Il contratto di maternità surrogata

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Il contratto di maternità surrogata
Il contratto di maternità surrogata1
Analisi civilistica tra teoria e prassi
Vincenzina Maio - avvocato cassazionista
Con l’espressione «procreazione medicalmente assistita» ci si riferisce a quel fenomeno
comunemente conosciuto con il nome di “fecondazione artificiale”, che può essere
sinteticamente definito come l’insieme delle tecniche mediche che consentono di dare
luogo al concepimento di un essere umano senza la congiunzione fisica di un uomo e di
una donna, operando all’interno delle vie genitali della donna (fecondazione artificiale
intracorporea o in vivo) oppure al di fuori (fecondazione artificiale extracorporea o in vitro
o, come si dice più comunemente, “in provetta”) e impiegando gameti appartenenti alla
stessa coppia che si sottopone alle tecniche (fecondazione omologa) oppure provenienti in
tutto o in parte da donatori esterni (fecondazione eterologa).
Nel contesto delle metodiche di PMA una posizione tutta speciale riveste la maternità
surrogata o di sostituzione, la quale, rispetto alle ordinarie procedure di fecondazione
artificiale indicate (omologa o eterologa), richiede la collaborazione di una donna estranea
alla coppia (che può essere la stessa donatrice dell’ovulo impiegato per la fecondazione o
una donna diversa) che mette a disposizione il proprio utero per condurre la gravidanza e
si impegna a consegnare il bambino, una volta nato, alla coppia “committente” (ossia alla
coppia che ha manifestato la volontà di assumersi la responsabilità genitoriale nei
confronti del nato).
Da un punto di vista puramente descrittivo, la surrogazione di maternità presuppone
pertanto, a monte, la fecondazione in vivo o in vitro di un embrione da impiantare nell’utero
di una donna estranea alla coppia committente, che si renda disponibile ad accogliere il
frutto del concepimento e a portare a termine la gravidanza che le è in tal modo
commissionata.
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Relazione tenuta il 15.4.2016 al seminario di studio su “Contratto di maternità surrogata” organizzato dal Centro
Studi Rosario Livatino in collaborazione con l’Università degli Studi di Salerno -cattedra di diritto civile- resto 1
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A seconda che la madre surrogata si limiti ad accogliere in grembo un embrione che le è
geneticamente estraneo o, viceversa, contribuisca alla procreazione dello stesso fornendo
ai “committenti” i propri gameti, si distingue tra “surrogazione per sola gestazione” (si
parla in tal caso anche di “donazione”, se a titolo gratuito, o di “locazione” o “affitto”
d’utero, se è pattuito un corrispettivo) e “surrogazione per concepimento e gestazione”.
Si osservi ancora che la surrogazione per concepimento e gestazione è necessariamente
una “surrogazione eterologa”, giacché la madre “portante”, in questo caso, prima ancora di
“prestare” il suo utero per la gravidanza, mette a disposizione i propri ovuli affinché siano
fecondati con il seme del partner maschio della coppia committente. La surrogazione per
sola gestazione, al contrario, può essere, a seconda dei casi, “omologa” (in questo caso la
madre sostituta accoglie un embrione formato dai gameti forniti dai genitori naturali) o
“eterologa” (in tal caso l’embrione da impiantare nell’utero della surrogata è il frutto
dell’incontro tra il gamete di un membro della coppia richiedente e quello di un terzo
donatore di seme o di una ovodonatrice).
Nell’ambito della surrogazione “eterologa” può ancora darsi il caso che i gameti da cui
deriva l’embrione impiantato nel grembo della madre sostituta siano forniti da terze
persone, estranee tanto alla coppia committente quanto alla stessa madre surrogata.
In definitiva, la maternità surrogata, già da un punto di vista fenomenico (prima ancora che
giuridico), si presenta come una fattispecie composita, risultante dalla successione e
integrazione di due momenti: la fecondazione artificiale propriamente detta (che, come si è
appena visto, può essere tanto omologa quanto eterologa) e l’ulteriore locatio ventris.
Diverse, e per molti aspetti peculiari, sono le problematiche giuridiche sottese alla
surrogazione di maternità rispetto a quelle poste dalle tecniche di fecondazione artificiale
alla stessa presupposte: ragion per cui la fattispecie quivi esaminata tende ad assumere,
nell’ambito degli ordinamenti giuridici moderni, un’autonoma rilevanza e fisionomia anche
dal punto di vista giuridico.
Una conferma di questa impostazione la si ritrova all’interno della stessa legge 40, la
quale, se da un lato ha consentito il ricorso alle tecniche di PMA omologa, dall’altro ha
riservato due distinti divieti, in separate previsioni normative, rispettivamente alle tecniche
di PMA eterologa (art. 4, comma 3, da ultimo dichiarato costituzionalmente illegittimo con
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sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale) e alla surrogazione di maternità–
sancito dall’art. 12, comma 6, il quale punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e
con la multa da 600.000 a un milione di euro «chiunque, in qualsiasi forma, realizza,
organizza o pubblicizza […] la surrogazione di maternità»).
Se da un canto le tecniche di fecondazione artificiale omologa determinano una prima
cesura tra sessualità e procreazione, dall’altro quelle di PMA eterologa introducono una
prima scissione tra le figure parentali, determinando una dissociazione tra la genitura
“genetica” e quella “sociale”. La maternità surrogata, a sua volta, rende possibile
un’ulteriore scissione fra procreazione, gravidanza e parto, così producendo, all’interno
della stessa maternità intesa in senso naturalistico, un’inedita separazione tra le figure
della madre genetica (colei che mette a disposizione gli ovociti) e della madre uterina o
biologica
(colei che porta avanti la gestazione e partorisce il figlio): figure, quelle
anzidette, che si affiancano a quella della madre “committente” o sociale (vale a dire colei
che ha espresso, insieme al proprio partner, la volontà di assumere in proprio e
integralmente, la responsabilità genitoriale sul figlio nato).
