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ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I
(corso A-L, Prof. Carlo Granelli)
SEMINARIO III – 15.4.2010
I modi di acquisto della proprietà
MATERIALI
1. invenzione (Cass., sez. I, 11 agosto 2000, n. 10687)…………………………………………p. 1;
2. specificazione (Cass., sez. II, 12 dicembre 1991, n. 13399)………………………………...p. 4;
3. accessione invertita (Cass., sez. II, 04-03-2005, n. 4774)…………………………….…….. p. 8.
4. esercizio………………………………………………………………………………………p. 11.
invenzione
Cassazione civile , sez. I, 11 agosto 2000, n. 10687
Il premio dovuto al ritrovatore di cosa mobile deve essere riconosciuto, ai sensi dell'art. 930,
commi primo e secondo, cod. civ., ogni volta il bene rinvenuto abbia in sè un valore economico e,
quindi, un'ovvia utilità per chi il bene stesso abbia smarrito ed, ai sensi del terzo comma della
stessa disposizione normativa, qualora il ritrovamento abbia comunque una qualche utilità, anche
di natura non economica, per il proprietario o detentore; utilità da determinarsi non in base a
valutazioni soggettive di chi il bene abbia smarrito, ma in base a valutazioni di ordine oggettivo e
generale (nella specie, l'economo di un Comune aveva smarrito un assegno bancario tratto per
un'ingente somma di danaro; il ritrovatore aveva restituito al Comune il titolo di credito, chiedendo
il premio normativamente previsto; il titolo stesso veniva incassato, ma l'Ente si rifiutava di
concedere il premio sul presupposto che, una volta fatta la denuncia alla banca, l'assegno non
poteva più essere incassato e che, quindi, nessuna utilità poteva derivare dal suo ritrovamento. La
S.C., nel confermare la sentenza impugnata che aveva riconosciuto il premio al ritrovatore, ha
ritenuto che tale utilità poteva essere riscontrata nel fatto che, prima della procedura di
ammortamento, il titolo poteva continuare a girare, esponendo il possessore alla responsabilità per
danni subiti da terzi in buona fede).
Fatto
Il sig. Renato Mazzoni, economo del Comune di Orvieto, nel percorrere il tratto di strada che corre
fra il suo ufficio e la sede centrale della Cassa di Risparmio di Orvieto, smarriva un assegno
bancario
dell'importo
di
L.
100.875.700.
Accortosi dello smarrimento provvedeva immediatamente a chiedere alla banca il blocco del titolo;
contestualmente la sig.na Simona Palazzetti rinveniva nell'atrio dell'Ufficio tributi del Comune di
Orvieto
il
titolo
smarrito,
che
provvedeva
a
restituire
all'avente
diritto.
Il
titolo
veniva
incassato
dall'economo
del
Comune.
La Palazzetti chiedeva quindi il pagamento del premio previsto dall'art. 930 c.c. e, ottenuta risposta
negativa, conveniva avanti al Pretore di Orvieto il Comune omonimo per sentirlo condannare al
pagamento della somma di L 5.043.785, ai sensi dell'art. 930 II comma c.c., ovvero della somma
ritenuta equa dal giudice, ai sensi del III comma dello stesso articolo.
Con sentenza in data 13.5.1997 il Pretore di Orvieto respingeva la domanda.
Proponeva appello Simona Palazzetti ed il Tribunale di Orvieto, con sentenza in data 22.7.1998,
accoglieva la domanda attrice e condannava il Comune di Orvieto a pagare all'appellante la somma
di
L
2.000.000,
oltre
agli
interessi
dalla
domanda.
Ricorre per la cassazione della sentenza del Tribunale di Orvieto il Comune omonimo, con ricorso
fondato
su
due
motivi.
Resiste con controricorso Simona Palazzetti.
Diritto
1. Con il primo motivo il Comune ricorrente deduce, in relazione all'art. 360 nn 3 e 5 c.p.c.,
violazione e falsa applicazione degli artt. 927 e 930 c.c., nonché difetto di motivazione su un punto
rilevante
della
vertenza.
Assume l'Amministrazione ricorrente che il Tribunale di Orvieto ha omesso totalmente di motivare
in ordine all'utilità che il ritrovamento dell'assegno poteva avere per il soggetto che l'aveva smarrito,
posto che a seguito della denunzia di smarrimento fatta alla banca, l'assegno non poteva più essere
1
incassato.
Accertato che il titolo non poteva essere incassato e che nessuna utilità poteva derivare dal suo
ritrovamento al soggetto che l'aveva smarrito, il giudice di merito avrebbe dovuto respingere 1'
appello,
confermando
la
decisione
di
primo
grado.
Il
motivo
è
(interpretazione della norma)
infondato
e
va
pertanto
respinto.
Al riguardo si osserva che l'art. 927 c.c. stabilisce in via generale che colui che ritrovi una cosa
mobile altrui deve restituirla al proprietario e l'art. 930 c.c. che il proprietario a sua volta è tenuto a
corrispondere
al
ritrovatore
un
premio.
Dal combinato disposto delle norme su riportate si può quindi desumere, in via di prima
approssimazione, che il premio è dovuto qualora sia rinvenuto un bene che uscito dalla sfera di
immediata vigilanza del proprietario o possessore e non sia da questi rinvenibile, se non a seguito di
ricerche
dall'esito
incerto.
