INCIPIT Come uccidere le aragoste

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INCIPIT Come uccidere le aragoste
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Claudio Amodio arrivava sempre primo nelle gare d’apnea alla piscina del Lungotevere. Si tuffava in acqua rubando la sigaretta di qualcuno, faceva due boccate profonde e si
immergeva. Riappariva in genere dopo un paio di minuti.
«Ce stanno le telline».
E giù tutti a ridere.
Claudio era morto da un anno. L’aveva preso in mezzo
alla schiena una grossa auto scura, alle due del mattino,
sulla tangenziale deserta. Era di ritorno da una festa a San
Giovanni sul Malaguti centoventicinque comprato a metà
con suo fratello Luca. Tirava dritto sperando che la marmitta rimanesse attaccata fino a casa, con la gommapiuma
sbriciolata nell’involucro del casco e un giacchetto finto
militare tenuto insieme per miracolo. I soldi per comprarsene uno nuovo ce li avrebbe pure avuti – le associazioni
ambientaliste pagano poco, ma pagano – però i suoi amici dello stadio non lo avrebbero riconosciuto con un classico giubbotto impermeabile. Sotto a una toppa smagliata
con la bandiera della Germania cucita sul braccio, Claudio
poteva nascondere fino a cinque grammi di fumo. Quelli
settimanali che gli erano bastati a trascorrere piacevoli serate e pomeriggi e mattinate dal secondo anno di liceo fino alla soglia dei trentacinque anni. Sulla toppa c’erano le
iniziali di Rudy Voeller, il tedesco che volava. Quando i
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portantini lo avevano raccolto dall’asfalto, i cinque grammi erano rimasti ficcati lì dentro. Immobili. L’auto invece
se n’era andata dritta sulla rampa lasciando due dita di
gomma bruciata sulla carreggiata esterna. Claudio, falciato come un birillo del Brunswick, era atterrato sul
guardrail, mezzo decapitato. Quattro vertebre infilate nei
polmoni. Arrivati sul posto venticinque minuti dopo l’incidente, i carabinieri avevano fatto caricare il corpo su
un’ambulanza esausta e contattato il primo numero della
rubrica telefonica della vittima, registrato sotto il nome di
Luchino.
«Sono suo fratello» aveva risposto Luca agli agenti.
«Maggiore o minore?».
«Il più piccolo. Sono il più piccolo».
I carabinieri gli avevano fatto notare che per la legge
Claudio non ci doveva stare, a quell’ora, con quel motorino, sulla tangenziale. Però a quell’ora di notte nemmeno
l’auto poteva transitare, quindi bisognava prima capire di
chi fosse la colpa perché così come si presentavano i fatti,
era come se quell’incidente non fosse mai esistito. Con tono compassionevole gli avevano comunicato in chiusura di
telefonata che avrebbero fatto di tutto per non fargli arrivare la multa a casa. Poi più niente.
Luca aveva aspettato per tredici mesi un segnale da parte dei responsabili della morte di Claudio. Tredici mesi a
lottare contro i ricevimenti dei professori e i colloqui di lavoro architettati da sua madre, contro le cene di San Valentino con Viola, contro quelle al Pigneto con Marco Toller e
gli amici dell’università, contro i caffè veloci prima della lezione, glorificando l’attesa nella speranza che gli assassini di
suo fratello, pentiti, bussassero al civico dei suoi genitori
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per chiedere scusa. C’era solo da aspettare, diceva la polizia.
Da una settimana a un mese al massimo, forse tre, poi i responsabili sarebbero arrivati. Di notte, quando cercava il
Ventolin tra i cuscini sfrangiati delle sedie finto liberty,
Luca li vedeva raccolti nel salone di casa, tutti stretti sul
divano di pelle ingiallito ai bordi a cercare giustificazioni
inutili e tardive, mimare sentimenti di cordoglio, onestà,
misericordia. Invece in casa Amodio era tutto silenzio e fazzoletti dell’ipermercato. E ancora la polizia gli diceva di
aspettare, perché alla fine i colpevoli si presentano sempre
al commissariato con la felpa da casa e due biglie di vetro al
posto degli occhi, con i fantasmi dei morti ammazzati che
gli stringono le caviglie sussurrando «Forza, ce la fai». Gli
assassini nelle caserme di polizia ricercano il calore materiale degli oggetti nelle sale del colloquio, delle stufe di ghisa
incastonate nei muri crepati, chiedono un bicchiere d’acqua, confessano subito e appena li chiudi in cella si mettono a dormire per settimane. Bisognava soltanto avere la pazienza di aspettare un pochino e preparare qualcosa da
mangiare per farsi forza e aspettare ancora qualche giorno,
due settimane, tre. I pirati della strada sono così e quando
si presentano al commissariato tornano bambini. Ma non
era successo. Né quello, né altro.
E alla fine, si era stufato di aspettare.
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