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la Biblioteca di via Senato
mensile, anno viii
Milano
n. 6 – giugno 2016
SPECIALE
GUIDO GOZZANO
Preziosi libri di una
breve esistenza
di antonio castronuovo
Profumi, essenze
e aromi in Gozzano
di epifanio ajello
Morte e nostalgia:
le maschere
di Gozzano
di marco cimmino
Xilografie in mostra
per il «bel Guido»
di gianfranco schialvino
Guido Gozzano
alla Biblioteca
di via Senato
di gianluca montinaro
ISSN 2036-1394
SPECIALE GUIDO GOZZANO
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la Biblioteca di via Senato – Milano
M E N S I L E D I B I B L I O F I L I A – A N N O V I I I – N . 6 / 7 3 – M I L A N O , GIUGNO 2 0 1 6
Sommario
4 SPECIALE GUIDO GOZZANO
PREZIOSI LIBRI DI UNA BREVE
ESISTENZA
di Antonio Castronuovo
12 SPECIALE GUIDO GOZZANO
PROFUMI, ESSENZE
E AROMI IN GOZZANO
di Epifanio Ajello
18 SPECIALE GUIDO GOZZANO
MORTE E NOSTALGIA:
LE MASCHERE DI GOZZANO
di Marco Cimmino
24 SPECIALE GUIDO GOZZANO
XILOGRAFIE IN MOSTRA
PER IL «BEL GUIDO»
di Gianfranco Schialvino
28 SPECIALE GUIDO GOZZANO
GUIDO GOZZANO
IN VIA SENATO
di Gianluca Montinaro
37 IN SEDICESIMO – Le rubriche
LE MOSTRE – COLLEZIONI E
COLLEZIONISTI
a cura di Luca Pietro Nicoletti,
Gianluca Montinaro
e Corrado Mingardi
53 La riflessione
LE SCELTE DELL’OCCIDENTE
E LO SCONTRO
FRA SUNNITI E SCIITI
di Claudio Bonvecchio
54 Bibliofilia
OLTRE LA STRAGE. UN FOGLIO
VOLANTE MILANESE DEL ’500
di Giancarlo Petrella
61 Editoria
GLI OTTANT’ANNI
DEGLI STRUZZI DI EINAUDI
di Massimo Gatta
68 In Appendice – Feuilleton
L.E.X.
LE BIBLIOTECHE PROFONDE
di Errico Passaro
70 BvS: il ristoro del buon lettore
DON CONSALVO,
DEL CAMBIO E I SEGRETI
DEL DOM PERIGNON
di Gianluca Montinaro
72 HANNO COLLABORATO
A QUESTO NUMERO
Ringraziamo le Aziende che ci sostengono
con la loro comunicazione
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Direttore responsabile
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Fotolito e stampa
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Immagine di copertina
Gianfranco Schialvino,
Ritratto di Guido Gozzano,
xilografia, 2016
Stampato in Italia
© 2016 – Biblioteca di via Senato
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11/03/2009
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Editoriale
N
on le parole che state leggendo avrebbero
dovuto essere l’editoriale di questo
numero del nostro mensile. Ma ciò che
è accaduto, nelle scorse settimane, al presidente
della Fondazione Biblioteca di via Senato, e che
svariati giornali hanno riportato, spinge ad alcune
riflessioni. I comportamenti, gli atteggiamenti,
le condizioni e, soprattutto, le umiliazioni
a cui è stato sottoposto impongono parole chiare.
Io, che ben conosco il dottor Dell’Utri
(che, ricordo, è uomo di 75 anni, e da diverso
tempo non più in perfetta salute), penso non si sia
scomposto più di tanto nel trovare la turca della
sua nuova cella, a Rebibbia, sporca di escrementi.
Come immagino i suoi pensieri, improntati
al fatalismo, quando, 48 ore dopo, ricoverato
d’urgenza al Pertini di Roma per una gravissima
setticemia, ha dovuto attendere per giorni l’arrivo
della sua cartella medica (contenente anche gli esiti
di una risonanza magnetica effettuata
una settimana prima) dal carcere di Parma.
Documenti che lo hanno raggiunto con molta
calma (nonostante l’urgenza del caso) perché
inviati dall’amministrazione penitenziaria, come
sberleffo, per posta e non per via telematica.
Credo che questi episodi (ultimi di una lunga serie,
improntata alla costante mortificazione umana
nascosta dietro parvenze di burocrazia,
consuetudini di procedura, paludamenti
di giustizia) siano la ‘prova provata’ da un lato
dell’accanimento barbaro verso un uomo che
è stato preso a simbolo di un certo ‘periodo politico’,
dall’altro delle storture del sistema giudiziario
del nostro Paese. Che, ricordo, per cavilli, consente
la libertà ad assassini rei confessi, e al contempo si
compiace di umiliare un (ex) senatore, come scritto
qualche giorno fa su un quotidiano, «a pulirsi il
cesso» e a costringerlo in attesa, a rischio della vita.
Il tutto detto senza entrare nel merito
del dispositivo di un giudizio che, peraltro,
fa riferimento non al codice ma solo alla
giurisprudenza. Certo, se da un lato è giusto
che le sentenze si applichino, dall’altro – essendo
commutate da uomini, fallibili – è altrettanto
giusto si possano sempre discutere, considerato
anche che la Storia, purtroppo, è piena di casi di
condanne ingiuste (perché, ed è doveroso dirlo con
la massima chiarezza, anche i giudici sbagliano).
In questi ultimi due anni, per rispetto e per
riserbo, gli amici e i collaboratori del dottor
Dell’Utri e della sua famiglia non hanno quasi
mai fatto sentire la loro voce su tutte queste tristi
vicende. Ora la misura è colma. E, anche io,
insieme a tanti altri (gli stessi che ricevono questa
rivista, gli stessi che per anni hanno condiviso con
il dottor Dell’Utri la passione per i raffinati volumi
e il collezionismo, gli stessi che hanno affollato le
Mostre del Libro Antico e gli eventi organizzati in
via Senato, gli stessi che hanno partecipato assieme
a lui alle avventure editoriali e tipografiche), dico
«basta!». Dico che non mi riconosco nel giudizio
di condanna del dottor Dell’Utri, benché esso sia
stato emesso «in nome del popolo italiano».
E dico, soprattutto, che i modi e i termini con cui
sta scontando la pena sono umilianti tanto per lui
quanto per tutti gli italiani, in nome dei quali la
sentenza è stata pronunciata.
Gianluca Montinaro
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
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SPECIALE GUIDO GOZZANO
PREZIOSI LIBRI DI UNA
BREVE ESISTENZA
Le edizioni in vita di Guido Gozzano
ANTONIO CASTRONUOVO
L’
esistenza di Guido
Gozzano (1883-1916)
fu breve, poco meno di
33 anni, ma il posto che egli occupa nella letteratura del primo
Novecento è centrale: depurando il proprio stile dalla magniloquenza dannunziana superomistica e ‘sublime’ diede vita al disincanto del crepuscolarismo,
abbracciando un nuovo rapporto sentimentale - anche patetico, anche ingenuo - con le cose.
Tuttavia, non esente da vena
ironica, la sua poesia si salvò
dall’abbandono incondizionato
alle ‘piccole cose’ del gusto crepuscolare e riuscì a intercettare la sensibilità moderna, al punto da accogliere nella propria poetica
la vergogna di «essere poeta», così come era accaduto a Corazzini di affermare «io non sono un
poeta» e sarebbe capitato a Palazzeschi di domandarsi «son forse un poeta?».
Sopra: la cosiddetta “terza edizione” (in realtà seconda)
de La via del rifugio, prima raccolta poetica di Gozzano.
Rispetto alla prima edizione il disegno non è incorniciato
e la data è solo «1907».
Nella pagina accanto: il disegno di Filippo Omegna riportato
di fianco al frontespizio nell’edizione Treves (1936)
Gozzano proveniva da una
famiglia agiata che gli permise
di compiere studi di giurisprudenza, condotti tuttavia in maniera svogliata, anche perché
angustiato assai presto dalla tubercolosi, malattia che lo portò
presto alla morte. Entrò in contatto negli anni di studio con un
ampio gruppo di letterati ostili
all’imperante dannunzianesimo: ne trasse l’impulso ad abbracciare una poesia che - immersa nel quotidiano, capace di
esprimere i sentimenti della disillusione e dell’incomunicabilità - si concretizzò nelle collezioni liriche La via del rifugio (1907) e I colloqui
(1911).
Un impegnativo viaggio in India, cui si sottomise per motivi di salute, diventò occasione di
fantasia attorno a letture di tema esotico, più che
motivo di osservazione della realtà vissuta: dalle
corrispondenze giornalistiche del viaggio nacque
il volume postumo Verso la cuna del mondo (1917).
Fu anche autore di novelle (L’altare del passato,
1918; L’ultima traccia, 1919), e fiabe per bambini
(La principessa si sposa, 1917).
Se però la vita di Gozzano fu breve, la sua vicenda editoriale dimostra come i pochi vissuti fu-
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la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
Da sinistra: la copertina della prima edizione, pubblicata da Streglio, de La via del rifugio (1906-1907): notare il disegno in cornice
e la data «1906-1907». Frontespizio della prima edizione che indica come data, a differenza della copertina, il solo «1907»
rono anni di intensa preparazione all’edizione di
opere. In vita ne vide nascere tre: le due citate raccolte liriche (1907, 1911) e le fiabe I tre talismani
(1914), scarno elenco cui va aggiunto un estratto
della «Nuova Antologia». L’ansioso fermento di
lavoro lo aveva però portato a predisporre in larga
misura anche altri progetti in prosa, quelli sopra citati, che videro la luce tra 1917 e 1919, vale a dire i
primi anni dopo la scomparsa, e tutti presso Treves.
Consapevoli che l’oggetto-libro è il contenitore della scrittura, e che questa è destinata a farsi
questione critica e filologica, osserviamo che ciò
accade in massimo grado con Gozzano: problema
critico di rilievo per la letteratura italiana, ma anche - se solo s’indugia sul numero di varianti di una
singola poesia e sul suo transito da un volume all’altro - pungente problema filologico. Qui dunque mi soffermo solo sulla ‘fisicità’ delle edizioni
che Gozzano riuscì a vedere in vita.
L’idea del primo libro, La via del rifugio, sorse
alla fine del 1906, quando il poeta pensò di raccogliere i versi che aveva pubblicato negli ultimi
tempi su riviste e giornali, specialmente di Torino.
Per vari mesi lavorò intensamente a una rigorosa
selezione del proprio materiale; impegno che
comportò la revoca di versi che ormai sentiva
estranei e una meticolosa opera di correzione e
rielaborazione. E mentre era immerso in questa
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
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Da sinistra: il disegno che sovrasta la prima poesia della raccolta La via del rifugio; la quarta di copertina, con il simbolo
dell’editore Streglio
occupazione addizionava nuovi componimenti,
fino all’aprile del 1907, quando il libro vide la luce
grazie all’aiuto finanziario della madre Diodata
Mautino: Guido poté pagare l’editore Renzo Streglio e vedersi pubblicato.
La casa editrice vantava sedi a Genova, Torino e Milano; ma la stampa della Via del rifugio, come suona un colophon nel retro di frontespizio, fu
realizzata a Venaria Reale presso la «Tipografia
della Casa Editrice R. Streglio», dunque a Torino.
Il libro ha dimensioni di cm 22,5 × 15,5; copertina
in brossura a due colori con un bel disegno incorniciato di Filippo Omegna (cugino di Gozzano)
che rappresenta la facciata scrostata di un vecchio
edificio il cui portale è dominato da una pianta
rampicante. Fuori cornice, in alto a destra, appare
la scritta «1906-1907», indicativa degli anni in cui
le poesie erano state composte o ‘manipolate’. La
struttura del libro è semplice: 88 pagine, senza
suddivisioni delle singole poesie, venticinque in
tutto (trenta se consideriamo i sei Sonetti del ritorno, uniti sotto il medesimo titolo, come testo singolo).
All’opera arrise un successo insperato, anche
se la critica, con una serie di giudizi non positivi
apparsi sui giornali, non era stata bonaria: sta di
fatto che in pochi mesi la prima tiratura andò esaurita. La via del rifugio fu pertanto riproposta dall’editore nell’agosto 1907 e sarebbe stata sufficiente una semplice ristampa, se non fosse che i te-
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la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
A sinistra dall’alto: l’edizione Treves de La via del rifugio
(1936); firma autografa di Guido Gozzano. Nella pagina
accanto da sinistra: la prima edizione de I colloqui
(Milano, Treves, 1911); frontespizio della prima edizione
Treves: trattasi di copia del “secondo migliaio”
sti erano gravati da troppi refusi. Si decise pertanto di ricomporre il libro, accogliere qualche variante e procedere a una nuova edizione che, pur
essendo la seconda, comparve con la falsa dicitura
«3a Edizione» voluta dallo stesso Gozzano. Edizione che vide la luce con «qualche errore antico
di meno e qualche nuovo di più», come l’autore
scrisse a Carlo Vallini il 27 agosto 1907 (lo si legge
nelle Lettere a Carlo Vallini con altri inediti, Torino,
Centro Studi Piemontesi, 1971). La nuova edizione differisce dalla prima per alcuni caratteri di co-
pertina che la rendono immediatamente riconoscibile: il disegno di Omegna è lo stesso ma non è
incorniciato; inoltre la scritta in alto a destra è solo
«1907». L’interpretazione di questa data singola
sembra essere ovvia: la nuova edizione era il frutto
di un lavoro di correzione e rifacimento che risaliva esclusivamente al 1907.
L’editore milanese Treves propose a Gozzano una (vera) terza edizione da pubblicare nel
1908, comprensiva di versi inediti nel frattempo
composti, ma il poeta aveva già cominciato da mesi a elaborare l’idea di una nuova raccolta poetica,
per cui rinunciò, dedicandosi al suo progetto.
Ampia l’analisi critica su questa prima collezione poetica: qui accenno soltanto al fatto che essendo Gozzano considerato autore di un solo libro, I colloqui del 1911, nei quali il testo de La via
del rifugio - poesia che, sorta dalla rielaborazione
di un canto popolare, apre la raccolta e assegna il
titolo all’intera collezione - non è ripreso, questi
versi con stimmate di cantilenante filastrocca sono
finiti in una posizione critica marginale, anche se
la loro esemplarità è oggi riconosciuta proprio nel
ritmo e nella struttura circolare di apparente semplicità. Ma la poesia, ripudiando lo stile lirico costituito dalle situazioni preziose e artificiose, è anche considerata la prima, significativa sperimentazione letteraria di abbandono del modello dannunziano, anche se vi si avverte la lettura, almeno,
di d’Annunzio. Inoltre, nella raccolta compaiono
le prime versioni dei testi più noti di Gozzano (Le
due strade, L’amica di nonna Speranza).