Il primo problema che in dottrina e in giurisprudenza, sopratutto di merito, si è posto è se il premio
sia sempre dovuto, a prescindere dal valore commerciale del bene rinvenuto e dall'utilità che dal
bene stesso possa ricavare il proprietario, o se di tali elementi si debba tenere conto.
Al riguardo si osserva che la ratio dell'art. 930 c.c. è certamente quella di indurre i consociati a
cooperare al fine di limitare i danni che i proprietari o detentori possano subire in conseguenza dello
smarrimento del bene, ( Cass. civ. 13.11.1982 n. 6060 ) come si desume dall'espressione " chi trova
una cosa mobile deve restituirla al proprietario" contenuta nell'art. 927 c.c. e dall'espressione "il
proprietario deve pagare a titolo di premio al ritrovatore" contenuta nell'art. 930 c.c. talché si
potrebbe ritenere in base al solo esame del contenuto letterale degli articoli citati, che ciò che rileva
è la cooperazione, il servizio prestato, a prescindere da ogni interesse del proprietario, posto che
l'interesse potrebbe individuarsi nel retto vivere sociale perseguito dal legislatore.
Siffatta interpretazione della normativa in esame non sembra però rispondere ad un corretto
bilanciamento dell'interesse di chi il bene abbia ritrovato e di chi il bene stesso abbia smarrito,
considerato che la remunerazione del servizio non può prescindere dall'utilità del servizio stesso per
chi lo riceva, posto che una diversa interpretazione potrebbe rivolgersi in danno del proprietario o
detentore che si vedrebbe esposto all'obbligo di corrispondere un premio, anche per il ritrovamento
di un bene smarrito, di nessun valore commerciale e di nessuna utilità.
Si deve pertanto ritenere, più riduttivamente, che il premio debba essere riconosciuto al ritrovatore,
ai sensi dell'art. 930 I e Il comma c.c., ogni qual volta il bene rinvenuto abbia in sè un valore
economico e quindi un'ovvia utilità per chi il bene stesso abbia smarrito, ed ai sensi dell'art. 930 III
comma c.c. qualora il ritrovamento abbia comunque una qualche utilità, anche non di natura
economica per il proprietario o detentore, utilità da determinarsi non in base a valutazioni
soggettive di chi il bene abbia smarrito, ma in base a valutazioni di ordine generale.
(applicazione al caso concreto)
In particolare, venendo al caso di specie, nell'ipotesi di smarrimento dei titoli di credito
regolarmente girati, il valore commerciale del titolo e l'utilità del ritrovamento devono certamente
ritenersi inesistenti qualora il ritrovamento avvenga dopo la conclusione della procedura di
ammortamento del titolo, mentre non può escludersi quanto meno l'interesse del possessore del
titolo alla sua riconsegna, fino a che detta procedura non sia stata completata.
Infatti la semplice denunzia alla banca dello smarrimento non esclude la possibilità che il titolo
continui a circolare, munito di una serie di girate, sia pure illegittimamente apposte, e che al
possessore, che non abbia eseguito la procedura di ammortamento, che sola estingue ogni efficacia
2
dell'assegno, possa essere attribuita una responsabilità extracontrattuale per danni subiti da terzi di
buona
fede,
proprio
a
causa
della
circolazione
del
titolo.
Inoltre, in base all'art. 70 R.D. 21.12.1933 n. 1736, malgrado la denunzia, il pagamento
dell'assegno, prima della notifica del decreto di ammortamento, libera il trattario.
Pertanto il ritrovamento e la consegna del titolo, prima dell'espletamento dell'intera procedura di
ammortamento, riveste comunque l'utilità oggettiva di escludere la necessità della procedura di
ammortamento, altrimenti necessaria, come detto, sia per togliere ogni efficacia all'assegno, sia per
consentire al legittimo titolare del titolo di incassare presso il trattario la relativa somma, ai sensi
dell'art.69
e
segg.
R.D.
n.
1736-1933.
Il Tribunale, avendo accertato in fatto, che il titolo aveva perso il suo valore commerciale, a seguito
della denunzia di smarrimento, presentata alla banca dall'economo del Comune di Orvieto, punto
non censurato, ha ritenuto comunque dovuto il premio, evidentemente per presupposta l'utilità del
ritrovamento,
ipotizzabile
per
i
motivi
esposti.
Pertanto avendo il Tribunale implicitamente accertato l'utilità del ritrovamento, che non coincide
con il valore commerciale del titolo, va confermata sul punto l'impugnata sentenza, integrata con le
argomentazioni in precedenza svolte la motivazione della sentenza stessa, il cui dispositivo è
conforme
a
diritto.
Il
primo
motivo
va
quindi
respinto.
2. Con il secondo motivo l'Amministrazione ricorrente censura l'impugnata sentenza per violazione
e falsa applicazione dell'art. 930 Il e III comma c.c., nonché per contraddittorietà della motivazione,
in
relazione
all'art.
360
nn.
3
e
5
c.p.c.
