biennale del coltello – materiale

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biennale del coltello – materiale
BIENNALE DEL COLTELLO – MATERIALE
STUDIARE BENE COLTELLO (STORIA E LAVORAZIONE) SU FRAILE e del resto Almeno i punti più salienti – Chi
dichiara di conoscere una lingua dovrà essere in grado di dare indicazioni – presentare il paese – parlare del coltello (storia e
lavorazione) nella lingua data!
Pattada è un comune italiano di 3.283 abitanti della Provincia di Sassari, appartenente all'antico territorio del Logudoro e più
precisamente alla sub-regione del Monteacuto.
Assieme ad Ardara, Ittireddu, Mores, Nughedu San Nicolò, Ozieri e Tula, fa parte dell’unione dei comuni. Paese di montagna
(quasi 900 metri sopra il livello del mare, il più elevato della provincia di Sassari) Pattada possiede un grazioso centro storico con vicoli
lastricati o in acciottolato che regalano affascinanti angolature.
Lo stemma comunale riprende lo stemma del vescovo Filippo Campus Chessa.
È sormontato da un'aquila nera in campo marrone sotto la quale è posta su un prato verde una chiesa bianca con torre campanaria.
Il paese conserva pochi esempi di architettura domestica tipica cinque-seicentesca, caratterizzata da costruzioni che sfruttavano il
costone roccioso per ricavare sottani e cantine, disporre di due ingressi a sud e a nord e di un cortile anteriore o posteriore.
Le murature erano in grosse scaglie di granito, più raramente in conci dalla vicina Buddusò o di tufo trachitico di Ozieri.
Sono abbellite talvolta da soglie e architravi in trachite, ornate da motivi a fiamma e scritte augurali cinque-settecentesche come: “Si
inimicus exurierit ciba illum”.
Oltre agli edifici in pietra si segnalano piccoli palazzi di stile neoclassico con signorili facciate e preziosi elementi ornamentali e alcune
particolari costruzioni in stile Liberty.
Sono presenti alcuni edifici dalle sobrie facciate neoclassiche.
Per chi arriva da nord e ovest il paese si presenta contornato da una splendida pineta, motivo della sua frequentazione turisticoclimatica.
Il paese conta circa 4150 unità immobiliari.
Le strade si aprono a formare capienti piazze e ampi slarghi, insoliti in un paese di montagna, dove si trovano varie fonti di granito di
fine Ottocento.
Negli ultimi due decenni abbiamo avuto una rivitalizzazione del paese.
Oggi sono disponibili un moderno palazzetto polivalente dello sport, due campi sportivi, un centro culturale, un centro sociale che accoglie
il centro anziani, laboratori per il tempo libero, una ludoteca. Dopo lunga contrapposizione si ottenne un istituto scolastico unitario che
comprende dalla scuola materna alla media inferiore di primo grado, cui seguì una generale ristrutturazione degli edifici scolastici.
Attiva anche una scuola dell’infanzia parrocchiale nata nel 1916, un baby parking e l’ospizio San Francesco, sorto all’inizio del
Novecento sull’area di un distrutto convento francescano.
Il patrimonio artistico subì un notevole depauperamento nel dopoguerra con la scomparsa dei dipinti del Tintoretto.
Opere di Pinuccio Sciola ornano Piazza dei Poeti di Sardegna e Piazza dei Poeti di Pattada.
Il settore trainante dell'economia del paese è quello agro-alimentare.
L’attività economica prevalente rimane la pastorizia che, secondo l’anagrafe di Teramo, conta 421 aziende, di cui 114 di bovini con
2060 capi, 114 di ovini con 27.774 capi, 10 di caprini con 500 capre, 131 di suini con 890, 55 di equini, 3 di api, una di conigli. La
cooperativa dedicata solo al latte ovino è una delle prime dieci in Sardegna e ha trasformato nel 2008 11.084.232litri di latte: la sua
produzione di pecorino romano è quasi interamente esportata in America, il resto nel mercato regionale e nazionale. Il latte vaccino è
lavorato in parte in piccoli caseifici per la produzione di peritas, sorta di caciocavallo. Per il resto si contano due pastifici, due
pasticcerie, quattro forni, tre esercizi per l’abbigliamento, sette per gli alimenti, due cartolibrerie. Una decina le imprese dedite
all’edilizia, due ai lavori forestali. Di recente attivazione un salumificio e un allevamento di lumache.
Il paese è noto a livello internazionale per l’artigianato del ferro che conta una decina di aziende, in particolare per la produzione
ancora tutta manuale dei raffinati coltelli a serramanico chiamati resolzas. Coltelli così rinomati, e allo stesso tempo diffusi, sin dal
tempo antico, tanto che sono celebrati dai poeti: Remunnu ’e Locu di Bitti, ad esempio, se la prendeva con un coltellinaio pattadese
perché aveva messo un’arma in mano ai suoi compaesani: Malaittu Canale patadesu / ch’at postu sos vitichesos in resoglia (“Maledetto
Canalis di Pattada che ha messo il coltello in mano ai bittesi”).
Non meno apprezzato l’artigianato del legno.
Di notevole importanza anche la presenza di una liuteria per la produzione di violini e altri strumenti a corda che hanno un buon
mercato in Giappone. In ripresa la produzione del torrone. Il centro ha una elevata scolarità, che insieme ad altri fattori ha alimentato
l’emigrazione.
Nel 1900 frequentavano le superiori 73 studenti; trent’anni dopo 129, di cui 31 femmine; in tempi recenti, ma non di obbligatorietà alla
frequenza, l’86% dei ragazzi tra i 14 e 19 anni.
IL TOPONIMO
Una delle ipotesi sul significato del nome “Pattada” dice che esso deriverebbe dal fatto che i vari centri sparsi un po' su tutto il
territorio decisero col tempo di unirsi tra di loro per aumentare la propria influenza e la propria forza, strinsero dunque un "patto" (da
cui appunto il nome Pattada) dal quale volle però escludersi Bantine, che rimase sempre distaccata dal principale centro abitato.
Altra affascinante teoria è quella avanzata dallo scrittore di origine pattadese Bruno Sini, secondo cui il nome potrebbe avere
addirittura una origine fenicia, infatti i termini "bath" "ada", che vogliono dire luogo sereno, hanno una notevole assonanza fonetica con
il nome Pattada.
Secondo il linguista tedesco Max Leopold Wagner, invece, il nome Pattada sarebbe riferito alla posizione geografica del paese e
avrebbe il significato di altipiano, già utilizzato in periodo anteriore a quello romano.
LA STORIA
L’abitato, che per dirla con l’Angius «trovasi al centro di un vastissimo orizzonte», si sviluppò certamente da tre nuclei ed era occupato
già nel Neolitico, come lascia supporre la presenza di domus de janas alle pendici dell’abitato, ora scomparse, ma su cui si incentrò la
leggenda delle janas, che grazie alla fragranza del loro pane vi attiravano dei malcapitati che non tornavano più indietro.
Di riti ancestrali parla il toponimo Oltulomines (“ruzzola uomini”) dato ad un dirupo.
Ma una storia complessiva degli abitati del territorio è difficile narrarla, perché mancano indagini e i monumenti sono molto interrati.
Si riferiscono al Neolitico i toponimi Marmuradas, Monimentos, Ucca ’e Furreddos, Concas Bòidas, Sa conchedda ’e Burrumbè e le caverne nei
dintorni di Olomène, citate già nell’Ottocento.
Conferma viene ora dalle ceramiche neolitiche trovate vicino al nuraghe Lerno o Santu Larentu, ma la natura dei luoghi fa ipotizzare
sepolture in tafone.
Al periodo nuragico vanno ascritti i 32 nuraghi noti dalla bibliografia, cui si aggiungono per accertamenti recenti Coluzzu, Santu
Matteu, Ucca ’e Furreddos, uno a Cherchizu ’e Josso, Addes Toltas, Olisè, Sa Niera, S’Abbaidolza, Màsala ecc.
L’impianto murario con ingresso coperto a piattabanda di S’Aghidade è un apparato difensivo databile al Calcolitico.
Tra le Tombe di giganti si ricordano quelle di Sant’Elia, Sa Pattada, un’altra finita ormai sotto l’invaso del Lerno, tutte del tipo a stele
centinata ed estremità opposta absidata, e le tre contigue di Sedda Otinnéra, mentre Norcheta è classificabile come allée couverte.