La via del rifugio è oggi libro assai raro e molto
ricercato; le copie transitate in antiquariato hanno
avuto quotazioni dai 1500 ai 2000 euro. La secon-
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da edizione (cosiddetta «terza») ha quotazioni che
si attestano attorno ai 500 euro. Rintracciabile è
invece la cosiddetta ‘edizione definitiva’ che Treves pubblicò nel 1936 come primo volume delle
“Opere di Guido Gozzano” e col titolo La via del
rifugio. Con un’aggiunta di poesie varie. Di dimensioni diverse rispetto all’originale, cm 21,5 × 16,5,
il volume è una brossura a due colori che riporta
simpaticamente il disegno di Omegna all’interno,
di fianco al frontespizio. Diverso anche l’impianto
contenutistico: alle composizioni della prima edizione ne sono aggiunte altre nuove.
Una simpatica pausa editoriale agì da cerniera fra il primo e il secondo libro di Gozzano. Nel
marzo del 1909 la rivista «Nuova Antologia» pubblicò la sua più famosa poesia - il lungo poemetto
di 434 versi La signorina Felicita ovvero la felicità - e
ne stampò un estratto brossurato di dodici facciate
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delle dimensioni di cm 24,5 × 16,5: l’estratto andò
subito esaurito ed è oggi molto raro.
Il tragitto alla nuova raccolta poetica fu segnato per Gozzano da eventi drammatici. Già da
tempo si erano manifestati i primi sintomi di tubercolosi, e la malattia ricomparve in tutta la sua
gravità dopo l’edizione della Via del rifugio, costringendo Gozzano a raggiungere, su consiglio
medico, la riviera ligure e ad affrontare poi una serie di viaggi in climi più caldi, nella speranza di ottenere un beneficio di salute. Lungo questi spostamenti, avendo anche abbandonato gli studi universitari, il poeta si dedicò a un intenso lavoro
compositivo, guidato dall’urgenza di assemblare il
proprio ‘libro della vita’. Lavorò tra l’estate del
1907 e l’autunno del 1910 - pubblicando nel frattempo alcune liriche su periodici - prima di consegnare il materiale, 24 composizioni in tutto, all’editore Treves, che pubblicò la raccolta nel febbraio 1911 col titolo I colloqui. Liriche di Guido
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Guido Gozzano, in un celebre scatto d’epoca
Gozzano. Come la precedente, la raccolta ebbe
successo e valse a Gozzano parecchie richieste di
collaborazione a importanti quotidiani e riviste,
sulle cui pagine pubblicò lungo il 1911 varie poesie e prose.
Si tratta di una brossura con illustrazione di
copertina a due colori di Leonardo Bistolfi, immagine simbolista di due figure i cui volti si sfiorano
per un bacio dall’intenso sapore di morte; la loro
stessa posa rammenta una scultura funebre di cimitero monumentale. Il libro conta 160 pagine (più 4
di premessa editoriale) e ha dimensioni di cm 22,5 ×
16,5. Il materiale poetico vi è disposto secondo una
struttura ben più organica, e internamente coesa, di
quella della raccolta precedente: secondo un preciso progetto i componimenti sono divisi nelle tre sezioni Il giovenile errore, Alle soglie, Il reduce.
La storia compositiva dei Colloqui, per la
quantità delle varianti e per l’assenza di sicure testimonianze manoscritte che aiutino a fissare le
forme certe di ogni singola poesia, è parecchio
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
anomala. Ma ugualmente complessa è la storia
editoriale, che dopo la prima comparsa del 1911
vide varie ristampe (nel 1922 l’opera aveva raggiunto il 19° migliaio, ma non tutte le copie portano l’indicazione del migliaio). Una nuova edizione Treves nel 1925, dal titolo I primi e gli ultimi colloqui, era indicata come ‘edizione definitiva’ e contaminava La via del rifugio con I colloqui. Giunse
poi nel 1935, sempre presso Treves, l’edizione dal
titolo I colloqui e altre poesie. Nessuna di queste edizioni può essere giudicata ‘definitiva’, ragione per
cui si tratta - dalla prima del 1911 a quella del 1935
- di libri tutti differenti che, sul piano della bibliofilia, rappresentano pezzi unici e ugualmente interessanti per il collezionista.
Non è facile rintracciare nell’antiquariato la
prima edizione del 1911, dovendo fare attenzione
al fatto se si tratti o meno di copia appartenente a
un ‘migliaio’ delle ristampe seguenti il 1911. In
ogni caso, le copie oggi rintracciabili si attestano
tra i 250 e i 700 euro, in base anche alle condizioni
di conservazione.
Tra le tante collaborazioni giornalistiche,
Gozzano lavorava anche col «Corriere dei Piccoli»
e nel 1914 raccolse sei fiabe, là pubblicate tra 1910 e
1911, nel volume I tre talismani, edito a Ostiglia da
“La Scolastica” Editrice di A. Mondadori & C. (edizioni successive riportano l’acquisizione del diritto
da parte di Mondadori nel 1913). Legato in tela, il
volume ha dimensioni di cm 20 × 16,5 ed è ornato da
belle illustrazioni a tre colori e capilettera di Antonio Rubino. La dicitura ‘introvabile’ è ironicamente
accolta nel mondo della bibliofilia, dove si afferma
che se un qualche rarissimo pezzo appare sul mercato non può essere davvero definito ‘introvabile’.
Nel caso dei Tre talismani l’attributo è consono: il
volume non si trova, e se anche dovesse sbucarne
uno dall’oscurità, il fortunato acquirente lo nasconderebbe subito, rendendolo nuovamente ‘introvabile’. E farebbe bene.
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giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
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SPECIALE GUIDO GOZZANO
PROFUMI, ESSENZE
E AROMI IN GOZZANO
Poesia e ‘scenografie volatili’
EPIFANIO AJELLO
Ah! Se voi foste qui, tra questi fiori,
amica! O bella voce tra i profumi!
Se recaste con voi tutti i volumi
Di tutti i nostri dolci ingannatori!
Guido Gozzano, La medicina
C
he Guido Gozzano abbia sempre «vestito
di tempo» le cose che ha messo nei suoi
versi, è discorso acclarato. A tal punto secondo Edoardo Sanguineti - di aver fabbricato
«direttamente l’obsoleto, in perfetta coscienza e
serietà».1 La modernissima bicicletta» di «Graziella», oppure il rombo delle auto di fronte alla
villa di «Totò Merumeni» sono votate a invecchiare e quindi a essere ricordate, con ironia o nostalgia, a libera scelta, al pari delle «crinoline» o
delle «vecchie stampe». Tutta la poesia gozzaniana è fatta di sdoppiamenti, urti, differenze, a partire dallo stesso poeta, a tu per tu con se stesso.
Ogni cosa è desueta o si appresta subito a esserlo
come i contemporaneissimi, per lui, «dentifrici»,
«fialette», «camicie», «radioscopie», «cioccolatte», «gonne» o «dolci pericolanti», in perfetta
Nella pagina accanto: riproduzione del disegno di Luigi
Bistolfi che adorna la copertina della prima edizione de
I colloqui (Milano, Fratelli Treves, 1911). A destra:
autografo de L’amica di Nonna Speranza (fogli conservati
presso il Centro Studi Gozzano, Università di Torino)
convivenza (e invecchiamento) coi bei «manicotti», le «stampe truci», il «Loreto impagliato» e
tutti i «rottami» deposti nel solaio di Villa Amarena.
In questi - come dire? - amalgami di tempo e
oggetti, nelle poesie di Gozzano andrebbe, però,
notata la presenza di altre entità poco compatte e
del tutto volatili, quali sono i profumi, gli aromi,
le essenze, artificiali o naturali, che si diffondono
dalle cose. Odori ‘evaporabili’ e poco consistenti,
ma assai utili al poeta, al pari delle «buone cose di
pessimo gusto» o delle «novissime cose», per addobbare le scene, creare le opportune atmosfere,
e in definitiva «vestire di tempo» gli ambienti.
Certo, ermeneuticamente, gli effluvi non possono
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la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
Sopra da sinistra: copertina de I colloqui e altre poesie, Milano, Garzanti, 1944. Questo volume (II tomo della collana
“Opere di Guido Gozzano” composta da: I: La via del rifugio, con un’aggiunta di poesie varie; II: I colloqui e altre poesie;
III: L’altare del passato - L’ultima traccia; IV: Verso la cuna del mondo; V: La principessa si sposa - Le dolci rime; VI:
L’epistolario) è il numero 747 di 1000 esemplari. Sul frontespizio è inoltre specificato «prima edizione romana» (Milano,
Biblioteca di via Senato). Immagine a destra: frontespizio de I colloqui di Guido Gozzano (Milano, Treves, 1911, tiratura
quinto migliaio). Nella pagina accanto: Guido Gozzano (al centro) con alcuni amici, alla Marinetta di Genova (1910 circa)
essere usati come temi letterari (visto, per altro, che
non sono nemmeno contemplati tra le voci del Dizionario dei temi letterari),2 ma possono assumere se
non proprio la funzione di motivi letterari, certamente di indizi.
Tracce, ahimè, assai impalpabili, la cui presenza si avverte in «vecchie stanze, aulenti di cotogne» (Sonetti del ritorno), oppure, in giardino, dove
«un maggio antico odora e canta» ([Stecchetti]), o
ancora, più in là, dove si respira l’esotico «aroma
dell’Atlantico selvaggio» (Congedo), e dove «odora
la divina foresta spessa e viva» (La più bella), op-
pure, in perfetto compendio, dove «salgono col
profumo del passato/ da un cofanetto pieno di ricordi?» (Le non godute) o, infine, impeccabilmente
e gozzanianamente, nel debito urtarsi di aromi differenti come accade in Prologo: «odor sacro e profano d’incensi e di belletti».
Appare evidente che il gioco essenziale sul
quale Gozzano innesca il rapporto oggetto/odore
è da impiegarsi - per dirla con Giovanni Getto nello «sgomento dello spazio e del tempo e da
un’esigenza di rifugio contro il loro inquietante incombere», ma anche - aggiungiamo - per un di-
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
staccato assaporare l’istante, verificare un’esperienza e alfine scherzare «gelido» con le cose da tenere intatte e lontane dalle tarme dell’oblio, a costo
di custodirle (e qui il tanfo è decisivo) «sepolte
come vesti, / sepolte in un armadio canforato» (Torino).
I profumi assumono un ruolo quasi magico,
ma sempre giocato con distaccata ironia, capaci di
ricapitolare (addensare) al presente il tempo trascorso, e il fascino dell’istante rivissuto attraverso
l’olfatto fa tutt’uno con la nominazione delle cose.
Di quanto non può più ritornare, a salvarlo è soltanto, per Gozzano, il rifugio in un «Odore d’ombra! Odore di passato!/ Odore d’abbandono
desolato!», La signorina Felicita), o meglio la sua
nominazione. Non siamo lontani da quanto, in
pratica, Mario Praz notava per le suppellettili dannunziane, ovvero che «se nominare una cosa val
quanto enunciarne l’essenza stessa, evocarla in
forza di un potere quasi fiabesco […] quasiché il
nome ne contenesse la quintessenza»,3 e da quanto,
misurate opportunamente le distanze, magistralmente faceva in quegli anni Marcel Proust: «riconobbe, segreta, sussurrante e distaccata, la frase
aerea e odorosa che egli amava. […] Alla fine essa
si allontanò, indicatrice, diligente, tra le ramificazioni del suo profumo, lasciando sul volto di Swann
il riflesso del suo sorriso» (La strada di Swann).
Ma, beninteso, per Gozzano, gli aromi non rivelano nulla, non agiscono nessun effetto epifanico
da potersi accostare alle madelaines o al selciato del
palazzo dei Guermantes (sebbene cronologicamente lì vicini), ma svolgono soltanto e impeccabilmente un ruolo scenografico, servono ad
accrescere il senso degli spazi, a celebrare i dettagli,
ad aiutare, negli intérieures, le cose a essere metronome del tempo, e a rammentarlo quando ce n’è
bisogno. Ora, per mettere ordine in una materia
così volatile proveremo soltanto a catalogare gli
odori a seconda dei luoghi dove si effondono, suddividendoli in due grandi classi: gli odori naturali
e quelli artificiali, quelli che si danno nell’interno
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delle camere, ovvero in forte relazione con le cose
che ammobiliano i «salotti» (o le dispense), da
quelli della campagna o dalla strada; accogliendo il
rischio (che mette in pericolo la scientificità dei criteri della collezione) che gli odori, forse per la loro
stessa volubilità, amano diffondersi da una poesia
all’altra, come, ad esempio, accade nella prima
parte dei Sonetti del ritorno, dove l’«odor triste di
cotogna» assieme a quelli di «muffa, di campestre», presenti «nell’umile casa centenaria», se ne
vanno a miscelarsi col «profumo di mentastro»
nella quarta parte dei Sonetti del ritorno, quale
«buon odor di cotogna», e poi, non contenti, nell’Ipotesi, con gli olezzi assai poco aulici e campestri
di «cera di pavimento,/ di fumo di zigaro…». Oppure, può anche accadere che gli aromi si mettano
in urto tra loro (cosa molto amata da Gozzano),
come succede nella seconda parte dei Sonetti del ritorno, dove il poeta invita il glicine ad aver ragione
dei barbari tanfi di «muffa e cotogna»: «Il profumo
di glicine dissìpi/ l’odor di muffa e di cotogna», e
ad addobbare il frontespizio della casa paterna e
centenaria: «O casa fra l’agreste e il gentilizio,/ coronata di glicini leggiadre,/ o in mezzo ai campi
dolce romitaggio!». Altri scontri tra odori e cose si
sviluppano nella poesia Dante dove per lo scolaro
Gozzano è l’effluvio di ginestre a vincere la partita
col noioso «comento retorico e fittizio» del «buon
maesto» che s’addormenta.
16
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
Villa Il Meleto, ad Agliè Canavese, residenza estiva di Guido Gozzano (foto d’epoca)
Per il nostro breve tragitto, è il caso, ora, di
partire esemplarmente da quella sorta di catalogo
visivo e odoroso che è la «Villa amarena» della Signorina Felicita, posizionata centralmente e strategicamente nei Colloqui, dove è tutto un profluvio
di odori che si differenziano a seconda dei piani del
caseggiato, dal salotto dove imperversa l’«odor
d’inchiostro putrefatto» nel suo rivaleggiare con
«l’odor d’ipecacuana» della farmacia del villaggio,
o in cucina dove si godono «quegli odori/ tanta
tanto per me consolatori,/ di basilico d’aglio di cedrina»,4 mentre «il buon aroma [del caffè] si diffonde intorno», per passare poi nell’«orto dal
profumo tetro di busso», e alfine giungere al solaio,
deposito puntuale di cianfrusaglie, «di ciò ch’è
stato e non sarà più mai» per cui si diffonde stantio
«Odore d’ombra! Odore di passato!/ Odore d’abbandono desolato!», ma dove anche si favoleggia,
in debito contrasto, di viaggi per «guarire d’altri
viaggi», «oltre Marocco, ad isolette strane,/ ricche
in essenze, in datteri, in banane,/ perdute nell’Atlantico selvaggio…» (olezzi tutti da rinviarsi
agli «aromi della jungla in fiore» della poesia di
Ketty).5
Anche i profumi della natura sembrano giocare il classico ruolo del «rifugio» dal tempo e dallo
spazio e dal morire (geograficamente poi cercato
nel calpestio concreto della terra indiana), ma
anche assaporare fino in fondo un presente che non
durerà per molto. Se, infatti, entriamo, ad esempio,
nella poesia Le due strade, e usciamo subito sulla
«bella strada» che «tra bande verdigialle d’innumeri ginestre/ scendeva nella valle», ecco apparire
«rapidamente in vista» la «bimba Graziella», e venirci subito incontro, assieme all’«aroma/ degli
abeti», l’aroma di «adolescenza» della «Signo-
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
rina», del quale dolorosamente Gozzano assapora
l’effluvio, e non serve certo a lenire la sua disillusione amorosa il «buon odore dei boschi./ Di quali
aromi opimo odore non si sa:/ di resina? di timo?
