevolenza nei confronti dei cattolici armeni, la cui fedeltà al suo governo non gli era certo sfuggita, promettendomi che sarebbero stati rispettati. Eppure alle promesse non ha fatto seguito alcuna azione concreta”. E infatti alla fine del mese altri 7.000 cattolici armeni vennero deportati da Angora (Ankara). Altri loro confratelli erano stati già deportati alla fine di luglio: tutti i maschi tra 15 e 70 anni dopo una marcia di sei ore erano tasti aggrediti di sorpresa dalle unità speciali turche e ammazzati a colpi di Dolci dovette rassegnarsi a constatare che un indescrivibile numero di almeno un milione di Armeni gregoriani, tra i quali 48 vescovi e 4.500 sacerdoti, era stato trucidato fino ad allora e un ulteriore mezzo milione doveva seguirli nella tomba nel 1916. Inoltre fino a quel momento erano rimasti vittima dei massacri cinque vescovi armeno-cattolici, 140 sacerdoti, 42 religiosi e circa 85.000 fedeli. Undici Diocesi (Angora, Kaisery, Trebizon, Erzurum, Sivas, Malatya, Kharput, Diyarbekir, Mardin, Musch e Adana) erano state totalmente evacuate, 70 chiese e anche molte scuole erano state confiscate. In altre due diocesi, Aleppo e Marasch, le persecuzioni proseguirono mentre la sola diocesi di Brousse era stata fino ad allora risparmiata. I turchi avevano palesemente infranto la promessa di risparmiare i cattolici armeni. Deluso e amareggiato, Dolci scriveva questa lettera a monsignor Eugenio Pacelli, segretario agli affari esteri all’interno della segreteria di stato vaticana, proprio l’uomo che un giorno sarebbe diventato Papa: “Per difendere gli armeni, ho perso il favore di Cesare, il Nerone di questa infelice nazione. Intendo con queste parole il Ministro dell’interno Talaat Pascha, Gran maestro della Massoneria d’Oriente. Deve essere venuto a sapere delle forti pressioni esercitate sulle altre Ambasciate dopo l’intervento scritto del Santo Padre. Lo penso perché da quel momento in poi mi guarda davvero male. Per Benedetto XV non sussisteva alcun dubbio sul fatto che “lo sventurato popolo armeno andasse incontro a un quasi totale annientamento”. L’affermò testualmente il 6 dicembre 1915 in una allocuzione davanti al Concistoro, l’assemblea dei cardinali. Che avesse ragione lo certifica un rapporto del patriarca armeno-cattolico che giunse a Roma sei mesi dopo, nel giugno del 1916. “Il progetto di annientamento del popolo armeno in Turchia procede sempre a pieno regime. Gli armeni esiliati, esattamente come accaduto in precedenza, vengono condotti nel deserto e privati di ogni mezzo di sussistenza. Periscono così miseramente per la fame, le epidemie, le condizioni climatiche estreme. E’ certo che il governo ottomano ha deciso di eliminare il cristianesimo dalla Turchia prima della fine del conflitto mondiale. E tutto questo accade sotto gli occhi del mondo cristiano. Anche il tentativo da parte di Benedetto XV di fermare il genocidio degli armeni attraverso un intervento diplomatico, fallì miseramente. Eppure il Papa riuscì perlomeno ad attirare l’attenzione dei cristiani sul triste destino dei loro fratelli nella fede nell’Impero ottomano e sui crimini commessi dal regime turco. di Michael Hesemann* A “La prima grande tragedia inaudita, generalmente considerata il primo genocidio del XX secolo, ha colpito il vostro popolo armeno”, disse Papa Francesco lo scorso anno (foto LaPresse) vanga, martello, ascia e scure, affinché sembrasse un assalto delle popolazioni delle campagne. A molti dei circa 500 cadaveri, che rimasero insepolti sul fondo di una valle per settimane, vennero amputati naso e orecchie e cavati gli occhi. Un mese dopo, il 27 agosto, 1.500 cattolici armeni tutti di sesso maschile vennero arrestati, tra di loro anche il vescovo e 17 sacerdoti. In seguito al loro rifiuto di convertirsi all’islam, vennero privati di ogni proprietà e imprigionati. Due giorni dopo, prima un gruppo di 800 poi i restanti 700 dovettero abbandonare la città, incatenati a coppie. Vennero però esiliati e non uccisi grazie a un intervento comune dell’ambasciata tedesca e