L`idea di sostenibilità in architettura

Transcript

L`idea di sostenibilità in architettura
Politecnico di Torino
Dottorato in Architettura e Progettazione Edilizia
XXIV ciclo
L’idea di sostenibilità in architettura
Natura, tecnologia, democratizzazione
Auto-definizioni architettoniche
Indice
INTRODUZIONE
_L’ipotesi costruttiva_Le mappe bibliografiche_Le idee chiave_La struttura della
ricerca_Gli esiti della ricerca
LA STORIA DELLA SOSTENIBILITA’ IN
ARCHITTTURA
Michela Penna
_Le origini del progetto sostenibile
_Le tre fasi del progetto sostenibile
_I primi passi dell’architettura sostenibile: la protezione ambientale fra
regolamentazione e controllo (1970-1990)_La formalizzazione: una fase ponte fra
riforme e flessibilità (1980-2000)_La natura globale del concetto: verso comunità
sostenibili (1990-2010)
NATURA
Architettura e ecologia
_La deformazione antropocentrica e le origini illegittime del pensiero ambientalista_I
ripensamenti moderni. La natura come fonte di integrità_Gli esordi dell’etica ambientale.
Visioni architettoniche_Il superamento della crisi energetica. Trascrizioni verdi_Il ruolo
sociale dell’ecologia. Declinazioni locali come soluzioni quotidiane_L’idea di autosostenibilità. Declinazioni rigenerative.
TECNOLOGIA
Architettura e economia
_Dall’ecologia all’economia. Visioni riformiste _Economia ecologica. Visioni
frugali_Biodeiversità. Trascrizioni locali_Identità e sviluppo. Declinazioni politiche.
DEMOCRATIZZAZIONE
Architettura e processi decisionali
_Contro gli autoritarismi. Le complessità e il conflitto in architettura_L’approccio ideologico.
Visioni educatrici_L’approccio pragmatico. Visioni esplorative_La mediazione. Trascrizioni
istituzionali_Il processo di empowerment. Declinazioni sociali_Il progetto come ‘Trading
Zone’ per la costruzione di immagini condivise
AUTODEFINIZIONI ARCHITETTONICHE
Visioni, trascrizioni, declinazioni
ANTOLOGIA
Natura
_Paolo Soleri. Arcology: the city in the image of man_Richard Buckminster Fuller.
Operating Manual for Spaceship Earth_Emilio Ambasz. Architettura e Natura/Design &
Artificio_James Wines. Ventidue domande a James Wines president of SITE_Ugo
Sasso. Quarantasette domande a Ugo Sasso. Speciale bioarchitettura_Sim Van der
Ryn. Design for life_Renzo Piano. Giornale di bordo. Nouméa 1991_Jan Kaplinky.
Green Questionnaire_Ken Yeang. The Green Skyscraper_Agance Babylone. Natura
Attiva
Tecnologia
_Richard Buckminster Fuller. Approaching the benign environment_ Paolo Soleri.
Technology and cosmogenesis_Hassan Fathy. Architecture for the Poor_Yona
Friedman. L’architettura di sopravvivenza_Fabrizio Carola. Antiche tecnologie per una
nuova architettura_Renzo Piano. La responsabilità dell’architetto_Thomas Herzog.
Solar Energy in the architecture and urban planning_Stefan Benisch. Benisch, Behnisch
& Partner_Samuel Mockbee. University-community design partnership: innovation in
practice_Hermann Kaufmann
Democratizzazione
_Giancarlo De Carlo. La piramide rovesciata_Ralph Erskine. Architettura di bricolage e
partecipazione_Lucien Kroll. Ecologie urbane_Renzo Piano. Giornale di bordo. Otranto
1978_Balkrishna Doshi_Peter Hübner. Building as a social process_Carin smuts.
Architecture as empowerment_Diebedo Francis Kéré. Fare architettura in
Africa_Alejandro Aravena. Elemental_Giancarlo Mazzanti. L’architettura nella
trasformazione sociale di Medellin
GLOSSARIO
INDICE DEGLI ARTICOLI
BIBLIOGRAFIA
Introduzione
L’ipotesi costitutiva
La ricerca muove da una constatazione apparentemente oggettiva: il forte impatto dell’idea di
sostenibilità sulla disciplina architettonica e urbana. I centinaia di testi pubblicati al riguardo, ma anche
l’istituzione di nuovi corsi di laurea e la nascita o il rinnovamento di diverse riviste sviluppatesi proprio
attorno al tema a partire dagli anni della sua formalizzazione - intorno agli anni ottanta rappresentano infatti una prova chiara del profondo interesse rivolto all’idea.
Ma quali sono i significati, le questioni e i valori impliciti nel termine? E, soprattutto, le sue reali
implicazioni sulla cultura del progetto?
La necessità di rispondere a queste domande rappresenta l’ipotesi costitutiva della ricerca il cui
obiettivo è quello di indagare l’idea di sostenibilità come paradigma culturale - e quindi le relazioni tra
filosofie politiche e filosofie progettuali da essa innestate o innestabili - per provare a verificarne
l’affidabilità progettuale. E’ cioè possibile partire da questo concetto per definire un quadro di temi
progettuali rinnovato capace di rispondere alle nuove condizioni strutturali del territorio? Un insieme di
prefigurazioni formali in grado di orientare strategie di sviluppo innovative per una società
profondamente in crisi?
Le mappe bibliografiche
La storia imprescindibilmente interdisciplinare del concetto di sostenibilità ha richiesto alla ricerca di
prendere avvio da un’indagine esterna al campo prettamente progettuale. A partire da alcuni testi
sulle origini, sulla storia e sulla critica dell’idea (cfr. Bibliografia 1), ma anche dall’analisi degli eventi
storici più influenti, delle conferenze tenutesi sul tema e delle politiche nazionali e internazionali (cfr.
Bibliografia 4), si è quindi provato ad indagare il dibattito etico e filosofico sviluppatosi intorno alla
stessa e ad individuarne i contributi fondanti. Ambiti apparentemente distanti come quelli delle filosofie
ambientali (cfr. Bibliografia 5.1), dell’economia ecologica (cfr. Bibliografia 5.2), delle riflessioni
epistemologiche e della critica al paradigma moderno (cfr. Bibliografia 5.3) oltre che delle teorie
sociologiche (cfr. Bibliografia 5.4) sono stati analizzati mediante fonti dirette ed indirette con la volontà
di costruire una mappa bibliografica interdisciplinare sull’idea di sostenibilità mediante la quale definire
un quadro complessivo delle questioni e dei valori propri della nuova matrice semantica richiesta dalla
stessa. Per poi domandarsi quali di questi fossero stati introdotti anche in ambito architettonico.
Il passaggio dall’ambito di indagine più generale - l’idea di sostenibilità - a quello più disciplinare –
l’idea di progetto sostenibile - non è tuttavia stato né semplice né scontato. Verificando lo stato
dell’arte della letteratura presente sul tema (cfr. Bibliografia 2), è infatti immediatamente possibile
capire che i contributi che provano a tracciare i tratti della filosofia dell’architettura sostenibile, a
ricostruirne le origini e la storia sono veramente limitati: invece di provare ad esaminare le filosofie
progettuali definitesi attorno al tema e cercare di intrecciarle all’interno delle filosofie politiche
internazionali, molti autori preferiscono calarsi sul piano tecnico e operativo definendo un proprio
elenco di ‘caratteristiche sostenibili’ da applicare al progetto o fornendo liste di ‘architetture sostenibili’
senza procurare alcuna indicazione rispetto al processo progettuale che le ha generate.
Per ovviare a questa lacuna, si è quindi sviluppata un’indagine sulle riviste di architettura più diffuse a
livello internazionale. Grazie al motore di ricerca ‘Avery Index’ sono stati individuati gli oltre cinquemila
articoli pubblicati sul tema ‘sostenibilità’ o ‘sostenibile’ dagli anni Ottanta al 2011, e, mediante la loro
analisi, si è provato a definire il quadro teorico mancante. Un importante lavoro di classificazione ha
reso possibile ricavare non solo dati quantitativi significativi come base per la ricerca, ma soprattutto
una mappa bibliografica disciplinare sull’idea del progetto sostenibile che ha fornito informazioni
centrali rispetto ai temi e ai protagonisti riconosciuti come tali all’interno del dibattito sullo stesso.
Sovrapponendo le due mappe bibliografiche è infatti stato possibile provare a costruire una storia
disincantata dell’idea di architettura sostenibile nel suo complesso, individuandone l’origine e le
possibili fasi di sviluppo. In particolare, il confronto costante della mappa disciplinare con il panorama
politico e culturale internazionale ha reso possibile l’identificazione di tre possibili ondate del progetto
sostenibile (Longhi; 2004); tre fasi cioè, che, pur sovrapponendosi e confondendosi, si distinguono
chiaramente per il loro modo di interpretare il tema della sostenibilità e, di conseguenza, per le
strategie e gli strumenti politici, ma anche progettuali, utilizzati per indirizzare la questione.
Cambiamenti generali e complessi, per i quali risultava però molto problematica sia l’individuazione
delle possibili ricadute progettuali sulle retoriche, ma anche sulla strutturazione e sulla morfologia del
territorio, sia la costruzione di strategie e scenari concreti sui quali fondare nuovi processi di sviluppo
dello stesso.
Le idee chiave
Per questo motivo si è deciso di provare a rielaborare la mappa bibliografica disciplinare ottenuta
precedentemente nel tentativo di superare, almeno temporaneamente, la complessità e la
superficialità del quadro generale provando ad individuare le questioni chiave con le quali fosse
possibile ricostruire più nello specifico l’introduzione e la trasformazione del dibattito sulla sostenibilità
in ambito architettonico e soprattutto le sue ricadute.
La sovrapposizione delle due mappe sotto questo punto di vista ha infatti fatto emergere con evidenza
il continuo confronto - all’interno del dibattito - dell’architettura con altre discipline profondamente
coinvolte dallo stesso. Un confronto che può certamente essere individuato come uno degli stimoli
principali per la trasformazione semantica di alcune idee certamente centrali per il tema: è infatti a
partire dal dialogo dell’architettura con l’ecologia e con le filosofie ambientali che l’idea di natura si
trasforma, è l’emergere di nuove teorie economiche ad aprire una riflessione profonda sulla tecnologia
e il suo ruolo, così come sono le riflessioni e gli studi sui modelli decisionali a sviluppare e trasformare
l’idea di democratizzazione del processo progettuale.
In questo senso, la ricerca ha quindi provato a stringere l’ampio campo del dibattito facendo emergere
dalle mappe generali dei percorsi bibliografici specifici inerenti le singole parole-chiave: sono state
individuate le figure e le posizioni più significative - esterne ed interne al nostro ambito disciplinare –
rispetto alle idee di natura, tecnologia e democratizzazione e su queste, in seguito ad approfondimenti
bibliografici mirati (cfr. Bibliografia 9), si è provato a tracciarne la storia, le metamorfosi semantiche e
le relative conseguenze progettuali.
La struttura della ricerca
La volontà di individuare le metamorfosi semantiche indotte dalle costruzioni culturali definite dall’idea
di sostenibilità ha ovviamente implicato un’analisi approfondita non tanto dei singoli progetti trattati,
quanto degli scritti e delle retoriche proposte dalle figure ritenute significative per ciascun tema. Vista
quindi l’ampia quantità di materiale raccolto, ma anche l’intenzione di proporne una rilettura critica e
non diretta, in fase di stesura della tesi si è deciso di dividere il lavoro in due parti: un primo volume
sarà appunto dedicato ai saggi, mentre una sorta di antologia dei casi trattati costituirà il secondo
volume.
La prima sezione della ricerca sarà quindi composta da cinque capitoli: un primo saggio introduttivo cornice di riferimento per le parti successive - sull’idea di sostenibilità in architettura, i tre saggi
specifici relativi alle idee di natura, tecnologia e democratizzazione e un ultimo saggio conclusivo nel
quale, ripercorrendo trasversalmente i capitoli centrali, si proverà a rispondere alle questioni da cui
muove la ricerca, tornando alla visione complessiva e complessa richiesta dal tema.
La seconda sezione, invece, sarà composta da schede di approfondimento sulle figure le cui retoriche
progettuali sono scelte – non per imposizioni cronologiche o geografiche, ma solo per la significatività
delle loro posizioni - per la costruzione dei saggi. Esse conterranno una breve descrizione introduttiva
del progettista seguita da una raccolta di testi - estrapolati da sue pubblicazioni, relazioni progettuali o
interviste - capaci di restituire una posizione chiara dello stesso rispetto ad una o più delle idee
chiamate in questione.
In entrambe le parti, l’obiettivo è quello di mettere in evidenza, in un continuo confronto spaziale e
temporale, le costruzioni culturali delineate spesso in modo tutt’altro che lineare dai singoli casi,
provando ad evitare ricadute tautologiche del racconto e ad ipotizzare un suo possibile sviluppo.
Sviluppo spesso stimolato, ancora una volta, da riferimenti esterni dallo specifico campo disciplinare
dell’architettura.
Gli esiti della ricerca
Come affermato sin dal principio l’obiettivo della ricerca è quello di provare a costruire la storia di
un’idea di cui negli ultimi quarant’anni il nostro ambito disciplinare ha certamente abusato,
svuotandola dei suoi contenuti. In questo senso, i saggi prodotti dalla ricerca, così come le mappe
bibliografiche e la piccola antologia dalle quali essi si sviluppano, sperano di rappresentare già in se
stessi un risultato importante: un primo tentativo di andare a colmare quel silenzio della teoria molte
volte denunciato ma mai affrontato. Una prima analisi sistematica e organica delle filosofie progettuali
definitesi attorno al tema sulla quale riflettere.
Detto questo, la ricerca intende però provare a chiudersi anche con una riflessione sulla reale portata
innovativa dell’idea di sostenibilità in ambito architettonico. In questo forte momento di crisi globale e
di ridefinizione degli assetti del territorio, siamo cioè in presenza di una nozione di portata
‘rivoluzionaria’ finalmente capace di restituire all’architettura un pregnante ruolo civico e politico,
oppure di una sorta di meccanismo di aggiustamento del tutto interno alle concezioni più tradizionali
dello sviluppo socio-economico?
Nonostante sia certamente impossibile immaginare un’acquisizione della definizione più radicale e
innovativa dell’idea da parte delle politiche internazionali senza un’‘antropizzazione’ della stessa,
tuttavia gli scenari proposti dai capitoli sulle singole idee, così come i continui rimandi interni agli
stessi, mettono in evidenza una serie di prospettive comuni che potrebbero diventare la base proprio
per un’agenda di nuovi indirizzi progettuali in grado di orientare nuovi scenari di sviluppo. Prospettive
rinnovate e strategie utili nell’indirizzare lo ‘spirito’ della ricerca progettuale verso la definizione di una
migliore qualità sociale e di stili di vita capaci di rispondere alle nuove condizioni generali, con forti
ricadute potenziali sia sulle retoriche di progetto che sulla strutturazione e sulla morfologia del
territorio.
In una prospettiva nella quale il principale esito della ricerca potrebbe consistere nell’individuazione di
uno scarto metodologico piuttosto dirompente rispetto alle riflessioni e alle pratiche attuali.
La storia della sostenibilità in architettura
Fase 0_Le origini del progetto sostenibile
Per molte persone il movimento dell’architettura sostenibile è iniziato nei primi anni Settanta come
risposta alla crisi petrolifera, per altri è iniziato un decennio prima con la pubblicazione del testo Silent
Spring, il testo di Rachel Carson che per molti ha dato avvio al più vasto movimento ambientale
moderno. Altri ancora credono che le vere radici dell’architettura sostenibile possano essere trovate
molto molto prima, nelle forme dell’architettura vernacolare sparsa in tutto il mondo.
La verità è che, per certi versi, tutte queste posizioni sono corrette. Per diverse ragioni. Innanzi tutto
perché, come sottolineato da Jason McLennan, nessun “movimento” ha solo un punto di inizio, ma la
definizione di ogni idea avviene grazie a molti processi di causa ed effetto, di azione e reazione, di
nessi e connessioni che spesso scorrono nei secoli e poi perché, entrando nello specifico del tema, la
comparsa dell’ecologia all’interno del discorso sull’architettura si basa su paradosso storico
effettivamente presente da sempre. E cioè che l’architettura esiste principalmente in quanto lotta
contro i fenomeni naturali e, quindi, da sempre, ha dovuto fare i conti con lo spostamento dei rapporti
fra uomo e ambiente da essa stessa determinati.
La verità, dunque, è che la cosiddetta architettura sostenibile, se intesa in senso lato, ha avuto molti
inizi e la sua storia può andare indietro più di quanto non si possa ricordare. Il problema è però
capirne l’evoluzione storica e distinguerne i significati nelle sue diverse fasi per capire quale sia quello
che ci interessa realmente.
Se è, infatti, vero che è possibile individuare un inizio biologico per il progetto sostenibile dovuto
appunto al fatto che da sempre l’uomo ha alterato l’ambiente per crearsi un confort ambientale ideale,
oppure un inizio coincidente con la comparsa delle molteplici architetture vernacolari che, sparse in
tutto il mondo, in fondo consideravano già idee vicine alla nozione di sostenibilità come quella del
regionalismo, dello sfruttamento dell’apporto solare e delle biomasse e del bio-mimetismo, o ancora
un terzo inizio risalente all’era industriale, quando molti problemi ambientali iniziarono ad emergere e
molte persone cominciarono a prenderne atto iniziando a comprendere la connessione fra le attività
moderne e la salute delle persone e dell’ambiente, è giusto dire che tutti questi inizi hanno sì
introdotto molte strategie e processi propri del progetto sostenibile, ma mai considerando le ragioni e
la reale complessità della filosofia che ne stanno dietro.
Già la maggior parte delle culture preindustriali, per esempio, nell’atto di insediarsi faticavano
duramente per cercare di stabilire un equilibrio fra l’ambiente costruito e quello naturale ma esse non
stavano certo cercando di realizzare un’architettura sostenibile: stavano semplicemente tentando di
definire delle condizioni di confort attraverso gli strumenti e le tecnologie che avevano a disposizione,
probabilmente incuranti del legame esistente fra le loro azioni e i problemi ambientali globali.
Leggermente diverso, invece, è il discorso relativo alla seconda parte dell’Ottocento e la prima parte
del Novecento. Nei centocinquanta anni che in qualche modo precedettero l’ingresso ufficiale
dell’ecologia nell’arena politica iniziarono infatti a delinearsi delle posizioni molto più consapevoli
rispetto al problema.
Ripercorrendo velocemente la storia, già nel 1849 Henry David Thoureau, naturalista dilettante,
pubblicò il testo La disobbedienza civile nel quale appariva, forse per la prima volta, una nuova
sensibilità nei confronti della natura che in qualche modo negava la visione antropocentrica del mondo
insita nella cultura occidentale.
Dopo di lui molti altri personaggi si avvicinarono al tema e nel decennio successivo al 1860 fecero il
loro ingresso nel vocabolario scientifico e sociale due termini poi diventati fondamentali per la
definizione del concetto di sostenibilità: entropia e ecologia.
In particolare il primo venne coniato nel 1862 dal fisico tedesco Rudolph Clausius per definire la
dispersione di materia ed energia in funzione della seconda legge della termodinamica, mentre il
secondo venne coniato quattro anni dopo dallo zoologo tedesco Ernst Haeckel con la volontà di
designare la teoria che in natura tutto è interconnesso. Una visione che indebolì ulteriormente
l’antropocentrismo, degradando gli umani a una specie fra le tante altre e che iniziò ad esercitare
un’evidente influenza sulla politica, sull’economia, ma anche sull’arte e sull’architettura. Le forme
organiche dell’Art Nouveaux, per esempio, possono essere interpretate come il corrispondente
artistico delle illustrazioni scientifiche prodotte dallo studioso, mentre architetti come Rudolf Steiner, il
seguace e biografo più influente di Haeckel, iniziarono a loro volta a mostrare delle loro interpretazioni
del rapporto fra architettura ed ecologia: gli edifici dell’architetto non funzionavano in modo veramente
ecologico, ma erano la rappresentazione simbolica delle sue simpatie ecologiste, secondo un
approccio etico, spirituale e quasi religioso alla questione ecologica che presentava una vera e propria
forma di riverenza verso la natura e che nei decenni successivi fece la sua comparsa anche negli
scritti di diversi architetti influenti del XX secolo. Malgrado la loro dipendenza dalla cultura industriale,
per esempio, secondo alcuni Wright e Le Corbusier possono essere considerati entrambi dei protoecologisti, il primo in riferimento all’architettura organica e alla sua volontà di costruire dentro la
natura, il secondo alla città verde e alla sua volontà di costruire sopra la natura.
A questi va certamente aggiunto Richard Neutra, a quanto pare il primo architetto ad aver utilizzato in
modo specifico la parola ecologia durante un dibattito sulla progettazione. Nel suo testo Survival
through Design, pubblicato nel 1954 prima dell’avvento del movimento ambientale moderno,
l’architetto austriaco affrontò il tema del rapporto tra ecologia e design, senza però specificare come
arrivarci e avendo quindi, come Wright e Le Corbusier, un’influenza abbastanza trascurabile nella
promozione di un’architettura ecologicamente consapevole. Almeno in quegli anni.
Solo Paolo Soleri, verso la fine degli anni Sessanta, riprese il concetto di densità verticale elaborato
da Le Corbusier per cercare di dare una risposta in termini architettonici al movimento ecologista. Ma
le sue megastrutture completamente isolate geograficamente, come molte proposte utopiche, non
fecero che ricreare quei modelli antropocentrici a cui pensavano di opporsi.
In questo senso, quindi, fino alla fine degli anni Sessanta, l’influenza del movimento ecologista
all’interno dei dibattiti politici ed architettonici può considerarsi marginale, rendendo dunque il concetto
di sostenibilità e la sua introduzione in ambito architettonico estremamente recente. E forse più
recente di quanto si possa immaginare.
Come si è tentato di dimostrare, infatti, nonostante il termine stesso abbia fatto il suo debutto già nel
1713 all’interno del testo Syllvicultura economica – il primo vero manuale di selvicoltura scritto dal
nobile tedesco Carl von Carlowitz - e nonostante probabilmente abbia radici ancora più profonde,
esso di fatto non è mai stato utilizzato con il significato a cui oggi si vuole tendenzialmente fare
riferimento fino agli ultimi decenni e, forse, se si va in profondità, agli anni Novanta.
Perché anche se l’evidenza sempre maggiore dei problemi e dei rischi ambientali causati dalla società
capitalistica – sottolineata, fra l’altro, da una serie di studi importanti come il rapporto I limiti dello
sviluppo pubblicato dall’MIT nel 1972 – portò alla nascita e al rapido sviluppo del movimento
ambientalista moderno e, potremmo dire, come suo sottoprodotto, dell’architettura sostenibile
probabilmente già dagli anni Settanta, occorre chiedersi quante delle idee oggi implicite nel temine
fossero realmente alla base del movimento sin dalla sua nascita.
Come vedremo in seguito, analizzando in retrospettiva gli ultimi quarant’anni, infatti, è possibile
leggere una chiara evoluzione del modo in cui la questione ambientale è stata percepita ed affrontata,
e, di conseguenza, delle strategie e degli strumenti politici, ma anche progettuali, usati per indirizzare
queste questioni. E la sostenibilità, così come oggi vorrebbe essere intesa, sembra essere realmente
entrata in campo molto tardi.
Fase 1 _ I primi passi dell’architettura
regolamentazione e controllo (1970-1990)
sostenibile:
la
protezione
ambientale
fra
La prima fase del movimento moderno legato all’architettura sostenibile si aprì dunque in stretta
connessione alla crescita del più generale movimento ecologista come movimento sociale e politico
che, durante gli anni Settanta e Ottanta, portò i paesi industrializzati dell’Occidente a percepire la
necessità di definire come priorità nazionale la riduzione dell’inquinamento e lo sfruttamento delle
risorse causati dalle attività umane.
In particolare, l’architettura sostenibile degli anni Settanta fu la reazione dell’industria della costruzione
alla realizzazione del fatto che le costruzioni fossero fra le maggiori responsabili del consumo di
energia (40%) e - come sottolineato dallo studio di Richard Stein Architecture and Energy – del fatto
che fosse il modo con cui erano costruiti gli edifici a causare gli sprechi maggiori, rendendo
l’architettura una grande determinante dei problemi ambientali che oggi affrontiamo.
La maggior leva per il cambiamento arrivò con la crisi internazionale provocata dalla Guerra dello Yom
Kippur nell’ottobre del 1973 durante la quale i paesi arabi produttori di petrolio si misero d’accordo per
imporre un embargo petrolifero contro gli USA e gli altri paesi sostenitori di Israele. Un embargo che
durò sei mesi, ma ebbe effetti devastanti sull’economia per diversi anni a venire, generando fra l’altro
una crisi energetica decennale che divenne, però, uno stimolo verso la conduzione di ricerche
progettuali alternative.
Queste si mossero sostanzialmente in due direzioni: risposte di natura tecnica e scientifica da un lato
e fantasie utopistiche dall’altro.
Partendo dalle prime, in questi anni, molti stati e molte regioni modificarono i loro regolamenti edilizi
per incoraggiare livelli più alti di isolamento termico e concedettero finanziamenti pubblici per la
ricerca di energia alternativa. Queste iniziative furono all’origine di enormi trasformazioni del
paesaggio - basti pensare all’Altamont Pass Windfarm, nel nord della California, dove intorno alla
metà degli anni Settanta furono installate quasi cinquemila turbine eoliche o allo stato di Israele
all’interno del quale, grazie ad un programma di incentivi fiscali, in un solo decennio i riscaldatori
d’acqua solari vennero installati nel novanta per cento delle abitazioni – ma non produssero
necessariamente progetti migliori. I nuovi standard edilizi e i diversi incentivi, infatti, fecero ridurre del
venti per cento il consumo energetico, ma, relegando la discussione sull’ecologia ai dati di natura
tecnica, finirono per definire un approccio che rimase per lo più interno alla ricerca scientifica e che
non riuscì quasi mai ad assumere un punto di vista olistico.
D’altro canto, invece, personaggi come Michael Reynolds e Steve Bear, proposero una grande varietà
di approcci progettuali decisamente eccentrici sperimentando energie e materiali alternativi, mentre in
Europa Settentrionale, così come in California, si formarono gruppi di utopisti - fra i quali, per esempio,
la Findhorn Comunne, un eco villaggio scozzese fondato sulla base di un approccio spirituale molto
simile a quello di Steiner – il cui idealismo e le cui regole estremamente rigide li relegarono però
sempre al margine.
In tutti gli stati coinvolti dalla crisi, poi, gli architetti iniziarono a riscoprire strategie vernacolari e
bioregionaliste. Già a metà degli anni Sessanta la sensibilità ambientale della San Francisco Bay
ispirò la progettazione del Sea Ranch - uno dei primi insediamenti pensati secondo specifici criteri
ecologici per la progettazione del quale gli architetti presero spunto dai tipici fienili locali - e il successo
di questo edificio influenzò molto diversi architetti californiani. Fra questi Christopher Alexander che,
dopo il 1968, rifiutò la teoria meccanicista dei sistemi per lasciarsi conquistare dal fascino e dalla
saggezza dei costruttori indigeni e Sim Van der Ryn che, oltre a fondare un istituto per la promozione
di stili di vita più ecologici, come architetto di stato negli anni Settanta venne incaricato di costruire sei
edifici governativi a consumo ottimale di energia da usare come modelli.
Tuttavia l’esempio più significativo di coscienza ecologica degli anni Settanta fu un architetto non
occidentale: l’egiziano Hasan Fathy che nel suo Architecture for the poor presentò l’idea di provare a
costruire nella maniera più eco-efficiente possibile all’interno dei confini di una regione, raccontando i
tentativi fatti per insegnare le antiche tecniche di costruzione con il fango agli abitanti dei villaggi
poveri allo scopo di dare loro un mestiere e di incoraggiare l’industria edile a fare a meno di materiali e
di tecnologie di importazione. La bellezza del suo lavoro e la logica di investimento nelle risorse locali
influenzarono molto diversi movimenti fra cui Intermediate Technology - poi Appropriate Technology –
il gruppo fondato dall’economista Ernst Friedrich Schumacher, ma, in realtà, anche i suoi sforzi
fallirono. Fathy, infatti, come molti altri architetti animati dalla volontà di esaltare la tradizione, ha finito
con il separala dalla realtà quotidiana, riducendola ad una nostalgia mai accettata dagli abitanti.
Durante questi anni, quindi, né l’approccio tecnico né l’approccio spirituale alla questione ecologica
raggiunse realmente risultati di successo, contribuendo a definire una percezione non positiva del
cosiddetto progetto ecologico. Se, infatti, tutti i tentativi compiuti permisero di iniziare a diffondere una
maggior conoscenza degli obiettivi del progetto sostenibile, i loro frequenti fallimenti fecero sì che si
diffondesse anche una generale sfiducia nei suoi confronti. Una sfiducia, in qualche modo, aggravata
dalle scelte politiche che lo accompagnarono.
Una delle caratteristiche fondamentali della filosofia politica e progettuale che sta alla base della prima
fase di sviluppo del concetto di sostenibilità, infatti, fu il bisogno di centralizzare il potere mediante la
definizione di linee guida forti e uniformi. Si era cioè convinti che per raggiungere un cambiamento
sostanziale in un breve periodo di tempo fosse necessario un sistema forte di regolamentazione e di
controllo che i governi e gli attori locali non sarebbero stati in grado di gestire. Partendo quindi dal
presupposto che aziende ed industrie non avrebbero cooperato volontariamente, ma che, al contrario,
si sarebbero opposte in tutti i modi possibili, vennero definite regole rigide per la riduzione
dell’inquinamento nelle varie componenti dell’ambiente (aria, acqua, suolo,…). Regole che, sebbene
produssero significativi miglioramenti, aprirono anche tutta una serie di problemi e,
conseguentemente, una forte critica al movimento.
In particolare fra le più importanti limitazioni di questa politica vi erano i suoi alti costi per l’economia e
gli affari (molte industrie migrarono), la rigidità imposta all’industria, la creazione di un apparato
burocratico complesso e ingombrante e la sua enfasi su azioni distinte di rimedio più che su azioni
complessive e preventive. Ironicamente, infatti, l’enfasi – spesso propria del movimento ecologico
stesso e quindi delle politiche da esso determinate – su concezioni quasi mistiche di un bilancio che
doveva essere preservato presumeva che la salvaguardia dello stesso fosse un compito riservato a
pochi – e soprattutto agli scienziati – gettando un aura apolitica sull’urgenza della protezione della
terra che metteva da parte tutte quelle politiche ambientali concernenti le questioni di potere e di
ineguaglianza, le relazioni sociali e così via. Definendo, cioè, politiche specifiche per le diverse
componenti dell’ambiente, l’approccio prescrittivo, finì con il non preoccuparsi abbastanza
dell’obbiettivo più ampio della sostenibilità e quindi della natura globale di questo concetto, non
arrivando mai a sviluppare, come abbiamo visto anche per quanto concerne l’architettura, strategie e
approcci più comprensivi capaci di fornire, nello stesso tempo, soluzioni per la riduzione
dell’inquinamento, ma anche di incoraggiare il miglioramento dello sviluppo economico e della qualità
della vita.
Non a caso, ritornando all’ambito architettonico, il movimento “tecnico” prese il nome di Energy
Conserving Design, rivelando, come abbiamo visto, una chiara inclinazione verso la sola questione
energetica. Un’inclinazione sintomo dell’immatura comprensione dell’interconnessione di tutte le
questioni concernenti il movimento. Il periodo non era maturo per un cambiamento a larga scala e
questo fece sì che, dopo pochi anni, molti progettisti scomparvero fra le file dei professionisti
ignorando le lezioni con le quali essi avevano brevemente flirtato.
E per tutti questi motivi, per molti l’architettura verde degli anni Settanta rimase al massimo un pugno
nell’occhio o una scomoda mania, relegando il movimento a margine e facendogli attraversare quella
che John Stuart Mill probabilmente definirebbe fase del ridicolo.
Una fase che, sotto certi aspetti, continuò anche nel decennio successivo.
Anche gli anni Ottanta, infatti, furono caratterizzati da pochi segni importanti: il movimento stava
diventando organizzato ma non aveva molta strada da fare. Passata l’emergenza dettata dalla crisi
petrolifera, l’energia era di nuovo economica e le persone vedevano un bisogno minore di conservare,
determinando un decennio di decadenza e consumo, politicamente regressivo in termini di ambiente.
Il motto era nuovamente “il più è meglio” e “il meno è noioso” e lo stile architettonico del giorno diventò
il postmodernismo, determinando un chiaro regresso verso l’idea che gli edifici potessero e dovessero
essere costruiti nello stesso modo, senza considerazioni concernenti il luogo, il clima e la cultura.
In questo decennio quelli che sarebbero poi diventati i principali protagonisti delle idee dell’architettura
sostenibile, continuarono a praticare , ma affrontando moltissimi ostacoli: la buona informazione era
scarsa, così come era scarso il sostegno da parte della mentalità industriale più diffusa, i cosiddetti
“materiali verdi” erano pochi e quasi sempre più costosi e la frequente mancanza di conoscenza
portava a sbagli di progettazione che fecero sì che molti degli edifici progettati per conservare energia
durante gli anni Settanta finirono anche per essere pieni di problemi che, tuttavia, furono per i
progettisti l’ennesimo sintomo della necessità di considerare nel processo progettuale una serie di
questioni più ampia.
Alla fine degli anni Ottanta, quindi, pochi obiettivi erano stati raggiunti in termini di impatto ambientale
e le costruzioni usavano più energia che mai. Tuttavia, le personalità e idee chiave si stavano
raccogliendo e, in appena pochi anni, avrebbero portato a cambiamenti significativi.
Fase 2 _ La formalizzazaione: una fase ponte fra riforme e flessibilità (1980-2000)
Negli anni Novanta, infatti, le cose iniziarono a cambiare: qui e là più sostenitori si unirono al
movimento, forse come reazione alla decadenza del decennio precedente, ma anche come reazione
rispetto al visibile declino della salute dell’ambiente. Un declino la cui percezione venne accelerata
drasticamente da due eventi inquietanti: l’accertamento della presenza del buco nell’ozono nel 1985 e
la catastrofe della centrale di Chernobyl nel 1986, che, in pochi anni, insieme alla minaccia sempre più
presente del riscaldamento globale, stravolsero completamente l’atteggiamento nei confronti
dell’ecologia, portando la questione ecologica al centro del dibattito in molti campi e trasformandola in
uno dei temi principali della politica locale e internazionale.
In particolare, fra il 1987, anno della pubblicazione della relazione delle Nazioni Unite Our common
future, e il 1992, anno del Summit di Rio, la nozione di sostenibilità venne formalizzata e ufficialmente
adottata dalla comunità internazionale determinando un cambiamento piuttosto radicale.
Sotto la minaccia della cosiddetta “Apocalisse Verde”, il dibattito ecologico si fece quindi più intenso e
le varie ideologie ecologiste si mossero in direzioni diverse, facendo anche il loro ingresso nell’arena
accademica: sostenendo le ipotesi avanzate da James Lovelock nella sua Teoria su Gaia, il filosofo
norvegese Arne Naess definì i principi dell’Ecologia Profonda; l’indiana Vandana Shiva si fece
promulgatrice dell’Ecofemminismo, mentre Murray Bookchin coniò il termine Ecologia Sociale. Inoltre,
in questi anni, una parte del movimento ambientalista riprese con maggior considerazione la posizione
dell’ingegnere americano Bukminster Fuller che già negli anni Sessanta aveva promosso scienza ed
tecnologia come soluzioni al danno ecologico, definendo la posizione High Tech come una
derivazione dell’ecologia riformista.
Anche in campo architettonico, poi, i cambiamenti furono piuttosto rilevanti. Nello stesso anno del
Summit di Rio, Environmental Building News, quella che ancora oggi è la più importante fonte di
informazione dell’industria sul tema, fu pubblicata per la prima volta, offrendo finalmente al mondo
della produzione un’informazione professionale obiettiva e imparziale sulle scelte di progettazione
verdi e nel 1990-1991, sotto la leadership di Bob Berkebile, l’Istituto Americano degli Architetti formò il
suo primo Committee on the Environmental con la volontà di proporre ricerche all’interno delle quali
l’energia non era più l’unica questione, aprendo così il campo a una nuova fase dell’architettura
sostenibile.
Almeno per certi aspetti, infatti, il tema cominciò ad emergere in modo più complesso. Poco per volta,
l’idea della sostenibilità come modello complessivo di sviluppo iniziò a consolidarsi a discapito
dell’idea di “verde” che la identificava col solo miglioramento ambientale e professionisti e teorici di
questo movimento iniziarono ad ampliare le questioni che consideravano come proprie. Le riflessioni
sugli aspetti energetici vennero affiancate da riflessioni più ampie non solo sui materiali e sul loro
rapporto con il benessere ambientale e umano, ma anche sugli aspetti economici e sulla qualità della
vita e vi fu un enorme cambiamento anche nei soggetti coinvolti. La più generale disgregazione dello
spazio politico iniziata con la caduta del muro di Berlino e la crisi delle democrazie nazionali, aggiunte
al fatto che durante la prima fase i governi nazionali avevano praticamente ignorato il più ampio
movimento della sostenibilità, generando come detto uno scetticismo generale, fecero sì che nella
seconda fase la fiducia nei confronti dei governi stessi e nel fatto che questi, da soli, potessero
dirigere o controllare tutte le attività diminuì drasticamente e iniziò a diffondersi la consapevolezza che
le strategie prescrittive, benché estremamente utili come cornice legale e politica, per essere
realmente efficaci, dovevano essere completate da una molteplicità di strategie collaborative definite
da soggetti diversi. Già a partire dalla metà degli anni Ottanta iniziò quindi a diffondersi l’idea che un
approccio più decentralizzato e collaborativo nella definizione delle politiche, delle regole e degli
obiettivi fosse il modo migliore per rispondere alle agende nazionali. E In questo senso, associazioni
professionali, imprenditori industriali, gruppi no-profit e singoli individui iniziarono ad applicare
approcci diversi, dando vita ad una vera e propria fase di transizione caratterizzata appunto dagli
sforzi per rendere più flessibile ed efficiente l’apparato normativo definito nelle prima fase.
Seguendo questa prospettiva, il passo della legislatura e del processo di identificazione di nuove
forme di inquinamento rallentò in modo sensibile rispetto ai decenni precedenti, ma gli obiettivi
vennero estesi. In particolare, l’obbiettivo di definire un apparato normativo rigoroso venne
progressivamente sostituito – anche se mai dal tutto – dalla volontà di bilanciare gli obbiettivi
ambientali con le priorità economiche e sociali, mediante politiche più flessibili, caratterizzate da
incentivi, tanto quanto da prescrizioni di governo.
Il desiderio era quello di trovare un terreno di mezzo con la fiducia nel fatto che portare insieme
nell’arena politica i principali portatori di interesse avrebbe favorito una maggiore comprensione e
cooperazione e avrebbe permesso a tutte le parti di focalizzarsi sull’area di interessi condivisi e di
accordo politico.
Un atteggiamento, questo, che cambiò anche il panorama architettonico, all’interno del quale poco per
volta si iniziò a pensare che, affinché il movimento dell’architettura sostenibile crescesse
ulteriormente, sarebbe stato necessario definire un approccio più inclusivo, uno non necessariamente
condotto e guidato dagli architetti.
Negli Stati Uniti, per esempio, David Gotterfried e Mike Italiano proposero una nuova visione dell’AIA’s
Committee on the Environment, una visione che vedeva il comitato come un’associazione volontaria
composta da componenti rappresentativi di tutti gli aspetti della professione – architetti e architetti del
paesaggio, ingegneri, costruttori, industriali e accademici - proponendo così un approccio inclusivo
che si rivelò essere uno dei più significativi passi in avanti nel campo verso la sostenibilità. Già nel
1993, infatti, il US Green Building Counci (USGBC) si era formato e comprendeva personalità molto
diverse che, come previsto da Gottfried e Italiano, avviarono importanti progetti pilota, fra i quali la
definizione del sistema di classificazione LEED (Leadership in Energy e Environmental Design), che
aveva come obiettivo principale quello di aiutare i progettisti a capire quanto un edificio fosse “verde” e
avesse delle buone performances ambientali.
Contemporaneamente, in tutto il mondo, si arrivò all’organizzazione di molte conferenze
interdisciplinari, a livello regionale, nazionale e internazionale, che servirono a raccogliere persone,
idee e materiali, portando anche ad un netto miglioramento dell’architettura costruita: gli edifici erano
disegnati meglio, sia tecnicamente che esteticamente e nuove costruzioni come il Deramus Pavilion
(1995), il Wildflower Center (1998) e il Chesapeake Bay Foundation (1999) furono largamente
pubblicati e ammirati sia in termini puramente compositivi, sia dal punto di vista ambientale. Inoltre,
organizzazioni come l’AIA Committed of the Environment iniziarono ad istituire dei premi annuali con
lo scopo di riconoscere i progetti migliori, sia in termini di performance ambientali, sia, diciamo, di
performance artistiche e anche architetti di fama come Rogers e Piano iniziarono ad avvicinarsi e a
sostenere il movimento.
In ambito progettuale, in particolare, iniziarono quindi a definirsi atteggiamenti diversi che persistono
ancora oggi. Innanzi tutto quello dei più inclini alla tecnica per i quali porre l’enfasi sulla sostenibilità
significa riconcettualizzare completamente le priorità della professione architettonica con l’obbiettivo di
enfatizzare i vantaggi delle tecnologie verdi energicamente efficienti e definire un nuovo approccio con
altri professionisti come scienziati naturali e ingegneri. Costituito sostanzialmente dai seguaci di Fuller
e, quindi dei sostenitori dell’architettura High Tech, questo gruppo – fra cui ritroviamo, per esempio,
l’architetto malesyano Ken Yeang, il primo a proporre con il Menara Mesiniaga Building (1992) la
tipologia dell’edificio high-rice bioclimatico e Norman Foster, l’erede di maggior successo
dell’ingegnere americano - pur proponendo soluzioni almeno in apparenza completamente alienate
dal mondo naturale, si propone di fornire le massime prestazioni possibili in termini di sostenibilità,
lavorando per superare la contraddizione insita nel fatto di proporre soluzioni ad alta entropia per
ridurre l’entropia stessa.
A questi si oppone tutto quell’insieme di architetti che enfatizzano la dimensione socio-politica
dell’architettura rispetto a quella tecnica e scientifica. Per loro lavorare sulla sostenibilità significa
provare ad integrare le questioni sociali, culturali ed economiche all’interno della definizione di
sostenibilità ambientale, andando quindi alla ricerca di qualcosa di più vicino alla tecnologia
intermedia, anche percorrendo strade diverse: il tedesco Thomas Herzog e l’australiano Glenn
Murcutt, per esempio, progettano i loro edifici cercando di sfruttare l’orientamento e i sistemi passivi,
mentre il Rural Studio fondato dall’americano Sam Mockbee usa materiali non convenzionali, spesso
abbandonati, coinvolgendo anche studenti volontari nella costruzione.
Fra questi due estremi si inserisce l’atteggiamento di chi ha reagito alla crisi ambientale dando una
risposta, spesso soprattutto estetica, che ricorda la Land Art e cioè cercando di rievocare le forme del
terreno o di integrarsi in esse. L’idea, resa popolare dall’architetto messicano Emilio Ambasz già
all’inizio degli anni Ottanta, è poi stata ripresa non solo da molti altri architetti del panorama
internazionale, come Piano e gli MVRDV, ma anche nel mondo della botanica con Patrick Blanc che,
verso la fine degli anni Novanta, perfezionò un metodo per creare collage di materiali vegetali da
usare come rivestimento.
Con il passare degli anni, quindi, il movimento è maturato muovendosi anche in direzioni diverse, ma
assumendo, in generale, un atteggiamento differente: chi sosteneva l’architettura sostenibile iniziò a
parlarne in modo diverso e il duro messaggio di colpevolezza rivolto a chi “costruiva nel modo
sbagliato” cominciò ad essere sostituito da argomentazioni più persuasive che presentavano i benefici
di una progettazione diversa.
Passato quindi da una posizione marginale ad una centrale, il movimento ha, in qualche modo, preso
fiducia espandendosi notevolmente: durante la seconda fase vennero create nuove riviste e anche
giornali tradizionalmente più conservatori, come Architectural Record, iniziarono a pubblicare articoli
sull’argomento.
Fase 3_La natura globale del concetto: verso comunità sostenibili (1990-…)
Se, insomma, ancora agli inizi degli anni ’90, il progetto sostenibile era un tema marginale, all’inizio
del nuovo millennio il tema è diventato centrale e il decennio che stiamo vivendo sarà probabilmente
conosciuto come il decennio in cui la questione ecologica è diventata comunemente accettata e
riconosciuta. Oggi persone con background e stili di vita diversi hanno iniziato ad adottare i principi
del progetto sostenibile e “il verde” è diventato, almeno in modo retorico, una vera e propria politica.
Anche nel senso stretto del termine.
Basti pensare a quanto accaduto già alla fine degli anni Ottanta in Germania: l’apocalisse verde aiutò
il partito ecologista tedesco a prendere l’8% dei voti a livello nazionale e a prendere il potere in alcune
città, come Friburgo, che poco più tardi iniziarono a definire le politiche più progressiste d’Europa,
fornendo un chiaro esempio dei cambiamenti avvenuti nelle politiche edilizie e negli stili di vita della
città.
In questo senso, nell’ultima fase le barriere percepite rispetto il progetto sostenibile sembrano essere
cadute: le persone stanno iniziando a credere che esso generi edifici migliori, certamente più sani e
meno costosi a lungo termine, ma, in alcuni casi, anche a breve termine. Questo anche grazie ad una
lista crescente di studi redatti da persone come Judy Heerwagen e Vivian Loftness, ricerche, cioè, che
stanno iniziando a dimostrare anche alla parte più scettica del mondo industriale che “il verde” può
avere dei ritorni sostanziali e immediati.
Inoltre, architetti particolarmente sensibili al tema, come per esempio Glenn Murcutt, stanno iniziando
a ricevere riconoscimenti importanti, quali il Pritzker Prize for Design, assegnato ai migliori progettisti
dell’anno dall’AIA.
Tuttavia, al di là della crescente importanza dell’idea, la caratteristica distintiva della terza fase sembra
soprattutto essere la realizzazione da parte di un numero crescente di persone del fatto che sia
necessaria una fondamentale trasformazione non di alcuni aspetti tecnici della nostra vita, ma del
modo in cui gli uomini si relazionano all’ambiente e, più in generale, di quello con cui conducono le
loro vite. In questa fase, cioè, obbiettivi come la riduzione dell’inquinamento e la ricreazione degli
habitat, propri soprattutto della prima fase, appaiono assolutamente sbiaditi e limitati rispetto a quello
della sostenibilità, finalmente inteso considerando la completa complessità del termine.
Al di là dell’ambiguità che continua a caratterizzare il termine – esiste una sostenibilità debole ed una
forte, per alcuni essa rappresenta un insieme di regole pragmatiche, per altri è un imperativo etico e
morale – negli ultimi dieci anni sembra infatti piuttosto chiaro che la lezione da imparare dagli anni
Settanta e Ottanta non sia tanto quella che il compromesso e la cooperazione sono necessari per
ammorbidire la rigidità del sistema top-down di definizione di regole e controllo - come avvenuto nella
seconda fase -, ma che sia invece necessario un approccio fortemente più coraggioso e comprensivo
capace di definire una filosofia e una strategia della sostenibilità.
Questo andando ben oltre la più ristretta attenzione caratteristica del primo modo di pensare e delle
prime politiche:il maggiore cambiamento avvenuto nell’arco delle tre fasi di sviluppo del progetto
sostenibile è certamente la transizione dall’idea di protezione ambientale a quella di sostenibilità, nella
quale le questioni considerate nella prima sono diventate inglobate in una struttura più comprensiva.
Una struttura per la definizione della quale non è più sufficiente il processo di decentralizzazione
iniziato nella seconda fase, ma sono invece necessarie strategie multisettoriali e integrative basate
sulle comunità e capaci di superare le posizioni del funzionalismo verde spesso determinate nelle fasi
precedenti.
Se infatti, sotto certi aspetti, la coscienza ecologica rientra nel generale allontanamento dell’era
postmoderna dal determinismo, dall’antropocentrismo e dalla teleologia, sotto molti altri, i
presentimenti apocalittici oggi latenti a causa della consapevolezza del riscaldamento globale e degli
altri problemi e rischi ambientali hanno involontariamente portato molti teorici contemporanei verso
una restaurazione dell’idea, molto criticata, di una meta-narrazione.
Contrariamente alle sue intenzioni, cioè, il cosiddetto progetto sostenibile ha spesso prodotto un
insistente funzionalismo ambientalista che, carico di strutture ideologiche, si è occupato dei sintomi
delle questioni senza affrontare lo status della sovrastruttura che ha permesso che questi si
manifestassero, con il risultato di produrre soluzioni tappabuco a effetto placebo nella maggior parte
dei casi. Un risultato che solo la crescente consapevolezza della terza fase sulla reale missione della
sostenibilità sembra poter superare.
In questo senso, sembra particolarmente significativa la critica che inizia ad essere rivolta a molti
approcci di tipo burocratico al progetto sostenibile. L’obiettivo politico che fossero tenuti in
considerazione gli aspetti ecologici in modo da arrivare ad un design e uno sviluppo più efficienti ulteriormente incentivato dal Protocollo di Kyoto firmato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005 – ha
infatti spesso determinato la definizione di pragmatiche liste di controllo che hanno lo scopo di
quantificare la costruzione e le prestazioni degli edifici: lo studio HOK, per esempio, uno dei più grandi
studi al mondo tra l’altro scelto da numerose agenzie impegnate nell’ecologia, usa un metodo che
comporta una serie infinita di liste di controllo, mentre nell’ultimo decennio il sistema di valutazione
LEED elaborato dal Green Building Council statunitense è stato applicato a più di 14.000 progetti. Ma
oggi i pareri rispetto a questo tipo di approccio stanno cambiando e non è più un’eccezione il punto di
vista di chi pensa che si tratti di un metodo che, aggiungendo la voce sostenibilità alle sue tabelle, non
fa nulla per cambiare la logica positivistica che ha creato il problema. Le critiche rispetto ad edifici,
come la California Academy of Science di Piano o il Getty Center di Mayer, che hanno ricevuto
valutazioni molo alte da questi sistemi, sono sempre più frequenti ed in molti oggi provano a rivelare le
loro contraddizioni incentivando fortemente il riferimento ad altri tipi di approcci.
Le teorie sviluppate negli ultimi anni dalla prima generazione di architetti ecologisti, per esempio, non
sembrano prestarsi facilmente alla quantificazione richiesta dalla diplomazia internazionale dopo
Kyoto, ma sembrano avvicinarsi molto di più al reale significato del progetto sostenibile.
Basti pensare all’approccio definito verso la fine degli anni Novanta da Sim Van der Ryn e Stuart
Cohen: il loro sistema di cinque principi per un design ecologico - coltivare soluzioni originarie del
luogo, impostare il progetto in base a valutazioni di tipo ecologico,imitare la natura x inserirsi
armonicamente in essa, realizzare che chiunque può essere progettista e rendere visibile la natura per quanto possa guidare i progettisti verso l’applicazione di pratiche corrette, non cercando di dare
un valore numerico a un effetto calcolabile, non sembra tener conto degli aspetti burocratici legati al
budget energetico. Secondo la stessa linea di programma proposta anche dai sostenitori del Natural
Capitalism, il piano ecologico per l’industria definito da un altro dei principali attori della prima
generazione del movimento ecologista, Amory Lovins, con la volontà di ricondurre il mondo della
società dei consumi verso stili di vita più ecologici.
L’obiettivo è quello di risolvere il problema alla radice e non più con soluzioni formali o tecniche di
superfici.
In questo senso, modelli pratici come il BedZED di Bill Dunster rappresentano dei progetti sperimentali
importanti. Ma i riferimenti occidentali oggi non sono di certo i soli possibili. Seppur inizialmente
sollevata come problema di natura etica solo nei paesi industrializzati dell’Occidente, la sostenibilità è
infatti ormai diventata l’argomento tecnico, politico e legale al centro del dibattito internazionale. E se
alcuni paesi in via di sviluppo, malgrado alcuni progetti di facciata come Dong Tang, stanno rischiando
di ripetere gli stessi errori già compiuti dai paesi sviluppati, in alcune parti del terzo mondo si sta
lavorando per costruire una vera coscienza ecologica basata non solo sulla conservazione delle
risorse, ma anche sul rispetto e lo sviluppo delle tradizioni. Ragione per la quale, giunti alla terza fase
del progetto sostenibile, i contributi di progettisti come, fra gli altri, Francis Kéré e Carin Smuts
rivestono un ruolo centrale.
Natura
Ecologia e architettura
La deformazione antropocentrica e le origini illegittime del
pensiero ambientalista.
La natura è stata da sempre una delle più importanti categorie
per la definizione dell’architettura. Ricostruzioni della storia di
quest’idea, come il saggio di Adrian Forty pubblicato all’interno
del testo Parole e edifici (Forty; 2000), mostrano come,
nonostante tutte le variazioni subite durante i secoli, il rapporto
tra natura e cultura, tra natura e artificio abbia rappresentato un
nodo problematico permanete nella tradizione teorica
dell’architettura, insieme al tentativo continuo delle ideologie
susseguitesi nel tempo di oggettivizzare l’idea (Soper; 1995). In
termini positivi, così come in termini negativi.
Prima definita come fonte delle proporzioni e di bellezza nel De
re edificatoria di Leon Battista Alberti, come principio di
costruzione e decorazione nell’Essai sur l’Architecture di MarcAntoine Laugier o ancora come elemento da imitare nei suoi
principi intrinseci da Quatremère de Quincy, lo storico inglese
mette infatti in evidenza come a partire dal XIX secolo i termini
del rapporto fra architettura e natura, comunque sempre
considerate fino a questo momento come categorie separate, si
invertano.
Nel suo saggio, in particolare, egli attribuisce a Gottfried Semper
il merito di aver coniugato la teoria dell’imitazione e dell’artificio di
Quatremère de Quincy con l’idealismo tedesco, producendo una
delle più significative teorie dell’artificialità sviluppate all’interno
dell’ambito architettonico. L’accettazione totale da parte di
Semper della tesi sviluppata da Goethe e dai filosofi tedeschi
della generazione successiva secondo cui l’architettura poteva
assomigliare alla natura ma non era natura, porta infatti, secondo
Forty, gli architetti europei del primo Novecento non solo a
considerare l’architettura come natura inorganica costruita dalle
mani dell’uomo ma anche a pensare di poter fare a meno del
modello naturale di architettura. Segnando una prima rottura
profonda nella storia dell’idea della quale sarà possibile percepire
l’eco anche molti decenni successivi.
Pensare che il significato della disciplina architettonica derivi
interamente dal fatto di essere un’opera dell’uomo, in nessun
modo dipendente dalla natura, significa infatti tagliare i legami tra
architettura e natura e iniziare a considerare quest’ultima non più
un’autorità assoluta da contemplare, ma qualcosa a cui
contrapporsi. Con la definizione di una spaccatura fra i due
termini che, come sottolineato da Sergio Bartolommei nel suo
testo Etica e natura, gli sviluppi della scienza naturale - delle
teorie di Darwin in primis - e del pensiero razionalista non
avrebbero che enfatizzato, sottoponendo le riflessioni su questo
concetto ad una profonda trasformazione anche in campo politico
e sociale.
Basti pensare, per esempio, alla teorizzazione di Marx e Engels
di due tipi di natura, quella da cui l’uomo ricava i suoi materiali e
quella prodotta dall’uomo manipolatore come risultato delle sue
attività (Forty; 2000): scomponendo la natura in parti è la
distinzione stessa fra questa e la cultura ad essere messa in
discussione, con forti ripercussioni anche in ambito
architettonico.
Le argomentazioni di Semper sono infatti destinate a diventare
l’atteggiamento peculiare dell’architettura moderna all’inizio del
XX secolo: attraverso una visione strumentale del mondo che la
separa completamente dall’etica, il pensiero architettonico
dominante mette la natura al bando. Il nuovo concetto
organizzatore della disciplina diventa la tecnologia e la relazione
fra le società avanzate e l’ambiente subisce una pesante
deformazione antropocentrica (Catton, Dunalp; 1978) basata non
solo sul dualismo netto natura-cultura, uomo-ambiente, naturaleartificiale ma anche sull’idea che la natura non abbia nulla da
offrire. Almeno superficialmente.
Se analizzata in profondità, infatti, la fenomenologia del moderno
e dei decenni che lo precedono è tutt’altro che una caricatura
monolitica e sin a partire dalla metà dell’Ottocento è possibile
individuare alcune voci discordanti rispetto al credo dominante, in
ambito architettonico, così come nel più ampio panorama
culturale.
Pochi anni dopo l’affermazione di Semper che l’architettura non
avrebbe trovato i suoi modelli in natura (Forty; 2000), Henry
David Thoureau pubblica infatti due testi destinati a ispirare nei
decenni successivi i primi movimenti di protesta verso la visione
antropocentrica imperante: Walden ovvero Vita nei boschi (1847)
e La disobbedienza civile (1849). Testi nei quali il filosofo e
scrittore americano presenta un punto di vista che non solo nega
la visione antropocentrica del mondo propria della cultura
occidentale - ponendo nuovamente l’enfasi sulle interconnessioni
fra uomo e natura - ma identifica proprio nella wilderness una
possibile alternativa salvifica alla civiltà posseduta dall’idolo del
profitto economico (La Vergata, Ferrari; 2008). Non solo.
Anche in ambito architettonico, pochi anni prima della fine del
secolo e pochi anni dopo la definizione del termine ecologia da
parte di Ernst Haeckel, Ebenzer Howard, con la pubblicazione di
Tomorrow, riporta la pianificazione urbanistica nell’alveo dei temi
ambientali, mettendo l’accento su una progettazione
responsabile: un processo possibile solo attraverso un
ripensamento del patto evolutivo con la natura che alimenterà,
NOTE
dentro i percorsi tutt’altro che lineari della storia dell’idea,
importanti sperimentazioni.
E proprio intorno agli anni venti del Novecento - anni in cui il
Movimento Moderno sta per raggiungere la sua massima
espressione - è Rudolf Stainer, il seguace e biografo più
influente di Haekel, ad avvicinarsi alle prime posizioni ecologiche
descrivendo i suoi edifici con termini e toni esoterici che
certamente hanno a che fare con il vitalismo organicistico di
Thoureau: la sua opera in particolare è frutto di un funzionalismo
spirituale che si ispira per analogia alle forme della natura,
ritenuta appunto - come per il filosofo americano - alternativa
salvifica
alla
civiltà
posseduta
dall’idolo
economicoantropocentrico (Ingersoll; 2009).
Negli stessi anni in cui parte del pensiero culturale e
architettonico segnala un distacco netto dalla natura essa inizia
cioè nuovamente a concentrare su di sé un rinnovato interesse:
l’idea di wilderness avanzata da Thoureau assume il valore di
fonte d’integrità stimolando una forte attenzione verso la sua
protezione.
Attenzione che se a livello istituzionale si traduce con l’istituzione
di organismi come l’Office International pour la Protection de la
Nature - destinato a divenire una delle più importanti
organizzazioni internazionali in materia di ambiente - in
architettura viene trascritta mediante la riscoperta dell’analogia
con le forme naturali. Sebbene non esista un tratto unico che
identifichi l’architettura degli anni trenta, appare cioè evidente
che, in generale, in questi anni le forme diventano più complesse
e organiche, le facciate più elaborate, le finiture e i materiali più
ricchi di ‘effetti naturali’: l’implicito interesse verso la natura come
presunta e palliativa fonte di integrità diviene più esplicito nelle
idee, nelle immagini e nelle forme (Curtis; 1982). E anche voci
emblematiche del Movimento Moderno si avvicinano al tema.
Letti sotto questo punto di vista, Frank Lloyd Wright e Le
Corbusier, pur essendo separati da posizioni e linguaggi
estremamente diversi, possono essere accomunati dalla volontà
di restituire, attraverso la natura, una nuova integrità alla vita
umana.
Come traspare dai suoi scritti, Wright, permeato dal
trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson, si avvicina alla
natura in termini spirituali e romantici esaltandone l’aspetto di
derivazione divina.
Ora siete liberati tramite il vetro, i piani a sbalzo e il
senso dello spazio che diventa operativo. Ora siete
posti in relazione con il paesaggio […] siete parte di
esso quanto lo sono gli alberi, i fiori, il terreno […] Ora
siete liberi di diventare un elemento naturale del vostro
ambiente, cosa che, io credo, è stata l’intenzione del
vostro creatore.
(F. Lloyd Wright. Cit. in O.Lloyd Wright; 1966)
Per l’architetto statunitense l’architettura e la società affondano le
proprie radici in un ordine naturale. Motivo per cui un’architettura
conforme alla natura sarebbe necessariamente conforme alle
esigenze fondamentali delle persone. Quelle stesse esigenze di
cui inizia ad occuparsi anche Le Corbusier. Nel 1924, in un
articolo pubblicato sull’Esprit Nouveau, egli scrive:
Rientrerebbe nello spirito della nuova architettura,
della nuova attesa urbanistica la ricerca di soddisfare
le più recondite esigenze umane restituendo il verde e
il paesaggio urbano e reintroducendo la natura nel
campo delle nostre fatiche quotidiane; ci sentiremmo
finalmente tranquillizzati di fronte alla angosciosa
minaccia della grande città che imprigiona, opprime,
soffoca, asfissia coloro che vi sono capitati.
(Le Corbusier; 1924. Cit. in Lima; 2010 )
Se l’uomo di Wright è radicato a terra e deve poter godere della
natura attraverso spazi che possano integrarlo e renderlo
direttamente partecipe nei confronti della stessa, quello di Le
Corbusier è invece un uomo che si solleva da essa e la
contempla:
la
stessa
riflessione
dell’architettura
sull’inadeguatezza delle condizioni igieniche che segnano
tristemente l’habitat e la sua genetica propensione a cogliere
l’innata positività delle risorse e delle potenzialità offerte dal
mondo naturale pensato come wilderness generano cioè, nello
stesso tempo, soluzioni architettoniche profondamente differenti.
Aprendo una prospettiva di accordi provvisori, contrasti e
contraddizioni destinata a rimanere costante lungo tutti gli
sviluppi della storia del rapporto fra natura e architettura.
E infatti, in pochi anni, la situazione diventa molto più complessa.
Se, fino a quel momento, il malessere del secondo dopo guerra
aveva ridimensionato coscienze e responsabilità trasformando in
sfida comune la necessità di soddisfare i bisogni primari della
gente, è il rapido boom economico degli anni successivi ad aprire
nuove questioni fra cui quella - centrale per il dibattito sulla
sostenibilità - della promozione di un progetto che inizia ad
essere indicato come ecologicamente consapevole.
La progressiva definizione, fra gli anni sessanta e gli anni
settanta, del movimento ambientalista e delle filosofie ambientali
fa cioè sì che il rinnovamento del rapporto uomo-natura divenga
un’esigenza fondamentale non solo per ricondurre l’uomo alla
natura - e soddisfare in questo modo le sue esigenze - ma anche
per preservare e conservare la natura stessa.
Gli esordi dell’etica ambientale. Visioni architettoniche come
soluzioni.
Sebbene l’ambientalismo di massa - inteso come ideologia e
insieme delle iniziative politiche finalizzate alla tutela e al
miglioramento dell’ambiente - non si manifesti prima degli anni
sessanta del Novecento, molti testi sulla cultura ambientale (La
Vergata, Ferrari; 2008. Mortari; 1998) sostengono che, in
qualche misura, la visione sistemica della natura propria
dell’ecologismo sia stata anticipata da alcune figure di precursori
identificati come antesignani della filosofia ambientale
contemporanea. E fra queste vi è certamente la figura chiave di
Aldo Leopold.
Autore del famoso testo Almanacco di un mondo semplice, lo
scrittore e scienziato americano infatti non continua solo a
raffrontarsi con l’idea di wilderness secondo il percorso iniziato
da uomini come Thoureau e White, ma, introno alla metà degli
anni trenta, inizia a confrontarsi con l’ecologia che, nel mondo
accademico e politico americano vede la sua fioritura proprio in
quel periodo: quello segnato dal Dust Bowl (Armandi; 2006). Un
confronto fondamentale grazie al quale Leopold, all’intensa
convinzione che difendere la natura selvaggia sia necessario
perché essa ha un grande valore per lo sviluppo di una
sensibilità ricca e armoniosa come anche per l’avanzamento
della conoscenza scientifica, affiancherà progressivamente la
consapevolezza - assolutamente centrale per il tema della
sostenibilità - che uomo e natura, natura e cultura non possano
più essere pensate come parti separate (Leopold; 1948).
Anticipando un punto di svolta essenziale nella storia del
rapporto.
Pensando all’ecologia né come ad una scienza astratta coltivata al riparo dai problemi politici e sociali concreti - né come
una scienza sovversiva - che fa diventare la difesa della natura
un attacco indiscriminato contro il mondo moderno - ma come un
sapere elaborato in vista di un buon management ambientale,
Leopold ne coglie infatti il paradigma della comunità biotica
elaborato da Charles Elton per sostenere la necessità di pensare
insieme storia naturale e storia sociale (Armandi; 2006).
L’immagine della comunità come strumento euristico porta cioè il
filosofo a un’inedita definizione del rapporto uomo-natura, per la
prima volta caratterizzata da una continuità anziché da una
rottura e da una declinazione plurale dei termini. Una definizione
destinata a sollevare temi e questioni fino a questo momento
certamente estranei sia al mondo dell’architettura che al
panorama culturale internazionale.
Il problema da cui nasce l’etica ambientale di Leopold non è
infatti quello del valore intrinseco - come sarà poi in molte delle
etiche ecocentriche che a lui si sono riferite e com’era stato per
secoli nella definizione del rapporto fra architettura e natura - ma
quello dell’uso, o meglio, degli usi della Terra; della definizione
cioè non di un equilibrio stabile - che vede l’uomo come
perturbatore di ordini naturali stabili dotati di regole di
funzionamento ottimale - ma di equilibri dinamici. Di equilibri
dettati dalla consapevolezza del valore della diversità - sia nella
sua dimensione biologica che nella sua dimensione culturale - e
inevitabilmente legati alla necessità di guardare al mondo come
casa comune e di imparare a pensare come una montagna
(Leopold; 1948), lontano e a lungo termine. Secondo una
prospettiva che mette appunto in evidenza un’esigenza comune:
quella di superare l’idea di riconciliazione fra uomo e natura a
favore della preservazione della stessa e della rinnovabilità delle
risorse.
Ed è in questa direzione che anche l’architettura sembra
muoversi. Se infatti lo scrittore americano elabora il principio
dell’etica della terra fra la metà degli anni tenta e la fine degli
anni quaranta, è a partire da quest’ultimo decennio che in ambito
architettonico si apre la fase pionieristica dell’energia solare: nel
1947 viene pubblicato il primo edificio con copertura in collettori
solari, otto anni più tardi si svolge il primo congresso mondiale
sulla materia (Lima; 2010) e architetti come Richard Neutra
iniziano a parlare di ecologia (Ingersoll, 2009). Ma le ricadute del
dibattito sono tutt’altro che lineari e gli effetti delle discussioni sul
tema restano assolutamente trascurabili almeno fino a qualche
anno più tardi, quando l’ecologia entra prepotentemente a far
parte dell’arena politica. A’
Nonostante le importanti basi teoriche definite da Leopold già nei
decenni precedenti, è negli anni sessanta che il movimento
ambientalista compie i suoi primi passi dando realmente voce al
tema. Nel 1962, con la pubblicazione di Silent Spring, Rachel
Carson avverte gli americani che stavano avvelenando la
biosfera con i pesticidi a base di DDT, mentre gruppi come il
Sierra Club in California cominciano ad esercitare pressioni
politiche in favore della protezione dell’ambiente.
Piazze
europee e americane vengono popolate dalle proteste contro i
test nucleari e - sebbene caratterizzati da discontinuità e
contraddizioni - iniziano a definirsi con più chiarezza i tratti
dell’etica ambientale.
In particolare - all’interno di una materia caotica e tuttora in piena
espansione - si iniziano a distinguere due punti di vista
dicotomici: il primo sostenuto da chi difende la necessità e
l’urgenza di una nuova etica ecologica fondata sulla negazione
del dominio umano sulla natura, sulla nozione di equilibrio della
stessa e sull’idea di interdipendenza degli esseri; il secondo da
coloro che affermano la sufficienza di un allargamento dell’etica
tradizionale capace di includere empaticamente nuovi soggetti e
nuove questioni. Sinteticamente, rivoluzionari da una parte e
riformisti dall’altra (Bartolommei; 1989).
E se questa distinzione può facilmente essere riconosciuta
nell’ambito delle filosofie ambientali ponendo a confronto le
posizioni dell’ecologia profonda elaborate dal filosofo norvegese
Arne Naess (Naess; 1972) con le posizioni dell’ambientalismo
filosofico riformista sviluppate da John Passamore (Passamore;
1974), essa - sotto diverse forme - può essere rintracciata, dagli
anni sessanta ad oggi, anche all’interno del dibattito
architettonico. A cominciare appunto dai primi pionieri che
affrontano in modo organico e complesso il tema della
preservazione delle risorse e, più in generale, della terra.
Negli stessi anni in cui Paolo Soleri inizia ad occuparsi della
realizzazione di Arcosanti in Arizona, in Colorado, per esempio,
viene realizzata secondo le idee di Buckminster Fuller Drop
City, evidenziando la diversità delle posizioni teoriche - e delle
conseguenti applicazioni spaziali - generate dall’intersezione fra
una medesima questione culturale e differenti definizioni dell’idea
di natura. L’architetto italiano e quello americano vengono infatti
stimolati da uno stesso input - e cioè la presa di coscienza della
necessità di ridurre al minimo l’uso di energia e materiali per
preservare la fragilità del pianeta - ma la loro differente
personalità e i differenti contesti fisici e culturali nei quali si
inseriscono, li fanno giungere a soluzioni profondamente diverse.
Nonostante il suo legame con i circoli trascendentalisti di
Emerson e Thoureau (Foster, Fernandes-Galiano; 2010), Fuller è
un ingegnere e matematico così ben inserito nel suo tempo da
risultare contemporaneamente alleato con gli ideali del mondo
industriale e eroe per i giovani membri della contro-cultura
americana. Seppure nella sua radicalità, la proposta che egli
avanza resta unita ad uno dei più robusti traslati della modernità
e cioè all’idea che la congiunzione di architettura, tecnologia e
produzione di massa abbia il potere di risocializzare il progetto,
dirigendone l’efficienza scientifica e risolvendo così i problemi
della scarsità. L’efficienza a cui Fuller si riferisce è così
un’efficienza quantitativa - fatta di costi, peso dei materiali,
percentuali di performance per unità di peso investita, giorni
necessari per la costruzione - che può essere pensata in termini
di performance e che deriva da un’idea di natura in larga parte
riconducibile a quella di energia e dei principi generali che la
riguardano. Un’idea che nei decenni successivi porterà alla
determinazione di quella corrente che la Green Architecture
Guide definisce come high performance green.
Apparentemente più vicina al biocentrismo radicale, la posizione
di Soleri si fonda invece su un esplicito ancoraggio alla sacralità
della vita che porta il progettista a mettere in moto una vera e
propria revisione del razionalismo architettonico e ad una
profonda critica verso l’evoluzione industriale della scienza su cui
Fuller fa affidamento.
Isolato in un ambiente protetto e praticamente privo di
interferenze con il mondo esterno, l’asceta italiano ricava
dall’osmosi con l’ecologia non solo la volontà e la determinazione
nel limitare l’uso della Terra, ma la fiducia in un rapporto inedito
fra artificio e natura capace, a suo avviso, di ricostruire in
funzione del rispetto reciproco, un patto evolutivo fra le due parti.
Nel 1960, descrivendo la propria Città del Mesa egli afferma:
L’uomo e la natura [sono] uguali nella concezione e
nella creazione.
(Soleri; 2003 )
Rispetto, armonia, riverenza e coerenza sono le parole che più
frequentemente ricorrono nei suoi scritti, come contraltare emotivo e non più denotativo - all’equilibrio e alla riconciliazione
invocati dall’architetto americano. In entrambi i casi, la visione
dell’ambiente non è più quella di un bacino di risorse da predare
e sfruttare, ma se per Fuller la natura ci rivela lo stato dell’arte
nel progetto e nella tecnologia, per Soleri essa è costituita da un
insieme di elementi - che l’autore chiama potenziali cosmici - con
cui instaurare, attraverso un nuovo patto evolutivo, quei flussi
creativi e quelle reazioni benefiche capaci di rinnovare i legami
necessari a definire la magia cellulare: quel processo per cui ogni
nuovo elemento viene spontaneamente realizzato in perfetta
relazione con gli elementi circostanti.
Per l’architetto italiano, la scarsità delle risorse fa cioè sì che
spazio, aria, sole, luce, vento, terra e atmosfera vengano viste in un’accezione certamente più ampia di quella attribuita loro fino
a pochi anni prima - come energia cosmica da incanalare
opportunamente negli habitat a favore della qualità ambientale,
contro inquinamento e sprechi, ma anche di quella spirituale. Ai
meccanismi razionali e quantitativi di Fuller concretizzati nelle
cupole geodetiche e nelle case prefabbricate, egli oppone
Arcosanti, un «organismo estetico con la compassione quale suo
contenuto» (Soleri; 2003), vera e propria «macchina di
spiritualizzazione» (Lima; 2001) governata dalle leggi fisiche di
complessità e miniaturizzazione.
Come Fuller, anche Soleri affronta come problema cardine quello
della produzione di energia e della conservazione delle risorse,
ma per lui l’architettura diventa un fenomeno di ecologia umana
trasformando le città in organismi che riflettono nella loro
complessità strutturale la complessità della vita che contengono
e includono. Ragione per la quale negli organismi progettati
dall’architetto italiano, gli elementi infrastrutturali atti a risolvere
questi problemi non sono soltanto strumenti, ma si configurano
anche come autentici elementi abitativi e spettacolari all’interno
della continua ricerca di quell’integrazione fra fisico e metafisico
richiesta dalla diretta consequenzialità fra squallore ambientale e
squallore spirituale che l’asceta riconosce nelle città
contemporanee.
Tuttavia, al di là della lontananza delle teorie costruite dai due
architetti, nelle loro posizioni è possibile rintracciare alcuni punti
di convergenza comuni, importanti da sottolineare per gli sviluppi
dell’idea di natura nei decenni successivi. Se infatti i due pionieri
divergono completamente nelle loro ipotesi di partenza apparentemente fisiocentrica e caratterizzata da una spiritualità
laica quella di Soleri, dichiaratamente antropocentrica e
scientifica quella di Fuller - le definizioni di natura alle quali essi
giungono sembrano in realtà compiere uno spostamento verso
una direzione comune.
Il percorso di entrambi, infatti, non tende a concludersi nel solo
rispetto dell’ambiente come natura esterna da ammirare - o
contemplare come si augurava Le Corbusier - per soddisfazione
dell’animo o per raptus imitativi, ma si evolve verso l’idea più
complessa del rispetto dell’ambiente naturale come generatore di
vita. A partire già dagli anni sessanta, nella costruzione di nuovi
spazi alternativi alla città contemporanea
il confronto
dell’architettura con l’ecologia e il crescente movimento
ambientalista porta a pensare alla natura come fonte di
ispirazione non solo nelle sue forme, ma anche nei suoi processi
e nei suoi metodi.
Organiche, contraddittorie, additive e plurali le arcologie di Soleri;
minimali, sottrattive e standardizzate le domes di Fuller;
entrambe nascono dalla volontà di riconciliarsi con la natura
attraverso una forma di rifugio nei suoi mezzi, imparando dai
principi generali che sembrano essere operativi nell’universo.