O di serenità?...». E, da qui, è tutto un rincorrersi
di profumi naturali: di «glicine»: «di ginestre»
(Dante), o di esotici aromi quali quelli dove «odora
la divina foresta spessa e viva» (La più bella), e dove
si diffonde «l’odor/ di pace, filtro di non so che
frutto» (Paolo e Virginia), in un maggio che «odora
e canta» ([Stecchetti]).
Questa meccanica, odori compresi, è pienamente messa in piedi dal poeta torinese on l’Ipotesi, al di là della invertita cronologia di scrittura
del testo della Signorina Felicita, dove una doppia
risma di odori si danno convegno. Nell’Ipotesi, in
perfetta polarità di date, riappare il salotto buono
e ottocentesco di nonna Speranza, ma rivisitato nel
«millenovecentoquaranta» e riadattato a «sala da
pranzo». Sarà proprio in virtù della miscela degli
odori di «cotogna, cera da pavimento e fumo di zigaro» che ancora vi permangono, che si avvia un
istantaneo miracolo della ricerca di un tempo perduto. Ma, se questo accade all’interno delle camere della «villa remota del Canavese»,
all’esterno, in giardino, si configura un ipotetico
futuro che non si darà, immaginato nella convivialità tutta borghese di un Gozzano settantenne in
compagnia dei «superstiti amici d’adesso», in un
quadretto da declinarsi al condizionale come un
sogno che resterà tale.
Ma è proprio lì, nel giardino immaginario,
NOTE
1
Edoardo Sanguineti, Introduzione a G.
Gozzano, Poesie, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1973, p. VII.
2
Dizionario dei temi letterari, a cura di
R. Ceserani, M. Domenichelli, Pino Fasano,
Torino, Utet, 2007.
3
MarioPraz, La carne, la morte e il dia-
17
che l’«aroma» del trionfo dei «frutti» permette il
ricordo dei «vent’anni felici», all’arrivo del «massaio con le vecchie fruttiere»: «E l’uve moscate più
bionde dell’oro vecchio; le fresche/ susine claudie,
le pesche gialle a metà rubiconde,// l’enorme pere
mostruose, le bionde amandorle, i fichi/ incisi dai
beccafichi, le mele che sanno di rose// emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore/ ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici» (L’ipotesi).
Ma i profumi, per terminare il nostro breve
catalogo, assumono per Gozzano anche una forte
carica sensuale, come gli accade per strada, attratto
e seguendo «l’odorosa traccia/ della tua gonna» (Il
gioco del silenzio), oppure quando è sedotto dalle
«capigliature» femminili debitamente profumate,
che si mescolano, odorose di eros, leggere e frivole,
alle paste, ai «velluti» della Confetteria Baratti &
Milano, a Piazza Castello, a Torino, dove le «golose» si pavoneggiano «fra quegli aromi acuti,/
strani, commisti troppo/ di cedro, di sciroppo,/ di
creme, di velluti,// di essenze parigine,/ di mammole, di chiome:» (Le golose). «Essenze parigine»
di nuovo riusate nei versi del Responso, nei «bei capelli densi come matasse attorte…», per creare tutt’altra «truce» atmosfera, dove, oggetti e aromi
insieme soccorrono ma non leniscono l’amaro dei
ricordi del poeta: «C’era un profumo mite che mi
tornava bimbo:/ …un gracile corimbo di primule
fiorite.// E c’era una blandizie mondana acuta
fine:/ …di essenze parigine, di sigarette egizie… //
C’era un profumo forte che inebriava i sensi:/ …i
bei capelli densi come matasse attorte…».
volo nella letteratura romantica, Firenze,
Sansoni, 1966, pp. 430-431.
4
E qui si aprirebbe anche per Gozzano
un rivolo di rapporti, tutto da indagare, con
la funzione dell’olfatto in d’Annunzio, nelle
cui prose e poesie gli odori, almeno lemmaticamente, giuocano un ruolo non del tutto
opposto a quelli gozzaniani.
5
Le comparazioni, mediate dalla «jungla» indiana, si potrebbero allargare anche
ai testi di Gozzano raccolti in Verso la cuna
del mondo. Lettere dall’India, dove è tutto
un profluvio, per citarne alcuni, di «profumi
acuti» (La danza di una devadasis), o «acutissimi» (Il fiume dei roghi), tra «odori di fiori»
e «odore d’incenso» (Goa: la dourada).
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
19
SPECIALE GUIDO GOZZANO
MORTE E NOSTALGIA: LE
MASCHERE DI GOZZANO
Le piccole cose e l’eterna poesia
DI MARCO CIMMINO
V
i sono mille modi di affrontare la vita e ve
ne sono mille di affrontare la morte: a seconda dell’indole, della situazione, del
rapporto che intercorre tra speranza e disperazione. Gozzano scelse di eludere entrambe: tanto la
vita quanto la morte. La sua poesia fu eminentemente elusiva, nel senso più piano e più pieno del
termine.
Quando pubblicò i suoi Colloqui, nel 1911,
Gozzano era già un giovane malato incurabile: la
tubercolosi, che fu la cifra di tanti altri poeti della
sua generazione, e in particolare di altri crepuscolari, come, ad esempio, Sergio Corazzini, non si
limitò a imporgli una sorta di filosofico distacco
dall’esistenza,1 ma gli permise di sviluppare quelle
che furono, secondo chi scrive, le sue caratteristica distintive, ovvero l’autoironia, il gioco tra realtà e finzione e, in definitiva, il suo gradevolissimo
mimetismo. E su questo verterà questo breve intervento: sulla complicata decifrabilità del gioco
A destra: Guido Gozzano, insieme alla madre, Diodata
Mautino, ritratti nel giardino di villa Il Meleto, ad Agliè
Canavese. Nella pagina a sinistra: copertina di Verso la cuna
del mondo. Lettere dall’India (1912-1913). Il volume,
stampato a Milano, dai Fratelli Treves, nel 1917, uscì
postumo (e con una prefazione a firma di Giuseppe Antonio
Borgese) ma seguendo le indicazioni dell’autore (esemplare
conservato presso la Biblioteca di via Senato, Milano)
gozzaniano, tra sorriso e sospiro. Perché Gozzano è poeta che si smentisce sapientemente da solo:
che dice e subito nega, oppure irride e poco dopo
accarezza. E questo suo affermare e negare, scherzare seriamente, è la dimensione più evidente del
suo essere crepuscolare: crepuscolarismo che si
esercita non solo nei colori, nel minimalismo da
tinello di un Moretti, nel tono sommesso di un
Corazzini, ma, nel suo caso, soprattutto nelle sfumature tra vero e invenzione, tra gioco fanciullesco e studiata recita intellettuale.
Si spiegano così le efficacissime ‘metonimie
d’ambiente’2 che Gozzano crea con grande facilità: gli anemoni arcaici, la matita ridicola, ci restituiscono tutto un mondo e una sensiblerie che il
poeta osserva tra il divertito e il commosso, come
20
un osservatore diviso tra partecipazione sentimentale e gelida
e ironica curiosità.
D’altra parte, Gozzano
stesso sovente indossa una sorta
di costume di scena: il cittadino,
l’uomo vissuto, il cinico, che
commenta con compassionevole ironia l’ingenuità delle fanciulle ottocentesche, Speranza e
Carlotta, che parlano di Goethe,3 tanto uguali alla signorina
Felicita che domanda delle foglie di ciliegio intorno al capo
del Tasso4 da diventarne il modello. Eppure, in una sorta di funambolica capriola in clausola,
Carlotta Capenna, nella mirabile conclusione de L’amica di nonna Speranza, è la
sola che il poeta avrebbe potuto amare.
Anzi, proprio per essere più chiari, amare
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
d’amore, con una felicissima
anadiplosi conclusiva. E alla povera signorina di Villa Amarena,
Gozzano arriva addirittura a fare una proposta di matrimonio,
coi toni riservati e compiti di un
bravo giovanotto di provincia:
ma sa che la sta ingannando e
che si sta ingannando (nella realtà, la donna di Gozzano è agli
antipodi della signorina Felicita:
Amalia Guglielminetti era una
straordinaria creatura, poetica e
passionale, dalla lucidissima intelligenza e dalla cultura aperta).
Incombe su di lui, giocoliere dai polmoni corrosi, la partenza per l’India, alla ricerca di
una guarigione improbabile, forse impossibile: e
Gozzano gioca con la propria vita con il disincanto
e insieme l’amarezza di chi sa di averne pochissi-
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
21
Nella pagina accanto, in alto da sinistra: Guido Gozzano,
in una immagine del 1912 circa; Amalia Guglielminetti
(1881-1941), in una celebre foto; in basso, Sergio
Corazzini (1886-1907), in una foto di poco anteriore alla
morte. Qui a destra: Marino Moretti (Cesenatico, 18851979) ripreso sul porto canale della nativa città romagnola
ma. Vi è, in queste due poesie, distanti pochi anni
da un punto di vista compositivo e ancora meno
nelle atmosfere, una calcolata costruzione del
personaggio Gozzano, basata su di un repertorio
tra il dandy ed il dannunziano trasognato: le figure lente e tarde degli ‘adulti’ ad esempio, in contrasto con la rapidità d’intuito e di parola del poeta, che gioca abilmente con le sequenze dialogiche, per descrivere la comicità delle sue marionette.
Lo zio «gesuitico e tardo», il padre di Felicita, il farmacista, il «molto regio notaio», sono personaggi da commedia dell’arte. Solo lui, Gozzano,
sa: solo lui è il «vero figlio del tempo nostro»,5
l’avvocato che nemmeno si è mai laureato in legge.
Eppure, egli si autodefinisce avvocato svariate
volte: quasi a esorcizzare una borghesissima delusione universitaria.
Tanti e tanti poeti di grido sono scivolati su
questo mal dissimulato rammarico:6 Gozzano,
grandissimo infingitore, lo risolve facendosi chiamare avvocato dai villici, che non distinguono uno
studente da un laureato.
La cosa, tuttavia, la dice lunga sul carattere
del Nostro: su questo suo giocare sempre sul filo
dell’equivoco. Alla fine, però, il gioco più rischioso è il suo equilibrismo di fronte alla morte: alla
sua morte, non a un’astratta visione intellettuale.
In alcuni suoi versi, il poeta sembra quasi avere metabolizzato l’idea della propria morte: singolare appare che chi abbia definito «tetro» un caminetto,7 poi dichiari la morte essere cosa non tetra,
in una sorta di visione metemsicotica dell’esistenza: come nella celebre Alle soglie.8
È questo il gioco sottile della poesia di Guido
Gozzano: un’alternanza graziosa di serio e faceto,
mescolati al punto da divenire un qualcosa di indistinguibile. Il resto, le tracce di una società benestante, divisa tra Agliè e Belgirate, l’attività giornalistica, la scrittura, perfino la malattia e la sofferenza, sfumano in secondo piano: quel che conta è
quel presente di apparente banalità quotidiana,
quelle donne quasi brutte, poco intelligenti, incompiute, quelle suppellettili, quei vialetti di
ghiaia, quelle balaustre, quelle serrande. Perché è
questo il rifugio di Gozzano, quello cui alluse nella
sua prima felice raccolta di poche poesie che, nel
1907, gli diede una prima notorietà letteraria: un
rifugio sottotraccia, mimetizzato nella collina piemontese, tra persone qualunque, tra gesti usati.
Non a caso, i comprimari della vita raccontata dal poeta sono sempre figure parzialmente mutile: vecchi parenti rimbambiti, famiglie ultraconvenzionali, animali. I suoi «dolci compagni» sono
questi: ogni intrusione dal mondo frenetico della
realtà appare in Gozzano come una sorta di profa-
22
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
A sinistra: Guido Gozzano insieme ad Amalia
Guglielminetti, in una delle rare fotografie insieme
nazione, cui si sottopone di cattiva volontà, come
per la visita dei «villosi forestieri» che vengono a
disturbare la tranquillità claustrale di Totò Merumeni, il punitore di se stesso.
Se si vuole cogliere la specificità di Gozzano,
in un contesto come quello del Crepuscolarismo,
che rischia tanto spesso di divenire maniera o me-
NOTE
1
I malati di tisi dovevano evitare tanto gli sforzi fisici quanto le forti emozioni:
da ciò gliene derivava una specie di atarassia indotta.
2
Si tratta di metonimie che non si limitano a un trasferimento di significato,
ma fungono da evocazione a interi ambiti
culturali o a stati d’animo.
3
«Che versi divini!» - «Fu lui a donarmi
quel libro, ricordi? che narra siccome,
ra accademia, è in questa direzione che si deve
guardare: non lasciarsi fuorviare dalla sua indubbia capacità tecnica, dalle sue rime interne, dai ritmi sapienti.
E neppure seguirlo in queste microricostruzioni sociali, popolate di cocottes in villeggiatura e
amanti del Re di Sardegna: se si insegue Gozzano
nel suo presepe domestico si rischia di perdersi
nella fuga dei corridoi e nel ciarpame dei solai, in
quelle nobili ville secentesche un po’ in disarmo,
circondate da giardini incolti dai profumi di cimitero. Gozzano va colto con una scherma di fioretto: bisogna inchiodarlo e costringerlo a gettare le
molteplici maschere dietro cui si protegge. E, allora, si scoprirà una vena patetica e nostalgica,
quasi arcade: un’intensa malinconia che, forse, nasce dal rimpianto per una vita che avrebbe potuto
essere e che non sarà mai.
Un Gozzano come un Leopardi nascosto dietro le ante del salotto buono, insomma. Per poi,
inaspettatamente, essere folgorati dal miracolo di
un sorriso, di uno squarcio d’azzurro, che sembra
dirci che i poeti, a volte, muoiono in umidi letti
d’ospedale, ma che la poesia non muore mai. Rimane sospesa nell’aria, come l’eco di un riso di
bimbi.
amando senza fortuna, un tale si uccida
per una, per una che aveva il mio nome.»
4
«Avvocato, perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?»
5
In Totò Merumeni.
6
Montale e Quasimodo, per tutti.
7
In L’amica di nonna Speranza.
8
Mio cuore dubito forte - ma per te
solo m’accora - che venga quella Signora
dall’uomo detta la Morte. (Dall’uomo: ché
l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo le
danno un nome, che, credo, esprima una
cosa non tetra). È una Signora vestita di
nulla e che non ha forma. Protende su
tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.
Tu senti un benessere come un incubo
senza dolori; ti svegli mutato di fuori, nel
volto nel pelo nel nome. Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;
né più ti ricordi i colloqui tenuti con guido
gozzano.
