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Violenza sui minori
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referire la verità
S
olo pochi mesi fa qui nella
pro-cattedrale di Dublino
celebravamo una liturgia
del lamento penitenziale
(cf. Regno-att. 6,2011,159;
Regno-doc. 7,2011,224), ripensando
alle sconvolgenti violenze d’ogni genere compiute su minori da sacerdoti
e religiosi in questa diocesi (...). Per me
è stato un momento di speranza. La liturgia era stata preparata da sopravvissuti alle violenze e alcuni di essi
sono stati parte attiva nella sua conduzione.
Coraggiosamente, uomini e donne
che avevano subìto violenze hanno
espresso il proprio dolore e le proprie
speranze. Ritengo sia stato un momento che ha contribuito alla guarigione di molti e ha dato loro una rinnovata fiducia di sé e un sentimento di
rinnovata speranza nella Chiesa che
non aveva creduto loro o, addirittura,
che li aveva traditi. A quella liturgia
ho visto molti volti noti in lacrime; ne
ho notati altri, il cui nome non saprò
mai, seduti da soli, in silenzio, tristi.
Il mio primo pensiero leggendo il
Rapporto Cloyne è riandato subito a
quella liturgia e a coloro che l’avevano
organizzata e vi avevano preso parte.
Mi sono chiesto: che cosa stanno pensando oggi? Si stanno domandando
se tutta la liturgia non sia stata solo un
vuoto spettacolo? Se erano stati sfruttati per rilanciare l’immagine della
Chiesa? Le loro rinnovate speranze
erano solo un’altra delusione data da
una Chiesa che sembra incapace di
riformare se stessa?».
Sono le parole che mons. Diar-
Il Rappor to Cloyne, le reazioni del gover no,
la risposta vaticana
muid Martin, arcivescovo di Dublino
e primate d’Irlanda, ha pronunciato
in un’omelia il 17 luglio, quattro
giorni dopo che è stato reso noto il
rapporto d’indagine sulla diocesi di
Cloyne, guidata dal 1987 sino al
marzo 2009 da mons. John Magee,
già segretario personale di tre papi,
Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II.1
Sono 19 i casi presi in esame dalla
medesima commissione che si era occupata anche della diocesi di Dublino;
il mandato chiedeva d’analizzare come
le denunce di violenze erano state gestite sia dallo stato sia dalla Chiesa nel
lasso di tempo tra il 1o gennaio 1996 e
il 1o febbraio 2009. A parte 4 sacerdoti
nel frattempo deceduti, gli altri 15 sono
tutti rimasti nel ministero.
Il rapporto ha concluso che nonostante mons. Magee abbia dichiarato
di aver dato seguito alle normative
della conferenza episcopale – contenute nel Framework document – approvate nel 1996, egli ha avuto uno
«scarso interesse nel gestire i casi di
violenze sessuali su minori sino al
2008, ossia 12 anni dopo che il Framework document era stato adottato».
Al suo posto se ne occupava il vicario
generale, mons. O’Callaghan, ossia la
persona che per prima nel 1997 aveva
espresso apertamente riserve sul testo, in particolare laddove esso sottolineava la necessità di riferire alle autorità civili i fatti di cui il vescovo fosse
venuto a conoscenza.
Non solo. In una lettera citata dal
Rapporto, mons. O’Callaghan ha dichiarato d’essere preoccupato che si
«compromettesse seriamente la relazione con il sacerdote che veniva accusato», mettendo chiaramente in secondo piano la tutela delle vittime.
In questo modo nella diocesi «le
procedure stabilite nei protocolli della
Chiesa per affrontare le accuse di violenza sessuale su minori nel periodo
preso in considerazione (…) non sono
state messe in opera» – ha rimarcato
l’attuale amministratore apostolico
della diocesi, mons. Dermot Clifford.
E questo in un tempo a noi vicino.