austriaca, del mmministro degli esteri bulgaro e di monsignor Dolci, che fecero forti pressioni sul ministro dell’Interno Talaat Bey per una soluzione diplomatica. La settimana seguente vennero deportate le donne e i bambini di Angora, cui spettò il privilegio di vedersi risparmiato un tratto di strada a piedi verso il campo di concentramento nel deserto siriano: poterono infatti viaggiare nei vagoni bestiame di un treno. Proprio questi risultati apparentemente positivi, di cui beneficiarono i cattolici ar- Alle donne e ai bambini fu risparmiata la marcia verso il campo di concentramento: viaggiarono in vagoni bestiame meni, irritarono gli ortodossi. Anche quando Dolci in un memorandum per il patriarca armeno-ortodosso assicurò di aver avviato un processo di allentamento delle persecuzioni, al quale verosimilmente anche l’ambasciatore statunitense Morgenthau avrebbe dato il suo apporto, disposto com’era a intervenire su Scheich-ul Ilam, Enver Pascha e Talaat Bey così come sul ministro della giustizia Ibrahim Bey, rimase nell’aria un vago sentore di diffidenza. Al Patriarca non piaceva che degli apparenti privilegi fossero riservato ai soli cattolici, il che nel vilayet di Angora aveva portato perfino a dei passaggi in massa di Armeni gregoriani nelle file della Chiesa Cattolica, il che non rientrava certo tra gli auspici del Papa. IN questo senso il Segretario di Stato Gasparri raccomandò al delegato apostolico che il suo impegno non fosse circoscritto ai cattolici “io sono padre di tutti i cristiani, anche di quelli che non mi accettano come tale”, sono le parole con le quali Benedetto XV aveva definito un suo “ecumenismo del sangue”. Per un mese e mezzo Papa Benedetto XV si era affidato al talento diplomatico del suo delegato, a questo punto però prese direttamente lui in mano le redini. Sempre durante il mese di agosto, così venne fatto sapere a Dolci, il Pontefice dapprima si rivolse al kaiser Guglielmo II e all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe chiedendo loro di intercedere a favore degli armeni presso gli alleati turchi. Quindi prese egli stesso la parola e scrisse di propria mano al sultano. “Il Santo Padre – rese noto il cardinale Gasparri alla nunziatura di Vienna – è sconvolto dalle notizie dei terribili massacri contro gli armeni commessi da musulmani, e con il cuore gonfio di compassione per questi sventurati, ha deciso di scrivere a sua maestà, il sultano Mehmet V, per far sì che Egli, avvalendosi dei suoi poteri istituzionali, ponga fine a questa atroce carneficina”. Attraverso l’ambasciata di Costantinopoli il testo autografo giunse nelle mani di monsignor Dolci, che doveva personalmente recapitarlo al palazzo del sultano. Vi si leggeva testualmente: “Maestà, tra le afflizioni che ci procura la grande guerra nella quale si trova coinvolto il potente impero di Vostra Maestà assieme alle grandi nazioni d’Europa, ci spezza il cuore l’eco dei dolorosi lamenti di un intero popolo, che nel territorio governato dagli ottomani è sottoposto a indescrivibili dolori. La nazione armena ha già visto molti dei suoi figli giustiziati, mentre molti altri sono stati arrestati o mandati in esilio. Tra di loro ci sono anche numerosi religiosi e perfino alcuni vescovi. E ci è stato recentemente riferito che gli abitanti di interi villaggi e città sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, per essere quindi dislocati in remoti campi di raccolta tra grandi dolori e pene indicibili, dove tra angherie psichiche e terribili privazioni, devono sopportare ogni tipo di mancanza e perfino i morsi della fame. Noi crediamo, Maestà, che eccessi di questo genere si siano verificati contro la volontà del governo di Vostra Maestà. Per questa ragione ci rivolgiamo, colmi di fiducia nella Vostra Maestà, invitandovi fervidamente, nella Vostra sublime Magnanimità, a dimostrare compassione e a intervenire a favore di un popolo che proprio grazie alla religione nella quale si riconosce, viene invitato a servire fedelmente e devotamente la persona della Vostra Maestà. Dovessero