Media Italia S.p.a. Agenzia media a servizio completo
Torino, Via Luisa del Carretto, 58 Tel. 011/8109311 [email protected]
Milano, Via Washington, 17 Tel. 02/480821
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Bologna, Via della Zecca, 1 Tel. 051/273080
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
25
SPECIALE GUIDO GOZZANO
XILOGRAFIE IN MOSTRA
PER IL «BEL GUIDO»
Figure, animali e fiori ad Agliè
GIANFRANCO SCHIALVINO
P
erché una mostra ispirata
a (da) Guido Gozzano?
Perché continuare ad
amare Gozzano un secolo dopo,
in un nuovo millennio improntato alla immaterialità del vedere - dire ‘guardare’ sarebbe improprio - le immagini fluttuanti
dentro uno schermo che ipnotizza, in un attimo, con il potere
subliminale di miliardi di impulsi luminosi, altrettanti sguardi distratti e passeggeri, per carpirli, affascinandoli con l’adrenalina della sorpresa e la seduzione maliarda dello stupore?
Penso a tante e disparate
ragioni: la copertina dei Colloqui, illustrata da Bistolfi per Treves nel 1910, di vaghi sentori beardsleyani; la consuetudine, per
me canavesano, della terra delle
comuni radici, e per Gianni Ver-
Sopra: Gianfranco Schialvino, Ritratto
di Guido Gozzano, xilografia, 2016.
Nella pagina accanto: Gianfranco
Schialvino, Nel fare il giro a tondo /
festeggiano le sorti. / (I bei capelli corti /
come caschetto biondo), xilografia, 1989
XILOGRAFIA:
OMAGGIO A GOZZANO
Mostra a cura di Gianfranco
Schialvino e Gianni Verna
CASTELLO DUCALE DI AGLIÈ
SALONE DI DIANA
dall’8 luglio al 2 ottobre 2016
Castello Ducale,
Piazza Castello 3, Agliè - Torino,
tel. 0124/330335
www.lerosechenoncolsi.it
APERTO TUTTI I GIORNI,
CON VISITA LIBERA
DALLE ORE 9.00 ALLE ORE 18.00
CHIUSO IL LUNEDÌ
na, l’altro dell’«operoso cenacolo a due» (come ci definì, noi
della “Nuova Xilografia”, Angelo Dragone, il nostro primo
mentore), l’abitare a due passi
dalla villa del Meleto; la lettura,
da collegiale, nella «Ivrea turrita, dove scorre la cerulea Dora»,
della Cocotte, rinvenuta in un’antologia di versi proibiti; e ancora, negli anni d’università,
l’averlo avuto per guida nella
scoperta di una Torino rimasta
straordinariamente fané: «un
po’ vecchiotta, provinciale, fresca / tuttavia d’un tal garbo parigino».
Ma col senno di poi per due
versi colorati di assenzio che ne
sintetizzano la figura e la poesia
in un abusato cliché, leggerezza e
melanconia, ma che esaltano la
sua forza nella consapevolezza
della fine incombente: «Senza
querele, o Morte, discendo ai regni bui; /di ciò che tu mi desti o
Vita, io ti ringrazio».
È una mostra, quella allestita nel Castello Ducale di
Agliè, il «dolce paese che non di-
26
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
A sinistra dall’alto: Gianni Verna, Danza di una Devadasis,
xilografia, 2015; Gianni Verna, Alla sera mentre io contemplo
il tramonto sui picchi nevati delle Levanne, xilografia, 2011.
Nella pagina accanto, da sinistra: Gianfranco Schialvino,
È questa l’ora antica torinese, / è questa l’ora vera di Torino,
xilografia, 1988; Gianfranco Schialvino, Il profumo di glicine
dissipi / l’odor di muffa e di cotogna, xilografia, 1985.
In basso: Gianni Verna, Le agavi dall’immenso fiore
centenario, xilografia, 2010
co», in cui predomina la tecnica xilografica, un linguaggio artistico che a cavallo fra l’Otto e il Novecento ebbe una vivace riscoperta e fortunati esiti,
sia come incisione originale su matrice di legno sia
soprattutto nello stile, che esalta le qualità espressive del chiaroscuro, preponderante in Inghilterra,
con i disegni di Aubrey Beardsley cui fanno riferimento le contemporanee edizioni dannunziane
milanesi (i debiti delle copertine di De Carolis per
il Notturno del 1921 e bistolfiani di quella dei Colloqui appaiono in effetti lampanti).
È dalla lettura dei testi letterari, da precisi
versi, da puntuali parole, che prendono vita i grandi fogli che rivisitano in modo del tutto originale
l’opera del «nostro bel Guido», come, confidenzialmente, lo chiamò Renato Serra. Lo ricorda
Bruno Quaranta nel testo esplicativo che accompagna il catalogo: «È la natura il rifugio del bel
Guido. Smemorando ogni indugio. Lui che è,
sommamente, la ‘perplessità crepuscolare’ a cui si
ribella la Signorina Felicita, una gemma dei Colloqui. La perplessità di fronte alla donna (la relazione-non relazione con Amalia Guglielminetti); di
fronte al sapere (“Giova il sapere al corpo che ti
langue? / Vale ben meglio un’oncia di buon sangue
/ che tutta la saggezza sonnolenta”); di fronte a sé
stesso (“Ed io non voglio più essere io! / Non più
l’esteta gelido, il sofista”); di fronte alla vita (“Non
vissi. Muto sulle mute carte / ritrassi lui, meravigliando spesso. / Non vivo. Solo, gelido, in disparte, / sorrido e guardo vivere me stesso”); di fronte
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
all’universo mondo».
Figure, animali, fiori, alberi
montagne, paesaggi, riecheggiano via via il Meleto e il favoloso Oriente, i fiori in cornice e la
strada boschiva, le «innumeri ginestre» e «il gran mazzo di rose», «la gran chioma disfatta nel
tocco da fantino» e «le agavi dall’immenso fiore centenario», il
profumo della glicinia, la danza
di una Devadasis, il volo del Parnassus Apollo. Ma anche «l’ora
antica torinese», «l’Alpi tra le
nubi accese», la cocotte... «Una
cocotte!... Che vuole dire, mammina?», Il «mite settembre canavesano», il colloquio con la luna «Alla sera mentre contemplo il tramonto sui picchi nevati delle
Levanne. [...] Lassù nel candore perduto, abba-
27
gliante, inaccessibile agli uomini», i giochi infantili al Meleto
«Nel fare il giro a tondo / festeggiano le sorti. / (I bei capelli corti
/ come caschetto biondo)».
Insieme ai passi che definiscono il «guidogozzano» che
tutti ha affascinato e ancora sa
avvincere: familiare, intimo, seducente anche quando affranto
cerca di prolungare «gli ultimi
aneliti d’una lampada che si spegne» cantilenando: «ci sono pur
sempre le rose, / ci sono pur
sempre i gerani»; e nel salotto
tocca i ninnoli baroccamente
inutili, e dà vita perenne a «le
buone cose di pessimo gusto».
Tutte immagini che diventano più sue perché
incise con parole sue.
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
29
SPECIALE GUIDO GOZZANO
GUIDO GOZZANO
IN VIA SENATO
Fra prime edizioni e libri di pregio
GIANLUCA MONTINARO
L
a Biblioteca di via Senato, nel proprio vasto
Fondo di Letteratura
italiana del Novecento, conserva quasi tutte le prime edizioni
di Guido Gozzano, sia quelle
che hanno visto la luce sotto il
controllo diretto del poeta che
le successive, uscite dopo la sua
prematura morte.
La via del rifugio, prima
prova poetica di Gozzano, è
presente con un esemplare del
1907 (ovvero prima edizione, tiratura secondo migliaio) impreziosito, al recto
della prima carta bianca, dalla firma dell’autore,
in inchiostro nero. La prima edizione della seconda raccolta, I colloqui (Milano, Fratelli Treves,
1911), è addirittura presente nelle collezioni della
Biblioteca di via Senato in duplice copia (tiratura
primo migliaio e terzo migliaio).
Nella pagina accanto: copertina della prima edizione
(tiratura secondo migliaio) del volume di novelle postumo
L’ultima traccia, Milano, Fratelli Treves, 1919
(Milano, Biblioteca di via Senato).
Sopra: una delle otto calcografie a colori di Ugo Nespolo
(1941) che adornano il volume La via del rifugio. I colloqui,
stampato a Torino, da Fògola Editore, nel dicembre 2005
(Milano, Biblioteca di via Senato)
Notevoli per interesse sono anche le due edizioni, postume (ma concordate da Gozzano,
prima della morte, con l’editore) di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913), con
prefazione di Giuseppe Antonio
Borgese (Milano, Fratelli Treves, 1917) e della raccolta di novelle L’ultima traccia (Milano,
Fratelli Treves, 1919).
Tralasciando di segnalare
edizioni di minor valore e di più larga diffusione, è
interessante puntare l’attenzione sulla folta presenza, presso la Biblioteca di via Senato, di titoli
gozzaniani nelle collezioni di libri moderni di
particolare pregio tipografico, numerati e impreziositi da illustrazioni d’artista. Fra essi è opportuno segnalare l’importante Liriche Scelte da «I colloqui», stampato nel giugno del 1954, a Verona
(presso l’Officina Bodoni di Giovanni Mardersteig), per l’associazione I Cento Amici del Libro.
Formato da 128 pagine, reca anche 17 litografie
originali a colori, opera di Renato Cenni. L’edizione è limitata a 120 esemplari composti ad personam: quello conservato presso la Biblioteca di via
Senato era di proprietà del conte Giovanni Treccani, fondatore dell’Istituto dell’Enciclopedia
30
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
Da sinistra: frontespizio della prima edizione (tiratura secondo migliaio) del volume di novelle postumo L’ultima traccia,
Milano, Fratelli Treves, 1919 (Milano, Biblioteca di via Senato); frontespizio della prima edizione postuma (tiratura
secondo migliaio) di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913), con prefazione di Giuseppe Antonio Borgese,
Milano, Fratelli Treves, 1917 (Milano, Biblioteca di via Senato)
Italiana. Notevoli (e sempre numerate) sono anche le tre copie de I colloqui (a cura di Franco Antonicelli) stampate, su carte preziose, ad Alpignano,
da Alberto Tallone, nel 1970.
Più recenti ancora, numerate e impreziosite
dalla presenza di incisioni e acqueforti, sono i volumi La Notte Santa ed altri versi (Dogliani, Calcografia Al Pozzo, 2001) e La via del rifugio. I colloqui
(Torino, Fogola, 2005). Interessanti, infine, sono i
rari: Guido Gozzano - Amalia Guglielminetti,
Lettere d’amore (Milano, Garzanti, 1951) e La moneta seminata e altri scritti con un saggio di varianti e
una scelta di documenti (a cura di Vanni Scheiwiller,
All’insegna del pesce d’oro, 1968).
Elenco delle prime edizioni e dei libri di
pregio di Guido Gozzano conservati presso la
Biblioteca di via Senato
• Guido Gozzano, La via del rifugio, Genova - Torino - Milano, Casa Editrice Renzo Streglio.
1907. pp. 84 [4]. Prima edizione (tiratura: secondo
migliaio). Firma autografa di Gozzano, in inchio-
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
31
Da sinistra: frontespizio del volume: Guido Gozzano - Amalia Guglielminetti, Lettere d’amore, prefazione e note di Spartaco
Asciamprener, Milano, Garzanti, 1951 (Milano, Biblioteca di via Senato); frontespizio del volume La moneta seminata e altri scritti
con un saggio di varianti e una scelta di documenti, a cura di Vanni Scheiwiller, introduzione e note di Franco Antonicelli, Milano,
All’insegna del pesce d’oro, 25 aprile 1968 (esemplare numero 1215 su 1500, conservato a Milano, presso la Biblioteca di via Senato
stro nero, al recto della prima carta bianca. Brossura editoriale avorio, copertina illustrata e con titolo in rosso, titoli in nero al dorso, piccola marca
tipografica al piatto posteriore.
• Guido Gozzano, I colloqui, Milano, Fratelli Tre-
ves, 1911. pp. 156; prima edizione (tiratura: primo
migliaio). Brossura.
• Guido Gozzano, I colloqui, Milano, Fratelli Treves, 1911. pp. 156; prima edizione (tiratura: terzo
migliaio). Brossura.
• Guido Gozzano, Verso la cuna del mondo. Lettere
dall’India (1912-1913), con prefazione di Giuseppe
Antonio Borgese, Milano, Fratelli Treves, 1917. pp.
[XV], 274; prima edizione, uscita postuma (tiratura:
secondo migliaio, titolo presente presso la Biblioteca di via Senato in due copie ). Brossura.
• Guido Gozzano, L’ultima traccia. Novelle, Milano,
Fratelli Treves, 1919. pp. 277; prima edizione, uscita postuma (tiratura: secondo migliaio). Brossura.
• Guido Gozzano, I colloqui e altre poesie, Milano,
32
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
33
A sinistra: copertina de I tre talismani. Il rarissimo volume,
che contiene le sei fiabe pubblicate da Guido Gozzano sul
«Corriere dei Piccoli» tra il 1910 e il 1911, venne stampato
nel 1914, a Ostiglia, da “La Scolastica” Editrice di Arnoldo
Mondadori (immagine tratta dal volume, conservato presso la
Biblioteca di via Senato, La moneta seminata e altri scritti con
un saggio di varianti e una scelta di documenti). A destra:
Guido Gozzano in una fotografia di poco anteriore alla morte
Garzanti, 1944. pp. [6], 182, [1]; 1000 copie numerate (l’esemplare in possesso della Biblioteca di via
Senato reca il numero 747); prima edizione romana,
come specificato nel frontespizio, tomo II, della collana “Opere di Guido Gozzano” composto da: I: La
via del rifugio, con un’aggiunta di poesie varie; II: I colloqui e altre poesie; III: L’altare del passato - L’ultima traccia; IV: Verso la cuna del mondo; V: La principessa si sposa
- Le dolci rime; VI: L’epistolario. Brossura.
• Guido Gozzano - Amalia Guglielminetti, Lettere
d’amore, prefazione e note di Spartaco Asciamprener, Milano, Garzanti, 1951. pp. 174. Brossura.
• Guido Gozzano, Liriche Scelte da «I colloqui», Verona, Stampato per i Cento Amici del Libro, 1954
(giugno). pp. [II] 118 [8]. 17 litografie originali a colori, di cui: 1 vignetta al frontespizio, 11 testatine, 3
illustrazioni a piena pagina e 2 finalini, opera di Renato Cenni (1906-1977). Edizione limitata a 120
esemplari. «Questa scelta di Liriche di Guido Gozzano, tratta per gentile concessione di Renato Gozzano e dell’editore Garzanti dalla loro edizione originale, è il nono volume pubblicato dai Cento Amici
del Libro. Le 17 litografie a colori sono state disegnate dal pittore Renato Cenni e tirate a Milano da
Piero Fornasetti. La stampa del testo dei 120 esemplari è stata eseguita a Verona con torchio dell’Officina Bodoni di Giovanni Mardersteig su carta a tino
di Fabriano. Tutti gli esemplari sono firmati dal Presidente della Società». Esemplare ad personam per il
Conte Giovanni Treccani degli Alfieri, con suo ex li-
bris araldico al verso della prima carta bianca. Firmato al colophon da Bino Sanminiatelli, l’allora
presidente dei Cento Amici. Brossura editoriale
beige, litografia in nero con titoli in viola al piatto
anteriore, «Gozzano» in nero al dorso, barbe.