Così ha preso corpo uno dei sentimenti più difficilmente governabili: la
rabbia. Da parte della gerarchia locale, ha detto mons. Martin nella medesima omelia, perché l’impegno di
tanti – clero e laici – profuso almeno
dal 1996 in poi è stato vanificato da
qualcuno che si riteneva fuori e al di
sopra del regime di salvaguardia nel
quale la propria diocesi e i vescovi irlandesi si erano impegnati a stare.
«Paradossalmente, appellandosi a una
propria interpretazione del Codice di
diritto canonico [queste persone] si
sono persino poste al di sopra e oltre
le norme che l’attuale papa stesso ha
promulgato per la Chiesa intera».
Rabbia, inoltre, nel prendere atto
che purtroppo nella Chiesa vi è ancora chi «preferirebbe che la verità
non venisse fuori», affermazione per
la quale qualche anno fa sempre Martin era stato aspramente criticato.
Dal risentimento
alla crisi diplomatica
Il culmine però dell’espressione di
questo sentimento l’ha raggiunto il
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Mons. Diarmuid Martin.
giovane (e cattolico) primo ministro
irlandese in un infuocato discorso tenuto alla Camera bassa del Parlamento il 20 luglio. Enda Kenny ha infatti definito le conclusioni di questo
rapporto «di diverso ordine. Infatti
per la prima volta in Irlanda un rapporto sulle violenze sessuali su minori
manifesta un tentativo da parte della
Santa Sede di far fallire un’indagine
in una repubblica sovrana e democratica e questo tre anni fa, non trent’anni fa. E nel fare questo il Rapporto Cloyne porta alla superficie
disfunzioni, disconnessioni, elitarismi… e il narcisismo che domina la
cultura vaticana ai nostri giorni. La
violenza sessuale e la tortura di minori sono state declassate o gestite per
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sottolineare invece il primato dell’istituzione, il suo potere, il suo status, la sua reputazione. Invece d’ascoltare le testimonianze di umiliazione e
di tradimento con “l’orecchio del
cuore” di san Benedetto… la reazione del Vaticano è stata quella di
parcellizzare e d’analizzare tutto con
l’acribia del canonista». Per non parlare – secondo Kenny – del fatto che
i sacerdoti accusati sono ancora nel
ministero; addirittura uno avrebbe
celebrato le nozze della propria vittima.
Quando poi il ministro ha esaltato la superiorità morale delle leggi
della Repubblica irlandese a difesa
dei minori rispetto alle leggi canoniche, «che non hanno né legittimità
né spazio nelle questioni di questo
paese»; quando ha chiuso il suo discorso piegando un passaggio della
Donum veritatis, firmata nel 1990
dall’allora card. Ratzinger, a riprova
che la Santa Sede ritiene che la legge
canonica possa prescindere da quella
civile, allora è divenuto chiaro che, oltre il sentimento e la retorica, si è
aperta una breccia per un disegno
politico di matrice anticlericale e laicista. Il medesimo che guida tutti coloro che, a partire dalla rabbia e dal
dolore delle vittime, istruiscono improbabili cause legali contro il papa
(assieme ai cardd. Levada, Bertone e
Sodano) presso la Corte penale internazionale, come è avvenuto a metà
settembre.
Di uguale tenore è stata la boutade del ministro irlandese della Giustizia, Alan Shatter, che ha chiesto
una legge che obblighi i sacerdoti a riportare alle autorità giudiziarie le notizie di reato di cui vengono a conoscenza durante la confessione.
Nel frattempo il nunzio in Irlanda,
mons. Giuseppe Leanza, ha incontrato il vice primo ministro e ministro
degli Esteri, Eamon Gilmore, che gli
ha consegnato copia del Rapporto
Cloyne e ha chiesto formalmente alla
Santa Sede una risposta. Anche in
questa occasione il ministro ha ribadito l’idea che «le autorità vaticane
avessero ostacolato gli sforzi della
Chiesa d’Irlanda». Così la Santa Sede
il 25 luglio ha deciso di richiamare il
nunzio a Roma; due giorni dopo, il
27, le due Camere del Parlamento
hanno approvato una mozione sul
Rapporto nella quale si «deplora l’intervento del Vaticano che ha contribuito a ostacolare» le azioni sia dello
stato sia dei vescovi irlandesi. A questo punto si è rischiato l’incidente diplomatico.