Ad esser più analitici, mentre nell’ipotesi di surrogazione per sola gestazione (omologa) le
figure della maternità genetica e quella della maternità sociale vengono a coincidere, nella
surrogazione per concepimento e gestazione la figura della maternità sociale rimane a sé
stante, accompagnandosi ora a un’unica maternità genetica e biologica (nel caso in cui
l’ovocita fecondato sia fornito dalla stessa gestante) ora a due ulteriori e distinte figure di
maternità, corrispondenti alla donna donatrice dell’ovocita (madre genetica) e alla diversa
donna “portatrice” della gravidanza (madre biologica).
Il risultato è quello di una sostanziale “destrutturazione” dell’identità materna e,
conseguentemente, dell’identità del figlio, il quale prima o poi dovrà pur porsi il problema di
quale sia la figura materna da prendere in riferimento tra le tante coinvolte nel processo
generativo.
Una destrutturazione dell’identità materna, dunque, tanto radicale da rendere la pratica
della surrogazione in sé di dubbia compatibilità col principio costituzionale di protezione
della maternità sancito dall’art. 31, comma 2 Cost.
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Ad ogni modo, per effetto delle pratiche surrogatorie (in particolar modo di quelle
eterologhe),
la
maternità
assume
caratteri
di
sempre
più
marcata
“procedimentalizzazione”, che ne intaccano la naturale fisionomia “unitaria”, mercé il
coinvolgimento di figure diverse (la madre genetica, la madre biologica e la “committente”),
tutte potenzialmente idonee a rivendicare un titolo di genitura esclusiva sul nato.
Il diritto si muove quindi attualmente in un mare periglioso, essendo chiamato con maggior
frequenza a stabilire quale tra i diversi soggetti che pure hanno dato un contributo causale
alla realizzazione di quell’articolato “procedimento medico‐legale” in cui si risolve la
maternità surrogata debba essere considerato “genitore” agli effetti legali, con tutto quel
che ne deriva in termini di assunzione dei diritti e delle connesse responsabilità sul nato. In
particolare, ci si chiede se la prevalenza dovrà essere data in via di principio al fattore
naturalistico o a quello volontaristico‐sociale e, all’interno dello stesso fattore naturalistico,
in caso di conflitto tra la madre genetica e quella uterina, quale sia quella a cui
l’ordinamento debba accordare preferenza.
Il divieto di maternità surrogata posto dalla legge italiana, benché presidiato da una
sanzione penale di non irrilevante entità (reclusione da tre mesi a due anni e multa da
600.000 a un milione di euro) – sanzione applicabile, oltre che alle cliniche e al personale
sanitario coinvolto nella procedura, anche ai soggetti che vi ricorrono (coppia committente
e madre surrogata) – non risolve punto i divisati problemi (potendo al massimo contribuire
a prevenirli in virtù della forza deterrente della norma incriminatrice), dato che questi sono
destinati a ripresentarsi tutte le volte che la maternità surrogata sia eseguita nonostante e
contro il divieto legale.
Questa “tragica” fatalità pone precisamente al diritto due ordini di problemi, che in via di
principio andrebbero analizzati e risolti separatamente.
Il primo attiene alla qualificazione civilistica degli accordi di maternità surrogata e
alla conseguente regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali tra le parti
dell’accordo in caso di inadempimento.
Il secondo, più delicato e complesso, attiene invece al profilo dell’attribuzione della
maternità legale e del connesso governo dello status filiationis. Questo secondo profilo
esula dalla nostra trattazione.
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Ci concentriamo, dunque sui profili civilistici della maternità surrogata.
Alla base della surrogazione di maternità vi è normalmente un accordo tra i principali
protagonisti della vicenda procreativa (ossia i membri della coppia committente e la madre
surrogata), in virtù del quale la surrogata si impegna a ricevere ( e nella surrogazione per
concepimento e gestazione, come abbiamo detto, anche a fecondare) l’embrione di una
coppia sterile al fine di farlo sviluppare e a riconsegnarlo dopo il parto alla coppia
committente, la quale assumerà tutti i diritti e i doveri propri dei genitori senza nessuna
ingerenza della madre sostituta. L’accordo può essere stipulato a titolo gratuito o a titolo
oneroso:
mentre nel primo caso vi sono normalmente motivazioni “altruistiche”, dettate dalla volontà
di contribuire alla realizzazione del desiderio di genitorialità di una coppia sterile nel
contesto di una collaborazione tra donne o di uno scambio solidale tra famiglie, nel
secondo caso si assiste invece a una vera e propria commercializzazione del corpo
femminile altrui (quello della madre uterina) e delle connesse funzioni biologiche legate
alla gestazione e al parto.
Al di là del profilo mercenario, che sicuramente incide sulla valutazione “sociale” negativa
dell’accordo in questione con inevitabili riflessi – peraltro – sulla validità del “contratto”
sotto il profilo del buon costume, dietro la maternità surrogata “a pagamento”
potrebbero in concreto nascondersi più gravi fenomeni di sfruttamento ai danni di donne
poco abbienti o in situazioni di estrema povertà, sui quali l’ordinamento dovrebbe
attentamente vigilare e intervenire con opportuni strumenti di prevenzione e contrasto,
anche nel quadro di una auspicabile attenzione al c.d. “turismo procreativo” (ossia della
condotta di chi si reca all’estero, in Paesi con una legislazione più permissiva in tema di
maternità surrogata, allo scopo di sottoporsi a procedure riproduttive vietate nel proprio
Stato).
Dalla onerosità o meno dell’accordo, una diffusa opinione fa dipendere la diversa
qualificazione giuridica dello stesso in termini ora di contratto, ora di negozio giuridico
(non patrimoniale).
Si ritiene cioè che, in mancanza della pattuizione di un corrispettivo, l’accordo di maternità
surrogata difetterebbe del requisito della patrimonialità richiesto dall’art. 1321 c.c., non
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potendosi quindi considerare tecnicamente un contratto (anche Trib. Roma, ord. 17
febbraio 2000).