risultare tra gli armeni dei traditori della patria o persone responsabili di altri crimini, costoro dovranno essere giudicati e puniti in conformità al diritto vigente. Possa quindi la Vostra Maestà in virtù del suo grande senso di giustizia non lasciare che degli innocenti ricevano la stessa pena di chi è colpevole e possa la Vostra sovrana clemenza raggiungere anche coloro che hanno commesso delle mancanze”. La notizia dell’intervento del Papa venne resa nota dalla stampa, come previsto. Il cardinale Gasparri, segretario di stato, tentò inoltre di mobilitare la diplomazia austriaca e tedesca. In due comunicazioni scritte (del 15 settembre e del 2 ottobre) incaricò ambedue i nunzi, Scapinelli a Vienna e Fruehwirth a Monaco, di adoperarsi preso quei governi “con discrezione ma anche con grande energia”, affinché “venisse posta immediatamente fine a questo barbaro operato”. Se non avessero agito con sufficiente sollecitudine, Austria e Germania si sarebbero rese corresponsabili dei massacri. Con queste parole mons. Fruehwirth si rivolse a Mathias Erzberger, il delegato centrale bavarese e alla commissione missionaria del Comitato centrale dei Cattolici di Germania, che si riunì il 29 ottobre del 1915 a Berlino. In quella stessa giornata l’organismo decise di redigere una petizione rivolta al cancelliere del Reich Friedrich Alfred von Bethmann Hollweg, affinché “venisse posta immediata fine alle misure punitive oltremodo dure che venivano impiegate contro gli armeni da parte del governo turco” e venisse fermato “l’incombente annientamento dell’intero popolo armeno”. In una lettera del 10 novembre il cancelliere agì di conseguenza dando mandato all’incaricato d’affari il Freiherr von Neurath, di “far valere – in qualsiasi occasione gli si presentasse ed esercitando la massima pressione – la sua influenza presso la Sublime Porta a favore degli armeni e di prestare articolare attenzione affinché le misure coercitive della Sublime Porta non si estendessero ad altri gruppi della popolazione cristiana residenti in Turchia”. Questo tentativo però non sortì alcun effetto. Ciononostante l’impegno di ambedue i nunzi fu riconosciuto dal Papa che li elevò al rango cardinalizio il 6 dicembre di quello stesso anno. In quegli stessi giorni monsignor Dolci si trovava di fronte a un problema totalmente differente. La Sublime Porta si rifiutava infatti ostinatamente di concedergli udienza presso il sultano, che avrebbe ricevuto dalle sue mani la lettera autografa del Papa. Soltanto l’intercessione dell’ambasciata tedesca ottenne il risultato sperato: sei mesi dopo, il 23 ottobre del 1915, il delegato apostolico venne finalmente ammesso al cospetto del sultano. La risposta del sultano si fece attendere altre quattro settimane e giunse il 19 novembre 1915. Tanto più deludente fu però il suo contenuto, che si limitava a sbandierare la bugia propagandistica già diffusa dalla Sublime Porta, secondo la quale “le deportazioni erano la legittima risposta del governo nei confronti di un complotto degli armeni. Per questa ragione era impossibile per lo stato turco e i suoi ufficiali operare una distinzione tra elementi ribelli e pacifici”. Monsignor Dolci sperava comunque che l’iniziativa del Papa avesse quantomeno dimostrato una sua efficacia. Il tentativo di mediazione del Papa, la risposta del sultano giunta un mese dopo: “Gli armeni complottano contro lo stato” “Il risultato era stato assai positivo. Non soltanto si era ottenuto un improvviso miglioramento delle condizioni, ma anche le barbariche persecuzioni erano quasi del tutto cessate”, scriveva il 12 dicembre. Gli era stata perfino promessa un’amnistia per tutti gli armeni in occasione delle festività natalizie. Soltanto poco a poco Dolci si rese conto di quanto fosse stato ingannato e imbrogliato. In nessun caso i cattolici vennero fatti rientrare nelle loro città e nei loro villaggi. Al contrario, “ci sono ulteriori casi di deportazioni e c altri massacri,” dovette infine malinconicamente ammettere rivolgendosi ai suoi referenti a