Declinati secondo la storia in Soleri, tradotti in soluzioni
tecnologiche in Fuller, questi devono comunque insegnare
all’uomo ad intercettare e reindirizzare l’energia locale
riorganizzandone e deviandone i flussi in modo tale che essi
generino «the city in the image of the man» per Soleri, «il
massimo beneficio umano» per Fuller con il minimo uso di
energia e materiali.
In questa fase, l’emergere della fragilità e dei limiti del pianeta
[Link Introduzione] fanno cioè sì che l’idea di natura venga in
ogni caso prevalentemente ricondotta a quella di energia da
incanalare per il soddisfacimento delle più profonde esigenze
umane e il riferimento alla natura come wilderness viene
affiancato e in parte sostituito dal riferimento a fenomeni naturali
di generazione di energia, quali le maree degli oceani, il vento, il
potere del sole e la produzione vegetale di alcol. In architettura,
ma anche in ambito istituzionale.
Se infatti durante gli anni sessanta sono soprattutto dei pionieri
ad occuparsi della questione della scarsità delle risorse, nel
decennio successivo la crisi energetica internazionale provocata
dalla Guerra dello Yom Kippur e il riconoscimento del problema
anche da parte di alcuni esponenti della comunità scientifica
(Meadows; 1972) conducono il tema alla ribalta. All’inizio degli
anni settanta il governatore della California - Jerry Brown incarica l’architetto di stato Sim Van der Ryn - considerato un
pioniere dell’architettura sostenibile per i suoi tentativi di definire
ambienti sensibili al clima e al luogo - di sviluppare il primo
programma governativo per la costruzione di uffici efficienti dal
punto di vista energetico e di condurre alla definizione di
standard energetici da applicare a tutti gli uffici della California.
Segnando un punto di svolta importante per il tema del
riscaldamento passivo, ma, più in generale, anche per la
crescente consapevolezza della responsabilità dell’uomo - e
dell’architettura - rispetto alla crisi ambientale. Una
consapevolezza destinata ad accentuarsi. Nel 1977, in
particolare, Architecture and Energy - uno studio di Richard Stein
finanziato dall’American Institute of Architecture - dimostra che è
il modo in cui sono costruiti gli edifici a causare il maggior spreco
di energia, trasformando l’uso cosciente e responsabile della
natura - delle sue risorse fisiche ed energetiche - in un vero e
proprio imperativo etico che, laddove la discussione si spinge
oltre i meri cambiamenti tecnologici, produce non solo soluzioni
ingegneristiche ma anche spazi contratti e sofisticati.
Basti pensare alle arcologie di Soleri come alle domes di Fuller,
al di là della differenza dei linguaggi, esse sono entrambe
costituite da spazi densi, compatti e spazialmente limitati
destinati ad ottimizzare la loro partecipazione attraverso la
progressiva cancellazione e minimizzazione, mediante il
consumo di se stesse mandato della complessità. Spazi che
contraendosi non producono certo un’estetica univoca, ma
processi morfologici accomunati dal tentativo di provare ad
indicare nelle loro stesse forme un valore energetico limitato.
Non solo. Le differenti posizioni emerse in questi decenni
sembrano trovare un ulteriore punto in comune nel raccogliere almeno teoricamente - l’invito fatto da Leopold di pensare a lunga
distanza e ad una scala più larga e comprensiva, mentre su
entrambi i fronti il superamento della concezione di uomo e
natura come elementi separati auspicato dallo scrittore
americano sembra ancora lontano, anche se uomo e natura
iniziano ad essere posti sullo stesso piano.
Per Fuller come per Soleri, l’uomo non è più dominatore della
natura, perché ora sa di esserne parte integrante, di essere
immerso in un divenire evolutivo che esige la messa a punto di
un ruolo responsabile e di un nuovo habitus mentale. Tuttavia, è
proprio la sua peculiarità di essere intelligente, dotato di mente
oltre che di cervello, a dargli una funzione fondamentale
nell’universo, quella di più grande e di più potente creatore o
trasformatore di ecologia.
In modo più o meno dichiarato, negli anni settanta, l’intento resta
sicuramente più quello di riformare l’ambiente che non quello di
rifondare l’uomo. Egli resta un plasmatore il cui compito è quello
di trasfigurare la natura in quella che Soleri chiama neo-natura,
un substrato fisico-minerale - nettamente distinto da quello
naturale - che sia in grado, dal momento che la natura non lo è,
di rendergli servizi specifici ed esclusivamente umani.
Il mimetismo imitativo di Wright viene quindi parzialmente
abbandonato a favore della riflessione nietzschiana sulla
capacità dell’uomo di affrancarsi da ciò che è fittizio, proponendo
con linguaggi distanti e plurali alternative radicali all’ecosistema
naturale. La cooperazione con la natura non conduce cioè solo
più ad un’armonizzazione con il paesaggio o a forme organiche,
ma, al contrario, l’intervento della mente viene interpretato come
un filtro trasformatore che intellettualizzando i processi tratti dal
mondo organico, astraendoli, li cambia.
Siamo tutti interpreti della realtà - afferma Soleri - non
sappiamo cosa siamo ma interpretiamo e diveniamo.
Questo sembra suggerire che abbiamo un filtro e
perciò filtriamo tutto quello di cui abbiamo percezione,
questo filtraggio in un certo senso trasforma il prodotto
da naturale o organico in termini di biologia, in
qualcosa di molto più astratto, molto più connesso con
come il cervello funziona e come raccoglie e risponde
a degli stimoli che esistono ma di cui non sappiamo il
significato. L’organico diventa intellettualizzato.
(Soleri. Cit.in Lima; 2000)
L’architettura diventa inorganica per necessità. Forma fisica
dell’ecologia dell’umano, essa comprende ed emula la natura
solo ai fini della trascendenza. La natura resta al di fuori,
immensa, disponibile, ma è anche, nella veste della sua stessa
metafora, miniaturizzata e costruita all’interno dell’architettura
che, per Fuller come per Soleri, rappresenta non un obiettivo ma
una soluzione ai problemi del pianeta. Sebbene da fronti diversi,
entrambi gli architetti, infatti, rispondono ai problemi della società
autodefinendo le loro architetture come vere e proprie visioni
alternative alle dispendiose città capitaliste e al dilagare
incontrollato della megalopoli. Visioni sulle quali fondare una
nuova società, un nuovo ordine socio-comportamentale e una
pacifica rivoluzione sociale.
Il superamento della crisi energetica. Trascrizioni verdi.
Nonostante Soleri e Fuller vengano oggi riconosciuti come
importanti pionieri della cosiddetta architettura sostenibile, le
ricadute delle loro costruzioni teoriche sui decenni
immediatamente successivi alla loro formulazione non sono
affatto così immediate. La loro volontà di proporre visioni
architettoniche alternative con le quali contrastare le città
disegnate dal consumo materialista li pone infatti spesso nella
posizione di figure utopiche incapaci di confrontarsi con il
contesto reale. Se infatti le loro visioni di comunità isolate fondate
su una consapevolezza condivisa hanno una forte attrattiva in
campo teorico, questa si frantuma nello scontro con le realtà
materiali e con la complessità della vita collettiva. Così, mentre la
visione di Soleri - appositamente lontana dal mondo reale continua tutt’oggi a svilupparsi nel deserto dell’Arizona, già
intorno alla metà degli anni settanta tutte le comuni costituite nel
decennio precedente ispirandosi al pensiero di Fuller
scompaiono: per i giovani degli ultimi anni sessanta la visione
dell’architetto americano ha rappresentato una fuga dal bisogno
di lottare per la distribuzione delle risorse e l’adatta
organizzazione della vita, di aderire alle istituzioni e di
confrontarsi con altri individui ma negli anni seguenti il loro
fallimento ha dimostrato come le tecnologie, l’architettura e il
progetto - senza un adeguato sostegno politico - non possano
certo sostenere la comunità.
Inoltre, se la crisi energetica causata dall’embargo petrolifero dei
paesi arabi ha portato all’emergere di una nuova sfaccettatura
dell’idea di natura, è proprio l’attenuarsi della stessa a causare
un ulteriore spostamento semantico del termine. Mentre figure
come Soleri continuano la loro ricerca visionaria verso
un’architettura
sostenibile,
riacquisiti
i
sufficienti
approvvigionamenti di petrolio dai paesi del Medio Oriente, per la
maggior parte degli architetti la natura vede nuovamente
diminuire drasticamente il suo valore accentuando e aumentando
ulteriormente le contraddizioni e le coesistenze interne non solo
all’ambito architettonico, ma anche a quello istituzionale.
Proprio negli anni ottanta, infatti, quegli stessi governi che
continuavano a servirsi senza remore di un’economia capitalista
priva di regole e di attenzioni verso la natura cominciano a
promuovere iniziative di protezione verso la stessa decisamente
rilevanti: nel 1982 l’ONU approva la Carta Mondiale della Natura
e cinque anni più tardi la Commissione Mondiale su Ambiente e
Sviluppo porta alla pubblicazione del Rapporto Brundtland. E se
il primo documento non fa che affermare a livello istituzionale e
internazionale la necessità di mutare il rapporto uomo-natura
sulla base, ancora una volta, del valore intrinseco che viene
attribuito a quest’ultima, il secondo non rappresenta solo il primo
documento internazionale in cui viene introdotto il concetto di
sviluppo sostenibile, ma anche - mediante la definizione dello
stesso - il primo in cui i termini del rapporto cambiano. Esso
infatti non parla della natura in quanto tale, ma si riferisce
all’ambiente in stretta connessione al benessere delle persone e,
quindi, anche alla qualità ambientale e, nel tentativo di conciliare
ambiente e sviluppo, interessi della natura e interessi umani,
afferma che questi non sono realtà separate, ma, al contrario,
strettamente connesse. La tesi è chiara e il superamento delle
definizioni precedenti è evidente:
Ambiente e sviluppo non sono realtà separate, ma al
contrario presentano una stretta connessione. Lo
sviluppo non può infatti sussistere se le risorse
ambientali sono in via di deterioramento, così come
l’ambiente non può essere protetto se la crescita non
considera l’importanza anche economica del fattore
ambientale. Si tratta, in breve, di problemi
reciprocamente legati in un complesso sistema di
causa ed effetto, che non possono essere affrontati
separatamente, da singole istituzioni e con politiche
frammentarie.
(Rapporto Brundtland; 1987)
Natura e artificio non vengono più intese come due entità
separate - anche se interagenti e complementari - ma come
elementi interdipendenti, afferenti a un medesimo paradigma
concettuale e quindi fungibili l’una con l’altra. Con nuove e
diverse ricadute progettuali.
Se infatti fra i sostenitori della cosiddetta architettura sostenibile
la ricerca di rispetto, cooperazione o riconciliazione con la natura
dei decenni precedenti inizia ad essere affiancata da una ricerca
di interdipendenza e di fusione con essa, questa viene, ancora
una volta, interpretata secondo modalità e posizioni
assolutamente differenti.
Alcuni anticipatori come Sim Van der Ryn iniziano a declinare
l’idea di fusione fra uomo e natura nello sforzo - poi sviluppato
nei decenni successivi - di definire nuovi modi di vita e le loro
strutture corrispondenti, ma, nella maggior parte dei casi, l’idea
viene letteralmente tradotta nel tentativo di unire i due termini
mediante mezzi estetici. Con l’energia nuovamente economica,
le persone sentono infatti meno il bisogno di conservare e
l’architettura non si rivolge più tanto verso risposte tecniche, ma
anche, se non prevalentemente, verso risposte formali. Sia fra gli
esponenti dell’high performance green, che fra quelli del
cosiddetto natural green (Brennen; 2009).
Nei primi, in particolare, l’idea di fusione viene trascritta in ambito
architettonico dando letteralmente vita alla massa muraria, che
acquisendo intelligenza e diventando una membrana permeabile,
si autodefinisce come un dispositivo interattivo in grado di
dialogare all’interno con gli abitanti e all’esterno con la natura.
Basti pensare, intorno alla metà degli anni ottanta, a realizzazioni
come l’Insitut du Monde Arabe di Jean Nouvel o la Torre dei
Venti di Toyo Ito destinate a diventare riferimenti sui quali
orientare una produzione in cui i confini fra animato e inanimato,
materia ed energia, organico e inorganico diventano labili.
Per i secondi, invece, lo stimolo indotto da un’idea di natura che
almeno in parte si riavvicina al concetto di wilderness porta a
rendere gli elementi dell’ambiente naturale una parte
dell’architettura - proprio come la muratura, l’acciaio, il
calcestruzzo e il vetro - riducendo sostanzialmente la stessa ad
un unico colore: il verde.
Dando nuovamente per scontate le qualità estetiche e spirituali
intrinseche nel mondo naturale, architetti come Emilio Ambasz la cui originalità e stravaganza progettuale non possono
certamente essere soggette a seppur labili classificazioni iniziano a costruire situazioni ipernaturali autodefinendo la
propria architettura come un risarcimento ambientale,
compensazione proposta al cittadino per un mondo sempre più
frenetico, inquietante e innaturale. Rifiutandosi cioè di
assecondare e rappresentare il mondo nel suo evolversi, nel suo
accelerarsi e nel suo smaterializzarsi, Ambasz prova ad opporsi
a tali frenesie mediante la definizione di una stabilità che, come
realtà o anche solo come immagine surreale, funga da
confortante controcampo. Attraverso la definizione di una nuova
visione nella quale l’architettura non viene più ottimisticamente
proposta come soluzione, come per Fuller o per Soleri, ma come
semplice e temporanea compensazione.
In questo senso, mediante l’immagine di un’architettura
ossequiosa del paesaggio e non più contrapposta ad esso,
immagini di tecnologia e primitivismo vengono sovrapposte,
natura e architettura vengono fuse e all’accelerazione della realtà
viene opposta, come potenziale approccio globale, una profonda
ricerca di stabilità che trova rappresentazione nella coesistenza
armonica anche dal punto di vista formale fra natura e artificio.
Gli edifici continuano ad essere pensati come natura fatta
dall’uomo ma la vegetazione e il terreno vengono integrati al loro
interno. Tetti verdi, terrapieni, graticci, alberi collocati sui balconi,
rampe erbose, giardini pensili e vasche d’acqua si
sovrappongono alle costruzioni con la volontà di riconsegnare
alle città tutto lo spazio naturale che sarebbe stato sottratto loro
da progetti tradizionali.
Gli strumenti propri dell’high performance green vengono
occultati da materiali naturali e le tecnologie diventano uno
strumento non da ostentare ma con le quali suggerire le
presenze architettoniche. E coprire, rivestire, restituire diventano
le parole chiave di molte costruzioni retoriche.
Non solo.
Mentre architetti come Wright tendevano a descrivere gli alberi e
il resto della vegetazione come un accento compositivo
all’interno o intorno ai loro edifici e l’habitat come estensione del
terreno adiacente, il nuovo accento formale stimolato dalla fine
della crisi energetica porta a riconoscere nella natura non solo
qualità formali e spirituali intrinseche, ma anche un’esperienza
rituale.
Nei progetti più significativi degli anni ottanta, topografia e
vegetazione si trasformano in una sorta di microcosmo narrativo
di un’immaginaria utopia e la struttura architettonica viene
nascosta, ridotta a geometrie minime che funzionano come
inquadrature per il paesaggio. Opponendo all’ottimismo del
decennio precedente, una malinconia che, se non ben
controllata, rischia di trasformarsi in una venatura nostalgica
paralizzante che, come avvenuto per molte voci del dibattito
ambientale (Assennato; 2010), potrebbe ricondurre la natura ad
un mero sfondo di contemplazione. A qualcosa da ammirare
anziché da modificare, con risultati, in campo architettonico,
senza dubbio discutibili.
Se infatti durante gli anni
ttanta le riflessioni più profonde sulla nuova interiorizzazione del
paesaggio e del rapporto tra uomo e natura hanno condotto ad
una concezione rinnovata ed arricchita dello spazio come spazio
sistema - passando dall’idea di spazio chiuso, circoscritto e
limitato ad un’idea di spazio interno-esterno e di spazio pubblico
come elemento altrettanto importante dell’architettura soprattutto negli ultimi decenni, quelle più superficiali che si sono
collocate lungo questa via interpretativa hanno prodotto
performance artistiche o formali, immagini di un falso idillio preindustriale esente da ogni cambiamento.
Accanto ad una pratica architettonica sincera e positiva,
molteplici opere di camouflage naturalistico hanno cioè
caratterizzato il naturale come una mera arma in più a servizio
dell’edilizia, alla quale sembra che oggi niente sia più negato se
occultato, ingentilito o scambiato per un intorno verde. Il cemento
si è coperto di verde; l’architettura ha indossato un mantello
vegetale e si è trasformata in collina; gli edifici si sono sottoposti
ad una cosmesi o si sono smaterializzati per affrontare luoghi
urbani irrisolti o per sopperire ad un’afasia linguistica (Repishti;
2008).
Proprio come il funzionalismo tanto combattuto, le
contaminazioni verdolatriche in molti casi sono diventate
qualcosa che si esegue coscienziosamente senza conferire loro
alcun altro valore estetico e culturale. In molti casi, esse vengono
ridotte ad elementi applicati più per simboleggiare
l’aggiornamento progettuale che non un rapporto logico con la
tecnica, la forma, lo spazio e il contesto generando un’irrituale
naturalizzazione che ha assecondato il rifiuto collettivo di un
mondo costruito da manufatti con la speranza di eludere la
classica barriera natura-artificio e di allontanare l’angoscia per il
futuro, colmando lo scarto apertosi tra il fallimento del modello di
sviluppo capitalistico e la presa di coscienza delle responsabilità
collettive e individuali.
Una speranza che tuttavia non può certo essere risolta da un
atteggiamento che è esso stesso frutto di un fenomeno di
geografia economica, del “business as usual”, ma solo da una
nuova visione della natura finalmente basata su principi ecocentrici anziché ego-centrici.
Consapevoli di questo, negli stessi anni ottanta, architetti come
James
Wines,
profondamente
influenzati
dai
saggi
sull’ambientalismo di scrittori come Rachel Carson e Arne Naess
(Angrisano;
1999),
provano
ad
opporsi
all’irrituale
naturalizzazione in atto approfondendo l’idea già anticipata da
Fuller della natura come portatrice di informazioni, arricchendola
però di un’importante valenza formale. Secondo un’ulteriore
posizione e sfaccettatura, essa inizia cioè ad essere pensata non
solo come insieme di elementi verdi, spesso considerati privi di
valore estetico e culturale, ma al contrario come unica fonte di
simbolismo totalmente universale, rigenerativa di contenuto,
capace di eliminare le ridondanze e di rivelare costantemente
nuove informazioni da porre alla base di un nuovo linguaggio, ma
soprattutto di una nuova consapevolezza. Definendo una
prospettiva differente nella quale l’architettura non si definisce
come compensazione o come strumento di elusione estetica
della barriera fra natura e artificio, ma come portatrice dei più
importanti messaggi del suo tempo. Architetture sensibili e
integrate nel loro contesto diventano fortemente iconografiche
per trasformarsi in veri e propri simboli del movimento
ambientalista progettati proprio con l’intento di provocare un
cambiamento nella consapevolezza della società.
Anticipando in parte le idee diffuse dalla pubblicazione del
Rapporto Brundtland e schierandosi contro la scelta
professionale di enfatizzare i vantaggi tecnologici e sottovalutare
gli aspetti sociali ed estetici, l’architetto americano fondatore dei
SITE propone cioè di usare il simbolismo legato alla natura come
mezzo per connettere l’architettura al suo contesto culturale e ad
un’immagine centrata sulla terra. L’obiettivo primario della
posizione rappresentata dai SITE è di superare le soluzioni
tecniche imposte dall’alto - e quindi incapaci di farsi comprendere
- attraverso una comunicazione diretta con la gente raggiungibile
mediante strutture sensibili ai cambiamenti ambientali, come a
quelli sociali; mediante un’architettura che traduca i preziosi
obiettivi del movimento ambientalista - il confronto con l’ecologia
e la preservazione delle risorse in primis - in un linguaggio
estetico capace di riconciliare l’uomo e la natura. Diversamente
da Fuller, per Wines e i suoi seguaci senza l’arte l’intera idea di
sostenibilità fallisce e gli edifici devono quindi sì farsi fortemente
iconografici ma sempre senza sacrificare la loro qualità artistica.
In questo senso gruppi come i SITE superano l’idea di Ambasz di
fusione fra interno ed esterno risolta mediante entità quasi
astratte, ma soprattutto i camouflage naturalistici, sottolineando
piuttosto l’importanza dell’integrazione della struttura e del
contesto come parti inseparabili dell’ambiente. In risposta alla
nascente età dell’informazione e dell’ecologia, essi propongono
edifici come sistemi integrati - termine ripreso anche da altri
architetti come Sim Van der Ryn - di informazioni non solo più
ecologiche, ma anche sociali, psicologiche, culturali, contestuali
capaci di instaurare una profonda relazione simbolica con
l’intorno. Relazione che diverrà centrale nei decenni successivi.
Nel frattempo, tuttavia, l’approccio prettamente estetico
sviluppato durante gli anni ottanta continuerà, almeno a livello
teorico, ad alimentare il dibattito fra le generazioni successive.
Anche quando, negli anni novanta, la pubblicazione di nuovi
rapporti sullo stato del pianeta (Meadows; 1992. Worldwatch
Institute; 1988) e lo svolgersi di nuove conferenze internazionali
sul tema mettono nuovamente in evidenza il declino della salute
dell’ambiente e quindi il pericolo di un’imminente crisi ecologica spostando nuovamente l’attenzione verso gli aspetti tecnici della
nostra disciplina - la questione formale continua ad essere
evidenziata come centrale da diversi protagonisti del dibattito.
Per studi come Foster & Associati e i Future System, negli ultimi
decenni la natura diventa un modello da trascrivere in
architettura su diversi livelli, a partire dai materiali per arrivare
alle performance degli edifici, conducendo sempre più all’idea già introdotta nel decennio precedente - di edifici dinamici: forme
vive e reattive capaci di adattarsi a differenti condizioni
ambientali. Gradualmente forme fisse e pesanti lascino così
spazio ad edifici leggeri e allungati, flessibili e in parte mobili.
Ma questa non è la sola direzione lungo cui continua a
trasformarsi
il
rapporto
uomo-natura.
Sempre
più
frequentemente, infatti, anche gli stessi architetti che si stavano
occupando della progettazione di ‘polmoni viventi’ dall’alto tasso
tecnologico iniziano ad attribuire all’ecologia un significato molto
più ampio di quello attribuitole fino a quel momento, allargando
notevolmente le questioni da considerarsi dentro il campo del
movimento.
Il ruolo sociale dell’ecologia. Declinazioni locali come soluzioni
quotidiane.
Se fra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta del
Novecento l’opinione pubblica e i grandi mezzi di comunicazione
nei paesi industrializzati avevano scoperto l’ecologia come
bandiera di un’ondata di contestazione nei confronti delle
alterazioni provocate all’ambiente naturale, nei decenni
successivi i significati attribuiti al termine si sono moltiplicati ed
ampliati trasformandolo in un simbolo, molto meno specifico e
molto più diffuso, di speranza nel cambiamento verso condizioni
di vita più in armonia con la natura.
La disciplina accuratamente definita dal biologo tedesco Ernst
Haeckel come l’insieme di conoscenze che riguardano
l’economia della natura e lo studio di tutte le complesse relazioni
degli organismi con l’ambiente circostante e tra di loro (Smith,
Smith; 2009) viene trasformata dagli ambientalisti in una
disciplina in grado di fornire una guida per le relazioni dell’uomo
con l’ambiente portando non solo alla definizione di molteplici
settori disciplinari quali l’ecologia della mente, l’economia
ecologica, l’ecologia umana, ma soprattutto alla scoperta del suo
ruolo sociale.
In questo senso, Felix Guttari nel suo testo Le tre ecologie
chiarisce bene il problema. Per l’autore la prima ecologia è
sociale - è importante che tutti possano esprimere e contribuire
alle decisioni che li coinvolgono -; la seconda è psicologica - si
tratta del rapporto di ciascuno con il mondo che lo circonda - e
solo in un terzo momento interviene la terza ecologia, quella
fisica: l’ingegneria verde.
Inizia cioè a definirsi una prospettiva secondo la quale l’ecologia
diventa scienza delle relazioni non solo rispetto ad elementi o
parti fisiche, ma anche rispetto agli attori e al loro rapporto con il
contesto, introiettando la società e la cultura all’interno della
definizione di ecosistema.
Mentre infatti Leopold nei suoi scritti faceva riferimento al
paradigma della comunità biotica di Charles Elton descrivendo
quest’ultima come ad un insieme di individui che condividono lo
stesso ambiente fisico e tecnologico formando un gruppo
riconoscibile (Armandi; 2006), ad affermarsi negli anni successivi
è certamente il paradigma ecosistemico odumiano. Paradigma
per il quale l’oggetto di studio non è solo più una singola
comunità ma un’intera porzione di biosfera e cioè l’insieme di
organismi animali e vegetali che interagiscono fra loro e con
l’ambiente che li circonda mediante cicli interconnessi e
indipendenti operativamente inseparabili. Con risvolti radicali sul
progetto.
Sotto questo punto di vita, declinare in ambito architettonico
l’importanza data all’interconnessione dall’ecologia significava
infatti considerare il verde e la natura come elementi in grado di
rappresentare un approccio sensibile non solo al clima e
all’inquinamento - come già avveniva nei decenni precedenti ma anche al tessuto culturale, attribuendo all’architettura definita
come sostenibile la capacità di accrescere appieno il significato
della vita.
Secondo una prospettiva nella quale, almeno in teoria, niente
separa le azioni ambientali da quelle culturali e l’ecologia da
nuovo ed effimero stile viene pensata come un’arte di vivere, una
logica, una politica, una morale. Anche per alcuni architetti che
negli anni settanta erano riconosciuti sostenitori del progetto
efficiente dal punto di vista energetico l’idea di conservare
energia e risorse e procurare un ambiente salutare in cui vivere
viene progressivamente affiancata dalla volontà di elaborare un
sistema modello per il supporto della vita. Un sistema che un
ampio numero di persone possa usare per preparare il futuro e
migliorare la vita quotidiana.
Sim Van der Rin, per esempio, in testi come Ecological design
(Cowan, Van der Rin; 1996) e Design for life (Van der Ryn; 2006)
sposta progressivamente la sua attenzione verso la definizione di
ambienti - dalla comunità alla specifica scala dell’edificio - che
siano sensibili al luogo e al clima, ma che rispondano anche ai
bisogni umani e siano di sostegno sia ai sistemi ecologici che alla
qualità della vita.
Quello che è necessario per l’architetto olandese, è un
cambiamento del punto di vista, uno spostamento della
consapevolezza che segni un punto di svolta nella crescita della
popolazione e nei livelli personali di consumo ancora una volta
possibile mediante un sistema di progettazione che imiti e si
integri con i processi naturali.
Se cioè i primi incontri con i temi affrontati dal’ecologia
enfatizzavano soprattutto l’aspetto fisico delle idee di sostenibilità
e di natura - il miglioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, la
riduzione dei consumi di energia, il ripristino e la conservazione
delle risorse naturali e la riduzione dei rifiuti - progressivamente
esse vengono viste come concetti multi-sfaccettati che
comprendono la dimensione sociale, politica, economica,
culturale e spirituale, tanto quanto quella ecologica.
E per una parte del dibattito architettonico il nocciolo del
problema si sposta. La protezione del verde, l’organizzazione del
traffico e l’utilizzo del sughero al posto della lana di roccia
diventano elementi complementari, necessari ma non sufficienti:
la possibilità di stabilire un nuovo equilibrio non sta più nelle
singole scelte, nei materiali o nella tecnologia, quanto piuttosto
nel recupero delle prospettive, dei significati, degli orizzonti. E
l’architettura inizia a autodefinirsi non solo come potatrice
iconografica dei più importanti messaggi lanciati dal movimento
ambientalista ma come strumento con cui integrare i flussi e le
strutture al fine di migliorare concretamente la qualità della vita.
In America, ma anche in Europa dove, probabilmente anche
grazie alla maggiore ricchezza del palinsesto storico delle città e
alle radici più profonde delle tradizioni rispetto al contesto
americano, alla fine degli anni ottanta inizia ad emergere un
nuovo concetto: quello di bioarchitettura intesa come
un’architettura mirata ad integrare le attività dell’uomo alle
preesistenze ambientali ed ai fenomeni naturali con l’obiettivo,
appunto, di realizzare un miglioramento della qualità della vita
attuale e futura.
Opponendosi al punto di vista espresso dall’high performance
green, architetti come Ugo Sasso, fondatore dell’Istituto
Nazionale di Bioarchitettura a Bolzano nel 1991, iniziano cioè a
sostenere la tesi che il cosiddetto progetto ecologico o
sostenibile non debba esaurirsi nell’edificio eco-sostenibile dal
punto di vista tecnologico, ma debba invece avere al centro
l’uomo, la qualità sociale del vivere della persona, la sua
appartenenza al luogo geografico e sociale e la salvaguardia del
suo mondo di relazioni stratificatosi attraverso il tempo nelle città
e nei paesi.
Per i rappresentanti della bioarchitettura così intesa, l’architettura
da portatrice di messaggi universali diventa sempre più declinata
a livello locale, complice del territorio e del carattere dei luoghi
verso i quali si estende la definizione di natura.
La crescente consapevolezza di dover salvaguardare l’ambiente
terrestre per consegnarlo alle generazioni future conduce cioè
verso differenti direzioni. Da un lato, grazie ad eventi
internazionali come la Conferenza di Rio o l’accordo di Kyoto,
quegli stessi governi che avevano stimolato il dibattito sul tema
dell’interdipendenza fra i programmi di sviluppo e le azioni di
protezione dell’ambiente assumono impegni precisi e circoscritti
per contrastare le cause dell’inquinamento, controllare il ciclo di
vita dei materiali e valutare il comportamento energetico degli
edifici e del processo edilizio spronando la ricerca e l’innovazione
tecnologica al fine di attuare processi produttivi che minimizzino
l’uso delle materie prime e stabilizzino le concentrazioni in
atmosfera dei gas serra. Dall’altro, alcuni professionisti del verde
iniziano a definire l’ambiente come quel contesto di relazioni che
rende possibile un fenomeno, spostando il rapporto dialettico
uomo-natura verso la contrapposizione - intuita e auspicata da
Leopold già negli anni quaranta - fra ciò che è naturale e ciò che
è culturale. Pensando alle diverse culture come a modi specifici e
peculiari di abitare la natura, questi affiancano il piano
ambientale a quello sociale e culturale e l’obiettivo primario
diventa la qualità della vita.
L’essenza della qualità ecologica spaziale, cioè, prima che
urbanistica ed architettonica diventa sociale, economica, politica.
Una qualità definibile più che nei singoli elementi, nel sistema di
relazioni che si instaurano nel tempo e nello spazio all’interno del
contesto; più che nell’immagine della sua architettura, nel
modello sociale che questa intende proiettare.
In questi anni, ritorno alla natura significa quindi ritorno al suo
significato, all’esperienza dell’alterità, alla riscoperta della sua
dimensione locale. Dimensione che, sebbene facesse parte dei
dibattiti architettonici ormai da diversi decenni, viene certamente
riportata alla ribalta dall’emergere degli studi ecologici e
dall’interpretazione propostone nei documenti internazionali e nei
diversi ambiti disciplinari.
Se infatti il rapporto della Commissione Brundtland sottolineava
l’indispensabilità della diversità delle specie per il normale
funzionamento degli ecosistemi e della biosfera nella sua totalità,
in campo architettonico il concetto di biodiversità viene declinato
in uno stimolo verso la riscoperta del locale e delle relazioni che
lo costituiscono e nell’idea - poi sviluppata nei decenni successivi
da architetti come Ken Yeang attivi in ambiti caratterizzati da un
forte radicamento delle tradizioni - che non esistano simboli
culturali ovvi e universali ma che la cultura venga definita più
ampiamente dai modi in cui le persone vivono, dalle loro abitudini
e dal loro stile di vita.
Se dobbiamo applicare il concetto di ecosistema al
progetto - afferma l’architetto malese nel suo testo
Designing with nature - allora il sito di progetto deve
fin dall’inizio essere concepito polisticamente dal
progettista come un’unità che consiste di componenti
biotici come abiotici - viventi e non viventi - che
funzionano insieme come un tutt’uno per formare un
ecosistema, e prima che qualsiasi azione umana
possa essere inflitta sul sito di progetto, le sue
caratteristiche e interazioni devono essere identificate
e completamente comprese.
(Yeang; 1995)
In questo senso, nelle architetture più significative sviluppate a
partire da questa posizione non vi è una mera applicazione di
elementi decorativi e formali del passato, ma una traduzione
delle tipologie tradizionali in soluzioni architettoniche
contemporanee, progettate appunto non come trascrizioni ma
come declinazioni culturali. Benefici spaziali e tecnologici
dell’architettura moderna sono allineati ad una comprensione del
clima locale e ad una consapevolezza dei modelli culturali mirati
a sintetizzare la modernità con l’eredità tradizionale.
Negli anni novanta, così come nei decenni precedenti, non
cambia dunque la posizione dell’uomo rispetto alla natura perché anche gli esponenti più rilevanti della bioarchitettura,
come già faceva Soleri, continuano a parlare di architetture fatte
e realizzate per l’uomo che dovrà abitarle - ma cambiano gli
obiettivi, il significato attribuito ad entrambi e, di conseguenza, la
definizione spaziale.
Considerando gli edifici, la città, il territorio come organismi,
l’architettura più interessante di questa fase rifiuta infatti di ridurre
la complessità alla sommatoria dei diversi componenti costruttivi:
così come un essere vivente è qualcosa di diverso e di più dei
suoi elementi, ogni singola stanza diventa un luogo che vive
attraverso le mutue relazioni. Anche lo spazio edificato diventa
nella sostanza qualcosa di diverso rispetto alla giustapposizione
razionale dei suoi pezzi e dimensione, superficie, forma non sono
più parametri sufficienti con i quali descriverlo.
Sono l’aria, i colori, i suoni, la vegetazione, la vibrazione della
luce ma anche i rapporti di simpatia e di adesione con l’intorno a
definirne la ricchezza antropologica. Perché secondo questo
punto di vista sviluppato a partire dal tema della biodiversità, la
qualità, sebbene la sottenda, non è più appiattibile sulla quantità,
né può scaturire come sommatoria o accostamento di elementi
pur qualitativamente rilevanti. Nasce invece sempre e solo come
relazione tra le parti: se le parti riescono ad esprimere elementi di
relazione, lo spazio si presenta comprensibile e quindi è possibile
attribuirgli significato. Secondo un passaggio importante per
l’attribuzione di valore.
Realizzazioni come il Centro Culturale Jean-Marie Tjibaou in
Nuova Caledonia diventano allora l’esempio delle potenzialità di
una lettura morfologica ed ecologica del territorio capace di
restituire ricchezza di contenuti e di forme nel paesaggio visto
come complesso tra elementi naturali e costruiti. In questo, come
in altri casi, è l’informazione - il raccolto più significativo delle
struttura ecologica - ad organizzare la forma mediante un
processo di astrazione e significazione della stessa.
Com’era già stato auspicato dalla singola personalità di Soleri
alcuni decenni prima, negli anni novanta,- in modo certamente
più esteso - al rispetto per l’ambiente viene progressivamente
affiancato quello della cultura del luogo, della sua geografia e del
suo clima. Un rispetto non più reverenziale e mistico, ma
propositivo, che spinge l’architettura oltre la mimetizzazione e il
camouflage arricchendo il compito della nostra disciplina.
Questa diversa definizione dell’idea di natura sembra infatti
richiedere all’architetto di cogliere l’occasione che, di volta in
volta, una particolare cultura, un particolare ambiente e una
particolare società gli offrono; di riconoscere e valorizzare
potenzialità che altri non vedono. Non camaleontismo ma una
professionale attitudine ad ascoltare, a cercare di capire per poi
interpretare e sintetizzare nel momento espressivo formale. Un
momento che, diversamente da quanto proposto dalle idilliache
soluzioni verdi, non esclude affatto un certo grado di tensione fra
costruito e natura, fra ‘found’ e ‘built’, fra locale e universale.
Secondo una visione che, come sottolineato per esempio da
Rogers nel 1996, sposta sempre di più l’enfasi dagli edifici al
progetto urbano e da scelte semplici, come l’energia o il
riscaldamento globale, a scelte complesse, come appunto
l’ecologia.
Tuttavia, se da un lato la convinzione che i limiti della
conoscenza della natura si ampliano nel momento stesso in cui
la osserviamo spinge gli esponenti più vicini alla cosiddetta
corrente del natural green ad allontanarsi sempre più
decisamente da una metodologia codificata e semplificata,
proprio negli stessi anni negli Stati Uniti e nel Regno Unito
vengono rispettivamente definiti due dei più riconosciuti sistemi di
valutazione dell’efficienza energetica e dell’impronta ecologica
degli edifici, il Leadership in Energy and Enviromental Design
(1994) e il BRE Enviromental Assesment Method (1990).
Accentuando, ancora una volta, le contraddizioni, le irregolarità e
le molteplici sfaccettature presenti nelle modalità con cui
l’architettura si è relazionata al tema del rapporto fra uomo e
natura.
Ma se ulteriori riflessioni su sistemi di classificazione e di
valutazione non potrebbero portarci molto distanti da dove già si
è arrivati, a nostro avviso, è da un approfondimento dell’idea di
natura come ecosistema che la disciplina architettonica potrebbe
trarre importanti spunti per suoi ulteriori sviluppi.
L’idea di auto-sostenibilità. Declinazioni rigenerative.
La costante riflessione sul rapporto uomo natura posta alla base
del dibattito sulla sostenibilità e stimolata dal confronto fra
architettura e ecologia ha quindi condotto negli ultimi decenni ad
un’ulteriore definizione dell’idea di natura come ecosistema. E se
i primi anni dell’introduzione e dell’interpretazione di questo
concetto in ambito architettonico hanno condotto soprattutto ad
una riflessione sul tema delle relazioni e dell’interdipendenza
delle sue parti, negli ultimi anni la riflessione si sta in parte
spingendo oltre.
Se realmente compresa, la definizione di ecosistema data da
Odum, ponendo l’accento sull’inseparabilità dei suoi componenti
e dei cicli ad essi correlati, non suggerisce infatti solo
l’importanza delle relazioni, ma anche la mancata autonomia di
ogni forma di vita e il fatto che, di conseguenza, la specie e gli
individui capaci di sopravvivere non siano necessariamente i più
forti, come nell’accezione darwinista, ma piuttosto quelli capaci di
favorire relazioni simbiotiche; i più funzionali cioè al sistema di
relazioni che va creandosi in uno specifico ecosistema. Con
importanti ricadute teoriche e progettuali.
La presa di coscienza di questo aspetto ha infatti condotto
architetti come Ken Yeang non solo a porre l’enfasi
sull’interdipendenza e sull’interconnessione fra le attività - sia
naturali che umane - ma anche sulla loro reciproca influenza.
Secondo una prospettiva nella quale, per la prima volta, la natura
non viene più considerata come un semplice contenitore che
sviluppa pressione selettiva sulla specie ma come una sorta di
organismo che scambia con gli esseri viventi. Questi evolvono
sotto la pressione ambientale, ma il loro metabolismo e
comportamento cambiano l’ambiente stesso mediante una
dinamica co-evolutiva per cui l’architettura non si pone più né
come soluzione o complice passiva, né come semplice elemento
di compensazione o strumento informativo, ma come complice
attiva, ripartiva e produttiva per la stessa.
L’obiettivo progettuale diventa quello di raggiungere una
relazione simbiotica tra il sistema creato dall’uomo e l’ecosistema
naturale e la declinazione del concetto di ecosistema nel progetto
non porta più ad una semplice trascrizione materica o materiale
dei suoi meccanismi e delle sue strutture ma ad una proposta
migliorativa per lo stesso.
A diventare centrale è l’idea di auto-sostenibilità, ancora una
volta derivata da due principi biologici: quello di auto-poiesi e
quello di autorganizzazione rispettivamente definiti da Humberto
Maturana e Francisco Varela (Maturana, Varela; 1980) e da
Stuart Kauffman (Kaufmann; 1993).
In particolare, il concetto di autopoiesi nasce dalla necessità di
dare una definizione di sistema vivente scollegata da specifiche
caratteristiche funzionali e basata sul sistema in quanto tale,
secondo una prospettiva sicuramente simile a quella richiesta
dagli sviluppi dell’idea di natura e di sostenibilità. E con questo
obiettivo, già negli anni settanta, i due biologi cileni avevano
proposto l’idea di sistemi autopoietici, ossia di sistemi capaci di
ridefinirsi continuamente, di sostenersi e di riprodursi al proprio
interno superando l’idea di un equilibrio naturale statico - spesso
adottato dalle retoriche architettoniche - a favore di quella di un
equilibrio dinamico che tuttavia non altera le proprietà del
sistema stesso.
Secondo un punto di vista certamente simile a quello che
qualche anno più tardi propose il biologo americano. Kauffman
ha infatti teorizzato che la complessità dei sistemi biologici e
degli organismi derivi dall’autorganizzazione in dinamiche distanti
dall’equilibrio e non solo dal meccanismo della selezione naturale
darwinista. Egli definisce l’autorganizzazione come la proprietà
manifestata da alcuni sistemi complessi, formati da molteplici
elementi interagenti tra di loro, di sviluppare strutture ordinate ed
organizzazione alla scala superiore. Questi sistemi, a suo avviso,
sono capaci di creare strutturazione facendo crescere la
complessità interna anche quando i singoli elementi del sistema
si muovono in modo autonomo ed in base a regole puramente
locali (Lima; 2010).
Con spunti assolutamente centrali per la nostra disciplina.
Il fuoco dell’attenzione speculativa è spostato ancora una volta
dai componenti alle relazioni che intervengono in un ecosistema
ma dalle relazioni interne dipende non solo più la sua plasticità e
la sua capacità di adattarsi ma soprattutto la sua capacità
nell’evolvere trovando nuove soluzioni agli elementi di criticità
che emergono nel tempo. Introducendo nuovi concetti che poco
per volta vengono acquisiti anche da alcuni esponenti dell’ambito
architettonico.
Nel 1999, occupandosi del grattacielo come un elemento della
città Ken Yang scrive:
L’enfasi è sull’interdipendenza e sull’interconnessione nella
biosfera e nel suo ecosistema. La caratteristica principale
del progetto ecologico è la connessione fra le attività, sia
materiali che umane; questa connessione consiste nel fatto
che nessun elemento della biosfera resta inalterato dalle
attività umane e che tutte le attività si influenzano a
vicenda.
(Yeang; 1999)
Accanto alle trascrizioni verdi e alle declinazioni locali inizia cioè
a diffondersi l’idea che tutti i sistemi costruiti debbano avere una
relazione attiva reciproca con il loro ambiente locale e con il resto
della biosfera (B&B, 1996). Una prospettiva che cambia i termini
del problema per cui, per esempio, la vera questione aperta
dall’urbanizzazione continua e dall’uso estensivo della terra
diventa la perdita della capacità degli ecosistemi di autoregolarsi,
di assimilare i prodotti umani e di evolversi generando nuova vita
e nuovo capitale.
Un problema al quale fino ad ora l’architettura non ha mai
risposto con un reale riorientamento del sistema di pensiero e
dell’approccio progettuale.
Se infatti la nostra disciplina ha sempre avuto a che fare con
l’ambiente circostante, con le condizioni fisiche e climatiche in cui
si inserisce e con la loro trasformazione, è solo con l’incontro con
queste teorie e con l’assunzione del loro punto di vista che essa
inizia a considerare la possibilità non solo di mutare, ma di
migliorare lo stato ambientale pre-esistente.
Riconosciuta la simbiosi fra i sistemi costruiti e quelli naturali,
l’architettura deve certamente continuare a minimizzare la sua
dipendenza dalle capacità elastiche dell’ambiente naturale ma
deve anche provare a ripararlo e restaurarlo. Motivo per cui studi
come l’Agence Babylone iniziano a parlare di natura attiva, un
concetto con il quale il progetto va oltre la sostenibilità e diventa
rigenerativo e rivitalizzatore dei sistemi sottostanti, sia naturali
che culturali.
Secondo un punto di vista per cui la biosfera non deve più essere
isolata dagli interventi umani e trasformata in una riserva
naturale, ma imitata nelle sue proprietà, nelle sue strutture e nei
suoi processi per dar vita ad ecosistemi migliori. Il progetto non
deve più essere passivo, a basso impatto energetico, ma
concretizzarsi in uno sforzo molto più complesso per ideare
edifici con conseguenze positive, riparative e produttive per
l’ambiente naturale (Yeang; 1999).
Il sistema progettato - scrive Yeang in The green
skyscraper - deve creare un ecosistema bilanciato
delle componenti biotiche e non o, meglio, definire
una relazione produttiva e riparativa con l’ambiente
naturale, sia a livello locale che a livello globale.
(Yeang; 1999)
La metafora prima utilizzata per il singolo edificio amplia la sua
scala e diventa analogia estesa a tutta la città. L’edificio non è
quindi solo più un oggetto spaziale, ma un sistema progettato di
cui funzioni interne e relazioni esterne costituiscono parti
integranti. Secondo una teoria inclusiva, comprensiva e aperta
volta alla definizione di una nuova visione del futuro anticipatrice
- capace cioè di guardare oltre i bisogni di questa generazione e riabilitativa.
L’obiettivo, per architetti come Ken Yeang, è la definizione di
spazi nuovi, ambivalenti, ambigui e intermediari, capaci di
giocare un ruolo centrale nella società umana quanto nella città e
nelle architetture. Filtri ambientali che permettano la
determinazione di una relazione selettiva e fluida fra interno ed
esterno; spazi transitori come verande, portici, terrazze, atri, muri
e coperture multiple atti a definire l’immagine della città come
giardino urbano, ma soprattutto ad incentivare uno stile di vita,
qualitativamente migliore e all’aria aperta.
In una prospettiva per la quale l’inverdimento degli edifici deve
essere esteso agli affari, alle politiche, all’economia e alle
abitudini di vita.
In questo senso, nell’ultimo decennio, in molti progetti per il
nuovo assetto del territorio - dalla Tropical Verandah City di
Yeang (Hamzah; 1998), al programma internazionale Grand
Paris (2011), al concorso per i dipartimenti di Essonée e Yvelines
(2008) - la natura diventa, almeno nelle intenzioni, un vero e
proprio motore urbano, un elemento integrato in tutti gli aspetti
della vita della città che, mediante ‘alte tecnologie naturali’,
struttura insediamenti e abitudini.
Lo scopo è quello ricreare il meraviglioso mix di usi, persone e
spazi proprio dei territori e dei sistemi più complessi e vivaci, ma
anche quello - prima dimenticato - di caratterizzare
qualitativamente e esteticamente i luoghi. Compreso come il
rapporto con la natura oggi non possa più passare attraverso la
rappresentazione della stessa, l’architettura, parallelamente a
quanto avvenuto per la Land Art americana prima e per l’Arte
Ambientale europea dopo, diviene esperienza della natura che
opera al suo interno plasmandola e arricchendola con la volontà
di restituire una nuova identità estetica ai luoghi (D’Angelo;
2001).
Progettare con la natura assume benefici estetici come ecologici
e il paesaggio diventa intersoggettivo come tutti i valori culturali,
secondo un punto di vista che considera l’ambiente in modo
antiessenzialista e non naturalistico. Non più naturale contro
artificiale, ma insieme umano e non umano, oggetti organici ed
inorganici, tecnici e simbolici, politici e biologici (Assennato,
2010).
Se si prova quindi a costruire un bilancio, la riflessione sull’idea
di natura stimolata dal dibattito sulla sostenibilità non ha condotto
ad un superamento dell’approccio antropocentrico a favore di
uno fisiocentrico, ma - almeno per alcune voci del dibattito - ad
un suo rovesciamento: se si continua cioè a parlare di
sostenibilità soprattutto in riferimento ai bisogni e agli interessi
della specie umana, vi è stata almeno in parte una sorta di autoabdicazione della soggettività umana nella sua funzione di centro
del sapere teoretico e pratico.
Nessuno fra Soleri, Fuller, Piano e tutti gli altri cosiddetti
‘professionisti del verde’ afferma che gli uomini debbano
eleggere direttamente le leggi individuate dalle scienze naturali a
norma della loro azione pratica, ma lungo il loro percorso di
ricerca essi hanno scoperto e stanno scoprendo, anche
attraverso posizioni variegate e disorganiche e sviluppi tutt’altro
che lineari, un ordine del mondo oggettivo, una struttura
dell’essere che, nella sua obiettività, svincola l’uomo stesso
dall’obbligo tipicamente moderno di rispondere a se stesso - e
soltanto a se stesso - dei fondamenti del suo sapere e del suo
valore (Dellavalle, 1998).
Il progressivo emergere della problematica ecologica ha cioè
fatto sì che il principio di autonomia proprio del paradigma
moderno fosse messo in discussione: è la dimensione oggettiva
dei limiti esterni che iniziano ad imporsi sull’azione umana a non
rendere più possibile la definizione di uomo e natura come parti
separate e a richiedere non solo una rivoluzione epistemologica,
ma anche una reimpostazione programmatica di ogni singola
disciplina.
Sposate le tesi proposte dall’ecologia del profondo e dai
sostenitori dell’olismo, per i rappresentanti più profondi ed
interessanti dell’architettura verde se opto per la tutela della
natura non è per via del suo valore intrinseco, della distillazione
razionale di un dovere o della scelta di un bene, ma per il
riconoscimento della superiorità sostanziale della totalità
dell’ecosistema rispetto alle sue parti.
Quello che sembra essere condiviso è così non un appello al
ritorno alla sostanza, ad una verità ontologica, quanto piuttosto
ad un esame autocritico del soggettivismo capace di avviare il
passaggio verso il paradigma comunicativo e la centralità
dell’intersoggettivismo. Un passaggio attraverso cui raggiungere
- anche come prodotto collaterale - un considerevole
ampliamento dei doveri dell’uomo nei confronti dell’ambiente.
Il semplice recupero della consapevolezza che la natura sostiene
le nostre vite implicherebbe infatti un impegno progettuale volto a
mantenere l’integrità dei processi, dei suoi cicli e dei suoi ritmi
oltre che l’assunzione di un punto di vista sistemico capace,
come spesso avviene per necessità nei paesi del terzo mondo, di
superare l’approccio tecnologico [Link Capitolo 2] per farsi
generatore di nuovi spazi sociali di nuove forme di vita nelle città.
Cosa che non sempre avviene nel cosiddetto mondo sviluppato
nel quale mentre programmi internazionali come il Protocollo di
Kyoto, le ingiunzioni del Club di Roma e il Rapporto Stern
mettono sempre più in evidenza la necessità di una riduzione
drastica del consumo dell’energia e delle risorse prodotte dal
nostro pianeta mediante nuove politiche sociali e un
cambiamento nello stile di vita, al di là delle dichiarazioni di
intenti, anche architetti come Yeang, Foster, Rogers, che
guardano verso i sistemi naturali per ispirarsi, molte volte
continuano a riproporre un approccio ancora marcatamente
tecnologico. Seguendo lo stesso atteggiamento - propriamente
occidentale - per cui programmi come la UK Strategy for
Sustainable Contruction sono ancora basati sulla volontà di
permettere una crescita continua e di raggiungere maggiori
profitti.
La salute attuale del nostro pianeta mostra però chiaramente che
quello che è stato fatto fino ad ora non è abbastanza: nonostante
i considerevoli progressi tecnologici, la portata delle riduzioni
raggiunta sui livelli di consumo è molto lontana e traguardi come
l’Obiettivo Europeo 20-20-20 restano ardui da raggiungere.
E' quindi sul cambiamento dello stile di vita che le discipline
legate al progetto spaziale dovrebbero concentrare i loro sforzi e
rinnovare il loro impegno per rispondere finalmente ai requisiti
della società civile, rigenerando - come in parte sta già
avvenendo - il corpo della conoscenza sul quale riposano, ma
soprattutto i loro modi di agire e praticare.
Pensando al mondo - e al binomio architettura-natura - come ad
un unico organismo, il progetto deve far sì che la questione delle
risorse influenzi ogni aspetto delle nostre vite: l’habitat, i trasporti,
la produzione, il consumo. In sintesi, i modi con cui viviamo lo
spazio. Nessun altro scenario probabilmente sarà forte
abbastanza da rispondere agli urgenti bisogni di questo secolo.
Cosa succederebbe quindi se noi provassimo a pensare alla
costruzione di forme architettoniche, urbane e paesaggistiche in
relazione a modi di vivere rinnovati sulla base del tema delle
risorse e dell’energia? Quali sarebbero le conseguenze spaziali
se il progetto provasse ad individuare i vincoli tra la vita urbana e
i parametri energetici?
I casi presentati nell’ambito della ricerca mostrano che, anche se
in modo latente e forse inconsapevole, questa domanda è
sempre stata alla base della riflessione sull’idea di sostenibilità.
Gli spazi compressi di Soleri e Fuller, quelli che scompaiono nel
verde di Ambasz e Wines, gli spazi integrati di Van der Ryn,
Sasso e Piano, così come gli spazi simbiotici di Yeang o
dell’Agence
Babylone,
se
temporaneamente
letti
progressivamente, costituiscono un interessante percorso di
ripensamento delle qualità spaziali della società civile attraverso
differenti idee di natura, mediante pesi e valori diversi attribuiti
alle risorse e all’energia. Un percorso al quale tuttavia oggi viene
chiesto di spingersi oltre, magari tralasciando un po’ della sua
occidentalità per rivolgersi verso quei paesi nei quali lo sviluppo
sostenibile è soprattutto un modo di vivere, obbligo pratico, ma
anche spirituale e sociale.
In stati dove il riscaldamento globale, le risorse e l’energia
costituiscono un argomento meno vitale, l’idea di sostenibilità sta
infatti generando la cornice necessaria per quel processo
decisionale integrato che ancora manca al cosiddetto mondo
sviluppato [Link Democratizzazione] .
La percezione meccanicista condivisa da molti architetti e
ingegneri occidentali ha infatti fino ad oggi trovato espressione
soprattutto nell’attenzione rivolta all’energia, ai combustibili
fossili, agli indicatori e alle definizioni: il rapporto fra uomo e
natura - come, più in generale, l’idea di sostenibilità - è stato
misurato invece che sentito. Facendo perdere al progetto
l’opportunità di giocare un ruolo politico più evidente. Una
situazione che, il superamento della cesura fra natura e artificio,
natura e cultura dovrebbe progressivamente aiutare ad
oltrepassare.
Il punto di vista olistico implicito nell’idea di ecosistema emersa
negli ultimi anni, così come i concetti di interconnessione,
transitorietà e auto-organizzazione ed esso correlati dovrebbero
infatti condurre l’architettura ad una rinnovata ricostruzione delle
questioni ambientali all’interno di un’arena tematica certamente
più ampia di quella attualmente considerata.
Riconoscendo le conseguenze ambientali delle questioni sociali
e politiche, l’architettura dovrebbe stimolare l’immaginazione
pubblica a guardare oltre la stretta definizione di standard
ambientali per un ripensamento totale delle politiche che rendono
questi standard possibili. Considerando le probabili implicazioni
politiche dell’ambiente costruito, essa dovrebbe cioè suggerire
strategie atte a costruire un sano rapporto operativo fra uomo e
ambiente.
Se fino ad oggi il dibattito riguardante l’idea di natura si è quindi
spesso sviluppato attorno alla diatriba fra sostenitori degli
standard e detrattori degli stessi, fra esponenti dell’high
performance green ed esponenti del natural green, fra scelte
tecniche e scelte sociali è obiettivo della ricostruzione appena
sviluppata mostrate come la vera questione in realtà sia un’altra.
Ossia se l’architettura - arricchita da tutte le posizioni definite
negli ultimi decenni - possa o meno autodefinirsi come strumento
in grado di delineare i termini del dibattito politico. Secondo una
prospettiva nella quale la natura non deve più fornire uno sfondo
decorativo per la commedia umana e nemmeno abbellire lo
squallore delle città ma costituire il risultato di un complesso
progetto di costruzione dello spazio antropizzato. Un progetto
finalmente biologico, raggiungibile solo mediante un
cambiamento radicale dei nostri valori sociali [Link Tecnologia].
Tecnologia
Economia e architettura
Dall’ecologia all’economia. Visioni riformiste.
In ambito architettonico così come nel più ampio campo
culturale, ai percorsi di trasformazione dell’idea di natura vanno
affiancati quelli relativi all’idea di tecnologia. Il lento e incerto
riconoscimento della superiorità della totalità ecosistemica
rispetto alle sue parti, così come il progressivo superamento del
principio di autonomia proprio del paradigma moderno
[Link_Natura] sottintendono infatti, almeno per le posizioni più
significative del dibattito, una profonda riflessione sui valori che
fino allo svilupparsi dello stesso ne avevano costituito le basi.
Messa in dubbio l’immagine antropocentrica dell’uomo demiurgo
coltivata dalla cultura moderna, la sua posizione nel mondo e la
sua destinazione, diventa cioè inevitabile una riflessione radicale
sul mito della crescita e sulla fede illimitata nell’apporto della
tecnologia da essa derivato. Una riflessione che non può
prescindere da una collaborazione e un confronto serrato fra la
neonata scienza ecologica e la dominante scienza economica,
imputata principale della crisi ambientale del pianeta (Daly; 1977.
Marchettini, Tiezzi; 1999) e destinata - almeno in teoria - ad un
profondo cambiamento.
Un raffronto che, come sottolineato da gran parte della letteratura
sul tema (Fedeli; 1990. Webber;1991), inizia a mettere in dubbio
non tanto il sistema capitalistico in sé ma piuttosto, più in
generale, il credo nella crescita e nello sviluppo senza limiti
inseguito dalla cultura occidentale (Ruffolo, 1985): è attorno ad
esso che gravita una delle principali contraddizioni di fondo tra
l’approccio economico e l’approccio ecologico al rapporto uomonatura (Martinez-Alier; 1987). Se la crescita è infatti sempre un
bene per l’economia, l’ecologia evidenzia come la crescita
illimitata possa trasformarsi in un grave pericolo; se per
l’economia tradizionale la salute, ma anche il benessere e il
consenso sociale, possono essere garantiti da un tasso di
crescita alto e stabile del prodotto, per l’ecologia è proprio lo
studio degli ecosistemi naturali a dimostrare che essi
invariabilmente smettono di crescere quando raggiungono i limiti
rappresentati dalle risorse disponibili.
E’ la questione dei limiti e del loro riconoscimento a diventare
centrale, a rappresentare il primo e più importante nodo da
affrontare nel confronto fra economia e ecologia, fra i sostenitori
dell’ottimismo e del pessimismo tecnologico: minati i valori della
certezza e dell’infinitezza propri della modernità, l’instaurazione
di una pretesa cognitiva assoluta e insieme di un’enorme
potenza trasformativa diventa labile aprendo un dibattito ormai in
auge da quasi cinquant’anni. Fra le filosofie ambientali, in ambito
economico, ma anche in campo architettonico.
E’ cioè possibile superare i sempre più evidenti limiti del pianeta
mediante un continuo sviluppo della scienza e della tecnologia,
oppure occorre abbandonare definitivamente questi mezzi
prettamente antropocentrici a favore di un nuovo paradigma
culturale e di nuovi stili di vita? E’ dal contrapporsi, ma anche
dall’intrecciarsi di posizioni riformiste e radicali rispetto a questo
tema che il dibattito si sviluppa già a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento (Martinez-Alier; 1987).
Nel 1854, in particolare, viene pubblicato per la prima volta
Walden ovvero vita nei boschi, il diario in cui lo scrittore
americano Henry David Thoreau descrive l’esperienza di
completa solitudine vissuta per circa due anni in un capannone
costruito sulle rive del lago Walden nel Massachusetts. Una
denuncia provocatoria verso le conseguenze sociali e morali
dell’affermazione di un’economia - e di una civiltà - commerciale
ed industriale a suo avviso tanto alienata dalla natura
[link_Natura], quanto dalle profondità più autentiche dello spirito
umano (La Vergata, Ferrari; 2008). In particolare, mettendo in
primo piano i problemi dell’inquinamento, del disboscamento e
della riduzione dello spazio della wilderness, l’autore avanza una
critica sociale radicale e un progetto di riforma spirituale
incentrato sul culto della sobrietà e dell’essenzialità apertamente
polemico rispetto alla civiltà urbana da cui prende distanza. Di
fronte alle distorsioni sociali e morali della civiltà della crescita
egli afferma provocatoriamente la necessità di ridurre in modo
drastico i consumi e lo sfruttamento dell’ambiente mediante una
liberazione definitiva dalla dipendenza alienante dai bisogni
artificiali progressivamente indotti dal mercato. Proponendo la
natura come alternativa salvifica alla tecnologia che li ha
generati, secondo una prospettiva critica certamente radicale ma
non totalmente isolata.
Solo pochi anni più tardi infatti, attraverso una visione certamente
più scientifica e meno mistica, il filosofo ed economista britannico
1
John Stuart Mill presenta l’idea di economia di stato stazionario
da lui intesa come situazione di crescita zero della popolazione e
dello stock di capitale fisico, ma - a differenza di Thoureau - con
miglioramenti continui nella tecnologia e nell’etica (Daly; 1996).
Nello stesso momento in cui la maggior parte degli economisti
teme lo stato stazionario identificandolo con la fine del progresso,
Mill lo auspica sostenendo che una condizione stazionaria del
capitale e della popolazione non implichi affatto uno stato
stazionario e stagnante del progresso umano, con un profondo
ridimensionamento del ruolo della tecnologia. Mentre infatti la
teoria economica dominante parte da parametri non fisici - come
appunto la tecnologia - e indaga il modo in cui le variabili fisiche
devono modificarsi per soddisfare un equilibrio determinato dai
1. John Stuart Mill è stato un
filosofo ed economista
britannico. Considerato come
uno dei massimi esponenti
del liberalismo e
dell’utilitarismo, i suoi principi
di economia politica oggi
vengono ripresi soprattutto
dai sostenitori di un’economia
distato stazionario. Mill infatti
aveva presentato quest’idea
già nel 1957 intendendola
come situazione di crescita
zero della popolazione e
dello stock di capitale fisico,
ma con miglioramenti
qualitativi continui nella
tecnologia e nell’etica. Cfr.
Daly; Oltre la crescita:
l’economia dello sviluppo
sostenibile; Edizioni
Comunità; Torino; 2001.
primi, il punto di vista definito da Mill inizia ad invertire il rapporto:
parte dai parametri fisici - un mondo finito in primis - per indagare
il modo in cui le variabili non fisiche possono essere condotte a
un equilibrio praticabile per tutto il complesso sistema biofisico di
cui siamo parte. Definendo un nuovo punto di vista per cui non
sono più le condizioni fisico-quantitative a doversi adattare a
quelle qualitative, ma viceversa.
Tuttavia, per tutto il secolo successivo alla pubblicazione di
questi testi, entrambi vengono quasi dimenticati dall’ambito
culturale dominante e nonostante ricerche come quella di Juan
Martin-Alier (Martinez-Alier; 1987) dimostrino chiaramente
l’esistenza - almeno lungo tutto l’arco del Novecento - di una
linea di pensiero alternativa a quella dell’economia e della
scienza in questo periodo riconosciute come ufficiali, essa
rimane priva di posizioni realmente capaci di formulare un
pensiero alternativo compiuto e radicale come i due autori
sembravano premettere.
In ambito architettonico, in particolare, la questione dei limiti
sembra emergere attraverso le posizioni di alcuni pionieri come
Richard Buckminster Fuller solo intorno alla metà del secolo
successivo.
Nato in una famiglia distinta - che includeva la zia femminista e
scrittrice legata ai circoli trascendentalisti proprio di Emerson e di
Thoreau - l’architetto americano inizia a sviluppare la sua ricerca
- poi durata cinque decenni - verso un progetto capace di
massimizzare il beneficio umano con un uso minimo di energia e
materiali.
Avvertite le nuove urgenze imposte dall’emergenza planetaria, a
partire proprio dalla questione dei limiti, Fuller sposta le sue
attenzioni progettuali sul principio di realizzare il massimo dei
risultati con il minimo impiego di energia, in funzione di un’idea di
economicità intesa come ottimizzazione di risorse secondo
principi che restano logici e razionali.
Convinto, come Thoreau, che l’architettura debba soddisfare
non solo i bisogni materiali, ma anche le richieste psico-fisiche, il
progettista va però alla ricerca di un nuovo rapporto fra uomo e
natura - un rapporto sinergico e non alienante - promuovendo
ancora una volta un rinnovato sistema industriale e tecnologie
innovative capaci di fare more with less e perciò pronte, secondo
il suo punto di vista, a migliorare le vite umane, andando alla
ricerca dei bisogni essenziali e smantellandone il bagaglio
materiale.
Per l’architetto, il progresso scientifico e tecnologico deve
allontanarsi da teorie specialistiche, aprioristiche e assolutistiche,
per farsi comprensivo, empirico e applicativo; esito di un’indagine
concreta. Dove piegarsi alle esigenze di una nuova metodica
progettuale - capace di indirizzare l’umanità su un percorso di
crescita responsabile in accordo con l’ambiente - ma il suo ruolo
rimane comunque indiscusso.
Se Fuller fa cioè proprie molte delle posizioni avanzate dal fronte
ambientalista - dalla consapevolezza dei limiti delle risorse, alla
necessità di superare materialismo e specializzazione - nella
teoria che l’architetto espone in testi come Operating Manual for
Spaceship Earth (Fuller; 1969) o Approaching the benign
environment (Fuller; 1970) rimane assolutamente vivo uno dei
più robusti traslati della modernità: l’idea che la collaborazione fra
architettura, tecnologia e produzione di massa abbia il potere di
risocializzare il progetto dell’edificio e dirigere l’efficienza
scientifica verso la soluzione del problema della scarsità
(Sorkin;2008). Non solo, il ruolo della tecnologia, invece di
contrarsi, si espande. All’interno del secondo testo, in particolare,
egli scrive:
[…] esiste una nuova e sorprendente alternativa
alla politica: è la rivoluzione della scienza del
progetto che da sola può risolvere il problema.
(Fuller; 1970)
A differenza di quanto implicito nella definizione di stato
stazionario di Stuart Mill, l’assunzione di consapevolezza dei
limiti delle risorse di Fuller non presuppone ancora
quell’inversione di ruolo fra parametri fisici e non fisici, fra risorse
e tecnologia auspicata dell’economista britannico ma, al
contrario, scienza del progetto e tecnologia diventano strumentisoluzioni in grado di sostituirsi anche alla politica.
Il principio del fare more with less dell’architetto americano è cioè
un credo che si spinge ben oltre il less is more estetico del
minimalismo moderno. Nutrito dal principio dell’economicità e
non certo da un approccio estetico, l’operato del progettista mira
all’ideazione di tecnologie innovative in grado non solo di
configurare una nuova relazione fra l’uomo e la macchina, ma
anche di aprire le porte alla consapevolezza rimodellando
l’individuo e, con lui, il gruppo. Egli spinge ancora i suoi
ascoltatori ad immaginare un mondo reso migliore attraverso i
medesimi mezzi messi in discussione, sebbene in modi diversi,
sia da Thoreau che Mill: la tecnologia, le macchine, la gestione, il
progetto.
In questa prospettiva, sono significative le descrizioni che
l’architetto fa del suo lavoro più innovativo rispetto a queste
riflessioni: la serie di case prefabbricate iniziate con la 4D House
e culminate con la Dymaxion Dwelling Machine. Esse vengono
descritte come case pensate per poter rispondere al massimo
beneficio umano con il minor impiego possibile di energia,
materiali e tempo. L’intera Dymaxion House, per esempio,
doveva essere spedita al suo sito in un grosso tubo che
conteneva tutti i suoi elementi, nessuno dei quali pesava più di
cinque chilogrammi, permettendo così all’intera casa di pesare
tre tonnellate, circa il tre percento rispetto ad un edificio
tradizionale della stessa grandezza.
Fuller risponde cioè alla questione dei limiti attraverso un nuovo
atteggiamento progettuale: leggerezza, semplificazione e
semplicità di costruzione rappresentano per l’architetto
informazioni quantitative fondamentali da rendere visibili non
tanto come strumenti per l’azione, quanto come strumenti per
una visione. Mezzi attraverso i quali proporre una diversa visione
del mondo basata sulla nozione di efficienza innata nella natura
[link_Natura]. Una nozione che richiede necessariamente un
progetto comprensivo e complesso, indice di totalità e
connessione.
L’obiettivo dell’inventore delle cupole geodetiche è così un
progetto orientato al contenimento quantitativo, capace di
diffidare dalle convenzioni e dalle abitudini per guardare sempre
ad una rappresentazione più ampia in termini di responsabilità e
conseguenze dell’intervento stesso. Per lui l’architettura e la
tecnologia vanno pensate in termini di perfomance: la sfida del
design è quella di produrre la nave più potente con il minor peso
possibile (Fuller; 1969) così come quella dell’architettura è di
aumentare la percentuale di performance per unità di peso
investita. La valutazione della quantità di performance ottenute
per unità di peso delle risorse mondiali utilizzate per migliorare gli
standard di vita deve cioè diventare un obiettivo diretto dei politici
ed è appunto compito della tecnologia diffondere questa
consapevolezza e, con questa, fondare una nuova società,
assumendo così un evidente ruolo politico.
E’ evidente poi - scrive per esempio Fuller in
Approching the benign environment - che la
richiesta mondiale di pace avanzata dai giovani
può essere esaudita solo attraverso una
rivoluzione tecnologica che farà così tanto di più
con così tanto di meno per ogni richiesta come
quella di produrre abbastanza per sostenere tutta
l’umanità. E’ chiaro che questo obiettivo può
essere raggiunto solo attraverso questa rivoluzione
tecnologica-progettuale.
(Fuller; 1970)
La tecnologia diventa il principale strumento della visione
progettuale alternativa proposta da Fuller [link_Natura], soluzione
diretta al problema della scarsità delle risorse. E la vera
questione posta dal progettista non è se gli architetti, mediante la
tecnologia, possano o meno introdurre dei miglioramenti tecnici
al consumo di energia, ma piuttosto se possano definire i termini
del dibattito politico.
Pur essendo profondamente coinvolto dagli ideali del mondo
scientifico e industriale di cui fa parte e partendo quindi da un
punto di vista fondato sull’ottimismo tecnologico e su una
posizione riformista, l’architetto americano sviluppa cioè una tesi
che cambia radicalmente il ruolo della tecnologia e dei progettisti.
Non più specialisti, ma comprehensive designer capaci di
processare in modo neutrale le informazioni prodotte e le
tecnologie sviluppate dal mondo dell’industria e della scienza,
per tradurre entrambe in strumenti per la felicità - materiale ma
anche spirituale - umana.
Diversamente dagli specialisti, il comprehensive designer deve
essere consapevole della necessità del sistema di essere
bilanciato e del corrente spiegamento delle sue risorse; deve
agire come mietitore delle potenzialità del pianeta, raccogliendo i
prodotti e le tecniche dell’industria e ridistribuirle in accordo con i
modelli sistemici. Deve diventare sintesi di un artista, un
ingegnere, un inventore, un meccanico, un oggettivo economista
e uno stratega; non un burocrate ma una figura capace di
cogliere
l’intera
rappresentazione
e
di
raggiungere
un’integrazione psicologica anche mentre lavora con i prodotti
della tecnocrazia (Foster, Galiano; 2010). In una prospettiva nella
quale la società deve vedere le sue risorse distribuite non per
rispondere alle domande dei politici o degli economisti, ma alle
leggi naturali che già mantengono il sistema della natura in
equilibrio.
Tuttavia, se la crescente consapevolezza della fragilità del
pianeta spinge Fuller, e con lui molti esponenti della controcultura degli anni sessanta e settanta, verso un’idea di tecnologia
che va ben oltre la preoccupazione per la conservazione delle
risorse limitate non sempre le riflessioni dei cosiddetti sostenitori
dell’ottimismo tecnologico risultano così profonde. Al contrario,
spesso esse si traducono in costruzioni teoriche incapaci di
considerare le possibili implicazioni progettuali dell’ambiente
costruito, soluzioni tecniche anziché strategie.
Presa coscienza dei problemi ambientali rimane cioè viva la fede
nel fatto che questi possano essere risolti semplicemente
mediante ingenti investimenti e interventi tecnologici volti ad
aumentare senza limiti la produttività delle risorse naturali e a
migliorare l’efficienza dei sistemi produttivi. E, in ambito
economico così come in ambito architettonico, in coesistenza e
contrasto con le posizioni di Fuller e altri pionieri, iniziano a
comparire analisi quantitative basate su una precisa descrizione
dei flussi di energia e dei materiali.
Internamente all’economia standard, in particolare, si sviluppa la
cosiddetta economia dell’ambiente (Martinez-Alier; 1987), una
branca della disciplina chiamata ad affrontare la questione del
fallimento del mercato nel trattare il problema delle esternalità
ambientali.
L’istituzione americana Resource for the future - fondata nel
1952 e autrice delle più importanti ricerche degli anni sessanta e
settanta sulle questioni ambientali - nel 1979 fonda l’Association
of environmental and resource economists e inizia a diffondere il
punto di vista proprio dell’economia ambientale mediante la
2
rivista Journal of enviromental economics .
Un modello di atteggiamento per il quale, di fronte ad
un’accresciuta consapevolezza della questione ecologica e ad
un’estesa domanda di qualità ambientale da parte del pubblico,
alcuni economisti - così come parte degli architetti - si attrezzano
per internalizzare nel sistema economico-produttivo i costi
ambientali, per integrare nei loro calcoli o nei loro progetti i costi
della depurazione, per individuare i modi più efficienti per
ottenere un dato livello di abbattimento degli inquinanti e per
modificare i prezzi relativi fra prodotti dannosi e non all’ambiente,
senza però porsi alcuna questione relativa ai vincoli teorici e
metodologici - ma anche ai fini - dell’economia e dei principi da
essa diffusi. Tocca ai tecnici definire gli obiettivi quantitativi: gli
economisti devono solo indicare il modo più efficace per farli
assumere; i meccanismi equilibratori automatici propri
dell’economia di mercato dovrebbero poi fare il resto. Senza
rotture né spaziali, né temporali, a partire dagli anni settanta,
l’efficienza diviene l’obiettivo da perseguire.
Nelle loro ricerche, tecnocrati americani come Elsner, Benson,
Akin e Berndt iniziano a fornire un collegamento fra l’energetica
sociale antecedente agli anni trenta e gli studi ecologici degli anni
sessanta e settanta, ma i diversi riferimenti alle opere, per
3
esempio, del chimico e fisico britannico Frederick Soddy sostenitore già negli anni venti dell’importanza cruciale delle leggi
della termodinamica nell’economia - vengono utilizzati per
sostenere uno sconfinato ottimismo tecnologico che certamente
l’autore non avrebbe condiviso (Martinez-Alier; 1987).
Quella che si delinea nell’intero ambito culturale è cioè
soprattutto una corrente riformista che considera la crisi
ecologica come un problema fondamentalmente scientifico e
tecnologico da risolvere, o quanto meno ridimensionare, proprio
attraverso la ricerca scientifica e tecnica, via necessaria e
sufficiente non tanto per raggiungere l’obbiettivo ritenuto
utopistico di pervenire ad una completa soluzione della crisi
ecologica quanto per ipotizzare interventi realistici mirati a
limitare le varie forme di criticità ecologica.