• Guido Gozzano, La moneta seminata e altri scritti
con un saggio di varianti e una scelta di documenti, a cura
di Vanni Scheiwiller, introduzione e note di Franco
Antonicelli, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 25
aprile 1968. pp. 211, [17]. Volume tirato in 1500 copie numerate (l’esemplare posseduto dalla Biblioteca di via Senato è il n. 1215). Numerose illustrazioni
e riproduzioni fotografiche in bianco e nero nel testo. Brossura con sovraccoperta editoriale e velina
protettiva. Volume n. 37 della collana “Acquario”.
• Guido Gozzano, I colloqui, a cura di Franco Antonicelli, Alpignano, Alberto Tallone, 1970. pp.
34
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
Sopra: Guido Gozzano, in una foto
del 1914.
A sinistra: copertina de La principessa
si sposa. Il volume, che contiene altre
sei fiabe, successive a quelle
pubblicate ne I tre talismani, venne
stampato a Milano, postumo ma
seguendo le indicazioni dell’autore,
da Treves, nel 1917 (immagine tratta
dal raro volume, conservato presso la
Biblioteca di via Senato, La moneta
seminata e altri scritti con un saggio di
varianti e una scelta di documenti)
XXIII, [1], 96, [8]. Antiporta con riproduzione del
disegno di Luigi Bistolfi per la prima edizione del
1911. Edizione limitata a 470 esemplari; sono stati
tirati inoltre 10 esemplari su carta Japan Hodomura
e 20 su carta Japan Hosho numerati in cifre romane
(la Biblioteca di via Senato conserva il numero n.
373 e i numeri VIII/XX e XX/XX della tiratura su
carta Japan Hosho). Il volume è stampato su carta
Miliani di Fabriano, è stata composto a mano con il
carattere Tallone corpo 12.
•
Guido Gozzano, La Notte Santa ed altri versi,
Dogliani Castello, Calcografia Al Pozzo, 2001
(dicembre). pp. 23, [7]. Con tre acqueforti in nero,
a piena pagina (firmate a matita in calce, oltre che
al colophon), di Teresita Terreno (1950). Edizione
limitata, n. 14/110 (100 esemplari numerati e 10
prove di stampa). Brossura editoriale bianca con
titolo e marca tipografica in nero al piatto anteriore e al dorso, barbe. In custodia cartonata écru.
• Guido Gozzano, La via del rifugio. I colloqui, a cura
di Giorgio Bàrberi Squarotti e Folco Portinari, Torino, Fògola Editore, 2005 (dicembre). pp. [4], 184,
[12]. Otto calcografie a colori e 14 acqueforti, protette da veline, opera di Ugo Nespolo (1941). Volu-
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
me n. 35 de “La Grande Collana”. Edizione limitata
a 251 esemplari numerati, su carta a mano con filigrana originale appositamente fabbricata per l’editore dalle Manifatture Magnani di Pescia. Dei 251,
140 sono numerati in cifre arabe e i primi 125 dedicati ad personam ai sottoscrittori; 26 sono esemplari
contraddistinti alfabeticamente A-Z e riservati ai
collaboratori e al deposito legale; 10 sono riservati
all’artista; LXVV infine sono adornati dalle 14 acquaforti. La cura grafica è di Antonio Brandoni, la
composizione e impaginazione con il carattere De
Roos corpo 12 e 14 è opera di Michele Francia. Vo-
35
lume stampato in Dogliani Castello dalla Calcografia Al Pozzo di Antonio Liboà. Esemplare n.
VI/LXXV. Include segnalibro Fògola in foglia di
betulla, personalizzato per l’edizione, illustrato e
firmato. Legatura editoriale in pieno marocchino
rosso della legatoria Luciano Fagnola di Torino. Filetto dorato ai bordi dei piatti. Labbri e unghie decorati in oro. Dorso a 4 nervi con scomparti riquadrati da filetto dorato, titolo e marca tipografica in
oro. Taglio superiore dorato, gli altri con barbe. In
custodia cartonata rivestita in carta vergata color
sabbia, unghie in marocchino rosso.
Frontespizio della prima edizione (uscita postuma) di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913), con prefazione di
Giuseppe Antonio Borgese, Milano, Fratelli Treves, 1917 (volume conservato a Milano, presso la Biblioteca di via Senato)
giiugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
37
inSEDICESIMO
L E
M O S T R E
–
C O L L E Z I O N I
E
LA MOSTRA/1
L’ARCADIA DI VALTELLINA
I territori di Enrico Della Torre
a cura di luca pietro nicoletti
n occasione di una mostra
organizzata in Germania per i suoi
ottant’anni, nel 2011, Enrico Della
Torre aveva detto che con l’età matura
si diventa più “geometrici”, ovvero che
l’evoluzione di una pittura astratta non
poteva che sfociare in un’esigenza di
maggiore rigore attraverso le “certezze”
della geometria. Si potrebbe quindi
immaginare, con queste premesse,
un’inappellabile scelta per la via delle
rette ortogonali, per un favore verso la
linea spezzata rispetto a quella curva.
Da tempo, del resto, Della Torre ha
recuperato alcuni esempi della sua
produzione giovanile in cui era evidente
una scelta di emotività trattenuta che,
rivisti a distanza, potevano far pensare a
un precursore delle istanze della pittura
I
analitica. Un riconoscimento alla validità
della sua produzione matura è dato dal
medaglione monografico a firma di
Cristina Casero per il numero 11 (72)
della rivista “Titolo” (inverno-primavera
2016) dedicato da Giorgio Bonomi e
Francesco Tedeschi ad artisti “over
ottannta” e volto a considerare, oltre a
ricordare che «il contemporaneo vive di
stratificazioni di diverse forme di
“presente” e di “contemporaneità”»,
scrive Tedeschi, «come molti protagonisti
dell’arte contemporanea vivano e
affermino la peculiarità della loro opera
in una fase avanzata della vita».
La sua vocazione di pittore non è
mai stata quella della speculazione
C O L L E Z I O N I S T I
autoreferenziale per il tramite della
pittura, quanto piuttosto di poesia
intimista, di impulso tanto lirico quanto
controllato, fatto di piccoli dettagli e di
tracce che si trasformano in motivi di
linea e di colore. Per questa ragione, per
quanto la geometria sia più presente
rispetto al lavoro degli anni Settanta o
degli anni Ottanta, si tratta comunque
di uno spirito di libera ed intuitiva
composizione. Si tratta, come ha detto
bene Francesco Tedeschi, presentando la
mostra di pastelli Territori interiori
presso la Galleria Marini, di una
geometria «sempre acutamente
naturale, come la natura produce
geometria». Le opere realizzate dopo il
Duemila, infatti, sono soprattutto, degli
«appunti visivi tradotti in immagini
compiute, come cristalli riflettenti».
Sempre di più il ritiro estivo a Teglio
coincide con il momento aurorale della
sua ricerca: nella pace della montagna e
Sotto: Spazio dinamico,
c 2011, olio e pastello su tela applicata su tavola, 16x45,4 cm
38
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
A sinistra, dall’alto: Arca, 2003, pastello e
collage su carta-tela applicata su tavola,
29,5x40 cm; Alberi d'autunno, 2004, pastello
magro su carta vellutata, 30x40 cm
A destra: Una montagna come una barca,
2003, pastello e collage su carta-tela su
tavola, 37x40 cm
dei boschi trova infatti quel contatto
con la natura fondamentale per lui. Ne
aveva scritto l’artista stesso in
occasione di una mostra antologica a
Sondrio, riconoscendo che le tappe
cruciali della sua vita avevano seguito il
corso dell’Adda, a ritroso, dalla bassa
cremonese natia fino alle sorgenti
valtellinesi. Fin da epoche remote,
com’è noto, il suo lavoro aveva tratto
ispirazione dal mondo acquatico e
fluviale, diventi progressivamente
scenario di apparizioni oniriche. Era qui,
infatti, che si poteva innestare il
confronto con Paul Klee, che va tuttavia
inteso, come osserva sempre Tedeschi,
non come referente formale ma per
una affinità di ragioni profonde di
discorso: li accomuna infatti il rapporto
con la memoria del mondo esterno.
Non esiste, oltretutto, memoria senza
oblio, ed è il rapporto fra questi a far sì
che la natura torni a palesarsi
soprattutto in frammenti.
Della Torre, dunque, osserva
silenzioso i motivi ornamentali suggeriti
dalla natura, il ritmo dei tronchi degli
alberi, e da qui parte per un viaggio
immaginativo fatto di logiche
combinatorie e momenti di abbandono
consapevole al calibrato moto ondoso
della mano. L’andamento è quello del
paesaggio, da cui derivano i formati
orizzontali allungati ancora frequenti in
questa stagione matura. Anche gli
strumenti sono gli stessi di sempre,
dall’olio al pastello. Quest’ultimo, in
particolare, ha uno statuto intermedio
nella ricerca di Della Torre: fa leva sul
repertorio di segni e di gesti proprio del
disegno, ma a questo non è assimilabile
per via di una più complessa trama di
trattamento del campo, per la quale
Cristina Casero ha giustamente parlato
di disegno «praticato con esiti pittorici».
Collocandosi quindi nella categoria
dell’opera su carta come un vero e
proprio dipinto, il pastello non ha una
funzione di messa a punto di idee
figurative come le carte con soli
tracciati di china a inchiostro o a
pennello, pur condividendo con questi
la spontaneità di invenzione non
progettata e non programmatica.
Memore dei tempi dell’Informale, Della
giiugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
Torre si accosta alla carta con un’idea di
immagina, ma questa si mette a fuoco
solo mano a mano che il lavoro
procede, rivelando, a detta dell’artista
stesso, esiti talvolta inaspettati.
Si assiste anzi spesso a un contrasto
tra forme fisse e tracce più libere e
duttili, in cui si legge ancora il lento
incedere del pastello che riempie la
campitura, talvolta smagrito con una
velatura di diluente, e quando invece
nasce da un tratto più rapido e più
sicuro quanto di esatta calibratura.
Spesso Enrico Della Torre mischia i
linguaggi: parti campite e colorate come
un quadro ed aree lasciate a minimali
tracciati di sola grafite, come a voler
includere un colore forte, una notazione
caratterizzante dentro un’idea
compositiva. Lo aveva notato anche la
Casero, annotando, riguardo all’eclettica
convivenza di più registri linguistici, che
«l’esuberante ricchezza dei modi
dell’artista si dispone […] più sul piano
sincronico che su quello diacronico»
(Casero)
L’intervento a pastello, in questo
caso, si palesa dunque come
un’apparizione, come un elemento
sovrapposto proprio con la volontà di
marcare una discontinuità. In questo, il
lavoro di Della Torre è debitore della
pratica del collage, che del resto utilizza
piuttosto spesso con inserti di carte
colorate dai bordi sfrangiati. Enrico non
ritaglia le forme nel colore come
Matisse, che pure ha ben presente, ma
le strappa con le mani e mette in
evidenza il profilo dello strappo.
L’inserto di collage compare talvolta
come un’interferenza, come l’intrusione
di un elemento di rottura dentro una
rappresentazione connotata,
ENRICO DELLA TORRE.
TERRITORI INTERIORI
A cura di Francesco Tedeschi
MILANO, GALLERIA MARINI
http://www.galleriamarini.it
28 aprile – 2 luglio 2016
provocando un salutare spiazzamento
che rende più mosso l’insieme. Non
mancano però momenti di puro
affidamento al segno e al colore, come
in un pastello di Alberi d’autunno del
2004, in cui il titolo vale come
orientamento più che come immediata
relazione a un referente. Su un fondo di
giallo inacidito e dilagante, una
macchia di verde ondeggia trafitta da
quattro segni rossi tracciati con rapidità
come dei dardi o dei graffi. Qui sono
ricombinati pensieri sugli anni
Cinquanta, dalla macchia di colore,
39
tanto in voga anche prima dell’incontro
con la pittura di Rothko al PAC di
Milano, ai quattro segni come saette
circonfuse da una costellazione di punti
rossi, di chiara derivazione spazialista,
ma tradotta in pittura con gli accordi
cromatici del quadro naturalista.
È il colore, anzi, il vero elemento di
orientamento vero quella connotazione
stagionale dell’immagine. Non sarebbe
azzardato, anzi, riordinare questi pastelli
secondo il ritmo delle stagioni anziché
seguendo la pura cronologia. Del resto,
il lavoro di Della Torre riporta a un
tempo dell’uomo all’avvicendarsi del
giorno e della notte, al risveglio
primaverile della natura dopo i rigori
invernali e prima della frescura delle
estati montane, fino a un autunno di
esplosione vitale. Un tempo ciclico,
dunque, in cui la lentezza ha un valore:
quello dei lunghi silenzi arcadici. [lpn]
40
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
LA MOSTRA/2
VERSO SAO PAULO
Italiani in Brasile al Mudec di Milano
ra le rotte internazionali degli
scambi artistici e culturali del
secondo dopoguerra, l’asse che
univa l’Italia al Brasile è stato a lungo
poco considerato: eppure il
trasferimento per periodi più o meno
lungo di intellettuali e artisti italiani a
San Paolo del Brasile o più in generale
in quel grande stato sudamericano non
è stato privo di conseguenze sia per la
situazione culturale locale, sia per
l’arricchimento di esperienze e di
prospettive riportate in patria. Ne
traccia un breve e suggestivo
resoconto la mostra Italiani
sull’Oceano curata presso il Mudec di
Milano da Paolo Rusconi, coadiuvato
da un gruppo di curatori che da tempo
e da prospettive differenti hanno
condotto indagini su singole figure
coinvolte in questa dinamica. Si
intrecciano così con il Nuovo Mondo,
dunque, le storie di Pietro Maria Bardi
(1900-1999), di Roberto Sambonet
(1924-1995), di Margherita Sarfatti
(1880-1961) e di Gastone Novelli
(1925-1968). È proprio Bardi, al centro
da lungo tempo delle ricerche di
Rusconi, il perno di questa vicenda:
attorno a lui, infatti, si era andata
formando una colonia creativa di
artisti e architetti, attratti dall’attività
del MASP (Museo d’Arte di San Paolo)
a cui questi aveva dato vita dopo il
trasferimento definitivo in Brasile nel
1946, insieme alla moglie, l’architetto
Lina Bo Bardi (1914-1992), a suo
F
tempo allieva di Gio Ponti a Milano e
autrice dell’edificio del MASP.
Già figura centrale nel sistema
delle arti in Italia nel corso degli anni
Trenta, dove svolge sia il ruolo di
gallerista che quello di critico d’arte,
oltre che direttore per un certo periodo
della Galleria di Roma, Bardi era giunto
per la prima volta in Brasile nel
novembre del 1931, e di lui si era
subito accreditata l’immagine di un
promotore e divulgatore del verbo
dell’architettura moderna. Soltanto in
seguito egli si sarebbe poi affermato
come il creatore del più grande museo
d’arte del Sud America (il MASP
appunto) che nel profondo ambiva
anche a costituirsi come centro di
formazione sulla scia del Bauhaus.