Spiccano per complessità il nuraghe Lerron quadrilobato, con antemurale e altri ambienti e il Sant’Elia, formato da due nuraghi
collegati, uno a corridoio e l’altro a cupola: Sas Domos de sa Terra a Cugadu è una delle maggiori testimonianze nuragiche del Monte
Acuto.
Oltre agli abitati collegati a nuraghi, come a Sa Pedra ’e s’Abba, Manzanittu, Sa Pattada ecc., ve ne sono di estesi non connessi a
fortificazioni, come Topoli e Pedru Cogu.
Tra i materiali nuragici sono la biprotome toro-muflone, che ha convergenze con consimili dell’Urartu, e l’offerente rinvenuto nello stesso
anno 1875 di stile “mediterraneizzante”, entrambi al Museo archeologico Nazionale di Cagliari.
Altri, fra cui una lama da Molinu, il modellino di nuraghe da Bunne, le cuspidi di lancia da nuraghe Piras e da Sa Pedra ’e s’Abba, un
torello e una navicella bronzea di 25 cm di lunghezza dall’area di Lerron e infine una eccezionale navicella di 60 cm di lunghezza,
sono andati disperse con la morte dei proprietari o per dono.
Rilevante nell’ambito dei bronzi d’uso nuragici è il ripostiglio di Sedda Otinnéra, costituito da bipenni e asce.
Durante il periodo medievale, Pattada fece parte della curatorìa di Lerron, nel giudicato di Torres, che in seguito fu conquistata dai
giudici di Arborea.
Quando l'Isola fu invasa dai catalano-aragonesi, Pattada passò alla signoria di Oliva fino al 1843. In seguito fece parte delle diocesi di
Castro.
LE CHIESE
Nella campagna lungo la strada che porta da Ozieri a Pattada, in prossimità del bivio per la frazione di Bantine, si trovano i resti
dell'insediamento medioevale di Biduvè. Il villaggio apparteneva alla Curatoria di Nughedu nel Giudicato di Torres, poi,
abbandonato definitivamente nel diciassettesimo secolo, è rientrato nella diocesi medievale di Bisarcio, mentre a partire dal 1503, dopo
il riordino delle diocesi deciso da Papa Giulio II, è passato a quella di Alghero. All'interno dei resti dell'antico villaggio, si trovano
le rovine della chiesa di Santa Caterina.
Procedendo verso Pattada troviamo la chiesa di San Michele o Santu Miali. La chiesa è stata edificata in forme romaniche intorno al
tredicesimo secolo, inglobando probabilmente una chiesa funeraria di epoca bizantina, poi nel 1600 ha subito restauri ed ampliamenti
con la costruzione di una nuova navata, poi crollata. L'edificio, a pianta rettangolare, presenta copertura esterna a doppio spiovente. Il
piccolo abside di forma semicircolare è orientato ad est. Il 29 settembre, giorno della sua ricorrenza, vi si celebrava la festa di San
Michele durante la quale i cavalieri di Pattada, in processione con le bandiere, erano soliti recarsi in questa piccola chiesa prima di
sciogliere l'antico voto e andare in pellegrinaggio verso il Santuario della Madonna del Miracolo nel paese di Bitti.
La chiesa di San Nicola ha, invece, pianta rettangolare e presenta una copertura esterna a doppio spiovente, sormontata da una
piccola croce in ferro battuto. L'orientamento della chiesa ad ovest, contrario rispetto alla vicina chiesa di San Michele, porta ad
ipotizzare che l'edificio sia stato costruito su una preesistente struttura paleocristiana di cui però non restano tracce. Conserva
all'interno una statuina del Santo, presumibilmente seicentesca, nonché un altare probabilmente settecentesco. Un'antica usanza
voleva che alla chiesa si recassero in pellegrinaggio le donne nubili nella speranza di maritarsi al più presto.
Nella frazione di Bantine troviamo le chiese di San Pietro (conserva i banconi laterali lungo la navata di ascendenza bizantina e
superiormente aggiustamenti gotico-aragonesi) e San Giacomo.
Il colle di San Gavino, che raggiunge un'altezza di 828 metri, era stato occupato già in periodo nuragico, come indicano i diversi
reperti ritrovati, probabilmente per la sua posizione strategica.
Sulla sommità del colle, in un ampio recinto chiamato piazzale Caduti in Guerra, si trova la chiesa di San Gavino, detta anche
di Santu Ainzu. La tradizione narra che su questo colle sarebbe stato fondato un Monastero da frati Benedettini originari di Pisa, e che
di esso facesse parte la chiesa dedicata al martire turritano San Gavino. In seguito, nel 1200, sarebbe stato occupato dai monaci
Camaldolesi, ed in questa occasione sembra siano state rubate dai pisani le campane. Sembra che, sul lato sinistro della chiesa, vi
fossero le celle dei monaci, ed al centro del complesso vi fosse un pozzo.
Agli inizi dell'800 una donna incinta è caduta in una fessura nel pavimento della chiesa semidistrutta perdendo la vita, ed ha rivelato
l'esistenza di una Cripta, nella quale sono state rinvenute alcune tombe. Nel 1838 i ruderi della chiesa ormai distrutta sono stati
utilizzati per costruire le mura del cimitero. La chiesa è stata, successivamente, ricostruita, ed è divenuta un sacrario dedicato ai caduti
della Prima Guerra Mondiale. Dall'alto del colle di San Gavino, lo sguardo spazia in tutto il circondario, da settentrione dove spicca la
massa del monte Limbara, alle campagne di Ozieri, fino al sottostante abitato di Pattada con sullo sfondo la vallata ed il lago di Lerno.
La chiesa della Nostra Signora del Rosario, detta anche di Nostra Segnora 'e su Rosariu, la cui facciata si affaccia su una stretta via
che si muove dalla piazza verso destra. La chiesa risale al '500 ed è realizzata in stile tardo gotico aragonese. Gli stemmi che si trovano
all'interno della chiesa risalgono alla famiglia che ne ha favorito la costruzione, quella dei Centelles, che per secoli ha governato il
Monteacuto.
Inizialmente la chiesa era dedicata a San Salvatore, e da essa aveva preso il nome il convento domenicano che vi si era insediato nel
1616. Ed in seguito, nel '700, i frati Domenicani, che erano incaricati della diffusione del culto della Madonna e della pratica della recita
del rosario, hanno cambiato il suo nome da chiesa di San Salvatore in chiesa della Madonna del Rosario. L'antico campanile era
cilindrico, ed è crollato a causa di un fulmine, sostituito da un campanile a canna quadrangolare.
La chiesa, con abside rivolto ad est, presenta una facciata a doppio spiovente, divisa in due nella parte mediana da una cornice
modanata.
Nella parte inferiore si apre l'ingresso principale, centinato con pietra a vista; nella parte superiore della facciata si apre un oculo
circolare.
Sul lato destro della facciata si inserisce il campanile quadrangolare.
La pianta della chiesa è caratterizzata da una navata lunga e stretta con cappelle che si aprono su entrambi i lati, suddivisa in quattro
campate, chiusa dall'abside quadrangolare.
La prima campata e l'abside sono coperte da volte a crociera, mentre volte a botte chiudono le tre campate centrali.
In piazza Francesco Crispi, sopra la piazza principale, dove prima c'era la periferia nord del paese e una serie di orti, si trova la piccola
chiesa di San Giovanni Battista, la cui parte più antica è la trecentesca navata realizzata in stile gotico.
San Giovanni è considerato il patrono degli allevatori e la statue lignea del Santo veniva portata in processione nei periodi di siccità. Il
24 giugno, in occasione della ricorrenza della nascita di San Giovanni, vi si svolge la festa dedicata al Santo, che inizia la sera
precedente. Secondo una tradizione diffusa in molte località dell'isola, anche a Pattada, nella notte tra il 23 e 24 giugno, si accendevano
nei vari rioni i fuochi di San Giovanni, sos fogos de Santu Juanne, anticamente connessi al ciclo dell'anno agrario, e durante la notte
venivano preparate le medicine tra le quali la più famosa era quella per l'ernia, e raccolte erbe per preparare gli infusi benefici. Da
qualche anno è stata ripristinata l'antica usanza, con un grande falò nella piazza vicino alla chiesa di San Giovanni la sera del 23
giugno. Il giorno successivo, poi, si svolge la festa di San Giovanni Battista, nella quale dopo la celebrazione della Santa Messa, viene
offerto a tutti i partecipanti un rinfresco a base di prodotti tipici locali, come formaggi, salsicce, e dolci vari tra cui le tipiche origliettas
ammerradas.