Secondo un punto di vista per cui la causa fondamentale del
peggioramento della qualità della vita conseguente alla crisi
ambientale va individuata in una scienza disattenta alle
dinamiche ecologiche e in una tecnologia invasiva ed esso può
quindi essere risolto attraverso il potenziamento dello sviluppo
scientifico e di una tecnologia ‘eco-compatibile’. Una tecnologia
economica il cui ruolo diviene centrale anche in ambito
architettonico, sebbene con significati multipli e sfaccettati.
Se infatti l’idea di efficienza ed economicità nella riflessione di
pionieri come Richard Fuller viene tradotta in obiettivi complessi
e radicali oltre che in un’importante revisione dei valori, il punto di
vista di molti di coloro che optano per una posizione riformista
finisce con il tradursi in programmi bastai sugli standard e sui
codici, in una mera giustapposizione di azioni correttive e di
vincoli generati da regole ancora una volta esogene e
insostenibili, certamente figlie del sistema di pensiero diffuso
dall’economia moderna.
Nel tentativo di trasformarsi in scienza essa incorpora infatti le
principali idee dell’illuminismo nei suoi fondamenti filosofici - la
fede in un progresso illimitato, un antropocentrismo forte che
considera la natura come un semplice beneficio strumentale e la
convinzione che l’uomo possa dominare la stessa grazie al
metodo scientifico e allo sviluppo tecnologico - determinando una
marcata rottura fra uomo e natura che gran parte dell’ambito
architettonico non fa che acquisire portando ad una completa
scomparsa della terra non solo dal corpus della teoria economica
stessa, ma anche dal progetto. L’adesione ad una visione
preanalitica dell’economia come sistema isolato e una teoria
statica del mercato consentono cioè al progetto, così come
all’economia, di includere la terra nel capitale considerando le
precondizioni naturali come variabili esogene ininfluenti. Secondo
un approccio scientifico, anziché storico, incapace di cogliere le
reali interazioni fra sistema ecologico e sistema economico
(Tiezzi; 1999) e rivolto alla definizione di una disciplina
accademica deduttiva concentrata sui suoi principi interni ma
completamente incurante delle sue ricadute sulla vita sociale.
Una scienza determinista e specialistica slegata dall’esperienza
ma capace, proprio grazie ad un alto livello di astrazione, di
produrre forti illusioni di grande sviluppo e benessere. Illusioni
tuttavia poste pesantemente in questione dalla crescente
consapevolezza sociale della crisi ecologica, capace, intorno agli
2. Resources for the future è
un’associazione no-profit
americana, fondata nel 1952,
che conduce ricerche
interdisciplinari indipendenti
sulle questioni ambientali, sul
tema delle risorse naturali ed
energetiche. Riconosciuta
come il primo ‘think tank’
dedicato esclusivamente a
queste questioni essa ha
avuto una forte influenza nel
campo dell’economia delle
risorse. Cfr. www.rff.org.
3. Frederick Soddy è stato un
chimico e fisico britannico
vissuto a cavallo fra il XIX e il
XX secolo. Egli è ritenuto un
riferimento importante per
molti esponenti dell’economia
ecologica poiché già negli
anni venti riconobbe
l’importanza cruciale delle
leggi della termodinamica per
l’economia, anticipando un
tema che sarebbe stato
sviluppato con maggior
profondità e dettaglio da
Nicholas Georgescu-Roegen
cinquant’anni più tardi. Cfr.
Martinez-Alier; Economia
ecologica. Energia, ambiente,
società; Garzanti; Milano;
1991.
anni settanta, di stimolare definizioni dell’idea di tecnologia
profondamente differenti.
Economia ecologica. Visioni frugali.
Mentre negli anni settanta i governi iniziano a muoversi verso
provvedimenti difensivi e conservativi - basti pensare alla tassa
petrolifera, rinnovata due volte nel ‘73 e nel ’79, o in genere ai
divieti, alle limitazioni fiscali e amministrative proposte in quegli
anni - una parte sempre più rilevante del mondo accademico
inizia a domandarsi quali siano i reali risultati degli stessi e se
non sia invece necessario sostituire l’analisi sempre più raffinata
di una visione difettosa con una visione del tutto nuova.
Diversamente da quanto accaduto nei decenni precedenti
caratterizzati da appelli isolati e poco strutturati, parallelamente al
fronte riformista, comincia a delinearsi un fronte critico realmente
significativo - e peraltro eterogeneo - nei confronti del credo della
crescita. In contrasto alle posizioni incentrate sull’ottimismo
tecnologico, iniziano ad emergere nuove sensibilità che,
combinandosi secondo varie forme, danno origine ad un insieme
di teorie che nelle loro contraddizioni e irregolarità trovano
tuttavia un accordo provvisorio nella critica comune rivolta ai
tradizionali modelli di sviluppo: l’idea che la crescita economica e
l’apparato
tecnologico
ad
essa
connesso
possano
autonomamente garantire stabilità e felicità, nonché un elevato e
diffuso livello di qualità della vita, comincia ad essere messa
sempre più in discussione e inizia ad insinuarsi il dubbio che
essa, sul lungo periodo, possa rivelarsi controproducente per i
sistemi sociali. Anche fra gruppi di scienziati e movimenti politici
ritenuti, fino a quel momento, fonti più che autorevoli.
In questo senso, la pubblicazione nel 1972 del rapporto
scientifico I limiti dello sviluppo (Meadows;1972) rappresenta
certamente un momento a forte carattere simbolico [Link_La
storia della sostenibilità in architettura]. Elaborato da alcuni
scienziati del Massachussets Institute of Tecnology convinti che il
rapporto uomo-natura stesse raggiungendo il collasso, il rapporto
rappresenta infatti il primo documento ufficiale in cui il credo
dello sviluppo illimitato e della crescita lineare e costante ancora assolutamente dominante negli anni settanta - viene
messo in discussione da un pulpito scientificamente autorevole,
da soggetti non certo etichettabili come rivoluzionari, oscurantisti
o scientificamente reazionari e attraverso gli stessi strumenti
analitici - modelli dinamici quantitativi e simulazioni con gli
elaboratori - abitualmente utilizzati in econometria.
Con l’introduzione dei concetti di limiti dello sviluppo, crescita
zero e di stato di equilibrio globale, il testo viola definitivamente il
tabù linguistico che aveva sempre associato l’idea di sviluppo a
quelle di linearità, illimitatezza e positività, sfidando la filosofia del
materialismo non attraverso messaggi esoterici provenienti da
saggi o da santi, ma mediante la descrizione del corso concreto
degli eventi fisici.
L’ideologia della crescita e la fede nell’onnipotenza tecnologica
illimitata vengono cioè chiamate a scontrarsi con i crudi fatti
(Daly, Cobb; 1989): la degradazione ambientale, la
disintegrazione sociale e tutta quella gamma di problemi
evidenziati da una letteratura destinata a diventare sempre più
ampia (Brown; 1971. Leontief; 1977. U.S. Goverment; 1980.
World Watch Institute; 1984,1987. Brown, Postel; 1987.
Meadows; 1992) oltre che dal corso stesso degli eventi.
E’ infatti a partire dall’embargo petrolifero del 1973 che tutti,
ottimisti e pessimisti tecnologici, iniziano a parlare di crisi
energetica provando a valutare il rapporto - ritenuto più o meno
indissolubile - fra la scarsità emergente di risorse naturali e il
processo economico nel suo complesso. Formatosi il fronte
critico nei confronti del credo della crescita e cominciata la fine
del grande consenso, nel periodo compreso tra i primi anni
settanta e i primi anni ottanta del Novecento, il dibattito su
ambiente e sviluppo viene alimentato da una fiera
contrapposizione tra i persistenti fautori della crescita economica
e dello sviluppo tecnologico, da un lato, e gli ambientalisti,
dall’altro.
A I limiti dello sviluppo (Meadows;1972) si contrappone, per
esempio, L’anno duemila (Kahn; 1967), un saggio nel quale il
futurologo Herman Kahn nega completamente l’esistenza dei
limiti fisici della crescita economica e dei consumi nella
convinzione, ancora una volta, che tecnologia e mercato
possano permettere all’umanità uno sviluppo inarrestabile,
ampliando all’infinito i confini degli ecosistemi.
Ma se fino a quel momento molti esponenti dell’ambito
architettonico ed economico avevano preferito optare per
posizioni sviluppate a partire da un punto di vista certamente
vicino all’ottimismo tecnologico del futurologo americano, i primi
anni settanta segnano certamente l’aprirsi di una frattura verso la
direzione opposta.
Nello stesso anno in cui Fuller pubblica Operating Manual for
Spaceship Earth, il Massachussets Institute of Tecnology edita
Arcology: the city in the image of man - l’approdo del ventennale
percorso di ricerca di Paolo Soleri verso un habitat alternativo
incentrato sulla frugalità e sull’anti-materialismo - e due anni più
tardi l’economista rumeno Nicholas Georgesu-Roegen pubblica il
4
testo fondatore dell’economia ecologica The entropy law and the
economic process (Georgesu-Roegen; 1971).
Finché le cosiddette esternalità avevano riguardato dettagli
secondari, il modo di procedere sostenuto dai riformisti era cioè
apparso ragionevole e vincente, ma ora che erano questioni di
cruciale importanza - come la capacità della terra di continuare a
sostenere la vita - ad essere considerate come tali allora diversi
gruppi culturali iniziano a chiedersi se non sia forse giunto il
momento di ridefinire completamente i valori fondamentali e di
elaborare un altro insieme di astrazioni capace di abbracciare
anche ciò che si continuava a sottendere all’indagine. Secondo
una prospettiva per la quale, abbandonato sia il punto di vista
dell’economia del cowboy - che considerava il sottosistema
economico come infinitamente piccolo rispetto al sistema globale
- sia quello dell’economia dell’astronauta - per la quale
l’economia coincideva con il sistema globale - (Boulding; 1968), a
diventare centrale era la questione della scala: quanto poteva
espandersi il sottosistema economico in relazione al sistema
globale? Quanto poteva estendersi il capitale tecnologicoartificiale rispetto a quello naturale?
In risposta ad una società iper-consumistica e alla conseguente
drammatica distruzione dell’ambiente, figure più vicine al
pessimismo tecnologico come Paolo Soleri propongono un
modello di atteggiamento nel quale non rivendicano solo la
contrazione fisica del contenitore urbano [Link_Natura] ma
piuttosto l’idea di frugalità, definita dall’architetto italiano come il
più sofisticato uso di spazio e tempo, processo di
interiorizzazione antimaterialistico (Lima; 2000). Un concetto
mirato a delineare prima che nuove tecnologie un nuovo modello
comportamentale capace di controbattere il consumo esasperato
e sempre maggiore della produzione e, conseguentemente,
anche la fede illimitata nella tecnologia.
In un glossario redatto molti anni dopo ma coerente con
l’apparato teorico già elaborato negli anni settanta, definendo la
tecnologia, egli scrive:
In essa è inserita la spinta evolutiva prima che la
mente inizi il processo di comprensione. Utile alla
vita fino all’inizio della consapevolezza, ciò che da
allora ad oggi conta e conterà poi è il suo uso
‘cosciente’. Pertanto, le prossime forme da
riempire di funzioni devono essere impregnate di
compassione se si vuole evitare che diventino il
rivestimento che pone fine alla vita.
(Soleri. In Lima; 2000)
A Soleri non interessa un progetto all’avanguardia, ma
soprattutto l’espressione di un modello di vita coerente con i limiti
del pianeta. Nei suoi scritti, il rapporto reverenziale per la vita
naturale e umana non comporta, come per i contemporanei
esponenti riformisti, vincoli di genere burocratico o imperativi
condizionati dal valore di mercato delle cose, ma un proposito
esistenziale che cerca di ristabilire un ordine congruo nella
totalità degli elementi esistenti mediante un processo di
spiritualizzazione degli atti materiali.
A differenza dello stesso Fuller, Soleri, in particolare, avverte sui
rischi della tecnologia: se posta sullo stesso livello del
materialismo potrebbe rappresentare il più grande ostacolo
all’umanizzazione dell’uomo (Lima; 2000), un’inesauribile fonte di
frustrazione: la cieca brutalità dell’uomo tecnologico deve essere
trasformata in un’intensa ricerca di un nuovo equilibrio biologico,
con attenzione non solo verso i limiti biofisici, ma anche verso
quelli etico-sociali.
Per l’architetto italiano la sperimentazione formale e l’esasperato
tecnologismo propri dell’avanguardia moderna non avevano cioè
prodotto alternativa alcuna alla città orizzontale e al suo consumo
di territorio e di paesaggio, per cui andavano sostituiti mediante
un atteggiamento progettuale capace di cogliere, come per
Fuller, la complessità della realtà. Ma per lui tecnologia e
progresso scientifico non sono centrali come per l’architetto
americano. Per dare nuovo significato all’architettura, Soleri
utilizza consapevolmente materiali poveri - solitamente attribuiti
alla cosiddetta tradizione popolare -, tecnologie sobrie, meno
ridondanti e di buon senso a servizio dell’uomo, i metodi più
efficaci e meno costosi per ridurre degrado, inquinamento e
spreco.
Per lui è
nella sproporzione tra la causa fisica e l’effetto
trans fisico [che] si attua la massima disfatta dello
spreco.
(Soleri. In Lima; 2001)
Il conflitto è tra finalità e strumentazione. Consapevole
dell’inarrestabilità del progresso scientifico e tecnologico,
mediante testi come The omega seed (Soleri; 1981) prima o
Technology and cosmogenesis? (Soleri; 1985) dopo, il
progettista si interroga sul rapporto fra uomo e tecnologia
stimolandone l’utilizzo come mezzo e non come fine nella
crescita dell’essere umano. Di fronte all’escalation tecnocratica,
che aggredisce visibilmente ogni aspetto della vita, Soleri si
esprime contro dando alternative radicali: la tecnologia rimane
4. L’economia ecologica è
una disciplina che mira ad
essere il luogo di intersezione
tra ricerca economica e
ricerca ecologica, superando
le distinzioni disciplinari.
Distaccandosi dall’approccio
proposto dall’economia
dell’ambiente essa tenta di
ricostruire il sub-stato fisico
del ragionamento economico,
oggi basato su una
definizione del valore dei beni
legata solo al prezzo di
mercato attuale, e di
reinserire l’economia umana
nella più grande ‘economia
del vivente’.Cfr. MartinezAlier; op. cit.
per lui uno strumento potente ma a fondamento della sua
estrinsecazione positiva deve esserci l’unione con la spiritualità.
Solo in sinergia con essa, questa avrebbe potuto diventare un
forte antidoto contro il materialismo e la distruzione dell’ambiente
umano, contro le insoddisfazioni ed i disagi sociali sempre più
evidenti. Ciò che lo interessa non è dunque il processo
meccanico quantitativo, ma l’intento qualitativo, l’obiettivo di
porre la tecnologia non più a servizio del profitto ma delle reali
esigenze umane, materiali e quantitative ma soprattutto spirituali
e qualitative.
In questo senso, nonostante il concetto compaia già negli scritti
di Fuller (Fuller; 1969) di quegli stessi anni, è con Soleri (Soleri;
2003. Lima; 2010) che il riferimento all’idea di entropia diventa
esplicito in ambito architettonico, così come in ambito ecologico,
segnando il primo importante momento di incontro tra la nostra
disciplina e l’economia ecologica.
5
Se infatti, la teoria economica neoclassica aveva insegnato che
il capitale creato dall’uomo grazie al progresso tecnologico era
un surrogato quasi perfetto delle risorse naturali, l’ingresso
nell’arena dell’ecologia e la crescente pressione degli eventi
portano progressivamente all’emergere della corrente di pensiero
interdisciplinare riconducibile all’economia ecologica, mettendo
profondamente in dubbio quest’ipotesi.
Nel corso degli anni settanta, attraverso contributi interdisciplinari
(Cottrell; 1955. Rappaport; 1967. Odum; 1971. Pimentel; 1973.
Leach; 1976. Chapman; 1975. Foley; 1981), l’economia applicata
nell’ambito dell’uso di energia diviene una branca della teoria
economica e proprio la pubblicazione del testo The entropy law
and the economic process (Georgescu-Roegen; 1971) segna
l’avvio di un rovesciamento concettuale nella teoria economica.
Nata come tentativo di superare le frontiere delle discipline
tradizionali per sviluppare una conoscenza integrata dei legami
tra sistemi ecologici e sistemi economici, l’economia ecologica
getta infatti le basi per un’analisi dei processi economici fondata
sul concetto - ereditato dalla fisica - di entropia.
Esso, introdotto per la prima volta nell’ambito della
6
termodinamica da Rudolf Clausius nel suo Trattato sulla teoria
meccanica del calore per indicare la misura del disordine
presente in un sistema fisico qualsiasi e l’indisponibilità di un
sistema a produrre lavoro, viene adottato da alcune scienze
sociali come appunto l’economia ecologica per sostenere l’idea
che certi processi siano irreversibili e unidirezionali, non ripetibili
senza costo. Definendo una prospettiva nella quale la
concezione dell’attività economica come processo puramente
circolare non può che essere abbandonata a favore di un’analisi
capace di riconoscere i cambiamenti qualitativi (GeorgescuRoegen; 1971).
Interpretare la seconda legge della termodinamica in funzione del
processo economico conduce cioè alcuni economisti, come
Nicholas Georgescu-Roegen, Kenneth Boulding e più tardi
Herman Daly, a comprendere come per esempio le operazioni di
ristrutturazione e riciclo delle componenti e dei materiali di base spesso suggerite dai sostenitori dell’ottimismo tecnologico richieda non un consumo diretto di materia o energia, ma della
capacità di riorganizzare la materia e l’energia stesse; come ciò
che viene restituito all’ambiente sia qualitativamente diverso da
ciò che viene estratto. Con l’assunzione di un punto di vista per il
quale capitale naturale e capitale creato dell’uomo non risultano
più sostituibili, ma complementari.
Non si può - spiega qualche anno più tardi
l’economista americano Hermann Daly - costruire
la medesima casa impiegando meno legno e
sostituendolo con più seghe.
(H. Daly; 1996)
Una cosa era cioè dire che le conoscenze tecnologiche e non
sarebbero aumentate - e nessuno lo negava - un’altra era
presupporre che il contenuto delle nuove conoscenze avrebbe
potuto abolire i vecchi limiti prima che ne emergessero di nuovi;
che la semplice accelerazione della rivoluzione tecnologicaprogettale avrebbe potuto costituire una soluzione necessaria e
sufficiente alla questione dei limiti tralasciando, ancora una volta,
quella della scala.
Il passaggio da un mondo in cui le risorse naturali erano
relativamente abbondanti mentre il capitale prodotto dagli esseri
umani era scarso, a un mondo in cui valeva l’opposto, per gli
esponenti dell’economia ecologica così come per i progettisti che
sposano il punto di vista soleriano, inverte completamente il
fattore limitante: a loro avviso, il mondo si stava inesorabilmente
spostando da una situazione in cui questo era rappresentato dal
capitale di produzione umana ad una nella quale l’elemento
limitante era diventato il capitale naturale generando una
condizione in cui quello che prima era un comportamento
economico stava diventando un comportamento antieconomico.
A cambiare è in particolare il modello di scarsità, con la
conseguenza che, per rimanere economico, il modello
comportamentale deve adeguarsi: invece di massimizzare il
rendimento del capitale tecnologico-artificiale ed investire in
esso, si è chiamati a massimizzare i rendimenti del capitale
naturale e ad investire in quest’ultimo.
5. In economia con la
locuzione teoria neoclassica
ci si riferisce ad un approccio
generale alla disciplina
economica -sviluppato a
partire dagli anni settanta
dell’Ottocento - basato sulla
determinazione di prezzi,
produzione e reddito
attraverso il modello di
domanda e offerta. Essa,
insieme al paradigma della
crescita sul quale si fonda,
viene sottoposta ad una
profonda critica dagli
esponenti dell’economia
ecologica che ne attaccano
soprattutto la teoria
soggettivista del valore,
ritenuta responsabile dello
spostamento d’attenzione
dalle risorse all’utilità e
all’efficienza. Cfr. Daly; op.
cit.
6. Rudolf Clausius è stato un
fisico e matematico tedesco.
Egli è considerato uno dei
fondatori della termodinamica
poiché nel 1850 gettò le basi
per la formulazione del
secondo principio della
termodinamica dimostrando
l’impossibilità del passaggio
spontaneo del calore da un
corpo freddo ad uno caldo.
Quindici anni dopo, indotto a
porre una distinzione tra le
trasformazioni reversibili e
quelle irreversibili, introdusse
il principio di entropia in
seguito introdotto in ambiti
non strettamente fisici come
quello economico. Cfr.
Martinez-Alier; op. cit.
Pur sviluppandosi dalla stessa questione culturale, a differenza di
quanto fatto dall’economia ambientale, il nuovo paradigma
emergente dalla prospettiva auspicata dall’economia ecologica
prova a cogliere l’invito avanzato nei primi decenni del secolo da
Stuard Mill e avvia il tentativo di sviluppare le proprie riflessioni a
partire da parametri fisici dati - un mondo finito, complesse
interrelazioni ecologiche, le leggi della termodinamica - per poi
indagare solo in un secondo momento il modo in cui le variabili
non fisiche - tecnologia, distribuzione e stili di vita - possono
essere condotte ad un equilibrio praticabile e giusto con il
complesso sistema biofisico di cui siamo parte. Definendo due
idee divergenti di tecnologia.
Se infatti per la maggior parte degli esponenti riformisti questa
rappresenta lo strumento su cui fondare una nuova visione del
pianeta all’interno della quale i valori del paradigma moderno
restano inalterati, per i critici più radicali rispetto al credo della
crescita essa diventa uno strumento complementare da
subordinare - come l’economia - alle esigenze etiche e sociali
della società garantendo a tutti gli uomini una condizione di vita
migliore, basata su una ricchezza reale.
La declinazione qualitativa e sociale del concetto di entropia non
si oppone cioè alla sua trascrizione quantitativa e tecnologica,
ma richiede l’abbandono della visione strumentale a favore di
una continua ricerca sul senso dell’agire umano e sulle direzioni
che l’utilizzo dello strumento tecnologico assume nel mondo. Non
una completa rinuncia alla tecnologia, ma una valutazione
dell’intervento non più sulla scala della possibilità tecnologica,
quanto su quella della comprensione scientifica e del reale
benessere umano.
Secondo un atteggiamento politico e progettuale, in cui il tema
centrale della ricerca di una scala ottimale, anziché della crescita
illimitata, richiede cioè una valutazione del benessere economico
- e quindi della ricchezza - completamente diversa da quella
implicita nel tradizionale uso del Prodotto Nazionale Lordo come
indicatore fondamentale del progresso. Se tra l’idea di crescita e
quella di sviluppo si era prodotta nel tempo una marcata
coincidenza semantica, a partire dagli anni settanta sono proprio
le ricerche di architetti come Soleri, ma anche di economisti
come Nordhaus e Torbin o Daly e Crobb, a sottoporre questo
indice ad una critica serrata richiedendo un nuovo passaggio
7
dalla crematistica all’oikonomia , dall’idea che ‘più si ha meglio è’
alla determinazione di ciò che è sufficiente, dalla nozione di
abbondanza a quella di qualità (Daly, Crobb; 1989). Secondo un
punto di vista per il quale una semplice crescita nella scala della
produzione o dell’innovazione tecnologica non rappresenta
necessariamente il massimo dei beni e la soluzione di tutti i
problemi, così come l’aumento del benessere economico non
coincide necessariamente con quello del benessere
complessivo.
In questo senso l’idea di frugalità di Soleri può certamente essere
avvicinata al precedente more with less di Fuller (Lima; 2010),
ma se nelle relazioni progettuali fatte dall’architetto americano il
principio viene ancora tradotto soprattutto in dati quantitativi
relativi ai singoli elementi, per l’architetto italiano la leanness
deve emergere soprattutto dall’unitarietà del risultato finale. Ciò
che egli richiede alla tecnologia ed al progetto è la
massimizzazione non dei profitti, della quantità dei consumi, della
rendita o del valore attuale delle cose materiali, ma della qualità
della vita, del benessere sociale, dei bisogni essenziali. Richiede
produzione di tempo, di informazione, di cultura e di relazioni
socievoli; di quei valori di ordine estetico, intellettuale e
8
relazionale che nel 1977 Ronal Inglehart aveva definito come
valori postmaterialisti (Inglehart; 1977). Restituendo certamente
una definizione più cauta e meno ottimistica dell’idea di
tecnologia che, in alcuni casi, sfocia in posizioni ancora più
radicali.
Se il punto di vista di Soleri può infatti essere eletto come
rappresentante di un modello d’atteggiamento di critica radicale
verso il credo della crescita che tuttavia non rifiuta
categoricamente la ricerca verso tecnologie sofisticate e
9
complesse, architetti come Yona Friedman , negli stessi anni
settanta, interpretano le proposte avanzate da Thoureau e da Mill
secondo un punto di vista certamente più estremo capace di
restituire un’ulteriore sfaccettatura dell’idea di tecnologia.
Divenuto celebre fra la fine degli anni cinquanta e i primi anni
sessanta
attraverso
la
pubblicazione
del
Manifesto
dell’architettura mobile (Friedman; 1956), l’architetto ungherese
nel corso dei decenni successivi abbandona progressivamente la
fiducia nella prefabbricazione, nelle macrostrutture e nella
tecnologia in generale a favore non solo del culto della sobrietà e
dell’essenzialità auspicato da Thoureau ma anche di una
controrivoluzione tecnologica fondata sul ritorno a forme di vita
più elementari.
Per Friedman, in particolare, la constatazione dei limiti delle
risorse e della loro esauribilità - delle scarsità naturali, ma anche
sociali e morali - deve necessariamente condurre verso la
necessità di ridurre in modo drastico i consumi e lo sfruttamento
dell’ambiente contenuta nell’idea di sopravvivenza (Friedman;
1978).
Convinto che penuria e scarsità rappresentino le madri del
progresso tecnico e sociale per tutti quei processi fondati
sull’apprezzamento della qualità della vita anziché sull’adesione
7. La crematistica viene
definita già da Aristotele
come lo studio della
ricchezza o l’arte di fare
denaro, mentre per
oikonomia si intende
l’amministrazione
dell’economia familiare che
mira a massimizzare il valore
d’uso per tutti i membri della
famiglia nel lungo periodo.
Esponenti dell’economia
ecologica come Daly e Crobb
ne evidenziano tre differenze
essenziali: l’attenzione
dell’oikonomia per una
prospettiva di lungo, anziché
di corto periodo; la presa in
considerazione della stessa
dei costi e dei benefici
dell’intera comunità e non
solo di quelli di chi partecipa
ad una transizione e il suo
interesse ai valori d’uso
concreti e alla loro limitata
accumulazione, anziché al
valore di scambio astratto e
alla sua tendenza
all’accumulazione illimitata.
Cfr. DALY, COBB;
Un’economia per il bene
comune; Red; Como; 1994.
Tit.orig. For the common
good; Beacon Press; Boston;
1989.
8. Ronald Inglehart è un
politologo e sociologo
statunitense e direttore del
World Values Survey, un
osservatorio -costituito da
una rete di sociologi estesa a
livello globale - sullo stato dei
valori politici, religiosi, morali
e socioculturali delle differenti
culture mondiali. Nel testo
The silent revolution,
pubblicato nel 1977, egli
evidenzia l’importante
cambiamento di valori
intercorso tra generazioni
nelle popolazioni delle
società industriali avanzate
sottolineandone le ampie
implicazioni politiche. Cfr.
INGLEHART; The silent
revolution; Edizioni Ambiente;
Princeton University Press;
1977.
ad un tenore di vita sempre più alto, l’architetto ungherese
propone l’architettura di sopravvivenza come controproposta
grazie alla quale imparare ad essere poveri. Un’architettura
elementare capace di facilitare i bisogni essenziali dell’uomo - la
produzione di cibo, l’approvvigionamento di acqua, la protezione
climatica ma anche la salvaguardia dei beni privati e collettivi,
l’organizzazione dei rapporti sociali e la soddisfazione estetica di
ognuno - mediante tecnologie semplici e povere, ma
profondamente innovative. Strumenti e processi - spesso definiti
come conviviali, alternativi o utopistici (Ruffolo; 1985) - non solo
a basso consumo di energia ma fondati sul concetto di natura
abitabile, cioè sull’abitabilità della natura con un impatto minimo
sulla stessa (Friedman; 2004). Nella definizione dell’architettura
di sopravvivenza l’inversione fra parametri non fisici e variabili
fisiche auspicata da Mill giunge cioè a compimento: il compito
della tecnologia non è più quello di produrre ecosistemi artificiali
come soluzioni ma di rendere abitabili, nel modo più semplice e
immediato possibile, quelli esistenti. E’ quello di trasformare il
modo in cui l’uomo impiega la natura mediante espedienti
tecnologici ed ecosistemi artificiali durevoli, riparabili e riciclabili
volti semplicemente a migliorare quelli esistenti, mediante un
nuovo atteggiamento nei confronti dell’abitare che - in coerenza
con l’idea di natura sviluppata in quegli anni [link_Natura] - ne
limiti le trasformazioni. In una prospettiva fondata sul
comportamento quanto sui mezzi.
Parallelamente alle teorie avanzate dall’economia ecologica, ma
anche da Arne Naess e dal movimento dell’ ecologia profonda
[link_Natura], per Friedman i mutamenti ideologici necessari per
superare la crisi ecologica e sociale in atto sono cioè rintracciabili
in una semplicità dei mezzi capace di rendere gli abitanti
autosufficienti, mettendo definitivamente in discussione la
questione della scala globale, oltre che il ruolo della nostra
disciplina.
Rifiutata la realizzabilità degli obiettivi universali dell’architettura
moderna e della visione di mondo prospettata dall’era
consumistica su scala mondiale, per questa posizione estrema
non resta infatti che affidarsi ad un modello contrapposto in cui
ciascuno abbia la possibilità di inventarsi autonomamente mezzi
di sopravvivenza eterogenei mirati a soddisfare il progetto di vita
desiderato. Con un definitivo superamento di quel punto di vista
tecnocratico che per Friedman è responsabile della cosiddetta
generazione dei nuovi poveri - di uomini cioè in possesso di
molto denaro ma incapaci di procurarsi le cose in quantità
sufficiente a soddisfare le norme e le convenzioni dell’epoca -,
testimonianza diretta del fatto che il problema della povertà - così
come altri - non può affatto essere risolto dal progresso
scientifico e tecnologico sostenuto dal modello dominante della
crescita illimitata.
Se Friedman si trova cioè in accordo con la critica di Fuller verso
la specializzazione, nella posizione assunta dall’architetto
ungherese questa non viene risolta - come per l’architetto
americano e per la maggior parte delle posizioni riformiste - nella
definizione della figura di un comprehensive designer pronto a
fornire soluzioni universali, quanto piuttosto in quella di un
architetto grammatico-insegnante; un docente di lingue tenuto a
trasmettere quella conoscenza del linguaggio sulla quale si
fondano i processi di auto pianificazione. Assumendo un modello
di atteggiamento che porta ad una nuova concezione
tecnologico-architettonica mirata ad ideare soluzioni flessibili e
contingenti capaci di rispondere al meglio a situazioni specifiche
- magari anche impreviste o inattese - che nei decenni successivi
troverà ulteriori applicazioni e definizioni.
Biodiversità. Trascrizioni locali.
Mentre in posizioni radicali come quella di Friedman è la fiducia
nell’auto-pianificazione [Link_Democratizzazione] e nel ruolo
defilato degli architetti a condurre verso un’idea di tecnologia
sempre meno universale e sempre più determinata dai caratteri
contingenti di ogni singola situazione, nei decenni successivi
sono gli stessi sviluppi del rapporto fra ecologia ed economia e la
loro interpretazione a livello istituzionale a calare la definizione
della stessa a livello locale restituendo così un’ulteriore
interpretazione dell’idea.
L’ingresso nell’arena politica della scienza ecologica spinge
infatti gli esponenti più radicali della disciplina economica a
sottolineare
la
dipendenza
gerarchica
della
stessa
dall’ecosistema naturale. Nel 1977 l’economista americano
Herman Daly pubblica il testo Steady-State Economics (Daly;
1977) in cui, in aperto contrasto con gli esponenti della
cosiddetta economia neoclassica, per la prima volta l’economia
viene definita come un sottosistema dell’ambiente con possibili
ripercussioni radicali sulla stessa. Negatane l’autonomia
disciplinare, in questa prospettiva, essa viene infatti chiamata a
superare i propri confini disciplinari per aprirsi alle scienze
naturali, come a quelle sociali e all’etica; ad allargare la
prospettiva ed il profilo teoretico delle sue teorie per fornire
risposte concrete e coerenti all’età del disagio (Ruffolo; 1985).
Secondo una vera e propria rivoluzione scientifica e culturale che
- per Daly così come per tutti gli esponenti dell’economia
ecologica - dovrebbe sostituire le visioni meccanicistiche e
riduzionistiche proprie del paradigma moderno con visioni
revolution; Edizioni Ambiente;
Princeton University Press;
1977.
9. Yona Friedman è un
architetto e urbanista
ungherese naturalizzato
francese. Nel 1956, al X
CIAM di Dubrovnic, il suo
Manifest de l’architecture
mobile contribuì a mettere
definitivamente in
discussione i principi della
progettazione architettonica e
urbanistica di quegli anni,
contrapponendovi
un’architettura fondata
sull’auto-pianificazione e per
questo capace di
comprendere ed
assecondare le continue
trasformazioni sociali. Cfr.
YONA FRIEDMAN; L’architettura
di sopravvivenza: una
filosofia della povertà; Bollati
Boringhieri; Torino; 2009.
prodotte in termini di relazioni; spostare l’attenzione né
sull’oggetto, né sul soggetto ma sulle storie, sulle relazioni nel
tempo.
Se cioè la fisica meccanica aveva trasmesso all’economia l’idea
che la vita traeva tutta la sua energia non da qualcosa di
autonomamente contenuto nella materia vivente, ma unicamente
dal mondo inanimato (Soddy; 1922), l’apporto della conoscenza
ecologica alla teoria economica comporta esattamente il
contrario. Chiamando la disciplina a rompere i propri legami con
le scienze ‘reversibili’ per fondarsi su scienze senza fondamenti e
in divenire - biologiche e termodinamiche - per le quali la
riduzione del sistema vivente a quantità non sia più possibile; ad
orientarsi verso una visione progettuale evoluzionistica capace di
confrontarsi con il comportamento dinamico dei sistemi e con la
loro eterogeneità, oltre che con gli aspetti del tempo,
dell’incertezza e della irreversibilità dei processi ecologici, come
di quelli economici e progettuali (Ceruti; 1995. Prigogine; 1997).
Se cioè i sostenitori di una nuova civilizzazione tecnologica più
consapevole rispetto alle questioni ambientali - dagli esponenti
dell’economia ambientale alle figure della corrente culturale
riformista – in quegli stessi anni continuano a fornire risposte
universali quantitative ed astratte, prive di alcun confronto con il
territorio, fra gli esponenti dell’economia ecologica e le figure più
radicali dell’ambito progettuale inizia a diffondersi la
consapevolezza nel fatto che la cultura del limite non scaturisca
solo dalla ricerca di equilibri ambientali, ma anche dal confronto
con i territori stessi e con la cultura dei luoghi. Introiettando nel
dibattito sulla sostenibilità la questione - già in auge negli anni
cinquanta - dello scetticismo diffuso circa la possibilità di
applicare grandi modelli universalistici indipendentemente dal
contesto geografico e storico. Un tema che aveva introdotto
nell’ambito progettuale due nuove dimensioni, quella
patrimoniale - ossia il riferimento ad una sedimentazione di fattori
materiali e immateriali attivati, trasformati e utilizzati come
insieme di risorse per l’innesco o il mantenimento di processi di
sviluppo - e quella relazionale - la capacità cioè degli attori locali
di costruire collettivamente delle rappresentazioni -, già presenti
nelle riflessioni degli anni settanta e ottanta di architetti come
Balkrishna Doshi, Hassan Fathy o Fabrizio Carola. Architetti indigeni e non - operanti nei paesi del terzo mondo con l’obiettivo
di sperimentare progetti in grado di dar voce all’identità nazionale
mediante una metodologia progettuale capace di intrecciare
modernità e tradizione e di relazionarsi alle specificità dei luoghi,
alla sapienza delle tradizioni, alle tecniche costruttive e ai
materiali naturali. Interpreti, forse in parte anche involontari e
inconsapevoli, del progressivo processo di frammentazione
locale non solo dell’idea di tecnologia ma, più in generale, del
dibattito sulla sostenibilità.
Se il pensiero occidentale, e tutta la produzione architettonica da
esso derivata, stava ponendo l’accento sulle soluzioni
tecnologiche esasperando le scelte dal punto di vista delle
tecniche e dei materiali impiegati e considerando risolto il
problema abitativo nell’ambito del confort ambientale attraverso
l’adozione di sistemi di controllo ambientale artificiale come gli
impianti [Link_La storia della sostenibilità in architettura], i
problemi energetici che interessano il mondo industrializzato a
partire dagli anni settanta mostrano la fragilità di questo
approccio rinnovando l’interesse per esperienze costruttive
‘popolari’, fatte di adesione ai luoghi, al clima e alle risorse locali.
Basate non più su un approccio correttivo, ma sostanziale e
sostanziato dall’uso, ma anche dalle capacità, dalle risorse, dalle
preesistenze.
In questo senso, sulla linea definita dall’idea di sopravvivenza di
10
Friedman, l’architetto egiziano Hassan Fathy , in particolare,
conquista l’attenzione internazionale con la pubblicazione nel
1973 del suo libro Architecture for the Poor (Fathy; 1973). Un
testo nel quale egli descrive nei dettagli l’esperienza - mai
terminata - relativa alla progettazione e alla realizzazione del
villaggio di Gourna, costruito vent’anni prima con mattoni di terra
cruda secondo i concetti architettonici egiziani tradizionali: le
11
case con i cortili, i claustra, il malqaf, i mashrabiya , le logge, gli
archi e i tetti a forma di cupola.
La qualità e i valori inerenti la risposta tradizionale
dell’uomo all’ambiente - scrive l’architetto
all’interno del suo testo - dovrebbero essere
conservati senza rinunciare al progresso
scientifico. La scienza può essere applicata a vari
aspetti del nostro lavoro, se, allo stesso tempo, è
subordinata alla filosofia, alla fede, alla spiritualità.
(Fathy; 1973)
Ricordando posizioni e termini assunti da Soleri, Fathy ne ricalca
anche i principi: l’assoluta priorità dei valori umani e l’uso di
tecnologie appropriate. Ma rispetto a questi applica le sue idee in
un contesto specifico, evidenziando l’importanza dell’uso di
tecnologie in grado di consentire la cooperazione degli
utilizzatori, ma anche il ruolo essenziale della tradizione e,
soprattutto, il risveglio - tramite l’architettura - dell’orgoglio per la
cultura nazionale.
A Gourna, opponendo ad un progetto di case costruite con telai
in cemento un villaggio realizzato in maniera tradizionale, il suo
10. Nato ad Alessandria nel
1900, l’architetto, ingegnere e
professore egiziano Hassan
Fathy ha dedicato la sua
carriera allo studio di
soluzioni residenziali nei
paesi in via di sviluppo con
l’obiettivo di sostenere
l’economia e migliorare gli
standard di vita nelle aree
rurali. La sua ricerca
progettuale si fonda sul ruolo
essenziale che l’architetto
attribuisce alla tradizione e
sulla sua volontà di
risvegliare l’orgoglio per la
cultura nazionale proprio
tramite l’architettura e l’uso di
tecnologie appropriate. Il suo
intervento più significativo è
certamente quello realizzato,
anche se solo in parte, fra il
1946 e il 1953 a Gourna, un
villaggio presso il famoso sito
archeologico di Luxor nel
quale Fathy propose di
sostituire un progetto di case
costruite in cemento armato
con uno di case realizzate
dagli stessi abitanti con
mattoni di terra cruda. Cfr.
Fathy; Construire avec le
people. Historire d’un village
d’Egypte: Gourna; Sindband;
1970.
11. Claustra, malquaf e
mashrabiya rappresentano
elementi caratteristici dei
sistemi di ombreggiamento e
di ventilazione
dell’architettura vernacolare
egiziana. I claustra sono dei
graticci ricavati da pannelli di
gesso originariamente
utilizzati negli edifici termali
romani per schermare le
grandi aperture poste nelle
zone elevate, mentre il
malquaf, o captatore del
vento, consiste in un pozzo
situato sopra l’edificio e
provvisto di un’apertura
affacciata sui venti prevalenti.
Il mashrabiya indica invece
delle aperture schermate da
una griglia di legno formata
da piccole balaustre lignee di
sezione circolare, disposte ad
intervalli regolari a formare
obiettivo non è cioè tanto quello di dimostrare che si possono
costruire case in maniera più economica rispetto a quelle
europee, ma soprattutto quello di risolvere un problema sociale:
incoraggiare l’industria edile a fare a meno di materiali e
tecnologie di importazione - come il calcestruzzo armato - e
fornire agli abitanti poveri della zona un lavoro e delle
competenze spendibili anche in seguito. Motivo per il quale egli
stesso insegna loro la costruzione in mattoni di terra cruda, di
archi, cupole, volte tradizionalmente diffusi nella regione.
Quella che Fathy propone è la configurazione di legami con
antichi principi legati all’esperienza degli uomini; la sostituzione
del Magistero Sperimentale con quello Esperenziale (Trombetta;
12
2002), a favore di un’idea di tecnologia che Rosario Giuffrè
definisce adattiva (Giuffrè; ). Una tecnologia cioè capace di
modificare le proprie funzioni e la propria struttura per
corrispondere alle condizioni contestuali, relazionarsi alla storia,
ai singoli individui, alle comunità.
Negli scritti dell’architetto egiziano, termini come appartenenza,
tradizione, riconoscibilità emergono come centrali portando ad
una definizione di tecnologia intesa come reinterpretazione
dell’esistente. Come elemento conforme ai presupposti culturali,
tecnici, materici e ambientali del campo di intervento inteso come
luogo riconoscibile delle trasformazioni necessarie e necessitate
dalla domanda d’uso locale.
Tuttavia, se parte dell’impianto teorico del progettista sembra far
emergere con forza la volontà di prefigurare una direzione
strategica capace di indicare una molteplicità di soluzioni
progettuali alternative tutte radicate nel contesto culturale
piuttosto che norme progettuali e formali cogenti, alcuni capitoli
13
dei suoi scritti , così come parte del suo lavoro, sembrano far
riemergere la tentazione di affrontare il tema attraverso la fisica
tecnica e la mera trascrizione di soluzioni formali tradizionali,
rendendo ambiguo e sottoponendo a una forte critica la sua
posizione. Fra gli anni settanta e ottanta, inoltre, i tempi non sono
forse maturi per le riflessioni avanzate da Fathy e lo stesso
esperimento proposto a Gourna fallisce, ma l’influenza del suo
costrutto teorico sul dibattito resta comunque innegabile.
La logica di investimento nelle risorse locali proposta
dall’architetto egiziano viene, per esempio, ripresa dal
movimento Intermediate Technology - in seguito denominato
Appropriate technology - fondato dall’economista Ernst Friedrich
14
Schumacher
che, nello stesso anno della diffusione di
Architecture for the Poor (Fathy; 1973) pubblica il testo Smalli is
beautiful (Schumacher; 1973). Un testo nel quale l’autore, proprio
come Fathy, definisce la produzione basata su risorse locali per il
soddisfacimento di bisogni locali come il modo più razionale di
esprimere la vita economica, criticando invece la dipendenza
dalle importazioni, e il conseguente bisogno di produrre per
esportare, come atteggiamento antieconomico. Segnando un
primo passo importante verso l’uscita del discorso sull’ecologia
da una prospettiva occidentale e l’inclusione di una gamma più
ampia di fonti culturali.
Secondo questo modello d’atteggiamento, il problema non è
infatti la scelta fra crescita moderna e stagnazione tradizionale,
fra tecnologie sofisticate e tecnologie primitive, ma
l’individuazione di un giusto sostentamento, di un giusto corso
dello sviluppo fondato su tecnologie appropriate. E’ quello di
coniugare con tecnologie d’oggi processi progettuali
contestualmente collocati; di individuare tecnologie capaci di
ottenere una buona produttività senza ricorrere all’alta intensità di
capitale proprio delle tecnologie troppo raffinate.
E se gli sforzi di Fathy falliscono nell’immediato, è possibile
ritrovare la sua enfasi su questi temi nelle retoriche di molti
architetti che, nei decenni successivi, iniziano a ridimensionare il
loro ruolo a favore di progetti e tecnologie capaci di sottostare ai
valori sociali dei luoghi. Soprattutto nei paesi del terzo mondo.
Nel 1978 l’architetto indiano Balkrishna Doshi avvia in India una
nuova ricerca sull’edilizia residenziale locale a basso costo
fortemente focalizzata sui legami tra la cultura occidentale e
quella orientale [Link_Democratizzazione] che segna l’inizio di un
nuovo percorso nella sua ricerca progettuale. Fortemente legato
al movimento dell’Architettura Moderna e all’internazionalismo
modernista nei decenni precedenti, negli anni ottanta Doshi inizia
infatti a contaminare l’ispirazione lecorbusiana che aveva
caratterizzato i suoi lavori fino a quel momento con un
collegamento esplicito alla cultura indiana in termini di spazialità,
di materiali e di rapporto con l’acqua facendo emergere il conflitto
interiore vissuto da molti architetti del sud del mondo nel loro
tentativo di assimilare le tecnologie ‘sviluppate’ occidentali con la
propria cultura e i propri valori. Nella realizzazione di edifici come
il piccolo museo Hussain Gufa nel campus di Ahmedabab egli, in
particolare, utilizza un approccio locale tradotto nell’utilizzo di
materiali umili disponibili sul posto - quali la terra e frammenti di
piatti rotti - e di una tecnologia costruttiva locale - basata, come
auspicato da Fathy, più sul lavoro degli uomini piuttosto che sulle
attrezzature - usata da secoli per la costruzione di tempietti
reliquari. Evidenziando come continuare a considerare la
generazione di Doshi come la protagonista di una lotta
apertamente positiva per il progresso sia una lettura inadeguata
(Steele; 2005), che tralascia completamente le discrepanze
individuate fra i principi internazionalisti moderni e la realtà
elementare del costruire in un paese in via di sviluppo - fra la
una griglia di legno formata
da piccole balaustre lignee di
sezione circolare, disposte ad
intervalli regolari a formare
delle decorazioni minute di
tipo geometrico. Cfr.
Trombetta; L’attualità del
pensiero di Hassan Fathy
nella cultura tecnologica
contemporanea; Rubettino;
Soveria Mannelli; 2002.
12. Rosario Giuffré è
professore ordinario di
Tecnologia dell’Architettura
presso l’Università degli Studi
di Firenze. Lavora sui temi
riguardanti gli aspetti
metodologici disciplinari e le
questioni operative sulla
cultura tecnologica della
progettazione ambientale, sul
problema della complessità
attraverso la definizione di
processi compatibili e
possibili per il governo delle
trasformazioni dei luoghi. Cfr:
Giuffrè, Glossario di
Progettazione Ambientale
dell’Unità di Ricerca
TEMENOS. Disponibile sul
sito
www.unirc.it/dastec/temenos.
13. Al riguardo si veda, per
esempio, il testo Natural
Energy and Vernacular
Architecture: principles and
examples with reference in
hot arid climates pubblicato
per l’United Nation University
dall’University Chigago Press
nel 1986. Dopo una prima
parte dedicata al rapporto fra
uomo, ambiente e
architettura, la seconda parte
del testo è completamente
dedicata al rapporto fra
architettura e comfort,
toccando argomenti quali il
fattore solare, il fattore eolico
e i flussi d’aria, il fattore
umidità. Cfr. Trombetta;
L’attualità del pensiero di
Hassan Fathy nella cultura
tecnologica contemporanea;
Rubettino; Soveria Mannelli;
2002.
propria formazione occidentale e la propria cultura d’origine - dai
suoi stessi protagonisti.
Se infatti Doshi avvia la ricerca del sincretismo in India, negli
15
stessi anni, l’architetto italiano Fabrizio Carola inizia la sua
ricerca verso l’invenzione e la divulgazione di soluzioni
tecnologiche appropriate alle risorse africane.
Figlio di un impresario italiano, l’architetto-costruttore - uomo del
progresso - viene a contatto con la sfera della necessità durante i
suoi primi viaggi in Africa negli anni settanta. In Mali e in Nigeria
egli si scontra con i discutibili risultati ottenuti dall’imposizione
della civiltà occidentale e delle sue tecnologie in questi paesi per
poi recarsi in Egitto e scoprire i lavori di Hassan Fathy. La
riflessione su questa figura e sulle esperienze personali
precedenti lo portano a convincersi del fatto che - in modo simile
a quanto avvenuto in Egitto - la scienza mediterranea delle
costruzioni potrebbe instaurare un dialogo altrettanto fecondo,
sia dal punto di vista culturale che da quello economico, con la
cultura africana ed i suoi artigiani. Un obiettivo tuttavia a suo
avviso
raggiungibile solo attraverso l’instaurazione di uno
scambio culturale tra pari (Contal, Revedin; 2009).
Riferendosi costantemente all’architettura spontanea e agendo
sui significati che entrano nella costruzione delle forme, Carola
mette così a fuoco un repertorio di soluzioni e di segni che
ricorrono all’interno del continuo divenire della tradizione per
sottoporli al procedimento logico del progettare e con essi
arricchire l’habitat di quegli stessi ambienti dai quali vengono
prelevati. Definendo un atteggiamento per il quale i materiali da
costruzione tipicamente locali, la realizzazione di edifici nel pieno
rispetto delle tradizioni culturali e delle specifiche realtà in
funzione delle necessità e dei costumi propri delle popolazioni
locali e il loro diretto intervento nel processo di costruzione
rappresentano mezzi con cui migliorarne le condizioni di vita.
Ma quella messa in atto dall’architetto italiano non è affatto una
semplice trascrizione delle tecnologie locali, quanto una loro
reinvenzione. Venuto a conoscenza del metodo del compasso
ligneo mediante il lavoro di Fathy, egli - a differenza di quanto
fatto dall’architetto egiziano - ne modifica le caratteristiche, ne
varia la geometria, l’assetto e l’asse di rotazione con piccole
innovazioni che gli consentono di ottenere una gamma più ampia
di soluzioni spaziali capaci di una maggior efficacia nell’uso dello
spazio interno, ma anche di una migliore ventilazione; così come
per l’Ospedale di Kaedi la vulnerabilità alla pioggia dei
tradizionali mattoni essiccati al sole viene risolta dal progettista
attraverso la loro inusuale cottura in un forno alimentato non da
legna ma da materiale di scarto delle produzioni locali: lo studio
delle tecnologie locali, sotto questa diversa accezione, diventa
cioè non un punto di arrivo ma un punto di partenza per un
processo di miglioramento delle stesse da sviluppare in funzione
delle esigenze contingenti. Mettendo fondamentalmente in atto
quanto auspicato da Fathy.
L’idea di tecnologia insita nelle retoriche di Carola, in particolare,
viene arricchita da una rinnovata attenzione verso la materia su
cui insiste ogni luogo, verso la forma che questa materia
definisce e le relazioni tra questi elementi. Le cupole
dell’ospedale sono a doppia calotta in modo tale che
l’intercapedine fra i gusci garantisca un efficace isolamento
termico, alla base delle cupole vi sono bocchette di ventilazione
che consentono il passaggio dell’aria nell’intercapedine, il
meccanismo costruttivo del compasso ligneo rende le cupole
autoportanti, e quindi estremamente semplici ed economiche,
durante le fasi di costruzione: i ragionamenti tecnici stimolati
dalla questione ecologica restano vivi nel suo pensiero, ma
vengono calati nel luogo mediante la materia.
In questo senso, la terra, sia cruda sia sottoforma di mattone
cotto diventa il materiale privilegiato dall’architetto perché lavora
bene a compressione, è facilmente reperibile e producibile in
sito, mentre volte, archi e cupole rispondono efficacemente ai
criteri di economicità e rapidità di esecuzione: la materia si fa
elemento strategico del comporre e il processo che regola l’uso
del materiale determina necessità e specificità anche figurative.
In una prospettiva in cui le tecnologie non vengono più scelte a
priori, per la loro valenza innovativa, ma vengono determinate da
tutti i dati del luogo: il clima, le condizioni sociali dei
futuri utenti, i materiali e i mezzi disponibili, la
qualità della manodopera, il budget disponibile, il
tempo di consegna.
(Carola. In Alini; 2007)
E la ricercata economia del progetto - e con essa anche la sua
riuscita - non deriva più solo dalla scelta di tecnologie semplici ed
economiche, realizzabili dalla stessa popolazione locale, ma
soprattutto dal loro rapporto con materia, funzione e forma.
Negli anni in cui la cultura architettonica dominante continua a
sostenere l’idea di un nuovo stile internazionale, Carola,
rivolgendo lo sguardo verso un orizzonte apparentemente
marginale come l’Africa, si fa portavoce di un atteggiamento che
mette a sistema e divulga un sapere tecnico locale che si era
perso, aprendo le porte, come auspicato da Schumacher, a fonti
culturali diverse da quelle occidentali.
Se infatti le esperienze di Fathy e Carola negli anni ottanta
restano iniziative piuttosto isolate e rivolte a paesi in via di
2002.
14. Ernst Friedrich
Schumacher fu un influente
filosofo ed economista
tedesco. Il suo libro Smalli s
beautiful, pubblicato per la
prima volta nel 1973, venne
tradotto in molte lingue
diffondendo la profonda
critica dell’autore verso le
economie occidentali e le sue
proposte per l’adozione di
tecnologie umane,
decentralizzate ed
appropriate. Cfr.
SCHUMACHER; Piccolo è bello:
uno studio di economia come
se la gente contasse
qualcosa; Mondadori; Milano;
1978.
15. Figlio di un impresario
napoletano, Fabrizio Carola
lavora da trentacinque anni
all’invenzione di una tecnica
e un’arte costruttiva
appropriate alle risorse
africane. Formatosi alla
Scuola Nazionale Superiore
d’Architettura di Bruxelles,
nel 1967 deposita un brevetto
sul cemento armato che gli
vale il riconoscimento del
Regolo d’Oro; ma è il suo
primo viaggio in Mali nel
1971 a dare una svolta alla
sua carriera avviando i suoi
studi sulle tecniche e i
materiali della tradizione. In
Africa, per conto di
organizzazioni non
governative, conduce una
serie di ricerche sull’abitare e
sulle tecniche costruttive
tradizionali rivolgendo la sua
attenzione prevalentemente
alle relazioni tra materia e
luogo. Cfr. Carola; Vivendo,
pensando,
facendo…memorie di un
architetto; Intra Moenia;
2009.
sviluppo, nel decennio successivo le istituzioni europee stesse
divengono simbolo di un vero cambiamento.
A cavallo fra gli anni ottanta e gli anni novanta, mentre
l’affermazione della necessità del limite viene riconosciuta a
livello internazionale [link_La storia della sostenibilità in
architettura] e alcuni architetti iniziano a parlare degli edifici come
sistemi integrati [link_Natura], su più fronti si inizia a riconoscere
come fino a quel momento il limite sia stato interpretato
prevalentemente in termini riduttivi, isolato dagli elementi
progettuali come un concetto ‘in negativo’ di natura quantitativa,
riconoscendo l’apertura della svolta ecologica a ben altri approcci
di natura propositiva. Il punto di vista proposto dagli esponenti
dell’economia ecologica, così come dalle posizioni più radicali
dell’etica ambientale [link_Natura], implicava infatti uno
spostamento di fondo di tipo epistemologico, una dimensione del
pensare e dell’agire, completamente diversa dalla dominante
ragione strumentale e dal suo correlato tecnologico, che poneva
al centro i modi di vita e le ragioni che li percorrevano: una
razionalità comunicativa e relazionale che inizia ad esprimersi nel
riconoscimento del valore territoriale endogeno (Ferraresi; 2011).
In ambito economico, la critica alla disciplina cambia fronte
d’attacco spostandosi dalle contraddizioni interne del capitalismo
alle frontiere esterne della stessa: le sue relazioni con l’ambiente
naturale e l’ambiente sociale. Nel 1989, con la pubblicazione del
testo For the common good, gli economisti americani John Cobb
e Herman Daly - in quel momento membro della Banca Mondiale
- sferrano un forte attacco verso quella metamorfosi
epistemologica che aveva portato ad un altissimo livello di
astrazione del modello economico riducendo la società ad un
campo gravitazionale assimilabile al mercato nel quale particelle
indipendenti l’una dall’altra - gli uomini - agiscono mossi dalla
semplice forza della massimizzazione del profitto. Una
semplificazione che, se per i due economisti poteva essere
accettabile per una disciplina che mirava ad essere una ‘scienza
esatta’ all’interno di un contesto in cui era possibile assumere di
essere lontano dai limiti - biofisici ma anche etico e sociali -,
diventava intollerabile nel momento in cui l’economista, dismesso
il camice bianco della scienza pura, si faceva politico in una
realtà nella quale non era più possibile ignorare le scarsità
assolute e non considerare l’ambiente come motivo di
preoccupazione.
L’economia viene cioè chiamata da parte dei suoi stessi
rappresentanti ad abbandonare i valori che ne avevano costituito
le basi per ricostruire il substrato fisico del suo ragionamento e
reinserire l’economia umana nella più generale economia del
vivente.
Pochi anni dopo, inoltre, la Conferenza delle Nazioni Unite su
Ambiente e Sviluppo, tenuta a Rio de Janeiro nel 1992, spinge il
dibattito internazionale oltre il tema della scarsità esprimendo
significativamente l’affermazione di un altro valore: quello della
biodiversità. Un valore non solo difensivo, ma qualitativo e
progettuale che ben presto entra a far parte anche delle
riflessioni etico-culturali. Al di là dei limiti del Rapporto elaborato
a Rio [link_La storia della sostenibilità in architettura], la
rivendicazione della biodiversità come ricchezza ambientale negli
anni successivi viene infatti accolta, fin dal principio, da diversi
ambiti culturali in forte intreccio alla rivendicazione della diversità
culturale e degli stili di vita come ricchezza delle forme di
civilizzazione e delle economie, richiedendo sia alla scienza che
alla tecnologia un profondo e radicale mutamento di rotta.
Se l’economia della saggezza (Daly; 1996) sollecitava infatti i
tecnologi nel fornire soluzioni economiche, accessibili, compatibili
con il bisogno di creatività dell’uomo e adatte ad essere applicate
su piccola scala, il concetto di biodiversità aggiungeva a queste
richieste una rivendicazione di singolarità che presto emerge in
ambito istituzionale, così come in quello progettuale.
Nel ciclo di programmazione compreso fra il 1994 e 1999, gran
parte delle risorse comunitarie vengono indirizzate ad iniziative
locali per lo sviluppo che impongono la mobilitazione dal basso di
energie, risorse, competenze e saperi, mentre anche architetti di
fama internazionale iniziano a sentire il dovere di farsi
coinvolgere, almeno nelle retoriche, dal dibattito sulla dialettica
fra dimensione macro e dimensione micro, fra globale e locale.
In questo senso, è significativo l’intervento di Renzo Piano a
Noumea, in Nuova Caledonia. Il progetto del Centro Culturale
Kanak è infatti costruito su una retorica di legittimazione fondata
sulla volontà di sottolineare l’attenzione rivolta alle qualità
peculiari dei luoghi e l’importanza dell’ascoltare, capire e
conoscere culture distanti da quelle occidentali, contro gli
interventi astratti, deterritorializzati, omologanti ed esogeni propri
dei modelli di sviluppo dominanti. Niente di nuovo rispetto a
quanto sostenuto alcuni decenni prima da precursori come
Fathy, Doshi o Carola, ma il riconoscimento internazionale
attribuito a Piano rende il messaggio molto più forte di quanto
avvenuto precedentemente contribuendo a diffondere un punto di
vista fino a questo momento rimasto circoscritto all’interno di
esperienze locali isolate - spesso ritenute marginali - e poco
conosciute.
Una prospettiva che, schierandosi apertamente contro l’idea di
crescita senza limiti, anche nei paesi occidentali, inizia ad
interpretare il progresso tecnologico e scientifico in funzione di
quello etico e morale, provando così a colmare quel divario fra i
due - inarrestabile il primo e inesistente il secondo - che si
registra nella nostra modernità. Con la definizione di una diversa
idea di tecnologia che - abbandonato il ruolo di simbolo della
modernità - si carica della propria responsabilità etica con
l’obiettivo di farla prevalere sulle questioni mercantili, commerciali
e tecniciste.
Secondo una lezione di sobrietà che, pur partendo da
presupposti simili a quelli posti alla base delle riflessioni di
architetti come Friedman, non implica affatto una rinuncia a
risposte tecnologiche avanzate, ma richiede un loro utilizzo non
invadente e la capacità di rinnovarsi e di rispecchiare la diversità
senza mimetizzarsi. In occidente, come nei paesi in via di
sviluppo.
Identità e sviluppo. Declinazioni politiche.
Negli anni di passaggio fra il XX e il XXI secolo il riconoscimento
delle identità e delle differenze diviene quindi un valore fondante
per molte iniziative anche lontane dai paesi del terzo mondo.
L’incontro tra sedimenti del patrimonio territoriale - manifesti e
latenti - e la loro interpretazione innovativa in chiave di
sostenibilità si trova infatti alla base di processi progettuali che,
se in parte vengono stimolati dalle energie sociali insorgenti dalle
nuove povertà, dall’altra vengono prodotti semplicemente da una
nuova consapevolezza rispetto alla necessità di costruire società
locale, nuove interazioni fra le popolazioni e il loro territorio. Sulla
linea di un processo che sembra muoversi in una direzione
diametralmente opposta al tecno ambientalismo cavalcabile solo
dai grandi e dall’industria.
Se, fra gli anni novanta e il primo decennio di questo secolo,
16
17
architetti come Thomas Herzog o Stefan Benish si schierano
infatti con la parte più avanzata dell’industria, incentrando la loro
attenzione sullo sviluppo di tecnologie ecologiche - durature e a
basso costo per il primo, a basso consumo e con una forte
componente di condivisione sociale per il secondo - mediante un
rapporto costante proprio con il mondo della produzione
18
industriale, architetti come Samuel Mockbee e Andrew Freear
partono da una critica radicale dell’industrialismo per farsi
sostenitori della decrescita mediante un’architettura della
decenza (Contal, Revedin; 2009). Definendo, ancora una volta,
la coesistenza di prospettive e idee contrastanti: mentre il punto
di vista riformista - volto verso una società hi-tech - conduce allo
sviluppo dell’architettura climatica e ambientale e di tecnologie
complesse, raffinate e sofisticate, quello radicale pensa ad una
società low-tech rivoluzionata non da interventi emblematici
sporadicamente finanziati da soggetti forti - come i ministeri, le
università o i magnati industriali -, ma da piccoli interventi
semplici e diffusi gestiti ed incidenti dalla e nella sfera del
quotidiano.
Nel primo caso, è la questione energetica a rimanere centrale:
per architetti come Behnisch - ex studente di economia l’economia dell’energia deve essere cambiata a favore di un
nuovo sviluppo capace di trasformare gli obiettivi e le attività
sociali dell’uomo. L’architettura deve dare forma alla società
costruita sul nuovo patto energetico ma i protagonisti del
processo non cambiano: è attraverso la collaborazione con le
avanguardie industriali del proprio tempo che i problemi possono
essere risolti e a definire le basi etiche, sociali ed economiche
della città sostenibile devono ancora essere pochi soggetti industrie, centri di ricerca, università - eletti ad ‘inventori’ della
società futura.
Nel secondo, invece, è il rapporto con la realtà sociale ed
economica a diventare determinante; il confronto con le risorse
disponibili e con le popolazioni locali. Con - come mostra
l’atteggiamento proposto dal Rural Studio - un radicale
capovolgimento della gerarchia dei ruoli e della conoscenza.
Nei territori meridionali degli Stati Uniti, in particolare, la crisi
degli anni novanta non fa che confermare l’idea che
l’industrializzazione non fosse altro che una diversa forma di
19
colonialismo. La cosiddetta black belt era stata colonizzata
prima dall’industria del cotone, in seguito fallita, e poi da quella
dei semi di soia, che aveva impoverito i fertili terreni dell’area per
poi fallire a sua volta: anziché sviluppo l’industrializzazione aveva
cioè portato lo sfruttamento delle risorse da parte di attori esterni.
Consapevole di questo Samuel Mockbee nel 1992 fonda presso
la Auburn University il Rural Studio, proprio con l’obiettivo di
fornire al profondo sud una via di salvezza, che l’architetto
americano individua nella possibilità di utilizzare la costruzione e
lo sviluppo di tecnologie semplici ma innovative come leva
economica e l’architettura come leva culturale.
Avviato come esperimento pedagogico attraverso il quale porre
gli studenti a contatto diretto con la realtà, lo studio diventa un
laboratorio di architettura sociale e sostenibile fondato sulla
volontà di utilizzare i mezzi a disposizione nell’area di intervento
e un processo continuo di confronto con i committenti per
individuare delle soluzioni pratiche - sostituitesi alle astratte
conoscenze scolastiche - in grado di dar vita a una nuova società
locale.
In Alabama - uno stato troppo povero per sostenere sistemi
energetici sofisticati o costosi-, insieme progettisti, studenti e
famiglie locali progettano, costruiscono e riciclano materiali alla
portata di tutti; realizzano case essenziali ma spaziose e
16. L’architetto tedesco
Thomas Herzog viene
considerato uno dei massimi
esponenti nel campo
dell’architettura bioclimatica.
Grazie ad un costante
rapporto con il mondo della
produzione industriale ha
sviluppato un’ampia
conoscenza delle dinamiche
correlate ai processi
costruttivi e dal 1974 la
questione dell’uso di energie
rinnovabili in architettura
rappresenta il fulcro di tutta la
sua sperimentazione sia nei
progetti realizzati che nella
ricerca universitaria.
Considera gli edifici parte di
una nuova dimensione di
equilibrio energetico
corrispondente al quartiere
urbano, in cui deve essere
controllato ogni elemento di
consumo e di produzione
energetica. Cfr. Herzog;
Solar Energy in architecture
and urban planning; Prestel;
Munich-New York 1996.
17. L’architetto tedesco
Stefan Benisch è considerato
uno dei pionieri del dibattito
sull’architettura sostenibile
intesa, per definizione dello
stesso autore, come
architettura climatica e
ambientale. Nato a Stoccarda
nel 1957, Stefan è figlio di
Günter Benisch, figura
importante dell’architettura
tedesca. A partire dagli anni
ottanta lavora fra l’Europa e
l’America dove, dopo la
realizzazione della sede della
Genzyme a Cambridge nel
Massachusetts viene
considerato un esperto del
settore. Convinto che la
questione energetica sia
anche più strategica e
determinante per il nostro
futuro, lavora con società di
ricerca all’avanguardia nel
settore delle nuove
tecnologie energetiche
investendo le proprie
capacità in programmi,
spesso molto raffinati, per
quegli attori - industrie, centri
importanti strutture per servizi e spazi pubblici pensati ‘con’ e non
‘per’ gli abitanti con l’obiettivo di recuperare le condizioni
abitative, ma anche di ristabilire il tessuto sociale e rivitalizzare le
piccole città. Mediante un processo attraverso il quale il Rural
Studio oppone sia al conservatorismo compassionevole proprio
della politica - diventato peraltro nel 2001 la dottrina di George
Bush - che all’ottimismo determinato dell’atteggiamento riformista
uno sviluppo capace di contare su se stesso, sui propri bisogni
ma anche sulle proprie capacità, di cui l’architettura rappresenta
sia strumento che risultato.
In una prospettiva nella quale le tecnologie proposte non vanno
valutate solo e tanto per la loro capacità di lavorare con materiali
poveri e riciclati, quanto per il loro spessore politico e culturale:
ridotto lo slancio utopistico e idealistico degli anni novanta, oggi il
Rural Studio diretto da Freear non propone infatti un’architettura
idealistica, ‘selvaggia’ e fragile, ma un’architettura contenuta ed
essenziale dettata dalla necessità. Una tecnologia nella quale la
creatività sfida la povertà richiedendo il contributo delle imprese,
stimolando l’economia locale e progettando una rivitalizzazione
dell’intera società.
In questo senso, la stazione dei vigili del fuoco di Newbern è
emblematica. Rilocalizzata al centro della città per contribuire alla
vita pubblica, questa grande struttura di legno e metallo è
caratterizzata da alte qualità costruttive ed estetiche. La
costruzione è basata sull’utilizzo di piccoli elementi
immediatamente disponibili sull’area e poco costosi, ma
assemblati e finiti con precisione e cura: con la definizione di un
approccio in cui è la qualità raggiunta dalla ricerca tecnologica e
progettuale ad ottimizzare il materiale, all’interno di una ricerca
che lo studio sta sperimentando anche in ambito residenziale.
In modo analogo a quanto proposto da Aravena in Cile
[link_Democratizzazione], Freear e i suoi collaboratori stano
infatti cercando di ottenere un alloggio prototipo del costo di
20.000 dollari, non a caso l’equivalente del prestito concesso dal
programma USDA Rural Development alla fascia più povera
della popolazione. Destinando metà della somma alla
manodopera e metà ai materiali necessari, i primi esempi di
queste abitazioni non rinunciano né a riprendere elementi propri
dell’architettura locale, né all’attenzione verso accorgimenti
tecnici richiesti dal dibattito sulla sostenibilità: verande,
ventilazione incrociata e gradi aggetti del tetto per combattere il
calore diventano elementi esemplari di un progetto essenziale
che tuttavia non rinuncia alla qualità. Secondo una presa di
posizione politica fondata sull’idea che l’utilizzo di tecnologie
semplici non significhi necessariamente il costituirsi di limiti
progettuali e che, grazie alla qualità dell’idea, della progettazione,
dei particolari e dell’esecuzione, anche un materiale rudimentale
possa permettere non solo la costruzione di un’opera raffinata,
ma anche l’avvio di un processo di rinascita.
E, sebbene sia esageratamente ottimistica l’immagine di un
mercato delle imprese pesantemente influenzato dalle pressioni
esercitate sia dalle sempre più diffuse situazioni di necessità - a
nord e a sud del mondo -, sia da ‘consumatori sempre più
consapevoli’, esperienze come quelle del Rural Studio in
Alabama rappresentano certamente un segnale del fatto che
l’interesse dell’industria verso le questioni sociali sta crescendo,
delineando una nuova sfaccettatura dell’idea di tecnologia che
potrebbe mettere definitivamente in dubbio l’opposizione storica
fra i sostenitori dell’industria e quelli della decrescita.
Non potrebbe infatti essere possibile un rinnovamento
dell’economia basato sul riconoscimento del valore potenziale
del patrimonio territoriale, su una visione coevolutiva e
processuale del territorio capace di generare effetti specifici e
retroazioni sulle tecnologie e sulle organizzazioni? E non
potrebbe essere proprio la ricerca tecnologica a stimolare questo
tipo di approccio?
Una prima novità di quest’ultimo decennio sembra risiedere nel
fatto che una risposta positiva a queste domande potrebbe
giungere non più da paesi o aree sottosviluppate, lontane da
un’industria avanzata, ma da regioni che su questa industria
hanno costruito la loro forza. In ambito istituzionale, il Vertice
Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile tenutosi a Johannesburg nel
2002 ha rappresentato il primo momento di riconoscimento
internazionale dell’idea che la crescita economica non sia la base
dello sviluppo mentre, in ambito progettuale, un nuovo
atteggiamento fondato su questa convinzione sta emergendo
anche in regioni ricche, lontane dalla cosiddetta sfera della
necessità.
Basti pensare, per esempio, al modello d’atteggiamento proposto
non solo dai progettisti, ma dall’intera comunità del Voralberg,
una ricca regione austriaca che ha cambiato e sta cambiando la
propria identità anche, se non soprattutto, grazie al forte
coinvolgimento politico e sociale dei suoi architetti. Qui l’élite
locale - in gran parte costituita dai progettisti e dagli ottimi
carpentieri del Voralberg - sta infatti chiaramente subordinando le
sue conoscenze tecniche alla civiltà con un lavoro che, andando
ben oltre la definizione di nuove tecnologie o nuove forme, sta
rendendo non solo possibile ma estremamente proficua la
collaborazione fra un punto di vista ‘avanzato’, come quello
dell’industria, e un punto di vista più ‘conservatore’ come quello
degli abitanti legati alle caratteristiche peculiari del proprio luogo
d’origine.
investendo le proprie
capacità in programmi,
spesso molto raffinati, per
quegli attori - industrie, centri
di ricerca e università - che a
suo avviso vanno eletti ad
‘inventori’ della società futura.
Cfr. Contal, Revedin;
Progettare la sostenibilità;
Edizioni Ambiente; Milano
2009.
18. Samuel Mockbee è stato
il fondatore del Rural Studio.
Professionista diventato
docente, egli voleva
insegnare agli studenti
facendoli calare nella realtà
sociale ed economica. Nel
1992 l’idea assunse la forma
di un laboratorio attraverso il
quale mandare gli allievi a
progettare e costruire case
per gli abitanti della Contea di
Hale, la regione più povera
dell’Alabama. Vent’anni dopo
il Rural Studio è ancora attivo
e sotto la direzione di Andrew
Freear - succeduto a
Mockbee dopo la sua morte ha saputo trasformarsi da
esperimento pedagogico ed
idealista ad un laboratorio
concreto di architettura
sociale e sostenibile. Cfr.
ibidem.
19. La Black Belt, chiamata così
per il colore del terreno, è una
regione molto fertile che si
estende da Newbern
all’Alabama occidentale.
20
La vicenda dei Baukünstler - così vengono chiamati gli architetti
della regione - prende avvio fra gli anni settanta e gli anni ottanta
quando essi, differentemente da quanto avvenuto in Alabama,
iniziano a comprendere il pericolo - paesaggistico e ambientale,
ma anche economico e sociale - nel quale la loro regione rischia
di incorrere: se gli abitanti del Voralberg non si fossero mobilitati
l’industria si sarebbe impossessata della regione trasformandone
completamente l’economia con il rischio di distruggere tutte
quelle attività artigianali su cui si strutturava la società. Data la
posizione eccezionale della valle, gli anni del boom economico
austriaco avrebbero infatti potuto portare ad una drastica
sostituzione di risorse endogene quali le attività agricole, il legno
e i suoi mestieri da parte dell’industria esogena del cemento molto più attrezzata per ritmi di costruzione veloce di quanto non
lo fossero i carpentieri della regione - con una conseguente
urbanizzazione incontrollata della valle e con benefici economici
che probabilmente sarebbero stati colti solo da soggetti estranei
al territorio.
Compreso questo, i progettisti del Voralberg iniziano a studiare,
insieme ai carpentieri, delle soluzioni costruttive più semplici e
più economiche per le case tradizionali in legno in modo tale che
queste possano essere proposte allo stessi prezzo di quelle
realizzate in calcestruzzo armato. L’obiettivo da perseguire è ben
chiaro: spostare in avanti i limiti di tecnologie costruttive altrimenti
destinate alla marginalità e trasformare così la crescita della
regione in sviluppo proprio attraverso la ricerca architettonicotecnologica.
Un intento - poi sviluppato dalla generazione successiva e
alimentato dal giovane dibattito sul tema della sostenibilità - la cui
originalità stava e sta appunto nell’idea che non necessariamente
il conflitto fra le ragioni economiche e quelle identitarie, fra
posizioni riformiste e radicali, sia un limite e che quindi le
trasformazioni non abbiano necessariamente bisogno di fare
tabula rasa: il Voralberg, secondo questi architetti, può cioè
modernizzarsi e diventare competitivo sul mercato europeo non
adeguandosi a spinte esogene ma mantenendo il proprio stie
abitativo, i propri boschi e i mestieri tradizionali.