Tuttavia secondo altri questa opinione andrebbe superata, visto che non tiene in debito
conto un aspetto dirimente, vale a dire che la distinzione fra negozi patrimoniali (in primis il
contratto) e negozi non patrimoniali (nella specie familiari) attiene non tanto alla onerosità
o meno della prestazione dedotta (se così fosse, si dovrebbe infatti paradossalmente
negare la natura di contratto a tutti quegli atti di disposizione patrimoniale che, come la
donazione, sono posti in essere per spirito di liberalità e senza la previsione di un
corrispettivo), quanto piuttosto dovrebbe fondarsi sulla natura dell’interesse soddisfatto,
attingendo pertanto il profilo causale.
In questa prospettiva, dunque, è possibile distinguere i negozi giuridici in due categorie
generali:
a) negozi patrimoniali, che sono quelli volti a soddisfare interessi di natura
patrimoniale (fra questi rientra il contratto, che secondo la definizione riportata
dall’art. 1321 c.c. è l’accordo di più parti volto a costituire, regolare o estinguere un
rapporto giuridico patrimoniale);
b) negozi familiari, che si riferiscono invece a rapporti familiari (e tra questi la figura
più rilevante nel nostro ordinamento è il matrimonio) (Caringella -De gioia,
compendio diritto civile)
L’accordo di maternità surrogata, a ben vedere, rientra in quest’ultima categoria,
presentandosi come un negozio familiare “atipico”: infatti, anche nel caso in cui sia pattuito
un corrispettivo in favore della madre surrogata, l’accordo (sotto il profilo causale) rimane
pur sempre destinato a realizzare interessi di natura non patrimoniale, essendo diretto ad
assicurare un figlio ad una coppia non in grado di procreare autonomamente e con
rinuncia preventiva da parte della madre uterina a qualsivoglia diritto costei possa
rivendicare, nella sua qualità di genitore biologico, nei confronti del nato.
Rispetto alla preminente funzione familiare dell’accordo in questione, il quale presenta una
evidente “vocazione” regolativa delle questioni relative allo status filiationis del bambino
che in tal modo viene fatto oggetto di una vera e propria “cessione”, l’elemento della
onerosità della controprestazione eventualmente gravante sulla coppia committente
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assume un valore tutto sommato secondario, in ogni caso insufficiente a imprimere il
sigillo della “contrattualità” al negozio.
Ciò detto, veniamo al profilo più delicato, quello dell’ammissibilità nel nostro ordinamento,
che affronteremo attraverso la lente della giurisprudenza.
La pronuncia che per prima si è occupata della questione nel nostro Paese è Tribunale
Monza, 27/10/1989.
La vicenda giudiziaria è quella di una coppia di coniugi che convenivano in giudizio una
giovane immigrata algerina per “l’esecuzione del contratto di maternità” . I coniugi
avevano conosciuto, tramite un amico, una donna algerina, dalla quale avevano appreso
della pratica, diffusa in altri Paesi, di avere figli da terze persone per inseminazione
artificiale ed alla quale avevano, quindi, proposto un accordo del genere. Fra i coniugi e
l’algerina, si era concluso un vero e proprio contratto, in forza del quale quest'ultima si
impegnava a sottoporsi ad inseminazione artificiale da parte del marito, a portare a
termine la conseguente gravidanza e ad affidare allo stesso ed alla moglie il nascituro,
rinunziando
a
qualunque
diritto
verso
di
lui,
verso
corrispettivo,
da
pagarsi
contestualmente al compimento della complessa prestazione. Nel corso della gestazione,
peraltro, l’immigrata aveva più volte preteso da entrambi i coniugi, rilevanti integrazioni del
corrispettivo, fino ad ottenerli. Alla nascita della bambina, la madre uterina si era servita
della piccola, che, peraltro, teneva in condizioni di abbandono affettivo, malnutrizione e
scarsissima igiene personale, per nuove richieste pecuniarie ai due coniugi, con la
prospettiva di lasciargliela vedere e tener con loro, rifiutandosi di dare esecuzione
all'impegno assunto. La coppia “committente” adiva, così, il Tribunale di Monza per
ottenere la coattiva esecuzione dell’obbligazione assunta dalla donna da essi contattata
Secondo l’organo giudicante, il c.d. contratto “atipico di maternità” in tutte le sue forme e
quale che sia nei diversi casi lo specifico contenuto, è radicalmente nullo.
Afferma che la patrimonialità del rapporto che si costituisce tra le parti avrebbe ad oggetto
la commercializzazione di una operazione che ha come scopo la nascita di un bambino.
Orbene, l’art. 1322 c.c., limita l’autonomia contrattuale delle parti, prevedendo che queste
possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge e
che i contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare devono essere
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diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico vigente. Il
contratto di affitto dell’utero ha come momento fondamentale la consegna del bambino e
la rinuncia al riconoscimento del rapporto di filiazione – attualmente garantito dal codice
civile e dalla Costituzione – da parte della “madre surrogata”. Per cui, rispetto al quesito
se la madre uterina possa rinunciare a tale diritto, se sia legittimo obbligarla a farlo, e se
sia nella sua totale disponibilità il diritto stesso.
Il Tribunale giudicante desume la nullità del contratto di maternità a norma dell’art. 1418
per la violazione di numerose norme di legge
Difatti, pur essendo i contratti atipici ammessi nel nostro ordinamento purchè diretti alla
realizzazione di interessi meritevoli di tutela che nella fattispecie in esame potrebbero
essere quelli di garantire una discendenza e i mezzi e i modi per realizzarla, tuttavia, tali
interessi non possono essere valutati in astratto ma nella loro concreta attuazione, in
relazione ad altri eventualmente violati ed in caso di contrasto occorre preferire quelli
maggiormente meritevoli di protezione.
Il contratto di maternità surrogata è, per il Tribunale di Monza, inoltre, affetto da nullità, per
mancanza nell’oggetto, dei prescritti requisiti di possibilità e liceità trattandosi di beni che
non sono tali dal punto di vista giuridico, ossia le parti del corpo umano, gameti ed organi
della riproduzione, in quanto il soggetto ha sugli stessi soltanto un diritto alla personalità e
non un diritto patrimoniale e l'eventuale consenso prestato alla disposizione delle stesse,
se la prestazione non integra una diminuzione permanente della integrità fisica e non è
contraria alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume, integra non un negozio
giuridico o un contratto, bensì un mero atto unilaterale di volontà lecito ma sempre
revocabile ; nell'ipotesi inversa, si tratterebbe di un atto illecito con tutte le consequenziali
statuizioni di legge.