La risposta
L’estate ha in parte sopito le polemiche e ha dato modo alla Santa
Sede di stendere un’articolata risposta, presentata dal sottosegretario per
i rapporti con gli stati, mons. Ettore
Balestrero, all’ambasciata irlandese
presso la Santa Sede il 3 settembre.
In apertura due considerazioni
fondamentali: da un lato, «la Santa
Sede desidera riaffermare, innanzi-
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tutto, il proprio orrore verso i crimini
di violenza sessuale che sono avvenuti nella diocesi, come d’altronde
per quelli avvenuti nelle altre diocesi
irlandesi». Dall’altro, prende atto
delle «gravi mancanze nel governo
della diocesi e il trattamento inadeguato delle accuse di violenza. È particolarmente inquietante che tali
mancanze siano potute accadere nonostante i vescovi e i superiori religiosi avessero assunto l’impegno di
applicare le linee guida sviluppate
dalla Chiesa in Irlanda per garantire
la protezione dei minori, e nonostante
le norme e le procedure della Santa
Sede relative ai casi di violenza sessuale».
Nel prosieguo del corposo documento (che consta di ben 70.000 caratteri; la nostra traduzione integrale
su uno dei prossimi numeri de Il Regno-documenti), si analizzano con meticolosità tre grandi questioni: per
prima la lettera del gennaio 1997
nella quale il nunzio del tempo –
mons. Luciano Storero – informava i
vescovi irlandesi della reazione della
Congregazione per il clero (guidata
allora dal card. Dario Castrillón Hoyos) sul Framework document. In essa
si evidenziavano le differenze tra il
diritto canonico e quello civile e in
particolare la vexata quaestio delle
modalità con cui le autorità ecclesiastiche possono/debbono o meno riferire all’autorità giudiziaria dei casi
di cui vengono a conoscenza. D’altra
parte, nota la risposta vaticana, l’obbligatorietà della denuncia per le violenze sessuali non esisteva neppure
per lo stesso diritto civile irlandese e
se ne è parlato per la prima volta tra
il 1996 e il 1997.
Poi la ricostruzione della genesi
del Framework document e un rapido
excursus sul meccanismo della recognitio, punto in cui la lettera entra nel
merito del rapporto tra conferenze
episcopali e sede apostolica e sul diverso livello di normatività dei documenti prodotti dalle une o dall’altra.
Il documento degli irlandesi non ebbe
una recognitio per il semplice fatto
che non la chiese, non altro. E questo
va letto – afferma – anche «nel contesto della decisione della Santa Sede
del 1996 di estendere all’Irlanda le
normative particolari che erano già
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state concesse ai vescovi degli Stati
Uniti nel 1994»: e cioè l’allargamento
della prescrizione fino a 10 anni dopo
la maggiore età della vittima e l’innalzamento dell’età per definire il delitto di violenza sessuale da 16 a 18
anni della vittima (cf. Regno-doc.
15,2010,457).
Infine le attuali normative vaticane, volute con molta forza da papa
Benedetto XVI sin da quando era
prefetto della Congregazione per la
dottrina della fede; su di lui la lettera
compie un’ultima precisazione: non si
può citare – come ha fatto il ministro
Kenny – il passo della Donum veritatis (1990) a firma dell’allora card.
Ratzinger, dove si dice che non si possono applicare alla Chiesa, «puramente e semplicemente, dei criteri di
condotta che hanno la loro ragion
d’essere nella società civile o nelle regole di funzionamento di una democrazia» (n. 39; EV 12/299). Esso si
riferisce «al servizio del teologo alla
comunità ecclesiale (…) e non al
modo in cui la Chiesa dovrebbe agire
in una società democratica in senso
ampio e nemmeno alle questioni della
protezione dei minori».