La chiesa parrocchiale è dedicata a Santa Sabina, patrona del paese.
La leggenda narra che, nel periodo romano, una donna, che aveva smarrito una gallina, si sarebbe recata per trovarla nella zona
di Rueddu, sulla destra dell'attuale chiesa, e che lì, dove c'era una pianta di fico selvatico, le sarebbe comparsa la Santa, che le avrebbe
chiesto di far edificare in quel punto una chiesa in suo nome. Dato che il fico ed i volatili sono due simboli legati alla cultura pagana, è
possibile che in quel luogo sorgesse un luogo di culto pagano. Eretta in stile gotico aragonese nel '500, è stata parzialmente rifatta più
volte, tra il 1789 e il 1811, e nel 1929 quando era crollata la volta principale, e la chiesa è stata rifatta completamente e riconsacrata nel
1941. Il campanile cilindrico eretto in stile tardo aragonese nel 1558, è crollato diverse volte, l'ultima nel 1907 per un fulmine, e
dell'antico campanile rimane il troncone inferiore di forma cilindrica. All'interno custodisce l'altare maggiore, in marmo, di fine
ottocento, nel quale si conserva la cinquecentesca statua di Santa Sabina. Di particolare pregio è la cappella della Trinità che ospita una
pala d'altare in stile barocco, importante opera recentemente restaurata. Recenti interventi hanno portato all'inserimento, nella facciata
della chiesa, di un massiccio portone di bronzo con scene evangeliche, che rende la facciata ancora più maestosa ed elegante.
Presso la chiesa parrocchiale il 29 agosto, giorno a lei dedicato, si celebra la festa patronale di Santa Sabina, caratterizzata nel mattino
dalla celebrazione della Santa Messa, tradizionalmente seguita dalla benedizione dei cavalli e dei cavalieri. Segue, nel pomeriggio, la
processione guidata dalla statua lignea della Santa, mentre i cavalieri in costume percorrono le strade del paese con i loro cavalli
bardati a festa. Su tutto l'insieme spiccano sas banderas, una quarantina di bandiere che ogni cavaliere tiene con la parte terminale
tenuta avvolta nella spalla. Alla festa religiosa si aggiungono i festeggiamenti civili, che si protraggono generalmente per 3 o 4 giorni e
che animano il fine agosto dei pattadesi e di molti turisti, con serate che vanno dal folk alla musica leggera e alle tradizionali gare di
poesia in sardo. Fino a qualche tempo fa, in occasione della festa di Santa Sabina si usava mangiare pasta con una salsa di galletti.
Nella zona alta del paese troviamo l’attuale chiesa di Nostra Signora del Carmelo, detta anche Nostra Segnora 'e su Galminu, che
risale agli anni '80 ed è stata realizzata in stile moderno, sostituendo la settecentesca chiesetta precedente che aveva una struttura
simile a quella della chiesa di San Nicola. Dallo spiazzo si può ammirare la parte Meridionale del territorio di Pattada.
Ogni anno una diversa famiglia di Pattada, attraverso la figura del Priore, ha l'incarico di organizzare gli aspetti religiosi ed i
festeggiamenti civili della festa della Madonna del Carmelo, che ha luogo il 16 luglio. Le celebrazioni comprendono la tradizionale
processione nella quale, preceduti dal Priore, i cavalieri di Pattada vestiti con il costume tradizionale e con gli stendardi dedicati ai
vari Santi, precedono un carro che porta la statua della Madonna del Carmelo, seguita dalla processione religiosa. Il corteo si conclude,
con i cavalli disposti a semicerchio, davanti alla chiesa dove viene celebrata la Santa Messa. Al termine della cerimonia viene offerta a
tutti i presenti una cena tradizionale a base di carne di pecora bollita, patate, accompagnate da buon vino locale, e invitanti vassoi di
immancabili origliettas e altri dolci tipici locali.
TERRITORIO
Pattada, unico paese di montagna della provincia di Sassari, si estende tra gli 829 e i 900 m. s.l.m. Si adagia su un ampio gradone alla
base delle due punte del monte che lo chiude a nord ed est, chiamate dalle chiese che sono lì, del Carmelo e di San Gavino:
quest’ultima è sede del sacrario dei caduti, che i pattadesi onorarono commissionando a Gabriele D’Annunzio i versi che ancora oggi
vi si leggono: "Stirpe più che ferrea / silenziosa sublimità sarda".
Il territorio, compreso in un perimetro quadrangolare, occupa il centro del Monte Acuto.
Confina a nord con Oschiri, ad est con Buddusò, ad ovest con Ozieri, a sud con Nughedu, Bultei, Benetutti, Nule e Osidda. È costituito
ad est dai Monti di Alà dei Sardi con la sua massima vetta il Monte Lerno (“Lerron”) la cui sommità raggiunge i 1094 m (Punta
Campanile), contornata da altre vette, di cui Nidu ’e Colvu di 1013 m. A sud-ovest è interessato dalla catena del Goceano, dove ben
otto vette superano i 900 m di altitudine: Sedda Ottìnnera (911), Monimentos (917), Monte Ulturzu (922), Sa Ucca ’e su
Truncu (943), Monte Filu ’e Telarzu (953), Su Corriadore(953), Su Filu ’e Noscoli (980) e Monte sa Muzere (987).
Tutto il complesso roccioso appartiene all’Era paleozoica.
In particolare la parte est, litologicamente omogenea, è costituita da rocce appartenenti al grande plutone granitico sardo, ed è riferibile
all’orogenesi ercinica, databile intorno a 300 milioni di anni fa.
In particolare, il rilievo su cui sorge Pattada è attraversato da un filone di ferro ossidulato, visibile qualche decennio fa ad est del
paese, con andamento nord-nord-est: lo si apprezza ancora in località Sa ’e Segnor Pedru e fu coltivato sicuramente nel Seicento, come
attesta il Fara.
Nella porzione di territorio a sud-est si incontrano rocce di un complesso metamorfico ercinico, databili tra il Carbonifero inferiore e
superiore (500-300 milioni di anni fa).
I suoi calcari alimentavano in passato la produzione di ottima calce in località Biduvè e Sa Niera, quest’ultimo così chiamato perché vi si
conservava il ghiaccio.
Presenti in Su Monte ’e Subra (nome che a Pattada identifica la porzione della catena del Goceano) depositi argillosi, noti come
nalvinu, con cui un tempo si facevano i mattoni per i forni e il loro rivestimento. Da Punta ’e Lette le dioriti quarzifere si inoltrano fino
a Monte Sa Muzere.
Ma, come notava l’Angius, la massa montuosa digrada a formare valli ampie e ricche di pascoli, che egli riteneva sufficienti a
sostentare una popolazione di 16.000 abitanti.
La valle maggiore, percorsa dal rio Enas, affluente del Mannu, è tra il Monte Lerno e l’altura su cui sorge il paese.
Segue a nord est la fertile vallata di Bunne, dove scorre il fiume dello stesso nome.
Il rio Mannu de Pattada, che alimenta l’invaso artificiale, come riu Aldu Minzone.
Pattada è ricca di acque pregiate, disponibili presso le fonti ai limiti dell’abitato e attinte da tutta la provincia, in particolare quelle di
Sa Casina e di Lerno che sgorga da Funtana ’e Rodè.
Per purezza si ricordano anche Elvanosu, Sa Latuca, Ludalzos, Olitetta, Santa Larentu, Istelà, Edras, Su Poju, Binza ’e Figu, S’Abba
Lùghida ecc.
Il quadro climatico registra temperature medie annue fra 11 e 15 C°. La media dei mesi più freddi è tra i 4 e i 6 C°; da 31 a 50 i giorni
con temperature inferiori allo zero. Le piogge danno una media di 1000-1200 mm annui in circa 75 giorni di precipitazioni, con una
piovosità media pari a 14,29 mm, seconda solo a quella di Baunei. La copertura arborea più diffusa è quella della sughera, valutata in
circa 100.000 piante e seguita da lecci e roverelle, mentre l’olivastro abbonda nelle vette meno elevate a nord.