Roma. “Questa promessa (del ministro degli Esteri Halil Bey a monsignor Dolci) , che del re- *Storico e scrittore tedesco, ha compiuto lunghe ricerche presso l’Archivio segreto vaticano, esaminando oltre 3.000 pagine di documenti fino ad allora inediti. Frutto di questo lavoro è il libro “Voelkermord an Armenien”, “Il genocidio armeno” (Monaco, 2015). Nell’autunno del 2015 ha presentato i suoi lavori all’Accademia statale delle scienze della repubblica di Armenia, che lo ha insignito di un titolo di dottorato ad honorem. Con Georg Ratzinger ha scritto il libro “Mio fratello il Papa”. ANNO XXI NUMERO 148 - PAG IV IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 24 GIUGNO 2016 IL NUOVO INIZIO DI MOZART Personaggi unici e melodie perfette. Con “Le nozze di Figaro” Amadeus insegna il perdono che riapre la partita e fa ricominciare tutto. Da oggi in scena a Spoleto Una momento delle prove di “Le nozze di Figaro” che andrà in scena a Spoleto da questa sera (© Fondazione Festival dei Due Mondi ONLUS/foto ML Antonelli/AGF) di Mario Leone F igaro e il Conte di Almaviva, Susanna e Cherubino. La lotta di classe, l’aristocrazia giocata e sconfitta dalla servitù. Gli ideali della Rivoluzione Francese che circolano sempre più insistenti. Possibile ridurre la commedia umana per antonomasia a un manifesto sociale di vittoria sul potere da parte del debole? In un lavoro durato dall’ottobre 1785 all’aprile 1786 Mozart ci dona un’opera buffa ricca di leggerezza, velocità, luminosità “Le nozze di Figaro”, un’opera la cui genesi e le cui vicende legate alla censura son state messe a fuoco da Piero Buscaroli nel volume “La morte di Mozart” (Edizioni Bur), sono soltanto l’inizio dell’eccellente collaborazione tra il compositore e il letterato, Mozart e Da Ponte. I due consegnano alla storia una trilogia che, inaugurata dalle avventure del servo Figaro, prosegue con il dissoluto cavaliere Don Giovanni e si conclude con i giovani ufficiali Ferrando e Guglielmo del “Così fan tutte”. Tre opere strettamente connesse, specchio del rapporto tra Mozart e Da Ponte. Nel lavoro con i librettisti il genio di Salisburgo pretende un controllo pressoché totale. “La poesia deve essere serva obbediente della musica”. Un’affermazione che la dice lunga sulle idee e sulle difficoltà che il compositore ha nel rintracciare un libretto, a parer suo, degno della musica che vi comporrà. Ne visionerà centinaia prima di propendere per quello di Lorenzo Da Ponte, tratto dal romanzo “Le mariage de Figaro” di Beaumarchais (autore, quest’ultimo, della trilogia di Figaro: “Il barbiere di Siviglia”, “Le nozze di Figaro” e “La madre colpevole”). In un lavoro durato dall’ottobre del 1785 all’aprile del 1786 Mozart ci dona un’opera buffa connotata da leggerezza, velocità, luminosità (grazie al parco utilizzo di tonalità minori) e situazioni al limite del parossismo ma anche da ambiguità e finzione, dove i confini tra vero e verosimile sono talmente impercettibili da essere spesso inafferrabili. In questo contesto si muovono personaggi memorabili incisi nella drammaturgia, nell’unicità psicologica e nella singolare connotazione musicale ampliata grazie all’impiego di una grande varietà di forme musicali, allo stesso tempo utilizza- te e reinventate. Esemplare, in questo senso, l’uso della forma sonata la cui logica è estesa al teatro musicale attraverso un gioco di tensione/distensione (omologo del rapporto tonica/dominante) reso attraverso una macrostruttura tonale così pensata: re maggiore agli estremi (Ouverture e Finale IV Atto); Finale del II atto (940 battute, per la prima volta nella storia del melodramma, tutti i personaggi cantano in scena in un monumentale montare musicale) punto di massimo allontanamento e apogeo della tensione (MI b maggiore). Mozart concepisce un’orchestra di piccole dimensioni, funzionale al “colore” che vuole dare alla folle giornata. Particolarmente curati i fiati, utilizzati al meglio delle possibilità espressive e organizzati per Da oggi a domenica al Festival dei 2mondi Da questa sera sino a