Da ciò, ne discende che non può formare oggetto e pertanto non può essere dedotta in
obbligazione una prestazione consistente nel concepimento dello sviluppo fetale del
nascituro non rappresentando un bene giuridico ed essendo vietato, inoltre, costituire,
negoziare ed estinguere, gli status personali, quali quelli di figlio e quello di madre nonchè
le potestà dei genitori ed i diritti personali dei minori all'educazione e al mantenimento
nella famiglia iure sanguinis.
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Infine, nell'ipotesi in cui sia previsto un corrispettivo per tali prestazioni, la nullità sarà
determinata anche dalla illiceità della causa, (art. 1343 c.c.) venendo ad essere la
filiazione scambiata con denaro o altra utilità, e nel caso in cui il contratto sia diretto ad
eludere le norme sull’adozione, sarà nullo perché in frode alla legge (art. 1344 c.c.).
Del pari, non possono essere negoziati comportamenti costituenti reato.
Alla rilevata nullità consegue, per la coppia committente, la mancanza di una tutela
giudiziaria delle proprie ragioni, di fronte al rifiuto della madre surrogata o portante di dare
piena esecuzione alle obbligazioni assunte, e non vi sarà luogo nemmeno, stante il
disposto dell'art. 2035 c.c., alla ripetizione di quanto eventualmente pagato in anticipo a
titolo di compenso.
Infine, essendo il marito della coppia di coniugi committenti il padre biologico del figlio
della madre surrogata o portante, unica alternativa “concessa” dal collegio monzese è la
possibilità, per il padre stesso, di riconoscerlo (art. 250 c.c.) come figlio naturale e di
chiederne l'inserimento nella propria famiglia legittima (art. 252, 2° comma, c.c.) e la
legittimazione per provvedimento del giudice (art. 284 c.c.) — tutte cose, peraltro, che
potrà fare contemporaneamente anche la madre su commissione, nel qual caso ne
scaturirebbero, evidentemente, situazioni conflittuali — mentre, per l'aspirante madre,
moglie del padre biologico, ovvero per il marito della madre su commissione, vi sarà la
possibilità di un'adozione particolare ex art. 44 lett. b), l. 4 maggio 1983 n. 184
In conclusione, secondo la pronuncia or ora brevemente passata in rassegna, il contratto
di maternità surrogata sarebbe nullo, e quindi improduttivo di effetti, per impossibilità e
illiceità dell’oggetto, vertendo su “cose” (parti del corpo e nascituro) che non possono
essere considerate dei beni in senso giuridico e su diritti indisponibili. Nelle ipotesi in cui
sia previsto un corrispettivo, inoltre, la nullità sarà determinata anche dall’illiceità della
causa (art. 1343 c.c.) e, nel caso in cui il contratto sia diretto ad eludere le norme
sull’adozione, sarà altresì nullo perché in frode alla legge (art. 1344 c.c.).
La rigorosa impostazione del giudice monzese, seguita dalla prevalente giurisprudenza di
merito degli anni immediatamente successivi
( App. Salerno, sez. minori, (decr.) 25
febbraio 1992 e Trib. minorenni Taranto, 3 febbraio 1999.
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Tuttavia si segnala già negli stessi anni una significativa pronuncia di segno contrario del
Tribunale dei minorenni di Roma (decr. 31 marzo 1992, in Dir. fam. pers., 1993, 188), la
quale, affrontando il tema del riconoscimento da parte del padre genetico di una figlia nata
da madre surrogata, afferma incidentalmente che «il metodo seguito dai coniugi (genitori
committenti) non trova divieto nel diritto vigente) .
Successivamente l’indirizzo interpretativo inaugurato dal Tribunale di Monza
viene
revocato in dubbio circa dieci anni più tardi da una innovativa pronuncia del Tribunale di
Roma, SEZ XI, del 14 febbraio 2000
Il caso è quello di una donna affetta dalla sindrome di Rokitansky-Kuster, una patologia
caratterizzata da una malformazione dell’apparato genitale. La donna in pratica non ha
l’utero, ma può produrre ovociti. Con il marito desidera un figlio, e prima di decidere per
l’adozione,
prova
a
percorrere
la
via
della
fecondazione
artificiale.
E’ il 1994, quando i coniugi si rivolgono per la prima volta ad una clinica specializzata.
Esclusa la possibilità di un intervento chirurgico risolutore, procedono ad una
fecondazione in
vitro.
Effettuata la fecondazione degli ovociti in provetta diventa necessario dare luogo alla crioconservazione degli embrioni. Nel 1999, i coniugi hanno la disponibilità di un’amica di
famiglia che, animata da intento solidaristico, senza nessun compenso, acconsente a
portare a termine la gravidanza. Il medico si rifiuta però di eseguire l’intervento di
trasferimento degli embrioni nell’utero della donna. Non può farlo, perché nel frattempo è
entrato in vigore il codice deontologico che vieta espressamente l’accesso a pratiche di
maternità surrogata. I coniugi si rivolgono quindi all’ Autorità Giudiziaria ed in questo
contesto viene pronunciata l’ordinanza del TRIBUNALE CIVILE DI ROMA, autorizzò il
procedimento di fecondazione assistita mediante l’uso di embrione congelato
Il giudice capitolino, prendendo le distanze dal precedente monzese, rilevata l’assoluta
mancanza di corrispettività nel caso di specie, conclude per la piena validità ed efficacia
dell’accordo di maternità surrogata, spendendo l’argomento per cui quest’ultimo, nel caso
di specie, sarebbe diretto – sotto il profilo causale – a realizzare un interesse meritevole di
tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.), individuabile nel “diritto alla
procreazione”: diritto dotato – nell’argomentare dell’organo giudicante – di sicuro
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ancoraggio costituzionale in quanto «direttamente collegato a quello, costituzionalmente
garantito, di manifestazione e svolgimento della personalità». Le difficoltà relative
all’impossibilità ed illiceità dell’oggetto del “contratto”, che il giudice monzese ricavava
dalla assoluta indisponibilità dello status del nato, vengono praticamente eluse sulla scorta
di una sorprendente interpretazione “evolutiva”, che consente di fatto al giudice romano di
disapplicare la regola desumibile dall’art. 269, comma 3 c.c. (per cui “madre” in senso
giuridico è colei che partorisce), attribuendo la maternità legale alla donna committente.