Il ginepro è presente solo sul Monte Lerno e l’acero minore nelle zone meridionali.
Sono state riconosciute finora 700 entità botaniche, ricchezza dovuta alle differenze ambientali del territorio, che dà vita a una trentina
di specie endemiche, alcune delle quali rare.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso il susseguirsi di incendi causò un depauperamento boschivo e conseguentemente della fauna,
in particolare degli ungulati, fra cui i mufloni: la fondazione dell’oasi faunistica del Monte Lerno, totalmente compresa nel territorio di
Pattada, e di quella di Su Filigosu e Fiorentini estesa ai territori contermini, ha permesso la reintroduzione di mufloni e cervi. Sempre
notevole la presenza del cinghiale e della volpe, meno frequente quella del gatto selvatico e della lepre. La varietà ambientale è anche alla
base della ricca avifauna, con specie ormai rare nell’isola, come il merlo acquaiolo e l’aquila. È accertata la presenza del 75% dei rettili
della Sardegna e specie endemiche fra gli anfibi.
La presenza del lago artificiale del Lerno ha arricchito ulteriormente l’ambiente e sviluppato misure di protezione. In particolare il
Monte Lerron, percorribile grazie alle numerose piste, offre paesaggi stupendi e oasi di pace nei numerosi punti attrezzati, anche nei
pressi dei tre laghetti montani di Sa Pedrosa, Sa Gione e Su Achile ’e s’Elighe.
Il Nuraghe Lerno, si trova sulle rive dell'omonimo lago artificiale nel territorio di Pattada.
Questa posizione particolare è dovuta al fatto che la zona fu invasa dalle acque per la riserva idrica. Parte della struttura nuragica, si
trova così nell'acqua. Vicino il nuraghe si trovano altri resti, come le rovine di una chiesa, dell'antica villa di Lerron (così era chiamata
questa zona in antichità), abitata fino al 1400 e capanne di età neolitica.
Il nuraghe fu costruito con massi e laterizi e sul lato destro, in corrispondenza degli angoli, si trovano delle torrette, in pietra e
mattoni, databili probabilmente all'età bizantina. La torre centrale e circondata da un grande muro che ingloba anche altre due torri.
La torre centrale a tholos è intatta, vi si può accedere tramite le scale che portavano al terrazzo, poiché l'entrata principale è interrata; la
si può comunque notare all'interno, sulla destra rispetto alle scale. Quando sono stati fatti gli scavi nella torre laterale sono stati trovati
utensili databili al bronzo finale. Alla terza torre si arrivava tramite un corridoio a piattabanda. Nonostante le acque dell'invaso
abbiano ricoperto parte delle strutture, il fascino di questo sito archeologico ha pochi eguali. Il panorama è unico: i monti fanno da
cornice a questo piccolo tesoro della cultura, tra le acque e la terra dove gli animali pascolano e gli alberi escono fuori dall'invaso,
come per ricordare che lì c'è un tesoro da scoprire e ammirare.
IL COLTELLO. ALLA RICERCA DELLE ORIGINI
TESTO DI FRANCESCO AMADU
Non credo esista al mondo un individuo che da bambino non si sia trovato davanti il dramma di un dito sanguinante, molto spesso a causa di una
pietra scheggiata o appuntita. L’uomo primitivo ha la stessa esperienza; ma da questa, abituato com'è a trarre profitto da tutto, ricava un
insegnamento e, col tempo sarà proprio lui, prima a cercare poi a creare, fin dal paleolitico, queste pietre che pungono o tagliano. Col passare dei
millenni, l’avvento del neolitico (“età della pietra lavorata”) porta l’uomo a produrre, fra gli oggetti, raffinatissimi coltelli, servendosi di materiale
adatto allo scopo: i vari tipi di selce e l’ossidiana, il vetro vulcanico. Qualcuno di questi coltelli in selce fu rinvenuto vari anni fa presso la punta di
San Gavino, a Pattada (antecedenti all'età cristiana). Anche dopo la scoperta dei metalli, il coltello in pietra rimane in uso: anzi acquista una
particolare importanza nelle cerimonie religiose. Nella Roma pagana era il sacerdote stesso che nei vari sacrifici uccideva l’animale con un coltello
di pietra chiamato in latino culter, anche se nell'uso familiare si adoperava uno strumento più ridotto, cultellus, da cui il sardo gulteddu. Tale usanza,
molto prima dei Romani, era in vigore presso gli Ebrei: anche quando si avevano strumenti in metallo, per certi riti era rigorosamente prescritto il
coltello in pietra; usanza che gli Spagnoli troveranno analogamente presso i Maya, gli Aztechi e gli Inca nel nuovo mondo scoperto da Colombo,
con la differenza che presso questi popoli invece del montone o del vitello veniva sacrificato in onore della divinità il prigioniero di guerra.
L’avvento dei metalli rivoluziona l’industria dei coltelli in pietra. Con la scoperta del ferro e del rame arriva l’età del bronzo. Nel marzo 1921, nella
piana di Chilivani, erano stati ritrovati 86 oggetti in bronzo. L’anno seguente, Antonio Taramelli, il grande studioso cui tanto deve l’archeologia
sarda, avendoli studiati, li attribuiva a qualche commerciante che avesse portato lì tale merce per venderla o scambiarla. Vari anni fa, presso la
località di tale rinvenimento, mi fermai ad osservare un tratto degli scavi per l’acquedotto che vi porta le acque dal monte di Pattada. Anche se erano
allo scoperto, nessuno doveva aver notato tre lastre di una pietra speciale, la steatite, poste su un cumulo di terriccio. Le rivoltai, volendole
esaminare, e vidi che, su una superficie perfettamente levigata erano incise, in negativo, varie forme per la fusione in bronzo di stiletti, falci, lame:
segno evidente della presenza, nel passato, di una officina per la fusione di armi, utensili, coltelli in bronzo. Si smentiva così l’ipotesi di Taramelli
(con queste forme veniva data la più antica testimonianza circa la produzione di utensili in bronzo per questa zona, X secolo a.C.). Gli scavi
portarono alla scoperta di un pozzo sacro.
Se la scoperta del ferro permise la produzione di utensili più efficienti, continuò la produzione di coltelli in bronzo, che garantivano una durata più
lunga, non essendo soggetti all’ossidazione, alla ruggine (I Romani avevano l’espressione “aere perennius”, più duraturo del bronzo, per indicare
una durata senza fine). Uno di questi coltelli fu rinvenuto molti anni fa presso “Su Molinu Ezzu”, in quello che era stato probabilmente un
insediamento nuragico. Questo è in assoluto il primo coltello, diciamo così, “Pattadese”, di cui siamo a conoscenza, risalente ad un periodo più
tardo, forse epoca bizantina o tardo romana. La lavorazione dei metalli nel monte acuto continuò nei secoli seguenti.
La lavorazione dei coltelli si è ristretta al centro di Pattada poiché il nostro paese poggia su un esteso giacimento di ferro, calamita. Abbiamo notizia
ancora nel secolo XVII. I più antichi coltelli venivano fabbricati col ferro dolce, con tutti i difetti che si possono presumere. Dopo l’avvento della
ghisa (ferro col 5% di carbonio) si arrivo all'acciaio (riducendo il carbonio all’1%). Che dire della forma dei coltelli? Nei primi esemplari in pietra
prevaleva la forma rettangolare. Questa forma rimase nella lame più pregiate, affilate, che servivano per radere la barba, protette da una custodia. In
latino venivano chiamate rasoria. Col tempo si arrivò a costruire la custodia unita direttamente alla lama: di qui il coltello a serramanico
(adattamento da rasoria a rasorza o resolza). Dall'antichità si preferì una lama triangolare, come quella di Su Molinu Ezzu. Pian piano la forma si
perfezionò fino ad arrivare a quella che è oggi la forma a foglia di mirto, tipica del coltello Pattadese.