Per fare questo, però, era ed è necessario che i progettisti
lavorino a stretto contatto con i carpentieri locali in modo tale da
comprendere e utilizzare le loro idee e il loro ruolo per
trasformare un’attività ancora artigianale e poco competitiva in
un’industria del XXI secolo ed elaborare quindi ciò che gli
economisti in quegli stessi anni, riferendosi soprattutto ai paesi
del terzo mondo, chiamano auto-sviluppo.
E così è stato. Negli ultimi decenni la regione ha vissuto una
trasformazione profonda, un cambiamento d’identità di cui
l’architettura e la ricerca tecnologica sono state e continuano ad
essere un vettore determinante: il numero degli studi è cresciuto
a dismisura, le imprese che costruiscono con il legno sono
diventate un polo di eccellenza mondiale e, aspetto
determinante, molti si sono convinti del fatto che, per far sì che
quest’area continui ad essere leader nell’industria dell’edilizia
sostenibile sia necessario continuare a darsi nuovi obiettivi e ad
innovare senza mai recidere le radici impiantate nel territorio.
Con un atteggiamento mediante il quale la tecnologia ha saputo
farsi politica e rendere visibile una nuova narrazione collettiva e a
lungo termine non più incentrata sulla crescita ma sullo sviluppo.
21
Come Mockbee e Freear, architetti come Hermann Kaufmann
nati e cresciuti nei laboratori artigianali di questa regione
definiscono un modello d’atteggiamento fondato sulla fiducia
nella possibilità di definire una qualità architettonico-tecnologica
capace di trasformarsi non solo in qualità ambientale, ma in un
fattore di sviluppo sociale e culturale. Tuttavia, le loro idee non
vengono più applicate ad un contesto sottosviluppato o in forte
difficoltà economica, ma in una ricca regione occidentale che ha
semplicemente deciso di investire su una prospettiva di
territorializzazione non più definita dalla conservazione della
natura originaria del tipo territoriale e dell’identità storica data, ma
da criteri e forme innovative, dall’emergenza di identità condivise
fra attori interessati alla costruzione di un nuovo progetto.
Delineando certamente una nuova idea di tecnologia attiva e
dinamica e, parallelamente, una nuova prospettiva di sviluppo
auto-determinante nella quale posizioni riformiste e radicali,
questioni universali e saperi contestuali non sono più
incompatibili e l’idea di sostenibilità diventa sempre più legata
alla necessità di una declinazione politica e progettuale locale e
frammentata.
20. Il termine significa
letteralmente ‘artista della
costruzione’ ed è sinonimo di
‘architetto’. Nel Voralberg
indica un importante
movimento costituito da
significativi professionisti
della regione - come Carlo
Baumschlager e Dietmar
Eberle, Helmut Dietrich e
Bruno Spagolla - che ne
hanno alimentato il vivace
dibattito interno
rappresentando le varie
correnti del pensiero
ambientalista: low o high
tech, ruralista o
urbanizzatore, favorevole al
cemento o al legno. Cfr.
Kapfinger; Architecture in
Voralberg since 1980;
Kunsthaus Bregenz
Voralberg Architektur Institut;
1999.
21. Nato nel 1955 e
proveniente da una famiglia
di carpentieri, Herrmann
Kaufmann è un architetto
austriaco la cui carriera è
profondamente legata alla
storia recente della sua
regione d’origine, il
Voralberg, e del movimento
dei Baukünstler. Condiviso
con questi l’intento di creare
una qualità ambientale
accessibile a tutti come
fattore di sviluppo sociale e
culturale, va alla ricerca di
un’architettura capace di
promuovere una gestione
sostenibile delle risorse,
concentrandosi
prevalentemente sull’utilizzo
del legno con l’obiettivo di
spostare in avanti i limiti di
tecnologie costruttive
altrimenti destinate alla
marginalità. Cfr. Kapfinger;
Hermann Kaufmann wood
works: architecture durable;
Springer; New York; 2009.
Democratizzazione
Architettura e processi decisionali
Contro gli autoritarismi. La complessità e il conflitto in
architettura.
Fra i presupposti del paradigma estetico (Bateson; 1972)
invocato dal dibattito sviluppatosi attorno al tema della
sostenibilità [Link_La storia della sostenibilità in architettura] vi è
certamente la rivalutazione del valore della complessità. I
percorsi epistemologici sui quali esso si fonda - dal riferimento al
pensiero meridiano (Camus; 1937) all’ecologia della mente
(Bateson; 1972), dall’autopoiesi (Maturana e Varela; 1980) alla
scienza senza fondamenti (Prigogine; 1997) - stanno infatti
mettendo sempre più in evidenza la necessità di tornare a
considerare l’interazione e il conflitto come risorse, sollecitando
diverse discipline a trasformare il loro statuto in funzione della
definizione di un progetto chiamato a mediare oltre che a
proporre soluzioni. Un obiettivo per il raggiungimento del quale la
forma fisica assume un ruolo centrale (Clementi; 2004).
Sviluppatosi il pensiero delle differenze e venute meno le grandi
ideologie e la fede nel progresso irreversibile [Link_Tecnologia],
è diventato forte il nesso fra essere e abitare (Isola, 1999) e
l’importanza data alle relazioni ha portato al superamento
dell’idea di uno spazio astratto e semplificato in favore di quella
di un luogo che non può più essere visto separatamente
dall’uomo. Una svolta nodale in cui il progetto morfologico trova
la possibilità di superare gli aspetti tecnici e funzionali del proprio
operare, individuando il fondamento del costruire nella possibilità
di realizzare, tramite i luoghi, la stessa esistenza umana. Non
solo.
Sotto l’occhio della sostenibilità, i grandi rischi che l’ambiente e,
quindi, il nostro abitare corrono a causa degli interventi che
operiamo su di essi fanno sì che il dominio dell’estetica tenda a
dislocarsi e ad intrecciarsi con questioni etiche e gli slittamenti
del significato attribuito alla natura [Link_Natura] - districati lungo
un percorso che, pur sotto molte sfaccettature, sembra muoversi
dal significato di cosa sostanziale in sé, ad effetto di intrecci
complessi di pratiche - richiede un passaggio ad un etica della
responsabilità capace di occuparsi di civitas e non soltanto di
urbs (Dematteis; 1999).
In una prospettiva nella quale la nostra ‘disciplina’ non sembra
più potersi basare su un progetto interamente ingegneristico che,
riducendo i soggetti e gli oggetti sotto il governo di una necessità
tecnologica, avrebbe come punto di forza l’operatività materiale
ma ridurrebbe arbitrariamente la complessità, ma sembra invece
dover puntare alla definizione di un progetto come pratica politica
cosciente capace di porre al centro proprio la conservazione
della complessità - di modelli culturali e immaginari -, con le sue
contraddizioni e i suoi conflitti, rappresentando soggetti e non
oggetti e mettendo insieme punti di vista diversi in funzione delle
cosiddette ragioni del luogo. Con l’obiettivo di potenziarlo
trasformandolo. Una progettazione fisica, quindi, attenta più
all’esistenza che al progetto, capace di far sì che il paesaggio
diventi il farsi di una società in un certo territorio (Lanzani; 2003).
Tuttavia, nonostante si parli di questi temi da anni, fino ad ora si
è difficilmente pensato al progetto come ad un potenziale
disegno di mediazione dei conflitti. Al contrario, una delle cause
principali dell’attuale discrasia tra le teorie e le pratiche sembra
proprio essere il fatto che le retoriche dello sviluppo che stanno
definendo i nostri paesaggi non concedano alcun rilievo alle
trasformazioni fisiche del territorio. Troppo frequentemente viene
data per scontata la consequenzialità fra le idee guida dello
sviluppo, le politiche relative e le pratiche di trasformazione del
territorio che, invece di tradurre in forme concrete la varietà degli
interessi, dei programmi e degli interventi (Palermo; 2004),
continuano a ricoprire un ruolo passivo, dal quale per alcune
figure della nostra disciplina è probabilmente arrivato il momento
di liberarsi.
Il tema del progetto morfologico come progetto culturale e di
mediazione nel corso degli anni si è fortemente trasformato in
stretto legame con il contesto politico e culturale che ne ha
determinato l’introduzione e poi le evoluzioni.
Negli anni che vanno dagli ultimi decenni dell’Ottocento ai primi
del Novecento sono il problema dell’industrializzazione e della
conseguente costruzione di grossi agglomerati urbani e la
parallela acquisizione da parte delle masse di una nuova
coscienza politica ad alimentare la questione. Gli scritti degli
utopisti in Francia e in Gran Bretagna, l’esperienza delle gardencities in Inghilterra e la relativa costituzione, nel 1912, della
‘Associazione Internazionale della Città-Giardino’, la diffusione
della dottrina della Scuola Filosofica di Chicago e la fondazione
nel 1923 della ‘Regional Planning Association’ rappresentano i
primi segni non solo di un modo nuovo di considerare la città, ma
anche dello sviluppo di una nuova forma di coscienza sociale e in embrione - dell’idea di democratizzazione (Collimore; 1982).
Nel suo testo Cities in evolution, Patrick Geddes, sociologo e
biologo inglese, anticipa il tema proponendo fra gli attori del
risanamento e della pianificazione il luogo e la gente: il luogo
come sistema da preservare e rivitalizzare; la gente, cioè gli
abitanti, come soggetti attivi, come coloro che meglio di chiunque
altro possono condurre ad una pianificazione che oggi definiremo
sostenibile della città proprio perché capaci di esprimere la
cultura del luogo (Geddes; 1915). La ‘ritrovata’ sensibilità
ambientale di inizio Novecento [Link_Natura] vede cioè anticipati
nella teoria del bioregionalismo formulata da Geddes alcuni
principi fondatori - dalla necessità di conservare e valorizzare le
risorse naturali, a quella di salvaguardare la biodiversità degli
ecosistemi presenti; dall’attenzione per l’analisi della realtà
esistente, a quella per le interazioni fra processi naturali e
antropizzazione del territorio - dell’attuale idea di sostenibilità
(Bisceglia; 2007).
Ma se i primi decenni del Novecento vedono certamente
avanzare da più fronti principi ispiratori utili a proporre nuovi e più
complessi livelli di interazione fra progettisti e abitanti - e con essi
l’introduzione dell’idea di democratizzazione dei processi
decisionali - è solo fra gli anni sessanta e settanta che questi
vengono colti nell’ambito del dibattito sul tema. In un contesto
fortemente influenzato dalla controversia politica e culturale
sviluppatosi attorno alle questioni chiave dell’egualitarismo e
della pratica antigerarchica (Viale; 1978).
In particolare, nel 1968 prende il via, a livello potremmo dire
globale, un processo radicale, e in alcuni momenti anche
violento, di rinnovamento della società. Un processo alimentato
da tutti quei gruppi di pressione politica - spesso portatori di
interessi particolari - che, spinti dal progressivo processo di
massificazione della società, iniziano a rivendicare un ruolo di
attori attivi nella trasformazione della società, dell’economia e
della politica di governo.
Rivendicando il ritorno al rispetto dell’individuo e delle esigenze
di vita naturale cancellati dalla società fordista, masse operaie da
un lato e masse studentesche dall’altro iniziano a riunirsi nella
lotta contro le istituzioni, contro gli imperialismi del capitale e
contro le impostazioni dei padroni, con messaggi rivoluzionari
d’ispirazione anarchica che, anche se mossi da ansie di
democratizzazione e sinceramente libertari, risultano però carenti
di una reale cultura democratica e, quindi, esposti alle ideologie.
Il risultato è l’esasperarsi del distacco tra i cittadini e il sistema
politico, tra società civile e istituzioni che, a partire da questi anni,
mostrano sempre maggiori difficoltà nel riuscire a rappresentare
le naturali evoluzioni della società e le spontanee istanze di
riforma provenienti dal basso, con forti conseguenze anche nel
nostro ambito disciplinare (Viale; 1978).
Le controversie culturali e politiche iniziano infatti a riflettersi
anche all’interno del dibattito sulla cultura e la pratica del
progetto architettonico e urbanistico, sfociando in una vera e
propria rivoluzione culturale condotta contro gli autoritarismi del
Movimento Moderno e della progettazione tecnocratica.
La critica, in particolare, viene rivolta ai principi dell’ideologia
razionalista e ai miti del funzionalismo che propugnano la
possibilità di attuare una riforma sociale verso una società più
libertaria e egualitaria attraverso la produzione di un’architettura
‘democratica’, considerata sincera e uguale per tutti, forte di una
moralità della forma. E l’immagine della macchina per abitare
inizia ad essere descritta come un’immagine utopico-dispotica
perfetta ma vuota e deserta che, spingendo sul razionalismo
tecnologico e escludendo il disordine della vita, ne ostacola lo
stesso meccanismo (Kroll; 2001).
Del resto anche il Movimento Moderno - scrive
1
Giancarlo De Carlo all’interno di una riflessione del
1978 sullo stato dell’arte dell’architettura - ha finito con
il riflettere fedelmente le esigenze del potere del suo
tempo. Aveva promesso una Nuova Gerusalemme
fondata sulla giustizia, sulla libertà e sulla riconquista
del diritto all’espressione per tutti. Invece ha finito per
occuparsi di come si poteva ridurre al minimo
essenziale lo spazio destinato all’abitazione dei poveri
[…] Aveva promesso l’Armonia sociale dell’Unità
dell’ambiente architettonico. Invece ha finito per
adottare la pratica di dividere le città in zone e di
separare ogni zona, urbana o suburbana o di
campagna, la residenza dallo scambio, il lavoro dal
gioco, il moto dalla quiete, l’uso come consumo
dall’uso come contemplazione, la sfera privata da
quella pubblica, la riunione dalla socializzazione.
(De Carlo; 1978)
Progressivamente fra i progettisti inizia cioè a diffondersi l’idea
che,
inversamente da quanto sostenuto dal Movimento
Moderno, non sia più possibile produrre lo spazio ambientale ed
architettonico ad un tavolo da disegno, lontano dalle cose reali
(Erskine; 1963. Cit. in Ray; 1978) e in funzione di un’utenza
anonima o, peggio ancora, di una committenza speculatrice ma
che occorra invece sostituire l’astratta visione concepita
dall’architetto con progetti capaci di contenere l’apprezzamento
dei valori locali, il riconoscimento delle possibili emergenze,
l’ipotesi dell’uso delle fabbriche e dell’ambiente secondo
l’interpretazione data dagli stessi cittadini al di là di qualsiasi
struttura culturale precostruita.
Secondo un punto di vista a partire dal quale architetti come
Giancarlo De Carlo e Ralph Erskine, prima, e Lucien Kroll, poi,
iniziano a mostrare una maggior consapevolezza rispetto al
valore di principi quali il confronto, la pluralità, la diversificazione
e il disordine, formulando osservazioni che daranno vita ad un
rinnovato contesto culturale e ad un vivace dibattito sulle ragioni
1. Giancarlo De Carlo è una
delle figure di maggior rilievo
nel panorama architettonico
italiano e internazionale. Tra i
fondatori del Team X - il
movimento che negli anni
cinquanta opera la prima
vera rottura con il Movimento
Moderno e le tesi
funzionaliste - egli è tra i
primi a sperimentare ed
applicare in architettura la
partecipazione degli utenti al
processo progettuale.
Attraverso testi come La
piramide rovesciata (1968) e
Un’architettura della
partecipazione (1972) egli
mette in discussione
l’insegnamento tradizionale
teorizzando una gestione
dell’architettura più
democratica e aperta e con la
realizzazione del Villaggio
Matteotti di Terni (1969-1975)
dà vita alla quella che per
molti rappresenta la più
interessante esperienza
italiana di progettazione
partecipata. Cfr. Brunetti,
Gesi; Giancarlo De Carlo;
Alinea; 1981.
dell’architettura e dell’urbanistica che sembra progressivamente
scardinare alcuni capisaldi della tradizione tecnocratica,
preannunciando
una
‘rivoluzione
paradigmatica’.
Un
cambiamento radicale grazie al quale l’architettura mira ad
opporsi a quell’epistemologia positivista che aveva portato, già
con gli utopisti dell’Ottocento, alla definizione di modelli ideali statici e rigidi - per la riorganizzazione del territorio in cui
l’individuo umano era un tipo e il conflitto e la diversità non erano
contemplati a favore di un progetto strettamente connesso alle
condizioni sociali e morali dell’epoca cui appartiene, costruito per
l’uomo, partecipe dei suoi problemi e delle sue sventure e quindi
capace di soddisfarne ogni esigenza morale e materiale (De
Carlo. In Brunetti, Gesi; 1981).
Ad essere messi in discussione sono quei modelli èlitari - basti
pensare ai contributi di Weber o di Shumpter - che avevano
portato alla costruzione di enormi organizzazioni pubbliche e
private che, con l’ossessione dalla tecnica, dalla produttività e
dall’efficienza, avevano gradualmente eliminato le questioni
politiche e morali dalla vita pubblica, minacciando di sommergere
la vita sociale e causando quell’ulteriore scarto fra la sfera della
competenza tecnica e quella della vita quotidiana che stava
mettendo in crisi tutto il sistema professionale fondato sul
principio di razionalità (Held; 1997).
Il riconoscimento del fallimento di quella forma burocratica del
rapporto fra pubblico e privato per cui ad ogni bisogno poteva
essere fatto corrispondere un servizio, un oggetto o un manufatto
apre cioè, nel più ampio ambito culturale e sociale così come nel
campo dell’architettura, una vera e propria crisi delle istituzioni
che porta alla richiesta di un ritorno a forme di vita più conviviali
(Illich; 1974) e all’affermazione di alcune teorie progettuali che
vedono il progetto come un’occasione di mobilitazione sociale. E
l’azione diretta dal basso inizia ad essere studiata come possibile
risposta alla pervasiva oppressione dell’uomo sotto le istituzioni
capitalistiche dello stato borghese, avviando, nella nostra
‘disciplina’, una vera e propria ‘rivoluzione di metodo’.
L’approccio ideologico. Visioni educatrici.
In questo contesto si inserisce l’interesse di alcuni architetti come
2
appunto Giancarlo De Carlo o Ralph Erskine per il significato
sociale del progetto urbano e di architettura: all’interno di quel
conflitto sociale che si ritiene spesso essere stato l’elemento
generatore del primo ciclo di procedure progettuali nate dal
basso, di un primo confronto dei progettisti con la diversità e con
l’idea di democratizzazione. Un ciclo alimentato dalla
rivendicazione di modalità alternative di produzione della città,
dall’uscita nella città e sui temi della città di quei movimenti chiaramente connotati sul piano ideologico e con una
composizione sociale sostanzialmente omogenea - che fino agli
anni sessanta e settanta erano rimasti dentro le fabbriche (Fareri;
2004).
Nonostante molti progetti urbanistici dei decenni precedenti
presentino grande interesse per il loro aspetto antropologico3
sociale , i primi studi europei chiaramente riconducibili all’idea di
democratizzazione in ambito architettonico vengono attribuiti a
4
Nikolaas Habraken , architetto e urbanista olandese che,
opponendosi ai principi del Mass Housing, nei primi anni
sessanta comincia ad interessarsi alla possibilità di lasciare agli
utenti una certa libertà per la sistemazione di alcuni spazi
all’interno del complesso abitativo (Collymore; 1982).
Habraken è convinto che la casa non debba essere fornita come
un prodotto finito ai futuri abitanti e propone un modello
d’atteggiamento nel quale la democratizzazione dei processi
decisionali viene definita come un’operazione capace di generare
possibilità inaspettate, capaci di inserire sia l’aspetto tecnico che
quello umano all’interno di nuove prospettive.
Il processo costruttivo della residenza - scrive
l’architetto olandese in un saggio del 1961 - può
essere inteso come l’azione collettiva di una società
che adempie a certe condizioni senza le quali non
sarebbe possibile la propria esistenza. Questo
processo è un fenomeno affascinate e ingloba sia
considerazioni razionali relative per esempio agli
aspetti costruttivi, finanziari e organizzativi, sia impulsi
di natura biologica, radicati nelle relazioni
fondamentali dell’esistenza umana.
(Habraken; 1961. In Collymore; 1982)
Con l’obbiettivo di determinare la conformazione delle residenze
attraverso l’influenza degli abitanti e delle loro attività più
essenziali nel 1964 egli costituisce, insieme ad altri professionisti
e sotto il patrocinio dell’ordine nazionale olandese degli architetti,
il SAR - Stichting Architecten Research - un gruppo di progettisti
mirato alla messa a punto di un programma teorico per la
progettazione e la valutazione delle cellule abitative fondato su
un meccanismo aperto all’adozione di variazioni all’interno delle
abitazioni mediante la definizione di due classi di elementi
progettuali separati: una ‘struttura di supporto’ - caratterizzata
dagli elementi di tipo statico e impiantistico - studiata
dall’architetto e all’interno di un campo decisionale comunitario e
unità separabili la cui definizione sarebbe stata lasciata ai futuri
2. Ralph Erskine è stato un
architetto britannico
naturalizzato svedese la cui
filosofia progettuale si è
fortemente incentrata sul
tema della
democratizzazione. In
particolare Erskine considera
la partecipazione di coloro
che saranno i veri utenti dei
suoi edifici come elemento
essenziale che l’architetto
deve offrire alla comunità e la
sua architettura si basa su
due concetti fondamentali: gli
edifici devono adattarsi al
clima del luogo ed essere
costruiti per le persone che li
abiteranno. Tra le sue opere
più famose vi sono il
complesso residenziale nella
città britannica di Newcastle
denominato ‘Byker Wall’,
alcuni edifici dell’Università di
Stoccolma e il nuovo
complesso abitativo
progettato per l’Expo Bo01 a
Malmo. Cfr. Collymore;
Ralph Erskine; Alinea;
Firenze; 1986.
3. Anche se negli anni del
boom economico l’idea della
democratizzazione dei
processi decisionali non è
ancora totalmente acquisita,
appare chiara l’intenzione di
alcuni progettisti di non voler
imporre la propria volontà
creativa e la propria
esperienza professionale al
di sopra delle proposte
suggerite dalla cultura dei
futuri utenti. Questo tipo di
atteggiamento, non ancora
esplicitamente dichiarato, è,
per esempio, alla base della
filosofia progettuale di molti
architetti italiani degli anni
cinquanta e di alcune
realizzazioni urbanistiche di
questi anni quali il quartiere
‘La Martella’ di Matera,
l’esperienza comunitaria
realizzata da Olivetti a Ivrea
su progetto di Quaroni e
Doglio, l’esperienza dello
stesso Doglio e di Samonà a
Cefalù e la prima esperienza
di Ridolfi a Terni. Cfr.
utenti mettendo così in atto una prima esperienza di
democratizzazione nel senso auspicato dal punto di vista di cui
Habraken si fa portavoce.
Secondo una prospettiva nella quale all’architetto si lascia il
compito di definire una serie di elementi generatori combinabili
mediante l’indicazione di una serie di varianti di base, mentre agli
abitanti spettano varianti specifiche da suggerire per le zone di
loro competenza. Con evidenti limiti teorici e metodologici.
Se infatti il proposito del gruppo era quello di definire e regolare
la democratizzazione del processo progettuale il metodo
suggerito viene, per esempio, immediatamente ripreso
dall’industria per la costruzione di elementi prefabbricati
riducendo l’operazione alla scelta di una vasta gamma di
componenti offerte dal mercato o dal progettista stesso. Alla
scala dell’edificio, così come alla scala urbana.
Nel 1973 l’inserimento di nuovi elementi nel gruppo di studio
SAR porta infatti ad estendere la ricerca all’ambiente urbano
mentre, negli stessi anni, architetti come Giancarlo De Carlo
sembrano compiere la medesima operazione.
Nell’Italia degli anni settanta, in particolare, la crisi delle forme
tradizionali dell’intervento pubblico e l’inadeguatezza in termini di
appartenenza culturale, di efficacia dell’intervento e di costi delle
politiche abitative producono forme sperimentali del progetto
urbano fra le quali il processo messo in atto per il ripensamento
del Villaggio Matteotti a Terni rappresenta certamente una delle
esperienze più significative.
Qui, come in molte operazioni contemporanee all’intervento,
sono le sollecitazioni di un comitato cittadino a riproporre il
problema del quartiere - uno dei più degradati del complesso
abitativo costruito negli anni trenta per i dipendenti delle
acciaierie - ed è lo scontro tra interessi diversi - l’amministrazione
comunale, l’Acciaieria Terni e le organizzazioni operaie - ad
invocare la democratizzazione del processo progettuale. Visto
che le tensioni fra le parti riguardano principalmente le modalità
di realizzazione delle possibilità edificatorie previste dal nuovo
PRG, De Carlo - incaricato del ripensamento - viene infatti spinto
da suoi collaboratori come l’architetto De Seta e il sociologo De
Masi non solo a formulare diverse alternative di insediamento e
sviluppo urbano, ma anche a porre come condizione essenziale
dell’iter progettuale il coinvolgimento dei cittadini in ogni fase
dello stesso, a partire dalle riunioni preliminari alla progettazione
vera e propria.
Convinto del fatto che tutti gli uomini, ed in particolare coloro che
si trovano in condizioni subalterne, debbano partecipare
attivamente all’organizzazione della propria vita scegliendo gli
spazi in cui lavorare e abitare, in questo caso De Carlo organizza
una fase strutturata di confronto con i cittadini. All’analisi e
ricognizione dei dati oggettivi di carattere socio-economico viene
cioè affiancato uno scambio transattivo prolungato fra il
progettista e gli abitanti: una prima discussione plenaria viene
organizzata con l’obbiettivo di valutare, mediante un confronto
diretto con gli utenti, i primi risultati progettuali e di avviare il
processo per la definizione tipologica dei singoli alloggi per poi
passare ad assemblee organizzate nelle quali il compito del
progettista diventa quello di tradurre in disegni le esigenze ed i
bisogni espressi dal pubblico e arrivare alla definizione di
soluzioni progettuali specifiche da sottoporre al vaglio di ciascun
nucleo famigliare mediante strumenti di interfaccia diretti come i
plastici.
Come per i lavori del SAR, a Terni l’idea di democratizzazione
invocata dai progettisti si concretizza cioè nella definizione di
quarantacinque diverse soluzioni residenziali atte a soddisfare
tutte le possibili richieste individuali, ma anche di proposte più
vaste relative agli spazi pubblici, nell’intento di soddisfare i
bisogni dell’intera comunità. Con risultati dai risvolti alterni.
Se infatti il caso di Terni rappresenta certamente una delle
esperienze più interessanti in materia di democratizzazione dei
processi decisionali, occorre tuttavia non dimenticare i limiti di un
approccio ancora fortemente basato sull’attribuzione di
un’importante carica ideologica al ruolo del progettista: nel
Villaggio Matteotti, così come in molti casi simili di questo
periodo, l’ideologia professionale sposta il conflitto sociale sulla
costruzione del progetto - sul quale nei fatti le parti in conflitto
non hanno controllo reale - mentre l’ideologia politica porta a
pensare che essere schierati dalla parte degli esclusi garantisca
di per sé una corretta interpretazione dei bisogni e delle
domande. L’idea del progetto come mezzo di mediazione e
l’apertura di un reale confronto fra il tecnico e i cittadini
rimangono soprattutto apparenti e gli architetti continuano ad
investirsi di un ruolo principalmente educativo e pedagogico.
Ho osservato - scrive Ralph Erskine tracciando un
bilancio dell’esperienza partecipativa svolta alla
5
Resolute Bay - […] che la partecipazione e le
discussioni sono utili sotto vari punti di vista. Per prima
cosa forniscono al progettista ed agli stessi abitanti
informazioni importanti sulle varie necessità e
preferenze degli utenti […]. In secondo luogo è
fondamentale per il successo del progetto che i futuri
abitanti, in numero più alto possibile, dividano
volontariamente e coscientemente la responsabilità
del processo creativo e quindi le conseguenze che ne
Doglio, l’esperienza dello
stesso Doglio e di Samonà a
Cefalù e la prima esperienza
di Ridolfi a Terni. Cfr.
Collymore; op. cit.
4. Nikolaas Habraken è un
architetto e urbanista
olandese che sin dagli anni
sessanta va alla ricerca della
definizione di un processo
progettuale alternativo ai
principi del Mass Housing
attraverso il coinvolgimento
degli abitanti all’interno dello
stesso. Direttore del SAR dal
1965 al 1975, viene
conosciuto a livello
internazionale nel 1972
attraverso la pubblicazione
della versione inglese di
Supports. An alternative to
Mass Housing, un testo pubblicato dall’architetto in
lingua madre già dieci anni
prima - nel quale egli
propone la possibilità di
lasciare agli utenti la
progettazione e la
realizzazione di alcuni spazi
delle loro residenze e degli
spazi comunitari. Cfr.
Habraken; Strutture per una
residenza alternativa;
Saggiatore; Milano; 1974.
5. Il nuovo impianto urbano di
Resolute Bay è una città per
eschimesi e bianchi canadesi
posta nella fascia artica del
Canada nella progettazione
della quale Ralph Erskine
utilizza la partecipazione
come strumento attraverso il
quale integrare le esigenze e
i modi di vita dei due gruppi
chiamati a convivere in un
clima così rigido. Cfr.
Collymore; op. cit.
derivano. In terzo luogo è molto importante anche
l’aspetto pedagogico di tale operazione, e ciò è vero
soprattutto per i meno privilegiati che debbono
esercitarsi nella loro facoltà di pensare a cose astratte
e nell’impegno di analizzare e di risolvere i problemi e
di prendere decisioni se vogliono riuscire a liberarsi
della loro condizione di inferiorità e divenire cittadini
veramente validi e partecipi, capaci di dare un
contributo importante ad una società moderna,
acquisendo quindi anche la necessaria fiducia in se
stessi.
(Erskine. Cit. in Collymore; 1982)
La definizione dell’idea di democratizzazione sviluppata a partire
dagli anni sessanta e settanta non implica cioè importanti
cambiamenti nelle idee del progettista riguardanti cosa, come e
dove dovesse essere la costruzione e gli incontri con gli abitanti
vengono interpretati soprattutto come occasione per attivare un
processo educativo. Per i progettisti - ancora auto-definiti come
sicuri interpreti delle esigenze degli abitanti - continua ad essere
sufficiente la presa di coscienza dei bisogni degli utenti mediante
un confronto iniziale con gli stessi. Ma il semplice atto della
consultazione e la consapevolezza delle variazioni che ne
potrebbero derivare costituiscono necessariamente un diritto dei
futuri abitanti che devono poter comunicare con coloro che
progettano il loro ambiente.
In questo senso, risultano assolutamente emblematici della
posizione i dialoghi tra De Carlo e Peter Smithson - membro,
come il progettista italiano, del Team X - sul tema della
definizione delle terrazze giardino e la sua critica del progettista
italiano verso la richiesta degli operai di piastrellare le terrazze e
la loro incapacità di liberarsi dal tradizionale.
Se guardate i settimanali in Italia, ogni settimana avete
la rappresentazione della casa di una qualche star,
Sofia Loren piuttosto che un’altra. Hanno terrazze
dove hanno fantastici divani dove stanno solo per il
fotografo, ovviamente […] ma questa è l’immagine che
è spinta nella mente della gente e controllare questo
tipo di alienazione è lungo e difficile […] io voglio
disalienarli e, naturalmente, disalienare me stesso
nello stesso momento.
(De Carlo. Cit. in Samassa; 2004)
L’approccio ai processi decisionali allargati resta intriso di
ideologia e pensiero politico: l’obiettivo non è solo quello di
favorire un arricchimento della conoscenza degli abitanti aprendo nuovi orizzonti e offrendo nuovi stimoli di riflessione ma è quello di guidare un processo di disalienazione delle masse
lavoratrici assoggettate alla società dei consumi, contribuendo a
produrre apprendimento in un’ottica di mobilitazione sociale dalle
tinte piuttosto anarchiche.
E il dubbio che ne scaturisce - smosso, per esempio, dalla critica
stessa del progetto di Terni (Schlimme; 2004) - è che nelle
diverse forme di conversazione con gli abitanti sviluppate a
partire da questo punto di vista non vi sia tanto un interesse a
stimolare le interazioni progettuali dei cittadini, quanto un
tentativo da parte del progettista di convincere gli abitanti ad
approvare un progetto già pensato altrove in tutte le sue parti. In
una prospettiva in cui il sapere intellettuale - il linguaggio dei
progetti - resta quello degli architetti, anche se espressione
peculiare e contingente dell’opera derivata dalle sollecitazioni dei
futuri utenti-partecipanti all’operazione progettuale.
L’approccio pragmatico. Visoni esplorative.
La vicenda di Terni non ha un lieto fine. Il clima di collaborazione
con le autorità che aveva reso possibile condurre un processo
così faticoso e costoso, non solo per gli aspetti tecnici del
progetto ma anche per lo sforzo politico dei dirigenti delle
acciaierie, si infrange infatti proprio nelle fasi di realizzazione
dello stesso durante le quali gli abitanti del quartiere vengono
esclusi dal controllo economico dei terreni e del cantiere stesso
determinando l’apertura di un nuovo conflitto politico che porta i
sindacati a stracciare l’accordo con i dirigenti dell’azienda e
l’amministrazione di sinistra a proseguire la sua lotta ideologica
contro la fabbrica causando, di fatto, il fallimento del progetto ma
anche la formazione di un fronte critico verso le retoriche sulle
quali De Carlo aveva fondato l’intero processo progettuale. Ad
essere messe in dubbio sono le reali ricadute del coinvolgimento
degli abitanti sul processo progettuale e quella che si costruisce
è una diversa storia del Villaggio: una storia nella quale la
ricchezza formale delle abitazioni e degli spazi pubblici e le
diversità morfologiche che sembravano davvero essere il
prodotto di un processo decisionale democratico e plurale
risultano non solo troppo deboli, ma anche false, perché già
scritte nei sei punti che l’architetto genovese aveva stilato come
obiettivi di massima da raggiungere (Schlimme; 2004).
Tuttavia, al di là della fondatezza o meno di questa critica, il
fallimento dell’esperienza di Terni e il dibattito sviluppatosi
attorno ad esso negli anni immediatamente successivi alla
vicenda divengono sintomi della presa di coscienza dei limiti del
Doglio, l’esperienza dello
stesso Doglio e di Samonà a
Cefalù e la prima esperienza
di Ridolfi a Terni. Cfr.
Collymore; op. cit.
4. Nikolaas Habraken è un
architetto e urbanista
olandese che sin dagli anni
sessanta va alla ricerca della
definizione di un processo
progettuale alternativo ai
principi del Mass Housing
attraverso il coinvolgimento
degli abitanti all’interno dello
stesso. Direttore del SAR dal
1965 al 1975, viene
conosciuto a livello
internazionale nel 1972
attraverso la pubblicazione
della versione inglese di
Supports. An alternative to
Mass Housing, un testo pubblicato dall’architetto in
lingua madre già dieci anni
prima - nel quale egli
propone la possibilità di
lasciare agli utenti la
progettazione e la
realizzazione di alcuni spazi
delle loro residenze e degli
spazi comunitari. Cfr.
Habraken; Strutture per una
residenza alternativa;
Saggiatore; Milano; 1974.
5. Il nuovo impianto urbano di
Resolute Bay è una città per
eschimesi e bianchi canadesi
posta nella fascia artica del
Canada nella progettazione
della quale Ralph Erskine
utilizza la partecipazione
come strumento attraverso il
quale integrare le esigenze e
i modi di vita dei due gruppi
chiamati a convivere in un
clima così rigido. Cfr.
Collymore; op. cit.
modello
d’atteggiamento
ideologico
e
dell’idea
di
democratizzazione ad esso correlata. Di una consapevolezza
che, negli anni successivi, conduce ad una nuova definizione
dell’idea maggiormente rivolta alla sperimentazione di processi
attenti alla definizione di migliori modalità interattive e relazionali
di gestione del conflitto, nei quali il carattere pragmatico assume
un ruolo sempre più rilevante.
Il panorama italiano, in particolare, si avvicina molto a quello
anglosassone nel quale movimenti come il Community
Architecture in Gran Bretagna, la Social Architecture e
6
l’Advocacy Planning negli Stati Uniti non a caso affondano le
loro radici nelle esperienze delle self-help community condotte
già a partire dagli anni cinquanta nei paesi del Terzo Mondo. In
contesti nei quali, come evidenziato da Balducci, la scarsità delle
risorse economiche locali rende necessario studiare politiche
abitative basate sull’utilizzo di risorse locali e sul riconoscimento
dei valori, oltre che dei problemi, connessi a questo mondo, ma
nei quali, esattamente come sta avvenendo in Occidente,
l’obiettivo principale rimane quello di dare una risposta
all’inadeguatezza dei progetti proposti dalla cultura autoreferenziale. Con una significativa dilatazione dell’area del
dibattito, a nord e a sud del mondo il tema comune emergente
diventa quello di rappresentare i reali bisogni della popolazione;
di ridurre le ragioni e le origini della separazione tra progettisti e
fruitori che, di fatto, avevano causato il fallimento delle politiche
pubbliche, soprattutto di quelle relative alla questione abitativa
(Balducci; 1996). Sotto diverse forme, si diffonde cioè un punto di
vista che, pur sotto differenti sfaccettature, ha come costante la
fiducia nella democratizzazione dei processi decisionali come
mezzo attraverso il quale trasformare non solo l’ambiente ma
anche gli stili di vita, ricostruendo il tessuto sociale e le comunità
che per molti gran parte degli interventi paternalistici del
dopoguerra avevano distrutto (Jacobs; 1961). E la piena
utilizzazione di tutte le risorse analitiche e progettuali depositate
nell’esperienza quotidiana degli abitanti diventa la condizione
imprescindibile di rinnovati processi decisionali e di nuove
metodologie progettuali.
In Egitto Hassan Fathy lavora alla costruzione di un’architettura
per i poveri mirando al miglioramento degli standard di vita nelle
aree rurali attraverso la collaborazione con gli abitanti delle
stesse e insegnando loro come costruire con materiali e tecniche
locali; in Mali ed in Nigeria Fabrizio Carola prova a proporre
progetti-modello di autosviluppo fondati su uno scambio culturale
tra pari capace di produrre architetture dense di significati,
appropriate al contesto e appropriabili dalle popolazioni locali
[Link_Tecnologia] mentre in India Balkirishna Doshi, ispirandosi
ai modi di vita propri delle baraccopoli locali, abbandona la
moderna suddivisione a reticolo delle città, a suo avviso
completamente scollegata dalle consuetudini comuni, a favore di
un’idea di edilizia abitativa intesa come processo e non come
prodotto.
Per Doshi, in particolare, il problema è chiaro: i quartieri moderni
sono inospitali perché rigidi, sconnessi dal contesto e progettati
senza comprendere lo stile di vita degli abitanti. Tutte questioni
superabili solo mediante una nuova idea di democratizzazione e
di progetto. Nella definizione di modelli di edilizia popolare
alternativa a Indore, per esempio, egli capovolge i principi
generatori dei modelli moderni di città cogliendo invece i vantaggi
delle aree residenziali degradate definitesi spontaneamente:
grazie alla stretta collaborazione di un team multidisciplinare, il
progettista indiano delinea un masterplan completamente basato
sulle richieste degli abitanti dimostrando che, nonostante i vincoli
economici, può essere possibile dar vita ad un ambiente vissuto
e piacevole, capace di conciliare le esigenze estetiche a quelle
funzionali e di fornire risposte chiare e mirate nelle quali la sfera
umana prende fondamentale importanza. Non tanto attraverso
un progetto funzionale, quanto attraverso una visione
socialmente qualificata nella quale il concetto di self-help, di
auto-sviluppo diventa centrale. Oltre a coinvolgere la popolazione
nella definizione del piano, Doshi infatti, in questo caso, progetta
un’unità abitativa di base pensata per crescere in modo
incrementale: per ogni casa vengono realizzati tutti i servizi - le
tubazioni, il bagno e la cucina - e una stanza poi, senza alcuna
regola, gli abitanti hanno la possibilità di espandere la propria
unità aggiungendo delle stanze separate o aprendo un’attività
commerciale o artigianale in funzione delle loro esigenze. L’idea
di democratizzazione dei processi decisionali non è più uno
strumento attraverso il quale educare gli abitanti e dar loro la
possibilità di scegliere una soluzione fra tante, ma un mezzo con
cui stimolarne la libertà del costruire e la variazione della forma
mentre la sequenza spaziale definita dall’architetto continua a
garantire la coerenza e l’identità del sito. Secondo un punto di
vista che, se si diffonde in modo significativo nei paesi in via di
sviluppo, trova adesione anche in Europa dove, già verso la fine
7
degli anni settanta, architetti come Lucien Kroll e lo stesso
Ralph Erskine si avvicinano ad un atteggiamento decisamente
più pragmatico che ideologico.
Sebbene ancora ispirato ai principi anarchico-liberali che
orientano la posizione ideologica, Kroll, per esempio, viene
mosso soprattutto dalla pragmatica necessità di rendere efficienti
e vivibili luoghi dimostratesi inadatti ed inospitali a causa del loro
astrattismo e della loro totale indifferenza verso i contesti sociali
6. La definizione negli anni
sessanta di movimenti quali il
Community Architecture in
Gran Bretagna e la Social
Architecture e l’Advocacy
Planning negli Stati Uniti
rappresenta un’importante
segnale della significativa
diffusione del concetto di
Community Architecture, di
un’architettura alternativa alle
pratiche architettoniche
convenzionali, progettata e
realizzata con la
partecipazione attiva dei
futuri fruitori. Il concetto di
Advocacy Planning, in
particolare, viene introdotto
per la prima volta
dall’urbanista Paul Davidoff in
un articolo pubblicato sul
‘Journal of the American
Institute of Planners’ nel
1965, mentre le fondamenta
del Community Architecture
Movement vengono gettate
dal progetto per la Black
Road Area sviluppato sotto la
guida dell’architetto
britannico Rod Hackney
come reazione alle politiche
governative di rilocalizzazione e sviluppo. Cfr.
Towers; Building democracy;
UCL Press; Londra; 1995
7. Lucien Kroll è un architetto
belga impegnato sui temi del
recupero urbano e della
sostenibilità ambientale. Egli
si pone in rigida opposizione
alle modalità razionaliste di
concepire lo sviluppo urbano
e la forma architettonica
secondo principi astratti e
utopici, sperimentando
approcci progettuali volti a
superare l’ideologia della
meccanizzazione industriale
e a recuperare un rapporto
con l’identità locale e le storie
personali. Autore di testi
come The architecture of
complexity (1986), tra i suoi
progetti si ricorda il recupero
della ZUP di Perseigne ad
Alençon. Cfr. Kroll; Ecologie
urbane; Franco Angeli;
Milano; 2001.
ed antropologici, mentre il collega inglese - ancora diviso fra la
volontà creativa e l’essere utile - inizia a parlare della forma
come di un bene primario capace di concorrere alla
reintegrazione sociale della personalità di ciascuno.
Nel progettare nuovi quartieri, entrambi i progettisti mirano cioè
alla crescita dell’uomo sociale (Collymore; 1982), ad
un’architettura ancora funzionale, ma soprattutto significante per
le persone che la faranno vivere, usandola e modificandola col
modificarsi delle condizioni esistenziali di ognuno. Il compito
dell’architettura diviene cioè quello di rendere possibile ciò che gli
abitanti vorrebbero se fossero liberi di scegliere, se potessero
generare il proprio ambiente in autonomia e, per far questo, è
chiamata ad assumere un metodo libertario, più pragmatico che
ideologico, ritenuto capace di rifare il mondo ogni giorno,
riorganizzare e riadattare l’ambiente a partire dal piccolo gusto
quotidiano (Kroll; 2001).
In questo senso, nel recupero della ZUP di Perseigne ad Aleçon
Kroll, chiamato dagli abitanti in rivolta contro la loro condizione
urbana, attiva un processo di collaborazione molto stretta con gli
stessi sia nelle fasi di studio e conoscenza del luogo, sia nelle
fasi successive di elaborazione del progetto, ottenendo come
risultato un paesaggio composito, totale espressione della
quotidianità e della conoscenza popolare del luogo. Incaricato di
coordinare il progetto di riqualificazione del quartiere periferico, a
completamento di indagini già svolte precedentemente dal
sociologo Arlindo Stephani e dall’urbanista Jean-Jaques
Argensos, l’architetto belga non adotta una strategia
partecipativa strutturata, come De Carlo, ma si cala nella vita del
quartiere, assumendo il punto di vista di un osservatore
partecipante e mettendosi in contatto sia sul piano comunicativo
che su quello emotivo con gli abitanti con l’obiettivo di individuare
tutti gli stimoli e le esigenze non esprimibili in forma razionale ma
che, proprio perché legati alla parte più densa e profonda della
psiche, potrebbero avere un peso prioritario nella formazione di
un ambiente in cui l’uomo possa riconoscersi recuperando,
senza nostalgie stilistiche, gli istinti, le tradizioni, i dialetti.
Un metodo piuttosto radicale, ma derivato dalla convinzione che
il paesaggio urbano debba essere prodotto, prima di tutto
dall’azione antropica e spontanea dell’abitante, secondo un
approccio che, ancora una volta, sembrerebbe rientrare nel
dibattito filosofico che negli stessi anni si sta conducendo attorno
alla necessità di liberare la scienza dai razionalismi del secolo
precedente (Abbagnano; 1996).
Il filosofo Paul Feyeraben, in particolare, aveva iniziato ad
esprimere il suo rifiuto verso l’epistemologia razionalisticometodologica a favore di un approccio fortemente pragmatico
allo studio della scienza. Un approccio capace di mettere in
guardia dal metodo precostruito per cogliere, invece, la rilevanza
del progresso scientifico in base alle ricadute sul tessuto sociale
e sul contesto politico con l’obiettivo di garantire il superamento
dei conflitti e l’emancipazione sociale e di produrre teorie efficaci
piuttosto che vere.
In ambito filosofico, così come in quello architettonico, verso la
fine degli anni settanta si iniziano cioè a delineare i caratteri di
un pluralismo anti-autoritario, nel quale l’anarchismo costruisce il
presupposto culturale per una società aperta nella quale le teorie
scientifiche e non sono chiamate a dialogare per accrescere le
culture del mondo, rinunciando a una sterile e inutile
competizione (Feyeraben; 1979).
In cui l’approccio e
l’apprendimento reciproco diventano due elementi nodali della
prassi di democratizzazione messa in atto, la cui sfida sta nel
coordinare la pluralità delle posizioni messe in campo attraverso
un confronto diretto e costante nel quale l’architetto è tenuto a
mettere da parte le competenze tecniche, i propri narcisismi e i
propri schemi autoritari per dar voce alla pluralità delle posizioni
emergenti nell’area di intervento. Attraverso un processo
progettuale in cui ogni contributo è chiamato a confrontarsi sullo
stesso piano, sottoponendo le proprie scelte al controllo ed al
giudizio degli altri, attraverso scambi deliberativi anche in
situazioni di conflitto.
Non solo. Uno degli aspetti più interessanti di esperienze come
quelle del recupero della ZUP di Perseigne progettato ad
Alençon da Kroll o del nuovo sviluppo del quartiere di Byker a
Newcastle upon Tyne elaborato da Erskine è certamente la
scelta dei rispettivi progettisti di valorizzare nell’orientamento
specifico del lavoro progettuale e nelle retoriche sulle quali esso
si fonda le relazioni piuttosto che l’oggetto. Una diversa idea di
democratizzazione amplia cioè il campo d’attenzione non
limitandolo più ai singoli oggetti architettonici, ma espandendolo
agli spazi pubblici. Le pavimentazioni, le recinzioni, la
sistemazione paesaggistica, le zone aperte al di sotto degli edifici
o fra i gruppi di costruzioni - anche se realizzati in modo semplice
e mediato - vengono studiati attentamente come percorsi
socializzanti atti a generare relazioni con e fra gli abitanti pensati
appunto soprattutto come esseri sociali.
Con un atteggiamento che rispecchia, ancora una volta, un
sentimento diffuso tra i progettisti e non. Basti pensare, fra le
altre, alla pubblicazione negli stessi anni settanta dell’Ecologia
della mente di Bateson (Bateson; 1972). L’emergente
consapevolezza rispetto alla complessità della società inizia cioè
a spingere alcuni progettisti a rinnovare e modificare il proprio
metodo progettuale secondo la matrice culturale e filosofica del
Alençon. Cfr. Kroll; Ecologie
urbane; Franco Angeli;
Milano; 2001.
pragmatismo americano e in particolare a considerare gli abitanti
- le loro esperienze, la loro complessità e i loro conflitti - una
risorsa sociale non solo per comprendere meglio il mondo, ma
anche per trasformarlo. E, a differenza di quanto avvenuto nei
decenni precedenti, in molte occasioni progettuali di questi anni,
la metodologia di ricerca proposta inizia a discostarsi
profondamente dalla neutralità e dall’indifferenza delle semplici
tecniche applicative, portando, al contrario, alla definizione di un
processo progettuale non più educativo ma esplorativo
caratterizzato da un’apertura alla comunicazione, alla tolleranza
e alla prontezza a riconoscere il proprio errore e a comprendere
le idee degli altri senza imporre le proprie.
Un metodo di coesistenza basato sulla discussione libera e sulla
pluralità e portatore di un’idea più profonda e reale di
democratizzazione che, già all’inizio degli anni ottanta, inizia ad
interessare anche le istituzioni.
La mediazione. Trascrizioni istituzionali.
L’atteggiamento fortemente anarchico e poco strutturato sul
piano procedurale proposto dall’approccio pragmatico all’idea di
democratizzazione non offre tuttavia agli attori istituzionali più
garanzie di quelle offerte dall’approccio ideologico. Motivo per il
quale interventi come quelli proposti da Kroll non hanno esito
diverso rispetto all’operazione di Terni.
Ad Alençon, in particolare, le istituzioni locali - piuttosto scettiche
in tema di pratiche di democratizzazione - decidono di incaricare
un tecnico dell’amministrazione della supervisione del lavoro di
equipe diretto da Kroll e nonostante la decisione iniziale di
realizzare un settore del complesso progettato dall’architetto
belga come prototipo dell’intera operazione sul quale in seguito
impostare principi di sviluppo, soluzioni architettoniche e metodi
di democratizzazione del governo, questa, negli anni successivi,
resta solo una promessa. Vista la netta opposizione del consiglio
locale, il prototipo è infatti l’unica parte che il progettista riesce a
realizzare, mentre l’ottanta per cento dell’area rimane come
prima del suo intervento: i costi di un’operazione così radicale e
complessa per le istituzioni risultano troppo elevati e il tipo di
ascolto proposto a tutti gli abitanti, assolutamente aperto e
trasparente, viene ritenuto dannoso per l’operato politico.
Tuttavia, analizzando le esperienze di progettisti come appunto
Fabrizio Carola e Balkrishna Doshi, ma anche come Peter
8
Hübner , si può constatare che, almeno in ambito architettonico,
gli anni ottanta - successivi alla diffusione sia dell’approccio
ideologico che di quello pragmatico all’idea di democratizzazione
- non sono caratterizzati dalla cosiddetta sindrome Nimby
descritta da Fareri come caratteristica di quello che lui definisce il
secondo ciclo di partecipazione, ma da alcune esperienze che,
contrariamente alle aspettative generate dal fallimento di molte
operazioni del decennio precedente, iniziano a mettere in
evidenza un nuovo atteggiamento delle istituzioni e l’importanza
sempre maggiore attribuita dalle stesse agli abitanti, inoltrandoci
quindi direttamente in quella che per l’urbanista milanese
rappresenta una terza fase (Fareri; 2004).
Una fase nella quale il progressivo e travagliato processo di
democratizzazione dei processi decisionali inizia ad essere
rivalutato fino ad essere inteso come:
contromisura, come tentativo da parte degli attori
istituzionali di affrontare i problemi di decisionalità e di
efficacia generati nel periodo precedente […] il
coinvolgimento degli abitanti diventa condizione per
internalizzare nelle politiche obiettivi e conoscenze di
attori che erano ieri scambiati per deboli e si
riconoscono oggi forti, per generare progetti migliori e
condivisi, enfatizzando la rilevanza del contesto come
importante condizione per aumentare la capacità di
decidere.
(Fareri; 2004)
Tanto da coinvolgere anche architetti della fama di Renzo Piano il cui lavoro già in questi anni non ha certo bisogno di
legittimazione nel confronto con gli abitanti - ed istituzioni come
l’UNESCO.
Nel laboratorio di quartiere organizzato ad Otranto, in particolare,
l’architetto e l’amministrazione utilizzano il percorso partecipativo
come strumento di appropriazione attraverso il quale far
rinascere l’orgoglio di vivere nella città antica. Secondo un punto
di vista certamente paragonabile alla posizione di architetti
operanti nei paesi in via di sviluppo, come Fathy e Carola, ma
arricchito dall’appoggio delle istituzioni. Mentre, Carola in Mali,
così come in Nigeria lavora scontrandosi con autorità locali e
membri delle Organizzazioni Non Governative mossi da uno
spirito non troppo diverso da quello dei dirigenti coloniali che li
avevano preceduti (Contal, Revedin; 2009), ad Otranto sono le
stesse istituzioni ad incentivare il processo di democratizzazione
come mezzo a loro favore stimolando un’esperienza che,
sebbene modesta sia per dimensioni che per durata, rappresenta
un’operazione estremamente importante nella definizione di
un’ulteriore sfaccettatura dell’idea di democratizzazione.
Incaricato appunto dall’UNESCO, in questo caso, il progettista
genovese, fortemente influenzato dalla figura di De Carlo (Piano.
8.Peter Hübner è un
architetto tedesco. Dopo aver
iniziato la sua carriera come
progettista di edifici
prefabbricati, egli diviene
professore all’Università di
Stoccarda dove, in
collaborazione con Peter
Sulzer, intraprende una serie
di esperimenti progettuali
incentrati sul tema della
partecipazione destinati a
cambiare il corso della sua
architettura. Nei primi anni
ottanta egli progetta e
realizza insieme agli studenti
il Bauhäusle, un ostello
temporaneo, definendo un
atteggiamento progettuale
interattivo che nei decenni
successivi sviluppa nella
progettazione di alcuni circoli
giovanili in quartieri disagiati
della città di Stoccarda e,
soprattutto, di alcune scuole.
Per Hübner i processi di
democratizzazione non solo
responsabilizzano chi vi
partecipa ma offrono agli
abitanti l’opportunità di vivere
in un ambiente realizzato in
modo diverso, dove questi
possono rispecchiare più
facilmente il loro vissuto. Cfr.
Hübner; Peter Hübner:
building as a social process;
Axel Menges; StoccardaLondra; 2007.
Cit. in De Seta; 2000), va infatti oltre quanto proposto dal
maestro facendo riferimento non solo all’architettura come ad un
servizio per la comunità o come ad un progetto di convivenza ma
anche come arte contaminata, processo in continua evoluzione
(Piano; 2005).
Il laboratorio itinerante pensato da Piano - fisicamente una sorta
di cubo con una tenda di copertura - può essere spostato e
modificato in base alle funzioni che deve svolgere trasformandosi
in un vero e proprio luogo di incontro per la popolazione che,
sotto la struttura della tenda, può per esempio discutere sulle
proposte da attuare sul quartiere o avere delle consulenze
rispetto ai lavori di manutenzione ordinaria della propria
abitazione. In questo modo gli abitanti vengono coinvolti nelle
diverse fasi del progetto di riqualificazione e recupero del centro
storico: dalla diagnostica alla progettazione, dal laboratorio
operativo alla memorizzazione, tutte le attività li coinvolgono
mettendo così in gioco la partecipazione, la comunicazione delle
azioni progettuali e l’arte dell’ascolto.
Secondo una prospettiva nella quale la conoscenza della storia
clinica e non solo dei sintomi di un luogo diventano centrali,
trasformando la figura del progettista in quella di un architetto
condotto aperto alla collaborazione sia con i cittadini che con tutti
i professionisti raccolti intorno al progetto.
Ad Otranto, per esempio, Piano gestisce l’intera esperienza
insieme a diversi collaboratori di altissimo livello: l’impresa di
Gianfranco Dioguardi che gestisce i lavori; il giornalista Mario
Fazio che aiuta l’architetto ad impostare la metodologia del
processo partecipativo; il regista Giulio Macchi che cura la
raccolta dei resoconti di storia orale; il fotografo Gianni Berengo
Gardin che si occupa di documentare le varie fasi del progetto e
Magda Arduini che predispone i testi per i film. Oltre ai cittadini.
La necessità di garantire attraverso un sistema di regole la
correttezza del gioco e l’obiettivo sempre più chiaro di trattare la
conflittualità come un valore generano cioè progressivamente un
ampliamento del team progettuale contribuendo a sviluppare un
processo di trasformazione dell’idea di democratizzazione che,
sempre più lontana dall’immagine definita dalla figura di De
Carlo, sembra prima di tutto porre nuove domande all’esperto.
Richiedendo, anche a livello istituzionale, che il prodotto
architettonico non derivi più solo dalla descrizione scientifica
della cultura e della società studiate dall’architetto, ma diventi il
risultato di una negoziazione di significati che si svolge nelle
mutevoli contingenze del lavoro sul campo, tra le personalità, il
bagaglio culturale e i ruoli assunti dall’architetto e le diverse
personalità e bagagli e ruoli degli interlocutori con cui entra in
relazione (Nicolin; 2011).
L’esperienza di Otranto rappresenta infatti un modello
d’atteggiamento, sia per i progettisti che per le istituzioni,
destinato a diffondersi nei decenni successivi.
Significativa, in questo senso, è, per esempio, la storia della
scuola-villaggio di Gelsenkirchen in Germania. La situazione in
questo ex-quartiere industriale della Ruhr era particolarmente
complessa: nato attorno ad una miniera di carbone verso la fine
dell’Ottocento, esso si era espanso grazie all’arrivo di molti
lavoratori turchi negli anni sessanta, rimasti tutti disoccupati
vent’anni dopo, alla chiusura della miniera, creando una forte
situazione di degrado in tutta l’area: non conoscendo il tedesco,
infatti, molti ragazzi avevano difficoltà ad evitare il circolo vizioso
della povertà prima e della depredazione dopo. Preso atto della
situazione critica, la chiesa protestante - che procura scuole in
Germania come quella anglicana le procura in Inghilterra - pensa
di indire un concorso per la realizzazione di una scuola multiculturale, chiamata a diventare un catalizzatore per un nuovo
sviluppo del quartiere. Un concorso che Peter Hübner e il suo
studio vincono grazie ad un racconto che l’architetto, incapace di
pensare ad una progettazione completamente definita
dell’edificio, allega ad un suo schizzo. In particolare, narrando la
storia di un fruitore immaginario, il progettista spiega come
progetterebbe la scuola e cosa succederebbe al suo interno: gli
allievi progetterebbero le classi attraverso disegni e plastici; dei
professionisti ne realizzerebbero le fondamenta per poi
coordinare insegnanti, studenti e altri volontari del paese nella
realizzazione della struttura in legno; il tetto verde sarebbe
costruito mediante una catena umana che trasporterebbe la terra
sui tetti e, una volta terminato l’edificio, ogni classe si
occuperebbe della manutenzione di una delle sue parti.
A far vincere il progetto di Hübner non sono cioè tanto le
indicazioni formali o funzionali relative all’edifico, quanto
l’ideazione di un processo alternativo di costruzione, gestione e
manutenzione dello stesso. L’istituzione sceglie cioè quasi
all’unanimità di scommettere sul processo di democratizzazione
come mezzo con il quale non solo realizzare l’edificio ma provare
a risolvere i profondi conflitti sociali presenti nell’area,
influenzando gli stili di vita dei suoi abitanti.
Con la definizione di un punto di vista in cui il ruolo del progettista
viene ancora una volta ridefinito con la costruzione di nuove
figure professionali, chiamate a mediare e a gestire il processo
più che a predisporre soluzioni. Sia dal livello istituzionale, che
dalle istanze provenienti dal basso.
Se infatti oggi il primo ciclo di democratizzazione - alimentato da
un approccio ideologico - appare definitivamente chiuso almeno
nelle intenzioni, lo scenario attuale sembra caratterizzato dalla
permanenza in varie forme dei due cicli successivi e dall’apertura
di un quarto ciclo che si affianca ai precedenti, presentando
tuttavia specificità diverse. Da un lato, come sottolinea Luigi
9
Bobbio , la richiesta di democratizzazione dei processi
decisionali viene avanzata dalle istituzioni con l’obiettivo di
risanare quel gap culturale e ideologico sempre più evidente fra i
cittadini e il sistema politico-rappresentativo: le amministrazioni
danno cioè vita a processi partecipativi perché si rendono conto
che le istituzioni della democrazia rappresentativa sono spesso
insufficienti; perché si trovano di fronte a una società civile
reattiva che insorge quando si profilano scelte pubbliche che
vengono percepite come minacciose; perché capiscono che il
rattrappimento dei partiti politici ha aperto un vuoto che va
colmato o perché hanno spesso a che fare con politiche
pubbliche che possono essere concretamente realizzate solo se
si verifica un contributo attivo da parte dei cittadini destinatari
(Bobbio; 2007).
Dall’altro, si sta tornando prepotentemente ad una mobilitazione
dal basso ideologicamente connotata, ma nell’ambito di un’idea
di politicità che è completamente diversa da quella dei movimenti
degli anni settanta. Come allora e diversamente dai cicli
seguenti, queste forme di mobilitazione sono capaci di esprimere
una forte progettualità, ma non chiedono ad altri di fornire
risposte: fanno da sole. E mentre fanno denunciano proprio
l’assenza delle istituzioni, senza tuttavia rifiutare il contributo
delle competenze tecniche che spesso, invece, vengono
mobilitate in varie forme.
Abbandonato l’aspetto puramente ideologico e grazie anche
all’emergere sempre più insistente del dibattito sulla sostenibilità
- per il quale, come abbiamo già detto [Link_La storia della
sostenibilità in architettura], la rilevata insostenibilità dello
sviluppo non deriva solo dalla crisi dei sistemi ambientali e delle
reti ecologiche, ma anche da una progressiva riduzione della
complessità del territorio e del tessuto urbano, che continua ad
estendersi come mera espressione delle reti economiche e
funzionali - oggi il tema della definizione di strategie progettuali
capaci di gestire realmente il territorio e tutti i conflitti presenti al
suo interno e di stimolarne lo sviluppo torna ad essere
assolutamente
centrale
nella
definizione
dell’idea
di
democratizzazione. Anche per punti di vista distanti e
contrastanti.
Il processo di empowerment. Declinazioni sociali.
Negli ultimi decenni esperienze come quelle condotte da
progettisti anche molto differenti fra loro come, per esempio,
10
11
Alejandro Aravena e Giancarlo Mazzanti in Sud America o
12
13
Carin Smuts e Diébédo Francis Kéré in Africa mostrano, in
particolare, l’introduzione di forme di progettazione flessibili e
adattabili al contesto in cui operano, orientate non tanto ad una
rapida risoluzione delle problematiche rilevate, quanto ad avviare
un processo maieutico con gli attori delle trasformazioni. Un
processo volto a sviluppare le loro capacità di espressione e
attivare un reciproco scambio di conoscenza, necessario alla
definizione di soluzioni più efficaci e durature nel tempo. Con la
determinazione di un nuovo punto di vista secondo il quale l’idea
di democratizzazione supera la riduzione al concetto di autocostruzione - che rischiava di diventare oppressivo - per definire
come questione centrale del tema quella del controllo del potere
decisionale, concretizzando le affermazioni avanzate da Turner
già nel 1976 (Turner; 1976).
Fondato nello stesso anno in cui Frederik De Klerk - nuovo
presidente della repubblica sudafricana - ha iniziato la lunga
marcia che nel 1994 pone finalmente fine all’apartheid, lo studio
di Carin Smuts lavora costantemente per le comunità nere,
escluse dallo sviluppo e private della loro cultura tradizionale,
con l’obiettivo di rinnovare le township. Edifici d’abitazione a
basso costo, magazzini, scuole, centri d’arte, sale polivalenti
vengono progettati e realizzati a partire da un’immersione nei
problemi sociali, sanitari e razziali del Sudafrica mediante la
definizione di un metodo profondamente ancorato nel terreno
storico dell’apartheid e modellato dall’impegno quotidiano con la
gente. L’attenzione della progettista sudafricana non si rivolge
cioè tanto alla forma architettonica quanto all’organizzazione del
processo di progettazione e costruzione attraverso il quale, a suo
avviso, l’architetto deve farsi inventore di un microsviluppo
capace di modernizzare e restituire un futuro ai quartieri più
poveri del suo paese. Secondo un modello di atteggiamento per
cui l’architettura è azione sociale e il vero elemento sostenibile è
la popolazione, non la struttura.
A Karoo, per esempio, il sito per la realizzazione del Centro
Multifunzionale Dawid Klaaste viene scelto attraverso una
commissione di gestione del progetto composta da membri della
comunità, del consiglio comunale e della regione e l’idea
progettuale matura nel corso di seminari collettivi che affrontano
argomenti assolutamente diversi quali il ricco habitat locale, il
ricordo delle alluvioni del 1981, la storia locale del ‘grillo gigante’,
il ruolo del mulino a vento e del treno nella storia e
nell’immaginario del paese. A partire da queste discussioni poi la
Smuts decide di costruire il centro mediante la trasformazione dei
capannoni di lamiera e del mulino a vento già presenti sul luogo
prescelto e di trasformare un vecchio vagone merci in ristorante.
9. Luigi Bobbio è autore e
ricercatore di scienze
politiche presso l’Università di
Torino. Esperto di analisi
delle politiche pubbliche,
Bobbio ha come propri
interessi di ricerca temi
strettamente correlati all’idea
di democratizzazione: la
democrazia deliberativa; i
processi consensuali per la
risoluzione di conflitti
ambientali e territoriali; le
politiche territoriali
contrattualizzate; i governi
locali e la multi-level
governance. Cfr. Bobbio;
Amministrare con i cittadini;
Rubettino; Soveria Mannelli;
2007.
10. Alejandro Aravena è un
giovane architetto cileno che
nel 2000 ha fondato, con
l’ingegnere Andrès Iacobelli e
l’architetto Pablo Allard,
Elemental Team, una
squadra che lavora sia come
studio di architettura che
come ufficio di edilizia
pubblica e centro di ricerca
sull’impoverimento urbano
con l’obiettivo di contribuire,
attraverso un’ingegneria ed
un’architettura d’avanguardia,
a migliorare la qualità della
vita in Cile. Seguendo il
principio di fare il mas con lo
mismo lo studio ha elaborato
una tipologia abitativa aperta
per la definizione della quale
il coinvolgimento diretto degli
abitanti è condizione
imprescindibile. Cfr. Aravena;
Alejandro Aravena.
Progettare e costruire;
Electa; Milano; 2007.
11. Giancarlo Mazzanti è un
architetto colombiano che
lavora da anni per il suo stato
e la sua città, Bogotà. La sua
esperienza professionale
comprende diversi interventi
pubblici di grande scala,
come centri congressi,
biblioteche, scuole, parchi e
infrastrutture, ma anche
abitazioni private e sociali
che lavorano tutti verso un
obiettivo comune: quello di
I vecchi tetti vengono riutilizzati per i rivestimenti verticali e il
centro viene dipinto in rosso brillante in ricordo delle vittime
dell’alluvione del 1981; i capannoni vengono abbelliti da arnesi
agricoli recuperati sul posto e dai lavori in ferro battuto preparati
dagli artigiani locali, mirando così alla definizione di
un’architettura decisamente figurativa, perché capace di svolgere
un ruolo forte sia in termini di identificazione che di formazione.
Se cioè per diversi decenni si era pensato che il processo di
generazione del senso di appartenenza ai luoghi dovesse essere
attribuito al diretto coinvolgimento degli abitanti nella
progettazione e nella costruzione degli edifici - e quindi alla
difesa del loro personale prodotto creativo e delle loro idee intorno agli anni novanta gli stessi architetti che avevano lavorato
con questa convinzione iniziano a credere che esso sia
soprattutto dovuto alla forza degli edifici stessi di sviluppare un
proprio racconto, portando traccia di un’idea e di un processo di
progettazione e costruzione forte capace di essere fatta propria
anche da chi non vi ha partecipato direttamente.
In questo senso, dopo prime esperienze fortemente incentrate
sul tema dell’auto-costruzione, Peter Hübner giustifica secondo
questa prospettiva il fatto che i nuovi abitanti dei suoi edifici non ancora nati al momento della costruzione - continuino ad
auto-definirsi come costruttori degli stessi (Hübner; 2007),
mentre le opere e gli scritti di architetti come appunto Carin
Smuts e Françis Kéré dimostrano come anche nei paesi del
Terzo Mondo si stia passando dall’attribuire ai processi di
democratizzazione un significato profondamente radicato nella
politica coloniale - un’idea cioè mirata al raggiungimento di un
efficiente governo coloniale attraverso decisioni prese dall’alto e
implementate dal basso - ad una definizione basata sul concetto
di trasformazione della consapevolezza delle persone come
guida verso un processo di auto-realizzazione e di
empowerment.
Empowerment inteso, secondo la definizione di Cook, come il
fattore cruciale che rende lo sviluppo sostenibile (Cook. Cit. in
Marschall; 1998). In una prospettiva che ha, ancora una volta,
delle implicazioni cruciali per il ruolo dell’architetto e del team
professionale.
Il fatto di porre questo aspetto come punto focale sollecita infatti
un’ulteriore ridefinizione dei ruoli che chiede all’architetto di
assumere un impegno diretto non solo nella gestione di un
processo di interazione, ma anche nella promozione di un’ipotesi
di trasformazione e di strutturare un processo intervenendo sui
contenuti, costruendo cornici di riferimento, interpretando i
territori, innescando, attraverso la proposizione di scenari, forme
di progettazione fondate sull’interazione sociale, traducendo
pratiche informali nel linguaggio delle politiche.
A Gando, per esempio, Dibedo Françis Kéré fonda il
‘Schulbausteine für Gando’, un’associazione nata con l’obiettivo
di progettare edifici capaci di sostenere gli abitanti del Burkina
Faso nel loro sviluppo. Seguendo il motto Aiuta ad aiutarsi
l’approccio progettuale di Kéré è completamente rivolto alle
persone secondo un punto di vista per cui occorre costruire per
soddisfare un bisogno, con materiali locali e tecniche semplici e,
aspetto più importante, per e con gli abitanti. Per il progettista
africano l’educazione potrebbe essere la pietra angolare su cui
fondare lo sviluppo del proprio paese e per questo egli non si
limita a fornire il proprio apporto progettuale ed a trovare i fondi
con i quali costruire una scuola, ma si procura il supporto del
governo per l’addestramento degli artigiani locali all’utilizzo delle
nuove tecniche, assicurandosi che i metodi costruttivi vengano
assimilati dalla comunità locale e contando enormemente sul
forte senso di solidarietà solitamente presente in questi villaggi
per il coinvolgimento di tutti i suoi abitanti. E infatti la costruzione
della scuola è stata in larga parte portata a termine grazie al
lavoro di uomini, donne e bambini del villaggio che, una volta
terminato l’edificio, hanno iniziato a realizzare delle case per gli
insegnanti e un presidio medico seguendo, in modo autonomo,
gli stessi principi.
Il modo in cui la comunità si è organizzata grazie all’aiuto di Kéré
è cioè diventato un esempio non solo per la comunità stessa, ma
anche per i villaggi vicini - alcuni dei quali, a loro volta, si sono
dotati delle proprie scuole mediante uno sforzo cooperativo - e le
autorità stesse che, riconosciuto il valore del progetto, hanno
finanziato gli insegnanti e si sono impegnate ad assumere i
giovani addestrati in questo contesto per la realizzazione di
progetti pubblici. Trasformando quest’esperienza in una denuncia
emblematica della richiesta sia da parte dei cittadini che da parte
delle istituzioni di pensare ai processi di democratizzazione come
reali occasioni di apprendimento. Come processi appunto di
empowerment capaci di considerare la complessità dei processi
e di coinvolgere e mettere in tensione una molteplicità di
competenze, temi e attori diversi per orientare scelte non solo di
natura formale, ma anche politiche, economiche e sociali.
Secondo un nuovo appello alla democratizzazione dei processi
decisionali che ha come obiettivo il raggiungimento di quel senso
di proprietà e di orgoglio che fa sì che l’ampiezza alla quale la
comunità si identifica con il progetto determini la probabilità che
l’intervento risulti poi riuscito sotto molteplici punti di vista. In una
prospettiva in cui il coinvolgimento della comunità non solo nello
stabilirne le direttive e i compiti, ma anche nel progetto e nel
infrastrutture, ma anche
abitazioni private e sociali
che lavorano tutti verso un
obiettivo comune: quello di
migliorare le condizioni di vita
costruendo anche la
percezione del cambiamento
da parte della comunità. Per
Mazzanti gli edifici devono
diventare un mezzo di
inclusione sociale all’interno
di un più ampio progetto
politico in cui l’educazione
degli abitanti viene
individuata come pilastro
della trasformazione sociale.
Cfr. Mazzanti; L’architettura
nella trasformazione sociale
di Medellin; in ‘Lotus
International’, n. 145; marzo
2011; p.24-37.
12. Carin Smuts è un
architetto sudafricano che da
anni lavora in una sola area e
per un solo committente: gli
abitanti delle comunità nere
del Sudafrica. Nata in una
famiglia di politici ed
intellettuali - il suo prozio, Jan
Christiaan Smuts, è uno dei
fondatori del pensiero olistico
- la Smuts consiedera
l’architettura come un mezzo
attraverso il quale gli abitanti
delle township sudafricane
possono riassumere il
controllo di loro stessi e per
questo lavora con loro per
aiutare le cose a ‘maturare’
non tanto attraverso la
definizione del prodotto finale
quanto mediante la
definizione del programma di
intervento. Per lei l’architetto
deve essere un riferimento
per un processo di
microsviluppo che egli stesso
deve proporre. Cfr. Contal,
Revedin; Progettare la
Sostenibilità. I maestri di una
nuova architettura; Edizioni
Ambiente; 2009.
13. Figlio di un capo-villaggio
del Burkina Faso, Diébédo
Francis Kéré è un architetto
che, dopo aver studiato in
Germania, sta lavorando
nella sua terra con un
approccio progettuale
processo di gestione e costruzione sembra cioè essere la sola
strada verso un’architettura di espressione della stessa e di uno
sforzo comune.
Una prospettiva in funzione della quale l’attenzione deve
progressivamente spostarsi dall’edificio come prodotto e risultato
finale, all’edificio come processo e il progetto architettonico non
deve più soddisfare uno scopo preciso o procurare un semplice
servizio, ma è chiamato al coinvolgimento del maggior numero
possibile di membri della comunità - ognuno secondo i propri
interessi e le proprie capacità - in modo tale che essi guadagnino
più fiducia in loro stessi e quel senso di affermazione personale
necessario affinché anche un singolo edifico abbia la possibilità
di riqualificare i propri dintorni, fungendo, in questo modo, da
vero e proprio motore sociale.
Il progetto come ‘Trading Zone’ per la costruzione di immagini
condivise
La richiesta proveniente dalla riflessione sull’idea di
democratizzazione di pensare ad una diversa dimensione del
progetto e l’analisi di alcune esperienze che negli ultimi anni
hanno provato a dare una risposta a questa domanda
costituiscono quindi una buona base a partire dalla quale
sviluppare le riflessioni teoriche della prassi progettuale per
pensare non solo ai suoi eventuali sviluppi, ma anche al possibile
valore aggiunto del progetto architettonico e urbano all’interno di
questo panorama.
In particolare, può risultare interessante provare a confrontare
questi temi con alcuni concetti teorici elaborati negli ultimi negli
ultimi cinquant’anni in campi diversi come quello delle scienze
politiche, della filosofia e dell’epistemologia. Alessandro Balducci,
per esempio, propone di tornare a Charles Lindblom (Lindblom;
1959. Lindblom; 1979) per legare il suo pensiero alle più recenti
teorie dei Boundary Objeects e delle Trading Zones elaborate
rispettivamente da James Griesemer e Susan Star (Griesemer,
Star; 1989) e da Peter Galison (Galison; 1997. Galison,
Thompson; 1999).