Sostiene, infatti, il Tribunale che solo in apparenza si è «in presenza di un’abdicazione al
ruolo parentale della madre surrogata», dato che «l’irrinunciabile attribuzione delle potestà
genitoriali è da collegare al fatto procreazione […] [da non intendersi] come fatto
materialisticamente considerato, dovendo essere ravvisato in un fatto umano, in un
comportamento cioè rivolto alla procreazione secondo la normale valutazione sociale.
Il Tribunale di Roma, su queste basi, accoglie il ricorso proposto ex art. 700 e ordina al
medico l’impianto degli embrioni nella donna surrogata.
Al riguardo, accorta dottrina (Sesta)
– a commento della pronuncia – aveva avuto
occasione di rilevare che, pur in assenza di divieti espliciti dell’epoca la surrogacy, nel
condurre a una maternità scissa dal parto, «sembra confliggere con quanto disposto dagli
artt. 269, comma 3, 239 e 248 c.c., anche in relazione all’art. 567 c.p. Le norme
richiamate, infatti, fissano il principio per cui la maternità coincide con il parto, il che
significa che, allo stato della legislazione, non sembra possibile attribuire la maternità a
persona diversa da quella che ha partorito», pervenendo alla conclusione che il Tribunale
di Roma, nel radicare il rapporto di parentela con la madre genetica (e committente del
parto) abbia di fatto consentito «la formazione di uno status al di fuori di ogni indice
previsto dalla legge» e impedito di contro «la formazione di uno status non voluto (quello
di figlio della partoriente), assolutamente conforme ai dati normativi esistenti».
Il divieto in esame, pur desumibile implicitamente dai parametri normativi appena evocati,
da ultimo è stato esplicitato dall’art. 12, comma 6 della legge 40, che nel sanzionare
penalmente la surrogazione di maternità tout court, senza distinguere la locazione d’utero
dalle ipotesi di surrogazione a titolo gratuito, parrebbe confermare in toto la ricostruzione
del giudice monzese, eliminando ogni incertezza circa le sorti del negozio di maternità
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surrogata, sicchè possiamo dire che senza ombra di dubbio oggi può predicarsi la nullità
ex art. 1343 c.c. per contrarietà della causa a norma imperativa. La sanzione civilistica
della nullità negoziale colpisce pertanto tutti gli accordi di maternità surrogata, tanto quelli
“gratuiti” quanto quelli “onerosi”.
Ne consegue che l’accordo in quanto tale non è idoneo a costituire alcun vincolo
obbligatorio tra le parti, potendo le stesse recedere liberamente e in qualsiasi momento
dagli impegni assunti , senza per questo incorrere in responsabilità ex contractu.
Di diverso avviso altra parte della dottrina (G. OPPO, Diritto di famiglia e procreazione
assistita, in Riv. dir. civ., 2005, 3, 329ss.) secondo cui «va riconosciuto, quando
concorrano volontà e responsabilità, il dovere di condurre a termine il
compito che la madre surrogata si è assunto, giacché il rispetto della vita prevale sul
rispetto della norma che vieta la surrogazione». Secondo questo orientamento dovrebbe
ritenersi illegittima la revoca del consenso all’impianto dell’embrione dopo il concepimento
o l’interruzione della gravidanza che sia stata volontariamente intrapresa dalla madre
portante. Dico tra parentesi però la mia critica a questa dottrina atteso che
Ora, la nullità di questi accordi sembra attualmente messa in discussione da una parte
della giurisprudenza penale di merito, che se ne è occupata con riguardo alla
configurabilità del reato di alterazione di stato del bambino nato a seguito di maternità
surrogata all’estero.
Tra esse, richiamo la recente Tribunale di Milano sez. V, 12/06/2015, (ud. 24/03/2015,
dep.12/06/2015), n. 3301 che ha assolto una coppia di coniugi dal reato di alterazione di
stato (avevano stipulato in Ucraina un contratto di maternità surrogata di tipo eterologo )
Ebbene, afferma il Tribunale che la liceità di questi accordi anche nel ns ordinamento
deriverebbe dalla sentenza
della Corte Costituzionale 9.4.2014 n. 162 ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo l'art. 4 comma 3 della legge 19.2.2004 n. 40, nella parte in
cui vieta di praticare tecniche eterologhe di procreazione medicalmente assistita alle
coppie affetteda sterilità o infertilità assoluta ed irreversibile di derivazione patologica. A
detta del Tribunale, la Consulta ha chiarito che la scelta di diventare genitori e formare
una famiglia che abbia anche figli costituisce espressione della fondamentale e generale
libertà di autodeterminarsi, riconducibile agli articoli 2, 3 e 31 Cost. Il divieto dedotto,
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qualora applicato a coppie sterili o infertili, comprime irragionevolmente questi diritti; ed
incide sul diritto alla salute fisica e psichica, stabilito dall'art. 32 Cost., vietando
irragionevolmente il ricorso ad una pratica terapeutica validata dalla comunità scientifica
internazionale. Sicchè il Tribunale fa discendere la legittimità della condotta dei coniugi
committenti anche dalla radice costituzionale del diritto alla genitorialità che, in qualità di
coppia sterile, hanno così esercitato.
Secondo questo orientamento la sentenza n. 162/2014 della Corte Costituzionale,
nell'indicare l'incostituzionalità della norma che vietava la fecondazione eterologa,
avrebbe
troncato in radice anche le argomentazioni dirette a sostenere l'ipotetica
necessità di attribuire la qualifica di madre alla donna che ha partorito il bambino,
piuttosto che alla madre sociale, per asserite ragioni di ordine pubblico.
La gestazione per altri e le tecniche di fecondazione eterologa sono infatti riconosciute
dal nostro ordinamento, nei termini specificati dalla Consulta: è quindi riconosciuta
legalmente, significativa dell'esercizio di un diritto e conforme all'ordine pubblico, con
efficacia ex tunc, la relazione genitoriale che ne discende.