Rileva al riguardo il Comune di Orvieto che il Tribunale, dopo avere affermato che l'assegno non
aveva più alcun valore commerciale e che quindi il premio doveva essere liquidato in base al III
comma dell'art. 930 c.c., ha poi motivato il quantum del premio in riferimento al valore
dell'assegno, con ciò venendo ad utilizzare in parte anche il II comma dello stesso articolo.
Il motivo è infondato e va pertanto respinto.
Invero il Tribunale di Orvieto ha testualmente precisato che il premio "dovrà essere corrisposto
secondo i parametri di cui allo art. 930 III comma e non 930 II comma" con ciò chiarendo al di là di
ogni
ragionevole
dubbio
quale
fosse
la
norma
applicata.
Il successivo riferimento all'ammontare dell'assegno è stato infatti effettuato all'unico fine di
indicare un parametro dello adottato giudizio di equità, ma certamente non per liquidare
l'ammontare del premio in base al valore dell'assegno, come stabilito dallo art. 930 II comma c.c., la
cui applicazione avrebbe comportato del resto una liquidazione sensibilmente superiore.
Il
ricorso
va
pertanto
interamente
respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M
respinge il ricorso e condanna il Comune di Orvieto al pagamento delle spese del giudizio di
cassazione di cui L. 150.000 per esborsi e L 1.200.000 per onorari.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, in data 8 maggio.2000
3
Specificazione
Cassazione civile, sez. II, 12 dicembre 1991, n. 13399
La specificazione, che è un modo di acquisto della proprietà, consistente nella trasformazione di
una materia in un oggetto avente una propria distinta individualità economico - sociale, non può
concretarsi solo nella originale disposizione della cosa ideata e realizzata per raggiungere un
particolare effetto. (Nella specie, in base all'enunciato principio la C.S. ha confermato la decisione
dei giudici del merito che aveva escluso l'acquisto per specificazione con riguardo all'opera
"Olivestone", realizzata da Joseph Beuys per la collocazione di cinque vasche di pietra, utilizzate
dai contadini abruzzesi per fare decantare l'olio, nelle ricche sale di un castello, in modo da fare
risaltare il contrasto).
Fatto
Dopo aver chiesto e ottenuto dal presidente del Tribunale di Pescara autorizzazione del sequestro
giudiziario di un'opera costituita da cinque vasche di pietra, realizzata da Joseph Beuys e da lei
concessa in comodato al Castello di Rivoli, Lucrezia De Domizio Durini, eseguita la misura
cautelare, conveniva dinanzi a quel Tribunale, con atto notificato il 6 ottobre 1986, il "Castello di
Rivoli - Comitato per l'art. in Piemonte", in persona del suo legale rappresentante, chiedendo la
condanna del convenuto alla restituzione dell'opera ("Olivestone") e al risarcimento del danno,
nonché
la
convalida
del
sequestro.
Costituitosi in giudizio, il Comitato contestava il fondamento della domanda, precisando di non
aver proceduto alla restituzione dell'opera, in quanto gli eredi dell'autore gli avevano comunicato di
esserne
i
proprietari.
Interveniva volontariamente in giudizio la vedova Eva Beuys rivendicando la proprietà dell'opera.
Veniva,
a
sua
richiesta,
autorizzato
altro
sequestro
giudiziario.
Il Tribunale, con sentenza 3 ottobre 1987, condannava il Castello di Rivoli a restituire l'opera alla
De Domizio, nonché a risarcirle i danni, e convalidava il primo sequestro. Peraltro, pronunciando
non definitivamente con la stessa sentenza, convalidava anche il secondo sequestro, disponendo in
ordine al prosieguo del processo nei rapporti tra la Beuys e la De Domizio.
Con sentenza definitiva 11 maggio 1988 il Tribunale rigettava la domanda svolta in intervento dalla
Beuys, dichiarava l'inefficacia del secondo sequestro, rigettava anche la domanda riconvenzionale
di risarcimento dei danni e condannava la Beuys a rimborsare alla controparte le spese del giudizio.
Contro tale sentenza interponeva appello la Beuys nei confronti della De Domizio.
Costei
resisteva
al
gravame,
chiedendone
il
rigetto.
Con sentenza 9 maggio - 30 giugno 1989 la Corte di appello dell'Aquila rigettava l'appello,
confermando
la
sentenza
impugnata.
Condannava
l'appellante
a
rimborsare
all'appellata
le
spese
del
grado.
La Beuys ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, successivamente illustrati con
memoria.
Ha resistito con controricorso la De Domizio Durini.
Diritto
1. Con il primo motivo, denunciando "violazione e falsa applicazione di norme di legge; omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia in ordine alla rivendica dell'opera d'arte", la
ricorrente deduce che la Corte di appello non ha tenuto minimamente conto del fondamentale
elemento, costituito dal fatto che l'opera denominata "Olivestone" era stata ideata e realizzata dal
4
prof. Beuys e che, pertanto, egli ne divenne proprietario con la sua creazione.
La Corte si è, infatti, limitata ad affermare che il corpus mechanicum (cioè le vasche, prima di
essere "trattate" dal Beuys) era nel possesso della De Domizio, senza conferire rilievo alcuno al
corpus mysticum, frutto dell'originale inventiva del Maestro, mercè la quale le vasche di pietra
erano state trasformate dopo opportuni adattamenti in un capolavoro dell'arte contemporanea.