Per Lindblom, uno degli esponenti più noti del pensiero
incrementalista, vista l’impossibilità di avere un corpo di governo
centrale privo di conflitti interni, la struttura dei modelli decisionali
non può che essere quella del mutual partisan adjustament: chi
decide non è mai un soggetto singolo e unitario, ma sono tutti i
portatori di interesse - ciascuno con i propri interessi di parte –
ma all’interno di una condizione di mutua interdipendenza,
perché solo attraverso la contrattazione e il compromesso
ognuno potrà raggiungere i propri obiettivi. Secondo l’autore,
questo non è solo il modo più realistico di descrivere un
processo, ma anche un approccio capace di esprimere
l’intelligenza della democrazia, approfittando appunto del conflitto
come risorsa per raggiungere il risultato più razionale, quello che
provoca meno conseguenze negative e limitate e, quindi,
migliore per tutti. Per Lindblom, cioè, non è rilevante se si
condividono o meno, in termini generali, i valori della propria
controparte: l’importante è che si sia capaci di raggiungere un
accordo rispetto ad una decisione concreta.
A questo pensiero, definito già a partire dagli anni sessanta, è in
qualche modo riconducibile la teoria dei Boundery Objects
elaborata, vent’anni più tardi, dal filosofo James Griesemer e
dalla sociologa Susan Star.
Per i due, a supporto degli accordi, vi possono essere dei
cosiddetti oggetti di confine, da un lato flessibili e plastici
abbastanza da adattarsi ai bisogni locali e alle costrizioni delle
diverse parti che li impiegano, dall’altro, robusti e coerenti a
sufficienza per mantenere un’identità comune anche attraverso
siti o interessi diversi. Degli oggetti che, pur cambiando
significato in contesti differenti, hanno una struttura di base così
definita da renderli comunque riconoscibili e utilizzabili proprio
come mezzi di traslazione capaci di consentire a diversi mondi
sociali non solo di raggiungere un accordo ma di cooperare. Una
cooperazione della quale, recentemente, si è anche occupato lo
storico della scienza Peter Galison che, introducendo il concetto
di Trading Zones, ha offerto nuovi sguardi all’interno di questo
dibattito.
In particolare, studiando l’interazione tra diverse comunità
scientifiche, l’americano ha messo in evidenza la loro abilità nel
generare le condizioni necessarie a sostenere un’interazione
reciproca dei differenti gruppi di scienziati, sebbene ciascuno di
questi fosse caratterizzato da metodologie, procedure e obiettivi
specifici. Interessi di parte - se riprendiamo il linguaggio di
Lindblom - spesso né compresi, né tantomeno condivisi in modo
unitario. Per Galison, gli oggetti di confine descritti da Griesemer
e Star come Boundary Objects sembrano essere rappresentati
dalle matrici semantiche e dalle pratiche materiali condivise fra le
diverse sottocomunità scientifiche. Da quegli elementi comuni,
che lui chiama Trading Zones, capaci a suo avviso di favorire un
dialogo proficuo e, quindi, di generare scambi di conoscenza e
servizi fra differenti sistemi di pensiero o di interesse. Delle
‘infrastrutture’ locali, temporanee e contingenti, di concetti e
strumenti condivisi, all’interno delle quali questioni complesse
possono essere trasformate in thin descriptions, accordi parziali
necessari per ottenere degli scambi di informazioni.
che, dopo aver studiato in
Germania, sta lavorando
nella sua terra con un
approccio progettuale
completamente rivolto alle
persone e mirato
all’inclusione delle
competenze tecniche e
tradizionali culturali del suo
paese. Tra i suoi progetti più
conosciuti la Scuola Primaria
in Gando (1998-2001). Cfr.
Kéré; Diébédo Françis Kéré:
fare architettura in Africa;
Foschi; Forlì; 2010
Che cosa succederebbe quindi se noi provassimo a
reinterpretare la contrattazione e la ricerca di un compromesso di
Lindblom in termini di locali Trading Zones fra gli stakeholders
che rappresentano differenti sistemi di significati e di valore? E,
soprattutto, quali implicazioni potrebbe avere l’assunzione di
questo punto di vista nella cultura progettuale architettonica?
Cosa significherebbe provare a cogliere la sfida lanciata da
questi concetti per provare a definire il progetto come una zona
di scambio all’interno della quale ogni parte coinvolta abbia la
possibilità di comprendere e di appropriarsi delle questioni messe
in campo per poi inserirsi nell’arena?
In questo senso, la nuova dimensione progettuale richiesta
dall’introduzione dell’empowerment come fattore cruciale per lo
sviluppo sostenibile potrebbe giocare un ruolo centrale all’interno
del dibattito, grazie al suo riferimento esplicito ad un’idea di
progetto morfologico orientato all’organizzazione della decisione
e capace, prima di tutto, di coinvolgere e mettere in tensione
competenze diverse per poi dirigerne il dialogo. Un progetto con
una forte funzione relazionale e strategica, secondo un punto di
vista che non sembra così distante da quello di Griesemer e Star.
Sarebbe infatti così sbagliato pensare al progetto architettonico
come ad un progetto di un Boundary Object, di un telaio, di
un’armatura capace, da un lato, di adattarsi alla complessità e
alla molteplicità dei punti di vista propri della realtà
contemporanea e, dall’altro, di fornire un riferimento
sufficientemente solido e stabile alle trasformazioni? Non si
potrebbe pensare alla costruzione della forma e della morfologia
territoriale come alla definizione di una Trading Zone fra differenti
strategie di attori all’interno della quale questi, dialogando,
abbiano l’opportunità di definire e comprendere problemi, obiettivi
condivisi e modalità relazionali?
Analizzando, fra le altre, esperienze come quelle dell’indiano
Balkrishna Doshi, prima, e del cileno Alejandro Aravena, poi, si
direbbe proprio di sì. Nel recupero della baraccopoli di Iaquine,
per esempio, il sistema della costruzione aperta ideato
dall’architetto cileno e dal suo studio per superare il conflitto
generatosi fra gli abitanti della baraccopoli, l’amministrazione
comunale e i proprietari del’area – ciascuno con i propri interessi
- ha costituito una vera e propria Trading Zone sia dal punto di
vista formale che da quello sociale, economico e politicoamministrativo.
Qui nel 2003 il programma governativo Chile-Barrio chiede
all’Elemental Team di cui Aravena è fondatore di sviluppare un
progetto per Quinta Monroy, l’ultimo insediamento irregolare
della città di Iaquine, nel deserto cileno: si tratta di studiare una
soluzione abitativa per ospitare le cento famiglie che da trent’anni
occupano abusivamente un’area di mezzo ettaro nel pieno centro
della città, utilizzando un sussidio di diecimila dollari a famiglia,
destinato a coprire i costi del terreno, le infrastrutture e la
progettazione. La logica dello sviluppo ovviamente vorrebbe la
distruzione di quella baraccopoli, così che il quartiere venga
ricostruito e occupato da nuovi abitanti dotati di mezzi economici
sufficienti a comprare un’abitazione, mentre i vecchi residenti
costruirebbero una nuova baraccopoli nella periferia della città,
ma Aravena, cosciente dell’importanza rivestita dalla rete di
opportunità costruite in trent’anni intorno al sito e rappresentate
da trasporti, lavoro, educazione pubblica e strutture sanitarie
migliori rispetto a quelle di altri quartieri popolari situati in
periferia, si oppone fermamente a questa ipotesi ponendo come
priorità assoluta del progetto il fatto che gli abitanti della
baraccopoli restino sul posto. Ponendosi un problema
progettuale piuttosto complesso: un programma pubblico
fornirebbe infatti un sussidio alle famiglie indigenti in modo da
farle accedere ad un alloggio, ma, una volta acquistato il terreno,
con un costo tre volte superiore a quanto i programmi di edilizia
sociale possono normalmente pagare, il budget rimasto
consentirebbe soltanto la costruzione parziale degli alloggi.
Dopo aver tentato diverse alternative - dagli alloggi di gruppo ai
piccoli condomini - senza risolvere il problema, lo studio rovescia
la questione usando il problema come soluzione e lavorando a
un nuovo sistema: il sistema della costruzione aperta, di case
semi-costruite che gli abitanti completano da soli.
Secondo questa logica, conseguenza diretta del principio mas
con lo mismo, il team elabora quindi una tipologia abitativa
aperta, definita con gli elementi essenziali per un’unità minima - il
tetto, l’involucro, le stanze con l’acqua corrente – e con il vuoto di
uno spazio non costruito, suscettibile di essere riempito dagli
abitanti che devono quindi essere posti nelle condizioni di capire
il significato dell’operazione. Dopo un incontro iniziale in i
progettisti spiegano i motivi di quell’intervento, vengono quindi
organizzati diversi workshop con l’obiettivo di spiegare le regole
del gioco: tutti i componenti della famiglia vengono chiamati a
realizzare modelli, disegnare e scrivere, mentre ogni
capofamiglia è tenuto a disegnare l’ampliamento e il progetto di
trasformazione delle facciate in modo tale da capire la fattibilità
del tutto.
In questo modo, un anno dopo la consegna, sono riempiti,
trasformando il progetto complessivo in una convincente
dimostrazione
dell’effetto
prodotto
da
un’idea
di
democratizzazione fortemente incentrata sulla leva sociale e dal
potenziale di reversibilità di un modello progettuale fondato su
questa.
Se, infatti, la struttura di mattoni e cemento fisicamente realizzata
nel quartiere di Quinta Monroy potrebbe essere essa stessa
interpretata come uno scheletro, un’infrastruttura capace, grazie
alla sua chiarezza e solidità, di accogliere ed assorbire al proprio
interno gli ampliamenti estemporanei e la loro complessità in
modo tale da costituire un supporto adeguato per lo scenario
incerto delle espansioni fisiche future, il suo merito principale è
certamente quello di dimostrare il potere della morfologia - e qui
sta, forse, il valore aggiunto del progetto architettonico e urbano nel riconoscere valori, nel fissare connessioni fra gli attori e
nell’ordinare esigenze, bisogni e aspettative talora anche
contrastanti. In questo caso, infatti, la forma scelta dal progettista
è chiaramente figlia di riflessioni sociali - non allontanare gli
abitanti della baraccopoli dal luogo - ed economiche - come
realizzare architetture di qualità con i pochi soldi rimasti dopo
l’acquisto del terreno -, oltre che formali ed era probabilmente
l’unica attraverso la quale accogliere e quindi far dialogare tutte
le parti.
Gran parte del lavoro svolto da Aravena - ma lo stesso potrebbe
dirsi di esperienze fatte da Carin Smuts o da Giancarlo Mazzanti
- è quindi consistito nella definizione del programma. Il prodotto
finale sarà un’opera architettonica ma l’impegno del progettista si
è spinto ben oltre la definizione di un’idea formale e, per questo,
è iniziato in una fase molto precedente - lavorando con gli
abitanti per aiutare le cose a ‘maturare’ - e si conclude in una
fase decisamente successiva.
La gente sa - racconta Carin Smuts descrivendo il
proprio lavoro – come definire i propri bisogni ma non
come articolarli in un programma. Prima di progettare
qualcosa ascoltiamo a lungo, a volte anche due anni,
in modo da definire al meglio il programma […] Inoltre,
la gente deve poter contare sempre sul nostro aiuto;
per esempio quando le strutture hanno dei problemi o
devono essere ampliate. Se necessario torno sul
posto per inoculare un’idea o per aiutare nella
costruzione.
(Smuts. Cit in Contal, Revedin; 2009)
Con l’assunzione di un punto di vista che potrebbe veramente
portare l’architettura ad offrire il proprio linguaggio e i propri
strumenti come mezzo per la costruzione di immagini comuni su
cui dialogare, mediante la definizione di un processo progettuale
volto allo sviluppo più che alla crescita. Un processo progettuale
capace di generare qualità ambientale come fattore di sviluppo
sociale e culturale e di restituire, quindi, all’architettura la sua
dimensione politica, ovviando, così, a tutta una serie di rischi nei
quali la nostra ‘disciplina’ finisce spesso per incorrere.
Uno degli aspetti più interessanti che emerge dalla lettura
trasversale di diversi progetti che hanno provato ad assumere un
punto di vista simile a quello dell’architetto cileno è che ciò che li
accomuna e che li rende in qualche modo simili non è affatto
un’estetica condivisa, ma un analogo pragmatismo: una volontà
comune di definire progetti o infrastrutture flessibili capaci di
sanare conflitti, soddisfare necessità e interessi molteplici - fisici,
ma anche economici e sociali - con l’obiettivo, spesso, di
generare nuovi modi di vita. Uno scopo, questo, per il
raggiungimento del quale la trasformazione fisica e il suo aspetto
formale non necessariamente rappresentano il nodo centrale.
Basti pensare all’esperienza del Voralberg, in Austria
[Link_Tecnologia] o a quella della città di Medellín, in Colombia.
Se nella piccola regione austriaca la ricerca progettuale, nonché
l’impegno politico e sociale dei suoi architetti sono riusciti a
trasformare la crescita economica dell’area in sviluppo della
stessa - con ricadute fondamentali a livello sociale ed identitario , la città sudamericana rappresenta oggi un importante modello
di trasformazione sociale in cui l’architettura svolge un ruolo
sostanziale come parte di un più ampio progetto politico capace
di integrare politiche sociali, economiche e progetti pubblici.
Spronate dalla volontà di ridare agli abitanti la dignità persa nella
guerra del narcotraffico, durante gli anni ottanta e novanta, le
ultime amministrazioni della città hanno infatti avviato un
percorso finalizzato alla conversione di Medellín in un centro
ugualitario, socialmente e culturalmente inclusivo, capace di
costruire un futuro diverso proprio a partire dalle criticità più
profonde della città. Secondo l’immagine di una cultura urbana
aperta di cui ogni elemento che la costituisce - e quindi anche
l’arte e l’architettura - deve farsi portatore.
Il progetto - intitolato Medellín è la più educata - propone un
intervento integrale nel quale l’architettura è chiamata a
rappresentare una nuova visione della città e a proporre progetti
capaci di generare inclusione sociale: costruire edifici in zone
degradate non sarebbe sufficiente; occorrono progetti in grado di
attivare nuove forme d’uso e di trasformare il senso di
appartenenza e accrescere quello di orgoglio da parte dell’intera
comunità. Una scommessa riuscita.
Negli ultimi anni Medellín ha infatti cambiato la sua fisionomia
non solo attraverso aspetti istituzionali e provvedimenti sociali,
ma anche mediante la realizzazione di architetture attuanti,
pensate più per le loro capacità performative che non per le loro
qualità visive. Architetture - come sostenuto da Giancarlo
Mazzanti, progettista direttamente coinvolto dal programma -
interessanti per le loro prestazioni sociali e culturali, più che per
la loro forma. Edifici che lavorano, oltre che sulle funzioni, anche
sulla percezione del cambiamento da parte della comunità.
Negli ultimi sette anni a Medellín - ma un discorso simile
potrebbe essere fatto per molti dei progetti di Carin Smuts o dello
stesso Aravena, piuttosto che di Kaufmann o del Rural Studio
[Link_Tecnologia] per spostarci a nord del mondo - interventi
pubblici come parchi-biblioteche, scuole, centri culturali, centri di
sviluppo tecnologico, zone pedonali e piazze sono stati realizzati
come luoghi di trasformazione della società. Architetture pregnati
- capaci di far percepire agli abitanti il senso di appartenenza ad
una società più giusta e ugualitaria - spesso non del tutto definite
funzionalmente per far sì che le comunità possano
appropriarsene e moltiplicarne l’uso iniziale. Luoghi che rendono
sempre più evidente la necessità di pensare all’architettura come
ad una pratica che non può più nascere dal mestiere in modo
autonomo, ma può solo costituirsi attraverso sguardi diversi,
mediante il confronto con altre forme di pensiero.
In questo senso, se vogliamo provare a tracciare le linee generali
di un possibile progetto di riferimento, le esperienze analizzate
sembrano dirci che queste non risiederanno tanto in principi o
indicazioni formali, ma, al contrario, nell’idea che pensare al
progetto come ad un mezzo significhi proprio impedire prima di
tutto quella progressiva autonomizzazione dell’aspetto fisico e
compositivo rispetto agli altri aspetti del processo di
trasformazione del territorio a cui stiamo assistendo sempre più
frequentemente, perché il compimento di un disegno formale
costruito a tavolino non sembra più poter essere il solo obiettivo
di progetto.
All’interno dello scenario prospettato, infatti, lo sguardo
progettuale deve complessificarsi, abbandonando un punto di
vista frammentato e settoriale a favore di una visione allargata e
partecipata, capace di intrecciare aspetti e dati diversi - spesso
contradditori e conflittuali - per poi pensare ad una
risignificazione complessiva del territorio nella sua interezza.
Secondo un punto di vista che certamente aiuterebbe a prendere
definitivamente distanza dall’idea che il solo modo di mettere
ordine nei nostri paesaggi sia quello di affidarsi ad un progetto
dato, fisso e stabile in grado di costruire gerarchie chiare fra i
diversi elementi, lasciando spazio ad una sorta di estetica del
conflitto colma di vitalità e di varietà e capace di rispecchiare la
ricchezza molteplice delle situazioni.
Un’estetica in grado di definire una nuova dimensione del
progetto morfologico nella quale esso venga visto come un
percorso condiviso in cui l’architetto, senza rinunciare al proprio
ruolo di definizione morfologica dello spazio, sia pronto a defilarsi
per poi proporre scenari nei quali il conflitto diventi una risorsa e
le condizioni al contorno un dato positivo, un agente attivo del
fare progettuale (De Rossi, 2010).
E’ chiaro, tuttavia, che l’assunzione di un simile punto di vista
necessiterebbe non solo un ripensamento radicale, ma
soprattutto un indebolimento epistemologico forte del progetto. I
linguaggi della disciplina dovrebbero aprirsi, spingersi oltre i
propri limiti e mettersi in gioco, rinunciando al proprio valore
autonomo, estetico ed espressivo, per farsi strumenti politici e
rendersi continuamente falsificabili. Uno sforzo ingente che
potrebbe portare a chiedersi se tocchi veramente alla nostra
‘disciplina’ compierlo.
Siamo, cioè, preparati a pensare al progetto come a un mezzo
più che come ad un fine? Siamo pronti a deformare il nostro
ruolo per proporre la dimensione morfologica come Trading Zone
nella quale definire delle connessioni di senso tra ambiti separati,
specialisti non comunicanti, interessi conflittuali? Abbiamo una
preparazione adeguata per assumere la funzione di
decostruzione e raffigurazione che, nello scenario prospettato, gli
architetti potrebbero esercitare nei consessi decisionali?
Forse no, ma la sfida lanciata sembra essere troppo importante e
troppo stimolante per non essere comunque colta. Soprattutto in
un momento in cui il ruolo, i confini e i compiti dell’architettura
sono già fortemente messi in discussione.
Non solo. Pensando alla definizione dei Boundary Objects data
da Griesemer e Star, il ruolo del disegno, in tal senso, potrebbe
veramente essere strategico. Perché niente come un’immagine
può rappresentare uno strumento allo stesso tempo chiaro e
flessibile, in grado di tenere insieme rappresentazioni differenti forse inconciliabili mediante l’argomentazione verbale - e quindi
di innescare un dialogo proficuo fra attori diversi
per il
raggiungimento di un accordo almeno parziale.
Il ruolo della forma fisica può quindi essere centrale. E a chi
tocca metterlo in gioco, se non a noi che siamo preparati per
determinarla? Forse, in questo momento iniziale, non avremo
tutte le competenze necessarie a gestire questa diversa
dimensione del progetto, ma non entrare nell’arena, non proporre
il progetto morfologico come supporto e come strumento del
dibattito, sarebbe, forse, una scelta molto più pericolosa.
D’altronde da sempre questioni urbane differenti hanno richiesto
all’architettura di confrontarsi con dispositivi spaziali nuovi. E non
ci si è mai tirati indietro.
Autodefinizioni architettoniche
Visioni, trascrizioni, declinazioni
Se l’analisi presentata nei capitoli precedenti delle trasformazioni di alcune idee-chiave rispetto al
dibattito sulla sostenibilità - come quella di natura, tecnologia e democratizzazione - ha provato ad
analizzare il continuo confronto dell’architettura con altre discipline coinvolte nello stesso - l’ecologia,
l’economia e gli studi relativi ai modelli decisionali -, il lavoro di ricerca intende chiudersi cercando di
rispondere alle questioni dalle quali si è mossa utilizzando la sovrapposizione delle mappe dei valori
ottenute per tornare alla visione complessiva e complessa richiesta dal tema.
E’ cioè possibile, al termine della ricerca, individuare le reali implicazioni dell’idea di sostenibilità sulla
cultura del progetto?
Lo studio si è aperto con un tentativo di ricostruzione della storia della stessa che, grazie ad un
confronto costante con il dibattito interdisciplinare e il panorama politico e culturale internazionale, ha
portato all’individuazione di tre possibili fasi di sviluppo che, pur sovrapponendosi e confondendosi, si
distinguono chiaramente per il loro modo di interpretare il tema della sostenibilità e, di conseguenza,
per le strategie e gli strumenti politici, ma anche progettuali, utilizzati per indirizzare la questione: la
crescente importanza dell’idea - da concetto marginale per piccoli gruppi di interesse occidentali a
tema chiave del dibattito internazionale -, la transizione dall’idea di protezione ambientale e risparmio
energetico a quella di sostenibilità e il passaggio da filosofie politiche e progettuali top-down, alla
decentralizzazione e a strategie multi-settoriali e integrative basate sulla comunità sono i macrocambiamenti messi in evidenza. Quali sono state, tuttavia, le ricadute progettuali di questi
cambiamenti generali e complessi sulle retoriche, ma anche sulle modalità con cui la nostra disciplina
si autodefinisce verso l’esterno, sui modi con cui essa concettualizza il suo rapporto con la società?
L’analisi trasversale dei capitoli centrali della ricerca sembra far emergere modalità relazionali
profondamente differenti attraverso le quali individuare uno scarto metodologico importante rispetto
alle riflessioni e alle pratiche attuali. Se si provano a raccogliere i valori e gli obiettivi progettuali
individuati per ogni questione-chiave in ogni singola fase è infatti possibile individuare un percorso
che, sebbene labile e ricco di contraddizioni, sembra far emergere alcuni punti d’accordo comuni
capaci di affiancare ai cambiamenti generali già individuati anche tre diverse auto-definizioni
architettoniche sintetizzabili nei tre concetti-azione di visione, trascrizione e declinazione.
Osservando quella che Longhi individua come la prima ondata del progetto sostenibile, si può per
esempio vedere che, al di là dei modelli di atteggiamento assunti dai progettisti e dei relativi risultati
morfologico-spaziali, il confronto diretto con la sostenibilità in questa fase conduce prevalentemente
alla definizione di visioni - spesso individuate come utopie - attraverso le quali l’architettura viene
proposta come soluzione ai problemi introdotti dall’idea. Arcosanti è un organismo estetico
miniaturizzato proposto come idealisticamente desiderabile da un architetto-maestro; i meccanismi
quantitativi di Fuller rappresentano alternative spaziali ideate da un comprehensive designer capace
di colmare i vuoti della politica; gli edifici efficienti dei primi anni settanta di Van der Ryn vengono
presentati come risposte universalmente valide alla questione delle risorse. E anche le retoriche su cui
si fondano atteggiamenti progettuali apparentemente più aperti ad un confronto con il ‘reale’ nei fatti
rappresentano la falsa percezione di scelte profondamente ideologiche, ideali o praticabili, frutto della
fede incondizionata in un percorso al quale spesso viene attribuito un valore morale.
In questa fase, cioè, l’idea di sostenibilità viene colta da alcuni pionieri senza una messa in dubbio dei
suoi presupposti ed elevata a questione centrale sulla quale fondare un’alternativa salvifica quasi
completamente determinata e generalizzabile che, se suggerisce molti stimoli, corre però il rischio di
non funzionare appena entra in contatto con la realtà.
Iniziato poi il processo di istituzionalizzazione dell’idea, nella cosiddetta fase-ponte, la forza
anticipatrice e visionaria presente nelle proposte dei decenni precedenti si smorza a favore di
trascrizioni formali o processuali del concetto che, spesso prive di una convinzione reale, ne
introiettano i principi rappresentandone i suoni ma con sistemi di scrittura diversi. I camouflage
naturalistici e gli edifici pensati come organismi; la mera riproduzione di forme o tecnologie
‘tradizionali’ e i tentativi di internalizzazione delle esternalità; i processi istituzionalizzati di
negoziazione dei significati e le proposte di processi progettuali alternativi come contro-misure in
questo senso rischiano di rappresentare trascrizioni elaborate da chi non conosce realmente la lingua
che sta ascoltando, ma si limita a riportarne i suoni più evidenti senza preoccuparsi del fatto che
questi possano rappresentarne anche i più superficiali. La rappresentazione dell’idea diventa
l’obiettivo da perseguire, senza che le questioni sulle quali essa si fonda tocchino realmente la cultura
del progetto che resta fondamentalmente auto-referenziata e poco aperta al confronto.
Ma è proprio a partire da alcune conseguenze discutibili di questo atteggiamento che l’idea di
sostenibilità inizia veramente ad essere messa in questione, declinata e resa flessibile in modo da
adattarla alle varie funzioni ed ai vari significati che essa può assumere. La natura pensata come
ecosistema e componente attiva; la definizione di tecnologie quotidiane e l’idea di sviluppo autodeterminante; la democratizzazione definita come processo maieutico in funzione dell’idea di
empowerment sono tutti concetti che conducono ad atteggiamenti progettuali che, nelle loro molteplici
sfaccettature e differenze, condividono una definizione dell’architettura nella quale questa non è più
rappresentata come protagonista indisturbata e diretta soluzione ai problemi, ma come complice
attiva, aperta al confronto ma anche consapevole e critica rispetto allo stesso. Possibile elemento di
risignificazione e credibile leva economica e sociale.
L’analisi trasversale delle metamorfosi semantiche che all’interno del dibattito sulla sostenibilità hanno
interessato l’idea di natura, tecnologia e democratizzazione sembrano cioè raccontare la storia di un
concetto estremamente complesso che, entrando in contatto con ambiti differenti, viene contaminato
perdendo progressivamente la sua univocità a favore di una moltiplicazione di significati, che, se da
un lato genera disorientamento, dall’altro genera possibilità. Una storia che sembra mettere in
evidenza il fatto che, laddove le prese di posizione e le definizioni rigide sono state superate e le idee
e i valori sono state prima compresi e poi interpretati, le contaminazioni sono state proficue, che
laddove il concetto è stato declinato e contestualizzato la sua applicazione ha assunto un senso.
Con la definizione volutamente labile di modalità relazionali efficaci, ma anche di prospettive e obiettivi
comuni che potrebbero diventare la base per un’agenda di nuovi indirizzi progettuali in grado di
orientare nuovi scenari di sviluppo. Prospettive rinnovate e strategie utili nell’indirizzare lo ‘spirito’ della
ricerca progettuale verso la definizione di una migliore qualità sociale e di stili di vita capaci di
rispondere alle nuove condizioni generali, con forti ricadute potenziali sia sulle
retoriche di progetto che sulla strutturazione e sulla morfologia del territorio.
Antologia
Natura
Paolo Soleri
Arcology: the city in the image of man
MIT Press, Cambridge, 1969
Nel 1969, quando inizia l’avventura costruttiva di Arcosanti, l’architetto italo-statunitense Paolo Soleri
scrive il saggio sulla Arcologia quale «città a immagine dell’uomo» ovvero riportata a quella
condizione umana che a suo avviso la metropoli post-moderna ha condotto verso l’aberrazione
tecnologica e la distruzione esistenziale. Per Soleri il criterio di ridefinizione radicale dei sistemi urbani
può essere ritrovato nella «miniaturizzazione» delle risorse e degli spazi insediativi considerando
come importanti fattori costruttivi del benessere dell’uomo l’«equità», la «congruenza» e il rispetto per
la natura. Nell’interpretazione soleriana la realtà è cioè considerabile come un bulbo che si sviluppa a
strati successivi, ognuno necessario a quello superiore e alimentato dal precedente, che per essere
trasformata secondo le effettive necessità umane deve venire strutturata sulla interazione delle parti
geologica, vegetativa e riflessiva, le cui alterazioni di rapporto correttamente combinato creano invece
disagio e distruzione. L’incongruenza delle città attuali sta così nel fatto di sostituirsi ai processi
naturali, espandendosi anziché contraendosi e la confusione tra questi processi genera lo squilibrio
ecologico, al cui riassestamento dovrebbe provvedere la neo-natura definita dall’Arcologia.
La mappa della disperazione
La crescita della popolazione e l’affluenza hanno suggerito ai progettisti una disposizione dei sistemi
urbani e suburbani così estensiva da coprire nel tempo una elevata percentuale di suolo terrestre
utilizzabile. Questa è una mappa della disperazione e richiama alla mente uno di quei moltiplicatori di
cellule patogene che intaccano i tessuti sani circostanti. Questo rapporto di crescita sbilanciato, su un
pianeta che quindi si rimpicciolisce, ucciderà la biosfera della terra e l’uomo che ne è parte. Né è
necessaria l’uccisione. Sarà sufficiente un livello meno estremo di squallore e desolazione a uccidere
il genere umano.
Utopia
La vita è sostanzialmente negata quando la megalopoli e i quartieri suburbani vengono assunti come
parte preponderante dell’ambiente.
La possibile condizione di equità in essi raggiungibile non trova conferma nella condizione ecologica
di congruenza. Nell’attuale tessuto metropolitano, l’assenza dell’implosione di miniaturizzazione
rende l’organismo sociale poco adatto alla sopravvivenza e ancor meno allo sviluppo. L’ambiente
dell’uomo contemporaneo è un’utopia statistica conquistata dal gioco del ‘laissar-farire’. Come tale,
essa tende a rendere l’uomo astratto.
Il bulbo della realtà
Il reale organizza se stesso come gli strati del bulbo di una cipolla. Ciascuno di questi è un fine in se
stesso e contemporaneamente un mezzo per qualcosa di maggiore complessità e portata. Qualunque
sia lo strato, qualsiasi movimento verso una nuova sintesi (o strato) è fondato sul sostegno dello strato
precedente: se non ci fosse lo strato vegetale ad alimentarlo, il mondo della carne sarebbe
inconcepibile. Così la specie umana è indispensabile senza il precedente strato animale. Ogni nuovo
strato è sostenuto dal precedente, non è una sua mera escrescenza.
Per sostenere lo stadio successivo nello sviluppo della vita sensibile e riflessiva (la ‘noosphere di
Teilhard de Chardin), l’uomo dovrà mettere ordine allo stato che gli appartiene; egli deve strutturare il
suo ambiente.
Il secondo stadio sarà l’ultrastruttura che egli creerà fuori da tale ambiente e da se stesso. Per
strutturare il proprio ambiente egli deve definire una neonatura, un substrato fisico-materiale che sia in
grado, dal momento che la natura non lo è, di rendergli servizi specifici ed esclusivamente umani.
Questa neonatura, necessariamente radicata nel biologico (biosfera), deve essere coerente con
l’orientamento generale dell’evoluzione, così da essere uno dei suoi artefici. Essa deve quindi
possedere, per forza di cose, un carattere miniaturizzante. L’utopia astratta con la sua mappa della
disperazione è la sola alternativa.
Il geologico è compatto.
Il vegetativo è estensivo.
Il riflessivo è intensivo.
Non c’è alcuna ‘performance’, vera e propria ‘performance’, al di fuori della disciplina definita da tali
strutture. Dimenticare quelle regole significa separare il mondo dell’uomo dall’insieme delle cose. Ed
essere così dissociati significa essere messi totalmente da parte. Questo è quanto abbiamo imparato
sulla forza vettoriale del mondo.
La doppia ottusità (lo sviluppo incontrollato e l’inquinamento) che noi, il mentale, interponiamo tra il
vegetativo che avvolge il geologico e il sole, suo principio vitale, come se l’estensivo appartenesse
all’intensivo, sta soffocando la biosfera, quello strato che rende possibile il mentale. Con questa
prepotente intromissione nella ‘performance’ del vegetativo, noi non solo compromettiamo il futuro
della specie, ma al tempo stesso non strutturiamo il mentale attraverso la miniaturizzazione della
neonatura, restando così ad uno stadio elementare della riflessione. Se non affronta imo quei limiti,
noi semplicemente rimuoviamo ogni traccia di compassione nei confronti di noi stessi, e lo stupido
errore della nostra specie non verrà neppure avvertito nonostante il suo immenso sanguinare nel
corso di tutta la sua breve storia.
[…]
Arcologia, la città a immagine dell’uomo
Il carattere ecologico della vera architettura si può affermare solo qualora si arresti quell’utopia di
ecumenopoli. L’interezza della neonatura dipende dall’interezza della natura. Entrambe devono
muoversi all’interno della sfera della confluenza secondo la struttura a cui esse appartengono:
l’estensività per la natura, l’intensività per la neonatura.
L’archeologia è intensivamente ecologica e per il suo auto contenimento è in grado di essere
integralmente accetata dall’ecologia naturale. E’ una appartenenza di ‘performance’, non una
appartenenza di parassitismo.
Tredici domande sull’arcologia
L’arcologia (architettura e ecologia) è il nome adottato per identificare una struttura che è (in qualche
modo) un paesaggio o una topografia tridimensionale. In essa, non su di essa come per un paesaggio
«naturale», si organizzano le istituzioni pubbliche e private che formano ogni centro urabno degno di
questo nome.
Le arcologie sono organismi architettonici di tale carattere e dimensioni da essere ecologicamente
rilevanti.
[…]
La miniaturizzazione non è il restringimento di un letto o di un armadio, né il rimpicciolimento di un
soggiorno o di un terrazzo. Essa è l’espulsione di quegli elementi che finiscono per castigare il
paesaggio urbano e punire i suoi abitanti, come i divari spazio-tempo presenti nel meccanismo sfidarisposta di ogni organismo rappresentano una punizione esistenziale impostagli […] La
miniaturizzazione come imperativo etico, ben lungi dall’essere paradossale o assurda, è
semplicemente la necessità di impiegare consapevolmente l’universo della materia e dell’energia, da
parte del fenomeno vivente, nell’unico modo che possa conferire e mantenere in esso la
sopravvivenza e i tratti evolutivi.
L’espansione su una terra desolata da parte di un’anima socialmente e culturalmente arida
difficilmente significa «crescita». E’ una presa più ferma della sub-pianificazione negli affari dell’uomo.
In termini ontologici è il fato che prende il comando (guidato statisticamente) del nucleo della vita
(urbana). E’ nuovamente la saggezza della natura a indicare la strada. L’idoneità di ogni sistema
vivente è strettamente calibrato alla sua dimensione.
Tratto da Paolo Soleri; Kathleen Ryan (a cura di); Itinerario di architettura: antologia degli scritti;
Jaca Book; Milano 2000; pp. 43-69
Richard Buckminster Fuller
Operating Manual for Spaceship Earth
1969
Pubblicato per la prima volta nel 1969, Operating Manual for Spaceship Earth è uno dei testi più
conosciuti di Fuller. Sintetizzando la sua visione del mondo egli investiga le grandi sfide che l’umanità
dovrà affrontare e i principi che a suo avviso devono essere seguiti per evitare l’estinzione e mettere
in pratica delle azioni capaci di condurre l’umanità al successo. Come può sopravvivere l’umanità?
Come possiamo utilizzare le nostre risorse in modo più «efficace» per cancellare la povertà? Per
Fuller le risposte ai nostri problemi vanno tutte cercate attorno a noi, nel bellissimo progetto che ha
generato l’universo e nei «principi generali» che lo governano. La natura, se guardata attentamente, ci
rivela cioè lo stato dell’arte nel progetto e nella tecnologia e solo aumentando l’efficienza generale
della nostra infrastruttura globale – facendo più con meno come la natura fa costantemente –
possiamo realizzare il drammatico potenziale del successo comprensivo per tutta l’umanità. Quella di
Fuller è cioè una visione fondata sul principio dell’efficienza quantitativa nella quale l’idea di natura
viene ricondotta a quella di energia e, appunto, dei principi generali che la governano.
Pianeta Terra
La Terra è stata inventata e progettato così straordinariamente che per quanto ne sappiamo gli umani
l’hanno abitata per due milioni di anni senza sapere di essere a bordo di un’astronave. E questa
astronave è disegnata in modo così superbo da permettere alla vita di rigenerarsi nonostante
l’esistenza del fenomeno per cui tutti i sistemi fisici locali perdono energia, l’entropia. […] E’ perciò
paradossale ma strategicamente spiegabile, come vedremo, che fino ad ora noi abbiamo utilizzato in
modo scorretto, abusato ed inquinato questo straordinario sistema chimico di scambio energetico per
rigenerare con successo tutti i sistemi viventi del nostro pianeta.
Una delle cose per me più interessanti della nostra astronave è che essa è un veicolo meccanico,
come lo è un’automobile. Se si possiede un’automobile, si realizza come sia necessario alimentarla
con benzina o gas, mettere l’acqua nel radiatore e prendersi cura dell’intero veicolo. Si inizia a
sviluppare una piccola consapevolezza termodinamica. Si comprende che o la macchina viene
mantenuta in buono stato o essa avrà dei problemi e non funzionerà più correttamente. Noi non
abbiamo pensato alla Terra come ad una macchina integralmente progettata che per funzionare
sempre correttamente deve essere completamente compresa e servita.
Ebbene c’è un aspetto molto importante che riguarda la Terra, ossia che essa non è dotata di un
manuale di istruzione. Io credo che sia molto significativo il fatto che non vi sia un manuale di
istruzione per operare correttamente sul nostro pianeta. Vista l’infinita attenzione a tutti gli altri dettagli
del nostro pianeta, il fatto che un manuale di istruzioni sia stato omesso deve essere considerato
come una scelta voluta e finalizzata. […] Questa mancanza ci ha costretti ad utilizzare il nostro
intelletto, che è il nostro talento principale, per ideare procedimenti sperimentali e per interpretare
efficacemente il significato dei risultati sperimentali. Così per via della mancanza di un manuale di
istruzioni noi stiamo imparando come anticipare le conseguenze del numero crescente di alternative
per ampliare in modo soddisfacente la nostra sopravvivenza e la nostra crescita – sia dal punto di
vista fisico che metafisico – senza correre rischi.
Tutti gli esseri viventi sono completamente indifesi al momento della nascita. I bambini restano indifesi
più di quanto non facciano i cuccioli di ogni altra specie. A quanto pare è caratteristica dell’uomo che
egli sia tenuto a rimanere completamente indifeso entro alcune fasi antropologiche e che, quando
inizia ad essere capace di cavarsela meglio,sia chiamato a scoprire alcuni principi fisici moltiplicatori
insiti nell’universo così come molte risorse non scontate a sua disposizione che potrebbero
moltiplicare ulteriormente la sua capacità di rigenerazione e i sistemi di nutrimento.
Voglio dire che il sistema pensato nell’ambito della ricchezza totale della Terra è stato un grande
fattore di sicurezza che ha permesso all’uomo di rimanere ignorante per molto tempo fino a quando ha
accumulato abbastanza esperienza attraverso la quale estrarre progressivamente i sistemi di principi
generali che governano l’aumentare dei vantaggi di gestione energetica rispetto all’ambiente.
L’omissione volontaria di un manuale di istruzioni rispetto al modo di operare e di mantenere la Terra
e i suoi complessi sistemi di supporto e rigenerazione della vita hanno obbligato l’uomo a scoprire in
retrospettiva quali siano la sue più importanti capacità. Il suo intelletto deve scoprire se stesso.
L’intelletto deve capitalizzare la sua esperienza. Una revisione complessiva dei fatti esperiti da parte
dell’intelletto ha permesso l’accrescimento della consapevolezza dei principi generali che stanno alla
base di tutte le esperienze. L’utilizzo oggettivo di questi principi generali nel riassettare le risorse
fisiche dell’ambiente sembra condurre verso un successo definitivo dell’umanità e alla capacità di far
fronte ai sempre più vasti problemi dell’universo. […] Solo quando ha imparato a generalizzare i
principi basilari dell’universo fisico l’uomo ha effettivamente imparato ad utilizzare il suo intelletto.
[…]
La teoria dei sistemi generali
Come possiamo usare le nostre capacità intellettuali per avere maggiori vantaggi? […]
Nell’organizzare la nostra grandiosa strategia prima dobbiamo scoprire dove ci troviamo adesso; cioè
qual è il nostro punto di navigazione attuale nello schema di evoluzione universale. Per fissare la
nostra posizione a bordo della Terra per prima cosa dobbiamo riconoscere che l’abbondanza delle
risorse immediatamente consumabili, sicuramente desiderabili o totalmente essenziali è stata fino ad
ora sufficiente al nostro sostentamento nonostante la nostra ignoranza. Essendo però in realtà risorse
esauribili, esse sono state adeguate solo fino al raggiungimento di questo momento critico.
Quest’ancora di salvezza per la sopravvivenza e la crescita dell’umanità fino a questo momento è
stata fornita come all’uccellino all’interno dell’uovo viene fornito il nutrimento per svilupparsi fino ad un
certo punto. Ma poi è stabilito che il nutrimento si esaurisca quando il pulcino è grande abbastanza da
muoversi con le sue gambe. E così quando il pulcino becca il guscio alla ricerca di maggior nutrimento
inavvertitamente lo rompe. Uscendo dal suo santuario iniziale, il piccolo uccello si deve ora foraggiare
con le sue zampe e e con le sue ali per scoprire la fase successiva del suo sostentamento
rigenerativo.
La mia descrizione dell’umanità oggi ci trova appena dopo la rottura del guscio. Il nostro nutrimento
dentro al guscio si è esaurito. Ci stiamo confrontando con una relazione nuova rispetto all’universo.
Dobbiamo aprire le ali del nostro intelletto e volare o periremo; dobbiamo cioè provare
immediatamente a volare grazie ai principi generali che governano l’universo e non attraverso le
regole rettificate dei riflessi superstizioni e erroneamente condizionati validi fino a questo momento. E
non appena ci sforzeremo di pensare in questo modo inizieremo immediatamente a reimpiegare il
nostro metodo innato di una comprensione comprensiva.[…]
Così io credo che sia appropriato che noi assumiamo il ruolo di pianificatori e iniziamo a pensare alla
più ampia scala possibile.
Iniziamo evitando il ruolo degli specialisti che operano solo per parti. Diventando intenzionalmente
espansivi, anziché tendere a contrarsi, ci chiediamo, «Come pensiamo in termini di intero?» […] Uno
degli strumenti di grande vantaggio intellettuale è lo sviluppo di quella che viene chiamata la teoria
generale dei sistemi. Utilizzandola iniziamo a pensare a sistemi più ampi e comprensivi possibili,
cercando di fare questo scientificamente. […]
L’universo è, deduttivamente, il sistema più grande. Se noi potessimo iniziare con l’universo,
potremmo automaticamente evitare di escludere ogni variabile strategicamente critica […] L’universo è
l’aggregazione di tutte le esperienze coscientemente apprese e comunicate con le sequenze di eventi
non-simultanei, non-identici e solo parzialmente sovrapposti, sempre complementari, quantificabili e
non quantificabili, sempre in trasformazione. […] L’universo è uno scenario evolutivo senza inizio o
fine, poiché la parte mostrata viene continuamente trasformata chimicamente in una pellicola frasca e
riesposta al continuo processo auto-riorganizzativo delle ultime realizzazioni escogitate che devono
continuamente introdurre nuovi significati nella rinnovata descrizione fisica degli eventi in continua
trasformazione prima di unire ancora il film per la sua prossima fase di proiezione.
Il principio dell’indeterminismo di Heisenberg riconosce la scoperta sperimentale del fatto che l’atto
della misurazione altera sempre quello che viene misurato ribaltando l’esperienza in uno scenario
evolutivo continuo e mai ripetibile. Una rappresentazione dello scenario riguardante la fase di bruco
non comunica la sua trasformazione nella fase di farfalla, ecc. La domanda, «Chissà cosa c’è fuori
all’esterno dell’universo?» è una domanda per una singola rappresentazione di uno scenario di
trasformazioni ed è una domanda insitamente non valida. E’ come guardare un dizionario e chiedersi,
«Che parola è il dizionario?». E’ una domanda priva di senso.
E’ caratteristico di ‘tutti’ i modi di pensare – di tutti i sistemi concepiti – che tutte le linee di
interrelazione studiate a fondo devono ritornare ciclicamente su se stesse attraverso una pluralità di
direzioni, come fanno varie grosse circonferenze attorno alle sfere. In questo modo possiamo
comprendere in modo correlato il gruppo – oppure il sistema – di esperienze prese in considerazione.
In questo modo possiamo comprendere come l’economia specifica dimostrata dal sistema specifico
considerato rivela anche le leggi generali di conservazione dell’energia dell’universo fisico.
Per uccidere un’anatra in volo un cacciatore non spara all’uccello quando lo vede, ma prima di lui,
così che l’uccello e il proiettile si incontrino l’un l’altro in un punto non in linea fra il cacciatore e
l’uccello al momento dello sparo. La gravità e il vento spingono anche il proiettile verso due differenti
direzioni che in modo diverso impartiscono un leggero spostamento a spirale della traiettoria alla
pallottola. Due aeroplani in un combattimento notturno della Seconda Guerra Mondiale sparavano l’un
l’altro con proiettili traccianti e fotografati da un terzo aereo mostrano chiaramente le traiettorie a
spirale quando uno colpiva l’altro. Einstein e Reiman hanno dato il nome di linee geodetiche alle linee
curvilinee e più economiche di interrelazione fra due eventi che si muovono indipendentemente – gli
eventi in questo caso erano i due aeroplani.
Una grande circonferenza è una linea formata sulla superficie della sfera dall’intersezione di un piano
passante per il centro della sfera. Circonferenze minori vengono formate sulla superficie delle sfere da
piani che attraversano le sfere senza passare nel loro centro. Quando una circonferenza minore viene
sovrapposta su una maggiore essa taglia la minore in due punti, A e B. La distanza fra A e B sull’arco
minore della circonferenza grande è minore di quella dell’arco minore della circonferenza più piccola.
Le circonferenze grandi sono linee geodetiche perché forniscono la distanza più economica (dal punto
di vista energetico e degli sforzi) fra due punti sulla superficie di un sistema sferico; perciò, la natura,
che utilizza sempre le relazioni più economiche, deve utilizzare quelle grandi circonferenze che,
diversamente dalle linee a spirale, ritornano sempre su se stesse nel modo più economico possibile.
Tutti i percorsi del sistema devono essere interrelati topologicamente e circolarmente per una
comprensione concettualmente definitiva, localmente trasformabile, poliedrica per essere raggiunta
nei nostri pensieri spontanei – dunque, più economici – geodeticamente strutturati.
Tratto da Richard Bukminster Fuller; Operating manual for spaceship earth;
Lars Müller; Baden 2008
Emilio Ambasz
Architettura & Natura/Design & Artificio
Electa,
Le descrizioni progettuali presentate in Architettura & Natura/Design & Artificio fanno emergere la
costante ricerca di Emilio Ambasz verso ipotesi progettuali in cui il naturale e l’artificiale si fondono e
coesistono armonicamente attraverso la costruzione di situazioni iper-naturali pensate come
risarcimento ambientale, come «compensazioni» proposte al cittadino per un mondo che diventa
sempre più ‘innaturale’. In una recente auto-intervista – Ambasz intervista Emilio – l’architetto avanza
quindi esplicitamente l’idea di una riconciliazione urbana fra natura e artificio, fra edificio e giardino,
ottenuta attraverso l’idea del «verde sul grigio», della «restituzione» cioè da parte del primo dell’intera
area occupata al secondo. Secondo un punto di vista per il quale la natura deve essere trasportata
nell’astrazione e il concetto di contrapposizione tra creazione umana e naturale va superato a favore
di una definizione più architettonica dell’architettura in cui questa viene intesa come componente
integrale della natura e in cui la natura è concepita non solo come difesa dell’uomo, ma anche come
sua creazione.
Schlumberger Research Laboratories, 1982
Situato ai margini di Austin, Texas, il sito destinato ad accogliere il centro di ricerca era apprezzato
dagli abitanti delle zone limitrofe per la sua bella area verde. Poiché il luogo meritava un progetto
capace di entrare in armonia con il paesaggio anziché emergervi per contrasto, la struttura è stata
divisa in una serie di piccoli edifici che opportuni rialzi di terra aiutano ad integrare nel verde esistente,
riducendo al contempo i costi energetici. In tal modo si offre alla vista un gradevole paesaggio creato
dall’uomo anziché un’edilizia intrusiva.
Gli edifici e le strutture ricreative sono disposti casualmente attorno ad un lago artificiale, come in un
giardino all’inglese. Grazie ai terrapieni l’architettura si fonde nel paesaggio, creando una piacevole
atmosfera per il personale dei laboratori che desidera godere del panorama. L’area destinata ai
laboratori comprende un ampio spazio indifferenziato dove gli uffici dei ricercatori – sorta di unità
mobili appartate – possono essere disposti secondo le configurazioni più diverse. Le unità possono
infatti essere spostate rapidamente e con facilità in risposta ai cambiamenti dimensionali delle équipe
di ricerca e per agevolare il dialogo fra i singoli gruppi e al loro interno. I laboratori sono stati progettati
in maniera tale da coniugare le migliori caratteristiche dell’open space – flessibilità e facilità di
comunicazioni – con quelle dell’ufficio tradizionale: riduzione dell’inquinamento acustico, controllo
individuale dell’ambiente e privacy.
Fukuoka Prefectural International Hall, 1990
La città giapponese di Fukuoka aveva urgentemente bisogno di una nuova sede per gli edifici pubblici,
ma l’unico sito disponibile era un vasto parco situato in centro. La notizia che la nuova struttura
avrebbe potuto sorgere proprio sull’ultima area verde rimasta in città suscitò le proteste degli abitanti.
Il progetto di Ambasz ha ottenuto la commessa per aver saputo conciliare con successo due esigenze
conflittuali: raddoppiare le dimensioni del parco e al contempo fornire alla città di Fukuoka una
struttura potentemente simbolica che sorgesse al suo centro. Una serie di giardini terrazzati si
arrampica sulla facciata dell’edificio restituendo ai cittadini quasi tutto il verde che la struttura avrebbe
sottratto. Immediatamente approvato, il progetto è stato realizzato senza incontrare alcuna
opposizione da parte della comunità e senza i tipici ritardi che questa avrebbe prodotto.
Tratto da Emilio Ambasz, Terence Riley (a cura di); Architettura e Natura/ Design & Artificio;
Electa; Milano 2010
[…] Non ti sei sentito solo e emarginato quando hai iniziato a sviluppare il tuo concetto architettonico
“il Verde sopra il Grigio”?
Sì, e per un bel pezzo. Ma ora, a trent’anni di distanza, ho generato figli, nipoti e non pochi bastardi.
Vedere Renzo Piano, Jean Nouvel, Tadao Ando e molti altri utilizzare materiali di origine vegetale nei
loro progetti mi fa capire che la mia missione sta dando i suoi frutti. Sentire alcuni di loro vantare la
paternità di queste idee mi fa sentire un personaggio mitologico, ma so che è solo un caso di
predestinazione freudiana.
Si direbbe che ami le piante. C’è del druido in te?
Adoro gli alberi. Nel mondo occidentale se c’è un albero è perché qualcuno l’ha piantato o ce l’ha
lasciato. Un nuovo giardino fatto dall’uomo si è presto sostituito a quello che ci era stato dato in
origine. Ora dobbiamo trovare una nuova definizione filosofica di Natura, che comprenda l’architettura
come uno dei suoi elementi inscindibili. Solo così si potrà stabilire un patto sempre rinnovato di
riconciliazione dell’Architettura con una Natura in continua evoluzione.
[…]
Credi nella teoria Gaia?
Gaia non è una teoria, ma un’ipotesi poetica; ed io tifo per la poesia.
È universale il soggetto della tua architettura?
Ho sempre pensato all’architettura come a un atto dell’immaginazione creatrice di miti. Credo che il
vero compito dell’architettura inizi dopo che sono stati soddisfatti i bisogni funzionali e
comportamentali. Non è la fame, ma l’amore e la paura – e talvolta lo stupore – che ci fanno creare. Il
contesto culturale e sociale dell’architetto cambia sempre ma il suo compito è sempre lo stesso: dare
forma poetica al pragmatico.
Il tuo lavoro è intensamente pastorale. Hai qualche speranza per il futuro dell’urbanismo? O per dirla
chiaramente: hai qualche idea urbanistica “verde”?
Fukuoka dimostra che si può avere ‘il Verde e il Grigio’ – uno sull’altro – e al tempo stesso si può
restituire alla comunità il 100% della terra coperta dall’impronta dell’edificio sotto forma di giardini
accessibili a tutti dal piano terra. Per me, questo edificio è la prova tangibile del fatto che il concetto
dominante secondo cui le città sono per gli edifici e la periferia per i parchi è un’idea sbagliata e
malsana. L’edificio Fukuoka dimostra, una volta per tutte, che si può avere un edificio e un giardino, il
100% dell’edificio e il 100% del verde che gli abitanti dell’edificio e i loro vicini desiderano.
Senti, provocatore: se cerchi delle idee urbanistiche verdi nel mio lavoro guarda i progetti proposti per
l’ENI, l’Aia e anche le Monument Towers di Phoenix sono un esempio di urbanismo verde, sebbene
non sia evidente visto che non ci sono piante perché friggerebbero bensì una “pelle” che protegge il
palazzo dal calore intenso dell’Arizona. L’edificio è raffreddato dall’aria che parte da sotto la falda
acquifera e sale al centro dell’edificio grazie all’effetto Venturi. Tutte le prese d’aria ‘raccolgono’ il sole.
Trova la tua collocazione nel contesto della produzione architettonica attuale. Jim Wines? Ken
Yeang? Michael Reynolds?
Molti anni fa, quando Peter Eisenman e Michael Graves mi promossero alla Graduate School quando
ero solo studente di primo anno a Princeton University, Peter mi disse – mentre ci trovavamo in uno di
quei corridoi delle università dove gli eunuchi accademici sognano il potere – che ora che ero
diventato studente a tutti gli effetti lui avrebbe fatto di me il suo studente ‘modello’. Mi si aprì la bocca
e, come in preda a uno spirito interiore, mi sentii dire: «Non posso essere il tuo modello, Peter, perché
sarò il padre di una nazione». Ero più stupito delle mie parole di quanto non lo fosse Peter che, per
una volta in vita sua, rimase ammutolito. So che può sembrare presuntuoso, ma ho la pretesa di
essere il precursore dell’attuale produzione architettonica che s’interessa di problematiche ambientali.
Tutta la forza delle mie idee architettoniche, sempre che ne abbiano, viene proprio dalla mia ferma
convinzione che l’architettura non debba solo essere pragmatica ma che debba anche commuovere.
E per coloro che professano il mio credo architettonico, non mi interessa se coprono di insalata le loro
opere ma se le loro opere riescono a suscitare emozioni. Se un’opera verde non parla al cuore, che
senso ha? È soltanto una costruzione come tante.
Credi che la Natura sia benigna?
Partiamo dall’inizio. Se la Natura ci avesse dovuto accogliere con l’aspetto che abbiamo, non
avremmo avuto bisogno di costruirci nessun riparo. Credi che io cerchi di sollevare l’angolo di un
praticello erboso per coprirmi come se fosse una coperta magica? Che così facendo io cerchi di
addomesticare la Natura? Credo che nel nostro tentativo di controllare la Natura-che-abbiamo-trovato
abbiamo creato una seconda Natura-fatta-dall’uomo, in un intricato rapporto con la Natura-data.
Dobbiamo ridefinire l’architettura come un aspetto della nostra Natura-fatta-dall’uomo, ma per farlo
dobbiamo prima ridefinire il significato contemporaneo di Natura. Forse una nuova Accademia
Filosofica è quel che serve. Vogliamo chiamare un’istituzione di questo tipo Universitas, cioè il tutto?
[…]
Ti interessano i recenti progressi nella tecnologia ambientale e ti avvali di tali innovazioni nei tuoi
progetti più recenti?
Mi interessa moltissimo qualsiasi tipo di tecnologia. Infatti sono uno di quegli architetti che non si limita
a progettare nel dettaglio le proprie opere in scala 1:1 ma so anche come produrre in massa quei
dettagli. Naturalmente questo è dovuto al fatto che mi occupo anche di design industriale. Progetto,
ingegnerizzo e risolvo ogni genere di problema di produzione presentino i prodotti che invento. Credo
che il solo modo di risolvere davvero i problemi che la tecnologia può porre alla società consiste
nell’utilizzare la tecnologia. Il problema della società tecnologica sta nel fatto che è analfabeta in
materia e quindi, alla mercé della malia della tecnica e dei dettami dei suoi alti sacerdoti. Ma l’uso
della tecnica non andrebbe confuso con l’architettura.
Come molti architetti, padroneggi la retorica e parli con eloquenza. Ma che cosa hai realizzato negli
ultimi 30 anni?
Ho passato gli ultimi 30 anni della mia carriera a proporre e creare degli edifici che restituiscono alla
comunità quanto più verde possibile. In alcuni casi sono riuscito a restituire quasi tutto il terreno sotto
forma di giardini restituendo alla comunità la stessa superficie che occupa l’edificio. (Ne è un esempio
il mio progetto del Centro Atletico e Culturale Mycal a Shin-Sanda, Prefettura di Hyogo, Giappone). In
tutti i miei progetti ho cercato di restituire alla comunità, sotto forma di giardini collettivamente fruibili,
quanto possibile se non tutta la terra che occupa la pianta del mio edificio. L’edificio di 1.000.000 di
piedi quadrati destinato a uffici, teatro, spazi espositivi che ho progettato a Fukuoka in Giappone
dimostra come ci si possa riuscire anche in un contesto densamente urbanizzato. Il progetto per l’ENI
a Roma dimostra come è possibile creare dei Giardini Verticali nei piccoli spazi di terreno di un edificio
alto. Il mio progetto per il grande ospedale da 600 letti a Mestre (Venezia) ora in costruzione, è stato
acclamato come il primo ‘giardino della salute’, un fattore attivo del processo di guarigione. Mi
impegno a cercare di progettare degli edifici strettamente legati alla natura, accessibili e fruibili dalla
comunità intera intesa in senso lato, così come sono accessibili e fruibili dagli enti economici che li
hanno finanziati. La mia formula architettonica del ‘Verde sopra il Grigio’ o del ‘morbido sopra il duro’
rappresenta un modo molto semplice ma incisivo di creare edifici che non estranino i cittadini dal
regno vegetale ma al contrario creino un’architettura inestricabilmente intessuta nel verde, nella
natura.
Tratto da Emilio Ambasz; Ambasz intervista Emilio; in ‘House Living and Business’; giugno 2010.
Disponibile sul sito http://www.immobilia-re.eu/mi-domando-ambasz-intervista-emilio/
James Wines
Ventidue domande a James Wines president of SITE
CLEAN, 1999
Se nel suo testo De-Architetture James Wines presenta una prospettiva di ripensamento di alcune
premesse dall’architettura, partendo dalla descrizione della crisi di comunicazione che per l’architetto
è propria di molta architettura contemporanea e auspicando il ritorno all’integrazione del costruito al
contesto a cui appartiene attraverso «architetture sensibili» ai cambiamenti sociali e ambientali,
nell’intervista rilasciata a Fulvia Angrisano egli rilegge le sue posizioni focalizzando l’attenzione sui
temi introdotti dal movimento ecologico. Citando numerosi scrittori di saggi sull’ambientalismo come
Rachel Carson e Arne Naess, Wines descrive la natura come «unica fonte di simbolismo totalmente
universale nell’arte» e gli edifici come «sistemi integrati» capaci di fondersi con il contesto; con la
topografia, la vegetazione, la «terra». «Estensioni estetiche» di iniziative ambientaliste ed elementi
iconografici portatori dei più importanti ed universali messaggi dei loro tempi. Per l’architetto gli
elementi dell’ambiente naturale, così come le nuove tecnologie ambientali, diventano parte integrante
dell’architettura con l’obiettivo di tradurre i messaggi lanciati dall’ecologia in linguaggio estetico.
Credere, Obbedire, Combattere: tre ideali per l’architettura? Credere in cosa? Obbedire a che cosa?
Combattere con chi, con che cosa?
Per rispondere alla prima domanda la mia prima risposta è essa stessa una domanda. Se gli architetti
dell’era della macchina potessero forgiare nuovi convincenti paradigmi per costruire al di là dei
piuttosto limitati meccanismi di produzione industriale, ci si deve chiedere quali incredibili visioni di
habitat emergeranno, in risposta all’idea ispirata invece dalla natura.
Credere in qualcosa consiste ora nel supportare il concetto di una architettura veramente ambientale
– che non solo rispetti l’ecologia e preservi le risorse, ma anche un’architettura che traduca questi
preziosi obiettivi in un linguaggio estetico.
Troppo spesso il problema della cosiddetta ‘architettura del verde’ è il conflitto tra l’avere un forte
senso della missione e un ammirevole uso della tecnologia conservativa, contro una posizione morale
eccessiva e un fallimento nel convertire in arte i suoi nobili obiettivi.
Senza l’arte, l’intera idea di ‘sostenibilità’ fallisce; perché mai la gente vorrà tenersi un edificio noioso
nei paraggi, non importa quanto esso sia ben rifornito di vetri a taglio termico, di celle fotovoltaiche e
di materiali a emissione zero.
Considerando la premessa su fatta, sono convinto che l’architetto dell’era dell’Informazione della
Ecologia debba obbedire alla natura e a quei parametri di sensibilità che rendono la sua funzione
altrettanto bene.
Riguardo ciò, gli edifici possono diventare estensioni estetiche, sia di iniziative ambientaliste sia di
flussi di comunicazione rappresentati dalla tecnologia dei computers e dai mass-media.
L’architettura oggi può essere vista come il prodotto di ‘sistemi integrati’.
Proprio come la forma e la funzione delle industrie, dei ponti, delle turbine, dei motori a combustione e
degli aeroplani divennero la fonte di idee per i progettisti degli anni ’20, così l’energia idrologica,
geologica, vegetale, topografica, dei sistemi digitali e delle comunicazioni può influenzare la forma
degli edifici nell’anno 2000.
Combattere in architettura significa ora ingaggiare una guerra filosofica ed estetica contro
l’irresponsabilità a livello ambientale, stilisticamente derivata e contro un agglomerato di progetti che
ancora dominano il sistema architettonico, formalmente obsoleti.
Verso quali direzioni punta l’architettura oggi?
All’inizio di questo secolo le fonti di ispirazione nell’arte del costruire erano consequenziali all’era
dell’Industria e della Tecnologia. Ora ci troviamo nell’era dell’Informazione e della Ecologia. Lo spirito
e le motivazioni dei nostri tempi sono cambiate; ma il linguaggio figurativo e la direzione
nell’architettura sono rimaste sostanzialmente le stesse.
L’estetica dell’era della Macchina ancora prevale e le influenze stilistiche del Modernismo e del
Costruttivismo (chiaramente le nostre versioni attuali di Beaux Arts) ancora dominano la professione
dell’architettura.
Da un punto di vista creativo ciò risulta molto problematico, poiché limita le fonti d’ispirazione. In
maniera più approfondita, la devastazione ambientale risultante da una ossessione tecnologica a cui
Credere corrisponde una inosservanza delle leggi ecologiche, è diventata il cancro della terra e un
pericolo per la sopravvivenza umana.
La costruzione della dimora umana consuma 1/6 del rifornimento d’acqua, ¼ del raccolto di legname e
2/5 del combustibile fossile e dei materiali manufatti. Perciò l’architettura è diventata una dei target
primari di riforma ecologica.
Mentre Le Corbusier, nel 1929 salutava il potere ispirazionale della macchina come «…un flusso che
rotola attraverso la sua predestinata fine, approviggionandoci con nuovi strumenti adatti a questa
nuova epoca, animata da un nuovo spirito…», la realtà oggi è che la terra è ora la nuova macchina e
la più grande fonte di idee per una architettura rivoluzionaria.
Quali autori hanno contribuito alla Sua formazione, tra gli antichi, tra i moderni, tra i contemporanei?
[…] sono stato influenzato da numerosi scrittori di saggi sull’ambientalismo, come Theodore Roszak
(psicologo ambientalista), Lewis Munford, Rachel Carson, Frank Lloyd Wright, Carl Jung, e Arne
Naess (leader del movimento della Deep Ecology) […]
Ma la sua architettura a chi o a che cosa si avvicina di più?
La mia architettura, sin dall’inizio, è stata sempre molto più collegata all’arte visiva e all’ambiente, che
alla forma e alla struttura tradizionale del Modernismo e del Costruttivismo. Originariamente, le mie
intenzioni erano focalizzate su commenti sociali, psicologici e contestuali (per esempio durante il
periodo degli edifici della Best Products). Attualmente i miei lavori sono connessi con la fusione degli
edifici, con la topografia, con la vegetazione, la scienza della terra e, come sempre, con alcuni aspetti
della pittura e della scultura.
[…]
L’arte che mi ha ispirato, tratta commenti sul contesto culturale, comunicazione di valori che in
qualche modo sembrano incarnare un’intera epoca, che ha molteplici e stratificati livelli di significato e
in alcun modo pura. In altre parole preferisco il lavoro che diventa ibrido dell’arte, spettacolo,
letteratura, architettura, paesaggio etc. In architettura preferisco i lavori in cui diventa difficile
distinguere dove inizia l’edificio e dove il contesto si ferma.
[…]
Nel codice linguistico di un architetto che parte ha l’espressione individuale e quanto è influenza del
contesto, delle mode, delle correnti?
Siamo alla fine (per fortuna) di un periodo storico di esagerata ampollosità scultorea e irresponsabilità
ambientale in architettura. L’intera premessa, oggi di progetto high-end è basato su principi egocentrici in opposizione agli eco-centrici.
La dimensione attuale della conquista architettonica sembra essere fondata sull’uso della
progettazione attraverso il computer, per creare versioni esagerate delle strategie formali di
Costruttivismo, appropriandosi secondo me in modo spropositato di quelle idee che non potevano
essere realizzate dai pionieri originari, poiché essi non possedevano nel 1920 i vantaggi dei
computers e della costruzione tecnologica.
Comunque ciò dipende da cosa si intende per espressione individuale.
A mio avviso ciò significa originalità, coraggio delle proprie convinzioni, esplorazione dei nuovi territori,
la volontà di sacrificarsi per quello in cui si crede e per quanto riguarda l’architettura nel creare lavori
che sono sia rivoluzionari alla vista, sia ‘ambientalmente responsabili’.
Ciò rimanda alla mia originaria premessa di base. Sento profondamente che la chiave per l’invenzione
dell’architettura nel futuro sta nella fusione di una sensibile consapevolezza terrena, di una
progressiva tecnologia ambientale e di una invenzione estetica che non è schiavizzata dai principi
progettuali dell’età della macchina. Voglio dire che le influenze culturali, mentre da una parte possono
essere importanti, d’altra parte non dovrebbero dominare la produzione artistica semplicemente
perché sono di moda. Per costruire un edificio sculturalmente dinamico che fa titoli e che abbellisce
tutte le copertine delle riviste, ma che non è, allo stesso tempo, una parte preponderante della
rivoluzione ecologica, rende all’istante questa struttura irresponsabile e irrilevante.
Secondo Lei cosa deve dire un’opera di architettura all’osservatore casuale? Pensa che il messaggio
che egli coglie dovrebbe essere lo stesso dell’osservatore competente?
Chiaramente i messaggi del costruito variano con il tempo, con il contesto culturale, con il livello
educativo del pubblico e di molti altri fattori che determinano il livello di gradimento. In generale credo
che lo spettatore profano presta poca attenzione agli edifici, poiché (non certamente dall’avvento del
modernismo) i messaggi trasmessi non fanno parte di una iconografia universale.
Una cattedrale gotica parlava alla gente attraverso un unanime linguaggio religioso. Una struttura
contemporanea, che si basi su celebrare funzione, efficienza, e i rapporti esoterici del progetto
formale, non può ricevere un ampio consenso di pubblico.
Intanto, la gente del mondo moderno ha fatto troppa esperienza di funzioni e di un ordine (da grandi
interessi sociali); ciò ha portato ad una ribellione contro questi valori espressi negli edifici.
Allo stesso tempo gli interessi degli architetti, in termini di qualità di forma, sono così pieni di pregiudizi
che l’intera progettazione mondiale è bloccata dal suo stesso punto di vista ermetico
interprofessionale.
Esprimendo questa critica non sto difendendo un banale e popolarizzato marchio di architettura
(Disney fa tuto ciò molto bene), ma sto facendo rilevare che gli edifici possono essere fortemente
iconografici ed essere portatori dei più importanti ed universali messaggi dei loro tempi, senza però
sacrificare la qualità artistica.
Certamente la causa ambientale è uno dei messaggi più significativi e più profondamente condivisi del
nostro tempo e gli edifici – come punto chiave dell’arte pubblica – hanno un’unica opportunità, cioè di
essere simboli del movimento ecologico.
Ciò suggerisce una nuova ricchezza di immaginario che rende gli elementi dell’ambiente naturale una
parte dell’architettura, proprio come la muratura, l’acciaio, il calcestruzzo e il vetro.
«…La natura: qualcosa da sottomettere e imbrigliare nella tradizionale visione occidentale; qualcosa
con cui vivere in armonia secondo la filosofia e la cultura orientale…». Dove deve cominciare e dove
deve finire l’artificio dell’uomo?
Per rispondere a questa domanda ho utilizzato l’intera intervista.
La situazione ambientale si riduce a se si possa tendere ad una inversione definitiva del concetto folle
di ‘conquistare la natura’ o se invece la razza umana è destinata all’estinzione a causa della sua
stessa stupidità ambientale. Virtualmente, ogni cultura storica che abbia dato prova di un attento
equilibrio tra il costruire un habitat, conservare l’agricoltura e rispettare la natura, è stata facilmente
sostenibile.
E’ stato solo durante il periodo industriale che molte delle società fragili e non aggressive
(generalmente gli Aborigeni e le culture degli Indiani nativi) furono distrutte per imporre la pazza
‘conquista della natura’, di cui tutta l’umanità è stata minacciata.
Sono state scritte numerose sceneggiature per aiutare a prevenire un qualsiasi inevitabile giorno del
giudizio, per esempio costringendo le industrie a dichiarare i loro profitti solo in relazione all’impatto
ambientale e poi tassandoli conformemente al loro consumo di risorse e al loro livello di inquinamento.
Da un punto di vista filosofico, l’illusione del conquistare la natura deve essere universalmente
rifiutata. Dovrebbe invece essere rimpiazzata da una ‘strada realmente ecologica’ e da un
monitoraggio internazionale delle condizioni della terra e dell’atmosfera, al fine di incoraggiare una
massiccia inversione di tutte quelle linee di condotta politicamente ed economicamente distruttive che
minacciano l’interesse collettivo della sopravvivenza.
Quali regole dovrebbe allora avere oggi l’architettura?
Le regole dell’architettura ora dovrebbero essere definite da una risposta intelligente all’ambiente
naturale. Se i sistemi di regole deriveranno da questo impegno, ho la sensazione che ssi saranno
motivati da un nuovo senso di consapevolezza della scienza terrestre e del futuro benessere
dell’umanità.
Le interpretazioni artisiche saranno infinitamente flessibili – certamente non gravate da codici primari
di questo secolo.
[…]
In quali lavori si sente maggiormente rappresentato?
Sento che il ‘Museum of Islamic Art’ nel Quatar è tra i miei lavori migliori, perché fonde con successo
l’architettura, il paesaggio, la topografia regionale, la tecnologia ambientale e le mostre orientate al
cyberspazio e al multimediale.
E’ un gran buon esempio della mia concezione di ‘pensiero ambientale’ in architettura, di nozione di
edifici e di contesto come prodotto di ‘sistemi integrati’ (tratto dalla struttura ecologica della natura).
Come vede il futuro dell’architettura relazionata allo sviluppo di una filosofia basata sull’ambiente?
Come conclusione a questa intervista, e come risposta a quest’ultima domanda mi piacerebbe
includere un passaggio dall’ultimo paragrafo del mio prossimo libro, dal titolo ‘L’Arte dell’architettura
nell’era dell’Ecologia’. Penso sia appropriato al contesto della nostra discussione, poiché riassume i
miei sentimenti sul futuro dell’architettura.
«La natura è primitiva, metaforica e infinitamente ambigua. E’ ricca nelle associazioni e l’unica fonte
di simbolismo totalmente universale nell’arte. E’ una fonte rigenerativa di contenuto che elimina le
ridondanze e costantemente rivela nuove informazioni. Attraverso al sua infinita complessità, la natura
è dotata di una forza istruttiva e ispirazionale che può avanzare il linguaggio dell’architettura e
confermare l’inalienabile diritto dell’umanità per cercare di salvare un posto su questo pianeta prima
che sia troppo tardi. La missione ora nell’arte dell’edificare, come in tutti gli sforzi umani, consiste nel
recuperare questi fragili fili di connessione con la terra che sono stati persi da molti secoli a questa
parte. La chiave di una architettura sensibile all’ambiente per il prossimo millennio, significa la
creazione di ponti che uniscono la conservazione tecnologica, l’ecologia basata su idee filosofiche, e
la loro incarnazione nella visione di un nuovo linguaggio».
Tratto da James Wines, Fulvia Angrisano (a cura di);
Ventidue domande a James Wines president of SITE; CLEAN; Napoli 1999
Ugo Sasso
Quarantasette domande a Ugo Sasso. Speciale Bioarchitettura
CLEAN, 2003
Attraverso le domande di Giovanni Galanti, Ugo Sasso fornisce la sua definizione di ‘bioarchitettura’.
Per l’architetto italiano essa non è né puro strumento tecnico per tentare di affrontare la crisi
ambientale, né metodologia codificata, né una filosofia nell’accezione comune, ma è «visione» e «previsione», guidata da una grande tensione umanistica che colloca l’uomo nel suo ambiente vitale. E’
cioè architettura mirata ad integrare le attività dell’uomo alle preesistenze ambientali ed ai fenomeni
naturali per migliorarne la qualità della vita. Secondo un punto di vista per il quale il termine dialettico
di riferimento non è più «uomo/natura», ma «naturale/culturale» e compito del nostro tempo è la
conquista della consapevolezza che il nocciolo della questione ambientale non sta nel proteggere il
verde, «nei materiali, nelle singole scelte o nella tecnologia quanto piuttosto nel recupero di
prospettive, significati, orizzonti». Perché il piano ambientale assume significato solo se messo in
relazione con quello sociale e culturale e la qualità ecologica è imprescindibilmente connessa alla
qualità sociale del vivere di una persona, facendosi così prima di tutto sociale, economica e politica.
Tra natura e artificio
Ci pare di intendere che a suo parere il progetto contemporaneo dominante non sarebbe in grado di
interpretare la via del fare ecologico e del rispetto di quelle esigenze, da lei ritenute fondamentali e
indispensabili, per la creazione di una prospettiva di un mondo migliore.
Dobbiamo sicuramente migliorare la qualità del costruire ma al contempo chiederci perché e per chi
costruiamo. […]
Per un verso o per l’altro, nonostante le spettacolari foto che riempiono le riviste specializzate,
l’edilizia ed il design degli ultimi decenni non rispondono più all’idea di casa che custodiamo sepolta
nella memoria: gli edifici, i quartieri i mobili moderni ci appaiono mal costruiti, con materiali impropri e
spesso scadenti, denunciano una mancanza complessiva di qualità in cui l’aspetto estetico non è altro
che una delle molteplici angolazioni insoddisfacenti.
Da una parte, attraverso i processi di industrializzazione, abbiamo perso riferimenti a regole stratificate
durante i millenni, legate alla creatività ed alla sapienza collettiva, che erano state presupposto per lo
sviluppo della cultura materiale nata con la civiltà contadina.