La Corte Costituzionale, delineando una genitorialità incentrata sull'assunzione di
responsabilità intrinseca al ricorso alla PMA, rinvia peraltro a concetti che sono
patrimonio acquisito del nostro ordinamento ed escludono che la genitorialità sia solo
quella di derivazione biologica. Anche l'ordinamento - interno valorizza dunque il
principio di responsabilità procreativa e ne fa applicazione in luogo di quello di
discendenza genetica: il coniuge che abbia dato l'assenso (anche per fatti concludenti)
alla nascita di un bambino tramite fecondazione eterologa con l'utilizzo di gameti
maschili estranei alla coppia non può esercitare l'azione di disconoscimento, per avere
assunto la responsabilità di questo figlio, e ne diviene genitore nonostante lo stato civile
del neonato venga determinato in maniera estranea alla sua discendenza genetica;
così come il donatore di gameti, che quella responsabilità non ha assunto, non può
divenire genitore pur essendolo geneticamente.
Le considerazioni del Tribunale di Milano vanno però criticate per la non corretta
assimilazione tra fecondazione eterologa e maternità surrogata eterologa. Invero, nel
ragionamento della corte costituzione, per quanto si affermi la legittimità della
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fecondazione eterologa, si lascia però intatto il principio civilistico secondo cui è madre chi
partorisce. Diversamente, nella surrogazione eterologa ad essere eliminato è proprio
questo principio, perché , come detto, viene scisso non solo il legame genetico (essendoci
una ovodonazione) ma anche quello biologico, poiché è la portatrice che partorisce il
bambino, ma non è considerata madre.
Peraltro, questa impostazione giurisprudenziale si pone in contrasto con l’unica
pronuncia di Cassazione, sempre penale, che ha esaminato più da vicino la maternità
surrogata. Mi riferisco alla sentenza 21004/2014, di cui senz’altro avrete sentito parlare
ieri, che ribadisce il fatto che l'ordinamento italiano - per il quale madre è colei che
partorisce (art. 269 c.c., comma 3) - contiene, alla L. n. 40 del 2004, cit., art. 12, comma
6, un espresso divieto, rafforzato da sanzione penale, della surrogazione di maternità,
ossia della pratica secondo cui una donna si presta ad avere una gravidanza e a
partorire un figlio per un'altra donna; divieto che la Cassazione dichiara espressamente
non essere stato travolto dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale parziale
dell'analogo divieto di fecondazione eterologa, di cui all'art. 4, comma 3, della
medesima legge, pronunciata dalla Corte costituzionale con la recente sentenza n. 162
del 2014 (nella quale viene espressamente chiarito come la prima delle due
disposizioni sopra indicate non sia "in nessun modo e in nessun punto incisa dalla
presente pronuncia, conservando quindi perdurante validità ed efficacia").
Il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico, come
suggerisce già la previsione della sanzione penale, di regola posta appunto a presidio
di beni giuridici fondamentali.
Vengono qui in
rilievo
la
dignità
umana
-
costituzionalmente tutelata - della gestante e l'istituto dell'adozione, con il quale la
surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto perchè soltanto a tale
istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo
luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l'ordinamento affida la realizzazione
di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato.”
Ciò detto e tornando all’analisi dell’accordo di maternità surrogata, esso, inoltre, a motivo
della sua radicale nullità e dell’indisponibilità delle posizioni di stato sottostanti, non è in
grado di apportare di per sé alcuna modificazione al rapporto di filiazione, che si costituirà
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normalmente nei modi di legge con la donna e con l’uomo che l’ordinamento riconosce
inderogabilmente quali genitori del nato.
Con riguardo alla maternità surrogata “a pagamento” si pone l’ulteriore problema delle
“restituzioni” di quanto la coppia committente abbia eventualmente corrisposto alla
surrogata che, contravvenendo agli impegni originariamente assunti, non abbia portato a
termine il suo compito, avendo in un secondo momento o revocato il consenso all’impianto
dell’embrione o deciso di interrompere la gravidanza iniziata ovvero essendosi rifiutata,
nell’esercizio delle proprie prerogative di madre “biologica”, di “consegnare” il bimbo ai
genitori “committenti” dopo la nascita.
Il problema delle “restituzioni” andrebbe risolto alla luce dei principi generali sulla
ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.), tenendo conto della natura della prestazione
ricevuta ai fini di una sua valutazione in termini di “immoralità” ai sensi dell’art. 2035 c.c.
(operando in questo caso la regola della soluti retentio). Al riguardo merita ricordare come
nelle posizioni precedenti all’approvazione della legge sulla procreazione medicalmente
assistita il rifiuto degli accordi di maternità surrogata “a pagamento” traeva le sue più
condivisibili giustificazioni in relazione alla contrarietà dell’atto di autonomia privata ai
canoni del “buon costume”. In breve, il ripudio della strumentalizzazione del corpo
femminile e il rifiuto di concepire rapporti di scambio economico attorno alla disponibilità di
funzioni così intime ed essenziali come quelle della riproduzione e della gestazione
conducevano ad una unanime condanna, sotto il profilo della morale comunemente
accettata, della locazione d’utero. Rilievi non dissimili, come si è visto sopra, avevano
indotto i giudici di merito, pur profondamente divisi in ordine all’ammissibilità dei “contratti”
di maternità surrogata puramente “gratuiti”, a convergere sulla qualificazione in termini di
illiceità ex art. 1343 c.c. degli accordi surrogatori a titolo oneroso.
La problematica relativa all’“immoralità” del contratto di maternità surrogata “a
pagamento”, a ben considerare, è soltanto in apparenza superata dal divieto esplicito di
surrogazione introdotto dalla legge 40, da cui deriverebbe inequivocabilmente e in ogni
caso la nullità del contratto per violazione di norme imperative ai sensi dell’art. 1418,
comma 1 c.c.