L’approdo in Brasile, dunque, gli aveva
offerto una grande occasione di
crescita professionale e l’arrivo a una
posizione di rilievo anche per gli
scambi con l’Italia e per una diffusione
di quanto di meglio potesse offrire
l’arte italiana moderna (e non solo).
ITALIANI SULL’OCEANO.
STORIE DI ARTISTI NEL BRASILE
MODERNO E INDIGENO
ALLA METÀ DEL ‘900
A cura di Paolo Rusconi
con Elisa Camesasca,
Ana Gonçalves Magalhães,
Viviana Pozzoli, Marco Rinaldi
MILANO, MUDEC
25 marzo - 21 luglio 2016
In alto: Roberto Sambonet, Visite o Museu de
Arte de São Paulo, 1951, poster, Milano,
Archivio Roberto Sambonet
A destra: Lina Bo Bardi, Largo Getulio Vargas,
Rio de Janeiro, 20 ottobre 1946, 1946,
acquerello e grafite su carta, São Paulo,
Instituto Lina Bo e P.M. Bardi
Diversa, invece, la vicenda di
Margherita Sarfatti, che tolte due visite
in Sud America, nel 1938 è costretta a
rifugiarsi qui in esilio per sfuggire alle
leggi razziali, riparando prima a
Buenos Aires, poi a Montevideo, dove
resta fino al 1947, infine in Brasile.
Sono anni in cui presta attenzione alla
realtà locale e scrive molto di pittura
moderna sudamericana, ma al tempo
stesso non dimentica l’arte italiana per
cui tanto si era spesa fino a quel
momento, che costituisce il suo
principale contributo alla costituzione
della collezione Matarazzo, nucleo
principale del Museu de Arte Moderna
(oggi MAC USP) di San Paolo. Per vie
diverse, dunque, sia Bardi sia la Sarfatti
sono il motore di un movimento di
opere che sorvolano l’Oceano per
giiugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
entrare nelle collezioni sudamericane,
che in questo frangente si dotano di
alcuni capolavori di prima grandezza
dell’arte italiana.
Ma oltre alle opere si muovono
anche gli artisti e gli architetti. Nel
1948, per esempio, giunge in Brasile
Sambonet, al seguito della moglie,
Luisa Bernacchi, chiamata a insegnare
disegno presso il MASP. L’esperienza,
di non lunga durata, lo colpisce
profondamente. La rigogliosa
vegetazione tropicale, in particolare,
gli lascia una impressione duratura,
che nell’immediato ha ripercussioni
nei disegni di motivi per tessuti e di
modelli per la moda, oltre ad accessori
e calzature, che realizza direttamente
in Brasile: sono segni semplici, di
natura grafica e non esenti, se si
vuole, da certe tentazioni “primitive”,
o almeno di ricerca di un “primordio”
attraverso una purificazione e
astrazione formale che approda, in
questo caso, alle forme di design. Ma
anche una volta tornato in Italia,
Sambonet non dimentica la foresta
amazzonica, che anzi ricompare
dirompente nei disegni di piante e
vegetali pubblicati nel volume 22
cause +1 pubblicato a Milano nel
1953 in collaborazione con Emilio
Villa e Max Huber. Disegni che
puntano verso l’astrazione, ma che
sono ancora capaci, con le loro forme
di sintesi, di restituire il senso della
calura umida della vegetazione
tropicale, intrisa di luce e trasformata
in pura segno.
Riserva non poche sorprese, in
ultimo, riscontrare gli effetti
immediati sulla pittura di Gastone
Novelli dei prolungati soggiorni in
Brasile compiuti fra 1948 e 1954.
Oltre a collaborare con il MASP,
infatti, egli compie numerosi viaggi
all’interno del paese, passando le
regioni del Rio Xingu, la Serra do
Roncador e il Rio das Mortes,
entrando in contatto con le tribù
indigene come documenta un ricco
album di appunti e fotografie
riportato in Italia. Ma quel soggiorno
riserva poi delle sorprese soprattutto
sul piano della pittura, mostrando un
vero e proprio “Novelli prima di
Novelli”, cioè prima della sua
produzione più nota. Novelli infatti
non è estraneo ai suggerimenti offerti
dagli artisti brasiliani, di cui dà conto
41
un nucleo di ritratti eseguiti fra 1948 e
1950, che lo inducono poi a una fase
post-cubista nel 1951 fino a un
affiancamento, a partire dal 1953, del
concretismo brasiliano: il fulcro è il
rapporto fra geometria e quarta
dimensione, e sulla possibilità di
restituzione del volume della figura
anche attraverso il semplice utilizzo di
campiture piatte e spigolose. Era alle
porte, però, una svolta in direzione di
Paul Klee che porterà una maggiore
fluidità di forme e di andamenti, ma
con una concretezza di forme e una
sensibilità cromatica che ha i toni e le
cromie, se si vuole, di terre calde viste
dall’altra parte del mondo. [lpn]
42
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
LA MOSTRA/3
MARIO NEGRI E LA SCULTURA
Una mostra per il centenario
ono stato scultore per poter
vivere la mia vita, ogni
giorno, con una certa
tensione e con molta libertà», scriveva di
sé Mario Negri (1916-1987),
specificando le ragioni iniziali della sua
vocazione fondamentale per la scultura.
Di lui si potrebbe dire che è stato
scultore che molto ha visto, sotto le cui
mani, oltre alla matita e l’argilla, sono
passati molti libri. Del resto, che Negri
fosse una mente critica acuta, attento
osservatore di quanto accadeva nel
mondo delle arti figurative del suo
tempo, è testimoniato dalla sua
collaborazione in qualità proprio di
critico, fra 1950 e 1951, con la rivista
«S
“Domus”, e ne dà conto un piccolo ma
preziosissimo libro delle edizioni
Scheiwiller che raduna in un racconto
compatto la sua visione della scultura e
delle arti del Novecento e, soprattutto, il
profilo dei suoi protagonisti principali.
Tutto questo avveniva con maggiore
intensità prima che Negri tenesse la sua
prima importante mostra personale, alla
Galleria del Milione di Milano, per
quanto questa non segni una fine netta
della sua attività di scrittore di cose
d’arte. In ogni caso, il suo lavoro plastico
rimane un esemplare crocevia di culture
figurative, come un sismografo che ha
registrato e criticamente riletto i
sommovimenti che nel corso del
Novecento hanno segnato la storia della
scultura. Non è senza significato, in tal
senso, che nel suo lavoro si rintraccino
le prime avvisaglie della ricezione
italiana della scultura di Henry Moore,
mentre era quasi naturale, per lui nato a
Tirano, tessere un dialogo ravvicinato
con la scarnificazione filiforme della
figura umana operata da Alberto
Giacometti. Nel rapporto dialettico con
entrambi, tuttavia, Negri inseriva un
proprio dato di lettura che declinava in
senso narrativo quelle istanze,
facendone a sua volta un punto di
partenza per la ricerca di artisti più
giovani: non credo sia azzardato, infatti,
affermare che il suo lavoro sia stato il
tramite per introdurre scultori più
giovani alla lettura di quei modelli
internazionali, come se la lingua plastica
di Mario Negri l’avesse resa più
accostante, più accessibile perché
declinata secondo una sensibilità
tipicamente lombarda.
Del resto, come fa notare Martina
Corgnati nell’introduzione al catalogo
della piccola e preziosa mostra dello
Studio d’Arte del Lauro, il suo lavoro è
giiugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
caratterizzato dalla coesistenza di
«polarità dialettiche» che fanno di lui
uno sperimentatore per temi e
variazioni. Da questo, viene fatto notare,
si dipana un percorso che «si nutre più
del processo che del capolavoro, più
della ricerca che della conquista, più
della domanda che della risposta», che
comporta una «indifferenza per l’opera
singolare ed irripetibile a favore di quella
febbrile metamorfosi della forma, le cui
varianti si delineano nel tempo come
provvisorie testimoni di un percorso
ininterrotto e infinito».
Non resta a questo punto che
tentare una pur sommaria divisione
delle serie, una classificazione dei filoni
di sviluppo o, meglio, delle tipologie
plastiche e operative di Negri. Ci si
accorge subito, a questo punto, che il
nodo cruciale è nel modo di intendere la
figura e il suo rapporto con l’ambiente e
con la struttura plastica della scultura
stessa. Da una parte, per esempio, ci si
accorge che il confronto con Moore si
consuma in una serie di figure reclinate
o di torsi seduti che costruiscono lo
spazio attorno a loro grazie
all’articolazione anatomica della figura
stessa. Ne deriva una sintesi
eminentemente grafica, in cui i volumi
hanno profili marcati non dissimili da
quelli che si ritrovano nei disegni degli
stessi anni. Ma in questa sintesi, allo
stesso tempo, quando non si gioca con
la poetica del frammento, del torso
acefalo e privo di arti come in una
nuova teoria di rovine del mondo antico,
la figura si anima come sottoposta a un
processo metamorfico di cui non si può
prevedere la conclusione.
Oppure, altre volte Negri, memore di
Giacometti, stabilisce un rapporto più
MARIO NEGRI
A cura di Cristina Sissa;
testo di Martina Corgnati
MILANO,
STUDIO D’ARTE DEL LAURO
12 maggio – 30 giugno 2016
complesso tra figura e basamento,
facendo di quest’ultimo, più che un
sostegno, una pedana percorribile, uno
spazio circoscritto e praticabile su cui la
figura, ridotta a un segno stilizzato
come corpo che accenna un movimento,
potrebbe idealmente camminare. È in
questa chiave che la lezione di
Giacometti diventa più narrativa: quella
che nello scultore svizzero era una
43
forma di desertificazione dell’identità
individuale, oggetto di una ostensione
impietosa della miseria esistenziale, in
Negri diventa una forma di racconto
mediata dalla concezione ambientale di
Medardo Rosso, ma semplificata e
illustrata. In ultimo, poi, ci sono quei
progetti per ambienti che recuperano le
modalità di presentazione tipiche dei
plastici di architettura: anziché
visualizzare però progetti realizzabili, gli
spazi definiti da Negri sono luoghi
visionari e d’invenzione di una geografia
geologica e visionaria. Sono luoghi
possibili, di esatta progettazione che
compete con la geometria naturale, ma
in attesa di nuovi possibili abitanti. [lpn]
Nella pagina accanto, in alto: Mario Negri, Gli sposi,i 1975. In basso: Mario Negri, Seconda
ipotesi per la genesi,i 1976. In questa pagina, in basso: Mario Negri, disegno.
44
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
LA MOSTRA/4
IL RINASCIMENTO DI PIERO
Indagine su un mito
di gianluca montinaro
ella splendida cornice dei
Musei San Domenico di Forlì si
sta tenendo, fino al 26 giugno,
l’importante mostra Piero della
Francesca. Indagine su un mito. Impresa
difficile quella proposta nella cittadina
romagnola perché il riunire un nucleo
adeguato di opere di Piero della
Francesca (1417-1492), artista tanto
sommo quanto ‘raro’, è stato già di per
sé un’operazione complessa. Riuscire
poi a proporre un confronto con i più
grandi maestri del Rinascimento, da
Domenico Veneziano, Beato Angelico,
Paolo Uccello, Andrea del Castagno,
Filippo Lippi, Fra Carnevale a Francesco
Laurana tra gli altri, è stato uno studio
difficile. Così come lo è stato anche
documentare l’influsso del genio di
N
Sansepolcro sulla generazioni di artisti
a lui successiva: Marco Zoppo,
Francesco del Cossa, Luca Signorelli,
Melozzo da Forlì, Antoniazzo Romano e
Giovanni Bellini. Ma questa mostra si è
spinta oltre, indagando il mito di Piero
della Francesca nell’Ottocento: nei
Macchiaioli, in Borrani, in Lega, in
Signorini. Ma anche in molti altri artisti
europei: da Johann Anton Ramboux a
Charles Loyeux, fino alla fondamentale
riscoperta inglese del primo Novecento,
legata in particolare a Roger Fry,
Duncan Grant e al Gruppo di
Bloomsbury. In Italia, invece, la fortuna
novecentesca dell’artista è affidata a
Guidi, Carrà, Donghi, De Chirico,
Casorati, Morandi, Funi, Campigli,
Ferrazzi. Come nota Antonio Paolucci
Sotto da sinistra: Piero della Francesca, San Girolamo e un devoto, 1440-1450 ca.,
Gallerie dell’Accademia, Venezia; Santa Apollonia, 1454-69, National Gallery of Art, Washington.
Sopra: Beato Angelico, Imposizione del nome al Battista, Museo di San Marco, Firenze
(uno dei curatori della mostra) nel
catalogo ufficiale (edito da Silvana
editoriale): «a un certo momento, nella
storiografia critica del Novecento, Piero
della Francesca è sembrato la
dimostrazione perfetta, antica e perciò
profetica, di una idea che ha dominato
a lungo il nostro tempo; di come cioè la
pittura, prima di essere discorso, sia
armonia di colori e di superfici».
Insomma una mostra che, tra critica
e arte, tra ricerca storiografica e
produzione artistica, nell’arco di più di
cinque secoli, tenta per la prima volta
un’indagine serrata su colui che Luca
Pacioli aveva definito «il monarca della
pittura». In fondo l’eterna immobilità
dei solidi umani di Piero della
Francesca, i volti dei suoi personaggi appena sfiorati da un’ombra di passione
- continuano ad apparire, ancora oggi,
rivelazioni di figure eterne, immerse in
una pace sovrannaturale.
PIERO DELLA FRANCESCA
INDAGINE SU UN MITO
A cura di: Antonio Paolucci,
Daniele Benati, Frank Dabell,
Fernando Mazzocca, Paola Refice
FORLÌ, MUSEI SAN DOMENICO
PIAZZA GUIDO DA MONTEFELTRO
13 febbraio - 26 giugno
46
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
COLLEZIONI E COLLEZIONISTI
I ‘LIBRI D’ARTISTA’
DI CORRADO MINGARDI
di corrado mingardi
olleziono da trent’anni quelli
che s’usano chiamare libri
d’artista, ma l’amore per i bei
libri, belli per contenuto e per veste
editoriale, posso dire risalga alla
fanciullezza, quando i regali più graditi
erano proprio i libri. E uomo di libri,
lettore onnivoro, lo sono rimasto per la
vita. Così da far mia l’epigrafe di Paul
Eluard «O livre, raison ardente!» che è
un ispirato ossimoro (razionalità e
ardore passionale) per definire il
rapporto con il libro, in specie il libro
d’artista.