SA RESOLZA” IERI E OGGI
TESTO DI ANGELO CARBONI – LEONARDO PIZZADILI
Maleittu Canale Pathatesu / ch'at postu sos vithichesos in resoglia". Può sembrare strano questo incipit, in un lavoro che, pur nella presentazione
sistematica del materiale, documentazione, non aspira alla completezza. In mancanza di fonti letterarie e storiche, ci si è rifatti quasi esclusivamente
a quella memoria collettiva così cara all'etnografo e all'antropologo. E perciò questo studio si apre con i versi del poeta bittese Remunnu 'e Locu,
non in quanto "significanti" di chissà quale misterioso contenuto, ma perché sintomatici della reale incidenza nel quotidiano di questo oggetto
specificamente pattadese. Pur nella scarsezza di fonti sull'argomento, infatti, non esiste finora uno studio sulla lavorazione artigianale dei coltelli e
sul lavoro dei frailalzos, i fabbri sardi in genere; anche se si può tranquillamente affermare che in una società primitiva, contadina e pastorale,
l'importanza e la funzione pubblica di questi artigiani è sempre stata notevole. Viene immediatamente da pensare alla ricchezza e alla perfezione
della bronzistica nuragica e per venire più vicino a noi, ai ramai di Isili e alla coltelleria. Il geografo-antropologo francese Maurice Le Lannou vede
quest'ultima attività diffusa, ma in profonda decadenza, durante il suo lungo viaggio-studio, compiuto oltre ottant'anni fa, in alcuni centri di
montagna come Santulussurgiu, Gavoi, Fonni, Arbus, Guspini e Pattada, caratteristica quindi di un certo tipo di cultura prevalentemente
pastorale. Non si andrà molto indietro nella storia, né tanto meno si cercherà di scomodare Vulcano, ma sembra necessario evidenziare la grande
maestria degli Arabi nella lavorazione del corno e delle armi in genere e l'influsso esercitato sulla cultura artigiana spagnola, soprattutto in
Andalusia e nella Castiglia, e i possibili e spesso evidenti "prestiti" spagnoli al mondo sardo. Piace citare come semplice curiosità l'appellativo di
"Toledo sarda" con cui, anche se abbastanza recentemente, veniva apostrofata Pattada.
Come una certa tradizione vuole, in Sardegna, anche quella della resolza pattadese comincia con il ritrovamento di un misterioso siddadu, un tesoro.
Ci sono molte versioni e si parla di diversi siddados ritrovati: il fatto certo è che furono i fratelli Mimmia (1818-1906) e Giuanne BelIu (1830 1908) ad iniziare la lavorazione della "pattadese" nella seconda metà dell'Ottocento. Si spiega così anche il mancato accenno a questo tipo di
artigianato da parte di Vittorio Angius, che descrisse Pattada nella prima metà dell'Ottocento.
Nel dizionario del Casalis, infatti, si parla brevemente dell'esistenza di circa dodici fabbri ferrai a Pattada e della scarsa professionalità di tutti gli
artigiani in genere.
E’ pressoché certo che il precursore dell'attuale resolza pattadese fu sa corrina, una sorta di coltello fatto con un corno di capra o mascinu, cioè di
montone, a fiamma, a lama fissa, la cui forma era, secondo diverse testimonianze, più o meno simile a quella attuale; questa lama arroventata veniva
introdotta nel corno caldo senza nessun perno che la fissasse ad esso.
Era un coltello piuttosto grossolano, ma largamente diffuso; la lama veniva infilata in un pezzo di sughero (che la maggior parte dei pastori e
contadini intagliavano artisticamente) pro no offendere, per non ferirsi quando veniva riposto in tasca. Un alone misterioso circonda la figura
di Frades Bellos. Viene attribuito a loro il ritrovamento di uno o diversi Siddados; quanto questi siddados abbiano a che fare con sas resolzas è
difficile a dirsi. Certo è che c’è un qualche rapporto tra loro.
Nella facciata del palatu 'e Frades Bellos, tuttora esistente in piazza delle poste (su Soziu) si può ancora notare un'incudine scolpita nel granito. E in
questa stessa tradizione, su connottu, che si incontra il vecchio Giuanne Bellu agli inizi del 900 in ragas, intento a forgiare la lama di una resolza
nel fraile de Frades Vezzos. Era una "pattadese", ancora diversa da quella attuale: il manico era allora un corno intero toccheddadu chi s'asciolu,
lavorato con un piccolo scalpello, iscaldidu in sa furrera a fodde pro l'azzerettare, riscaldato nella forgia per raddrizzarlo, e isperradu chi unu
serraccu, inciso con un seghetto per poter chiudere la lama che veniva fissata al manico con una bullitta, un chiodo, mentre un'altra bullitta aveva il
compito di non farla piegare all'indietro compromettendo la stabilità della resolza. La "pattadese", allora, era priva di s'aneddu, l'anello di ottone e,
essendo il manico composto da un pezzo unico di corno, di ribadinos e di alcu.
Nel fraile di frades Bellos, prima che questo venisse chiuso in seguito a un ulteriore ritrovamento di un siddadu in territorio di Mores, dove essi
avevano comprato numerose tancas, si dice abbia lavorato per un certo periodo Zintu Canale mannu, che è poi quello che il poeta
bittese Remunnu 'e Locu maledice in poesia e che viene unanimemente ritenuto l'ideatore dell'attuale resolza pattadese. Il resto è storia recente, con
una menzione particolare alla grande abilità di Zintu Canale minore (1887-1976) figlio di Zuseppe e nipote di Zintu mannu, che ancora oggi una
certa tradizione vuole come il vero modellatore della attuale resolza, o perlomeno come colui che ha dato il tocco finale di perfezione
alla "pattadese".
Ma per dovere di cronaca non si può tacere il fatto che nel periodo di Zintu Canale minore l'artigianato della resolza era profondamente radicato ed
era già patrimonio comune della stragrande maggioranza dei frailalzos pattadesi. Questi già da allora iniziavano a partecipare a varie mostre di
artigianato in Sardegna e nel Continente con i loro prodotti: resolzas, foltighes de tundere, forbici per la tosatura, incascios de fusiles, falches e altri
prodotti come cancelli, inferriate, ringhiere, etc., raccogliendo dappertutto consensi unanimi. Ma bisogna ricordare brevemente anche gli altri
artigiani ancora vivi nella memoria collettiva, che operavano tra la fine dell'800 e i primi anni del '900, che hanno contribuito ad identificare con
Pattada l'artigianato del coltello e la lavorazione del ferro in genere e a renderlo una esclusiva tipicamente pattadese: Giuann'Andria 'e Linna,
Giuan'Austinu 'e Linna, Nenaldu Sistigu, Barore Fogarizzu mannu, Tomeu Era, Tilippu Pera Chessa, Giuanne 'e Monte, Pedru 'Ettori', Anghelu
'Ezzu, Mimmia 'Ezzu mannu e altri.
Come si è già visto, sa resolza e gli altri oggetti fabbricati dai frailalzos pattadesi continuavano ad essere per i pastori e contadini della Sardegna
oggetti particolarmente ricercati per la loro utilità ma soprattutto per la loro efficacia: e ultimo, ma non di minore importanza, per la loro bellezza.
E' ancora molto vivo a Pattada il ricordo di Tiu Giuanni Antoni su cattigadore, un vecchio che, nei primi decenni del secolo, veniva da
Santulussurgiu a cavallo alla ricerca di furesi 'e cattigare (il rude orbace da ammorbidire nella gualchiera), e ripartiva dopo aver fatto preziosa
provvista di resolzas e foltighes de tundere di Pattada, da rivendere nel Marghine e nelle zone dove passava alla ricerca del suo orbace. Anche il
grande poeta Montanaru Antioco Casula di Desulo, cantava sa resolza nella sua poesia intitolata a Sa Leppa Pattadina, come la chiamano in
Barbagia:
Sempre lughente parias de prata
segaias chei su pensamentu
ispilende sa pedde ind'unu 'entu
comente chi aeres giutu fogu in s'ata.
Sempre splendente d'argento parevi, tagliavi come il pensiero radendo d'un vento le pelli lanose come avessi il fuoco nella lama.