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Per la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 4414 del 1981)
, infatti, l’accertamento che
un contratto sia contrario a norme imperative, e quindi nullo per tale ragione, non
impedisce un’autonoma valutazione dell’atto dal punto di vista della sua eventuale
“immoralità” al fine di negare l’azione di ripetizione ai sensi dell’art. 2035 c.c., a tenore
della quale «colui che ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte
sua, costituisce offesa al costume non può ripetere quanto ha pagato».
Da parte sua, attenta dottrina (Rescigno), prima ancora dell’approvazione della legge 40,
segnalava l’opportunità di distinguere, nel contesto di rapporti e situazioni normalmente
riprovati secondo la coscienza comune, il piano di ciò che attiene alla qualificazione
“teorica” (giuridica e morale) degli impegni assunti col contratto (di regola contrassegnata,
come nel caso della maternità surrogata, da motivi di censura e di condanna) da quello
relativo alla dimensione “concreta” del fatto compiuto. In tal senso, più che sul contratto, il
controllo dell’interprete cade sulla valutazione dell’atto in cui consiste la solutio, rispetto al
quale occorre considerare, sul piano di un “misurato” e “sobrio” controllo di giuridicità, il
valore che pure verrebbero ad assumere i motivi o le forme concrete attraverso cui i
rapporti “immorali” ebbero a prendere vita, a svolgersi e a compiersi, al fine di svelare,
attraverso il sindacato sull’eventuale intollerabilità dei modi concreti di esercizio della soluti
retentio, la dimensione abusiva della stessa pretesa di conservazione della prestazione
ricevuta . Insomma, secondo questa prospettazione, pur in presenza di un contratto nullo
per contrarietà della causa alle regole deontologiche del buon costume, il solvens
potrebbe fondatamente richiedere la restituzione di quanto versato alla controparte in
esecuzione del titolo nullo, qualora la pretesa di ritenzione da parte dell’accipiens risulti
“abusiva”. In tal caso, infatti, non potendo operare, proprio in quanto “abusiva”, il congegno
della soluti retentio contemplato dall’art. 2035 c.c., tornerebbe a valere il principio generale
di cui all’art. 2033 c.c., a mente del quale «chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha
diritto di ripetere ciò che ha pagato».
La ritenuta riferibilità delle regole ora esposte al settore specifico degli accordi di maternità
surrogata consente, a questo punto, di condurre agevolmente a soluzione le questioni
relative al regime dei rapporti patrimoniali intercorrenti tra le parti dell’accordo surrogatorio.
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A questo proposito, viene operata una distinzione preliminare tra rimborso delle spese
sostenute dalla madre gestazionale e compenso per la locatio ventris. Invero, la
pattuizione e la relativa corresponsione, ad opera dei genitori committenti, di un semplice
rimborso in favore della madre gestazionale per le spese (mediche, ospedaliere,
alimentari, ecc.) sostenute (o da sostenere) a fronte delle elementari esigenze di vita e di
sostentamento tanto della gestante quanto del bambino nel periodo della gravidanza non
sembra connotare in termini di onerosità l’accordo né giustificare un giudizio di
“riprovazione” da parte del corpo sociale, inserendosi piuttosto nella cornice di un rapporto
di solidarietà umana e familiare.
Nondimeno, neppure in questo caso quanto percepito dalla madre surrogata dovrebbe
essere restituito (benché la prestazione ricevuta non sia ritenuta in concreto contraria al
buon costume), trattandosi all’evidenza, da parte del solvens, di mero adempimento di
obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c. (a norma del quale «non è ammessa la ripetizione di
quanto spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la
prestazione sia stata eseguita da un incapace»), a nulla rilevando che il solvens abbia per
errore (di diritto) ritenuto di adempiere ad una obbligazione civile. Infatti, il requisito della
spontaneità dell’adempimento richiesto dall’art. 2034 c.c., secondo la prevalente dottrina
, postula semplicemente la mancanza, nei confronti del solvens, di coazione da parte dello
stesso creditore naturale o di terzi, mentre ai fini della ripetizione di quanto prestato non
rileva l’erronea convinzione di aver adempiuto a un dovere giuridico.
Un discorso sensibilmente diverso deve farsi allorché la parte “committente” accordi alla
madre sostituta un vero e proprio compenso per l’opera prestata, comprensiva della
“cessione” del nato. In tal caso, l’accordo di surrogazione finisce per inserirsi nell’ambito di
una operazione commerciale – sicuramente riprovata dalla coscienza sociale – avente ad
oggetto proprio la funzione gestazionale e materna. La corresponsione di una retribuzione
alla madre surrogata concretizza pertanto una prestazione contraria al buon costume
anche da parte del solvens, tale da impedirne la ripetizione ai sensi dell’art. 2035 c.c.
(infatti, come recita il brocardo, in pari causa turpitudinis, melior est condicio possi dentis).
Ed è chiaro che il giudizio di “immoralità” sarà ancor più severo se vi è stato
approfittamento, da parte dei soggetti richiedenti, della eventuale situazione di indigenza
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della madre surrogata. Non bisogna d’altra parte nascondersi il pericolo che sia la stessa
madre surrogata, ancorché in situazione di inferiorità economica, a tenere comportamenti
opportunistici, ricattando la coppia committente mediante la reiterata richiesta di
“maggiorazioni” retributive quale condizione per la “rinuncia” alla rivendicazione dei propri
diritti parentali sul nato (Questo, ad esempio, era quanto accaduto nel caso concreto
deciso dal Tribunale di Monza nella prima pronuncia italiana in argomento. In
quell’occasione, infatti, la madre surrogata (una ragazza algerina
immigrata), dopo aver reiterato le richieste di denaro oltre quelle originariamente
convenute, rifiutava di consegnare il bambino partorito alla coppia committente. ) In casi
del genere, la soluti retentio costituirà senz’altro abuso del diritto previsto dall’art. 2035
c.c., ragion per cui la prestazione ricevuta dovrà essere restituita in base alla regola
generale di cui all’art. 2033 c.c.
Esclusa ogni forma di responsabilità contrattuale per la madre surrogata che venga meno
ai patti assunti, dobbiamo chiederci se residuino spazi per la configurabilità di una
responsabilità extracontrattuale della madre sostituta nei confronti tanto del concepito
quanto della coppia committente
.