Nei riguardi di questo motivo va anzitutto osservato che non sussiste l'inammissibilità, per omessa
indicazione delle norme di diritto su cui esso di fonda, sostenuta nel controricorso, essendo evidente
che la ricorrente ha inteso sostanzialmente denunciare, più che la violazione o falsa applicazione di
norme
di
diritto,
un
difetto
di
motivazione
della
sentenza
d'appello.
Trattasi,
però,
di
censura
infondata.
La Corte di merito non ha limitato il suo esame al c.d. corpus mechanicum (le vasche) dell'opera in
questione,
trascurando
il
c.d.
corpus
mysticum.
Infatti nella sentenza impugnata si parla di "Olivestone" come frutto di elaborazione artistica e
l'esame si incentra sul possesso e sulla proprietà della composizione senza che sia posto in dubbio
l'intervento del
Beuys per consentirne l'esposizione al Castello di Rivoli.
2. Con il secondo motivo, denunciando "falsa applicazione di norme di diritto ed insufficiente e
contraddittoria motivazione nel punto in cui la corte di merito non ha ritenuto applicare l'istituto
della specificazione con riferimento alla fattispecie controversa (art. 940 c.c.)", la ricorrente deduce
che non è concepibile che nel caso di specie non sia stato ritenuto operante il disposto dell'art. 940
c.c.
Pur ritenendo, infatti, di proprietà della De Domizio la materia prima (cioè le vasche), tali vasche,
attraverso l'opera creativa del Beuys, erano state trasformate in un aliquid novum, avente una
propria individualità economico-sociale completamente diversa rispetto alla materia trasformata.
La ricorrente lamenta, inoltre, che al corte abbia asserito assiomaticamente che la materia prima con
cui l'opera è stata realizzata è stata certamente fornita dalla De Domizio e che, comunque, costei,
anche ammettendosi l'acquisto della proprietà dell'opera in capo al Beuys per effetto della
specificazione,
l'avrebbe,
poi,
acquistata
dal
Beuys
dopo
la
specificazione.
A tal riguardo deduce che l'ipotetico acquisto da parte della De Domizio di "Olivestone" non solo
non è avvenuto, ma se così fosse stato, sarebbe stato nullo per violazione della normativa valutaria.
La ricorrente deduce, infine, che in assenza di un valido negozio causale, idoneo a realizzare il
trasferimento della proprietà, la dichiarazione notarile rilasciata dal Beuys il 13 dicembre 1984 non
ha e non può produrre effetti di sorta.
Neppure questo motivo può essere accolto.
Con giudizio di fatto, non sindacabile in sede di legittimità perché congruamente motivato, la Corte
di appello ha ritenuto non fondato il contrario assunto della Beuys circa il possesso e la proprietà
delle vasche utilizzate per comporre l'opera anzidetta, condividendo il convincimento del Tribunale,
che le aveva riconosciute di proprietà della De Domizio già prima che l'artista iniziasse il suo
lavoro.
Posto, dunque, che le vasche utilizzate per comporre "Olivestone" furono procurate dalla De
Domizio, si tratta di stabilire se sia applicabile o non al caso di specie la norma sulla specificazione,
come modo di acquisto a titolo originario della species nova regolato dall'art. 940 c.c.
La specificazione, secondo il concetto comunemente accolto, è un modo d'acquisto della proprietà
consistente nella trasformazione di una materia in un oggetto avente una propria individualità
economico-sociale.
5
Essa sarebbe riscontrabile - secondo la ricorrente - nel caso in esame, poiché il Beuys avrebbe
operato materialmente sulle vasche, di per sè prive di valore artistico-commerciale, trasformandole
in
un'opera
di
notevole
valore
artistico.
La Corte di appello ha, invece, escluso la sussistenza dei presupposti dell'acquisto per
specificazione, giacché nell'opera non poteva ravvisarsi la species o nova res, tenuto conto sia dello
scarso pregio delle antiche vasche (approntate da contadini) sia del fatto che, in definitiva, si era
trattato di una semplice combinazione di cose procurate dalla De Domizio.
L'individualità della cosa nuova viene, in concreto, esclusa dalle stesse deduzioni della ricorrente, la
quale evidenzia il solo mutamento funzionale delle vasche che, disposte in un certo modo nello
spazio, all'interno di una delle sale del Castello di Rivoli, appositamente scelta dallo stesso Beuys, e
colmate d'olio secondo l'intenzione dell'autore, in modo da far apparire il contrasto tra le ricche
decorazioni del castello, riflettentisi nello specchio d'olio, e le stesse umili vasche, utilizzate dai
contadini abruzzesi per la decantazione dell'olio d'oliva, darebbe a queste appunto la diversa
individualità.
Osservava il Collegio che la particolare collocazione delle vasche nel museo per evidenziarne la
destinazione naturale (e giustificare evidentemente il titolo dell'opera) non può far pensare alla
creazione di una nuova specie, secondo la previsione dell'art. 940 c.c., che richiede, invero, la
formazione, mediante elaborazione, di una res nova e, quindi, la trasformazione della materia.