SU FRAILE: L’UOMO E GLI OGGETTI
TESTO DI ANGELO CARBONI – LEONARDO PIZZADILI
La lavorazione del ferro a Pattada, come in molti altri centri ad economia tipicamente pastorale, ha radici che si perdono nella storia. Su fraile
Pattadesu era solitamente un ambiente non molto ampio, immerso nel nero della fuliggine e de su calvone 'e ciacara (il carbone di radici di erica),
accatastato a fianco a sa furrera a fodde (la forgia a mantice). Al centro del laboratorio, un robusto ceppo d'albero sosteneva l'incudine su cui
poggiavano solitamente la mazza e il martello. Addossato ad una parete, ecco su bancu (il banco da lavoro), con diversi attrezzi tra cui spiccavano
immediatamente su caragolu (la morsa), su trabanu a manu (il trapano), sos malteddos (i martelli), sas tenazzas (le tenaglie), sas serras (i
seghetti), sos iscalpeddos (gli scalpelli), sos asciolos (le piccole asce a gancio per nettare gli zoccoli dei cavalli). Altri attrezzi si trovano appesi alle
pareti. Vicino alla finestra, sa roda 'e acutare (la mola), che normalmente funzionava a pedale, con a fianco varie pietre da affilare, pedras
acutadolzas: le portavano i carrulantes (i carrettieri), dalla zona di Peldidu Pane, una località del territorio comunale di Pattada, al confine con
l'agro di Bultei, dove questo particolare tipo di pietra abbondava. A fianco della forgia, ma in simbiosi con essa, stava un piccolo recipiente che
conteneva l'olio necessario ad ultimare la fase di tempratura delle lame.
Immediatamente vicino a sa furrera si trovava una pica, una vasca piena d'acqua per il raffreddamento e la tempratura dei diversi oggetti che il
fabbro forgiava: zappos (zappe), piccos (picconi), alvadas (vomeri), istrales (accette), falzones (roncole), falches (falci), ferros de caddu e de
'oe (ferri di cavallo e di bue), briglias (briglie), friscios (serrature) e ogni altro arnese utile sia in campagna che in casa. Uscivano dall'officina del
fabbro anche i letti in ferro battuto, le cancellate e le ringhiere che ancora oggi un occhio particolarmente attento può riconoscere nell'abitato di
Pattada e nelle campagne circostanti
Gli stessi oggetti che il fabbro usava quotidianamente erano in gran parte fatti da lui a seconda delle sue particolari esigenze, come sas tenazzas de
fogu (le tenaglie per la forgia), e sos sestos de manigas de resolzas (le forme per i manici dei coltelli), la stessa forgia e tanti altri
Oltre i coltelli un'altra specificità dei fabbri pattadesi era la lavorazione di sas foltighes de tundere (le forbici per la tosatura delle pecore), tutt'ora
ricercatissime dai pastori sardi, compresi quelli che vivono fuori della nostra isola. L’attività del fabbro era profondamente legata alla situazione
socio-economica del paese, per cui in un ambiente ad economia prevalentemente agropastorale gli oggetti prodotti erano destinati in gran parte a
fornire pastores (pastori), massajos (agricoltori), oltulanos (ortolani) e carrulantes (lavoratori con carro e buoi). Come tutti i lavori artigianali,
anche quello del fabbro era un patrimonio gelosamente tramandato di padre in figlio; ciò non toglie che numerosi apprendisti dischentes, lavorassero
nelle officine. A proposito di questi ultimi giova spendere alcune parole che non potranno non sembrare strane a gente di una certa età, ma non
mancheranno di stupire le persone più giovani. Gli apprendisti erano infatti ragazzi affidati dai genitori a su mastru frailalzu perché imparassero il
mestiere. Questo avveniva non senza resistenza da parte del fabbro che era sempre restio a svelare i segreti del mestiere ad estranei al suo gruppo
familiare.
I giovani dischentes talvolta lavoravano nel fraile per diversi anni senza ricevere altro compenso se non una bona manu, una sorta di mancia in
occasione delle feste più importanti.
Era anche usanza del fabbro lasciare a disposizione dell'apprendista su fraile nelle giornate festive in modo che potesse eseguire lavori per conto
proprio e guadagnare così qualche soldo. Inizialmente gli apprendisti svolgevano funzioni prettamente marginali all’attività primaria; venivano
spesso apostrofati dal principale con bruja ferru, "brucia-ferro", perché causavano spesso spreco di materiale. Almeno per il primo periodo era loro
compito osservare attentamente il lavoro di su mastru. Dovevano girare sa furrera, portare l'acqua, pulire, porgere gli attrezzi e svolgere altre
mansioni collegate al lavoro. Prima che il dischente riuscisse a mettersi in proprio ed iniziare finalmente a guadagnare qualcosa, trascorrevano non
meno di due o tre anni, il tempo necessario per conseguire una certa professionalità. La giornata lavorativa del fabbro iniziava molto presto, alle
quattro o alle cinque del mattino, perché la sua "missione" era quella di essere continuamente al servizio della collettività e preparare gli attrezzi che
sarebbero serviti nei lavori dei campi. Per la stessa ragione anche l'orario di chiusura era legato alle esigenze della clientela che, rientrando al
tramonto dalle fatiche quotidiane, affidava al fabbro tutto ciò che aveva bisogno di particolari riparazioni o modifiche. Era parte integrante di quasi
ogni fraile, sa ferrajola, anche se spesso si trovava lontano da esso; normalmente era situata nella immediata periferia del paese. Era fatta con
grosse travi di coro 'e chelcu, la parte più dura del tronco di quercia o di niberu (di ginepro), con vari accessori in ferro e serviva pro ferrare, per
mettere i ferri ai buoi che tanta utilità avevano in quel tipo di società.
Si sono voluti toccare semplicemente alcuni punti, emersi da una ricerca sistematica, ritenuti fondamentali per dare un'immagine seppure elementare
di come si svolgeva la vita e il lavoro all'interno di su fraile. Certamente non c’è la pretesa di aver detto tutto e di aver esaurito l'argomento, ma la
convinzione di aver dato un piccolo contributo alla ricostruzione di un patrimonio che va scomparendo.
LE FASI DI LAVORAZIONE
TESTO DI ANGELO CARBONI – LEONARDO PIZZADILI
La peculiarità del coltello pattadese originale emerge dalla complessità della lavorazione.
La limitatezza e l’esclusività della produzione della classica "Resolza" deriva proprio dall’attenzione al dettaglio, alla qualità, alla forma, abbinata a
una lavorazione completamente manuale.
Da alcune discussioni con i fabbri di Pattada sono emerse come fondamentali alcune fasi della lavorazione del coltello Pattadese che possono essere
riassunte così come segue.
La prima cosa da fare è procurarsi il corno utile per il manico: venivano usate diffusamente le corna di muflone, ritenute le migliori, che fino a
quaranta anni fa erano facilmente reperibili nei boschi di Monte Lerno, che erano ricchi di questi animali. Con la graduale diminuzione di mufloni,
le più usate sono diventate, e lo sono ancora oggi, le corna di montone; in loro mancanza venivano adoperate quelle di capra e talvolta anche di bue.
Dopo una stagionatura del corno, si taglia con il voltino (o con la sega a nastro) la parte superiore, stando particolarmente attenti a non rovinarla
perché è la parte buona, quella che servirà poi per il manico: le parti laterali del corno si scartano. Successivamente il corno viene pulito e riscaldato
nella forgia per renderlo più malleabile; ancora caldo viene stretto tra due pezzi di ferro e stretto nella morsa per essere raddrizzato.
Mentre il corno raffredda il fabbro inizia ad arroventare l'acciaio nella forgia, tenendolo con apposite tenaglie e prestando attenzione perché non
superi una determinata temperatura, altrimenti l'acciaio perderebbe le sue caratteristiche. Raggiunta la temperatura ideale, tenendolo fermo con le
tenaglie sopra l'incudine, l'acciaio incandescente viene forgiato con il martello sino a dargli la sagoma della lama. Quando la lama è ben forgiata,
viene sgrossata con la lima per darle una forma più sottile ed elegante.
Inizia a questo punto la fase più delicata ed importante della lavorazione: la tempratura della lama. Il fabbro mette attentamente la lama nella forgia
e ve la lascia sino a darle un colore ben determinato a seconda della qualità dell'acciaio, di solito giallo o rosso ciliegia. Quando si ottiene la giusta
temperatura la lama viene tolta e immersa in un olio specifico; a volte è necessario “addolcire” la tempratura rimettendo la lama nella forgia e
riscaldandola lentamente.