Nel primo caso i genitori genetici (committenti)
agiranno – come è ovvio – iure alieno (nell’interesse del figlio), mentre nel secondo caso
agiranno verso la surrogata per il risarcimento del danno iure proprio.
Si è visto sopra come il rifiuto, da parte della donna portante, di ricevere nel proprio utero
l’ovulo già fecondato per via extracorporea costituisce espressione del diritto della persona
di revocare in qualunque momento il consenso prestato a un trattamento sanitario (che, in
mancanza di una espressa previsione di legge in senso contrario, è da reputarsi
evidentemente come non obbligatorio): diritto dotato di sicuro ancoraggio costituzionale,
essendo desumibile dall’art. 32, comma 2 Cost.33 nonché dall’art. 5, comma 3 della
Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina 34. L’esercizio di
un tale diritto, per quanto confliggente col diritto alla vita del concepito, finirebbe, infatti,
col privare il danno del requisito dell’ “ingiustizia”, indispensabile ai fini del risarcimento35.
Lo stesso dicasi nel caso in cui, a gravidanza avviata, la madre surrogata decida di
interromperla nel rispetto – si intende – della legge 194.
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Quanto alla configurabilità di una responsabilità aquiliana direttamente riferibile alla
posizione giuridica dei membri della coppia committente, due sono gli ostacoli che
potrebbero in teoria prospettarsi: il primo attiene all’identificazione della posizione giuridica
soggettiva violata, essendo dubbia la stessa esistenza di un diritto soggettivo assoluto a
diventar genitori (anche se in senso affermativo sembrerebbe essersi orientata
recentissimamente la Corte costituzionale nella sentenza che ha fatto venir meno dal
nostro ordinamento il divieto di PMA eterologa); il secondo ostacolo
attiene alla
concorrente posizione giuridica vantata dalla madre surrogata, che, qualora dovesse
essere ritenuta dal giudice come la “vera” madre dal punto di vista giuridico secondo la
regola di attribuzione della maternità introdotta dall’art. 269, comma 3 c.c. (a mente del
quale è madre colei che ha partorito), avrebbe non solo il diritto, ma altresì il dovere di
rifiutare la “consegna” del figlio appena nato alla coppia committente. Anche in questo
caso, il danno, ancorché in ipotesi contra ius (in quanto astrattamente lesivo del preteso
diritto alla genitura dei membri della coppia committente), sarebbe in concreto scriminato
dall’esercizio, da parte della madre surrogata, dei diritti e dei doveri inerenti al suo status
di madre, e pertanto non potrebbe definirsi non iure.
A conclusioni opposte, invece, dovrebbe pervenirsi qualora la maternità legale fosse
riconosciuta in capo alla donna committente. In tal caso, infatti, ammessa l’esistenza di un
diritto soggettivo a diventare genitori, la mancata consegna del bambino da parte della
madre uterina concretizzerebbe una lesione della posizione giuridica soggettiva vantata
dai genitori “committenti”, per di più non giustificata dall’esercizio di alcun diritto da parte
della “madre” portante (in quanto priva, appunto, di un effettivo status di madre). Il danno
patito dalla coppia committente, in base a questa ricostruzione, sarebbe quindi certamente
“ingiusto”, in quanto non iure e contra ius.
Ai fini della responsabilità aquiliana (derivante dalla mancata “consegna” del bambino
appena nato alla coppia committente; Mentre, per le ragioni già viste, la revoca del
consenso all’impianto dell’embrione procreato artificialmente, così come l’interruzione
volontaria della gravidanza nei casi ammessi dalla legge, non costituiscono un atto illecito
ai sensi dell’art. 2043 c.c. (essendo al contrario espressione di diritti e facoltà legittime).)
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assume invece un ruolo fondamentale la risoluzione delle questioni relative allo status di
madre, questione di cui , come detto all’inizio, non possiamo occuparci in questa sede.
Vorrei concludere questa relazione su un argomento così delicato con le parole di un
giudice penale del Tribunale di Milano che, in una sentenza del 2014, pur assolvendo gli
imputati - coppia committente di surrogazione di maternità in India - si è soffermato su
considerazioni tanto profonde quanto drammatiche relative agli scenari che apre la pratica
della maternità surrogata.
Scrive il giudice
“Ora, se è pur vero che il desiderio di genitorialità è pregevole e la famiglia, intesa in senso
lato, è oggetto di specifica tutela costituzionale, tanto non vale allorché tale desiderio sia
soddisfatto ad ogni costo, anche a probabile discapito del nascituro. La legislazione
nazionale, dalla Costituzione alle legge sulle adozioni, nazionali ed internazionali, dedica
grandissima attenzione a che il desiderio di genitorialità non urti contro i diritti del minore –
essendo quella del suo superiore interesse una clausola estremamente, vaga ai confini
della dubbia costituzionalità – e non travalichi il dato materiale, cioè le condizioni per
mezzo delle quali due soggetti possano naturalmente generare. A prescindere da ogni
valutazione etica, ovviamente preclusa in questa sede, il dibattito intorno all’applicazione
delle scoperte tecnologiche in materia di filiazione, è assolutamente aperto nell’opinione
pubblica, nelle scienze e nella bioetica e le possibilità offerte dalla scienza in questa
materia sono talmente vaste da potersi immaginare esiti tali da far obliterare qualunque
considerazione dei diritti del nascituro, il quale potrebbe divenire strumento per la
soddisfazione del desiderio di genitorialità della madre malata terminale, del padre
psicotico, della coppia i cui figli sono stati dichiarati in stato di adottabilità e che intendano
procrearne altri eludendo il controllo del TM, di genitori assai in là negli anni, dei cugini
primi, ecc. Tali condotte metterebbero, come hanno messo, il diritto con le “spalle al
muro”, nella penosa scelta di tutelare il minore e di non privarlo dei suoi genitori
“tecnologici”. E così si è deciso di dare ingresso alle pratiche riproduttive proprio in virtù
della tutela del minore, terzo inconsapevole di un contratto al quale è rimasto estraneo”
Aggiungerei : drammaticamente estraneo
GRAZIE!
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