Nel caso di "Olivestone" la materia non è stata trasformata, ma solo disposta in un modo
particolare, per raggiungere un certo effetto, il che è ben diverso dall'acquisizione nel mondo fisico
di
una
nuova
cosa,
nel
senso
inteso
dalla
predetta
norma.
Le altre deduzioni svolte con il secondo motivo concernono argomenti che formano oggetto anche
dei
successivi
motivi.
Vanno,
perciò,
esaminate
unitamente
ad
essi.
3. Con il terzo motivo, denunciando "violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2 legge 786-1956) laddove
la
sentenza
ritiene
che
la
De
Domizio
avrebbe
acquistato
validamente
dal
prof.
Beuys l'opera "Olivestone", la ricorrente deduce che, anche ammesso che la De Domizio abbia effettivamente
acquistato l'opera, tale acquisto sarebbe radicalmente nullo in quanto posto in essere in violazione della disciplina di cui
al decreto legge 6 giugno 1956 n. 476, convertito in legge 25 luglio 1956 n. 786 (c.d. legge valutaria), che all'art. 2
stabilisce che ai residenti è fatto divieto di compiere qualsiasi atto idoneo a produrre obbligazioni fra essi e non residenti
(qual
era
il
prof.
Beuys)
se
non
in
base
ad
autorizzazione
ministeriale.
Anche questo motivo va disatteso perché la sentenza impugnata è già validamente motivata sul punto per quanto sopra
riportato, avendo la Corte di appello condiviso la statuizione della sentenza di primo grado in ordine alla insussistenza
delle condizioni richieste per la specificazione di materiali forniti dalla De Domizio, ragion per cui, non sussistendo
trapasso di proprietà fra il prof. Beuys e la De Domizio, non è a parlare di nullità alcuna.
Le ulteriori considerazioni - che il Beuys sia divenuto proprietario della "Olivestone" e che la De Domizio l'abbia, a sua
volta, acquistata dopo la specificazione - sono svolte dalla Corte, per l'appunto, in via meramente ipotetica, per
completezza, e nulla tolgono agli argomenti che costituiscono la vera "ratio" della pronuncia di appello.
Ne consegue che il motivo in esame si risolve in una prospettazione che non può considerarsi rilevanti ai fini della
decisione.
4. Con il quarto motivo, denunciando omessa motivazione e violazione di legge in ordine al riconoscimento del
possesso dell'opera in capo alla De Domizio, la ricorrente deduce che gli elementi di giudizio in base ai quali la Corte di
merito ha riconosciuto questo possesso si rivelano inidonei, posto che, se è vero che la De Domizio era presente al
momento della creazione dell'opera, è altrettanto vero ed incontrastato che il creatore dell'opera era egli stesso presente
in quanto, per l'appunto, la stava creando; non era provato che la De Domizio avesse procurato le vasche; il contratto di
comodato con cui l'opera era stata consegnata al Castello di Rivoli disponeva espressamente che la durata del prestito
doveva essere concordata non con la De Domizio, ma esclusivamente con il prof. Beuys, dal che si evince che la De
Domizio non aveva la piena disponibilità dell'opera, corrispondente all'esercizio di un diritto reale, ma la deteneva
precariamente
per
conto
del
Beuys,
effettivo
proprietario.
Si sostiene, inoltre, che la motivazione adottata dalla Corte di appello per attribuire il possesso alla De Domizio è
insufficiente anche perché non tiene alcun conto della corrispondente situazione di fatto che caratterizza la pretesa
possessoria
della
Beuys.
6
Osserva il Collegio che neanche nei riguardi di questo motivo può ritenersi fondata, per la stessa considerazione fatta
esaminando il primo, l'eccezione di inammissibilità sollevata nel controricorso sul rilievo della omessa indicazione delle
norme
di
legge.
Peraltro esso va ugualmente disatteso, in quanto si risolve in censure rivolte avverso valutazioni di merito del giduice di
appello che - come si è appena finito di precisare a proposito del motivo precedente - ha compiutamente indicato le
ragioni del suo convincimento in ordine alla proprietà, al possesso e alla disponibilità, da parte della De Domizio,
dell'opera, essenzialmente costituita dalle vasche, che ella appunto aveva procurato per la sua composizione.
D'altra parte la ricorrente neanche con questo motivo offre elementi che possano validamente contrastare tale
apprezzamento, facendolo apparire non suffragato dalle risultanze processuali.
5. Con il quinto motivo, denunciando "errore di diritto ed omessa motivazione", la ricorrente ritorna
ancora sulla questione della proprietà delle vasche e deduce che ciascuno degli elementi noti da cui
è stata desunta la prova per presunzioni del diritto dominicale della De Domizio sulla "Olivestone"
(dichiarazione del defunto artista, l'essere la De Domizio nel possesso dell'opera, l'essere stata
sempre presente nel corso dello svolgimento dell'intera vicenda, dopo aver procurato vasche ed altra
materia) è frutto di un'erronea applicazione da parte del giudice d'appello dei principi generali del
diritto,
sia
sostanziale
che
processuale.
Neppure questo motivo può essere accolto e sempre per le ragioni già dette.