Dall’altra parte ci si rende sempre meglio conto che nella trasformazione dei processi produttivi –
seguita alla diffusione di nuovi materiali e nuove tecniche costruttive – non ha trovato spazio una
simultanea evoluzione delle regole del costruire; né è stato ancora rinvenuto un nuovo equilibrio tra
invenzione, creatività, esperienza e cultura diffusa.
Così gli aspetti teorici, scissi dagli ambiti empirici del procedere progettuale, hanno prodotto stili –
negati uno dopo l’altro – in cui gli elementi architettonici ed i particolari decorativi risultavano applicati
più per simboleggiare l’aggiornamento che per un rapporto logico con la tecnica, la forma, lo spazio, il
contesto. Si badi bene: non sto proponendo un più stretto legame tra forma e funzione, che anzi
ritengo uno degli stratagemmi attraverso cui è dilagata la speculazione; sto dicendo che siamo in una
situazione totalmente diversa dal passato lontano e recente. Fino a ieri il processo costruttivo era
integrato con la realtà, oggi è avulso da essa né ci è dato riconquistare tale perduta innocenza.
L’unica possibilità è conquistare nuovi parametri culturali. E questo passa attraverso una più chiara
consapevolezza circa gli obiettivi del nostro agire.
Anche se l’architettura pare oggi assumere come unico riferimento dialettico i valori e l’estetica della
modernità, non si può disconoscere al progetto contemporaneo di essere erede delle speranze di una
nuova, più razionale, più giusta organizzazione della società […] Lei tuttavia sembra indicare la
necessità di intraprendere un’altra strada ancora, di porsi altri obiettivi, di inventare un altro modo di
agire: insomma, qual è secondo lei il senso del progetto?
Si, c’è l’urgenza di reinventare l’architettura. Ogni agire assume in sé concetti di spazio e tempo: la
non possibilità di recuperare quello che avrebbe potuto essere, il non poter rimpiangere le occasioni
perse, l’obbligo di ricominciare l’avventura dell’esistenza tramite il progetto. Questo vale soprattutto
per gli uomini che chiamiamo progettisti, deputati ad ideare luoghi, pensare case, disegnare percorsi.
Ad essi è affidato il compito sociale di programmare i limiti di spazio, il futuro delle percezioni, gli
sviluppi della città, la definizione dell’ambiente (il quale non può che essere il ‘nostro’ ambiente)
ordinato sempre secondo un ‘qui’ più vicino, a cui appartiene il mondo di ciò che possiamo vedere,
toccare, amare, ed un ‘là’ più lontano in cui si muove in maniera più o meno indistinta, l’altro. Ma
l’ambiente, così inteso, possiede anche uno spessore proprio: la terra, il mare, la luce, lo spazio
contengono e avvolgono senza poter a loro volta essere contenuti o posseduti.
E’ possibile navigare il mare, usare il vento e l’acqua, ritagliare il suolo ma, non avendo essi una forma
che li contenga compiutamente, non riusciamo a trasformarli in cose. Possiamo allora soltanto
ipotizzare di aver vinto gli elementi confinandoli in un ‘domicilio’ che conferisca loro una sorta di
extraterritorialità.
Ecco: dobbiamo capire che gli atti da noi compiuti (coltivare i campi, tagliare gli alberi, pescare nel
mare, segnare i confini di un lotto, edificare un volume) si riferiscono ‘solamente’ ad un domicilio.
Dobbiamo anche capire che quando ci confrontiamo con le specificità di un luogo su cui interveniamo,
con le urgenze, ogni percepita necessità di modificazioni – di dare cioè nuova definizione allo spazio –
inevitabilmente si rifà delle idee che ci guidano, alla comprensione delle azioni e dei comportamenti di
ciò che ci circonda, alla nostra lettura del mondo. Detto in altre parole, al futuro che scegliamo
ogniqualvolta tracciamo una linea di progetto. Chiedo allora: quale futuro scegliamo?
Scusi se insito, ma anche il progetto moderno ha vissuto una forte tensione al futuro, fondata su criteri
oggettivi e sull’ipotesi di un perfetto controllo dell’ambiente in cui viviamo. E’ probabile che tale
atteggiamento mostri oggi smagliature e inadeguatezze. Ma è proprio sicuro che sia indispensabile
superare il sistema da cui è sorto per portare il progetto a conciliarsi con l’uomo e con la natura? Del
resto non è semplice e chiara neppure la distinzione tra naturale e artificiale.
Ritengo che abbia centrato uno dei lati del problema. La scienza copia la natura, vi si adegua oppure
le impone le leggi ad essa estranee? E cos’è la natura, qualcosa che sta dentro o fuori di noi?
Sicuramente definiamo naturale ciò che è rimasto estraneo all’intervento umano, come le foreste
dell’Amazzonia o i fenomeni meteorologici; eppure, a riflettere, leggiamo come ‘naturale’ anche lo
sbocciare sul balcone di un fiore selezionato nel tempo con abili artifizi. Per altri versi, non esiste
probabilmente nulla, dai ghiacci dell’Antartide alla profondità degli Oceani, che sia rimasto totalmente
e semplicemente estraneo agli effetti dell’azione umana. Detto in altre parole, appare incongruente
distinguere l’uomo da tutto ciò che lo circonda, negando la ricca continuità che lega il nostro vivere al
mondo (se la nostra più profonda essenza non fosse naturale, potremmo davvero – ed impunemente
– superare il bisogno di ogni contatto con il mondo esterno).
Tuttavia, dall’altro lato, pare difficile anche guardare l’uomo come essere integrato nei processi (se
così fosse, se tutto ciò che facciamo fosse ‘naturale per definizione’, non sarebbe possibile una nostra
uscita dai binari dell’equilibrio). Purtroppo o per fortuna, così non è. In effetti l’uomo, pur facendo parte
del mondo, se ne distacca e lo guarda utilizzando una griglia di comportamenti e di interpretazioni
sociali, politiche, religiose, etiche, artistiche.
Nella lunga storia della Terra, il fattore uomo appare come del tutto nuovo in quanto capace di
inventare, innovare e cambiare per rendere a sé più vantaggioso il rapporto con l’ambiente. Capacità
che ci distinguono dall’intorno fornendoci il privilegio di intervenire su di esso, sulla materia (vedi la
chimica) e perfino sulla stessa evoluzione biologica (vedi gli organismi geneticamente modificati).
Si tratta di acquisizioni che le generazioni ed i gruppi si trasmettono dando luogo a quel fenomeno
antropologico definito cultura. Per cui il termine dialettico, la tragica contrapposizione di cui siamo
spettatori e attori, non è tanto Uomo/Natura, bensì tra ciò che è naturale (cioè segue leggi
intrinseche) e ciò che è culturale (quindi frutto di elaborazioni e scelte umane). Solo che oggi la
cultura pare come assorbita, risucchiata nella tecnica.
Dunque ci stiamo sempre più allontanando dai processi naturali e dalle autentiche esigenze
antropologiche e questo è pericoloso? Detto in altre parole, che i processi non sono, come sintetizza
la nostra ottica ‘culturale’, sempre lineari e reversibili?
Ascolti: si prende un seme, si sotterra, si aspetta e spunta una piantina. Oppure si prende farina,
burro, uova, si mescola, si cuoce e si ottiene biscotti. In entrambi i casi qualcosa di totalmente diverso
dagli ingredienti di partenza. Né tali processi appaiono reversibili: è impossibile smontare il risultato o
comunque tornare indietro, dalla pianta al seme o dal biscotto alle uova. Abbiamo in effetti partecipato
a generare un unicum, una struttura integrata, un organismo. Sono queste le esperienze concrete che
per migliaia di anni hanno accompagnato l’uomo e ne hanno disegnato la coscienza, determinato le
domande sul proprio ruolo nel mondo: la nascita e la morte, il bene ed il male. Poi Cartesio e Galileo,
con la riduzione del conoscibile a questioni di quantità e di metodo, hanno rivoluzionato scienza e
cono-scienza spostandole su dimensioni spaziali e temporali esterne all’esperienza quotidiana e
quindi dai connotati sempre più ‘contro-intuitivi’.
Per cui la ‘speranza tecnologica’ che permea la cultura del progetto moderno, si sarebbe dispersa
negli imperativi imposti dalla tecnologia alla cultura, e quindi all’etica e alla capacità di prefigurare il
futuro da parte delle comunità umane?
Giustissimo. Ecco evidenziato un ulteriore polo dialettico: Scienza e Tecnologia, tanto da non riuscire
oggi a concepire una ricerca scientifica senza la sua finalizzazione applicativa. E’ questo un fatto del
tutto moderno, mentre in passato (pensiamo all’idraulica dei Romani, all’agopuntura dei Cinesi, agli
usi botanici dei popoli primitivi) la tecnica si fondava sull’osservazione empirica, sulla lettura
dell’esperienza, senza bisogno di rispondere e inquadrarsi in costruzioni teoriche.
Erano i tempi in cui la scienza era finalizzata alla comprensione del mondo e non – come nella
modernità – a carpirne segreti da sfruttare. Difficile dire come andrà a finire. Al nostro tempo tocca la
conquista della consapevolezza (è tanto? E’ poco?) che il nocciolo del problema non sta nel
proteggere il verde, nell’organizzare il traffico o nell’usare il sughero al posto della lana di roccia; cioè
che la possibilità di stabilire un nuovo equilibrio non sta nei materiali, nelle singole scelte o nella
tecnologia quanto piuttosto nel recupero di prospettive, significati orizzonti.
Oltre all’accennato recupero dei valori essenziali della cultura materiale, quali possono essere i
fondamenti di quella architettura capace di mostrare la svolta da lei auspicata nel rapporto tra
comunità e ambiente? Vi sono tentativi riusciti in tale direzione e dove si possono vedere gli edifici,
sotto il suo punto di vista, ecologici?
Va detto: non accettare da subito le due grandi categorie di bio-compatibilità ed eco-sostenibilità che
tengono in piedi l’idea ecologica, è irresponsabile. Non possiamo più permetterci di produrre ambienti
che attentano alla nostra salute invece che difenderci, così come non ci è consentito continuare a
utilizzare male le risorse disponibili. Tengo però a ribadire come l’essenza della qualità ecologica
spaziale, prima che urbanistica ed architettonica, sia sociale, economica, politica. In questo senso
esperimenti, ipotesi, suggerimenti che qua e là sorgono a dimostrare la strenua volontà di superare il
malessere dell’impotenza, il rifiuto di una condizione edilizia priva di ogni anelito, per certi versi sono e
rimangono – ahimè – ancora poca cosa: il villaggio sperduto risanato da gruppetti di disadattati, la
casa che pateticamente ‘gira con il sole’, la villetta del medico condotto, la scuola costruita secondo i
disegni degli scolari, il condominio ‘fiore al’occhiello’ dell’Amministrazione che spera di far dimenticare
come abbia perso mille altre vere opportunità. La casa ecologica, in un rimando continuo che non può
essere elusione delle proprie quotidiane responsabilità ma atto di consapevolezza programmatica, sta
nel quartiere ecologico e questo nella città ecologica che a sua volta è inserita in un territorio che sotto
il profilo ecologico e sociale è riuscito a trovare un proprio equilibrio. Molto più utili e urgenti delle
stranezze professate dai taluni bio-eco-architetti, appaiono gli esperimenti di concertazione e
partecipazione tentati all’interno dei Contratti di quartiere; la convinzione espressa da qualche Ufficio
Urbanistica che il Piano Regolatore possa davvero essere, più che uno spaventapasseri antiabuso,
uno strumento capace di innescare processi di riqualificazione orientando le stesse dinamiche di
mercato; oppure in alcune borgate esempi di partecipazione di base coagulata intorno all’utilizzo di
oneri di urbanizzazione derivati dal condono edilizio; o ancora la riqualificazione di interi pezzi urbani
secondo un’ottica percettiva complessiva, come sta insegando lo sguardo acuto di alcuni investitori
privati. Insieme e sopra a questo, la percezione che sta lentamente maturando, di quanto preziosa sia
per tutti e di come vada strenuamente difesa la sopravvivenza di quelle città (o almeno di quegli ambiti
urbani) vivibili, in cui il tessuto di rapporti, di relazioni, di economie, di strade e di memorie è riuscito
quasi miracolosamente a sopravvivere.
Tratto da Ugo Sasso, Giovanni Galanti (a cura di); Quaratasette domande a Ugo Sasso;
CLEAN; Napoli 2003
Sim Van der Ryn
Design for life
2005
Nominato ‘Architetto di Stato’ della California, negli anni settanta Sim Van der Ryn introduce i primi
progetti di edifici governativi efficienti dal punto di vista energetico, aprendo la strada alla definizione di
progetti sensibili alla questione ambientale. Se però nei primi decenni della sua carriera la sua visione
si traduce nell’adozione di severi standard energetici e di accessibilità, l’architetto americano sposta
progressivamente la sua attenzione dalla definizione di ambienti più efficienti - sensibili al clima e al
luogo - verso quella di ambienti che rispondano anche ai bisogni umani più profondi, in grado di
essere di sostegno sia ai sistemi ecologici che alla qualità della vita. In testi più recenti, come Design
for life, egli parla degli edifici come di «organismi integrati» capaci di mostrare la connessione fra i
flussi e i cicli di vita della natura e l’ambiente costruito. Per Van der Ryn, l’obiettivo che oggi deve
essere perseguito in modo comune è il cambiamento della visione dominante del mondo dal
«mecccanico e preciso universo della macchina, all’ordine a rete intricato ed interconnesso che
sottostà al mondo vivente a tutte le sue scale».
Dov’è finita la bellezza? Fin dalla nostra comparsa come specie, gli uomini hanno costruito luoghi e
spazi. Li abbiamo progettati in tutti gli ultimi tremila anni. Tutta questa pratica ci ha resi migliori nel
produrre più cose materiali e nel produrle più velocemente e in modo meno costoso. I nostri progressi
nel campo della scienza e della tecnologia hanno fornito la conoscenza e gli strumenti che ci hanno
permesso di modellare in modo incredibile il mondo materiale. Ma abbiamo perso la nostra capacità di
creare luoghi belli, confortevoli e duraturi adatti sia al mondo naturale che alla natura umana.
L’architettura esprime volumi propri della cultura da cui nasce. E’ la manifestazione fisica di valori,
idee, speranze e sogni. L’architettura è l’habitat umano, l’ambiente creato dall’uomo, la pelle che ci
separa dal mondo naturale. E’ anche una serie di muri – fisici e materiali – che divide in comparti la
nostra percezione del mondo. Non dovrebbe esserlo.
In alcuni momenti durante l’ultimo secolo, l’architettura ha perso la sua anima. La cultura moderna ha
sviluppato la ricchezza, il potere e la tecnologia per ideare strutture che una volta sarebbero sembrate
impossibili. Mentre i grattacieli più grandi del naturale e le fredde strutture postmoderne del nostro
tempo ispirano un senso distaccato di timore reverenziale e di meraviglia, pochi di questi hanno
qualità che ci toccano veramente. Gli edifici che noi amiamo veramente sono edifici duraturi. Nelle
nostre città moderne, ci sono pochi edifici amati. La bellezza e l’anima erano necessari per i lavori
delle culture e dei tempi antichi. Oggi a Baly gli abitanti dicono ancora: «Non abbiamo arte, facciamo
solo tutto bene».
Quando è stata l’ultima volta in cui ti sei emozionato per via di un edificio, o in cui non volevi lasciare
un luogo perché ti aveva toccato ad un livello profondo? Quando è stata l’ultima volta in cui sei
rabbrividito – entusiasta – di fronte ad un luogo costruito dall’uomo per la sua capacità di smuovere
qualcosa di profondo in te? Viaggiamo intorno al mondo per conoscere i grandi lavori d’architettura e
le città del passato, ma l’architettura in cui trascorriamo la maggior parte delle nostre vite ci lascia
vuoti.
I nostri edifici, i nostri sobborghi e la maggior parte delle nostre città sono freddi, senza vita e lontane
dalla gente. Sono insipide. Ispirare significa respirare la vita al loro interno. Come possiamo costruire
gli edifici che fanno parte della vita quotidiana in modo che questi si adattino alle esigenze umane più
profonde? Possiamo progettare ambienti che ispirino e nutrano le nostre anime, portando l’architettura
ad una più profonda connessione con il nostro intimo.
Come possiamo riconnettere gli edifici e le città ai cicli ed ai flussi del mondo naturale che sono la
base della vita sulla terra? L’industria che si occupa della costruzione degli edifici e dei sistemi che li
supportano – energia, acqua, rifiuti, strade – è la più grande industria degli Stati Uniti e del mondo
industrializzato. E’ la più grande utilizzatrice di energia, materiali e suolo ed è il soggetto inquinatore
più significativo di aria, acqua e suolo. Noi stiamo ancora progettando come se le risorse fossero
illimitate senza considerare i rifiuti e l’inquinamento causato dal costruire gli edifici e le infrastrutture
necessarie per supportarli.
Chiunque non sia completamente inconsapevole e non assuma una posizione di negazione sa che gli
umani stanno rapidamente cambiando il nostro pianeta e il nostro ambiente secondo modalità
pericolose. La nostra cavalcata libera sulle spalle della natura è finita. I nostri figli, i nostri nipoti e le
future generazioni fronteggiano sfide sconfortanti.
La storia umana si trova ad un punto di svolta critico. Le nostre capacità di astrarre un pensiero e
prove simboliche, di costruire idee e piani così come oggetti materiali e strumenti e la nostra abilità di
tradurre idee progettuali in realtà ci hanno fatti evolvere all’interno di mondi e realtà senza precedenti.
Fino in tempi recenti, il mondo naturale ed i suoi processi erano incontrollabili e forzavano le culture
ad adattarsi per sopravvivere. Adesso la tecnologia è diventata la forza incontrollabile che influisce sui
sistemi e sui processi che supportano la vita del pianeta come il clima, l’atmosfera, la diversità
biologica e sull’integrità dei processi biochimici della stessa come la produzione di ossigeno,
l’isolamento del carbonio, la depurazione dell’acqua e la creazione del suolo. La tecnologia sta
rapidamente cambiando le condizioni di supporto della vita umana, la cultura umana e la natura
dell’idea di cosa significhi essere umani.
Oggi nessun luogo, nessuna ecologia sulla terra – né materiale né remota – è indifferente alle
conseguenze delle attività umane. La maggior parte delle cose che facciamo hanno conseguenze
chimiche, fisiche e biologiche involontari e imprevedibili. Più per caso che in modo progettato, la
civilizzazione umana controlla le condizioni di vita dell’intera biosfera. Cinquant’anni fa la biologa
Rachel Carson rese consapevole il mondo della legge delle conseguenze involontarie grazie alla
pubblicazione del testo ‘Silent Spring’ all’interno del quale collegava la diminuzione della quantità di
uccelli e del loro canto al diffuso utilizzo del biocida DDT, che produce cambiamenti genetici che
riducono la riproduzione degli uccelli. La storia è diventata tristemente familiare perché ogni giorno
nuove tracce connettono il danneggiamento ambientale alle attività umane, spesso attraverso una rete
complessa che connette eventi molto lontani nello spazio e nel tempo. La crescente evidenza del
danneggiamento ai sistemi basilari di supporto alla vita del pianeta portano a mettere in dubbio le
visioni comuni di come gli uomini e la natura siano connessi. Nessuno conosce come la storia andrà a
finire.
L’architettura e il progetto urbano possono diventare integrati nella rete della vita, nei suoi cicli e nei
suoi flussi. Louis Sullivan, il grande architetto del diciannovesimo secolo, afferma: «La forma segue la
funzione». Io suggerisco: «La forma segue il flusso».
Gli edifici non sono oggetti statici: sono organismi. Le città non sono insiemi di componenti
meccaniche, sono ecosistemi. Attraverso il progetto ecologico i nostri edifici e le nostre città possono
diventare più integrati con la natura. Come organismi, essi possono produrre la loro energia, e
consumare e riciclare i loro stessi rifiuti senza inquinare. Il progetto può mostrarci la connessione fra i
cicli di vita della natura e l’ambiente costruito. La scienza e la tecnologia più progredite possono
essere utilizzate con lo scopo di legare attentamente la natura e la cultura per un loro mutuo beneficio.
La natura non può vivere senza il mondo umano, ma gli umani non possono vivere senza natura.
L’architettura può rendere evidente questa verità e permetterci di esprimerla ad un livello più profondo.
Noi non diamo abbastanza importanza al costo di funzionamento e di manutenzione degli edifici
progettati in modo mediocre – un costo che, nell’arco della vita media degli edifici, è quattro volte
maggiore del costo iniziale. Non diamo abbastanza importanza a come progettare edifici che si
possano adattare a cambiamenti funzionali, che possano accogliere nuove tecnologie ed essere
disassemblati facilmente in modo tale che i loro componenti possano essere riutilizzati e riciclati.
Dobbiamo iniziare a pensare a queste conseguenze.
L’obiettivo degli edifici verdi e del progetto sostenibile è di ricondurre l’architettura e la pianificazione
urbana alle nostre vite ed ai flussi e cicli della natura. Noi dobbiamo riconnettere gli edifici alle loro
radici per quanto concerne il clima, la terra, il posto e le nostre esigenze genetiche devono essere
connesse all’ambiente naturale vivente. Prendiamo il polso della nostra architettura e abbassiamo il
suo metabolismo riducendo il consumo e la quantità di rifiuti osceni e irragionevoli in nome del
progetto. Produciamo gli interi edifici attraverso un progetto intelligente e di buon senso che incorpori
tecnologie capaci di migliorare la vita.
Il nostro lavoro comune è quello di cambiare la nostra visione dominante del mondo dal meccanico e
preciso universo della macchina, all’ordine a rete intricato ed interconnesso che sottostà al mondo
vivente a tutte le sue scale.
Tratto da Sim Van der Ryn; Design for life;
Gibb Smith Publisher; 2005
Renzo Piano
Giornale di bordo. Nouméa 1991.
Passigli, Firenze, 1997
Il Giornale di bordo è il volume in cui Renzo Piano raccoglie genesi e realizzazione delle sue opere dal
1966 all’anno di pubblicazione del testo. Per l’architetto italiano l’architettura è un’arte di frontiera,
«continuamente contaminata da mille cose» e progettare è un po’ come esplorare, è «l’avventura del
pensiero»: vai, giri il mondo, scopri nuove terre, nuove culture, nuove tradizioni e, allora cerchi di
capire; prendi dall’ambiente che ti circonda, dalla natura, dai suoi elementi. Attraverso la descrizione
di esperienze come quella in Nuova Caledonia Piano, in particolare, si fa promotore di un
atteggiamento che implica rispetto non solo per l’ambiente naturale, ma anche per la cultura che in
esso si esprime. Per lui l’aspirazione dell’architettura è e deve essere universale, perché le emozioni
lo sono, ma la sua definizione è locale: in rapporto al luogo, all’ambiente dove si colloca e a quella
cultura. E, se è necessario lavorare in «analogia» con il contesto e i processi naturali, il rapporto che
l’architetto prova ad instaurare con la natura è un «rapporto intelligente», nel quale ogni elemento da
cui si attinge deve essere trasformato in qualcosa di nuovo. Generando anche un certo grado di
tensione fra suolo e manufatto, fra ambiente e costruito e tra locale e universale.
Un mestiere antico
Quello dell’architetto è un mestiere d’avventura: un mestiere di frontiera, in bilico tra arte e scienza. Al
confine tra invenzione e memoria, sospeso tra il coraggio della modernità e la prudenza della
tradizione. L’architetto vive per forza in modo pericoloso. Lavora con ogni sorta di materie prime: e
non intendo dire solo il calcestruzzo, il legno, il metallo. Parlo di storia e geografia, matematica e
scienze naturali, antropologia ed ecologia, estetica e tecnologia, clima e società. Tutte cose con cui si
misura ogni giorno.
L’architetto fa il mestiere più bello del mondo. Perché, su un piccolo pianeta dove tutto è già scoperto,
progettare è ancora una delle più grandi avventure possibili.
Come esploratori del mondo fisico, siamo stati fregati dai nostri antenati. Colombo, Magellano, James
Cook, Amundsen hanno già scoperto tutto. A noi resta l’avventura del pensiero. Che dà ansia,
smarrimento, paura come una spedizione nei ghiacci. Che è soggetta agli assalti degli indiani come
una diligenza nel Far West.
Progettare è un’avventura: un viaggio, in un certo senso. Si parte per conoscere, per imparare.
Si accetta l’imprevedibile. Se ti spaventi e cerchi subito riparo in un portone – nell’antro caldo e
accogliente del già visto, del già fatto – quello non è un viaggio. E come andare a Bombay e mangiare
in un ristorante italiano.
Se invece hai il gusto dell’avventura, non ti nascondi, ma vai avanti. Ogni progetto è una storia che
ricomincia, e tu sei in una terra inesplorata. Sei un Robinson Crusoe dei tempi moderni.
[…]
Ma la casa non è solo protezione: a questa sua funzione fondamentale l’architetto ha sempre
associato una tensione estetica, espressiva, simbolica. Nella casa, fin dai primordi, si manifesta una
ricerca di bellezza, di dignità, di status. Con la casa si esprime una volontà di appartenenza o un
desiderio di trasgressione. L’atto di costruire non è e non può essere solo un gesto tecnico, perché è
carico di significati simbolici.
Questa ambiguità è solo la prima fra molte che marchiano il mestiere di architetto. Cercare di
sciogliere l’ambiguità non è l’inizio della soluzione, è l’inizio della rinuncia.
Numéa. Centro Culturale J.M. Tjibaou
I Kanak sono una etnia diffusa nel Pacifico, in particolare nella Nuova Caedonia. L’isola, capitale
Nouméa, è territorio francese avviato verso una pacifica autonomia. Durante le trattative per
l’indipendenza, le autorità locali chiesero e ottennero dal governo di Parigi il finanziamento di un
grande centro culturale dedicato alla cultura Kanak.
Il Centro, intitolato a Jean Marie Tjibaou, il loro leader drammaticamente scomparso nel 1989, aveva
un programma molto ampio: ospitare mostre permanenti dedicate alla tradizione della comunità, ma
anche eventi che la facessero rivivere. Per esempio, nella cultura Kanak è molto importante la danza.
E ancora, il centro doveva fare da ponte tra tradizione e modernità, tra passato e futuro del popolo
Kanak.
Per realizzare questo progetto fu indetta una gara internazionale a inviti. Così cominciò la mia
avventura in Nuova Caledonia.
Quando diciamo ‘cultura’, intendiamo la nostra: una nobile zuppa fatta di Leonardo e Freud, Kant e
Darwin, Luigi XIV e Don Chisciotte. Nel Pacifico non è solo diversa la ricetta, sono proprio diversi gli
ingredienti. Alla loro zuppa possiamo accostarci con distacco, portando le posate da casa; o possiamo
cercare di capire come nasce, perché si sviluppa in certe direzioni, che tipo di filosofia di vita la anima.
Vinsi questa gara forse proprio per questo: perché non portai le posate da casa, portai solo la
competenza mia e del Building Workshop nel creare spazi e nel costruire edifici. La mia proposta si
era sforzata di nascere lì, pensando Kanak.
Lavorare agli antipodi, con una popolazione splendida ma di cui quasi ignoravo l’esistenza pochi mesi
prima, era davvero una bella scommessa.
In più non dovevo fare un villaggio turistico, dovevo dar vita a un simbolo: il Centro culturale dedicato
alla vita Kanak. Il luogo che l’avrebbe rappresentata di fronte agli stranieri, che ne avrebbe tramandato
la memoria ai nipoti. Nulla avrebbe potuto essere più carico di aspettative simboliche.
Lo spirito del pacifico è effimero, e le costruzioni della tradizione Kanak non fanno eccezione.
Nascono all’unisono con la natura, usando i materiali deperibili che essa offre; perciò la continuità del
villaggio nel tempo non è legata alla durata del singolo edificio, ma alla conservazione di una topologia
e di uno schema costruttivo.
Nel formulare il progetto, lavorammo su entrambi i piani. Cercammo un legame forte con il territorio
che scolpisse il Centro culturale nella geografia dell’isola; rubammo alla cultura locale gli elementi
dinamici, la tensione che avrebbe legato il costruito alla vita degli abitanti.
Il Centro culturale Jean Marie Tjibaou sorge su un promontorio a est di Nouméa, in uno scenario
naturale di grande bellezza.
Espressione di una tradizione millenaria di rapporto con la natura, il Centro non è (non poteva essere)
racchiuso e concluso in una sede monumentale. E infatti non è un edificio singolo: è un insieme di
villaggi e spiazzi alberati, di funzioni e percorsi, di pieni e vuoti.
Circondato ai tre lati dal mare, il sito è coperto da una fitta vegetazione, in mezzo alla quale si
snodano i percorsi pedonali e si sviluppano i villaggi: grappoli di costruzioni fortemente legate al
contesto, che con la loro presenza a semicerchio definiscono spazi collettivi aperti. In questi spazi
sono esposte testimonianze della vita dei Kanak, e vengono periodicamente rievocate antiche
cerimonie.
Lungo il crinale del promontorio, una passeggiata coperta leggermente arcuata collega le parti del
complesso. Il legame visivo tra queste e i tradizionali villaggi Kanak è molto esplicito: non solo per la
disposizione, ma anche per la forma delle costruzioni. Si tratta infatti di strutture curve simili a
capanne, fatte di listelli e e centine in legno: gusci dall’apparenza arcaica, all’interno dei quali
l’ambiente è dotato di tutte le opportunità offerte dalla tecnologia contemporanea.
Questi dieci grandi spazi monotematici si aprono improvvisamente sulla strada interna del Centro
offrendo un drammatico passaggio: da uno spazio compresso a uno spazio espanso e inatteso.
Le doghe del rivestimento esterno sono di larghezze differenti e spaziate in modo disuguale: l’effetto
ottico di leggera vibrazione così ottenuto accresce l’affinità con la vegetazione mossa dal vento. Il
legno scelto è l’iroko, che richiede poca manutenzione e, nel modo in cui l’abbiamo usato, evoca le
fibre vegetali intrecciate delle costruzioni locali.
Una delle caratteristiche del progetto è la ricerca sulla grana dei materiali. Abbiamo infatti usato legno
laminato e legno naturale, calcestruzzo e corallo, fusioni di alluminio e pannelli di vetro, corteccia
d’albero e acciaio inossidabile: sempre ricercando la ricchezza e la complessità del dettaglio.
Pur nella omogeneità del modello base, gli spazi ricavati possono avere un carattere molto differente.
Le capanne che ospitano mostre sono rivestite di pannelli con la faccia interna bianca, quelle adibite
ad aula scolastica incorporano scaffali per libri e così via.
Dove la funzione della capanna lo richiede, il tetto e le superfici laterali sono trasparenti. I pannelli di
vetro sono schermati da lucernari esterni.
Grazie alla forte analogia formale con la vegetazione e gli insediamenti tradizionali del luogo, le
capanne sono l’elemento che unifica il progetto. Sono anche l’elemento dominante: ben dieci di
dimensioni diverse. Alcune piuttosto piccole, altre addirittura in scala con gli alberi ad alto fusto
circostanti. La più grande si impone nel paesaggio con i suoi ventotto metri di altezza, come una casa
di nove piani.
Queste costruzioni esprimono la relazione armoniosa con l’ambiente che caratterizza la cultura
Kanak. Il legame non è solo estetico, ma anche funzionale: sfruttando le caratteristiche del clima della
Nuova Caledonia, le capanne sono state dotete di un sistema di ventilazione passiva molto efficiente.
Ancora una volta è stata realizzata una doppia copertura: l’aria circola liberamente tra due strati di
rivestimento in legno laminato. L’orientamento delle aperture nel guscio esterno è stato studiato per
sfruttare i monsoni provenienti dal mare, o per indurre le correnti di convezione desiderate.
I flussi d’aria vengono regolati mediante lucernari. In condizioni di leggera brezza, questi si aprono per
favorire la ventilazione; all’aumentare del vento si chiudono, a partire da quelli più in basso. La
soluzione è stata progettata con l’aiuto del computer e sperimentata nella galleria del vento grazie a
modelli in scala.
Questo sistema di circolazione dell’aria dà anche ‘voce’ alle capanne. Tutte insieme fanno un
particolare rumore, un suono; che è quello dei villaggi Kanak o delle loro foreste, o se volete, per i
naviganti, un porto di mare in una giornata di vento.
[…]
La rappresentazione che i Kanak fanno dell’evoluzione umana si avvale di metafore tratte dal mondo
naturale. La creazione è vista come un giglio d’acqua circondato da alberi fioriti. L’agricoltura è
simboleggiata dalle tipiche colture terrazzate locali, dove crescono patate dolci e altre piante
alimentari. Analogamente vengono descritti temi come l’ambiente, la morte e la rinascita.
Accettare davvero la scommessa insita nel programma richiedeva coraggio: bisognava spogliarsi della
forma mentale dell’architetto europeo e immergersi nel mondo degli uomini del Pacifico. In un salotto
di antropologi sembra una cosa semplice, e quando lo dite vi fa anche fare bella figura.
Provate ad esprimere lo stesso concetto con parole vostre a u banchetto Kanak, nel momento in cui
nulla vi è familiare: né la lingua, né il rituale, né il cibo, né il modo di assumerlo.
Il progetto per il Centro Culturale Tjibaou, sviluppato assieme a Paul Vincent, è stata la più avventata
tra le mie molte invasioni di campo. La paura di cadere nel rifacimento folcloristico, nel kitsch, nel
pittoresco mi ha accompagnato per tutto il lavoro come un incubo. A un certo punto ho espressamente
voluto smorzare la similitudine tra le ‘mie’ capanne e quelle della tradizione locale, riducendo la
lunghezza degli elementi verticali e dando ai gusci una forma più aperta: nella versione definitiva,
infatti, le doghe non si incontrano più sulla sommità, come inizialmente era previsto. La galleria del
vento mi ha dato ragione, mostrando che così si otteneva un migliore effetto di aerazione dinamica.
Mi ha sempre sorretto una grande simpatia, una grande comprensione: gli abitanti hanno interpretato
le capanne come un sincero tentativo di lavare i panni nell’Oceano Pacifico, di recare omaggio alla
civiltà locale. I Kanak, convinti della bontà del progetto, mi hanno aiutato a perfezionarlo: Marie
Claude Tjibaou (la vedova di Jean Marie) e Octave Tonga sono stati infaticabili compagni di lavoro.
Bisogna dire che al di là delle buone intenzioni, del rifiuto di ogni forma di colonialismo, del rispetto
dovuto alle altre culture, non c’erano alternative. Una proposta basata sui nostri modelli, a Nouméa
semplicemente non avrebbe funzionato. Non si poteva offrire un prodotto standard di architettura
occidentale, solo mimetizzandolo: avrebbe fatto l’effetto di un’auto blindata coperta di foglie di palma.
Un malinteso concetto di universalità mi avrebbe portato ad applicare le mie categorie mentali di storia
e progresso fuori dal contesto in cui sono nate. Sarebbe stato un grave errore. Ancora una volta:
l’universalità vera in architettura si realizza solo attraverso il legame con le radici, la gratitudine per il
passato, il rispetto del ‘genius loci’.
Tratto da Renzo Piano; Roberto Brignolo (a cura di); Giornale di bordo;
Passigli; Firenze 1997; pp. 1997
Jan Kaplinky
Green Questionnaire
Architectural Design, 2001
Se all’interno di testi come For inspiration only e Confessions Jan Kaplinky illustra la sua personale
prospettiva professionale rispetto al futuro dell’architettura e le sue riflessioni sulla società, il progetto,
la politica e la bellezza individuando nel mondo che ci circonda un’infinita fonte di ispirazione,
all’interno del Green questionnaire pubblicato da ‘Architectural Design’ egli concentra la propria
attenzione sull’idea di progetto sostenibile. Per l’architetto la questione centrale è l’autosufficienza
energetica degli edifici secondo un punto di vista per il quale l’interesse si sposta verso la «scelta dei
materiali» e le «performance» quantitative. Senza tuttavia rinunciare alla questione della forma.
Kaplinky sostiene infatti che il progetto si debba muovere verso la ricerca di una forma appropriata per
l’architettura verde, determinata da elementi fondamentali per la sua definizione del progetto
sostenibile – come i flussi d’aria e la ventilazione – ma, più in generale, da un confronto costante con
la natura pensata come modello non solo di efficienza ma anche formale. Superando la definizione di
high-tech, attravrso quella di «modernismo organico».
Qual è la sua definizione di progetto sostenibile?
Gli aspetti principali del progetto sostenibile sono la scelta dei materiali e le performance di un
edificio una volta che questo è stato costruito. Gli edifici devono essere auto-sufficienti dal punto di
vista energetico – per l’80% od oltre. Adesso è persino possibile restituire energia alla rete elettrica
durante le ore notturne. Tuttavia le performance a lungo termine sono molto difficili da quantificare.
Non c’è ancora nessuna reale unità di misura. L’energia deve essere considerata anche durante la
costruzione dell’edificio: quanto si consumerà durante la costruzione e ancora prima nella produzione
dei materiali. Questo significa anche che per la prima volta la quantità e il peso dei materiali devono
essere seriamente considerati. Meno materiali un edificio utilizza più questo risulta verde – meno
risorse ed energia sono usate per produrlo.
Quali sono le sue parole d’ordine come progettista interessato alla sostenibilità?
I materiali hanno assolutamente la priorità. L’impatto che la sostenibilità sta per avere sul design,
tuttavia, sarà più rivoluzionario. Al momento, le persone stanno provando a pretendere che il bisogno
di produrre architettura sostenibile non avrà alcun effetto sulla forma degli edifici. E’ come quando le
macchine erano appena state inventate e imitavano la forma delle carrozze trainate dai cavalli. E’
necessaria una cera quantità di tempo perché assuma la propria forma. L’architettura verde non deve
tanto essere solo appropriata, ma deve trovare la propria forma. I flussi d’aria e la ventilazione, per
esempio, dovranno avere un impatto importante sulla forma degli edifici.
Come giudica il successo di un edificio nell’ ‘epoca verde’?
Non ci sono ancora edifici veramente verdi. Gli edifici che vengono costruiti attualmente non sono
ancora prototipi di un’età verde. Sono solo sforzi minori verso la sostenibilità. La legge così come è
nata non determina cambiamenti importanti, specialmente nel Regno Unito e negli USA. C’è una
stanza molto piccola per l’architettura verde nelle scuole di architettura. In una scuola molto
conosciuta degli stati Uniti recentemente un docente americano l’ha descritta semplicemente come
una moda. E’ evidente come sia necessario un modo di pensare completamente nuovo. L’automobile
non esisteva prima del introduzione del motore. Gli edifici intelligenti non esistono ancora.
Come usa la natura come guida?
La natura può essere usata come modello su diversi livelli. Per esempio i termitai hanno due pelli con
una ventilazione naturale. Nelle strutture naturali c’è una luminosità che non si trova attualmente nelle
costruzioni fatte dall’uomo. Queste strutture sono molto più leggere di quelle fatte dall’uomo e in modo
comparabile molto più forti. Il filo di una ragnatela, per esempio, è due volte più forte dell’acciaio. C’è
così tanto da imparare dall’uso efficiente dei materiali . In generale, le forme organiche sono più
efficienti di quelle umane.
Tratto da Jan Kaplicky; Green questionnaire: Jan Kaplicky of Future System;
in ‘Architectural Design’;v. 71; n.4; luglio 2011; pp. 34-35
Ken Yenag
The Green Skyscraper
Prestel, Londra 1999
Dopo essersi dedicato al tema della biodiversità come riscoperta del locale e delle sue relazioni
attraverso testi come Tropical urban regionalism, Ken Yeang indirizza la sfida del progetto ecologico
verso la costruzione di edifici ad alta densità, come il grattacielo. In The Green Skyscraper egli prova
a costruire una cornice generale attraverso cui guardare al progetto ecologico, esaminandone le
premesse generali e il modo con cui queste possono essere applicate al progetto di grandi edifici. Per
l’architetto il progetto sostenibile può essere definito come un progetto ecologico che si integra senza
soluzione di continuità con i sistemi ecologici della biosfera per il suo intero ciclo di vita, assumendo
non tanto un atteggiamento passivo e «in ritirata» quanto un approccio attivo capace di innescare una
dinamica co-evolutiva positiva di «riparo», «restaurazione» e «rinnovamento» dei sistemi naturali. A
diventare centrale è l’idea di ecosistema secondo la quale i designer dovrebbero diventare
consapevoli dell’interconnessione di tutti i sistemi naturali e artificiali e la «connettività» presente in
natura dovrebbe essere imitata pensando ai sistemi costruiti come ecosistemi mimetici.
Progetto verde o ecologico qui significa costruire con un impatto ambientale minimo e, dove possibile,
costruire per ottenere l’effetto opposto; cioè creare edifici con effetti positivi, riparativi e produttivi per
l’ambiente naturale, integrando nello stesso tempo la struttura costruita con tutti gli aspetti del sistemi
ecologici (ecosistemi) della biosfera nel suo intero ciclo di vita.
[…]
Per evitare confusioni fra il progetto bioclimatico e quello ecologico, dobbiamo metterne in chiaro le
differenze. Generalmente, il progetto bioclimatico è un approccio che si basa sul progetto passivo a
basso impatto energetico che fa uso delle energie ambientali del clima del luogo per generare
condizioni di confort per gli utilizzatori dell’edifico. Inizialmente, nei nostri primi lavori sul progetto di
edifici alti abbiamo usato i principi del progetto bioclimatico per produrre forme alternative al
grattacielo convenzionale. Questo tipo di struttura lavora diversamente dai grattacieli convenzionali in
primo luogo come una struttura passiva a basso impatto energetico. Come un’emergente forma
costruita bioclimatica, essa fornisce un’alternativa fattibile al grattacielo esistente e costituisce un
nuovo genere di edificio; tuttavia, deve essere chiaro che il progetto bioclimatico non rappresenta il
progetto ecologico nella sua interezza, ma solo uno stadio intermedio in questa direzione. Il progetto
ecologico costituisce uno sforzo molto più complesso e può essere differenziato chiaramente dagli
approcci progettuali degli altri architetti.
Le idee e le teorie di questo lavoro devono essere distinte dalle altre espressioni di ‘progetto
ecologico’. L’enfasi qui viene posta sull’interdipendenza e interconnessione nella biosfera e nel suo
ecosistema. Si asserisce che la caratteristica principale del progetto ecologico è la connessione fra
tutte le attività, sia naturali che umane; questa connessione significa che nessuna parte della biosfera
è inalterata dalle attività umane e che tutte le attività si influenzano a vicenda. Questa proprietà è resa
esplicita ed inevitabile nella ‘Matrice teorica delle interazioni’ esposta nel capitolo 3 e nella ‘legge del
progetto ecologico’. Detto semplicemente, tutti i sistemi costruiti devono avere una relazione reciproca
con il loro ambiente locale e con il resto della biosfera (Behling & Behling; 1996).
Questa proprietà di interconnessione è assente nella teoria e nella pratica del progetto ecologico di
molti architetti. Per esempio, alcuni architetti definiscono il progetto ecologico (o ESD – Progetto
ambientalmente sostenibile) come «un progetto che minimizza l’uso di energia e acqua, che produce
la quantità minima di rifiuti, che massimizza i benefici sulla salute umana e promuove la biodiversità».
Questa definizione è in parte corretta: tutti questi fattori contribuiscono al progetto ecologico. Ma se
non vengono considerati l’interdipendenza e la connessione tra questi fattori e il sistema naturale
nella biosfera, allora questo approccio è incompleto e per questo non corretto dal punto di vista
ecologico, e può essere ecologicamente azzardato.
Va anche aggiunto che sebbene qui vengano mostrati o discussi esempi di grattacieli e di sistemi
operativi costruiti, dobbiamo allo stesso tempo aggiungere che il progetto ecologico è ancora ai suoi
primi esordi, e che nessuno degli esempi tecnici mostrati può affermare di essere completamente
‘verde’, così come di essere la panacea.
Che cos’è il progetto ecologico?
Connettività: architettura come ecologia applicata
Progettare in modo responsabile dal punto di vista ecologico richiede una visione fondamentalmente
differente delle nostre relazioni e della nostra collocazione nell’ambiente naturale; richiede di partire
dai limiti delle scienze attuali e dal contesto sociale, politico ed economico che implicitamente
valorizzano le attività umane come dominanti su una natura essenzialmente indipendente. Il progetto
ecologico richiede all’architetto di prestare attenzione e comprendere l’ambiente come sistema
naturale funzionante e di riconoscere la dipendenza dell’ambiente costruito da questo. Questo senso
di interdipendenza dell’ambiente costruito e dell’ambiente dato (per esempio ‘naturale’) può essere
chiamata ‘connettività’. Prima di procedere con la descrizione della nostra strategia di progetto verde
per edifici ad alta densità, dobbiamo non solo prima definire e capire che cosa costituisce il progetto
verde, ma anche capire le sue premesse, perché può essere contro produttivo per il progettista
gettarsi nel progetto verde senza capire e condividere principi basilari come la connettività.
Centrale per il progetto ecologico è certamente il concetto stesso di ‘ecosistema’, che richiede una
comprensione analitica dell’ambiente – e, nello specifico, del particolare sito in questione – come
composto di componenti biotici e componenti abiotici che agiscono come un insieme. Questo è
cruciale per il nostro approccio ecologico. Per esempio, un uso meccanico di software per analizzare
la conservazione dell’energia, i flussi d’aria, i fattori acustici e la temperatura che non tiene in
considerazione i componenti biologici (per esempio la flora e la fauna) o i fattori edafici del luogo può
difficilmente essere definito come progetto ecologico. In modo analogo, se un approccio progettuale
non prende in considerazione gli aspetti olistici dell’ambiente, non è certamente ecologico.
Detto semplicemente, nel progetto ecologico, dobbiamo valutare le conseguenze delle seguenti
decisioni: se costruiamo, dove costruiamo, cosa costruiamo, come costruiamo.
La pratica del progetto ecologico è essenzialmente ‘ecologia applicata’ o l’applicazione pratica
dell’ecologia all’intrusione umana nell’ambiente naturale (nel quale l’attività del costruire è
semplicemente una delle molteplici attività umane che incidono sull’ambiente).
Per questo la comprensione dei concetti sistemici basilari dell’ecologia e la loro applicazione
costituisce un prerequisito del progetto ecologico. Questa è necessaria per consentire al progettista di
vedere come i suoi sforzi, come interventi umani nell’ambiente (in ambito agricolo, nello sviluppo
edilizio, nella costruzione delle strade, e così via), possano essere sviluppati in modo tale da integrarsi
con i sistemi naturali (per esempio, con la minima distruzione dell’ecosistema, con l’uso prudente delle
risorse terrestri non rinnovabili, e con le attività associate a sistemi progettati simbioticamente
compatibili con i processi degli ecosistemi). Per l’approccio ecologico è cruciale raggiungere questi
obiettivi.
Sviluppo sostenibile
La continua degradazione della biosfera dovuta al sovra-sfruttamento e all’abuso non solo diminuisce
la sua capacità di produrre risorse essenziali ma anche quella di compensare questo tipo di abusi. Un
prerequisito della sostenibilità è il mantenimento dell’integrità funzionale dell’ecosfera in modo tela che
questa possa mantenersi elastica rispetto agli stress indotti dalle attività umane, così come
biologicamente produttiva. Le risorse non rinnovabili, come risorse finite, devono essere usate e
trasformate in modo tale che rimangano utilizzabili e accessibili dalle generazioni future. Vista sotto
questa luce, la base del concetto di ‘progetto ecologico’ non è quella che esso rappresenti una
battaglia (nemmeno una sconfitta) in ritirata, che cerca costantemente di minimizzare gli impatti
sull’ambiente naturale e di ritardare la degradazione. Piuttosto, il progetto ecologico può essere visto
come produttivo e benefico dal punto di vista ambientale, come un contributo positivo all’ambiente
naturale. In aggiunta, il progetto ecologico potrebbe essere un’azione positiva di riparo, restaurazione
e rinnovamento dei sistemi naturali dell’ambiente. Io sostengo che l’architettura verde come
architettura sostenibile sia il progettare con la natura in modo responsabile dal punto di vista
ambientale, così come secondo un contributo positivo. Raggiungere attraverso il progetto questi due
obiettivi simultaneamente è probabilmente la principale sfida che spetta oggi al progettista ecologico.
Tutti gli sforzi progettuali in relazione ai sistemi ecologici terrestri si riferiscono certamente al futuro,
essi perciò possono e devono essere prognostici e anticipatori. Per esempio, gli edifici dovrebbero
essere disegnati con un’attenzione prioritaria rivolta alla recuperabilità , al riuso e alla riciclabilità dei
materiali e dei componenti che li costituiscono. Questo è esemplificato nel concetto di sostenibilità,
che è descritto come ‘soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle
generazioni future di soddisfare i loro’ (Brundtland, 1987).
Questo rende il concetto di sostenibilità un concetto complesso e per questo coinvolge le decisioni
soggettive così come quelle oggettive (per esempio quantitative) che influiscono il benessere umano
sia presente che futuro. Più nello specifico, il progetto ecologico coinvolge letteralmente i migliaia di
modi in cui un sistema costruito e i suoi utilizzatori si connettono al mondo naturale.
L’ecologia riguarda i legami, l’adattamento interdipendente e creativo come opposto alla causalità
divisa in compartimenti. Per questo il progetto ecologico può essere visto come una connessione
olistica, che implica la gestione prudente dell’energia e dei materiali all’interno del sistema costruito
negli ecosistemi della biosfera; questo includerà sia gli sforzi progettuali che riducono l’impatto
dannoso di questa gestione sull’ecosistema sia quelli che cercano di integrarsi positivamente con
l’ambiente naturale. Inoltre, il soddisfacimento di questi obiettivi non è un’occasione unica, ma deve
essere gestito e monitorato lungo l’intero ciclo di vita del sistema costruito. Questa complessità è
dinamica, estesa nel tempo […]
La questione dello sviluppo sostenibile (di cui il progetto sostenibile è un elemento) a livello globale
sta iniziando ad essere seriamente indirizzata da molti governi nel mondo, così come da molte
agenzie intergovernative . A scala personale, ciò le questioni che riguardano l’ambiente hanno guidato
alcuni verso la ricerca di stili di vita ‘verdi’ alternativi.
A livello del progettista professionista, ciò che può essere letto come un lento ma graduale processo
di inverdimento dell’architettura ha già raggiunto alcuni risultati, come la definizione di requisiti termici
più stringenti per gli edifici (per esempio il BREEM nel Regno Unito), le eco-etichettature dei materiali
e dei prodotti da costruzione (in particolare in Germania ed in Canada), l’intenzione di alcuni progettisti
di rendere verde il processo costruttivo e progettuale, il crescente monitoraggio delle performance
energetiche degli edifici in uso (da parte di molti architetti ed ingegneri in Europa ed negli Stati Uniti) e
una maggior consapevolezza dei fattori ecologici presenti in sito e dell’importanza della biodiversità.
Nel progetto ecologico, dobbiamo sapere che la maggior parte dei sistemi ecologici e dei processi
terrestri sono troppo complessi per essere quantificati e rappresentati nella loro totalità.
Ciononostante, il progetto ecologico, come mostrerò, resta un’affermazione complessa e coinvolge la
determinazione di un ampio numero di considerazioni rispetto ad interazioni multiple (o rettifiche). Gli
architetti, i progettisti, gli ingegneri e tutti il cui lavoro influenza l’ambiente devono in qualche modo
prendere delle decisioni progettuali ogni giorno. Essi devono compiere delle azioni decisive sulle
questioni ogni giorno sulla base dell’informazione ambientale che è disponibile in quel momento. E’
per questo vitale l’inadeguatezza dello stato attuale della conoscenza ambientale non venga utilizzato
come giustificazione per l’elusione dell’approccio ecologico (che include azioni preventive e correttive)
e l’eluzione di responsabilità per l’impatto ambientale dei progetti degli edifici.
Tratto da Kan Yeang; The Green Skyscraper. The basis for designing sustainable intensive;
Prestel; Londra 1990; pp. 9-15, 31-35
Agance Babylone
Natura Attiva
2008
L’interesse verso l’ecologia guida studi come l’Agence Babylone verso la definizione e lo sviluppo di
nuove sinergie tra città e natura. Con questo obiettivo, nel 2008 i fondatori dello studio hanno definito
il concetto di «Natura Attiva», un concetto basato sulla fiducia nel fato che la natura abbia le capacità
di soddisfare tutte le necessità di una città e dei suoi abitanti e possa quindi essere utilizzata come
«motore urbano» integrato in tutti gli aspetti della vita. Il progetto Natura Attiva presentato in
occasione del concorso per l’area di Saclay in particolare applica questo concetto organizzando un
territorio di complementarietà fra città, agricoltura e natura la cui superficie, determinata in base al
numero degli abitanti, permette di stabilire un equilibrio sostenibile fra risorse, bisogni e rifiuti.
L’obiettivo è quello di ridurre al minimo l’impatto della nuova città sull’ambiente valorizzando il ruolo
della natura come «macchina» attiva che, producendo energia e trasformando la materia, rigenera e
rivitalizza tutti i sistemi sottostanti. L’idea che emerge è quella di una città ecologica in grado di gestire
risorse e bisogni attraverso il ricorso ad «alte tecnologie naturali» inserite nel cuore della città.
Babylone è conosciuta come una città unica, la città estrema e il simbolo dell’armonia ideale fra città e
natura. Oggi, questa armonia è un interesse globale. Il nostro futuro è strettamente legato alla nostra
pianificazione urbana, obbligandoci a inventare una sinergia fra i processi urbani e naturali. I nostri
progetti sono un’elaborazione e un’espressione di questa simbiosi tra natura e città, attraverso
l’interconnessione e lo sviluppo dei migliori aspetti di entrambi. Noi perciò immaginiamo autentiche
«città viventi», creando nuovi paesaggi e nuovi modi di vivere ad ogni scala. Questo è il sogno che
guida il nostro lavoro. Abbiamo strutturato il nostro modo di pensare attorno al concetto consolidato di
«natura attiva», che considera la natura come un motore per la città. Confidiamo su innovative
tecniche naturali che rendano possibile soddisfare le principali esigenze di una città in termini di
acqua, aria, energia, cibo e materiali. Per scegliere i migliori strumenti e materiali per i nostri propositi
e per valutare il loro impatto in modo preciso, abbiamo elaborato un concetto ambientale.
L’ambiente è al cuore dei nostri interessi, del nostro approccio per progettare ed indirizzare
l’implementazione.
Il concetto di «natura attiva» è un concetto basato sull’enorme capacità produttiva della natura di
soddisfare tutte le necessità di una città e dei suoi abitanti in termini di acqua, aria, cibo, energia,
materiali e biodiversità… Ognuna di queste necessità può essere gestita secondo una modalità meno
o non inquinante, grazie a semplici tecniche naturali; messe insieme e riorganizzate, le loro capacità
vengono decuplicate. Il nostro approccio ambientale identifica e razionalizza le varie tecniche,
consultando un considerevole sistema di gestione dei dati che supporta ogni fase di ogni progetto.
Persuasi che la reale efficacia ambientale deve essere vasta e comprensiva, noi elaboriamo
sistematicamente i nostri progetti con questi fondamenti in mente.
Concetto ecologico
Nel 2008, l’Agence Babylone ha definito il concetto di Natura Attiva per guidare il lavoro dei suoi
progetti. Il suo obiettivo è quello di identificare chiaramente strumenti operativi che rispettino
l’ambiente. Decisamente concreto, il concetto sostenibile di Natura Attiva è fondato su una
considerevole raccolta di dati. Esso indicizza ed analizza vari strumenti e processi, diminuendo in
questo modo l’impatto ambientale delle nostre costruzioni paesaggistiche. Gli strumenti sono elementi
semplici; la scelta e l’uso dei materiali e delle piante. I processi sono invece sistemi complessi […] Il
nostro lavoro permette di valutare precisamente l’impatto dalla loro realizzazione, al loro compimento
fino al loro utilizzo nel corso del tempo. Questa visione multi-criteriale comprensiva comprende i vari
aspetti d’impatto dei nostri progetti.
Viene prodotto un sommario dei punti principali per ogni strumento e processo selezionato. La nostra
raccolta di dati viene aggiornata in modo costante in modo tale da riflettere la realtà e i rapidi progressi
della scienza in questo campo.
Scheda dello strumento
Gli ‘strumenti’ sono elementi basilari che costituiscono le nostre costruzioni paesaggistiche. Alcuni
esempi degli strumenti che noi consideriamo sono: i materiali del suolo (cemento, materiali vegetali,
legno…); le piante (di copertura del terreno, perenni, alberi e arbusti, siepi…); le attrezzature
(panchine,illuminazione, recinzioni, spazi per i fiori…
Per ogni strumento, definiamo una scheda tecnica nella quale dettagliamo le sue caratteristiche ed i
suoi impatti in funzione dei nostri criteri. In questo modo è possibile avrere immediatamente una
visione globale delle caratteristiche di uno strumento: i suoi aspetti, il perfezionamento, i costi, il
mantenimento e l’arco di vita… ognuni di questi aspetti descrive il suo impatto ambientale. Queste
schede ci forniscono una conoscenza dettagliata di ogni strumento, rendendo le nostre scelte
razionali, ottimali e compatibili con i nostri principi.
Scheda del processo
I processi sono sistemi complessi che implicano una successione di interazioni tra vari elementi per
ottenere un risultato (la produzione di energia, il riciclo…). Come macchine viventi, essi sono attivi
spazialmente ed adempiono un ruolo funzionale e conveniente per gli abitanti.
Esempi dei processi che consideriamo sono: fitodepurazione (acque grigie, acque nere…); solare
(fotovoltaico, pannelli solari…); vento (elettrico, idrauico…); riduzione a concime organico;…
Queste schede forniscono anche velocemente dati importanti quando si stanno prendendo scelte
rilevanti per i nostri progetti. La loro caratteristica particolare è quella di trasmettere una visione
globale completa del processo, enfatizzando le sue qualità (produzione di elettricità…), tanto quanto i
suoi svantaggi (difficoltà di riciclo o eccesivi costi di produzione dell’energia…).
Scheda riassuntiva
Abbiamo anche raggruppato queste informazioni all’interno di una tavola generale, che riassume le
performance relative allo ‘Sviluppo sostenibile’ di ogni strumento e processo. Questa raccolta di dati ci
rende capaci di fare scelte più adatte alle questioni di ogni sito. Deve essere sottolineato che la nostra
raccolta di dati viene continuamente aggiornata con nuovi materiali e processi innovativi.
Progetto Natura Attiva
Si tratta di un sistema che unisce l’ambiente naturale, il terreno agricolo e la città.
Sfrutta i processi naturali per soddisfare tutte i bisogni della città e dei suoi abitanti: per produrre aria e
acqua pulita, per fornire energia e cibo, per aumentare la biodiversità e per trasformare i rifiuti in una
merce preziosa.
Relazione di progetto tratta da
Agance Babylone, www.agancebabylone.fr
Tecnologia
Richard Buckminster Fuller
Approaching the benign environment
Collier-Macmillian, 1970
Approaching the benign environment è un testo che raccoglie gli interventi di Buckminster Fuller, Eric
Walter e James R. Killan in occasione di un ciclo di lezioni dedicate alla memoria di John Leonars
Franklin. La Auburn University, in particolare, invitò i tre scienziati chiedendo loro di esprimersi rispetto
alla questione generale di come gli uomini avrebbero potuto salvare l’umanità e i suoi ideali in una
società scientifica e tecnologica in rapido sviluppo. Seguendo ognuno il proprio punto di vista, essi
esprimono la loro speranza in idee creative capaci permettere all’uomo di migliorare la vita su questo
pianeta attraverso la costruzione di un «ambiente favorevole». L’attenzione è rivolta verso una
rivoluzione progettuale, di approccio ai problemi, incentrata sull’ottimizzazione delle risorse, sul
contenimento quantitativo e sull’idea del fare «more with less». Una rivoluzione nella quale la
tecnologia diventa uno strumento in grado di sostituirsi alla politica e scienziati e ingegneri sono
chiamati a farsi «comprehensive designer», consiglieri e «decision makers» per aiutare la società a
risolvere molti dei problemi sociali ed economici che le tecnologie stesse hanno generato.
Education for comprehensivity
[…] Stiamo tutti lavorando nella convinzione che l’uomo sia destinato al fallimento. Io dico che l’uomo
è abbastanza chiaramente simili ad un atomo di idrogeno: progettato per essere un successo. E’ un
fantastico pezzo di design; è completamente sbagliato pensare che sia tenuto a fallire. Io ipotizzo che
sia destinato al successo che egli debba usare la sua mente per avere successo; e per comprendere
cose come la ricchezza e […] quei principi generali e per realizzare che quando si utilizzano questi
non si sta consumando niente dell’universo. Si sta semplicemente utilizzando quello che l’universo è –
volgendolo a proprio favore. E questo è quello che si è chiamati a fare per dimostrare il successo
dell’uomo.
Nel 1927 ho detto: sto per dedicare il resto della mia vita ad esplorare l’intera questione del fare
«more with less» e cercare che cosa potrebbe accadere se prendessimo il tipo di tecnologia che è
stata applicata solo in mare e in cielo e la applicassimo alla terra dove le persone hanno costruito tutti
quegli edifici pesanti. Fino ad ora ho parlato alle associazioni architettoniche di quasi tutti i paesi del
mondo, e differenti stati e città. Chiedo sempre a chi mi ascolta se qualcuno mi può dire che cosa
sono intermini di peso gli edifici. E dico: «Nessuna mano alzata?». Nessuna mano alzata. Dico «Me lo
dite solo approssimativamente facendo riferimento ad un centinaio di tonnellate?» Nessuno mano
alzata. Così dico «Ditemelo approssimativamente in riferimento ad un milione di tonnellate» Nessuna
mano alzata. E’ abbastanza chiaro che le persone, architetti inclusi, non conoscono il peso degli
edifici. Se non si conosce quanto pesa un edificio, certamente non si conosce qual è la sua
performance per sterlina. Se non si conosce il peso, non si sta certo cercando di fare di più con
meno. Cerchiamo di essere efficienti nel progettare le macchine dentro al nostro edificio, ma gli edifici
stessi non sono certo pensati in questo modo.
Il fatto che, nella nostra situazione economica, potessimo tenere una fantastica andatura mi è
diventato perfettamente chiaro molto tempo fa; e questa realizzazione mi ha condotto a sperimentare
le cupole geodetiche. Ora io ne ho realizzate cinquemila in cinquanta stati. Migliaia di queste cupole
sono abbastanza leggere, abbastanza forti e abbastanza adeguate da essere portate dall’aria. Esse
pesano solo il tre percento rispetto ad un edificio tradizionale grande uguale. Esse sono resistenti ai
terremoti e a piuttosto resistenti al fuoco (per un certo periodo di tempo, determinato dalle norme).
Esse resistono ai carichi di neve delle zone artiche e agli uragani. Stanno facendo queste cose solo al
tre per cento del peso delle migliori alternative tradizionali conosciute per costruire. […] Le mie
ricerche hanno reso perfettamente chiaro che cosa potesse significare sotto l’aspetto economico
l’aumento del rendimento delle risorse utilizzate. Casualmente, dal 1900 ad oggi, in due terzi di un
secolo la percentuale di persone che vivono a standard elevati è aumentata da meno dell’uno per
cento a più del quaranta percento. Nello stesso periodo l’aumentare delle risorse disponibili per ogni
uomo è continuamente diminuita, così ovviamente non possiamo realizzare degli alti standard di vita
come risultato del fatto che abbiamo più risorse da utilizzare. Questo può essere il risultato solo della
filosofia progettuale del fare «more with less».
Ora è abbastanza chiaro che i politici non conoscono niente di tutto questo. Gli attuali standard di
progetto potrebbero solo occuparsi del 44 per cento dell’umanità, condannando la maggior parte delle
persone ad una vita molto brave e a un grave dolore lungo la strada. Ma non vi è nulla nell’attività
politica che si occupi di questo eccetto che del fatto di come farne a meno o come prendere dagli uni
per dare agli altri. Questo è quello che i sociologi e i politici si sforzano di fare. Essi dicono ancora che
può solo essere una scelta: o a me o a te. Non c’è una reale consapevolezza fra i politici di tutto il
mondo che il principio del fare di più con meno potrebbe rendere possibile utilizzare le risorse a nostra
disposizione per occuparsi di tutti – e con standard molto più alti di quanto nessuno abbia desiderato.
Ma la scienza adesso dice che è perfettamente possibile. Questo ha a che fare con qualcosa
chiamato «engineering efficency» - la quantità di lavoro fatto da una macchina al di là dell’energia che
essa consuma. […] L’efficienza complessiva delle macchine che l’uomo sta usando in tutto il mondo
oggi è solo del 4 per cento. In ingegneria è realizzabile con alte probabilità raggiungere un 12 per
cento globale; e se lo facessimo, potremmo occuparci di tutta l’umanità.
Parlando di pura fattibilità ingegneristica, è considerevolmente chiaro agli scienziati che il lavoro deve
essere fatto. Ma tutti questi dicono anche che questo non si può fare con nessuna delle restrizioni
nazionali che proteggono le nazioni. Ogni nazione sta pensando che deve essere il suo stato a trarne
vantaggio. Ognuno dipende dalla protezione. Ma per fare questo lavoro l’uomo deve avere
un’assoluta libertà di relazioni e di accesso alla distribuzione delle risorse che si trovano in tutto il
mondo. Dobbiamo avere a che fare con il nostro pianeta, la Terra, come con una macchina, che è ciò
che è. […]
Logicamente, i giovani di oggi diventano esasperati e chiedono: «Perché non possiamo far lavorare il
mondo?». Tutto questo controsenso è la conseguenza della tendenza esausta e ignorante dei vecchi
programmatori. Ho detto uniamo le forze e facciamo le cose giuste. Processioni di pesone, studenti
chiedono che i loro leader politici facciano dei passi per portare la pace e l’abbondanza. La fallacia di
questo sistema giace nella loro assunzione vecchia ed errata che il problema sia una riforma politica.
Il fatto è che i politici stanno affrontando un vuoto, e non si può riformare un vuoto. Il vuoto è
l’apparente condizione di non aver a disposizione abbastanza per muoversi […] E’ ancora una
situazione di «o io o te condannati a morte» che conduce da un impasse all’altra arrivando alla fine a
una resa dei conti con le armi. Così, sempre più studenti in tutto il mondo stanno venendo a
conoscenza della nuova e sorprendente alternativa alla politica – la rivoluzione della scienza del
progetto che da sola può risolvere il problema […]
Gli studenti possono imparare la seguente cosa: l’evoluzione tecnica ha questo fondamentale modello
di comportamento. Per prima cosa, come ho spiegato, c’è la scoperta scientifica di un principio
generale, che emerge come una realizzazione soggettiva da indagini sperimentali dell’uomo. Poi vi è
l’impiego oggettivo di questo principio in un’invenzione speciale apposita. Poi l’invenzione viene
tradotta in pratica. Questo dà agli uomini un vantaggio tecnico sull’ambiente fisico. Se risulta avere
successo come strumento della società, esso viene usato in applicazioni quotidiane sempre maggiori
e più rapide […]
Mentre tutte le precedenti curve di incremento e di decadimento dell’evoluzione tecnica delle
dell’armamento si sono verificate, è anche avvenuta, senza che l’ambito militare se ne accorgesse,
una vasta ricaduta delle tecnologie difensive nell’ambito delle tecnologie domestiche basate sul
principio di effimerizzazione del fare più con meno. Come ho sottolineato, in due terzi di un secolo
questo risultato poco evidente ed innavertito ha convertito più del quaranta percento dell’intera
umanità dal possedere nulla ad un alto standard di vita rendendo chiaro che il solo modo con il quale
l’intera umanità possa essere elevata a questo vantaggio è sicuramente l’accelerazione di questa
rivoluzione tecnologica. E’ evidente come la richiesta mondiale di pace possa solo essere realizzata
attraverso una rivoluzione tecnologica, che farà molto di più con molto di meno per ogni funzione
come finalmente produrre abbastanza per supportare tutta l’umanità. […] Se il desiderio di eliminare la
guerra è quello da cui sono mossi, essi dovranno spostare i loro sforzi da mere agitazioni politiche alla
partecipazione nella rivoluzione tecnologica-progettuale.
Tratto da Richard Bukminster Fuller, Eric A. Walker, James R. Killian;
Approaching the benign environment; Collier-MacMillian; Londra 1970
Hassan Fathy
Architecture for the Poor
The University of Chicago Press, 1973
Pubblicato in un’edizione limitata dal Ministero della Cultura del Cairo nel 1969, Architecture for the
Poor conquista l’attenzione internazionale nel 1973 quando viene pubblicato sia negli Stati Uniti che in
Gran Bretagna diventando un testo di riferimento importante per movimenti come l’‘Intermediate
Technology Movement’. Descrivendo nei dettagli l’esperienza relativa alla progettazione e alla
realizzazione del villaggio di New Gourna, Fathy diviene infatti fautore di un atteggiamento progettuale
fondato sull’uso di forme e tecnologie appropriate, «consapevoli» e «rispettose» in grado di stimolare
il coinvolgimento degli abitanti e di risvegliare in loro l’orgoglio per la cultura nazionale. Quella che
l’architetto propone è la configurazione di «alcuni legami solidi» con antichi principi legati
all’esperienza degli uomini; la sostituzione del Magistero Sperimentale con quello Esperenziale, a
favore di un’idea di tecnologia capace di modificare le proprie funzioni e la propria struttura per
«inserirsi naturalmente» e corrispondere alle condizioni contestuali, relazionarsi alla storia, ai singoli
individui, alle comunità. Elemento di espressione permanente del carattere di una comunità.
Cambiamento con perseveranza
Io voglio evitare a tutti i costi l’atteggiamento troppo spesso adottato dagli architetti e dai pianificatori
professionisti quando si confrontano con una comunità contadina, l’atteggiamento per cui la comunità
contadina non ha alcun valore nella considerazione dei professionisti, per cui tutti i suoi problemi
possono essere risolti attraverso l’importazione di un sofisticato approccio urbano al costruire. Se
possibile vorrei fare da ponte al golfo che separa l’architettura del popolo da quella degli architetti. Io
voglio fornire alcuni legami solidi e visibili fra queste due architetture nella forma di figure, comuni ad
entrambi, in cui i villaggi possano trovare un punto di riferimento da cui ampliare la loro comprensione
del nuovo, e che gli architetti possano usare per testare la veridicità del proprio lavoro rispetto alle
persone e al luogo.
L’architetto si trova nella posizione privilegiata di rianimare la fede del contadino nella propria cultura.
Se, come un critico autorevole, mostra ciò che è ammirevole nelle forme locali, e va così oltre da
utilizzarle lui stesso, allora i contadini immediatamente iniziano a guardare ai loro prodotti con
orgoglio. Quello che prima era ignorato o anche disprezzato all’improvviso diventa qualcosa di cui
vantarsi, e per giunta, qualcosa di cui il contadino si può vantare consapevolmente. In questo modo
l’artigiano locale è stimolato ad utilizzare e sviluppare le forme locali tradizionali, semplicemente
perché le vede rispettate da un vero architetto, mentre il contadino comune, il cliente, si trova sempre
più nella posizione di capire ed apprezzare il lavoro dell’artigiano.
Ma, per arrivare ad una decisione positiva rispetto al tipo di architettura da utilizzare nel nuovo
villaggio, era necessaria un’ulteriore indagine.
Oltre all’ambiente di Gourna costruito dall’uomo, con il quale il nuovo villaggio deve armonizzarsi, c’è
l’ambiente naturale del paesaggio, della flora e della fauna. Un’architettura tradizionale dovrebbe
collocare per molti secoli in questo ambiente naturale, sia visivamente che praticamente. Il nuovo
villaggio dovrebbe intonarsi con questo ambiente fin dall’inizio e i suoi edifici devono essere costruiti in
modo tale da sembrare il prodotto di secoli di tradizione. Dovevo provare a dare ai miei disegni
l’apparenza di essersi sviluppati a partire dalle forme che hanno gli alberi dell’area. Dovrebbero
inserirsi naturalmente nel contesto dei campi come fanno le palme da dattero. I loro abitanti
dovrebbero vivere al loro interno naturalmente, come se si trattasse dei loro vestiti. Ma era un compito
molto pesante per un solo uomo, potevo pensarmi nell’esperienza di generazioni di muratori del
villaggio, o concepire nella mia testa tutti i lenti cambiamenti causati dal clima e dall’ambiente?
Tuttora noi possiamo cercare l’aiuto dei nostri anziani per ottenere questa conoscenza. Gli antichi
egizi hanno penetrato l’anima di questa terra ed hanno rappresentato il suo carattere con un’onestà
che ci ha trasportato nei millenni interposti. Nei loro disegni – semplici linee pitturate sui muri delle
tombe – essi comunicano più del carattere essenziale della natura di quanto non facciano le più
elaborate miscelazioni di colori, luce ed ombra elaborate dai più celebri esponenti dei moderni
movimenti pittorici europei.
Poiché i piani di un architetto sono tutti disegni, ho pensato che potessi mettere sullo sfondo dei miei
disegni i disegni della flora e della fauna dell’area, disegnate semplicemente, come nei disegni degli
Antichi Egizi, ed ero certo che queste rappresentazioni delle palme e delle mucche come venivano
mostrate nelle tombe dei nobili avrebbero mostrato l’onestà o smascherato la falsità degli edifici. Ho
sottoposto tutte le rappresentazioni a test rappresentativi come questo; evitando attentamente
l’astuzia professionale di molti progetti architettonici che spesso distorcono le forme naturali con
l’obiettivo di adattare il contesto agli edifici, non ho provato a produrre l’effetto della profondità, e non
ho nemmeno provato ad includere querce adatte a bilanciare le masse, ma ad eseguire i miei disegni
attraverso linee piane e inserendo nei loro dintorni schizzi degli animali e degli alberi e degli elementi
naturali di Gourna. Erano questi: la collina sopra Gourna, che, con la sua piramide naturale in cima, è
sempre stata considerata una roccia sacra; la mucca, poiché il dio della mucche Hathor era il
protettore dei defunti di Gourna, e Gourna si trovava in un’area in cui c’erano molte mucche e nella
quale l’onnipresente bufalo egiziano non era frequente; i due alberi, la palma da dattero e un’alta
palma, poiché questi sono gli alberi caratteristici della parte settentrionale dell’Egitto; un certo
carattere mostrato nelle parti massicce di alcune case del vecchio villaggio di Gourna, con le loro
logge collocate nella parte alta degli edifici.
Ho messo tutte queste forme sullo sfondo del mio primo tentativo, della mia rappresentazione
esplorativa, perché funzionassero come standard di riferimento. Sentivo che a Gourna era nostro
dovere costruire un villaggio che non fosse falso per l’Egitto. Lo stile delle persone doveva essere
riscoperto; o, piuttosto, riacquisito dalla scarsa evidenza dell’artigianato locale e dal carattere locale.
Conoscevamo una tecnica proveniente dalla Nubia; non potevamo costruire qui un edificio nubiano.