domenica 26, nell’ambito del Festival dei 2mondi di Spoleto, vanno in scena “Le nozze di Figaro”, opera di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte. La regia è curata da Giorgio Ferrara (direttore artistico di tutto il Festival), le scene da Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, i costumi da Mauri- Tutte le storie d’amore parlano di una cosa sola: soldi Q uando la trama ristagna, già all’inizio del secondo atto, Figaro se ne torna bel bello a casa e cantando con ilare disinvoltura sancisce che la cosa è possibile è naturale: è possibile che un signore feudale eserciti lo ius primae noctis su una serva, pertanto è naturale che il Conte voglia avvalersene nei riguardi della bella Susanna. Anche se è la sua promessa sposa, pazienza. Susanna accusa il futuro marito di “trattar scherzando un negozio sì serio” ma lui è serissimo, avendo colto con un secolo d’anticipo che “Le nozze di Figaro” sono il libretto più marxista di tutta la lirica. Di là dai convoluti inghippi e dalle sùbite agnizioni, permane dal primo all’ultimo verso una fedeltà mirabile al motto che la vecchia Marcellina brandisce nell’intento di obbligare Figaro a sposarsi con lei: “Argent fait tout”, il denaro fa tutto. Il denaro stabilisce la gerarchia sulla quale sono disposti i personaggi. In cima il Conte, che ne dispone a sufficienza da poter regalare a Figaro un’intera stanza di casa senza impoverirsi, e da promettere a Susanna di pagarla per ottenere favori che potrebbe arrogarsi gratis; in basso, contadini e contadinotte la cui ottusità rasenta la servitù volontaria: “Siamo tante contadine, e siam tutte poverine, ma quel poco che rechiamo ve lo diamo di buon cor”. Nel mezzo, i rapporti di potere sono regolati da un complesso sistema di compensi reciproci. Figaro non è immune e rischia di trovarsi invischiato in un contratto sponsale che lo lega a Marcellina per via di un vecchio debito di duemila monete, “promesso matrimonio con prestanza di danar”. L’affidabilità di notabili come don Basilio viene trasposta in termini economici (“Quel che compro io vendo”) e il potere stesso dei nobili viene identificato nel non pagare il dovuto, nel “dar novanta per cento”. All’ossessione monetaria si assomma il feticismo per gli oggetti. Sin dalla prima scena Susanna associa la felicità a un cappellino nuovo e Figaro a un nuovo letto, e per tre ore non c’è oggetto che passi di mano senza richiedere qualcosa in cambio: una promessa, un equivoco, uno spavento. Il culmine è quando l’oggetto chiave della trama, il biglietto galante, viene scambiato per “sommario dei debiti”, equiparando l’impegno amoroso a una cambiale; del resto, di fronte a Marcellina, a Figaro viene presentata l’alternativa secca “o pagarla, o sposarla”. Per questo l’amore vago e aereo, quello di cui Cherubino canta rivolgendosi “all’eco, all’aria, ai venti”, è mero simulacro dell’amore vero e concreto, che mercifica l’amato rendendolo “oggetto dell’abbandono”. La canzone “Voi che sapete” contiene la rivelatrice quartina: “Ricerco un bene fuori di me, non so chi’l tiene, non so cos’è”. Ne consegue che su questa scala sociale i pretendenti sono contrattabili alla stregua di beni, e saggiamente tutti sconsigliano a costruire una vera drammaturgia dei timbri. Da sottolineare, poi, l’utilizzo del clarinetto: tanto amato dal Compositore che gli dedicherà l’ultimo concerto per strumento solista, esso accompagna, con le sue sfumature calde e impalpabili, i momenti d’amore e desiderio. E’ lo strumento che dà voce allo struggimento di Cherubino o della Contessa. Gli ottoni invece intervengono nei momenti in cui l’intreccio narrativo si complica o l’esasperato livore sentimentale richiede un inspessimento del volume sonoro. L’orchestra è frequentemente posta in dialogo tra la sezione degli archi e quella dei fiati, ma anche con i protagonisti, divenendo anticipatrice di qualcosa che sta per accadere ma anche specchio psicologico degli stessi personaggi. Mozart crea si- Susanna di prendersi “un vile oggetto”, “un paggio”, “un incognito”. Susanna ammette la propria inferiorità di “donna triviale” ma non rifugge da una certa ipocrisia pelosa. Da un lato stigmatizza che il Conte, nel corteggiarla, venga “a contratto di denari”; dall’altro imposta la relazione con Figaro su una dialettica servo/padrone piccata sin dal primo recitativo: “Sei tu mio servo o no?”