La Corte di appello - si ripete - ha correttamente motivato la decisione adottata circa la proprietà di
"Olivestone" evidenziando vari elementi presuntivi che consentivano di attribuirla alla De Domizio
già prima della elaborazione artistica, compreso quello emergente dalla scheda 13 dicembre 1984 a
firma Beuys autenticata dal notaio, in cui si dichiara che l'"opera" è di proprietà della De Domizio
(ed è proprio su tale elemento che la corte costruisce l'altra motivazione, quella svolta in via
ipotetica: se non fosse vero che la De Domizio era proprietaria delle vasche già prima che l'artista vi
lavorasse, lo sarebbe diventata dopo, quella scheda essendo stata redatta in data successiva).
6. Con il sesto motivo, denunciando "insufficiente e contraddittoria motivazione circa il rigetto delle istanze istruttorie",
la ricorrente deduce che non è dato comprendere quali siano i motivi del rigetto di dette istanze, volte alla dimostrazione
sia
del
suo
possesso
sia
del
suo
diritto
di
proprietà
sull'opera
di
cui
trattasi.
Anche
questo
motivo
va
disatteso.
Non può essere, infatti, sindacata la valutazione del giudice di merito circa la rilevanza e concludenza di mezzi istruttori
richiesti quando - come accade nella specie - egli, dando compiuta giustificazione della soluzione accolta, dimostra la
sufficienza
degli
elementi
probatori
già
acquisiti.
Il
ricorso
va,
pertanto,
rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo
giudizio, che si liquidano in 102.600 lire, oltre agli onorari in 3.000.000 di lire.
Così deciso in Roma l'otto maggio 1991 nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile
della Corte Suprema di Cassazione.
7
Accessione invertita art. 938 c.c.
Cass., sez. II, 04-03-2005, n. 4774.
In tema di accessione invertita, la buona fede richiesta dall’art. 938 c.c., che consiste nel
ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere
alcuna usurpazione, deve sussistere fino al completamento della costruzione, non operando la
norma citata alcuna distinzione fra l’inizio e il termine delle opere; inoltre, la buona fede non può
essere presunta, ma deve essere dimostrata - al pari dei requisiti oggettivi della complessa
fattispecie - dallo stesso costruttore, che, in deroga al principio generale dell’accessione
(superficies solo cedit), voglia conseguire il trasferimento della proprietà, essendo al riguardo
irrilevante la mancata opposizione entro tre mesi da parte del confinante (nella specie, è stata
esclusa la buona fede dei ricorrenti, che nell’occupare la porzione del terreno confinante, avevano
costruito nonostante che il confine tra i fondi, essendo delimitato da una scarpata, fosse facilmente
riscontrabile).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 9 giugno 1989 Milva Lupinelli conveniva in giudizio dinanzi al tribunale
di Perugia la società semplice "Azienda Agraria Binaglia di Marcello Binaglia & C." ss., in persona
del legale rappresentante, nonchè i soci Marcello e Gino Binaglia in proprio, e premesso:
che questi avevano costruito un fabbricato, che si incuneava nella proprietà di lei, che è confinante;
che con tale costruzione perciò essi, oltre ad avere occupato parte del suo fondo, recavano molestia,
per avere eliminato la relativa colonna d'aria, e determinavano lo stillicidio sul medesimo;
tutto ciò premesso, l'attrice chiedeva quindi che i convenuti venissero condannati in solido ad
arretrare detta costruzione alla distanza regolamentare prevista in m. 5, e al risarcimento del danno
scaturito da tale violazione, con vittoria di spese e compensi.
La società Azienda Agricola Binaglia & C. e i soci Binaglia si costituivano con comparsa di
risposta, contestando l'assunto "ex adverso" dedotto. In particolare in via pregiudiziale eccepivano
la carenza di legittimazione passiva di Marcello e Gino Binaglia, atteso che il terreno e il fabbricato
costruitovi sono di esclusiva proprietà della società, la quale, ancorchè avente la natura di società
semplice, tuttavia ha una sua autonomia di carattere economico e gestiona-le, cioè una sua
soggettività, distinta dai soci. Chiedevano quindi che il giudice dichiarasse la mancanza di
legittimazione passiva dei due soggetti.
Nel merito, eccepivano di avere operato in buona fede, e quindi proponevano domanda
riconvenzionale, con la quale chiedevano l'attribuzione della proprietà della porzione di suolo
occupata e del fabbricato, per accessione invertita, previo pagamento della relativa indennità.
Nel corso del processo veniva disposta consulenza tecnica di ufficio.
Indi, con sentenza non definitiva, il tribunale rigettava la domanda dell'attrice; attribuiva la
proprietà della porzione di suolo occupata ai convenuti, e rimetteva le parti dinanzi a sè per la
prosecuzione della causa, al fine di stabilire la misura dell'indennità da corrispondere all'attrice.
Il giudice osservava che in realtà i convenuti avevano agito in buona fede, posto che avevano
occupato solamente mq. 1,80 di suolo di questa, quindi una superficie molto modesta; tra i due
fondi infatti si trova una scarpata; il confine ha un andamento fortemente irregolare, ed inoltre
Lupinelli aveva omesso un'immediata contestazione in proposito. Pertanto il principio
dell'accessione invertita ben poteva trovare applicazione nella fattispecie.