Rimanere fedeli ad uno stile, secondo la definizione che io do a questa parola, non significa la
riproduzione fedele della creazione di altre persone. Non è abbastanza copiare anche il miglior edificio
di un’altra generazione o di un’altra località. La modalità costruttiva può essere utilizzata, ma occorre
spogliare da questo metodo tutta la sostanza derivante da un carattere e un dettaglio particolare, e
scacciare dalla propria mente la rappresentazione delle case che appagano così meravigliosamente i
tuoi desideri. Occorre iniziare nel modo giusto sin dal principio, lasciando che i nuovi edifici nascano
dalla vita quotidiana delle persone che vivranno al loro interno, modellando la casa in funzione delle
canzoni popolari, intessendo il modello di un villaggio come se questo venisse costruito su un telaio,
consapevole degli alberi e delle colture che vi cresceranno, rispettoso dello skyline e modesto prima
delle stagioni. Non ci devono essere tradizioni contraffatte né falsi aspetti moderni, ma un’architettura
che dovrà essere l’espressione permanente e visibile del carattere di una comunità. Ma questo non
significa nient’altro che un’architettura totalmente nuova. Il cambiamento arriverà sicuramente a
Gourna in ogni caso, perché il cambiamento è una condizione di vita. I contadini stessi vogliono
cambiare, ma non sanno come farlo. Esposti come sono all’influenza degli appariscenti edifici presenti
nelle città provinciali dei dintorni, essi probabilmente seguirebbero questi cattivi esempi. Se non
potessero essere salvati, se non potessero essere indotti a cambiare verso delle migliori soluzioni
architettoniche, essi cambierebbero verso il peggio.
Spero che Gourna possa almeno accennare ad una strada che porti verso l’inizio di una rianimata
tradizione del costruire, che altri più tardi possano prendere ad esempio questa esperienza
sperimentale, estenderla, e alla fine stabilire una barricata culturale per arrestare lo spostamento
verso un’architettura falsa e senza senso che viene raccolta velocemente in Egitto. Il nuovo villaggio
può mostrarci come un’architettura costruita solo con le persone sia possibile in Egitto.
Tratto da Hassan Fathy; Architecture for the Poor;
The University of Chicago Press; Chicago 1973; pp.43-45
Paolo Soleri
Technology and cosmogenesis
Paragon House, 1985
Pur definendo sin dai suoi primi scritti il contesto strumentale come ambito di appartenenza delle
strutture tecnologiche, è con la pubblicazione nel 1985 del testo Tecnologia e Cosmogenesi che Paolo
Soleri tratta esplicitamene del conflittuale rapporto ideologico-costruttivo fra tecnologia e suo uso
creativo, fra tecnologia e uomo. Per l’architetto italo-americano il conflitto tra spiritualità e materialismo
si rivela nella opposizione di armonia superiore e predominio tecnocratico, ovvero nel conflitto tra
finalità e strumentazione e se il «disordine» della tecnocrazia imperante nella città attuale conduce
inevitabilmente alla morte, esso deve venire superato dal proprio rovescio, la «frugalità» operativa,
idoneo «supporto» strumentale tramite cui raggiungere la «minima massa ecologica» necessaria agli
intenti complessi della istituzione urbana.
Tale «città di privazione» non sostiene tuttavia una sorta di impauperimento carente, bensì promuove
una programmata «effimerizzazione», una riduzione cioè provocata e accettata che opponendosi alla
semplificazione si dispone verso la qualità comportamentale della parsimonia regolata, affinando il
senso di compiutezza dell’uomo, soddisfacendone le esigenze spirituali e migliorandone la qualità
della vita.
Quattro anni fa scrissi: «Se la scienza ha stabilito correttamente che la terra è composta dalla
medesima sostanza che costituisce il cosmo, e se la vita è la tecnologia attraverso cui tale sostanza
diventa animata, allora la vita, che ora sembra essere l’eccezione alla regole all’interno del cosmo
fisico, potrebbe diventare, alla fine, la regola. Se, oltre a essere fattibile, questa potenziale animazione
del cosmo è anche desiderabile, allora la responsabilità della vita giace nella trasfigurazione di un
fenomeno fisico immensamente potente in uno immensamente amorevole, spirituale. Un imperativo
escatologico.
Ci sarà una rinnovata inquietudine religiosa, causata dalla sonda spaziale, che metterà a fuoco
questioni escatologiche che abbracceranno preoccupazioni sociali, ambientali, culturali, etiche ed
estetiche. Tutte operano direttamente sulla con..ne umana in uno con le questioni di salute e
conservazione genetica.
Ma la preoccupazione escatologica sarà ampiamente taciuta e intenzionalmente celata dietro fatti
concreti e imperativi tecno-politici. E ancora, le poste in gioco sono terribilmente alte; noi dobbiamo
affrontare tutto ciò che noi siamo intendendo pianificare e realizzare. Sotto la pressione del
‘progresso’ scientifico e tecnologico stimolato dall’avventura nello spazio, la preoccupazione
escatologica darà azione a nuovi modelli teologici pseudo-nuovi. Allora, a mio parere, la prova della
….nello spazio non è, fondamentalmente, un problema tecnologico, politico, o cosmico, ma un
problema teologico.
E le implicazioni escatologiche dela colonizzazione dello spazio sono fondamentali e critiche».
[…]
Ma potrebbe ben essere che il fenomeno vivente sia ordine che si insinua nel circolo relativamente
inerziale delle cose fisiche. Il ventre molle della realtà rivelazionale è che essa vuole, ha bisogno, di
vedere ordine nel preordinato, la natura provvidenziale dell’animismo. Quindi, non si tratta di un
insinuarsi dell’ordine nella natura, ma solo il palesarsi (rivelazione) dell’ordine al contesto umano. La
natura ordinata della realtà animistica respinge il processo. La cessazione del processo ogni volta
congela l’instabilità della creazione e la sua imprevedibilità. Per l’animista la realtà è, è stata e sempre
sarà uguale a se stessa, e se il tempo non fa altro che svelarla proprio come si possono svelare delle
cose ammassate in una soffitta puntando qui e là epocalmente la luce di una torcia elettrica. Ma la
soffitta è alla fine un … , la meno ordinata di tutte le cose, dal momento che ogni oggetto là è una
conchiglia vuota, svuotata di volontà, disordinata – di fatto, è disordine come tale.
Io scarterei il modo animistico-rivelazionale perché per esso tutte le cose, grandi e piccole, sono
fatalmente predefinite, incluse la città del cielo. Se per le piccole cose si può mettere da parte la
dimensione escatologica, allora per le città del cielo la dimensione scatologica la attraversa
completamente. Senza un fine in vista, un traguardo irriducibile, la città del cielo è solo un altro
congegno, un capriccio tecnocratico e per di più costoso. L’assunto della città del cielo, come
l’assunto di tutti gli habitat, consiste o ricade nella sua capacità di creare-spirito (e generazione di
entropia). Là, almeno in termini evolutivi, sta il dilemma della città del cielo.
Quanto disordinato (di per sé) in senso antropico può divenire un habitat? Ogni città fantasma può
dirlo. Ma esiste un genere perfino più mortale di disordine: il disordine tecnocratico. E’ così perché la
tecnocrazia si sta muovendo sempre più e in maniera convulsa, accumulando intorno a sé il disordine
fisico e dentro di sé il caos spirituale. Quello che la città del cielo deve temere di più in una tale
condizione è il disordine fisico prodotto dall’alta tecnologia (seconda legge della termodinamica) e il
nulla che si annida facilmente nella sua struttura contorta.
Alla fine, le città del cielo simboleggeranno la frugalità attraverso la minima massa ecologica di cui
esse avranno bisogno come supporto. Ma esse saranno un organismo (un’associazione di creature
legate indissolubilmente) galleggiante in un … ecologico. Cioè l’emblema di un nuovo organismo che
importa, da distanze galattiche, la massa-energia per trasformala in vita. Abituati come sono gli
organismi all’immensa varietà di questo pianeta e alle infinite articolazioni che tale varietà offre, la città
del cielo sarà una ‘città di privazione’, un cugino povero della città frugale. Forse la risposta –
pericolosa – sarebbe porre le menti senza corpo nella città del cielo per eguagliare i dintorni senza
ecologia della città del cielo. Una … cosa sarebbe come un’esaltata sonda spaziale senza equipaggio,
fino al giorno in cui i cervelli (organi fisiologici) potranno essere isolati dal corpo (come noi …). Questo
significherà una dis-infestazione della complessità ecologica della città del cielo. Se noi sapessimo un
po’ di più sulla effimeralizzazione, noi forse potremmo essere meno cupi nei nostri pronostici. Dal
momento in cui sottopongo i miei frammenti alla effimeralizzazione, io accetto la città del cielo, ma
solo nel caso in cui il paradigma di complessità-miniaturizzazione-durata venga realmente osservato e
praticato. Per ora noi chiamiamo pseudo-effimeralizzazione, quel genere di efficienza riprodotta
attraverso una semplificazione, una diretta conseguenza della mente analitica che prevale sulla mente
sintetizzante. La tecnologia, così come noi la esercitiamo ora, è figlia della semplificazione. Nipote è la
pseudo-effimeralizzazione, la nemesi potenziale della città del cielo.
Come si può vedere, io non sto ancora parlando di fattibilità, perché a mio parere, il nostro
comportamento non sarebbe dettato dalla fattibilità ma deve essere dato dalla desiderabilità. Il senso
di città del cielo deve essere chiaro prima che noi ci immergiamo nella sua creazione. Il flagello della
tecnologia è la presa magica che essa ha su una fantasia che non è ancora stata frenata dal senso.
Da quanto il cervello umano ha iniziato ad anticipare, astrarre e pianificare, la separazione tra fattibilità
e desiderabilità è stata il problema numero uno. E’ sufficiente dire che il conflitto è spesso presente
quando e dove la fattibilità non ha sostenuto la desiderabilità (come un ‘bene dell’umanità), ma ha
incoraggiato le costrizioni, l’ego di questa persona o gruppo. L’abisso tra la desiderabilità e la fattibilità
è laddove il consumismo proietta la sua ombra scura: la sua iniquità. Se la città del cielo come
prototipo, può tenersi fuori da tali ombre con la sua appartenenza al regno della protodesiderabilità, la
città del cielo come una entità da mercato, dovrà avere a che fare con la sua propensione per la
fattibilità ‘esplosiva’ e con tutta l’arroganza e irragionevolezza che essa comporta.
Cito ancora me stesso: «La sperimentazione urbana dovrebbe essere la priorità principale per una
società coinvolta. E’ nel benessere urbano e nella sua vivacità che si trovano le frontiere di una
società onesta, equa, civilizzata, una società con un futuro. Il rifiuto della sperimentazione, oltre ad
essere antidemocratico, un rifiuto a priori di possibili libertà, è anche arrogante e intollerante, e nasce
dall’autoregolazione, ‘ragionevole’ e immodesto atteggiamento di mediocrità, l’altra ‘minaccia’ della
democrazia».
Noi dobbiamo riconoscere che non c’è sforzo integrato realmente implicato con il futuro; cioè con noi e
la nostra discendenza. Noi dobbiamo riconoscere l’imperativo che impone di seguire quello sforzo per
tenere aperte delle alternative per il futuro della vita, la nostra inclusa. Noi dobbiamo riconoscere che
la natura non focalizzata dell’attacco tecnologico sta travolgendo amici e nemici.
Allora sembra che, nonostante l’esistenza di molte strategie, sia necessario svilupparne un’altra
ancora: la dichiarata, intenzionale, determinata ricerca di idee esotiche che offrano ora l’opportunità di
verificare e valutare e stimare teorie, sistemi e situazioni che possano bene divenire norme nel
prossimo secolo, nei prossimi vent’anni o così via»
Tratto da Paolo Soleri; Kathleen Ryan (a cura di); Itinerario di architettura: antologia degli scritti;
Jaca Book; Milano 2000; pp. 261-280
Yona Friedman
L’architettura di sopravvivenza.
Casterman, 1978
Dopo aver pubblicato la prima edizione de L’architecture de survive nel 1978, Yona Friedman decide
di ripubblicare il testo riassuntivo del suo percorso progettuale venticinque anni dopo con l’intento di
proporre soluzioni progettuali e tecnologiche che rispettino le condizioni di sopravvivenza della specie
umana. Di fronte agli attuali problemi di impoverimento e di esaurimento delle risorse Friedman si fa
sostenitore di un’architettura «povera» e di una controrivoluzione tecnologica fondata sul ritorno a
forme di vita più elementari, capace di riscoprire i valori naturali e tecnologie compatibili con un modo
di vita più sobrio. Esigenze alle quali, secondo l’architetto ungherese, risponde «l’architettura di
sopravvivenza». Essa, a differenza dell’architettura classica che mira a cambiare il mondo per
renderlo favorevole all’uomo, cerca di limitare le trasformazioni, conservando solo quelle necessarie a
migliorare e render abitabili gli ecosistemi esistenti. In altre parole, l’architettura classica trasforma le
cose per adeguarle all’uso umano, mentre l’architettura di sopravvivenza prova a modificare il modo in
cui l’uomo si serve delle cose.
Gli sconvolgimenti, le rivoluzioni ecc. si producono non in seguito all’improvvisa scoperta di
un’ingiustizia, ma quando si prende coscienza del fatto che le scorte sono ‘esauribili’ (ed è questo il
motore dell’attuale rivoluzione ecologica) o, ancora, in seguito ad una rottura dell’equilibrio delle forze
di pressione (motore dell’odierna rivolta sociale). Oggi quando si parla di «sopravvivenza», sono
possibili due interpretazioni, che vanno entrambe nella direzione delle riflessioni appena fatte. Si tratta
della sopravvivenza che deve essere garantita nonostante la diminuzione delle scorte, o della
sopravvivenza che deve diventare egualitaria. Beninteso, la diminuzione delle riserve e la crescente
tendenza all’uguaglianza conducono alla crisi.
La soluzione di queste crisi si può trovare (visto che se ne conoscono le cause) in due modi diversi:
- trovare come aumentare le scorte da distribuire;
- trovare come soddisfare la volontà di uguaglianza.
Queste due possibili soluzioni non sono indipendenti l’una dall’altra: l’esigenza di un razionamento
«giusto», egualitario, è normalmente più forte in caso di penuria, cioè quando le scorte non possono
più aumentare.
Una giusta ripartizione dei diritti e dei beni è più facilmente realizzabile in una società ricca o in una
povera? Personalmente , propendo per l’ipotesi che la disuguaglianza (o l’ingiustizia sociale) sia molto
più frequente in una società ricca (che accumula bottino) che in una povera. L’indipendenza politica, si
sa, è legata alla non dipendenza economica. Eppure il povero, che è economicamente nondipendente, in generale è politicamente dipendente, suo malgrado: perché questa non dipendenza
(che non è altro che abbandono) gli assicuri l’indipendenza, occorrerà che egli «improvvisi», si inventi
da solo dei mezzi di sopravvivenza.
Una società ricca crede nella «inesuribilità» delle scorte necessarie alla sopravvivenza e spesso
attribuisce la povertà dei poveri alla pigrizia e all’incompetenza. Così i ricchi tranquillizzano la propria
coscienza con la convinzione che vi siano risorse sufficienti per tutti, che i poveri siano solo in ritardo e
che recupereranno più tardi (nessuno realizza che «più tardi» le risorse le scorte saranno esaurite).
Questa argomentazione fallace non è facile da sradicare, tranne che in caso di penuria.
Il credo di questo libro è che la penuria è la madre dell’innovazione sociale o tecnica. La società
povera esige l’uguaglianza e, spinta dalla necessità, dispiega un’ingegnosità tecnica eccezionale. E’ la
società del mondo povero che sta inventando l’architettura di sopravvivenza […] La mia intenzione
non è stata quella di idealizzare la bidonville , né i poveri, né il popolo. Ciò che spero, invece, è di
rilanciare con questo libro l’idea di razionamento, vale a dire la convinzione che le scorte sono limitate,
e l’idea di un razionamento giusto, che dunque deve essere deciso da chi ne subirà le conseguenze.
Considero l’architettura di sopravvivenza – disciplina da reinventare – uno strumento fondamentale
per raggiungere questo obiettivo. L’architettura di sopravvivenza è quindi essenzialmente uno
strumento di sopravvivenza (in condizioni molto particolari); un tempo tutta l’architettura è stata, non
dimentichiamolo, architettura di sopravvivenza, ma ha perduto il proprio ruolo di strumento diventando
disciplina. Proviamo a ritrovare questo ruolo dimenticato.
[…]
Soluzioni tecniche
[…] Bisogna infatti riconoscere che è molto più frequente incontrare ambienti costruiti gradevoli e
unitari che sono frutto del caso, nati semplicemente in funzione degli obiettivi e dei gusti personali
degli abitanti: quante volte lo constatiamo ammirando certi villaggi e certe città antiche (e questo vale
per qualunque civiltà).
Questa unitarietà e questa gradevolezza sono quasi sempre il risultato del limite insito nella tecnica
costruttiva utilizzata, che è sempre relativamente semplice. Questa tecnologia relativamente semplice
(e dunque costruibile e realizzabile da artigiani o anche dall’abitante stesso) è il vero garante della
libertà di concezione del pianificatore. Essa genera diversità (eterogeneità degli oggetti), pur dando la
sensazione di un’unitarietà che dipende dalla povertà della tecnica applicata.
Traiamo, da questa riflessione, l’indicazione del percorso che potrebbe condurre alla realizzazione
dell’autopianificazione: una certa povertà dei mezzi tecnici di costruzione garantisce le regole pratiche
ed estetiche che permettono una grande diversità.
[…]
Grazie alle tecniche di costruzione, si realizzano infatti da un lato la struttura (estensione del suolo),
dall’altro gli involucri da questa sostenuti (tetto, pareti-schermi). Questi ultimi possono essere
rimovibili, come dei mobili. Chiamiamo le estensioni del suolo «infrastruttura» e gli elementi rimovibili
«tamponamenti dell’infrastruttura». Un errore della disposizione dei mobili non è irreversibile per chi
prova ad ammobiliare la propria casa; allo stesso modo, un errore dell’autopianificatore non sarà
catastrofico se riguarda solo gli elementi rimovibili, i tamponamenti dell’infrastruttura.
Dunque, dopo il ripristino della comunicazione tra l’abitante e, diciamo, la sua futura abitazione
(questa comunicazione è più importante di quella che l’abitante avrebbe potuto avere con l’architetto,
ed è questo il vero fine del metodo che ho voluto illustrare), l’abitante diventa auto pianificatore, e
sappiamo che tutte le tecniche che producono una separazione tra l’infrastruttura rigida e i
tamponamenti mobili possono condurre concretamente all’autopianificazione. Questo è il concetto
essenziale di ciò che tempo fa ho definito «architettura mobile».
[…]
L’industrializzazione non può mantenere le sue promesse
Quando si parla della nuova povertà si trova sempre un contraddittore che prova a rassicurarci
affermando che presto o tardi la povertà sarà eliminata grazie allo sviluppo della nostra tecnologia
(tecnologia dell’industrializzazione). Questa fede nel nostro potenziale tecnologico sembra incrollabile,
sia nella parte già industrializzata del mondo sia in quella che non lo è ancora. (La prima si considera
«sviluppata», la seconda «in via di sviluppo»). Questa credenza è così solida, così radicata nelle
nostre abitudini, che merita di essere esaminata sul piano pratico e su quello del suo impatto
nell’ambito dell’architettura (che rimane l’argomento ufficiale di questo libro).
La teoria industriale del XIX secolo era relativamente semplice: nel mondo esiste una quantità limitata
(ma non troppo nell’immediato) di materie necessarie alla sopravvivenza dell’umanità: l’aria, l’acqua, il
cibo e le materie prime dell’industria. Queste materie non costano nulla o, meglio, costano solo il
lavoro indispensabile per estrarle o raccoglierle e per trasformarle in prodotti utilizzabili direttamente. Il
loro prezzo dipende dunque più dalla quantità di lavoro necessaria che dalla loro rarità. Ammesso ciò,
da quando questo lavoro può essere svolto solo dalle macchine, che lo fanno più velocemente, in
maggiori quantità, abbassandone il costo, la povertà non può che scomparire rapidamente.
Il nostro secolo ci ha riservato alcune sorprese che hanno fatto vacillare l’ipotesi secondo cui
l’industrializzazione condurrebbe alla fine alla povertà. Abbiamo scoperto a poco a poco che questa
ipotesi, che pareva valida al di sotto di un certo limite quantitativo non poteva più esserlo al di sopra di
tale limite. In effetti, oggi ci sono imposti dei limiti che sembrano insuperabili. Ormai ognuno sa che le
materie necessarie alla nostra sopravvivenza, soprattutto le risorse non rinnovabili, sono insufficienti
rispetto ai bisogni di un’umanità in costante crescita. Peraltro, questo consumo massiccio non fa che
esaurire le risorse e produce sempre più rifiuti, in gran parte non riciclabili.
Infine, si sa anche che l’invenzione e la messa in opera di nuove tecnologie che utilizzano meno
risorse non rinnovabili e producono meno scarti richiedono tempi lunghi e che, a quel punto,
l’esaurimento di alcune risorse indispensabili e l’inquinamento dovuto alla sovrapproduzione di rifiuti
avranno acquistato un buon vantaggio.
Messa in dubbio la fede nella tecnologia, ne appare una nuova: è la fiducia nella possibilità di una
organizzazione – politica o economica – che ci potrà aiutare ad attraversare i magri anni che ci
aspettano. In altre parole, siccome la tecnologia industriale non è bastata a far scomparire la povertà,
lo farà l’organizzazione politico-industriale. E’ molto bello, ma purtroppo è totalmente falso.
Un’organizzazione, qualunque essa sia, si fonda prima di tutto sulla comunicazione. Un sistema
composto di elementi con funzioni specializzate (organi) non può funzionare correttamente se non è
garantita la comunicazione (a doppio senso) tra i diversi organi. Ogni organismo vivente, ogni sistema
materiale, per funzionare dipende da «messaggeri». Ora, la trasmissione effettuata dai messaggeri
non può che avvenire entro certi limiti. (Soltanto una quantità limitata di messaggi può essere
trasmessa in un dato tempo: così il tempo, insieme ad altri fattori, impone dei limiti al funzionamento
dei messaggeri). Questa limitazione nell’ambito della comunicazione costituisce dunque il limite per
l’organizzazione di cui essa deve assicurare il funzionamento.
Non si può rimediare a questo limite della capacità del messaggero mettendo a servizio un gran
numero di messaggeri, perché ciò causerebbe inevitabilmente degli «ingorghi» colossali. Non ci si può
nemmeno accontentare di abituarsi all’idea che i messaggeri lavorano lentamente, perché non siamo
in grado di imporre le date-limite (dell’esaurimento di certe risorse o dell’inquinamento, per esempio).
Queste date-limite ci sono imposte da un meccanismo inesorabile. Le organizzazioni – i governi, i
consigli dei saggi ecc. – sono impotenti di fronte a questa evoluzione, non possono fare altro che
frenare il processo di industrializzazione riconoscendo di non essere in grado di far scomparire la
povertà, o continuare secondo la linea attuale e ritrovarsi a breve scadenza di fronte ad un nuovo
impoverimento.
In un modo o nell’altro, l’organizzazione e la tecnologia non possono averla vinta sulla povertà, e le
promesse di governi, di ideologie e di sistemi economici che pretendono di generalizzare il modo e il
livello di vita dei paesi industrializzati a tutta l’umanità, sono inattuabili nei termini che si sono fissati e
la loro realizzazione appare improbabile anche sul lungo periodo. E’ infatti evidente che nessuno oggi
ha la minima idea di come si potranno assicurare a quattro miliardi di esseri umani una casa
all’occidentale (anche rudimentale), un’automobile (o anche solo una bicicletta), la quantità di cibo
abituale nei paesi industrializzati, il tutto grazie ai metodi industriali. Sapendo che in tutto il corso della
storia non si è ancora raggiunta una produzione di un miliardo di vani abitabili, né di un milardo di
biciclette, ci si può domandare se l’intera infrastruttura industriale esistente nel mondo sarebbe in
grado di farlo ora senza interrompere ogni altra produzione per mezzo secolo. Inoltre, supponendo
che ciò sia possibile per quattro miliardi di abitanti, non bisogna dimenticare che in mezzo secolo
l’umanità conterà un numero di individui ben più consistente.
Le promesse dell’industrializzazione non possono dunque essere mantenute, soprattutto nei due
ambiti vitali della casa e del cibo.
[…]
La natura abitabile: un ecosistema migliorato
Se l’architettura classica si definiva come una disciplina che permette la produzione di certi oggetti o
costruzioni, l’architettura di sopravvivenza può essere definita come una disciplina che cerca di
produrre degli ecosistemi artificiali o, meglio, di migliorare e rendere abitabili quelli esistenti.
Esistono molti ecosistemi che sono fin da ora abitabili e vi sono molte civiltà che li utilizzano. La stessa
immagine del giardino dell’Eden non è nient’altro che un ecosistema abitabile senza sforzo di
adattamento. Il paradiso si presenta infatti come un’immagine dell’abitazione umana perfetta. La
protezione climatica qui non è necessaria, e quindi nessuna costruzione, nessun lavoro per produrre
cibo, nessuna necessità di difesa. E’ un’immagine che continua ad avere successo, dai giardini
imperiali dell’Oriente al Club Méditerranée.
Ma il giardino dell’Eden è un’istituzione fragile: è sufficiente introdurvi un nuovo oggetto, una nuova
conoscenza, o usare in modo nuovo gli oggetti esistenti (per esempio la foglia di fico), e il processo di
deterioramento ha inizio. Ed è del tutto escluso prevedere un’espansione: nel giardino dell’Eden
l’esplosione demografica conduce solo all’espulsione. Il giardino dell’Eden è dunque un ecosistema
abitabile prima del peccato originale. In seguito all’intervento umano esso diventa un ecosistema
migliorato ma questo miglioramento è, allo stesso tempo, la prima tappa di un processo di
decadimento. Non si migliora un ecosistema (sul piano dell’«abitabilizzazione») senza pagare un
prezzo, quello dell’accelerazione del processo di distruzione di tale sistema […] Allora come si può
abitare un ecosistema senza distruggerlo? Come farlo a prezzo di uno sforzo minimo? Come può una
comunità raggiungere questo obiettivo? Qual è l’ecosistema che richiede l’intervento minore? […]
Abbiamo appena scoperto qui una delle leggi fondamentali dell’habitat umano e dell’architettura di
sopravvivenza: le soluzioni da considerare devono obbedire in primo luogo all leggi di comunicazione
tra umani, e solo in seguito a quelle della natura. L’autoconservazione della natura o il suo degrado
non sono altro che la risposta dell’ecosistema alle nostre azioni, le quali seguono le leggi
dell’organizzazione sociale. Il dialogo uomo-natura inizia dunque dall’uomo. Immaginiamo, per
esempio, un sistema di irrigazione la cui manutenzione richieda un’organizzazione sociale troppo
complessa, quindi impossibile da realizzare (a causa di certe regole sociologiche). Questo sistema,
privo di appropriata manutenzione, si deteriorerà e danneggerà l’ambiente (provocando, per esempio,
la salinificazione del suolo come in Mesopotamia). La natura è abitabile a condizione che si sappia
come abitarla e che si sia capaci di comportarsi secondo le sue esigenze.
[…]
La natura abitabile: un ecosistema migliorato
Quanto alla scelta dell’architettura classica, essa consiste nel trasformare il mondo per renderlo
favorevole all’uomo, mentre quella dell’architettura di sopravvivenza consiste nel cercare di limitare le
trasformazioni, conservando solo le più necessarie perché l’uomo sia in grado di sopravvivere in
condizioni sufficientemente favorevoli (queste trasformazioni permettono l’adattamento dell’uomo e
del suo ambiente a una «coesistenza pacifica»). In altre parole, l’architettura classica trasforma le
cose per adeguarle all’uso umano, mentre l’architettura di sopravvivenza prova a trasformare il modo
in cui l’uomo impiega le cose esistenti (il che potrebbe cambiare la mentalità e il comportamento
umano).
In questo contesto è interessante confrontare l’esempio di Robinson Crusoe con quello dei soldati
giapponesi che dopo la guerra sono sopravvissuti nella giungla. Robinson Crusoe è un colonizzatore
che trasforma la sua isola (piante, animali e prodotti vari) per renderla il più possibile simile al suo
paese d’origine: è vestito di pesanti pellicce (come si una in Inghilterra), mangia pane e per questo
coltiva il grano, lo macina per farne farina, anziché cibarsi dei prodotti commestibili naturali dell’isola.
Per conservare le sue abitudini e la consuetudine del suo comportamento – e questo a prezzo di gradi
sforzi – egli distrugge la sua isola. Robinson Crusoe è, senza saperlo, un architetto.
I soldati giapponesi che dopo la guerra sono stati nascosti nella giungla per decine di anni, non erano
degli eroi della letteratura. Essi cercavano solo di sopravvivere, senza per questo voler mantenere le
loro abitudini (a meno che le abitudini giapponesi possano essere salvaguardate senza violare
l’ambiente). Si sono nutriti della giungla, l’hanno abitata, hanno trasformato se stessi per potervi
vivere. Questi soldati giapponesi perduti erano, senza saperlo, degli architetti della sopravvivenza.
Tratto da Yona Friedman; L’architettura della sopravvivenza. Una filosofia della povertà;
Bollati Boringhieri; Torino 2009; pp. 12-14, 21-25, 62-64, 82-91
Renzo Piano
La responsabilità dell’architetto
Passigli
La responsabilità dell’architetto è il volume che raccoglie il racconto-intervista dell’architetto Renzo
Piano con il giornalista Renzo Cassigoli. Attraverso il tono colloquiale di quella che non è un’intervista
formale ma un’amichevole conversazione nella quale la domanda non è mai fine a se stessa e dalla
risposta scaturisce sempre un nuovo interrogativo, Piano commenta i suoi lavori avanzando riflessioni
più generali sulla sua professione, sul rapporto fra architettura e arte, sul peso della memoria, sulla
responsabilità dell’architetto. In particolare, riflettendo sul tema della tecnologia egli definisce
quest’ultima come uno «strumento» da utilizzare con discrezione e declinare localmente, mentre nel
capitolo dedicato al concetto di architettura sostenibile l’architetto si schiera apertamente contro l’idea
di crescita senza limiti e contro la fiducia incondizionata verso il tema del progresso scientifico e
tecnologico auspicandosi che quest’ultimo inizi ad essere interpretato in funzione di quello etico e
morale, provando così a colmare quello «spaventoso divario» fra i due – inarrestabile il primo e
inesistente il secondo – che si regista nella nostra modernità.
Tecnologia
Piano - […] L’architetto lavora con gli strumenti del suo tempo. E’ come l’autobus, se ti serve lo
prendi, se ti porta da un’altra parte da quella dove vuoi andare, non ci Sali. Non serve oscillare fra la
condanna e l’esaltazione della tecnologia. La tecnologia va utilizzata con discrezione, non va
ostentata. Questo è un mestiere in bilico fra tecnica e arte. Se lo separi, o cadi da una parte o cadi
dall’altra. Quindi, in bilico deve restare. A Punta Nave si incontrano artigianato ed alta tecnologia. E’
dannoso pensare che tecnica e arte appartengano a due universi separati. Poi, se uno è sciocco,
resta uno sciocco. E bisogna essere molto sciocchi per farsi fregare da un computer. Ma guardali nel
video questi stupidi attrezzi. Magari c’è qualcuno che in questo momento si sta sintonizzando con gli
uffici che abbiamo a Sidney, ma perché questo dovrebbe limitarmi nella mia fantasia? […]
L’architettura sostenibile
Cassigoli - In ‘Giornale di bordo’ tu hai scritto: «Se rispetto dell’ambiente significa mettersi le ciabatte
per camminare su un prato, allora non mi interessa». Poi hai spiegato: «E’ giusti invece parlare di
sostenibilità dell’architettura: significa capire la natura, rispettare la fauna e la flora. Collocare
correttamente edificio e impianti, sfruttare la luce e il vento». Ciò che colpisce in questa dichiarazione
è che, per quel che ne so, Renzo Piano è l’unico a parlare di ‘architettura sostenibile’ alla fine di un
secolo e di un millennio in cui si è costretti a fare i conti con la sostenibilità di uno sviluppo (che non è
infinito) in diretto rapporto con la salvezza del pianeta e delle specie che lo abitano.
E ciò che colpisce ancora di più è che tu non solo ne parli ma, sfidando l’Utopia a farsi luogo possibile
per l’uomo, metti in pratica il concetto con le opere realizzate in paesi e continenti diversi. In questo
senso, porti gli esempi dei due progetti realizzati nel Pacifico: il Centro culturale Kanak a Noumea in
Nuova Caledonia e la torre di Sidney, ma potremmo citare molte altre opere, dal museo della
fondazione Bayeler a Basilea, al Lingotto di Torino
Una scelta che implica rispetto non solo per l’ambiente, ma anche per la cultura che in esso si
esprime. Un rapporto intelligente con l’ambiente che, hai scritto, «come tutti i rapporti di intelligenza,
comporta anche un certo grado di tensione tra il costruito e la natura». Ma come si arriva a concepire
l’‘architettura sostenibile’?
Piano – Come si arriva? Una bella domanda. Io posso dirti che ci sono arrivato pian piano imparando.
Perché, come tu sai, nella vita non si smette mai di imparare. Io ho iniziato il mio mestiere giocando,
poi, come sempre avviene, piano piano sono cresciuto. E crescendo impari abbastanza rapidamente
che le parole ‘modernità’ e ‘progresso’ sono due trappole infernali e che nel loro nome continuano a
fregarti. Così come continuano a fregarti con un’altra parola che è stata fondamentale in questo Paese
e in Europa: la parola a cui mi riferisco è ‘crescita’, un’altra trappola, insomma.
Cassigoli – Ma la crescita non può essere in-finita. E’ questo che ti ha fatto pensare ad un’‘architettura
sostenibile’?
Piano - E’ questa idea di crescita senza limiti che ha fatto esplodere le nostre città ed ha fatto costruire
le peggiori periferie, fatte di mura ma senza le strutture nelle quali una società si organizza e vive.
Ecco come si arriva a riflettere su una ‘architettura sostenibile’. Nel secondo dopoguerra e fino agli
anni sessanta le città sono esplose rubando spazio alla campagna e ai comuni vicini dando vita ad
una sosta di conurbazione continua. Alla fine oggi, dopo aver tanto peccato, cominciamo a capire che
la crescita non può essere che sostenibile. E allora, per esempio, abbiamo cominciato a ragionare fin
dagli anni ottanta su come abbiamo costruito ed a riflettere sul fatto che, invece di farle esplodere,
queste città dovevamo cercare di farle implodere, dovevamo cercare di riassorbire i vuoti urbani
provocati dal processo di deindustrializzazione; dovevamo cercare di recuperare quei ‘buchi neri’,
provocati dalle aree industriali che si andavano liberando man mano che la città, crescendo, rendeva
necessario lo spostamento delle attività produttive.
Del resto, cos’era Potsdamer Platz se non il ‘buco nero’ di Berlino? Si trattava di affrontare un
processo complesso che portava ad occuparsi dei centri storici. Prendevamo coscienza, insomma,
della necessità di recuperare le aree rimaste intrappolate dalla crescita a dismisura delle città. Questo
vuol dire che, forse, la città comincia a rigenerarsi, comincia a rimarginare le sue ferite? Certo, ma i
tempi ahimè, sono lunghi e non è detto che l’esito sia scontato. Sarà necessario assecondare il
processo evitando di ripetere errori già commessi.
Fondamentale sarà la lezione delle città antiche. Che sono state capaci di estendersi e di adeguarsi,
sopravvivendo così nei secoli per giungere fino a noi. Bisognerà fare molta attenzione perché il nostro
secolo ha fatto degenerare la città: questa grande invenzione dell’uomo. Ne ha inquinati i valori
positivi, ha alterato la miscela delle funzioni che ne è alla base; la stessa socialità, che ne è il carattere
distintivo e poi, anche la qualità architettonica.
La qualità del costruito, eredità di un tempo che fu e che oggi sopravvive a stento, soffocata e
snaturata nei nostri centri urbani. Insomma, invece che continuare a farle esplodere, dovremmo
invece completare il tessuto della città. E questa è già un’idea più interessante ed accettabile del
concetto di una ‘crescita’ senza fine: l’idea della ‘crescita sostenibile’, attraverso la quale le periferie
possono trasformarsi in città. E’ questa la nostra vera, grande scommessa per i prossimi
cinquant’anni.
Cassigoli – Una completa inversione di rotta.
Piano – Ecco, un’inversione di rotta. Negli ultimi cinquant’anni, dalla fine della guerra in poi, abbiamo
fatto esplodere le città e abbiamo creato periferie invivibili, vediamo se nei prossimi cinquant’anni
potremo trasformare queste periferie in città.
Cassigoli – Ma come? Non basterà un impulso dall’alto, sarà necessaria una nuova stagione culturale
che agisca nel profondo della società, modificando radicate abitudini con l’iniezione di nuove
sensibilità. Quando parli di un lavoro di lunga lena è a questo che ti riferisci?
Piano – Bisogna riuscire a far sbarcare anche in periferia quella ricerca che tende a costruire una ‘città
felice’. Dov’è scritto che la città per essere vera, deve essere triste? La ‘città felice’ è un concetto da
far sbarcare anche nelle periferie trovando così la strada per uscire dall’inganno, dalla trappola
infernale in cui ci siamo cacciati facendo dei quartieri periferici, talvolta anche degnamente costruiti,
dei luoghi dove sia possibile vivere e non solo dei dormitori. Perché fino a quando saranno dormitori
non saranno città, ma luoghi nei quali più facilmente può annidarsi la delinquenza, rendendo tutto
sempre più difficile. Come vedi, questo concetto della ‘crescita’ è figlio del concetto di ‘progresso’;
figlio, a sua volta, della ‘modernità’.Tutti grandi temi sui quali ci hanno fregato. Ma ti rendi conto che
siamo all’anno Duemila? Come ci faceva sognare il Duemila, quando eravamo ragazzi! Ti ricordi? La
fantasia non aveva freni. Caro, Cassigoli, ci hanno fregato! Te lo do io il Duemila. Altro che, se ci
hanno fregato. Hanno tolto il tram dalle città per darci gli autobus, che erano più moderni, dicevano. Ti
ricordi? Sembra un secolo fa e sono passati solo pochi anni. Altro che la modernità dell’autobus. Il
tram non inquina, è economico, è razionale ai fini del traffico, non ha bisogno di corsie preferenziali,
perché ha le rotaie, è affidabile. E’ un mezzo di trasporto più moderno dell’autobus, anche se ha
cent’anni. Ma cos’è veramente moderno? Ce lo siamo mai chiesti? Facciamo spesso l’errore di
pensare solo in termini di attualità e così essere moderni è come cambiare un vestito, seguire la
moda. Che grande malinteso. Come se dovessimo considerare il cemento armato più moderno del
legno o dei mattoni solo perché esistono i pannelli prefabbricati in cemento che, come sappiamo,
rendono l’ambiente più rigido rispetto alle funzioni. Occorre guardarsi da queste trappole. E’ successo
tutto così in fretta, che non abbiamo pensato che la modernità vera può risiedere nel materiale, nella
tecnica costruttiva, nell’idea più antica. Siamo cascati nella trappola della ‘modernità’ e ci siamo fregati
da soli. Ci siamo autosuggestionati, non è così?
Cassigoli - Il grande tema del progresso. Anders ne ‘L’uomo antiquato’ osserva: «Cambiare il mondo
non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la
nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente per cambiare il
cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi un
mondo senza di noi».
Se per cambiamento possiamo intendere progresso, possiamo dire, quindi, che anche il progresso va
interpretato.
Piano - Per cercare di interpretare, o meglio, di capire il tema del ‘progresso’, basta riflettere un attimo
su una cosa molto, ma molto semplice: l’etica. Basta chiedersi: sì, c’è stato un grande progresso
tecnico e scientifico in questo secolo che ci sta lasciando, ma è stato altrettanto il progresso etico e
morale? Purtroppo la risposta è «no»! Lo scarto è proprio questo. Quella è la terribile differenza che
corre tra progresso scientifico e tecnico e consapevolezza etica e morale. Ma tu pensa che disastro.
Rifletti su questo grande tema, così caro al vecchio Bobbio (a cui facciamo tanti, tantissimi auguri).
Ecco il grande tema per i prossimi anni: cominciare a colmare lo spaventoso divario che si registra
nella nostra crescita, nella nostra modernità. Il divario tra un progresso scientifico e tecnologico (che
indubbiamente c’è stato) e un progresso etico inesistente.
Casigoli - «Il fine giustifica i mezzi» scrive Bobbio ne ‘L’elogio della mitezza’. E poi si chiede: «Ma chi
giustifica il fine? Forse che il fine a sua volta non deve essere giustificato?». Il grande filosofo, a
questo punto, aggiunge una lunga, pressante serie di interrogativi: «Ogni fine che si proponga è un
fine buono?». «Non deve esservi un criterio ulteriore che permetta di distinguere i fini buoni dai fini
cattivi? E non ci si deve domandare se i mezzi cattivi non corrompano per avventura anche i fini
buobi?». Insomma, incalza ancora Bobbio: quella che conta «è l’etica dei risultati e non dei principi?
Ma di tutti i risultati? E se si vuole distinguere risultato da risultato non occorre ancora una volta risalire
ai principi». Ecco, proprio gli interrogativi di Bobbio ripropongono il nodo che tu poni alla riflessione a
proposito del rapporto tra il progresso e l’etica. Le regole, quindi, non per la scienza, ma per la
tecnologia e i suoi usi.
Piano – Un concetto chiarissimo in Bobbio. Basta pensare a quel che è accaduto a Timor qualche
mese fa e a quel che sta accadendo ancora in giro per il mondo e, prima ancora, nel Kosovo e a
Sarajevo, o a quel che è accaduto e continua ad accadere in Africa o in America Latina: le guerre
etniche e tribali (magari per conquistare terre povere e altre terre ricche di petrolio o di diamanti); la
fame che uccide centinaia di migliaia di bambini. Tu, adesso, mi provochi su questo grande tema
dell’architettura sostenibile. Ma come si può non essere sensibili ad una critica nei confronti del
grande tema del progresso, della fiducia ottimista e incondizionata verso il tema del progresso, della
crescita e della modernità? Come si fa a viverla in maniera così spensierata e irresponsabile visto che
poi, in ogni momento, scopri che di fronte a quella finta crescita (perché è stata finta!) tutto è rimesso
in discussione? Ed è rimesso in discussione perché non siamo cresciuti, ma siamo semplicemente
‘esplosi’. Le città sono esplose ed abbiamo fatto dei disastri spaventosi. Nulla è successo di quello
che pensavamo accadesse quand’eravamo ragazzini negli anni quaranta e cinquanta. Gli anni
Duemila: «T’el chi il Duemila»! Ci hanno fregato. E, allora, a questo punto ti giro la domanda: come
potresti essere se non così? Come potresti essere diverso da quello che sei di fronte a ciò che accade
nelle città e nel mondo?
Tratto da Renzo Piano; La responsabilità dell’architetto. Conversazione con Renzo Cassigoli;
Passigli Editori; Firenze 2004; pp. 24-29, 34-43
Democratizzazione
Renzo Piano
Giornale di bordo. Otranto 1978.
Passigli, Firenze, 1997
Nella presentazione dei suoi lavori nel Giornale di bordo Piano definisce l’architettura come un’arte
socialmente pericolosa, perché imposta a tutti, che deve quindi essere pensata come un mestiere di
«servizio», di artigiani che lavorano non come artisti e demiurghi ma per la gente. In questo senso, il
compito del progettista diventa quello di avviare un processo rivolto alla definizione di «cantieri infiniti» e opere «im-perfette», capaci di dare sostanza all’idea di architettura come arte contaminata. Ad
Otranto, per esempio, l’architetto avvia, con il patrocinio dell’Unesco, un programma di riabilitazione
dei centri storici pensando ad un progetto di democratizzazione dei processi decisionali come mezzo
attraverso il quale far rinascere l’orgoglio di vivere nella città antica. Piano, in questo caso, va alla
ricerca di un rapporto diretto con i «fatti della vita», dedicandosi all’«arte dell’ascolto» secondo una
prospettiva nella quale la conoscenza della «storia clinica» e non solo dei sintomi di un luogo
diventano centrali, trasformando la figura del progettista in quella di un «architetto condotto» aperto
alla collaborazione sia con i cittadini che con tutti i professionisti raccolti intorno al progetto.
Una professione in crisi
Ho sempre parlato di un temuto tramonto della professione di architetto. Ho detto che quello
dell’architetto è un ruolo in via di sparizione, come il lampionaio o il rabdomante. E’ una provocazione,
naturalmente: l’architettura è sempre necessaria, ora più che mai.
L’incompetenza, l’irresponsabilità, la presunzione, il poco amore per il mestiere, sono queste le cose
che sminuiscono e vanificano il nostro lavoro.
Credo che a questa professione vada data una nuova dignità. Per fare questo, occorre tornare alle
origini.
In primo luogo, chi è l’architetto? L’architettura è un servizio: questa è una lezione di sobrietà che
dovremmo tenere a mente tutte le volte che la nostra disciplina si perde nei meandri delle mode, degli
stili, delle tendenze. Non è moralismo, forse è solo senso del pudore, un modo di restituire alle cose
la loro giusta dimensione.
In secondo luogo, l’architetto è chi sa fare le cose per la gente. Conosce i materiali e le strutture,
studia la direzione del vento e l’altezza delle maree. Governa il suo processo produttivo e gli strumenti
con cui è chiamato a lavorare – in altre parole, sa perché e come si costruiscono le case, i ponti, le
città.
In ogni crisi c’è una forma di autocompiacimento. Alcuni architetti si crogiolano nella loro inutilità
sociale, vera o presunta. E’ un classico atteggiamento auto razzista. In questo modo diviene un
pretesto per rifugiarsi nella pura forma, talvolta nella pura tecnologia. Rifiutano la loro dimensione di
artigiani per promuoversi artisti, e così scivolano rapidamente nell’accademia. Lo so, non si può
generalizzare, e difatti non generalizzo.
[…]
L’impegno dell’architetto
L’architettura è un’arte socialmente pericolosa, perché è un’arte imposta. Un brutto libro si può non
leggere; una brutta musica si può non ascoltare; ma il brutto condominio che abbiamo di fronte a casa
lo vediamo per forza. L’architettura impone un’immersione totale nella bruttezza, non dà scelta
all’utente. E questa è una responsabilità grave, anche nei confronti delle generazioni future. Non è
un’osservazione mia, ma ci serve per una riflessione più allargata.
Qual è allora l’impegno dell’architetto? Dice Neruda che quando uno fa il poeta, quello che ha da dire
lo dice in poesia, non ha un altro modo di spiegarlo. Io, architetto, la morale non la predico: la disegno
e la costruisco. Cercando di mantenere il senso profondo del nostro mestiere, l’architettura come
servizio, come progetto di convivenza.
Anche in questa progettualità l’architetto può diventare pericoloso. La sua utopia, diversamente da
altre utopie, è destinata, è condannata a materializzarsi. La visione del mondo dell’architetto diventa
mondo.
Allora può credersi un demiurgo, può credersi investito dal compito di inventare il futuro; o può
accettare, più modestamente, il fatto di aver avviato un processo.
Io credo che la nostra opera sia sempre un oggetto non finito, perché è nella natura delle relazioni
umane (quindi anche delle città) essere un processo in continua evoluzione. L’architetto fa partire
qualcosa; ma il futuro, naturalmente, gli sfugge. A maggior ragione, saldo deve essere il punto di
inizio, perché nel determinarlo l’architetto afferma i suoi valori e la sua moralità.
Otranto. Laboratorio di quartiere
In un certo senso, Beaubourg è il lavoro che un architetto sogna a trentacinque anni: grande,
prestigioso, visibile. Però dopo Beaubourg ci fu un momento di vero affaticamento.
L’esperienza era durata sei anni, una full immersion in un lavoro e in una città: nonostante l’enorme
successo di questo edificio, essa ci segnò fortemente, anche nel senso che diede, a Richard e me,
l’esperienza forte di un lavoro di équipe. Faccio questa premessa per dire che ci fu una specie di
reazione, subito dopo. I rapporti con Pontus Hulten, con Pierre Boulez, con Luciano Berio mi avevano
fatto scoprire dimensioni e discipline che non avevo incontrato né durante la mia formazione
universitaria, né durante la mia vita professionale precedente. Essa era stata una grande lezione sul
piano umano, che mi aveva dato stimoli e curiosità nuove. Avevo scoperto le enormi possibilità aperte
dal conoscere le esperienze degli altri.
Ancora: Beaubourg era stata la fabbrica di una cattedrale, a diretto contatto con la Cultura e la
Politica, iniziali maiuscole. A quel punto avevo voglia di tornare ad un rapporto più diretto con i fatti
della vita, voglia di riimmergermi nella realtà di un cantiere meno gigantesco.
Non so se fosse una forte nostalgia del mio passato genovese, ma (paradossalmente) un aspetto che
mi era mancato durante i sei anni passati a Parigi era il rapporto con la città antica. Così quando Wolf
Tochtermann dell’Unesco ci profilò la possibilità di sviluppare un intervento ad Otranto, mi sembrò
esattamente la cosa giusta da fare. Mi riportava infatti a lavorare su un tema a me caro: l’attualità dei
centri storici.
Se tu ti guardi in giro e ti chiedi: «Quali sono oggi i grandi temi per un architetto?», almeno in Europa
non ci sono dubbi: il recupero degli edifici storici, la riqualificazione delle aree degradate, la qualità
dell’ambiente domestico. E questi erano i problemi che affrontammo nell’esperienza di Otranto.
Fu un’avventura modesta per dimensioni e durata, ma estremamente interessante.
A Otranto sviluppammo un laboratorio di quartiere che si basava sulla collaborazione totale degli
abitanti. Insieme si faceva il progetto; insieme si sceglievano, si mettevano a punto, qualche volta si
sperimentavano gli strumenti di intervento; insieme si attuava anche il cantiere. Si operava sul
territorio come un buon medico condotto opera sulla salute: con un approccio globale, basato sulla
conoscenza della storia clinica e non solo dei sintomi. Avevamo creato in un certo senso la figura
dell’‘architetto condotto’.
La nostra metodologia di approccio prevedeva di ridurre al minimo gli sconquassi e di lavorare nel
quartiere senza impedire agli abitanti di viverci.
Usando tecniche diagnostiche non distruttive (in qualche caso prese a prestito dalla medicina)
realizzammo un cantiere che, invece di spaccare tutto, cercava di capire quando un intervento era
davvero necessario. Il ragionamento era: se il muro non è pericolante, perché buttarlo giù? Sembra
una banalità, ma andava contro tutta la prassi precedentemente seguita nel recupero dei centri storici.
Complice un’osservazione fatta in proposito dal filosofo Gianni Vattimo, che in un articolo definì la
nostra esperienza di Otranto un ‘cantiere debole’, cioè un cantiere dal tocco ‘leggero’.
Questo esperimento ebbe una eco interessante che andava al di là della sua portata materiale: ciò
avvenne anche grazie ad alcune collaborazioni di altissimo livello. L’impresa che gestiva i lavori era
quella di Gianfranco Dioguardi; il giornalista Mario Fazio ci aiutò a impostare la metodologia del
processo partecipativo; il regista Giulio Macchi curò la raccolta dei resoconti di storia orale; il fotografo
Gianni Berengo Gardin si occupò di documentare le varie fasi del progetto e Magda Arduino, la mia
prima moglie, predispose i testi per i films.
L’intervento si divideva in quatto fasi, cui corrispondevano altrettanti settori: la diagnostica, la
progettazione, il laboratorio operativo, la memorizzazione. Tutte le attività coinvolgevano gli abitanti
del quartiere.
Nel laboratorio entravano in gioco con forza gli aspetti della partecipazione e della comunicazione. Per
noi fu una immersione in quella che chiamo ‘l’arte dell’ascolto’.
Recentemente il sindaco di Napoli Bassolino mi ha fatto un’osservazione molto sottile: in questi casi il
processo partecipativo serve soprattutto a far rinascere l’orgoglio di vivere nella città antica. In questo
senso, di Otranto, ricordo momenti molto belli.
Alcuni nostri esperimenti erano diventati un’attrazione: come la macchina fotografica per i rilievi
aerofotometrici, che avevamo appeso a un pallone pieno di elio.
Tutte le volte che lanciavamo questa piccola mongolfiera e la riportavamo sulla piazza, era una festa.
E poi, naturalmente, le assemblee con la popolazione: centinaia di persone attente e interessate,
riunite la sera intorno alla nostra tenda a parlare di storia, di materiali, di architettura.
Tratto da Renzo Piano; Roberto Brignolo (a cura di); Giornale di bordo;
Passigli; Firenze 1997; pp. ????
Alejandro Aravena
Elemental
Electa, 2007
Alejandro Aravena. Progettare e costruire è la prima monografia che presenta il pensiero e i lavori
dell’architetto cileno e dell’Elemental Team, il laboratorio progettuale che Aravena ha fondato, insieme
all’ingegnere Andrès Iacobelli e all’architetto Pablo Allard, con l’obiettivo di progettare e realizzare
interventi di edilizia sociale pubblica. L’introduzione al testo e le relazioni progettuali presentate
mettono in evidenza un approccio basato sulla volontà di definire architetture «irriducibili» fondate sul
principio del fare «mas con lo mismo» e capaci di pensare alla popolazione come ad una risorsa. Il
sistema della costruzione aperta ideato dallo studio si spinge infatti oltre il tema dell’autocostruzione,
proponendosi come elemento infrastrutturale capace di riconoscere valori, fissare connessioni fra gli
attori e ordinare bisogni e aspettative talvolta anche contrastanti. Secondo un’idea di
democratizzazione fortemente incentrata sulla leva del sociale e sulla consapevolezza che il
progresso reale di ciascun gruppo dipende prima di tutto dalla capacità di ogni progettista di leggere le
informazioni indispensabili per supportane le dinamiche interne sin dall’inizio del lavoro progettuale.
Dell’irriducibilità
Quando pensavo che una sedia non potesse essere meno di questo [rappresentazione elementare di
una sedia]…Ho visto questo [rappresentazione di un indiano seduto a terra su un pezzo di pelle]…
Tre cose si possono dire sulla sedia che avvolge questo indiano della tribù Ayoreo.
Primo: quest’uomo non si può permettere altra sedia che questo modesto pezzo di stoffa.
E’importante saper progettare con scarsità di mezzi.
Secondo: quest’uomo è un nomade; quindi, anche se potesse permettersela, nessun altro tipo di
stoffa avrebbe senso per lui. Il progetto deve anche essere preciso.
Terzo: il pezzo di stoffa è il limite ultimo prima che il nome (sedia) diventi puro verbo (sedersi). Il
progetto deve aspirare all’irriducibilità.
Mi impegno perché il mio approccio al progetto risponda alla seguente equazione: il pezzo di stoffa sta
alla sedia come X sta all’architettura. Cerco sempre di conferire a X un valore che sia il più possibile
irriducibile.
Lo specchio e il mantello
Faccio sempre del mio meglio per ottenere che i miei lavori possiedano la doppia valenza di specchio
e mantello.
Da un lato, l’opera di architettura dovrebbe essere un oggetto capace di resistere ad uno sguardo
attento, capace, se interrogata in qualità di oggetto artistico, di rispondere coerentemente fino al punto
di riuscire a riflettere un momento nel tempo, il livello di sviluppo di una cultura, di una società o di un
sistema di valori.
Dall’altro, l’opera architettonico dovrebbe comportarsi come un luogo, riuscire a scomparire nella coda
dell’occhio, a dissolversi in silenzio, lasciandoci fare senza problemi ciò che facciamo normalmente:
lavorare, riposare, studiare, dormire, cucinare, mangiare, insomma vivere.
Come una finestra: da un lato, essa dovrebbe essere vista e giudicata come un elemento costruttivo,
come un vocabolo di un linguaggio architettonico, e dovrebbe riuscire a corrispondere a quel tipo di
disamina; ma, da un altro lato, il suo fine ultimo è scomparire e lasciare che lo sguardo e l’aria
l’attraversino, consentendoci di concentrarci su tutto ciò che non è la finestra […]
Elemental
I tre complessi residenziali illustrati nelle pagine seguenti – Iaquine, Renca e Lo Espejo – fanno parte
del programma Elemental, un ‘Do Tank’, associato alla Pontificia Università Cattolica del Cile e a
Copec (la Compagnia Petrolifera Cilena), la cui finalità è progettare e realizzare interventi urbani di
edilizia sociale pubblica. Per innescare un significativo innalzamento della nqualità degli alloggi,
Elemental opera all’interno delle condizioni di mercato. Negli ultimi decenni il Cile ha sviluppato una
politica abitativa efficiente e apprezzata, che ha permesso di ridurre sistematicamente la carenza di
case nel paese. In termini generali, si tratta di una politica basata sulla domanda, che vede l’industria
edilizia privata (non lo Stato) costruire quartieri residenziali destinati alla proprietà, in cui gli alloggi non
sono affittati ma ceduti dallo Stato ai beneficiari. Questo modello ha portato, nel decennio trascorso,
alla realizzazione, sull’intero territorio nazionale, di un milione di abitazioni popolari ad un costo medio
di 12.000 dollari per unità, per un investimento totale di 12 miliardi di dollari: un risultato che si può
definire straordinario per un paese con 15 milioni di abitanti e circa 5 milioni di famiglie.
In tale contesto si è deciso di operare nell’ambito del nuovo programma VSDsD – Vivienda Social
Dinamica sin Deuda, varato dal Ministero per la Casa e l’Urbanistica nel marzo 2001 e rivolto
specificatamente alle fasce maggiormente disagiate della popolazione, vale a dire a quei soggetti che
non hanno la possibilità di rimborsare un mutuo.
Il programma prevede una sovvenzione fiscale di 9700 dollari, che, sommata a una certa quota di
risparmi familiari quantificata in 300 dollari, deve coprire i costi sia dell’acquisto del terreno sia delle
infrastrutture e del progetto. Considerando i valori attuali del mercato immobiliare cileno, 10.000 dollari
sono sufficienti a realizzare appena una trentina di metri quadri. Ciò significa che gli assegnatari, pur
non dovendo pagare nulla, sono però costretti a costruire per proprio conto e rapidamente ciò che
serve a trasformare la soluzione abitativa iniziale in un vero alloggio 8di qui il nome del programma).
Coordinate progettuali. Il mercato dell’abitazione sociale è più simile a quello delle automobili che non
a quello delle case. Se, quando si acquista un’abitazione o si investe nel settore immobiliare, ci sia
attende che il capitale iniziale si incrementi nel tempo, nel caso dell’edilizia popolare, invece, accade
esattamente il contrario: ogni giorno che passa, il valore di una percentuale intollerabilmente alta di
unità realizzate attraverso questa politica diminuisce, proprio come accade per le automobili. Nel
programma Elemental è stata indicata una serie di requisiti progettuali che possono consentire agli
alloggi popolari di acquistare valore con l’andare del tempo, diventando quindi, per le famiglie
beneficiarie e per il governo, un investimento proficuo invece del costo sociale che rappresentano
attualmente.
Localizzazione. Il fattore che una famiglia non potrà mai cambiare, per quanto denaro, tempo o
energia profonda, è la localizzazione della casa, che è anche il dato più influente nella determinazione
del valore della proprietà. A fronte di costi per la costruzione e le infrastrutture più o meno oggettivi,
l’unico bene sul quale il mercato cerca di ricavare profitto è il terreno. Ecco perché l’edilizia popolare
tende a individuare aree che costino il meno possibile, in genere distanti dalle opportunità di lavoro e
dai servizi (scuola, mezzi di trasporto, strutture sanitarie) offerti dalle città. Questa dinamica
speculativa ha sempre indotto a situare gli interventi di edilizia popolare in uno ‘sprawl’ periferico
impoverito, creando cinture di risentimento, conflitto sociale e ingiustizia. In tutti e tre i progetti qui
documentati si è cercato di acquistare aree convenientemente integrate nei rispettivi contesti urbani.
Per sopperire alla spesa ragguardevole derivante dall’acquito di lotti posizionati strategicamente si è
dovuto ricorrere a una densità isediativa che permettesse di ripartire tale onere tra il maggior numero
possibile di famiglie. La progettazione ha svolto un ruolo chiave nell’evitare che l’alta densità si
traducesse in sovraffollamento.
Spazio comunitario. In secondo luogo, si è valutato che la disponibilità di uno spazio fisico nel quale si
potessero instaurare relazioni di solidarietà e collaborazione del tipo ‘famiglia allargata’ avrebbe
costituito una risorsa essenziale nel migliorare il bilancio economico dei nuclei familiari più poveri. Tra
spazio pubblico e privato, è stato pertanto introdotto uno spazio collettivo concepito per circa venti
famiglie: si tratta di una proprietà comune, con accesso limitato, pensata per promuovere livelli
intermedi di associazione che consentono di sopravvivere in condizioni sociali precarie.
Autocostruzione. In terzo luogo, poiché si prevedeva di realizzare il 50% del volume di ogni unità
abitativa in una seconda fase, ricorrendo all’autocostruzione, occorreva predisporre un tessuto edilizio
sufficientemente poroso da consentire ad ogni alloggio di ampliarsi entro i propri confini. La struttura di
base fornisce dunque un supporto non vincolante, capace di evitare gli eventuali effetti negativi che
l’autocostruzione può indurre nel tempo sull’ambiente urbano, ma anche di agevolare il processo di
espansione.
Taglio degli alloggi. Infine, si è deciso di studiare i 30 metri quadri consentiti dal budget, non come una
casa minima, ma come il nucleo di partenza di un’abitazione di taglio medio. Questo ha significato
progettare cucine, bagni, scale, muri divisori e tutte le componenti più complesse della casa pensando
allo scenario finale di un alloggio di 72 metri quadri. In definitiva, se i fondi assegnati bastano solo per
metà della casa, il problema sostanziale è da quale metà partire. Si è scelto di partire dalla metà che
una famiglia non è di solito in grado di costruire da sola.
Grazie a tutte le caratteristiche elencate, i tre progetti eleborati intendono offrire un contributo,
utilizzando gli strumenti dell’architettura, alla soluzione di problemi non architettonici: nello specifico,
alla sconfitta della povertà.
Quartiere di abitazione Elemental Quinta Monroy
Nel 2003, il programma governativo Chile-Barrio ha chiesto a Elemental di sviluppare un progetto per
Quinta Monroy, l’ultimo insediamento irregolare della città di Iaquine, situata nel deserto cileno. Si
trattave di studiare una soluzione abitativa per ospitare le 100 famiglie che da trent’anni occupavano
abusivamente un’area di mezzo ettaro nel pieno centro della città, utilizzando un sussidio di 10.000
dollari per famiglia, destinato a coprire i costi di terreno, infrastrutture e progettazione. Sebbene vi
fossero condizioni ambientali e di vita pessime (il 60% delle baracche era privo di illuminazione e
ventilazione dirette e vi erano notevoli problemi di delinquenza e spaccio di stupefacenti favorito dalla
struttura labirintica dell’insediamento), la priorità assoluta del progetto è stata permettere a quelle
persone di restare sul posto. Tale volontà nasceva dalla conoscenza dell’importanza rivestita dalla
rete di opportunità costruite in trent’anni intorno al sito e rappresentate da trasporti, lavoro, educazione
pubblica e strutture sanitari e migliori rispetto a quelle di altri quartieri popolari situati in periferia. Del
resto, tale vicinanza ai servizi urbani e alle occasioni di impiego si rifletteva in un costo del terreno tre
volte superiore a quanto normalmente i programmi di edilizia sociale possono pagare.
Nell’affrontare il progetto, il primo passo è stato ribaltare il problema e non pensare al miglior prototipo
abitativo realizzabile con 10.000 dollari, da moltiplicare poi per 100 volte, ma piuttosto al miglior
edificio costruibile con 1 milione di dollari, da suddividere fra 100 famiglie, offrendo a ciascuna la
possibilità di un’eventuale espansione futura del proprio alloggio. Gli edifici, però, di solito precludono
gli ampliamenti, salvo che al piano terra e all’ultimo. Per questa ragione si è deciso di sviluppare una
struttura composta solo da un piano terra e ultimo: in altre parole, una casa su ciascun lotto con sopra
un’unità duplex. Si è definita tale configurazione ‘edificio parallelo’. In questo modo, collocando due
famiglie per lotto, si è raddoppiato l’indice di sfruttamento del terreno ancora prima di iniziare il
progetto. In sintesi, la proposta di Elemental per la Quinta Monroy è consistita nella ripartizione del
terreno in lotti 9x9, sui quali sono stati costruiti volumi di 6x6x2,5 metri, contenenti bagno, cucina e un
locale loft. Sopra a questi, appoggiati ad una soletta di cemento definita ‘parete divisoria orizzontale’,
sono stati disposti alloggi duplex di 6x6x5 metri, realizzando, nella fase iniziale, solo metà del volume
(3x6x5 metri), comprendente anch’esso cucina, bagno e ambiente loft a doppia altezza. Tutte le unità
hanno accesso individuale diretto allo spazio comune. In termini costruttivi, il duplex è stato pensato
come una struttura a ‘C’ di sette pieni: il muro divisorio verticale per tutta la sua altezza ed entrambe le
facciate. Ciò dovrebbe garantire il necessario isolamento acustico e creare una barriera antincendio
tra le proprietà, ma anche rappresentare un supporto sufficientemente solido per le previste
espansioni spontanee e recinzioni ‘low-tech’ larghe 3 metri. Il quarto lato del duplex è in lamiera
ondulata: una parete non rigida, quindi, che può essere facilmente asportata in caso di ampliamenti e
servire anche come rivestimento per coprire il vuoto tra i moduli residenziali. La prima fase di
incremento dell’alloggio dovrebbe, tuttavia, avvenire suddividendo la doppia altezza interna e perciò è
stata definita ‘impansione’.
L’ampliamento della casa al piano terra dovrebbe invece svolgersi inizialmente sotto la soletta,
raggiungendo facilmente i 54 metri quadri, e utilizzare poi la corte retrostante – conservando un vuoto
centrale che continuerebbe a fungere da cortile – per arrivare a un’estensione massima di 72 metri
quadri così organizzati: 4 camere da letto 3x3 metri con zona giorno da 3x6 metri più cucina e bagno.
Alla scala urbana, il fattore chiave per migliorare le condizioni economiche dei nuclei famigliari
disagiati è stato identificato nella creazione di uno spazio fisico nel quale possano svilupparsi forme di
cooperazione e solidarietà da ‘famiglia allargata’. Gli stessi utenti hanno chiesto di essere distribuiti
attorno a 4 piazze collettive con accesso controllato, studiate per 20 famiglie circa ciascuna.
Tratto da Alejandro Aravena; Alejandro Aravena. Progettare e costruire;
Electa; Milano 2007.
Giancarlo Mazzanti
L’architettura nella trasformazione sociale di Medellin
Lotus International, 2011
Negli ultimi anni la città di Meddelín ha cambiato la sua fisionomia e la sua immagine attraverso
politiche sociali ed economiche e con la realizzazione di molti progetti pubblici che, coinvolgendo gli
interessati nel processo progettuale e costruttivo e sensibilizzando la comunità in un processo
culturale emancipativo, hanno contribuito al programma politico sperimentando approcci economici ed
innovativi nei quali il contatto diretto con i referenti è elemento centrale. Giancarlo Mazzanti, ideatore
del metodo progettuale sperimentato a Medellín, in particolare esprime l’intento di migliorare le
condizioni di vita degli abitanti di alcune aree difficili del suo paese attraverso la costruzione di servizi
e infrastrutture che lavorano, oltre che sulle funzioni, anche sulla percezione del cambiamento da
parte della comunità. L’idea è quella di sviluppare processi progettuali democratizzati capaci di
generare «inclusione sociale» attraverso architetture «attuanti», capaci di stimolare nuovi
comportamenti e nuovi rapporti tra gli abitanti. «Architetture pregnanti» derivate non solo dalla
descrizione scientifica della cultura e della società studiate dall’architetto, ma da una negoziazione di
significati in grado di favorire la partecipazione e migliorare la qualità della vita.
La città di Medellín è oggi un modello di trasformazione sociale in cui l’architettura svolge un ruolo
fondamentale come parte di un più ampio progetto politico intrapreso dalle ultime amministrazioni. Un
progetto che si è dato come obiettivo quello di diminuire le disuguaglianze sociali dando forma allo
slogan “Medellín è la più educata” e riconoscendo così all’educazione il ruolo di pilastro della
trasformazione sociale.
Il progetto intende ridare agli abitanti la dignità persa nella guerra del narcotraffico, negli anni 80 e 90,
avviando un percorso finalizzato alla conversione di Medellín in una delle città più ugualitarie,
socialmente e culturalmente inclusiva, e rispettosa delle sue tradizioni nonostante la ricostruzione
guardi al futuro. L’architettura dunque riassume e riflette questo nuovo programma. Questo progetto
politico-sociale, culturale e urbanistico, ha permesso che la moda, l’arte culinaria, la musica, la grafica,
l’arte e anche l’architettura si siano convertite alla rappresentazione di una cultura urbana aperta,
trasformata da queste nuove forme del pensiero e dell’azione politica. In questi ultimi sette anni
Medellín ha cambiato la sua fisionomia e il giudizio che su di lei esprimono i suoi abitanti. Sono stati
realizzati molti progetti: cinque parchi-biblioteche concepiti come i luoghi di trasformazione della
società e della città, liberi e gratuiti; più di venti nuove scuole, asili nido, centri di sviluppo tecnologico,
zone pedonali, piazze e parchi. In questi spazi si accederà al sapere, all’educazione, alla cultura e a
nuovi modi di tempo libero, all’impresa e allo sport. Questi progetti si strutturano come PUI, unità di
azione urbanistica, in grado di proporre un intervento integrale che comprende aspetti istituzionali,
fisici e sociali, avendo come caratteristica comune la partecipazione nelle decisioni delle comunità
coinvolte.
Come architetti la sfida è di sviluppare progetti che siano capaci di generare inclusione sociale: il
problema non risiede, infatti, unicamente nel costruire edifici in zone degradate, ma in come lo si fa
affinché questi ultimi siano capaci di attivare nuove forme di uso, di senso di appartenenza e di
orgoglio da parte della comunità.
Il valore dell’architettura non si fonda soltanto su se stessa ma su chi la produce. Per poter meglio
definire questi temi è necessario spingere il nostro sguardo oltre la stessa architettura: se allarghiamo
il nostro sguardo, possiamo trovare nuovi modi di operare, più resistenti e meglio dotati per rispondere
alle condizioni attuali.
Ogni giorno si fa sempre più necessario capire che la pratica dell’architettura si costruisce attraverso
diversi sguardi e che non nasce dal mestiere in modo autonomo; siamo obbligati a conoscere e
lavorare con altre forme di pensiero e di organizzare il mondo. Le tradizionali forme di progettazione
ogni giorno diventano meno efficaci per capire le realtà complesse ed è per questo che si è reso
necessario il trasferimento di conoscenze da altre professioni nonostante siano diverse, poiché esiste
una buona probabilità che esse ci permettano di trovare modi più efficienti e logici di operare sulla
realtà e che ci portino a realizzare architetture più ‘attuanti’ (definite da ciò che fanno e non dalla loro
essenza).
Dopo una serie di interventi, siamo anche in grado di definire alcune strategie che abbiamo seguito
nella costruzione di queste architetture nelle zone più degradate e che possano essere utilizzate in
molteplici forme dai loro abitanti, cosicché queste opere possono soprattutto convertirsi in un
elemento di trasformazione e di accrescimento del senso di appartenenza per le comunità dove esse
vengono inserite.
L’architettura in azione. Cerchiamo di sviluppare le capacità performative delle architetture che
realizziamo, più che le capacità rappresentative o le qualità visive. E’ per questo che ci interessa
un’architettura che possa essere definita da ciò che fa e non dalla sua forma («L’architettura non è
fine a se stessa» Cedric Price).
Ci interessa indurre, azioni, effetti, successi, ambienti. Tutto ciò ci permette di sviluppare forme,
modelli e organizzazioni materiali che agiscono in modo diretto sulla materia e sullo spazio, come
strumenti che inducono la costruzione di azioni sociali tra gli utenti. Ci interessa un’architettura capace
di introdurre nuovi comportamenti e nuovi rapporti tra gli abitanti di queste zone abbandonate e
degradate.
Architettura aperta. Questo interesse ci porta a ricercare architetture aperte capaci di essere
mutevoli e adattabili alle nuove sfide sociali e culturali. Ci interessano i sistemi di organizzazione
composti da parti o moduli come meccanismi di organizzazione intelligenti che non siano né chiusi né
finiti, e la loro capacità adattiva che consente loro di crescere o adeguarsi alle più variegate situazioni.
Allo stesso tempo questo aspetto ci permette di sviluppare diversi modelli basati su identiche regole di
organizzazione replicabili in luoghi diversi della città rendendo più economici e sostenibili i progetti.
Moltiplicare l’uso. L’indeterminazione come strategia progettuale ci permette di pensare che
l’architettura che facciamo sia capace di moltiplicare gli usi cui è inizialmente destinata (non come
efficacia ma come propiziatrice di nuovi rapporti). Il modo di disporre e configurare gli edifici permette
di lasciare luoghi non definiti funzionalmente, questo fa sì che le comunità possano appropriarsi e
moltiplicare l’uso iniziale. Quando ci chiedono di progettare un asilo nido pensiamo quale altra
destinazione d’uso potrebbero avere parti del programma, ed è così che un asilo nido si trasforma in
una sala da pranzo comunale per servire cene ai più disagiati del settore, o in una piazza per
kermesse, in una scena di un teatro ecc. Questo si raggiunge sempre se si lasciano parti non definite
e ci siano aree disposte ad aprirsi alla città senza che interferiscano con l’uso iniziale proposto.
Un’architettura pregnante. Con questo cerchiamo di trasferire condizioni della città consolidata alle
zone di periferia e degradate dove agiamo. Gli edifici pubblici in queste zone devono essere
identificabili dalle comunità come una presenza statale ed elementi di aiuto per la trasformazione
sociale. E’ per questo motivo che cerchiamo di sviluppare architetture preganti, con disposizioni che
favoriscano la partecipazione degli abitanti e che questi si sentano parte di una società più giusta e
ugualitaria. Questo permette di accrescere il senso di appartenenza e l’orgoglio da parte delle
comunità.
Cerchiamo e crediamo che gli edifici proposti possano diventare un mezzo di inclusione sociale in
grado di aiutare il miglioramento dei fattori della qualità di vita e della competitività economica delle
zone degradate e disagiate della Colombia. In questo modo cerchiamo di promuovere benessere
sociale e di costruire una società più giusta e sostenibile come fine ultimo dell’architettura.
Tratto da Giancarlo Mazzanti; L’architettura nella trasformazione sociale di Medellín;
in ‘Lotus International’; n.145; marzo 2011; pp. 24-37
Indice degli articoli
1984
1. 'Green City' in Auckland
McNeill, Mark
Landscape 20 (Jan 1984): 8-9.
2. Tomorrow's cities: Parasitic or sustainable?
Davidson, Joan; MacEwen, Ann
Transactions / Royal Institute of British
Architects, 1984, v.3, no.2 (6), p.63-68
1987
3. Implementing the World Conservation
stategy
McKechnie, Ruth.
Landscape architectural review, 1987 June,
v.8, n.2, p.23-24
4. Technologies and lifestyles [book review]
Coldham, Bruce
Progressive architecture, 1987 June, v.68,
no.6, p.111-112
5. The Environment and development in
developing countries: the environment and
sustainable development
Ramphal, Shridath S.
Royal Society of Arts, London. Journal, 1987
Nov., v.135, no.5376, p.879-890
1988
6. Towards a sustainable housing
development
Cunha, Dilip da
Open house international, 1988, v.13, no.2,
p.15-22
7. The abstractions of sustainable
development: a call for a precise model
Sullivan, W. C.
Landscape architectural review, 1988 Apr.,
v.9, no.2, p.20-21
8. Sustainable and equitable development: a
goal for the 21st century
Jacobs, Peter
Landscape architectural review, 1988 Dec.,
v.9, no.5, p.7-13
9. Green for "go" at Portland Place?
[environmental safeguards]
Martin, Ian
Architects' journal 188. o.50 (Dec 14, 1988):
15.
College of Architecture and Design, Kansas
State University 11 (1989): 48-51.