A questo punto si prepara l'arco, in ferro o in acciaio, che va tra le due parti del manico: quindi si modella il manico e si prova l'insieme del coltello.
L'arco e le due parti del manico si forano con il trapano e vengono fissate tra loro con chiodini di ottone (o altri materiali a seconda del tipo di
coltello) ribattuti.
Successivamente la lama viene ancora lavorata con la lima e con la tela smeriglio.
In seguito si prepara l'anello, o collarino, di ottone che tiene unite le parti del coltello con un chiodo ribattuto.
A questo punto la lama viene affilata, pulita e fissata al manico. Infine si rifinisce il manico, sempre con la lima e carta abrasiva.
A lavorazione ultimata l'anello viene decorato ad incisione con vari motivi: ora il coltello è pronto per la consegna.
LE LAME
Le lame dei coltelli contemporanei sono generalmente in acciaio (lega di ferro-carbonio fucinabile e deformabile a caldo dove la presenza del
Carbonio è inferiore all’1,7%).
Il Ferro (Fe) è un metallo estratto da minerali: quasi mai si rinviene ferro puro in natura e si procede quindi alla rimozione delle impurità. Il ferro è
naturalmente il materiale base nella composizione degli acciai più utilizzati dai coltellinai: almeno l’80%.
Il Carbonio (C) è un elemento non metallico, viene aggiunto in basse percentuali al ferro per produrre l'acciaio conferendo doti di resistenza,
durezza ed elasticità molto maggiori.
I principali elementi aggiuntivi dell'acciaio sono i seguenti
Il Cromo (Cr) è generalmente presente dallo 0,5% all’1,5%, ma in alcuni acciai raggiunge il 20%; nella coltelleria, le leghe con almeno il 13% di Cr
sono considerate inossidabili. Aumenta la penetrazione del trattamento termico e dei processi di indurimento ma può creare problemi nella
forgiatura causando fratture nell’acciaio.
Il Manganese (Mn) normalmente presente negli acciai, agisce da disossidante. Migliora il trattamento termico e aggiunge tenacità agli acciai.
Presente in quantità che variano dallo 0,3% al 2%Il Molibdeno (Mo) che migliora notevolmente la durezza e la tenacità dell’acciaio.
Sostanzialmente, nella coltelleria, vengono utilizzati acciai al carbonio e acciai inossidabili.
L’acciaio al carbonio tiene a lungo il filo ma presenta l’inconveniente dell’ossidazione che facilmente si sviluppa richiedendo una manutenzione
accurata per cercare di evitarla. Oggi si tende a prediligere l’acciaio inossidabile legato con il cromo, molibdeno e altri elementi che migliorano le
prestazioni garantendo un’altissima resistenza alla corrosione.
IL DAMASCO
Il termine damasco indica genericamente lame particolari, in primo luogo per il colore differenziato con contrasti più o meno evidenti e,
secondariamente (ma non in ordine di importanza) per le qualità che le hanno rese famose specialmente nell’antichità quando il possesso di una
lama superiore garantiva il buon esito della battaglia ed era sicuramente determinante per la sopravvivenza.
Sono tre i tipi di damasco oggi considerati, due classici e uno recente, differenti per la composizione, la lavorazione e il nome:
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Il damasco europeo o damasco saldato è formato da strati di ferro e acciai di diversa composizione alternati tra loro, saldati mediante
forgiatura e ripiegati fino a produrre una lama di qualità sicuramente superiore per la fusione di elementi qualitativi eterogenei. Un’analisi
qualitativa e strutturale ha messo in evidenza le caratteristiche superiori del damasco europeo rispetto a quello orientale.
Il damasco indiano o wootz, detto anche damasco orientale, si è sviluppato intorno al VII secolo d.C. Ha una composizione omogenea in
quanto l’elemento unico è il ferro puro che, posto in un crogiolo insieme a legno di teak e di bambù, mediante un lungo processo di
riscaldamento e lentissimo raffreddamento, si trasforma in acciaio. Anticamente la città di Damasco era luogo di smistamento e scambio
commerciale, tra oriente e occidente, delle lame finite.
Un processo metallurgico innovativo, di matrice americana, chiamato sinterizzazione, consente di legare i metalli con l’utilizzo delle loro
stesse polveri mediante una fortissima pressatura. Questo procedimento viene seguito per la preparazione del nuovo damasco
inossidabile ottenuto legando due acciai inox (ATS34 – 440 A). Questo tipo di damasco coniuga alle caratteristiche estetiche già note,
un’ottima resistenza alla corrosione.
" Che so naschidu in Patada
cussa 'idda chi arroccada
de rispettu, onore e fama
est istada fitza e mama... "
La variante di Pattada si presenta come una sorta di ponte linguistico tra il Logudorese settentrionale e le parlate centrali del Goceano, Baronia e
Barbagia.
Pattada rappresenta una linea di demarcazione, non solo dal punto di vista geografico e culturale, infatti una serie di fenomeni linguistici, chiamati
dagli studiosi isoglosse, distinguono la sua parlata dal territorio circostante.
La sua ricchezza lessicale è dovuta in gran parte alla ininterrotta produzione letteraria, dai primi del '700 ai giorni nostri, che ne hanno fatto la culla
della poesia sarda e la fucina della parola.
Il pattadese ha una grande varietà lessicale, nel quale abbondano numerosi termini del sostrato paleosardo, in particolare nella toponomastica,
fitonimia, fauna e del quotidiano, a testimonianza dell'arcaicità degli insediamenti umani nel suo territorio.
Come a Bonorva e Osilo, si parla un logudorese arcaico: spesso si usa volgere al femminile i cognomi delle donne (Cossa da Cossu - Alza da
Vargiu). La lingua si sta trasformando, ad esempio, con la vocalizzazione finale.
Insomma, se si vuole fare "un bagno in Arno" del sardo, non si può assolutamente prescindere dalla variante linguistica di Pattada.
Direttamente collegata alla tradizione linguistica Pattadese è la tradizione del canto tenorile.
Da sempre fucina di cantori a tenore, Pattada si è distinta nella seconda metà del 1900 per aver prodotto alcune interessanti voci di questo tipo di
canto antico e misterioso proclamato Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO nel 2005.
Numerose formazioni, ufficiali e non, in passato si sono dedicate alla pratica di questo tipo di canto richiamandosi nel nome a personaggi o santi
venerati in paese, da Padre Luca a Santu Salvadore. Oggi, in paese, è presente una sola formazione ufficiale che prende il nome di Tenore "Sa
Niera" (dal nome di un sito di epoca nuragica presente nel territorio).
SETTORE AGROALIMENTARE
Pattada vanta una ricca tradizione agroalimentare, si producono sas peritas (perette), uniche e dal gusto inconfondibile, e poi una vasta gamma di
gustose ricotte e formaggi ovini tra cui il fiore sardo, il pecorino romano e il pecorino sardo, inoltre vanta ottimi pecorini biologici frutto dei verdi e
incontaminati pascoli montani, ricchi di numerose essenza aromatiche.
Tra i dolci, inconfondibili le squisite origliettas ammerradas (saltate nel miele) e quelli tipici della tradizione sarda: amaretti, tiriccas, pabassinos,
casadinas, biscotti e le fragranti seadas ripiene di formaggio fresco. La lavorazione del torrone deve la sua lunga tradizione alla produzione di
mandorle, noci e nocciole e alla raccolta di un ottimo miele di montagna.
Immancabile in ogni tavola il pane tipico: su misturu (pane carasau), e cozzila d'elda (pagnotta con ciccioli), oltre alle classiche spianate (poddine)
si produce per le festività dei Santi e dei morti sas cochitas simili a su misturu ma più morbide (dovute all'aggiunta di patate nell'impasto).
La cucina tipica vanta una pietanza caratteristica sas pellizzas, un piatto a base di pasta fresca, condita con sugo di pomodoro e pecorino. Ottimi
i maccarroneddos (gnocchetti sardi) a ungia, a battoro e a unu poddighe (un dito) e poi su succu (fregola) minudu e maduru. Indimenticabili i piatti
a base di funghi porcini e di carne di maialetto, capretto, cinghiale e cacciagione.