. Susanna non vuol essere serva e oggetto per il Conte però mercifica Figaro, non esita a pagare per riscattarlo da Marcellina; e la mercificazione diventa la strada della salvezza di Figaro in quanto figlio “perduto, anzi rubato”, nella scena dell’agnizione in cui sono “l’oro, le gemme e i ricamati panni”, insomma gli status symbol, “gl’indizi veri della nascita illustre”. Allora i “duemila pezzi duri” che Figaro deve a Marcellina si commutano in dote, e così i soldi raggranellati da Susanna e la regalia dell’inatteso padre don Bartolo, a riprova che l’amore è felice quando è ricco. D’altronde Figaro sa benissimo che il matrimonio è sempre una messa in scena. In un accesso di metateatro, annuncia che “per finirla lietamente e all’usanza teatrale, un’azion matrimoniale le faremo ora seguir”; e di fronte alle borse che gli vengono profferte non esita a incitare: “Bravi, gittate pur ch’io piglio ancora”, saldo nella consapevolezza che tutte le storie d’amore parlano di soldi. Antonio Gurrado zio Galante. L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e l’International Opera Choir saranno diretti da James Conlon. Tra gli interpreti principali Alessandro Luongo nel ruolo del Conte di Almaviva, Davinia Rodriguez nel ruolo della Contessa di Almaviva, Daniel Giulianini in quello di Figaro e Lucia Cesaroni in quello di Susanna. tuazioni con i singoli strumenti. Crea altri personaggi o presenta i lati oscuri di quelli che si muovono in scena. La musica diventa regìa del dramma. Mai, prima di quest’opera, la partitura ricopre un ruolo tanto importante nella “realizzazione” degli eventi drammatici. Come dice Richard Wagner: “Nel Figaro il dialogo si fa pura musica e la musica stessa diventa dialogo”. Questo modo di trattare i protagonisti, sia musicalmente sia drammaturgicamente, traccia un solco enorme tra Amadé e Gluck. Per quest’ultimo, i personaggi sono stereotipi e non individui veri e propri, quasi delle creature sovraumane che però presentano una certa staticità “evolutiva” nel percorso dell’opera. In Mozart invece sono figure complesse e connotate dalla mutevolezza degli stati d’animo. Il pubblico ha la percezione di conoscere i personaggi e di sentirli umanamente affini. La capacità di creare archetipi è la caratteristica che, mutatis mutandis, lega la trilogia Dapontiana di Mozart alla “trilogia popolare” di Giuseppe Verdi. I colpi di scena (si pensi alle entrate inaspettate di Cherubino, ai travestimenti, al Sestetto del III atto che assomiglia a un Finale anticipato), i fraintendimenti, il vorticoso succedersi degli eventi, ma anche l’ambiguità umana, l’ambivalenza, l’istinti- vo imperare dei sentimenti e degli imbrogli, culminano scenicamente nel conte inginocchiato che chiede perdono alla Contessa, perché “Le nozze di Figaro” sono anche un’opera sul perdono. Finis coronat opus. Tutti dovrebbero gioire perché “Or tutti contenti saremo così”. Diavolo di un Mozart. Inventa una di quelle melodie tra le più struggenti e melanconiche della sua produzione, con gli archi che accompagnano e raddoppiano sino a esplodere nella fe- Qui risiede la geniale e struggente bellezza di tutta la sua musica: quando sembra tutto finito, si ricomincia da capo sta che chiude questo giorno frenetico, folle. Anche l’esperto ascoltatore mozartiano va via con la certezza che in ogni sua opera il compositore riapre la partita, consegnandoci un nuovo mondo da guardare e di guardarsi, una nuova strada da percorrere. Qui risiede la geniale e struggente bellezza di tutta la sua musica: quando sembra tutto finito, si ricomincia da capo. Come diceva Gregorio di Nissa: “Da inizio a inizio, attraverso inizi che non hanno mai fine”. Tra tradimenti e inganni, qui nasce l’Europa moderna V