Colleziono libri d’artista anche se
non so più bene che cosa sia in senso
stretto un libro d’artista, soprattutto
dopo che la rivoluzione degli anni
Sessanta-Settanta dello scorso secolo,
gli anni della seconda avanguardia, Pop
Art, Arte Povera, Arte Concettuale,
C
Fluxus, ha capovolto la natura
aristocratica, preziosa, esclusiva dei libri
che impegnano progetto e mano
diretta degli artisti. Sono apparse infatti
in quel giro d’anni opere appartenenti a
queste correnti, opere che, pur
conservando la forma di libro, si
presentano con modestia tipografica,
per via di una stampa tecnicamente
standardizzata, con una tiratura non
limitata, oppure al contrario limitata a
un solo esemplare, per sconfinare
talora nel libro-oggetto non replicabile:
sono solo queste opere che da allora
(quasi per usurpazione di termine) si
chiamano libri d’artista. E chi li
apprezza li carica di una valenza per
così dire concettuale, fitta di intenzioni
e significati plurimi. Devo ringraziare il
maestro che recentemente me ne ha
fatto divenire attento, Giorgio Maffei,
rigoroso documentatore e studioso, ma
anche charmeur,r vero incantatore
nell’avviare i bibliofili a tale
conversione. Conversione che resta per
me sospesa tra dubbi e resistenze. Io
sto infatti per lo più ancorato alla
definizione tradizionale, che nel tempo
è stata data, del libro d’artista, anche se
comincia ad andarmi stretta, dopo che
gli orizzonti sono tanto mutati. È
possibile una conciliazione fra queste
due concezioni del libro d’artista? Forse
sì, se, fatto salvo che il libro d’artista
non è ovviamente un libro d’Arte, né un
libro sull’arte, ma è un’opera d’arte. E
l’arte, si sa, non si imprigiona in una
teoria, in una definizione.
Per me un libro d’artista resta
quello che in Francia fu chiamato
all’origine un livre de peintre, termine
che si attaglia a un’edizione a tiratura
limitata, particolare per il pregio del
supporto cartaceo e per il rigore
tipografico, la quale edizione associ con
convenienza testi in prosa o poesia a
immagini realizzate con grafica
originale da pittori o scultori, spesso
non professionalmente specialisti nelle
tecniche incisorie e di riproduzione, e
quindi già per ciò sperimentatori,
innovatori, artisti che abbiano vissuto le
esperienze del loro tempo con forte
originalità, per lo più appartenenti alle
avanguardie storiche. Che il testo sia
d’un autore contemporaneo, o un
classico del passato non conta. Quel
che importa è che esso sia per l’artista
fonte di ispirazione o motivo di
confronto, di scambio, di dialogo, e che
un editore lungimirante ne abbia
favorito l’incontro e abbia resa concreta
l’opera attraverso uno stampatore di
vaglia. Ma non è detto che un libro
d’artista tali caratteristiche le possegga
tutte contemporaneamente. L’esito, in
ogni modo, vorrebbe essere unitario,
conseguente; ma il dialogo è troppo
spesso più ideale che reale, perché è un
mito di lunga data quello dell’unità
delle arti, il mito che deriva dal motto
di Orazio ut pictura poesis e quindi
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
viceversa. Lo ha rivisitato spesso, e
misticamente, Kandinskij, alla ricerca di
corrispondenze emotive e formali tra
arte, letteratura e musica. Per me
invece, ed è così anche nella vita, unico
incontro concesso è sfiorarsi da
paralleli sentieri. Ma la tangenza, quasi
per miracolo, può talora divenire
detonante. In ogni modo, ogni libro
d’artista si configura come esperimento
per così dire sinfonico. Walter Valentini,
il pittore, ma anche architetto, con il
rigore rinascimentale della sua Urbino
negli occhi, che a molti libri d’artista ha
collaborato, una volta parlò
dell’orchestra del libro d’artista. E la
metafora musicale - se si vuole
potrebbe essere anche cinematografica
- bene calza a un’opera che, tra l’altro,
abbisogna per essere goduta del tempo
sequenziale di chi la sfoglia, e meglio se
in chiusa stanza, more domestico. Testo
e immagine a confronto, non come si
verifica di solito nel libro illustrato
tradizionale, dove le figure dovrebbero
porsi soprattutto al servizio della
narrazione oppure della parola poetica,
rendendole visive o decorarle. Matisse
scriveva: «Il libro non deve aver bisogno
d’essere completato da un’illustrazione
imitativa. Il pittore e lo scrittore devono
agire insieme, senza confusione, ma in
parallelo. Il disegno deve essere un
equivalente plastico del poema. Non
direi: primo e secondo violino, ma un
insieme concertante». Nel libro d’artista
tuttavia è sempre per me l’immagine
che si impone sovrana e comunica in
realtà solo se stessa. Senza che io
trascuri il doppio vantaggio nel libro
d’artista di avere insieme alle immagini
d’arte, dei testi in poesia o prosa in
edizione originale. È successo con molti
celebri scrittori della letteratura
francese moderna e contemporanea, da
Stéphane Mallarmé a André Gide,
Guillaume Apollinaire, Alfred Jarry,
Tristan Tzara, Max Jacob, Paul Éluard,
Nella pagina accanto, in alto: una delle storiche sale della Biblioteca di Busseto; a sinistra:
Ardengo Soffici, Chimismi lirici, Firenze, 1915. Sotto: Pablo Picasso per Les Chant des Morts
47
André Bréton, Blaise Cendrars, Pierre
Reverdy, René Char, Francis Ponge, Yves
Bonnefoy, André Du Boucher e altri,
orgogliosi di farsi visivamente
interpretare, o solo di lasciarsi appaiare
con gli amici artisti, simbolisti, cubisti,
surrealisti e così via. In Italia, nella serie
dei “Cento amici del libro”, i testi sono
tutti pubblicati in prima edizione: si
vedano i versi estremi di Mario Luzi
accostati alle cosmiche geometrie di
Walter Valentini (2005), o quelli di
Andrea Zanzotto alle acquetinte
luminosissime di Joe Tilson (2011). Poi,
se il testo è parto dell’artista stesso, e
pare allora che il dialogo sia solo un
soliloquio, pur celebrandovi l’immagine
ancora il suo quasi esclusivo trionfo, il
libro raggiunge il massimo di unità di
concepimento e di realizzazione. Si
veda Klänge, poesie e xilografie di
Wassily Kandinskij (1913), tra i più
riusciti. Ma paradigmatico al sommo è
Jazz di Matisse, in cui il pittore,
rifiutando del tutto la stampa
tipografica, manoscrive lui stesso e poi
riproduce una serie di personali pensieri
allo scopo di intervallare le grandi
tavole accese di colore. E così faranno,
subito dopo, Fernand Léger nel suo
Cirque (1950), Le Corbusier nel Poème
de l’angle droit (1955) e più volte Jean
Dubuffet.
Come inizia la mia lunga
passione per il libro d’artista
La collezione è iniziata con una
passione bibliofila certo più
tradizionale. È iniziata con Giambattista
Bodoni, il sommo disegnatore e
incisore di caratteri, il tipografo-editore,
che da Parma nell’Europa dei Lumi e di
Napoleone diffuse opere, soprattutto i
48
El Lisitskij-Vladimir Maiakovsky, Per la voce, 1
grandi classici, elegantissime per nitore
di stampa. Bodoni, colui che nella
maturità, col rifiuto programmatico
delle figure e della decorazione, diede
alla pagina tipografica una mirabile,
forse mai superata, valenza estetica
autonoma. È lui che affermava: «Quanto
più un libro è classico, tanto più sta
bene che la bellezza dei caratteri vi si
mostri sola». Da Bodoni breve fu il passo
a raccogliere volumi dei celebri
stampatori del passato, da Jenson a
Manuzio fino a Marcolini, Étienne,
Baskerville, Ibarra, i Didot, e del nostro
tempo Giovanni Mardesteig e Alberto
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
Tallone. Tra i disegnatori di caratteri
vanto una lunga ammirazione e
amicizia per Hermann Zapf, il più
famoso di tutti, come ricordo sempre
con nostalgia gli incontri affettuosi con
Aldo Novarese, il più prolifico degli
italiani. Tra gli editori: Franco Maria
Ricci, personale, fantasioso eppure
coerente, è da lunga data un amico
caro, lui che, adottando i caratteri di
Bodoni, ne ha rinnovato la fama,
accostandovi in più un apparato
illustrativo senza pari. La mia veramente
notevole collezione bodoniana è
confluita nella sua, che sta, via via per
magnifici acquisti successivi, divenendo,
se non ne è già divenuta, la più
importante e vasta in mani private. La
cessione a lui dei miei Bodoni, e ad altri
degli incunaboli e delle importanti
edizioni dei secoli successivi, mi ha
permesso così la ricerca e l’acquisto dei
libri d’artista. Fu una radicale inversione
di marcia alla caccia di nuova bellezza,
fu una svolta improvvisa e sfolgorante.
Vidi presso il libraio Carlo Alberto Chiesa
L’oleandro di d’Annunzio stampato da
Mardesteig (1936) coi caratteri corsivi di
Bodoni e le sensuali litografie in
sanguigna di Günter Boehmer, miracolo
di tipografia e di illustrazione, che subito
mi portò a comprare da Pregliasco
Parallèlement di Verlaine e Bonnard
(Parigi 1900) con cui Ambroise Vollard
aveva inaugurato la straordinaria serie
delle sue edizioni: volume che non può
avere confronto per libertà grafica e
superiore voluttà delle rosee litografie,
ma inferiore per perfezione tipografica,
pur essendo molto belli gli storici
caratteri usati, quelli di Garamond. Ho
accennato alle mie cessioni, che tuttavia
non furono complete, perché non ebbi
l’animo di separarmi fra gli altri
dell’Hypnerotomachia Poliphili di Aldo
Manuzio (1499) e del Liber Cronicarum
(Norimberga 1493), l’incunabolo più
illustrato che esista, cui forse pose mano
anche il giovane Albrecht Dürer. Come
trattenni tanti libri di civiltà parmigiana,
con le stampe e i disegni originali
preparatori dell’architetto Ennemond
Alexandre Petitot. Cessione per la quale
molti mi rimproverarono fu quella del
De divina proportione di Luca Paciolo
(Venezia 1509), fatta al momento di
acquistare Jazz di Matisse. Io non ne
sono per nulla pentito, dato che Jazz
rappresenta il vertice per bellezza, rarità,
e valore di mercato, dei libri d’artista, e
limone
pesca
deteinato limone
sseguici
eguici su
www.estathe.it
www.esstathe.it
deteinato pesca
50
Henry Matisse, Jazz,
z Parigi, Tériade, 1947
per me segnale quasi di compimento
della collezione. Compimento che per il
collezionista non può mai essere tale,
poiché nell’inconscio di costui c’è come
una sfida col tempo, con l’eternità.
Libro d’artista, fragilità
ed esclusività
C’è una fragilità materiale che
dipende dal prezioso supporto, carte al
tino di storica fattura o carte del
Giappone o di Cina più pregiate ancora.
Ma c’è anche al contrario la vile
ordinaria consistenza delle carte usate
dagli artisti delle recenti avanguardie,
come d’altronde povere erano, poco
meno di un secolo fa, le carte dei
futuristi e dei dadaisti. E c’è poi una
debolezza insita nei colori originali che
il tempo e la luce insidiano rendendoli
spenti. Il libro d’artista subisce inoltre
l’attentato non raro della
scomposizione, dello scioglimento al
fine di recuperare le tavole a farne
oggetto improprio di arredo. C’è poi la
sua rarefazione imputabile al ristretto
numero delle copie tirate, e la sua
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
esclusività dovuta alla gelosia, o ritrosia
del possessore a mostrare il libro, per
cui il contenuto figurativo, e non solo,
resta come celato all’interno. Ma nella
civiltà delle immagini, dove la
riproducibilità attraverso i media è
infinita, nulla per ipotesi può sfuggire
alla conoscenza generale. Col rischio
che la troppa esposizione mediatica
provochi, per così dire, un’usura
dell’immagine d’arte, la sua
banalizzazione. E l’offesa per essere
stata tolta dal contesto per il quale è
stata realizzata. Rischio di tutta l’arte.
Con la riproducibilità estesa vien infatti
meno quella che suole dirsi ‘aura’, cioè
l’emanazione sacrale che dal
Romanticismo in poi si attribuisce alle
opere d’arte. Ma i media possono fare
anche altro, cioè imporre
massicciamente un’immagine e crearne
un’icona, un riconoscibile, talora
venerato simbolo nell’immaginario
collettivo. È stato fatto, ad esempio, per
l’Icaro notturno di Jazz campeggiante
su un intenso cielo blu forato di stelle.
Quanto alla rarefazione, al
nascondimento, alla esclusività dei libri
d’artista, le mostre ad essi dedicate
possono in parte ovviarvi. Ma in che
modo? E a quali rischi? Ne ho visitate
diverse, ma tutte offrivano l’esposizione
di una copia, al più due, del libro aperto,
negandone così la fruizione completa.
Io negli scorsi anni ho potuto tentare
un’operazione differente, non ottimale,
ma migliore sì. Mi guidava lo spirito di
condivisione della bellezza, e una certa
qual vanità, perché, come diceva Sacha
Guitry, quando si è collezionista o si è
‘armadio’ o si è ‘vetrina’, cioè o
esclusivamente custodi timorosi o
aperti alla partecipazione estetica dei
propri beni. In due amplissime mostre,
la prima in Palazzo Magnani a Reggio
Emilia nel 2005, la seconda a Parma in
Palazzo Bossi-Bocchi sede della
Fondazione Cariparma nel 2008,
entrambe curate con la competenza ed
esperienza che sono sue da Sandro
Parmiggiani e fornite di poderosi
cataloghi Skira, i libri che io avevo
collezionato furono momentaneamente
sciolti, affinché le tavole potessero
essere quasi al completo squadernate
sulle pareti e il resto del volume
restasse aperto al frontespizio nella
bacheca sottostante. Lo potei fare
perché parecchi miei libri erano stati
acquistati non rilegati ma a fogli sciolti,
così come gli editori li avevano
licenziati. La legatura d’arte d’altronde è
nei libri frutto di un intervento estraneo
successivo che può snaturare il
progetto originario. Anche se riconosco
come capolavori le legature parigine di
Paul Bonnet, Jacques e Pierre Legrain,
Henri Creuzevault, Pierre-Lucien Martin.
Alle pareti riuscii allora ad appendere
centinaia e centinaia di figure, mai se
n’erano viste tante. Ma là spariva la
contestualizzazione con i testi dei
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
classici o dei moderni e lo
scardinamento delle sequenze feriva la
specificità del libro. Il risultato fu quello
di due mostre di grafica bellissime, il cui
rimando al libro era però labile, affidato
alla fantasia, all’esperienza, alla cultura
del visitatore. Le esposizioni, tuttavia,
furono un successo perché a buon
conto rivelarono un universo d’arte ai
più totalmente nascosto. A Jazz ogni
volta era stata riservata un’intera sala al
cui ingresso ognuno non poteva non
essere sorpreso dai colori abbaglianti colori timbrici, per usare un’espressione
di Gillo Dorfles - e dalle forme
arditamente semplificate, allusive al
mondo del circo, ai racconti popolari,
alla notte dei miti, alle alghe fluttuanti
nei fondali oceanici della Polinesia che
Matisse aveva memorizzato nel suo
viaggio anteguerra e trasfigurato in
ritmi e forme sincopati come nella
musica jazz. Una volta l’artista chiamò
tali immagini ‘cristallizzazioni di ricordi’
e nella definizione c’è l’aggancio alla
realtà della memoria e la stilizzazione
dei cristalli.
E ricordi sono per lo più i testi di
Matisse, in trascrizione autografa che
scandiscono Jazz tra tavola e tavola.