Il documento ha quindi gioco abbastanza facile nel dimostrare che la
Santa Sede in quanto tale non ha
ostacolato il lavoro della Commissione d’inchiesta né quello della locale conferenza episcopale; che a partire dal 2001 la Santa Sede si è dotata
di strumenti più efficaci per rispondere alla crisi delle violenze sessuali,
quantificando (cf. l’intervista al promotore di giustizia della Santa Sede,
mons. A. Scicluna, in Regno-att.
7,2010,196) in 3.000 i casi che tra il
2001 e il 2010 la Congregazione per
la dottrina della fede ha trattato di sacerdoti diocesani e religiosi accusati di
violenze sessuali commesse lungo 50
anni.
La risposta vaticana sarà riuscita a
convincere gli irlandesi? In prima battuta il ministro Gilmore ha detto che
essa getta «basi su cui possiamo costruire»; poi ha aggiunto: «alcune
delle argomentazioni (…) sono molto
tecniche e concentrate su tematiche
giuridiche», mentre il governo è più
preoccupato del benessere dei minori.
Inoltre, esiste un «senso di tradimento
che è stato avvertito dal popolo irlan-
dese su questo argomento» anche per
la «particolare posizione di cui gode
la Chiesa cattolica in questo paese».
La Santa Sede, ribattendo punto
su punto con pacatezza e precisione,
ha difeso il proprio operato, anche se
la crisi di credibilità della Chiesa provocata dalle rivelazioni sulle violenze
lascia ancora aperto un interrogativo:
perché? Perché è stato possibile che in
tanti anni una diocesi abbia potuto
essere così governata senza che ciò
concretizzasse un intervento da parte
di Roma, se non le dimissioni chieste
nel 2009, a cose ormai compiute? Sicuramente oggi esistono linee di condotta per i casi di violenza sessuale
migliori rispetto al passato; ma il fatto
che sia incerto il come applicarle configura la necessità di un ulteriore approfondimento sul rapporto tra vescovo, conferenza episcopale e sede
apostolica.
Il fatto poi che in un paese di forte
tradizione cattolica si sia aperta una
discussione – per quanto in alcuni
tratti urlata e sgrammaticata – sui
rapporti tra stato e Chiesa, fa della
questione della violenza sui minori
un crocevia a cui né stato né Chiesa
si possono sottrarre. In esso sono in
campo più direzioni: oltre a quella
intraecclesiale anche quella di un rinnovato rapporto tra le istituzioni. Se
si attraversa l’incrocio senza rispettare le precedenze o guidando distrattamente, l’incidente è quasi una
certezza.
Maria Elisabetta Gandolfi
1
Con il Rapporto Cloyne, sono quattro i
rapporti relativi alle violenze compiute all’interno di istituzioni della Chiesa cattolica irlandese. Il primo risale al 2005 e ha riguardato
la diocesi di Ferns; il secondo è il Rapporto
Ryan, sulle scuole «industriali» gestite da congregazioni cattoliche, reso noto nel maggio
2009 (cf. Regno-doc. 13,2009,436); il terzo è il
Rapporto Murphy sulla diocesi di Dublino, reso
noto nel novembre dello stesso anno (cf. Regnoatt. 22,2009,736). In seguito alla pubblicazione nel dicembre 2008 di un rapporto (Elliott
Report) dell’organismo istituito a livello di conferenza episcopale per sovrintendere all’applicazione delle norme che essa si era data – il
National Board of Safeguarding Children – il
mandato della Commissione Murphy, dal
nome del giudice che la presiedeva, è stato allargato alla diocesi di Cloyne. La pubblicazione del Rapporto uscito a luglio ha subito un
forte rallentamento dovuto al fatto che per alcuni dei casi trattati era in corso il processo.
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