isto il gran parlare che si è fatto quest’anno di corna legalizzate, travestitismo, mobilità sociale, amore come diritto e viceversa, a Spoleto, per la 59esima edizione del Festival dei Due Mondi, s’è deciso di aprire le danze, questa sera, con “Le Nozze di Figaro”, di Wolfgang Amadeus Mozart (musica) e Lorenzo Da Ponte (libretto), il capolavoro che di ciascuno di questi capisaldi del costume socio-erotico è sontuosamente provvisto. E’ il 1786, sono i prodromi della rivoluzione che abbatterà la monarchia francese, cambiando i connotati allo spirito del Vecchio continente, tumultuano in tutta Europa e Wolfgang, se vuole ottenere il permesso di rappresentare il Figaro dall’imperatore Giuseppe II (fratello di Marie Antoinette, la quale, a Parigi, per colpa del libro da cui Mozart trae l’opera, fatica a mantenere l’ordine sociale), deve presentare un lavoro pulito da ogni granello di polvere da sparo, da ogni possibile attizzatoio di riscatto di classe. Così, Mozart e Da Ponte scrivono uno spassoso Beautiful al tempo di Lady Oscar, in cui smontano, rimontano e intrecciano coppie morganatiche e dell’establishment, amore e interesse, servi e padroni, travestendo, irridendo, compatendo ciascun personaggio, senza esclusione di colpi: a Giuseppe II sfuggì che il focolaio egualitario stava esattamente in questo, ben nascosto, ma fumante. L’opera ha come sottotitolo “La folle giornata” perché succede tutto in ventiquattr’ore, come nell’Ulisse di Joyce, nella vita di una farfalla e nei referendum per uscire dall’Europa. Ma non si tratta di una corsa contro il tempo, quanto piuttosto del percorso che conduce ad accettare che si è da esso determinati (anche questo è amaramente egualitario). Il Conte di Almaviva, uomo maturo avviato all’anzianità, non ha più l’età per spassarsela con le fanciulle per merito: non gli resta che pagarle, abusare del suo ufficio. Invidioso del paggio Cherubino, che ha l’età e le forze per fare il farfallone amoroso, vuole cacciarlo via in modo che non possa più andare “notte e giorno girando, delle belle turbando il riposo”. In un impeto di dispotismo illuminato, ha abolito lo ius primae noctis, ma ora che sta per sposarsi Susanna, da lui assai desiderata (come tutti gli anzianotti un po’ bavosi, il conte confonde amore e desiderio), vorrebbe trovare un modo sottile per ristabilirlo e prendersi ciò che, in altri tempi, gli sarebbe spettato di diritto. Sua moglie, la Contessa di Almaviva, viene allertata non solo del piano del consorte, ma pure di come egli sia un traditore seriale: reagisce come tutte le donne del suo rango, corrugando la fronte e lasciandosi sfuggire un “ahimè”. Pungolata dalla terza classe, nella persona di Susanna, però, la contessa finirà con l’ordire un tranello ai danni del Conte: i suoi complici vogliono inchiodarlo per guadagnarsi il diritto ad amarsi senza interferenze, lei vuole solo tornare a sentire il suo calore. Si traveste da Susanna, gli dà appuntamento in giardino, di notte e lui arriva: per la prima volta dopo chissà quanto, forse per la prima volta in assoluto, suo marito le rivolge parole d'amore. Per lei, in quanto moglie, cioè proprietà garantita, signora matura che ha nel viso il memorandum della vecchiaia di entrambi, il Conte aveva smesso di onorare le promesse matrimoniali più dolci, badando solo a piantonarla come fosse una cassaforte. Eppure in quel momento in cui lei è un’altra e lui è per un’altra, Mozart e Da Ponte inseriscono il primo, vero, assoluto momento di tenerezza di tutta l’opera e l’assist per il disvelamento del suo senso: il perdono. E’ così intenso quel loro sfiorarsi nella menzogna che le loro identità, sia vere che inventate, si annullano e forse entrambi si guardano in modo nuovo e si ritrovano. Poco più tardi, quando l’inganno è svelato, infatti, la Contessa assolve il Conte e lui le prende la mano. A volte per ritrovarsi ci si deve mascherare. Ci si deve tradire. Per questo è importante che entrambe le cose restino proibite. Parola di Figaro, la miccia dell’Europa moderna. Simonetta Sciandivasci