Avverso tale provvedimento Lupinelli interponeva appello principale, dinanzi alla competente corte
di Perugia, lamentando il mancato accoglimento della domanda. I convenuti a loro volta
proponevano appello incidentale, con cui si dolevano che il tribunale non avesse dichiarato la
mancanza di legittimazione passiva da parte dei due soci.
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Con sentenza dell'I febbraio 2001 la corte perlina, in riforma di quella impugnata, in via
pregiudiziale ha rigettato l'appello incidentale, osservando che, trattandosi di società semplice, i soci
sono responsabili in solido con la società stessa dei rapporti che fanno capo ad essa, tranne che non
risulti diversamente dall'atto costitutivo, e ciò non sia stato portato a conoscenza dei terzi. In
accoglimento dell'appello principale ha condannato i convenuti in solido alla demolizione dello
spigolo nord-ovest dell'edificio di loro proprietà, fino a ricondurlo sul confine comune, così come
individuato dal CTU, osservando che la buona fede doveva essere provata dai medesimi, e che i
presupposti per presumerla non vi erano nel caso in esame. Inoltre la corte ha posto le spese del
doppio grado a carico degli appellati soccombenti.
Avverso tale sentenza la società "Azienda Agraria Binaglia di Marcello Binaglia & C." e il socio
Marcello Binaglia hanno proposto ricorso per Cassazione, sulla base di tre motivi.
Lupinelli resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.
Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione e/o falsa applicazione dell'art. 112 cod.proc.civ., nonchè omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia, con riferimento all'art. 360, nn. 3 e 5 dello stesso codice, in quanto la corte di
appello non ha considerato che la sentenza di primo grado già era passata in giudicato nei e fronti della società, posto che l'atto di
appello stato notificato all'Azienda Binaglia, bensì solamente ai due Binaglia, e per di più in proprio, e non invece quali soci di essa,
nonostante che essi avessero sempre dedotto la loro carenza di legittimazione passiva. Inoltre l'impugnazione era stata notificata fuori
termine, giacchè la notifica della sentenza era stata effettuata il giorno 15 maggio 1997, mentre quella dell'appello era stata eseguita il
16 giugno dello stesso anno. Sebbene la relativa doglianza fosse stata prospettata con l'appello incidentale, la corte di appello non l'ha
delibata.
Questo motivo è infondato.
Infatti dall'esame dell'atto di appello risulta che esso veniva notificato alla società stessa, oltre che ai due soci. Pertanto nessun
giudicato poteva essersi formato nei confronti dell'Azienda Binaglia. Si tratta perciò di un rigetto implicito dell'eccezione proposta da
parte della corte territoriale.
Per quanto poi attiene alla posizione di Marcello Binaglia e dell'altro socio, la corte di appello ha messo esattamente in evidenza che
nella società semplice i soci che amministrano la società stessa sono solidalmente responsabili con essa ai sensi dell'art. 2267 cc.
Inoltre parimenti rispondono delle obbligazioni della stessa anche gli altri soci, tra che non vi sia patto contrario. Nel caso in esame e
avevano provveduto a depositare il contratto costitutivo della società. Pertanto deve presumersi che a ciascuno dei soci spetti
l'amministrazione, come pure la rappresentanza in giudizio, a mente dell'art. 2266 cc, con la conseguente responsabilità di ciascuno
per le obbligazioni sociali.
Su tale punto perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo adeguato, oltre che giuridicamente corretto.
Quanto alla dedotta mancanza di tempestività dell'appello, la doglianza benchè non fosse stata proposta dinanzi al giudice del
riesame, è ammissibile, perchè la relativa questione può essere sollevata in ogni stato e grado del giudizio.
Essa, però, è priva di
pregio, questa Corte rileva che la sentenza di primo grado era stata pubblicata il giorno 19 novembre 1996, ma non era stata
notificata. Quindi essa era impugnabile nel termine lungo di un anno. Poichè l'appello era stato notificato il 16 giugno 1997,
l'impugnazione deve essere ritenuta tempestiva.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2251 e segg. cc, e contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., giacchè la corte distrettuale non ha
considerato che Marcello e Gino Binaglia non erano stati evocati in giudizio nella qualità di soci, bensì in proprio, e quindi non
potevano rispondere delle eventuali obbligazioni della società, questa, ancorchè sfornita di personalità giuridica, tuttavia ha pur
sempre una soggettività autonoma, per la quale i rapporti che fanno capo ad essa non possono estendersi ai soci. Inoltre la sentenza
impugnata già era passata in giudicato nei confronti dell'Azienda Binaglia, e quindi le obbligazioni facenti carico su di essa non
possono coevamente gravare sui soci, altrimenti si creerebbe una situazione di conflittualità tra il soggetto autonomo e i soci
medesimi.
Questa censura rimane assorbita da quanto enunciato con riferimento al motivo più sopra esaminato.