COSTUME PATTADESE
Fino alla prima metà del 1900 a Pattada si utilizzavano abiti molto simili tra loro; si differenziavano solamente per i colori definiti in base al ceto
sociale di appartenenza o a condizioni particolari (matrimonio – lutto). I tessuti utilizzati erano principalmente panno o foresi, seta, velluto e cotone.
L’abito femminile giornaliero era composto da:
CAMIJA: Camicia a maniche lunghe in cotone di colore bianco con colletto alla coreana, decorata con motivi floreali bianchi lungo le cuciture; era
lunga almeno fino alle ginocchia.
CORITTU: Una sorta di coprispalle senza legacci, che s’inserisce sotto s’imbustu. Nella parte posteriore era costituito da un trapezio di panno di
velluto rosso ingrandito con rimanenze di tessuti man mano che la ragazza cresceva. Queste parti di velluto venivano cucite con le maniche
(inserirti blu nelle spalle o in broccato). Le maniche non erano cucite lungo tutto il braccio, ma solamente sotto l’avambraccio e nel polso.
IMBUSTU: Bustino stringivita, costituito da 2 parti rigide collegate tra loro, che costituiscono i due fianchi della vita. Le parti rigide del bustino
erano fatte in giunco di fiume essiccato e cucite tra loro, rivestite nella parte interna con tessuto di fodera. Le due parti del bustino erano collegate,
posteriormente, tramite fasce di seta rossa sovrapposte per una lunghezza che ricopriva lo spazio dalla vita al sottoseno, anteriormente tramite un
lungo nastro rosso che veniva intrecciato, infilato nelle asole dei due fianchi.
GIUPPONE: Giacchetto nero a manica lunga senza chiusure. Nella parte anteriore, fatto in seta, panno e con inserti in velluto; decorato con perline
di vetro in tutta la parte anteriore e nelle maniche. Era un indumento che differenziava i ceti nobili del paese da quelli meno abbienti.
UNNEDDA: La gonna del costume femminile era in panno di foresi nero lunga sino alla caviglia. Presentava una particolarità (simile alle gonne di
Orune): una particolare plissettatura, fitta superiormente e larga da metà gamba fino alla caviglia. A ogni piega della parte inferiore né
corrispondevano tre di quella superiore. Nella parte inferiore venivano fatti dei ricami con fili di seta colorati che rappresentavano decorazioni
floreali o cornici geometriche. Alla base della gonna si cuciva una passamaneria colorata che serviva per non sgualcire la gonna. Qualche volta si
indossava un grembiule con motivi floreali, soprattutto nei giorni di festa (copriva i segni dell’usura, falda). Dietro il grembiule veniva sistemato un
lungo nastro di raso che in base alla posizione indicava lo stato civile di un ragazza.
UNNEDDA E’ CUGUTTU: Simile alla gonna comune, aveva la particolarità di essere doppia (doppio strato di panno) e veniva indossata nel
periodo invernale soprattutto dalle donne anziane che non si potevano permettere il fazzoletto per la testa, quindi la parte superiore veniva rigirata
sopra il capo in modo da coprirlo e proteggerlo.
MUCCAROLOS: La donna indossava tre fazzoletti: uno piccolo (muccaroleddu) bianco in cotone avvolgeva completamente il volto e veniva legato
con degli spilli, serviva per sostenere un fazzoletto di seta ampio e colorato (muccarolu e’ conca) che veniva piegato triangolarmente e avvolto al
capo sopra il fazzoletto bianco. La maestria delle donne si dimostrava anche nel legare il fazzoletto che doveva essere sistemato in modo tale che la
punta del triangolo ricadesse al centro della schiena e le frange del fazzoletto sopra collo e decolleté in modo ordinato. Sulle spalle si sistemava un
altro fazzoletto (muccarolu e’ palas). I fazzoletti erano molto pregiati e provenivano dalla Francia; prima dell’arrivo dei francesi in Sardegna le
donne utilizzavano fazzoletti più piccoli in seta sarda e sulla testa s’iscuffia: una cuffietta con lacci che nei giorni di festa veniva coperta con un
fazzoletto di pizzo.
Durante il lutto s’indossava su MANTU: un abito che si differenziava dà su corittu per il fazzoletto e su giuppone. Le donne ricche indossavano il
fazzoletto bianco del matrimonio intorno al capo, sopra il quale si sistemava un lungo fazzoletto di seta nera (sa Ettada) che veniva fermato con
degli spilli alla gonna lasciando ricadere la coda del fazzoletto sul braccio. Le donne povere indossavano un fazzoletto in panno marrone o verde
legato intorno al capo, sopra il quale sistemavano un fazzoletto in panno lungo e nero; e sulla gonna portavano un grembiule scuro. Le donne ricche,
verso la fine dell’800, indossavano l’abito nero non solo per il lutto ma anche per differenziarsi dalle donne povere. Anche nel giorno del
matrimonio indossavano un abito in seta nera con ricami in rilievo, e il fazzoletto bianco di seta ricamata.
L’abito femminile subì un’evoluzione nella prima metà del 1900 con S’ISCIACCA: una giacca semplice a manica lunga abbottonata sulla parte
anteriore (le donne ricche usavano un’isciacca decorata). Venne sostituita anche la gonna con una più semplice di panno marrone, verde o blu. Nel
dopo guerra anche le ragazze cambiarono il loro modo di vestire (indossavano gonne chiare e ampie ricavate dai tessuti delle mongolfiere che
cadevano nei dintorni del paese). Un ruolo importante ebbe sicuramente l’influenza americana.
ABITO DELLE BAMBINE (fine 800 – prima metà del 100). Fino ai 5 anni consisteva in una semplice camiciola bianca lunga, con braghe bianche
(cotone e lino) e SA CARETTA (una cuffia di lana o cotone lavorata a maglia o uncinetto con laccetti per legarla sul collo). Dai 7 anni erano solite
indossare anche s’imbustu, per mantenere la vita stretta e abituare il corpo a questo indumento. Il costume, con la crescita, diventava più simile a
quello delle donne mature.
L’abito maschile era fatto in foresi, velluto e cotone. Le principali parti che costituivano l’abito erano:
ENTONE: Camicia bianca lunga sino ai fianchi con maniche lunghe e ampie; il colletto era alla coreana senza decorazioni.
RAGAS BIANCAS: Braghe lunghe in cotone di colore bianco ampie in modo da rendere semplici i movimenti.
RAGAS NIEDDAS: Braghe corte e plissettate in foresi nero che presentavano dei ricami geometrici nelle bordure. Erano una sorta di gonnellino
con una fascetta che univa la parte anteriore a quella posteriore. Gli uomini le utilizzarono sin dai primi del 900 dopo che si diffusero i pantaloni
lunghi in orbace nero.
COSSE: Gilet in velluto scuro (nero, marrone, verde) chiuso in entrambi i lati da piccoli bottoncini in modo tale da permetterne un utilizzo double
face (una parte per le feste, una per la vita quotidiana).
ZIMARRA: Gilet aperto in foresi senza tasche e con decorazioni nella schiena; presentavano in certi casi bordure color vinaccia.
CALZITTAS: Ghette in orbace o panno nero che coprivano la gamba dal polpaccio alla caviglia, si posizionavano sopra le scarpe.
CAPOTTEDDA: Giacca larga in orbace nero con un ampio cappuccio, la indossavano gli uomini più anziani e spesso veniva utilizzata per portare il
lutto perché permetteva agli uomini di coprirsi il capo. Il lutto degli uomini durava un anno (per un fratello o una sorella) o tre anni (se si trattava di
un genitore).
GABBANU: Capotto in orbace lungo fin sotto il ginocchio che poteva essere senza cappuccio.
BERRITTA: Cuffia di panno nero arrotolata sul capo o piegata in avanti (a pompa).
Per le grandi occasioni si utilizzavano i bottoni de prata(argento), cuciti nella camicia.
Se l’uomo era benestante, potevano essere in oro.
I bambini sino ai 5 anni indossavano sa caretta, una camiciola e pantaloni in cotone o lino chiaro (i più poveri abiti fatti con materiale di riciclo). Dai
5 anni l’abito era simile a quello degli adulti (per chi se lo poteva permettere).