14. Sustainable development in the rural
landscape: an Ontario case study
Taylor, James R.
Landscape architectural review, 1989 Mar.,
v.10, no.1, p.13-15
15. Canadian community gardens: a
sustainable landscape legacy
Quayle, Moura, [1951-]
Landscape architectural review, 1989 Mar.,
v.10, no.1, p.17-20
16. The Federal agenda: conservation
strategies and sustainability
Manning, E. W.
Landscape architectural review, 1989 Mar.,
v.10, no.1, p.21-25
17. Howard Dawe
Ingham, John.
Building 254. o.19 (May 12, 1989): 42-43.
18. Mike Flux
McLellan, Alastair.
Building 254. o.21 (May 26, 1989): 40-41.
19. Green architecture and the agrarian
garden [by] Barbara Stauffacher Soloman
[book review]
Lakeman, Sandra Davis.
Journal of architectural education 42. o.4
(Jul 1989): 41-44
20. Greenhouse effect
Guest, Penny.
Building 254. o.31 (Aug 4, 1989): 24-25.
21. Safe and sound [kitchens]
Murrell, Robin.
Traditional homes 5. o.12 suppl. (Sep 1989):
49-50,53
22.The experience of sustainable landscapes
Thayer, Robert L.
Landscape journal, 1989 Fall, v.8, no.2,
p.101-110
23.Leh, Ladakh
Chaturvedi, Anuradha
Architecture + design, 1989 Nov.-Dec., v.6,
no.1, p.[82]-89
24.Greening the office
Best, Alastair.
Designers' journal 17 (Dec 1989): 17.
29.Neues Denken gefragt
Milchert, Jürgen.
Garten und Landschaft 100. o.11 (1990): 2532
30.Verflechtung von Gegensätzen: Impulse in
der Landesgartenschau Pforzheim 1992.
Garten und Landschaft 100. o.6 (1990): 110.
31.How green is your builder?
Guest, Penny.
Building 255. o.2 (Jan 12, 1990): 22-23
32.Building biology: green labelling
Slessor, Catherine.
Architects' journal 191. o.6 (Feb 7, 1990):
61-63.
33.Green credit account
Guest, Penny.
Building 255. o.6 (Feb 9, 1990): 78-79
34.Unweltschonendes Bauen: zehn Thesen
zum umweltschonenden Planen
Minke, Gernot.
Deutsche Bauzeitschrift 38. o.3 (Mar 1990):
418-420,423-424.
35.Who says you can't change the world?
Davidson, Cynthia C.
Inland architect 34. o.2 (Mar 1990): 23.
36.Congrès 89 atelier thématique: les boisés
urbains- conservation ou développement
Piuze, Marcel
Landscape architectural review, 1990 Mar.,
v.11, no.1, p.27-28
37.Building in the Air and Tenere Region,
Niger
Norton, John
Mimar: architecture in development, 1990
Mar., v.10, no.1(34), p.[50]-57
38.Room to move
Edwards, Brian.
Building design 26-27 (Mar 16, 1990): 26-27.
39.Green architecture...The role of
architecture in the built environment: a recent
SITE project...
Wines, James, [1932-].
Architectural record 178. o.4 (Apr 1990): 7883,163
40.Vuelve lo verde: la nueva moda ecológica
Pauley, Martin, [1938-].
Arquitectura viva 78 (May 1990): 78.
1989
10. The greening of architecture
Knevitt, Charles, [1952-].
Architectural design 59. o.5-6 (1989): 36-39
25.A green policy in Denmark
Glad, Per.
Landscape design 33-35 (Dec 1989): 33-35.
1990
11. The motor vehicle dominated city as a
non-sustainable urban form: Mexico City and
Jakarta
Hanson, Mark E.
Computers, environment and urban systems,
1989, v.13, no.2, p.95-108
12. Green architecture and the agrarian
garden [by] Barbara Stauffacher Solomon
[book review]
Parsons, Spencer.
Design book review 51-54 (Jan 1989): 5154.
13. Design for sustainability at Seaside
Coates, Gary.Oz /
26.Sowing the caraway seed ["green"
transportation]
Roberts, John.
Built environment 15. o.3-4 (1990): 215-230.
41. Sustainable development and private
stewardship: the landowner's role in resource
conservation
Hilts, Stewart
Landscape architectural review, 1990 May,
v.11, no.2, p.10-13
42. It's hard being green
Stern, Jane; Stern, Michael.
Metropolitan home 22. o.5 (May 1990): 9394,156.
27.Grün in der Stadt
Klaffke, Kaspar.
Garten und Landschaft 100. o.11 (1990): 1824.
43.Building homes: The greenhouse effect.
Building 255. o.19 suppl. (May 11, 1990): 341
28.Tourismus und Verkehr: das Beispiel Föhr
/cHeinz Masur.
Mazur, Heinz.
Garten und Landschaft 100. o.7 (1990): 2327.
44.Toward a sustainable landscape with high
visual preference and high ecological
integrity: the Loop Road in Acadia National
Park, U.S.A.
Steinitz, Carl
Landscape and urban planning, 1990 June,
v.19, no.3, p.213-250
45.Warming to green ideas
Musannif, Bill.
Building design 32-33 (Jun 15, 1990): 32-33.
46.TIES
Costello, Laura.
Blueprints 8. o.3 (Jul 1990): 6
47.Green architecture
Dietsch, Deborah K.
Architecture: the magazine of the American
Institute of Architects 79. o.8 (Aug 1990): 17
48.Toward a unified vision: architecture in the
landscape
Spirn, Anne Whiston, [1947-].
Landscape architecture 80. o.8 (Aug 1990):
36-41
49.Green school of thought
Blundell-Jones, Peter.
Architectural review 188. o.1123 (Sep 1990):
49-53.
50.The green house effect
Paine, Anthony.
Architectural review 188. o.1123 (Sep 1990):
54-58.
51.Exogenous shock
Pawley, Martin, [1938-2008.].
Architectural review 188. o.1123 (Sep 1990):
94-96
52.Green architecture.
Architectural review 188. o.1123 (Sep 1990):
[36]-38.
53.Ökologisches Bauen.
Deutsche Bauzeitung 124 (Sep 1990).
54."Ökohaus der Zukunft": das ökologisch
orientierte Minimalenergiehaus auf der
Landesgartenschau Sindelfingen 1990
Brucker, Johannes.
Deutsche Bauzeitung 124. o.9 (Sep 1990):
22-25
55.Rüchsichtsvoller Städtebau: Ökologisches
Bauen - eine Zukunft für unsere Städte
Lahl, Uwe.
Deutsche Bauzeitung 124. o.9 (Sep 1990):
36-39.
56.Arche in Seenot: Biohaus für Dorf und
Stadt
Weiss, Klaus-Dieter, [1951-].
Deutsche Bauzeitung 124. o.9 (Sep 1990):
134-138.
57.Taenk globalt - en lokal handlingsplan for
det abne land
Gelsing, Steen; Østerbye, Lars.
Landskab 71. o.6 (Sep 1990): 90.
58.Designing the ecological way
Rigby, Elaine.
Architects' journal 192. o.10 (Sep 5, 1990):
14.
59.Formed by natural process: defining the
sustainable city
Hough, Michael
Landscape architectural review, 1990 Oct.,
v.11, no.4,
Bibliografia
SUL CONCETTO E SULLA STORIA DELLA
SOSTENIBILITA’
PIERO BEVILACQUA; La Terra è finita; Laterza;Bari;2008.
GIANFRANCO BOLOGNA; Manuale della sostenibilità.
Idee, concetti, nuove discipline; Edizioni Ambiente;
2005.
LUCA DAVICO; Sviluppo sostenibile. Le dimensioni
sociali; Carocci Editore; Roma; 2004.
GIUSEPPE FERRARI, ANTONELLO LA VERGATA (a cura di);
Ecologia e sostenibilità. Aspetti filosofici di un
dibattito; Franco Angeli; Milano; 2008.
PIETRO GRECO, ANTONIO POLLIO SALIMBENI; Lo sviluppo
insostenibile: dal vertice di Rio a quello di
Johannesburg; Bruno Mondadori; Milano; 2003.
ULRICH GROBER; Deep roots. A conceptual history of
‘sustainable development’ (Nachhaltigkeit),
Wissenschaftszentrum für Sozialforschung, Berlin,
2007.
VITTORIO HÖLSE; Filosofia della crisi ecologica; Einaudi;
Torino; 1992.
MICHAEL KRAFT, DANIEL MAZMANIAN; Towards
Sustainable Communities. Transition and
Trasformations in Environmental Policy; MIT; 1999.
BJØRN LOMBORG; The skeptical environmentalist.
Measuring the real state of the world; Cambridge
University Press; Cambridge; 2001.
NADIA MARCHETTINI, ENZO TIEZZI; Che cos’è lo sviluppo
sostenibile? Le basi scientifiche della sostenibilità e i
guasti del pensiero unico; Donzelli Editore; Roma;
1999.
LUIGINA MORTARI; Ecologicamente pensando. Cultura
ambientale e processi formativi; Unicopli; Milano;
1998.
GIORGIO NEBBIA; Lo sviluppo sostenibile; Edizioni
cultura della pace; Firenze; 1991.
MARTIN PAWLEY; Sand-heap urbanismo f the 21st
century; in I.Abley, J. Heartfield (a cura di);
Sustaining architecture in the anti-machine age;
Wiley-Academy; Chichester; 2001.
ENZO TIEZZI (a cura di); Ecologia e…; Laterza; Bari;
1995.
WORSTER; Storia delle idee ecologiche; il Mulino;
Milano; 1994.
AMIR DJALALI, PIET VOLLAARD; The Complex History of
Sustainability; in ‘Volume’, n.18, Archis, 2008.
GIUSEPPE LONGHI; Le tre ondate del progetto
sostenibile fra retorica e scienza; in ‘Paramentro’,
n.250, marzo-aprile 2004.
PANAYOTA PYLA; Counter-histories of sustainability; in
‘Volume’, n.18, Archis, 2008.
2. SUL CONCETTO E SULLA STORIA DEL
PROGETTO SOSTENIBILE
PETHER BUCHNAN, KENNETH FRAMPTON; Ten shades of
green. Architecture and the natural world;
Architecture League of New York; New York; 2003.
STUART COHEN, SIM VAN DER RYN; Ecological design;
Island Press; Washington; 1996
DOMINIQUE GAUZIN-MÜLLER; Architettura sostenibile;
Edizioni Ambiente; Milano; 2003.
JASON MCLENNAN; The philosophy of sustinable
design: the future of architecture; Ecotone; Kansas
City; 2004.
S. MENDLER, W.ODELL; The HOK Guidebook to
Sustainability; John Wiley & Son; New York; 2000.
JAMES STEELE; Ecological architecture. A critical
history; Thames & Hudson; 2005.
RICHARD STEIN; Architecture and energy; Doubleday;
1977.
JAMES WINES; Green architecture; Taschen; 2000.
ANDREA BRENNEN; Green Architecture Guide; in
‘Volume’; n.18; 2009; suppl.
BRIAN EDWARDS, CHRISNA DU PLESSIS; Snake in Utopia.
A brief history of sustainability; in ‘Architectural
design’; v. 71; n.4, Luglio 2001; p. 9-19.
BRIAN EDWARDS; Sustainability: the search fora an
earthly paradise; in ‘Architectural design’; v. 71; n.4,
Luglio 2001; p. 7.
BRIAN EDWARDS; Design challenge sustainability; in
‘Architectural design’; v. 71; n.4; Luglio 2001; p. 2031.
RICHARD INGERSOLL; Questione ecologica in
architettura ; in ‘Lotus’; n.140; 2009.
3. SULLA DENUNCIA DELLA CRISI AMBIENTALE
RACHEL CARSON; Primavera silenziosa; Feltrinelli;
Milano; 1973. Tit. orig. Silent Spring; Houghton
Miffin; 1962.
ALBERT GORE; La terra in bilico; Roma-Bari; Laterza;
1993. Tit. orig. Earth in balance; Houghton Mifflin;
Boston Mass; 1992.
DONATELLA H. MEDOWS, DENNIS L. MEADOWS, JORGEN
RANDERS; I limiti dello sviluppo. Rapporto del System
dynamics group MIT per il progetto del Club di Roma
sui dilemmi dell’umanità; Mondadori; Milano; 1972.
Tit. orig The limits to growth; Universe Books; New
York; 1972
DONATELLA H. MEDOWS, DENNIS L. MEADOWS, JORGEN
RANDERS; Oltre I limiti dello sviluppo; Il Saggiatore;
Milano; 1993. Tit. orig Beyond the limits: confronting
global collapse, envisioning a sustainable future;
Chelsea Green Publishing Company; Post Mils;
1992
DONATELLA H. MEDOWS, DENNIS L. MEADOWS, JORGEN
RANDERS; I nuovi limiti dello sviluppo; Mondadori;
Milano; 2006. Tit. orig Limits to growth: the 30-year
update; Chelsea Green Publishing Company; White
River Junction; 2004
ROBERT ALLEN, EDWARD GOLDSMITH E AL; A blueprint
for survival; Pengiun Books; 1972. Disponibile in
http://theecologist.info/key27.htlm
HERMAN KAHN; L’anno 2000: la scienza di oggi
presenta il mondo di domani; Il Saggiatore; Milano;
1968. Tit. orig. The year 2000. A frame work for
speculation on the next thirty-three years; MacMillan;
1967.
4. SULL’ECOLOGIA
EUGENE P. ODUM; Principi di ecologia; Piccin; Padova;
1973. Tit. or. Foundaments of Ecology; Saunders;
Philadelphia; 1953.
THOMAS M. SMITH, ROBERT LEO SMITH; Elementi di
ecologia; Pearson Benjamin Cummings; 2009.
STUART A. KAUFMAN; The origins of order. Selforganization and selection in evolution; University of
Pensylvania; 1993. Disponibile sul sito
www.vwl.tuwien.ac.at/hanappi/EvoEco/SKauffman93
.pdf
4. SUI RAPPORTI INTERNAZIONALI
WASSILY LÉONTIEF E AL; 1999 l’expertise de Wassily
Léontief: un etude de l’O.N.U. sur l’économie
mondiale future; Dunod; Parigi; 1977
COMMISSIONE MONDIALE PER L’AMBIENTE E LO
SVILUPPO; GIORGIO RUFFOLO (A CURA DI); Il futuro di
tutti noi: rapporto della Commissione Mondiale per
l’Ambiente e lo Sviluppo; Bompiani; Milano; 1988.
Tit. orig. Our common future; 1987.
COUNCIL ON ENVIROMENTAL QUALITY, UNITED STATES
DEPARTMENT OF STATE; The Global 2000 Report to
the President; 1980. In
www.geraldbarney.com/G2000Page.htlm
WORLD BANK; World Development Report 1992.
Development and environment; Oxford University
Press; New York; 1992. In www-wds.worldbank.org
WORLDWATCH INSTITUTE, LESTER R. BROWN E AL (A
CURA DI); State of the world 1998-2001: stato del
pianeta e sostenibilità; Edizioni Ambiente; Milano;
1998. Tit. orig. State of the world.
WORLDWATCH INSTITUTE, LESTER R. BROWN E AL (A
CURA DI); State of the world 1988-1997: rapporto sul
nostro pianeta; ISEDI; Torino; 1988.
5. CONTRIBUTI DEL DIBATTITO
INTERDISCIPLINARE
5.1 SULLE FILOSOFIE AMBIENTALI
CHARLES BIRCH, JOHN B.COBB; The liberation of life;
Cambridge University Press; Cambridge; 1981.
PAOLO DELLAVALLE; L’urgenza ecologica. Percorso di
lettura attraverso le proposte dell’etica ambientale;
Baldini Castoldi; Dalai; 1998.
BILL DEVALL, GEORGE SESSIONS; Ecologia profonda.
Vivere come se la natura fosse importante; Gruppo
Abele; Torino; 1989. Tit. Orig. Deep Ecology. Living
as if nature mattered; Gibbs Smith; Salt Lake City;
1985.
HANS JONAS; Il principio responsabilità; Einaudi; Torino;
1990. Tit. orig. Das Prinzip Verantwortung; Insel
Verlag; Frankfurt am Main; 1979.
ALDO LEOPOLD; Almanacco di un mondo semplice;
Red; Como; 1997. Traduzione parziale di A Sand
County Almanac and Sketches Here and There;
Oxford Universisy Press; Oxford; 1949.
J.E. LOVELOCK; Gaia. Nuove idee sull’ecologia;
Boringhieri; Torino; 1981. Tit. orig. Gaia. A new look
at life on earth; Oxford University Press; Oxford;
1979.
ARNE NAESS; Ecosofia; Red; Como; 1994. Tit. orig.
Ecology, Community and Lifestyle: Outline o fan
Ecosophy; tradotto e rivisto da David Rothenberg;
Cambridge University Press; Cambridge; 1989.
JOHN PASSAMORE; La nostra responsabilità per la
natura; Feltrinelli; Milano; 1991. Tit. orig. Man’s
Responsibility for Nature: Ecological Problems and
Western Traditions; Charles Scribner’s Sons; New
York; 1974.
PAUL SHEPARD; Nature and madness; Sierra Club; San
Francisco; 1982.
V. SHIVA; Sopravvivere allo sviluppo; ISEDI Pertini;
Torino; 1990. Tit. orig. Staying alive: women, ecology
and develpment; 1989.
KATE SOPER; What is nature?; Blackwell; Oxford; 1995.
HENRY DAVID THOUREAU; La disobbedienza civile;
Demetra; Colognola ai Colli; 1995. Tit. orig. Civil
Disobedience; 1849; in “Reform Papars”; Wendell
Glick; Princeton University Press; 1973.
MARCO ARMANDI; La lezione di Aldo Leopold e le
prospettive in Italia dell’etica ambientale; in ‘Silvae’;
n.6; vol.II; pp.103-146; 2006. Disponibile sul sito
www3.corpoforestale.it
5.2 SULLA NECESSITA’ DEL SUPERAMENTO
DELL’ECONOMIA NEOCLASSICA E SULL’ECONOMIA
ECOLOGICA
PAUL AWKEN, AMORY LOVINS, HUNTER LOVINS;
Capitalismo naturale: la prossima rivoluzione
industriale; Edizioni Ambiente; Milano; 2001. Tit. orig
Natural Capitalism. The next industrial revolution;
1999.
HARNOLD BARNETT, CHANDLER MORSE; Scarcity and
Growth; John Hopkins University Press; Baltimore;
1963.
WILFRED BECKERMAN; Smalli is stupid. Blowing the
whistle on the greens; Gerald Duckworth & c.; 1995.
KENNETH BOULDING; Il significato del XX secolo:verso
una società post-civile; Etas Kompass; Milano; 1969.
Tit. orig. The meaning of the twentieth century;
Harper & Row; New York; 1964.
KENNETH BOULDING; Beyond economics: Essayes on
Society, Religion and Ethics; University of Michigan
Press; 1968.
LESTLER R. BROWN; Eco-economia: una nuova
economia per la terra; Editori Riuniti; Roma 2002.
Tit. orig. Eco-Economy: building an economy for the
earth; Earthscan Publicattions; Londra; 2001.
HERMAN E. DALY; Lo stato stazionario. L’economia
dell’equilibrio biofisico e della crescita morale;
Sansoni; Firenze; 1981. Tit. orig. Steady-State
Economics; W.H. Freeman Co.; New York; Island
Press; Washington D.C; 1977.
HERMAN DALY; Oltre la crescita: l’economia dello
sviluppo sostenibile; Edizioni Comunità; Torino;
2001. Tit. orig. Beyond Growth: the economics of
sustainable development; Becon Press; Boston;
1996.
HERMAN E. DALY, JOHN B. COBB; Un’economia per il
bene comune; Red; Como; 1994. Tit.orig. For the
common good; Beacon Press; Boston; 1989.
HERMAN E. DALY, ROBERT J.A. GOODLAND, SALAH EL
SARAFY; Population, technology and lifestyles. The
transition to sustainability; The International Bank for
reconstruction and development; 1992.
HERMAN E. DALY, COLIN TOWNSEND (A CURA DI);
Valuating the earth. Economics, ecology, ethics;
Massachusetts Institute of technology; 1993.
P. FEDELI; La natura violata. Ecologia e mondo
romano; Sellerio; Palermo; 1990.
NICHOLAS GEORGESCU-ROEGEN; Analisi economica e
processo economico; Sansoni; Firenze; 1973. Tit.
orig. Analytical economics; Harvard University Press;
Cambridge; 1966.
NICHOLAS GEORGESCU-ROEGEN; The entropy law and
the economic process; Harvard University Press;
Cambridge; Massachusetts; 1971.
NICHOLAS GEORGESCU-ROEGEN; Energia e miti
economici; Boringhieri; Torino; 1982. Tit. orig.
Energy and economic myths; Freeman; San
Francisco; 1974.
NICHOLAS GEORGESCU-ROEGEN; Bioeconomia: verso
un’altra economia ecologicamente e socialmente
sostenibile; Bollati Boringhieri; Torino; 2003.
ANDRÉ GORZ; Ecologia e politica; Cappelli; Bologna;
1978. Tit. orig. Écologie et politique; Galilée; 1975.
ROBERT HEILBRONER; La prospettiva dell’uomo; Etas
Libri; Milano 1975. Tit. orig. An inquiry into the
human prospects; W.W. Norton; 1974
SERGE LATOUCHE; La megamacchina: ragione tecno
scientifica, ragione economica e mito del progresso;
Bollati Boringhieri; Torino; 1995.
WASSILY LEONTIEF; Il futuro dell’economia mondiale;
Mondadori; Milano; 1977. Tit. orig The future of the
world economy; New York; 1977.
TIM JACKSON; Prosperità senza crescita: economia per
il bene reale; Edizioni Ambiente; Milano; 2011. Tit.
orig. Prosperity without growth. Economics for a
finite planet; Earthscan; Oxon-New York; 2009
JUAN MARTINEZ-ALIER; Economia ecologica. Energia,
ambiente, società; Garzanti; Milano; 1991.
JOHN MAYNARD KEYNES, PIERLUIGI SABBATINI (A CURA
DI); Come uscire dalla crisi; Laterza; Roma-Bari;
1983.
GUNTER PAULI; Svolte epocali: il business per un futuro
migliore; Baldini e Castoldi; Milano; 1997. Tit. orig.
Breackthroughs – What business can offer society;
Epsilon Press; UK; 1996.
GIORGIO RUFFOLO; La qualità sociale: le vie dello
sviluppo; Laterza; Roma-Bari; 1985.
ERNST F.SCHUMACHER; Piccolo è bello: uno studio di
economia come se la gente contasse qualcosa;
Mondadori; Milano; 1978. Tit. orig. Smalli is
baeutiful. A study of economics and if people
mattered; Blond & Briggs; 1973.
FREDERICK SODDY; The origins of the conception of
isotropes; Nobel Lecture; 12 dicembre 1922.
Disponibile in www.nobelprize.org.
LESTER C. THUROW ; La società a somma zero; il
Mulino; Bologna; 1980. Tit. Orig. The Zero-sum
Society: distribution and the possibilities for
economic change; Basic Books; New York; 1980.
LESTER C. THUROW ; Arcipelago economia. Idee, scuole
e protagonisti; Laterza; Roma-Bari; 1984. Tit. orig.
Dangerous Currents; Random House; New York;
1983.
K.W. W EBBER; Smog sull’Attica: I problemi ecologici
nell’antichità; Garzanti; Milano; 1991.
KENNET ARROW, BERT BOLIN, ROBERT COSTANZA,
PARTHA DASGUPTA, CARL FOLKE, C.S. HOLLING,
BENGT-OWE JANSSON, SIMON LEVIN, KARL-GÖRAN
MÄLER, CHARLES PERRINGS, DAVID PIMENTEL;
Economic Growth, carrying capacity and the
environment, in ‘Ecological Applications’, vol.6, n.1,
febbraio 1996, pp.13-15. Disponibile sul sito
http://webpub.allegheny.edu
WILLIAM D. NORDHAUS, JAMES TOBIN; Is growth
obsolete?; in ‘Economic Growth’; National Bureau of
Economic Research; n.96E; Colombia University
Press; New York; 1972. Disponibile sul sito
http://cowles.econ.yale.edu
5.3 SULLE RIFLESSIONI EPISTEMOLOGICHE
GREGORY BATESON; Verso un’ecologia della mente;
Adelphi; Milano; 1990. Tit. orig. Steps to an Ecology
of Mind; Ballantine; New York; 1972.
GREGORY BATESON; Mente e natura; Adelphi; Milano
1984. Tit. orig. Mind and Nature – A Necessary
Unity; Bantam Books; 1980.
FRANCO CASSANO; Il pensiero meridiano; Laterza; Bari;
1996.
PETER GALISON, EMILY THOMPSON; The architecture of
science; The MIT Press; Cambridge – London; 1999
PETER GALISON; Imagine and logic. A material culture
of microphysics; The University of Chicago Press;
1997
MAURO CERUTI; Evoluzione senza fondamenti; Laterza;
Bari; 1995.
HUMBERTO MATURANA, FRANCISCO VARELA; Autopoiesi
e cognizione: la realizzazione del vivente; Marsilio;
Venezia; 1985. Tit. Orig Autopoiesis and Cognition.
The Realization of the Living; 1980.
ILYA PRIGOGINE; La fine delle certezze; Bollati
Boringhieri; Torino; 1997.
JAMES GRIESEMER, SUSAN STAR; Institutional ecology,
translations and boundary objects: amateurs and
professionals in Berkley’s Museum of Vertebrate
Zoology; in “Social Studies of Science”; n.19 (4);
1989
CHARLES LINDBLOM; Still muddling, not yet through; in
“Public Administration Review”; vol.39; 1979
CHARLES LINDBLOM; The science of ‘Mudding Through’;
in “Public Administration Review”; vol.19; 1959
5.4 SULLE TEORIE SOCIOLOGICHE E I VALORI POSTMATERIALISTI
KENNETH ARROW; Scelte sociali e valori individuali;
Etas Libri; Milano; 1977. Tit. orig. Social choice and
individual values; Wiley; New York; 1966
AMITAI ETZIONI; An immodest agenda; McGraw Hill;
New York; 1983
HAZEL HENDERSON; Creating alternative futures;
Berkley; New York; 1978.
FRED HIRSCH; I limiti sociali allo sviluppo; Bompiani;
Milano; 1981. Tit. orig. The social limits to growth;
Harvard University Press; Cambridge
Massachusetts; 1976.
RONALD INGLEHART; The silent revolution; Edizioni
Ambiente; Princeton University Press; 1977
JOHN MAYNARD KEYNES; Esortazioni e prospettive; Il
Saggiatore; Milano; 1994. Tit. orig. The economic
possibilities for our grandchildren; in Essays in
Persuasion; Norton; New York.
KARL POLANYI; La grande trasformazione; Einaudi;
Torino; 1974. Tit. orig. The great transformation;
Beacon; Boston; [1944] ristampa 1957
WALTER WEISSKOPF; Alienation and economics;
Dutton; New York; 1971
RELEY CATTON, W ILLIAM DUNALP; Enviromental
sociology: a new paradigm; in ‘The americn
sociologist’; n.13; 1978; pp.41-49. Disponibile sul sito
http://modernsocieties.files.wordpress.com/2008/04/
enviromental-sociology-catton-dunalp.pdf
6. SULL’IDEA DI NATURA E SUL RAPPORTO
NATURA-ARCHITETTURA
SERGIO BARTOLOMMEI; Etica e natura: rivoluzione
copernicana in etica?; Guerini; Milano; 1989.
BARRY COMMONER; Il cerchio da chiudere: la natura,
l’uomo, la tecnologia; Garzanti; Milano 1973. Tit.
Orig. The closing circle: nature, man and technology;
Knopf; New York 1971.
WILLIAM J.R CURTIS; Natura e macchina: Mies van der
Rohe, Wright e Le Corbusier negli anni trenta; in
WILLIAM J.R CURTIS; L’architettura moderna del
Novecento; Bruno Mondadori; Milano; 1999. Tit. orig.
Modern Architecture Since 1900; Phaidon 1982.
PAOLO D’ANGELO; Estetica della natura; Laterza;
Roma-Bari; 2001.
ADRIAN FORTY; Parole e edifici; Pendragon; Bologna;
2004. Tit. orig. Words and Buildings. A Vocabulary of
Modern Architecture; Thames & Hudson; Londra;
2000.
SUSANNAH HAGAN; Taking shape. A new contact
between architecture and nature; Elsevier; Oxford;
2001.
BRUNO LATOUR; Politiche della natura; Raffaello
Cortina Editore; Milano; 2000. Tit. orig. Politiques de
la nature; Éditions La Decouverte & Syros; Parigi;
1999.
IAN MCHARG; Progettare con la natura; Muzzio;
Padova; 1989.
MAURO ANNUNZIATO, PIERO PIERUCCI; Emergenza e
biodiversità della forma: l’estetica della interrelazione
tra reale e artificiale; in ‘Sistemi intelligenti’; n.1;
aprile 2006.
CLIVE BRIFFET; Sustaining interaction between the
natural and the built environment in Singapore; in
‘Architectural design’; v. 71; n.4; luglio 2001; p. 6267.
BRIAN EDWARDS, CHRISNA DU PLESSIS; Global
Perspectives: Learning from the other side; in
‘Architectural design’; v. 71; n.4; luglio 2001; p. 3845.
PIERLUIGI NICOLIN; Biopolitica e architettura; in ‘Lotus
International’; n.135; novembre 2008; p.124-129.
FRANCESCO REPISHTI; Green Architecture. Oltre la
metafora. Le avventure della metafora verdolatrica;
in ‘Lotus International’; n.135; novembre 2008; p. 3437.
NANCY SALOMON; New building system mimic nature
and return to a biocentric approach to design; in
‘Architectural Record’; febbraio 2009; p. 173-180.
MARCO ASSENNATO, FRANCOISE VERY; Pensare il
territorio come buona dimora: per una critica
all’éthique environnementale urbaine; Abitare il
Futuro; Napoli; Dicembre 2010.
INTERNATIONAL ATELIER ON GREATER PARIS; Looking at
Architecture, the City and the Landscape Through
the Prism of Energy; Giugno 2011.
7. SULL’IDEA DI DEMECRATIZZAZIONE E SUL
RAPPORTO ARCHITETTURA-PROCESSI
DECISIONALI
NICOLA ABBAGNANO; Protagonisti e testi della filosofia;
Paravia; Torino; 1996
ZYGMUNT BAUMAN; La decadenza degli intellettuali: da
legislatori a interpreti; Bollati Boringhieri; Torino;
1992
LUIGI BOBBIO; Amministrare con i cittadini; Dps; Torino;
2007
ANNA BRAVO; A colpi di cuore. Storie del sessantotto;
Laterza; Roma; 2008
GIANCARLO DE CARLO; La piramide rovesciata; De
Donato; Bari; 1968
PAUL FEYERABEND; Contro il metodo: abbozzo di una
teoria anarchica della conoscenza; Feltrinelli; Milano;
1979
JOHN FORESTER; Pianificazione e potere. Pratiche e
teorie interattive del progetto urbano; Edizioni
Dedalo; Bari; 1998
JOHN FRIEDMANN; Pianificazione e dominio pubblico:
dalla conoscenza all’azione; Edizioni Dedalo; Bari;
1993
JURGEN HABERMAS; Teoria dell’agire comunicativo; il
Mulino; Bologna; 1997
NICHOLAAS J. HABRAKEN; Strutture per una residenza
alternativa; Saggiatore; Milano; 1974. Tit. Orig. De
Dragers an de Mensen; Scheltema en Holkema;
Amsterdam; 1962.
DAVID HELD; Modelli di democrazia; il Mulino; Bologna;
1997
IVAN ILLICH; La convivialità; Mondadori; Milano; 1974
DONALD SCHÖN; Il professionista riflessivo. Per una
nuova epistemologia della pratica professionale;
Edizioni Dedalo; Bari; 1993
GRAHAM TOWERS; Building democracy; UCL Press;
Londra; 1995.
GUIDO VIALE; Il sessantotto: tra rivoluzione e
restaurazione; Mazzotta; Milano; 1978
ALESSANDRO BALDUCCI; L’urbanistica partecipata; in
“Territorio”; n.2; 1996.
PAOLO FARERI; Innovazione urbana a Milano: politiche,
società ed esperti; in “Urbanistica”; n.123; 2004
PIERLUIGI NICOLIN; Architecture meets people; in “Lotus
International”; n.145; marzo 2011; pp.12-15
JO NOERO; Architecture and Activism; in “Lotus
International”; n.145; marzo 2011; pp.78-81
BALDUCCI; Disegnare il futuro con i cittadini e le
pubbliche amministrazioni. Interrogativi e sfide per le
esperienze di partecipazione. Lezione del Corso di
perfezionamento
post-laurea
‘Azione
locale
partecipata e sviluppo urbano sostenibile’; IUAV; 18
dicembre 2009.
8. SUL TEMA DELLO SVILUPPO LOCALE
EGIDIO DANSERO; Lo sviluppo locale al nord e al sud
del mondo: un confronto internazionale; Franco
Angeli; Milano; 2008.
ALBERTO MAGNAGHI; Scenari strategici: visioni
identitarie per il progetto di territorio; Alinea; Firenze;
2007.
ALBERTO MAGNAGHI; Il progetto locale; Bollati
Boringhieri; 2000.
ALBERTO MAGNAGHI; Il territorio degli abitanti: società
locali e autosostenibilità; Dunod; Milano; 1998.
ALBERTO MAGNAGHI; Il territorio dell’abitare: lo sviluppo
locale come alternativa strategica; Angeli; Milano;
1994.
ALBERTO MAGNAGHI; Per una trasformazione ecologica
degli insediamenti; Franco Angeli; Milano; 1992.
GIORGIO FERRARESI, ALBERTO MAGNAGHI, GIANNI
SCUDO E AL.; Il progetto locale. Valorizzare il
territorio; in ‘il Progetto Sostenibile’; n.29; settembre
2011.
9. APPROFONDIMENTI
9.1 AGENCE BABYLONE
Natura come motore urbano: ecologic city; in ‘Arca’;
febbraio 2008; n.233; p.94.
www.agencebabylone.fr
9.2 EMILE AMBASZ
FULVIO IERACE; Emilio Ambasz: una arcadia
tecnologica, Skira; Milano 2004.
TERENCE RILEY; Emilio Ambasz: architettura & natura,
design & artificio; Electa; Milano 2010.
PETER BUCHANAN; The poet’s garden: Emilio Ambasz’s
fusion of architecture and landscape; in ‘Architectural
review’; giugno 1984; v.175; n.1048; p.50-54.
EMILIA GIORGI; Sotto l’erba: in Mestre; in ‘Arca’; maggio
2006; n.214; p.48-53.
FULVIO IERACE; 2000 & fine secolo; in ‘Abitare’;
dicembre 1998; n.379; p.51-64, 166.
MARIA GIULIA ZUNINO; Emilio Ambasz a Fukuoka; in
‘Abitare’; maggio 1998; n.373; p.190-191.
9.3 ALEJANDRO ARAVENA
ALEJANDRO ARAVENA; Alejandro Aravena. Progettare e
costruire; Electa; Milano 2007.
ALEJANDRO ARAVENA; L’architettura è per i cittadini; in
‘Lotus International’; n.145; marzo 2011; p.22-23
ALEJANDRO ARAVENA; Alejandro Aravena: quartiere di
abitazione Quinta Monroy – Elemental, Iquique, Cile;
in ‘Casabella’; v.70; n.742; marzo 2006; p.80-91
FABRIZIO GALLANTI; Elementa, Aravena!; in ‘Domus’;
n.886; novembre 2005; p.34-41
ALEJANDRO ARAVENA; Elemantal; Urbania.IV Festival
Internazionale di Urbanistica; Bologna; 2009;
conferenza disponibile sul sito
http://www.abitare.it/highlights/ alejandro-aravena-aurbania
9.4 STEFAN BENISH
MARIE HÉLÈNE CONTAL, JANA REVEDIN; Progettare la
Sostenibilità. I maestri di una nuova architettura;
Edizioni Ambiente; 2009.
DAVIDE CATTANEO; Stefan Benisch: progettare con la
luce; intervista a Stefan Benisch; 2 novembre 2009.
Disponibile in www.archinfo.it/
http://behnish.com/
9.5 FABRIZIO CAROLA
FABRIZIO CAROLA; Vivendo, pensando,
facendo…memorie di un architetto; Intra Moenia;
2009.
FABRIZIO CAROLA; Antiche tecnologie per una nuova
architettura. Un’ipotesi di futuro; Intra Moenia; 2005.
MARIE HÉLÈNE CONTAL, JANA REVEDIN; Progettare la
Sostenibilità. I maestri di una nuova architettura;
Edizioni Ambiente; 2009
ENRICO SICIGNANO; Tecniche antiche e moderne. Otto
architetture contemporanee; CLEAN; Napoli; 2000.
FABRIZIO CAROLA; Ospedale a Kaedi, Mauritania, in
‘Architettura; cronache e storia’; v.33; n.8-9(382383), agosto-settembre 1987; p.634-637.
PAOLO CASCONE; La quarta ecologia; in ‘Domus’;
marzo 2009; n.923; pp.47-49.
PAOLO CASCONE, DAVIDE VARGAS; Il mitico Fabrizio
Carola; in ‘Domus’; marzo 2009; n.923; pp.42-46.
François Chaslin; Prix Aga Khan 1995; in ‘Architecture
d’aujourd’hui’; febbraio 1996; n.303; pp.30-33.
COSTANTINO DARDI; A green thought in a green shade;
in ‘Domus’; n.628; maggio 1982; pp. 2-29.
LUIGI ALINI; Memorie di un architetto con il mal d’Africa;
intervista a Fabrizio Carola; 15 marzo 2007. In
www.architetturadipietra.it
PATRIZIA CAPUA; Fabrizio Carola; in ‘la Repubblica’; 27
agosto 2006; p.16. In http://static.repubblica.it
9.6 GIANCARLO DE CARLO
GIANCARLO DE CARLO, LIVIO SICHIROLLO (a cura di); Gli
spiriti dell’architettura; Editori Riuniti; Roma; 1992.
GIANCARLO DE CARLO; Postfazione; in Marianella
Sclavi; Avventure Urbane: progettare la città con gli
abitanti; Eleuthera; Milano; 2002.
GIANCARLO DE CARLO; Le ragioni dell’architettura;
Electa; Milano; 2005.
GIANCARLO DE CARLO; L’architettura della
partecipazione; Saggiatore; Milano; 1973.
LODOVICO MENEGHETTI; Cultura urbanistica, società e
istituzioni nella pianificazione del territorio; CLUP;
Milano; 1981.
FRANCESCO SAMASSA (a cura di); Giancarlo De Carlo:
inventario analitico dell’archivio; Il poligrafo; Padova;
2004.
MANFREDO TAFURI; Storia dell’architettura italiana.
1944-1985; Einaudi; Milano; 1982.
GABRIELE BASILICO; Corso di fotografia, prima lezione:
architettura e partecipazione – reportage sul villaggio
Matteotti a Terni progettato da Giancarlo De Carlo; in
‘Abitare’; n. 486; ottobre 2008; p. 32-37
STEFANO BOERI, PETER DAVEY, AXEL SOWA; Il racconto
dell’architettura. Giancarlo De Carlo; in ‘Domus’; n.
874; p.66-75
GIANCARLO DE CARLO; Terni housing, Terni, Italy:
architect, Giancarlo De Carlo; in ‘A+U: architecture
and urbanism’; v.4; n.7(43); giugno 1974; p.108-112
GIANCARLO DE CARLO; Il nuovo villaggio Matteotti a
Terni. Un’esperienza di partecipazione; in
‘Casabella’; n.422; 1977; pp.12-36
GIANCARLO DE CARLO; Reflections on the present state
of architecture; in ‘AAQ. Architectural Association
Quarterly’; vol.10, n.2; 1978; pp.28-40
GIANCARLO DE CARLO; Giancarlo De Carlo:
architettura, urbanistica, società; in ‘Domus’; n.695;
giugno 1988; p.17-28
GIANCARLO DE CARLO; De Carlo’s trasformations; in
‘Architectural review’; v. 193; n. 1160; ottobre 1993;
p. 74-77
MARCELLO REBECCHINI; Giancarlo De Carlo: il
linguaggio dei contenuti; in ‘Rassegna di architettura
e urbanistica’; v.26; n.78-79; settembre 1992; p.3042.
LOUISE ROGERS; Giancarlo De Carlo: empowering the
people; in ‘RIBA journal’; v. 100; n. 6; giugno 1993;
p. 6-7.
VITTORIO SAVI; Una domanda e mezza a Giancarlo De
Carlo; in ‘Casabella’; v.46; n.479; aprile 1982; p.29.
HERMANN SCHALIMME; Il nuovo villaggio Matteotti a
Terni di Giancarlo De Carlo. Partecipazione fallita e
capolavoro di architettura; intervento al Convegno
patrimoni e trasformazioni urbane; II Congresso
AISU; Roma; Università Roma. Tre; 24-26 guigno
2004;
disponibile
sul
sito
http://www.storiaurbana.it/biennale/Relazioni.asp
COLIN W ARD, JOHN MCKEAN; Conflict and participation;
in ‘Architects’ journal’; v.189; n.6; febbraio 1989;
p.94.
9.7 BALKISHNA DOSHI
MARIE HÉLÈNE CONTAL, JANA REVEDIN; Progettare la
Sostenibilità. I maestri di una nuova architettura;
Edizioni Ambiente; 2009.
WILLIAM J. CURTIS; Balkrishna Doshi, in Dictionnaire de
l’architecture du XX° siècle; Parigi; Hazan/IFA; 1996.
JAMES STEELE; Ecological Architecture: A Critical
History; Londra; Thames and Hudson; 2005.
VIKRAM BHATT; Architecture for a developing India: the
Aranya township; in ‘Harvard design magazine’;
summer 1999; p.28-32.
MARIA VITTORIA CAPITANUCCI; Balkrishna Doshi; in
‘Abitare’ n.463; luglio-agosto 2006; p.108-113.
CHRISTINA KAZA; Shrines and satellites: Doshi’s Aranya
District, Indore, India; in ‘Architectural design’; v.75;
n.6; novembre-dicembre 2005; p.70-71.
YATIN PANDYA; Low-cost housing at Indore, India 19831986; in ‘A+U: architecture and urbanism’; n.7(322);
luglio 1997; p.110-117.
AMEDEO PETRILLI; Un approccio olistico; in ‘Spazio e
società’; v.18; n.69; gennaio-marzo 1995; p.25-29.
VICKY RICHARDSON; Interview: Balkrishna Doshi; in
‘Blueprint’; n.273; dicembre 2008; p.72-76.
ERWIN J.S. VIRAY; Interview with Balkrishna Doshi. A
flown in India; in ‘A+U: architecture and urbanism’;
n.10(445); ottobre 2007; p.16-27.
BALKRISHNA DOSHII; Architect's record of Aranya
Community Housing; disponibile sul sito
http://archnet.org
VITTORIO GREGOTTI; Ralph Erskine. La progettazione
partecipata 1914-2005; in “Abitare”; n.451; giugno
2005; p.126-130
9.9 HASSAN FATHY
HASSAN FATHY; Costruire con la gente. Storia di un
villaggio d’Egitto: Gourna; Jaca Book; Milano; 1986.
Tit. Orig. Construire avec le people. Historire d’un
village d’Egypte: Gourna; Sindband; 1970
HASSAN FATHY; Hassan Fathy: una sinfonia nella valle
del Nilo; Politecnico di Torino – Scuola di
specializzazione ‘Tecnologia, architettura e città nei
paesi in via di sviluppo’; Torino; 1996
HASSAN FATHY; Architecture for the poor; Chicago
Press; Chicago; 1973.
JAMES STEELE; An architecture for people: the complex
works of Hassan Fathy; Thames and Hudson;
Londra; 1997
JAMES STEELE (A CURA DI); Hassan Fathy; Academy
Edition; Londra; 1988.
CORRADO TROMBETTA; L’attualità del pensiero di
Hassan Fathy nella cultura tecnologica
contemporanea: il luogo, l’ambiente e la qualità
dell’architettura; Rubettino; Soveria Mannelli; 2002.
GOUN BESADA; Hassan Fathy, architetto in Egitto: New
Gourna tra tradizione e innovazione; rel. Annalisa
Dameri; Torino; 2008.
AA.VV; Égypte: nouveau village the Gourna; in
‘Architecture d’aujourd’hui’; ottobre 1968; vol. 39;
n.140; pp.12-17.
FERNANDA DE MAIO; Hassan Fathy; in ‘Casabella’;
luglio 2000; vol. 64; n.680; pp. 48-55.
ALBERTO FARLENGA; ATTILIO PETRUCCIOLI; Hassan
Fathy. What is a city?; in ‘Casabella’; fabbraio 1998;
vol. 62; n.653; pp.52-79.
PHILIPPE GROSCAUX, STEVEN W ASSENAAR; New new
Gourna: the dynamics of intransigence; in ‘Archis’;
2004; n.3; pp.27-33.
JAMES MAUDE RICHARDS; Gourna. A lesson in basic
architecture; in ‘Architectural review’; febbraio 1970;
n.147; pp.109-118
www.hassanfathy.webs.com
9.8 RALPH ERSKINE
PETER COLLYMORE; Ralph Erskine; Alinea; Firenze;
1982
RALPH ERSKINE; Ralph Erskin. Byker Redevelopment ;
Yukio Futagawa; 1980
STEFANO RAY; Ralph Erskine. Architettura di bricolage
e partecipazione; Dedalo; Bari; 1978
ALESSANDRA DE CESARI; Ralph Erskine Architetture da
abitare; in “Industria delle costruzioni”; v.39; n.382;
marzo-aprile 2005; p.4-21
9.10 YONA FRIEDMAN
YONA FRIEDMAN; Pro Domo; Actar Barcellona; 2006.
YONA FRIEDMAN; Utopie realizzabili; Quodibet;
Macerata; 2000. Tit. orig. Utopies réalisables;
L’Éclat; Parigi; 2000.
YONA FRIEDMAN; L’architettura di sopravvivenza: una
filosofia della povertà; Bollati Boringhieri; Torino;
2009. Tit. orig. L’architecture du survie. Une
philosophie de la pauvreté; L’Éclat; Parigi; 19782003.
Yona Friedman; Per un’architettura scientifica; Edizioni
Officina; Roma; 1971. Tit. orig. Pour une architecture
scientifique; Belfort; Parigi; 1971.
YONA FRIEDMAN; L’architettura mobile: verso una città
concepita dai suoi abitanti; Edizioni Paoline; Alba;
1972. Tit. orig L’architecture mobile; Casterman;
Parigi; 1958-1970.
MARIA INES RODRIGUEZ; Arquitectura con la gente, por
la gente, para la gente; Actar; Barcellona-New York;
2011.
MICHAEL K. HAYS, DANA MILLER; Buckminster Fuller.
Starting with the universe; in ‘Harvard design
magazine’; 2008-2009; n.29; p.132-133.
MICHAEL SORKIN, Buckey lives! Why Fuller matters
more today than ever before; in ‘Architectural
record’; novembre 2008; v.196; n.11; p.69-70.
WILLIAM HENTLEY; Buckminster Fuller. Starting with the
universe; in ‘Architectural record’; agosto 2008;
v.196; n.8; p.61-62.
AA.VV.; Auto-construction: brique autogérée; in
‘Architecture d’aujourd’hui’; aprile 1988; pp.77-78
YONA FRIEDMAN; Basic & irregular; in ‘Domus’; giugno
2006; n.893; pp.66-75.
YONA FRIEDMAN; Towards a ‘poor world’, or, how
scarcity might prevent the catastrophe; in
‘Architectural design’; 1974; pp.442-444
YONA FRIEDMAN; Le città come meccanismo; in
‘Casabella’; n.326; luglio 1968; pp.14-25.
YONA FRIEDMAN; Teoria generale della mobilità; in
‘Casabella’; v.30; n. 306; giugno 1966; pp.10-13.
YONA FRIEDMAN; Infrastrutture possibili; in ‘Casabella’;
n. 297; 1965; pp.44-47.
MANUEL ORAZI; Gehry+Friedman: dialogo di utopie; in
‘Abitare’; luglio 2010; n.504; pp. 17-21.
ALBERTO SAIBENE; Le utopie realizzabili di Yona
Friedman; in ‘Abitare’; settembre 2003; n.431; pp.9394.
ALBERT STEVENS; Tecnologie semplici a Madras; in
‘Arca’; febbraio 1990; pp.44-51.
MARCUS FIELD; Future Systems; Phaidon; Londra
1999.
JAN KAPLICKY; Confessions; Wiley-Academy;
Chichester 2002.
JAN KAPLICKY; For inspiration only; Academy Editions;
Chichester 1996.
MARTIN PAWLEY; Hauer-King House: Future System;
Phaidon; Londra 1997.
MARTIN PAWLEY; Future Systems: the story of
tomorrow; Phaidon; Londra 1993.
DEVAN SUDJIC; Future System; Phaidon; Londra 2006.
9.11 RICHARD BUKMINSTER FULLER
9.13 THOMAS HERZOG
JAMES BALDWIN; BuckyWorks: Buckminster Fuller’s
ideas for today; John Wiley; New York; 1996.
RICHARD BUKMINSTER FULLER; Ideas and integrities: a
spontaneous autobiographical disclosure; Lars
Müller; Barden 2010.
RICHARD BUKMINISTER FULLER; Operating manual for
manual spaceship earth; Lars Müller; Baden; 2008.
Tit. orig. Operating manual for manual spaceship
earth; 1969.
RICHARD BUKMINISTER FULLER; Approaching the benign
environment; Collier-Macmillan; London; 1970.
ALESSANDRA BATTISTI; Ambiente e cultura dell’abitare:
innovazione tecnologica e sostenibilità del costruito
nella sperimentazione del progetto ambientale;
Dedalo; Roma; 2000.
THOMAS HERZOG; Solar energy in architecture and
urban planning; Prestel; Munich-New York; 1996.
THOMAS HERZOG, Roland Krippner, Werner Lang;
Atlante delle facciate; UTET; Torino; 2004. Tit. Orig.
Façade construction manual; Detail; Munich; 2004.
CAVALLERO FRANCESCA; Questioni relative alla
bioarchitettura: strategie di controllo ambientale
nell’opera di alcuni architetti; rel. Eugenia Monzeglio,
Mario Grosso; Politecnico di Torino; Torino; ottobre
2002
NORMAN FOSTER, LUIS FERNÁNDEZ GALIANO;
Buckminster Fuller 1895-1983; in ‘AV monografias’;
n.143; maggio-giugno 2010; p.115.
RICHARD KALLWEIT; Dropped out city; in ‘Volume’;
2010; n.24; p.30-33.
9.12 FUTURE SYSTEM
OLIVIER BOISSIÈRE, LYON DOMINIQUE; ‘Non propongo
uno stile’: intervista a Jan Kaplicky; in ‘Arca’; giugno
1988 suppl.; n.17; p.1-2.
JAN KAPLICKY; Green questionnaire: Jan Kaplicky of
Future System; in ‘Architectural design’; luglio 2001;
v.71; n.4; p.34-35.
JAN KAPLICKY; Beauty is the beast: an interview with
Jan Kaplicky of Future System; in ‘Architectural
design’; dicembre 2000; v.70; n.6; p.42-47.
PHILIPPE VERNIER; La struttura madre del futuro; in
‘Arca’; aprile 1987; n.5; p.82-87.
AA. VV.; Thomas Herzog: Solar City, Linz, Austria,
1995; in ‘Lotus International’; n.140; dicembre 2009;
pp.134-139
THOMAS HERZOG; Green questionnaire: Thomas
Herzog of Herzog and Partner interview; in
‘Architectural design’; vol.71; n.4; luglio 2001; pp.7475
LUIGI BISCOGLI, RENATO MORGANTI; Innovazione
tecnologica e architettura: una riconversione edilizia
a Monaco di Baviera; in ‘Industria delle costruzioni’;
vol.24; n.228; ottobre 1990; pp.40-48.
THOMAS HERZOG; ‘Solar quarter’ in Regensburg; in
‘Detail’; vol.39; n.3; aprile 1999; pp.381-385.
THOMAS HERZOG; Solar design; in ‘Detail’; vol.39; n.3;
aprile 1999; pp.359-362.
THOMAS HERZOG A AL; What is ecology to you?; in
‘A+U: architecture and urbanism’; n. 5(320); Maggio
1997; pp.14-33.
Vittorio Magnago Lampugnani; Thomas Herzog,
Michael Volz: casa per abitazione; in ‘Domus’,
febbraio 1991; pp.40-47.
Domizia Mandolesi; Risparmio energetico e sapienza
costruttiva in una casa a Pullach; in ‘Industria delle
costruzioni’; vol.26; n.254; dicembre 1992; pp.68-69.
Renato Morganti; Architetture solari. Due esperienze di
Thomas Herzog; maggio 1987; pp.29-54.
Walter Zschokkle; Design Center, Linz, Austria; in
‘Domus’; n.759; aprile 1994; pp.26-34.
9.14 PETER HÜBNER
PETER BLUNDELL JONES; Peter Hübner. Building as a
social process; Edition Axel Menges; Londra 2007.
GIANLUCA MINGUZZI, Gemeindezentrum Ludesch.
Sustainable building, in ‘Architettura sostenibile’,
2008, pp.21-26.
SEBASTIANO BRANDOLINI; Voralberg. Due modelli in
uno; in ‘Ottagono; n.213; 2008; pp.178-181.
HERMANN KAUFMANN; Community Centre in Ludesch;
in ‘Detail’; n.6; 2007; pp.657-662.
HERMANN KAUFMANN; Il legno, un material universale;
in “Detail”; vol. 44; n.1-2; gennaio 2004; pp. 12-16.
DIETMAR STEINER; Going backwards towards the
future; in ‘Ottagono’; vol.20; n.39; marzo 1988;
pp.20-39.
www.hermann-kaufmann.at/
9.16 DIEBEDO FRANCIS KÉRÉ
MARIE HÉLÈNE CONTAL, JANA REVEDIN; Progettare la
Sostenibilità. I maestri di una nuova architettura;
Edizioni Ambiente; 2009.
DIÉBÉDO FRANÇIS KÉRÉ; Diébédo Françis Kéré: fare
architettura in Africa; Foschi; Forlì; 2010
LAURA BOSSI; School in Dano, Burkina Faso; in
‘Domus’; n.927; luglio 2009.
ADRIANO PAOLELLA; Architettura sostenibile e laterizio.
Criteri, tecniche, esempi. 35 proposte nel mondo;
Edizioni Ambiente; 2009.
CHATERINE SLESSOR; Primary school, Gando, Burkina
Faso: Diébedo Francis Kéré; in ‘Architectural review’;
v.266; n.1352; ottobre 2009; p.66-69.
Learning from the earth: primary school, Gando,
Burkina Faso, West Africa; in ‘Architectural review’;
v.217; n.1295; gennaio 2005; p.66-68.
DIEBEDO FRANCIS KÉRÉ; Passo dopo passo. Edifici
sostenibili per l’Africa; intervista; 2009; disponibile
sul sito http://laboratorio09.wordpress.com/franciskere/
9.15 HERMANN KAUFMAN
MARIE HÉLÈNE CONTAL, JANA REVEDIN; Progettare la
Sostenibilità. I maestri di una nuova architettura;
Edizioni Ambiente; 2009
GERHARD HAUSLADEN; Climate Skin: building-skin
concepts that can do more with less; Basel; Boston;
2006.
OTTO KAPFINGER; Hermann Kaufmann wood works:
architecture durable; Springer; New York; 2009.
OTTO KAPFINGER; Architecture in Voralberg since 1980:
a guide to 260 noteworthy buildings; Kunsthaus
Bregenz Vorarlberger Architektur Institut; 1999.
AA.VV; ‘Il sistema costruttivo flessibile’: architettura per
la produzione in serie in Voralberg; in ‘Detail’; vol.
41; n.4; giugno 2001; pp.628-629
9.17 LUCIEN KROLL
LUCIEN KROLL; Tutto è paesaggio; Universale di
Architettura; Testo & Immagine; Torino; 1999.
LUCIEN KROLL; Ecologie urbane; Franco Angeli; Milano;
2001.
PETER BLUNDELL-JONES; 3 kinds of participation; in
‘Architectural review’; v.181; n.1081; marzo 1987;
p.60-67.
PETER
BLUNDELL-JONES;
Infection
Kroll,
in
‘Architectural review’; v.183; n.1094; aprile 1989;
p.12.
PETER BLUNDELL-JONES; Kroll drama; in ‘Architectural
review’; v.186; n.1113; novembre 1989; p.55-58.
ALESSANDRO D’ONOFRIO; Intervista a Lucien Kroll; in
‘Rassegna di architettura e urbanistica’; v.35; n.105;
settembre-dicembre 2001; p.79-89.
NADIA HOYET, JEAN-MICHEL HOYET; Lucien Kroll:
l’architecture du paysage ou la logique du vivant; in
‘Techniques et architecture’; n.360; giugno-luglio
1985; p.86-95.
HANS IBELING; Nei paesi bassi, sei quartieri abitativi
modello; in ‘Casabella’; v.57; n.603; luglio 1993;
pp.24-35
LUCIEN KROLL; Conferme e perplessità nell’itinerario di
Lucien Kroll; in ‘Architettura’; v.40; n.463(5); maggio
1994; p.322-366
LUCIEN KROLL; Intervista a Lucien Kroll; in
‘Architettura’; v.41; n.11(488); 1995; p.373-37.
LUCIEN KROLL; Non più architettura a “tabula rasa” ma
“ad hoc”; in ‘Architettura’; v.43; n.503-506; p.412417.
LUCIEN KROLL; Lucien Kroll: in cerca di disordine; in
‘Spazio e società’; v.22; n.91; luglio-settembre 2000;
p.10-29.
MARTINO MITILIERI; Due progetti; in ‘Rassegna di
architettura e urbanistica’; v.35; n.105; settembredicembre 2001; p.96-103.
SEBASTIAN NIEMANN; Lucien Kroll ou l’architecture sans
maître; in ‘Architecture d’aujourd’hui’; n.368;
gennaio-febbraio 2007; p.92-99.
GIANMICHELE PANARELLI; Lucien Kroll e il recupero del
patrimonio
edilizio
sociale:
dall’innovazione
tecnologica all’innovazione sociale; in ‘Rassegna di
architettura e urbanistica’; v.35; n.105; settembredicembre 2001; p.48-55.
TONY SCHUMAN; La réhabilitation de la ZUP de
Perseigne a Alençon: participation prise de pouvoir
et urbanism; in ‘Annales de la recherche urbaine’;
n.44-45; dicembre 1989; p.40-48, 248-249, 251.
STEPHANIE WILLIAMS; Ecological Architecture of Lucien
Kroll; in ‘Architectural review’; v.165; n.984; p.94101.
9.18 GIANCARLO MAZZANTI
BETH BROOME; Giancarlo Mazzanti builds an icon to
foster optimism in Medellín, Colombia, with his
Parque Biblioteca Espajna; in ‘Architectural record’;
v.196; n.11; novembre 2008; p.138-147.
FABRIZIO GALLANTI, PILAR QUINTANA; Le rocce della
speranza; in ‘Abitare’; n.482; p.62-77.
GIANCARLO MAZZANTI; L’architettura nella
trasformazione sociale di Medellín; in ‘Lotus
International’; n.145; marzo 2011; p.24-37.
GIANCARLO MAZZANTI, FELIPE MESA, CATELIJNE
NUIJSINK; La forza del pubblico; in “Abitare”; n.504;
luglio-agosto 2010; p.58-71.
MIGUEL MESA; A Medellín, Colombia, un gruppo di
architetti con le idee chiare elabora un menifesto per
cambiare le sorti della città; in ‘Domus’; n.937;
giugno 2010; p.50-66.
9.19 RENZO PIANO
ALBAN BENSA; Ethnologie & architecture: Nouméa
Nouvelle-Calèdonia; Société nouvelle Alan Biro;
Parigi 2000.
L. CARDELLICCHIO; I laboratori di quartiere; in Renzo
Piano; Le città visibili; FULVIO IERACE (a cura di);
catalogo della mostra; Triennale di Milano 21
maggio-16 settembre 2007; Electa; Milano 2007;
pp.107-111.
DARIA DE SETA; Saper credere in architettura:
cinquanta domande a Renzo Piano; CLEAN; Napoli
2000.
RENZO PIANO; ROBERTO BRIGNOLO (a cura di); Renzo
Piano: giornale di bordo; Passigli; Firenze 2005.
RENZO PIANO; La responsabilità dell’architetto:
conversazione con Renzo Cassigoli; Passigli 2004.
AA.VV.; Being Renzo Piano; in ‘Abitare’; novembre
2009; n.497.
FABRIZIO BONOMO; Il verde assume rilevanza urbana;
in ‘Arca’; maggio 1988; suppl; n.16; p.4.
HINANCHU BURTE; Renzo Piano. Interview.; in
‘Architecture + design’; maggio-giugno 2002; v.19;
n.3; p.113-115.
ALBAN BENSA; Piano: Noumèa, entre deux mondes; in
‘Architecture d’aujourd’hui’; dicembre 1996; n.308;
p.44-57.
PETER BUCHANAN; Natural workshop; in ‘Architectural
review’; settembre 1995; v.198; n.1183; p.76-80.
BENEDETTO CAMERANA; Autoidentità; in ‘Arca’; marzo
2000; n.146; p.14-17.
FRANÇOIS CHASLIN; Renzo Piano: centro culturale
canaco di Nouméa; in ‘Domus’; ottobre 1996; n.786;
p.41-48.
FRANCESCO DAL CO; Renzo Piano: Zentrum Paul Klee,
Berna, Svizzera; in ‘Casabella’; luglio-agosto 2005;
v.69; n.735; p.58-80.
CHARLOTTE ELLIS; Parisian Green; in ‘Architectural
review’; marzo 1992; v.190; n.1141; p.35-40.
JOANN GONCHAR; Let the (indirect) sun shine in; in
‘Architectural record’; maggio 2008; v.196; n.5;
p.238-247.
CHARLES GRIFFITH, JESSICA STRAUSS; Sustainable
design: great expectation; in ‘Oculus’; 2008; v.70;
n.2; p.47-50.
FULVIO IERACE; L’onda di Klee; in ‘Abitare’ settembre
2005; n.453; p.123-135.
FULVIO IERACE; Renzo Piano a Nouméa: Centro
culturale Jean Marie Tjibaou; in ‘Abitare’; maggio
1998; n.373; p.155-161, 215.
BILL MILLARD; Green commercial interiors: once an
option, soon the norm; in ‘Oculus’; 2007; v.69; n.1;
p.34-37.
RIICHI MIYAKE, WILLIAM VASSAL; Renzo Piano Building
Workshop: Cultural Center Jean Marie Tjibaou,
Nouméa, New Caledonia, 1994-1998; in ‘A+U’;
agosto 1998; n.8(335); p.80-111.
CLIFFORD PEARSON; Renzo Piano design a living
breathing building in San Francisco’s Golden Gate
Park for the California Academy of Science; in
‘Architectural Record’; gennaio 2009; v.197; n.1;
p.58-69.
RENZO PIANO; Psicologia, percezione, emozione:
quanto influiscono sul progetto?; in ‘Abitare’; aprile
2009; n.491; p.44-59.
RENZO PIANO; Centro Culturale Jean Marie Tjibaou,
Nouméa, Nuova Caledonia; in ‘Architettura’; luglioagosto 1998; v.44; n.513-514; p.414-426.
ALESSANDRO ROCCA; Oltre la tecnica; in ‘Lotus
International’; 1999; n.99; p.32-51.
ALESSANDRO ROCCA; Renzo Piano: Noumea, Paris; in
‘Lotus International’; n.83; 1994; p.42-55.
9.20 UGO SASSO
UGO SASSO; Spazio, tempo, bioarchitettura: strategie,
percorsi e metodi di buona progettazione; Alinea;
Firenze 2009.
UGO SASSO (a cura di); Il nuovo manuale europeo di
bioarchitettura; Mancosu; Roma 2008.
UGO SASSO (a cura di); Riflessi di bioarchitettura;
Alinea; Firenze 2007.
UGO SASSO, GIOVANNI GALANTI (a cura di); Saper
credere in architettura. Quaratasette domande a Ugo
Sasso; CLEAN; Napoli; 2003.
Ugo Sasso (a cura di); Bioarchitettura: glossario;
Epiquadro Editoria; Torino 2000.
UGO SASSO; Bioarchitettura: verso un’edilizia
ecologica; in ‘Industria delle costruzioni’; maggio
1993; v.27; n.259; p.69-72.
9.21 RURAL STUDIO
MARIE HÉLÈNE CONTAL, JANA REVEDIN; Progettare la
Sostenibilità. I maestri di una nuova architettura;
Edizioni Ambiente; 2009.
SAMUEL MOCKBEE; University-community design
partnerships: innovations in practice; National
Endowment for the Arts; Washington; 2002.
SAMUEL MOCKBEE; Samuel Mockbee and the Rural
Studio: Community Architecture; Birmingham
Museum of Art; 2003.
ANDREA OPPENHEIMER DEAN, TIMOTHY HURSLEY;
Proceed and be Bold. Rural Studio after Samuel
Mockbee; Princeton Architectural Press; New York;
2005.
ANDREA OPPENHEIMER DEAN, TIMOTHY HURSLEY; Rural
Studio. Samuel Mockbee and an architecture of
decency; Princeton Architectural Press; New York;
2002.
AA.VV; Rural Studio: Lions Park, Greensboro, Hale
County, Alabama, 2005-10; in ‘Lotus International’;
n.145; marzo 2011; pp.54-63.
AA.VV; Rural Studio: Roundwood House, Greensboro,
Alabama, 2007-08; in ‘Lotus International’; n.140;
dicembre 2009; pp.18-21.
GIACOMO BORELLA; Rural Studio. Intervista con Andrew
Freear; in ‘Lotus international’; 2005; n.124; p.116123
LAURA BOSSI; Studiare sul campo; in “Domus”; n.860;
2003; p.29.
ANDREA OPPENHEIMER DEAN; Keeping the spirit alive by
moving ahead: four years after Mockbee’s death, the
Rural Studio has a new group of buildings to show
off; in ‘Architectural Record’; v.194; n.3; marzo 2003;
pp.76-80.
ANDREA OPPENHEIMER DEAN; The hero of Hale County:
Sam Mockbee interview; in ‘Architectural Record’;
v.189; n.2; febbraio 2001; pp.76-82.
FEDERICO DE MATTEIS; Rural Studio. L’architettura
della decenza; in ‘Hortus’; disponibile sul sito
http://www.vg-hortus.it
ANNA FOPPIANO; Rural Studio. Taboo Landscape; in
‘Abitare’; n.455; novembre 2005; p.150-159.
JOHN FORNEY; Learning in Newbern: Rural Studio in
year ten; in ‘Architectural design’; vol.75, n.4, luglio
2005; pp.92-95.
ROB GREGORY, CATHERINE SLESSOR; Community:
architecture for public institution becomes of society;
in ‘Architectural review’; v.223; n.1335; maggio 2008;
pp.50-59.
PETER KELLY; Rural Studio, Alabama; in ‘Blueprint’;
n.274; gennaio 2009; pp.32-38.
SAMUEL MOCKBEE; The Rural Studio; in ‘Architectural
design’; v.68, n.7-8; luglio 1998; pp.72-79.
LISA NICHOLSON; Rural Studio, Alabama: architettura
per l’emarginazione. Gli studenti costruiscono per i
poveri della “black belt”; in ‘Casabella’; v.63; n.668;
giugno 1999; p.38-43.
VERONIQUE PENY; Miracle en Alabama: Rural Studio
au securs des pauvres; in ‘Architecture d’aujour’hui’;
n.372; settembre 2007; pp.70-73.
CATHERINE SLESSOR; Narrow margins: student-led US
practice Rural Studio’s latest low-cost house
prototype makes a virtue of estreme economy; in
‘Architectural review’; v.225; n.1344; febbraio 2009;
p.25-27.
CATHERINE SLESSOR; Southern comfort: fire station,
Newbern, Alabama, USA; in ‘Architectural review’;
v.220; n.1314; agosto 2006; p.66-69.
CATHERINE SLESSOR; Wing and a prayer: church, Perry
Country, Alabama, USA; in ‘Architectural review’;
v.214; n.1281; novembre 2003; p.88-89.
CATHERINE SLESSOR; Rural alliance: two community
projects, Alabama, USA; in ‘Architectural review’;
v.212; n.1269; novembre 2002; p.49-55.
CATHERINE SLESSOR; Home run: baseball field,
Newbern, USA; in ‘Architectural review’; v.211;
n.1264; giugno 2002; p.34-35.
CATHERINE SLESSOR; Community care: community
centre, Masons Bend, Alabama, USA; in
‘Architectural review’; v.209; n.1249; marzo 2001;
pp.60-61.
CATHERINE SLESSOR; Chapel of ease; in ‘Architectural
review’; v.202; n.1205; luglio 1997; pp.20-21.
http://samuelmockbee.net
PAOLO SOLERI; Technology and cosmogenesis;
Paragon House; 1985.
PAOLO SOLERI; The Omega Seed: an eschatological
hypotesis; Anchor Press; Doubleday; 1981.
PAOLO SOLERI; Arcology: the city in the image of man;
MIT Press; Cambridge; 1969.
PAOLO SPINELLI; Paolo Soleri. Paesaggi
tridimensionali; Marsiglio; Venezia; 2006.
BRUNO ZEVI; Linguaggi dell’architettura
contemporanea; Etas; Milano; 1993.
9.22 CARIN SMUTS
MARIE HÉLÈNE CONTAL, JANA REVEDIN; Progettare la
Sostenibilità. I maestri di una nuova architettura;
Edizioni Ambiente; 2009.
GRÉGORIE ALLIX; L’architetto delle township del
Sudafrica; in ‘Il Magazine dell’Architettura’; n.14;
novembre 2008; p.24; tratto da “Le Monde”; Parigi; 6
ottobre 2008; tradotto da Jaime Riera Rehren.
STEFANIA DE FUSCO; Se i muri potessero parlare; in ‘Il
Magazine dell’Architettura’; n.14; novembre 2008;
pp.29-30; tratto da “The Times of Johannesburg”; 31
agosto 2008.
CÉLINE GALOFFRE; Un premio per l’architettura
partecipativa; in ‘Il Magazine dell’Architettura’; n.14;
novembre 2008; pp.25-28; tratto da
www.batiactu.com; Parigi; 22 settembre 2008;
tradotto da Jaime Riera Rehren.
SABINE MARSCHALL; Architecture as empowerment: the
participatory approach in contemporary architecture
in South Africa; in www.transformation.ukzn; tratto
da ‘Transformation’; n.35; 1998; pp.103-123.
FRAN SAUNDERS; Women in architecture; in
‘Architecture SA’; n.3-4; marzo-aprile 1993; p.24-38.
CARIN SMUTS; Multi-Purpose Centre; in ‘Lotus
International’; n.145; marzo 2011; p.74-77.
JESPER STRUDHORM; Community builder: South
Africa’s Carin Smuts is trasforming some Cape
Town’s most dangerous townships; in “Azure”; v.25;
n.191; maggio 2009; p.58-63.
FRANÇOIS BURKHARDT; Paolo Soleri: trentacinque anni
dopo una visita a Cosanti; in ‘Domus’; febbraio 1999;
n.812; p.44-47.
LINA MALFONA; Paolo Soleri, costruttore di sogni; in
‘Industria delle costruzioni’; settembre-ottobre 2009;
v.43; n.409; p.96-99.
ALESSANDRO PETTI; Intervista a Paolo Soleri; in
‘Parametro’; gennaio-febbraio 2003; n.243; p.10-11.
LUIGI SPINELLI; Earth mother; in ‘Domus’; ottobre 2008;
n.918; p.117-121.
9.24 SIM VAN DER RYN
HELGA OLKOWSKI; The integral urban house: self-reliant
living in the city; Sierra Club Books; San Francisco;
1979.
DAVID MOFFAT; The coming ecologic epoch: Sim Van
der Ryn at EDRA; in ‘Places’; 2007; v.19; n.2; p.8283.
SIM VAN DER RYN; Architecture douce; in ‘Architecture
d’aujourd’hui’; 1975; maggio-giugno 1975; n.179;
p.1-68.
SIM VAN DER RYN; Natural Architecture; in ‘Architectural
design’; gennaio 1974; v.44; n.1; p.9-10.
GEORGE SNYDER; Rendering Soul into Our Structure; in
‘TerraMarin’; marzo-giugno 2008; p.11.
CHERYL W EBER; Sim Van der Rym; in ‘Residential
Architect’; novembre-dicembre 2005; p.57-62.
9.23 PAOLO SOLERI
ANTONIETTA IOLANDA LIMA; Per un’architettura come
ecologia umana: studiosi a confronto; Jaca Book;
Milano 2010.
ANTONIETTA IOLANDA LIMA (a cura di); Soleri: la
formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti
di architettura; Flaccovio; Palermo 2009.
ANTONIETTA IOLANDA LIMA; Per la sinergia tra uomo e
pianeta: laurea honoris causa a Paolo Soleri;
Università degli studi di Palermo; Palermo 2001.
ANTONIETTA IOLANDA LIMA; Soleri: architettura come
ecologia umana; Jaka book; Milano 2000.
PAOLO SOLERI, KATHLEEN RYAN (a cura di); Itinerario di
architettura: antologia degli scritti; Jaca Book; Milano
2003.
www.vanderryn.com
www.ecodesign.org
9.25 JAMES WINES
SITE; Site; Rizzoli; New York; 1989.
JAMES WINES; Green architecture; Taschen; Köln;
2000.
JAMES WINES, FULVIA ANGRISANO (a cura di); Saper
credere in architettura. Ventidue domande a James
Wines president of SITE; CLEAN; Napoli 1999.
JAMES WINES; De-architecture; Rizzoli; New York;
1987.
JAMES WINES; Une pensée environnementale; in
‘Architecture d’aujourd’hui’; settembre 1998; p.60-62.
9.26 KEN YEANG
TENGKU ROBERT HAMZAH; T.R. Hamzah and Yeang:
selected works; Images; Mulgrave 1998.
ROBERT POWELL; Ken Yeang: rethinking the
environmental fileter; Landmark; Singapore 1989.
KEN YEANG; Dictionary of eco design: an illustrate
reference; Routledge; Londra-New York 2010.
KEN YEANG; Ecomasterplanning; Wiley; Chichester
2009.
KEN YEANG; Ecodesign: a manual for ecological
design; Wiley; Londra 2006.
KEN YEANG; Reinventing the skyscraper: a vertical
theory of urban design; Wiley-Academy; Chichester
2002.
KEN YEANG; The green skyscraper: the basis for
designing sustainable intensive; Prestel; Londra
1999.
KEN YEANG; Designing with nature. The ecological
basis for architectural design.; Mc Graw; New York;
1987.
KEN YEANG; Tropical urban regionalism; Mimar book;
Singapore 1987.
HELEN CASTLE; Reconciling the irreconciliable? The
architecture of Ken Yeang; in ‘Architectural design’;
gennaio-febbraio 2004; v.74; n.1; p.51-57.
PETER DAVEY; Green on show; in ‘Architectural review’;
febbraio 1999; v.205; n.1224; p.52-55.
KEN JEANG; Yeang’s eco files: power plants; in
‘Architectural design’, maggio-giugno 2007, n.3,
p.130-131
KEN YEANG; Green questionnaire: Ken Yeang; in
‘Architectural design’; luglio 2001; v.71; n.4; p.60-61.
ROBERT POWELL; Tropical umbrella: offices, Penang,
Malaysia; in ‘Architectural review’; maggio 2004;
v.215; n.1287; p.68-70.
CNN; Q&A. Ken Yeang interview; luglio 2007.