3. Col terzo motivo i ricorrenti denunziano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729
cod.civ., oltre che omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia, relativamente all'art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., dal momento che la corte di appello
non ha considerato che i ricorrenti avevano agito in buona fede, atteso che tra i due fondi delle parti
non vi è alcun confine naturale o apposto dall'uomo, ma si trova una scarpata; inoltre questo è
irregolare; lo sconfinamento era stato molto modesto; la costruzione era stata realizzata per una
superficie inferiore a quella di cui alla concessione edilizia, che era per mq. 1000, mentre il
fabbricato ne ha una ridotta per mq. 873; esso anziché avere un orientamento ovest-est, ha quello
nord-sud; nessuna contestazione era stata mai mossa dalla resistente. Quindi l'uomo medio non
poteva che essere in buona fede, atteso che lo stesso CTU aveva accertato il modestissimo
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sconfinamento solo dopo avere fatto uso di sofisticatissime strumentazioni, e avere sfruttato
conoscenze tecniche, che ovviamente non appartengono al bagaglio culturale dell'"uomo medio".
Anche tale doglianza è priva di pregio.
Infatti la corte di appello ha osservato esattamente che in tema di accessione invertita non può
trovare ingresso la prova per presunzione. D'altra parte nel caso in specie, a parte la modesta entità
della superficie occupata, come evidenziato anche dal CTU il confine ricade sulla scarpata che
divide i due fondi, sicchè esso era facilmente riscontrabile.
Inoltre la buona fede non può presumersi, ma va provata dal costruttore che la invochi. Questo
principio è perfettamente in linea con il costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte,
secondo cui "la buona fede rilevante ai fini dell'accessione invertita ex art. 938 cod. civ. consiste nel
ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere alcuna
usurpazione. Il predetto stato soggettivo deve sussistere fino al completamento della costruzione
non operando l'art. 938 nel richiedere tale requisito, alcuna distinzione tra l'inizio ed il termine della
costruzione. Inoltre la buona fede del costruttore non può essere presunta, ma deve essere
dimostrata, al pari dei requisiti oggettivi della complessa fattispecie, dallo stesso costruttore che
voglia conseguire, contro il principio generale dell'accessione ("superficies solo cedit") il
trasferimento della proprietà del suolo occupato con la costruzione" (V. SENT. 03058 DEL
30/03/1999; CONF 9410784 489240 CONF 9709786 508648; SEZ. 2^ SENT. 02589 DEL
25/03/1997).
La corte di appello inoltre ha messo in evidenza esattamente che la mancata opposizione della
vicina interessata alla non occupazione non poteva dispiegare alcun rilievo, atteso che per la buona
fede richiesta ai fini della accessione invertita occorre avere riguardo al comportamento dell'agente
e non alla mancata tempestiva opposizione della parte danneggiata.
In proposito questa Corte ha statuito che "nella fattispecie costitutiva dell'accessione invertita
prevista dall'art. 938 cod. civ. sono distinti i requisiti della buona fede del soggetto che, sconfinando
dal proprio terreno, costruisce su una porzione del fondo attiguo, e quello della mancata
opposizione entro tre mesi del confinante. Quindi la mancata opposizione di quest'ultimo non vale a
dimostrare lo stato soggettivo di buona fede (ragionevole convincimento di avere diritto sulla
porzione occupata e quindi di non commettere usurpazione) del soggetto che ha eseguito la
costruzione, stato soggettivo che richiede una positiva dimostrazione da parte dell'interessato (Cfr.
SENT. 10784 DEL 15/12/1994; CONF 9109373 473740; VEDI 9311836 484545; VEDI 8709619
456650).
Su questi punti perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo adeguato, oltre che
giuridicamente e logicamente corretto.
Nè in sede di legittimità le parti possono proporre una differente valutazione del quadro probatorio
acquisito dal giudice di merito, mediante la proposizione di un vaglio alternativo di esso.
Ne deriva che il ricorso va rigettato, con le conseguenti statuizioni di legge relativamente alle spese
del giudizio, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna i ricorrenti in solido al rimborso delle spese in favore della
controricorrente, e che liquida in complessivi euro cento/00 per esborsi, ed euro duemila/00 per
onorari, oltre agli accessori di legge.
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ESERCIZIO
Leggere l’atto allegato ed individuare le inesattezze giuridiche in esso contenute, anche alla luce
della seguente premessa.
Premessa.
Il sig. R., residente a Roma, intenzionato a vendere il proprio camper, affiggeva sullo stesso un
cartello con scritto “vendesi”.
Nel mese di dicembre, mentre si trovava alla guida del mezzo in questione, veniva fermato da una
donna (P), residenti in Milano, che si dicevano intenzionati ad acquistare il camper.
A tal fine il sig. R provvedeva ad intestare il camper alla P e si recava a Milano per ricevere il
corrispettivo della vendita, tramite assegni.
Alcuni giorni dopo scopriva che gli assegni risultavano scoperti e che la donna si era resa
irreperibile.
Il sig. R quindi sporgeva denuncia per truffa, a seguito della quale iniziavano le ricerche della donna
e del camper, che si scopriva essere stato, pochi giorni dopo averlo prelevato da R, intestato al sig.
E.
Il GIP provvedeva quindi al sequestro del camper al sig. E, sulla base delle seguenti considerazioni:
a) si tratta di un mezzo oggetto di denuncia;
b) il sig. E dice di averlo acquistato da P ma non è in grado di dimostrare né l’acquisto né il
pagamento;
c) la presunta vendita sarebbe avvenuta a pochi giorni di distanza dal fatto denunciato da R;
d) il sig. E dice di aver deciso di acquistare il camper dalla P dopo averlo visto nel mese di
ottobre a Milano.
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