Sono, inoltre, considerazioni che
rivelano una saggezza d’uomo e
d’artista maturata nell’esperienza
morale e professionale. Nel pensiero
messo a modo di conclusione si trova
espressa modestamente la natura
pratica di tali testi, funzionali
all’architettura dell’intero libro: «Ho
fatto queste pagine scritte per
smorzare le reazioni simultanee delle
mie improvvisazioni cromatiche e
ritmate, pagine che formano come
uno “sfondo sonoro” che le sorregge,
le circonda e ne protegge così la
particolarità». Ma nella nota in
premessa, aveva riconosciuto come al
pittore si addice più l’operare che il
parlare: «Chi vuol darsi alla pittura
deve cominciare col farsi tagliare la
lingua». E mi viene in mente
l’affermazione del Caravaggio che cito
a braccio: «I pittori han da parlare con
le mani». Questi testi, al di là del
valore letterario, si pongono sempre
tuttavia come utile chiarificazione
pratica e spesso poetica del suo agire
d’artista. Si veda la bella metafora del
suo lavoro coi papiers coupés:
51
«Disegnare con le forbici», con quel
che segue: «Ritagliare nel vivo del
colore mi ricorda lo sbozzare diretto
degli scultori. Questo libro è stato
concepito nello stesso spirito». Ma si
lascino da parte i pensieri che in Jazz
non la fanno certo da protagonisti.
Protagonista è il colore, come sempre
in Matisse. L’impatto, lo choc direi, che
si rinnova ogni volta nell’osservatore,
è esaltazione, stupore gioioso, frutto
di una purezza di tinte, di una audacia
di accostamenti, che non mi rimanda
a contenuti, a significati che pure ci
sono: la loro lettura è per me solo
visiva, formale, e ciò ne condiziona
l’assolutezza. Il dramma della
vecchiaia, della malattia che è del
Matisse degli anni di guerra, vi appare
completamente esorcizzato. Bene
aveva visto Apollinaire, da poeta e da
critico, scrivendo nel catalogo della
mostra “Matisse-Picasso” alla galleria
Guillaume di Parigi nel lontanissimo
1918: «Se si dovesse paragonare
l’opera di Henri Matisse a qualche
cosa, bisognerebbe scegliere l’arancia:
come questa l’opera di Matisse è un
frutto di luminosità esplosiva».
I LIBRI D’ARTISTA DI CORRADO MINGARDI IN DONO ALLA BIBLIOTECA DI BUSSETO
opo anni di attente ricerche e
acquisti sul mercato, Corrado
Mingardi ha donato alla Fondazione Cariparma la sua collezione
di libri d’artista. Il prezioso corpus di
livres de peintre (ben 139 opere) è così
diventato patrimonio della Fondazione Cariparma presso la Biblioteca di
Busseto (storica istituzione prossima
ai 250 anni di attività). Vastissimo l’e-
D
lenco degli artisti che compongono
questa straordinaria collezione, dai
grandi libri dell’Ottocento con Delacroix, Manet e Toulouse-Lautrec sino
all’appassionato impegno dei grandi
dell’Avanguardia nell’illustrazione
del libro, a iniziare dal celebre Parallélement di Verlaine illustrato da Bonnard che inaugurò le edizioni di Ambroise Vollard, proseguendo con il Sa-
tie e l’Apollinaire di Braque e l’immancabile Jazz di Matisse, per non dimenticare molti Picasso, Léger, Giacometti, Moore, Le Corbusier sino a
Andy Warhol e gli italiani De Pisis, Sironi, Campigli, Carrà, Manzù, Valentini e quasi l’intera produzione di Carlo
Mattioli. I libri saranno consultabili
già dalle prossime settimane, non appena terminata la catalogazione.
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
53
La riflessione
Le scelte dell’Occidente e
lo scontro fra Sunniti e Sciiti
Visioni e differenze interne all’Islam
CLAUDIO BONVECCHIO
L
a parola ‘Islam’, oggi, provoca una sorta di fremito
interiore, in cui l’indignazione si mescola alla paura. Si tratta, senza dubbio, di una incontrollata reazione emotiva, suscitata dai
tragici eventi in cui ‘terrorismo’ si
è sovrapposto a ‘Islam’. E, come è
noto, difficile è controllare l’emotività: soprattutto quando assume i
connotati di un fenomeno di massa. Tuttavia, è doveroso formulare
qualche riflessione per comprendere meglio quello che si sta verificando. In primo luogo, è erroneo
pensare che il mondo islamico voglia iniziare una guerra con l’Occidente. Piuttosto, il mondo islamico sta sperimentando una guerra,
durissima, al suo interno. È la recrudescenza del conflitto, secolare, tra Sciiti e Sanniti, i cui soggetti
sono, a loro volta, gli Stati che si riconoscono nelle due parti in lotta.
L’Occidente, l’Europa, sono solo
lo schermo su cui si proietta e si
amplifica questa contesa: non è il
reale teatro dello scontro. Non
comprenderlo è un grande (e pericoloso) errore strategico e di valutazione. Infatti, la posta in gioco di
questa belligeranza è altissimo: si
tratta della leadership sul mondo
arabo e non solo, visto che le fonti
energetiche dell’Occidente, in
gran parte, dipendono proprio da
questo area. Conviene, dunque,
non fare di ogni erbe un fascio, ma
cercare, piuttosto, gli alleati giusti:
ossia quelli che possono essere più
vicini a quel modello di modernità
cui si ispira la nostra cultura e il nostro sistema politico. In secondo
luogo, bisogna aver ben chiara la
distinzione tra Sciiti e Sunniti, evitando sofisticati distinguo teologici e semplificando al massimo. I
Sunniti vivono una spiritualità a
sfondo politico, priva di una classe
di religiosi gerarchizzati e culturalmente preparati, in grado di poter
interpretare il Corano. Significa
che, chiunque possegga un suo personale carisma può arrogare a sé la
prerogativa di essere un ‘califfo’:
ossia una guida politica e spirituale,
ma non religiosa. Come è accaduto
con il capo dell’ISIS: il “califfo” AlBagdadi. Al contrario, gli Sciiti –
considerati dai Sunniti (e particolarmente dai Wahhabiti dell’Arabia
Saudita) pericolosi eretici – sono
profondamente religiosi, credono
nella presenza storica dei 12 Grandi Imam portatori di trascendenza
e di grande saggezza e attendono la
venuta salvifica dell’ultimo: il dodicesimo Imam. Questo ha fatto si
che costruissero una gerarchia religiosa, spirituale e culturalizzata –
di cui gli Ayatollah (religiosi esperti nella teologia, giurisprudenza e
misticismo
islamico)
sono
l’espressione – in grado di interpretare, in senso religioso ed esoterico, il Corano. Come si verifica
con i Grandi Ayatollah dell’Iraq, del
Libano e, soprattutto, dell’Iran.
Sono dunque gli Sciiti gli
unici a poter interpretare il Testo
Sacro e le Leggi che ne discendono, adeguandolo, senza stravolgerlo, alle esigenze che la modernità può richiedere: anche al mondo islamico. La scelta strategica
dell’Occidente non può che andare in questa direzione. Non si può e
non si deve non tenerne conto.
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
55
Bibliofilia
Oltre la strage. Un foglio
volante milanese del ’500
Una vicenda della produzione tipografica ‘minore’
GIANCARLO PETRELLA
A
lla strage silenziosa, e fino a pochi anni fa sostanzialmente ignorata,
che il tempo e gli uomini hanno
compiuto della produzione ‘minore’ dell’editoria rinascimentale è fortunosamente scampato un
pronostico astrologico stampato
a Milano negli anni Sessanta del
Cinquecento. È probabile che
qualche colto lettore abbia già riconosciuto l’esplicita citazione di
un robusto studio che qualche
anno fa Ugo Rozzo dedicò al più
effimero dei prodotti tipografici
d’Ancien Régime, il cosiddetto
‘foglio volante’: La strage ignorata. I fogli volanti a stampa nell’Italia dei secoli XV e XVI, Udine, Forum, 2008. In effetti anche il pronostico milanese, accidentalmente riemerso qualche mese fa
Nella pagina accanto: Il Tacvuino
del Reverendo Padre Fra Bartolomeo
Da Seravezza per l’anno 1563, Milano,
Giovanni Battista Da Ponte, [1562].
Sopra: Bartolomeo da Seravezza,
Pronostico nouo sopra l’anno bisestile
1576, edizione sine notis
sul mercato antiquario torinese
per eclissarsi, di lì a poco, tra gli
anfratti del più raffinato collezionismo privato,1 appartiene alla
categoria, assai eterogenea per
contenuto e tipologia testuale,
dei ‘fogli volanti’. Di cosa si tratta? L’appellativo ‘volante’ adottato nel contesto italiano gode di
indubbio fascino, ma è palesemente ambiguo. La bibliografia
tedesca è ricorsa a una definizione che non lascia invece adito a
dubbi: Einblattdrucke, vale a dire
stampa su un solo foglio. Perché
di questo si tratta: testi di varia
natura impressi su un unico foglio, affissi o circolanti di mano
in mano e pertanto destinati a rapido consumo e distruzione. La
reale entità di questa produzione
appare difficilmente valutabile.
Solo per il secolo XV la più autorevole fonte bibliografica sulla tipografia nel Quattrocento
(ISTC) ne censisce poco meno di
2.500, ma il numero è in difetto
rispetto a quelli realmente stampati. Quanto all’Italia - secondo i
dati forniti da Ugo Rozzo - sono
censiti un centinaio di ‘fogli volanti’, più del 60% dei quali prodotti in tre sole città (nell’ordine
Venezia, Roma, Milano). Il più
antico di cui siamo a conoscenza
risale al 1473: l’Epistola ad Clementem VI papam uscita dall’officina romana di Ulrich Han. Datano a non molti anni più tardi un
manipolo di lettere di indulgenza
riguardanti la lotta contro i Turchi. La bolla Pastoris aeterni
emessa da papa Sisto IV in data I
56
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
Sopra da sinistra: Avviso ai librai impresso a Roma nel 1574 dagli eredi del Blado contenente su due colonne 42
proibizioni di autori o interi generi proibiti; foglio volante [Venezia, c. 1526] che racconta di una nascita mostruosa
avvenuta il 18 dicembre 1525 probabilmente messo in circolazione con significato antiluterano
settembre 1480 per la crociata
antiturca sembra fosse un autentico successo editoriale: sotto
l’intestazione di Sisto IV fu impressa dapprima per i tipi dell’officina romana di Eucario Silber,
poi due volte a Firenze da Nicolò
Tedesco sullo scorcio dell’anno o
a inizio 1481; quindi, sempre nel
1481, fu la volta della tipografia
veneziana di Johann Herbort e di
quella ferrarese di Andrea Belfortis. Il documento fu infine riproposto da alcuni commissari che si
occupavano della raccolta delle
indulgenze. Rudolfus Graf von
Werdenberg ne promosse la
stampa soprattutto in Germania,
dove si contano almeno 25 edizioni; Francesco da Milano e Cristoforo, rettore della chiesa di S.
Giovanni di Gerusalemme a Parma, furono invece responsabili di
due nuove edizioni italiane, rispettivamente Bologna, per i tipi
di Johann Schriber e Parma, tipografo non identificato. Oltremodo variegata è la tipologia di que-
sto materiale: calendari, lunari,
cronache, alfabeti per iniziare a
leggere, componimenti poetici,
avvisi. Fino ad arrivare alla categoria dei fogli di natura devozionale o religiosa, spesso rappresentati da una semplice silografia
accompagnata o meno da una
breve porzione di testo, cui appartengono, alla stregua di veri e
propri talismani da piegare e portare con sé, alcuni foglietti recanti
preghiere di valore quasi magico
circa la possibilità di scampare
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
pericoli, malattie o persino la
morte. È il caso dell’Oratio ad sanctam crucem di Giovanni Mercurio da Correggio stampata a Roma da Eucario Silber nel 1499 indirizzata contro «omnem mortis
diabolique furorem». Ne sopravvive un solo esemplare presso la
Bayerische Staatsbibliothek di
Monaco. Si presenta come una
stampa bicolore, nella quale l’inchiostrazione in rosso dei caratteri al centro della pagina produce l’effetto di una croce. Incise su
una matrice lignea o di metallo e
impresse su un supporto non
esclusivamente cartaceo, erano
poi destinate a circolare fra i vari
strati sociali, appese a un muro,
incollate ai piatti di un volume, ritagliate e inserite all’interno di un
codice, piegate e portate con sé
con funzione protettiva, fino a diventare, in taluni casi, autentici
oggetti di culto. Alludo a uno dei
più antichi e noti esempi del genere, una silografia datata c. 1428
raffigurante la Madonna col
Bambino (soggetto fra i più diffusi), circondata dalle scene dell’Annunciazione, della Crocifissione e da gruppi di santi. La silografia è meglio nota come Madonna del Fuoco, poiché pare essere miracolosamente sopravvissuta all’incendio scoppiato nel febbraio 1428 nella scuola dove era
conservata appesa al muro. Da lì
fu poi trasportata, come oggetto
di culto, in una cappella del Duomo di Forlì, dove tuttora si conserva. Sul versante profano alla ti-
pologia dei ‘fogli volanti’ appartengono i più antichi documenti
che testimoniano del processo di
autopromozione messo in atto
dall’attività tipografica. I primi tipografi attivi in Italia, i tedeschi
Sweynheym e Pannartz, nel 1472
fecero circolare autonomamente
come foglio sciolto una lista delle
28 edizioni fino ad allora impresse, con relativa tiratura. La varietà dei testi trasmessi da questa tipologia editoriale è assai variegata: eventi storici, episodi di cronaca, fatti straordinari, come il
foglio non datato, ma attribuibile
a circa 1525-26, che trasmette
notizia di una nascita mostruosa,
letta in chiave antiluterana. Il foglio, composto di testo e immagine, associa la nascita del ‘mostro
di Castelbaldo’ avvenuta il 18 dicembre 1525 (probabilmente un
parto siamese) con la contemporanea comparsa di uno pseudoprofeta, alias Lutero, in terra di
Alemagna. Il partito avverso rispondeva facendo circolare in
Italia testi altrettanto infamanti
di propaganda protestante. Un
genere particolare è infine quello
dei fogli di tipo censorio, ossia le
censure e proibizioni in materia
libraria diffuse tramite bandi e
manifesti che rappresentano interventi giuridici pienamente
operativi atti a integrare o modificare le proibizioni sancite dagli
indici ufficiali. Presso l’Estense di
Modena si conserva un singolo
foglio impresso a Roma dagli eredi del Blado in data 22 maggio
57
1574 che si rivela a tutti gli effetti
un indice ufficiale romano. Sotto
il titolo Aviso alli librari che non
faccino venire l’infrascritti libri et
ritrovandosene havere che non li
vendino senza licenza il foglio si rivolge ai librai cui impedisce la
vendita e il commercio di una nutrita serie di autori e testi, fino a
giungere alla generica condanna
senza appello di canzoni e commedie «dishoneste e lascive».
Quanto alla vendita di tale materiale, il canale privilegiato non era
tanto quello tradizionale della libreria, quanto piuttosto quello
assai meno controllabile dei venditori ambulanti, capaci di offrire
a gran voce immaginette a stampa
e fogli volanti di interesse cronachistico, politico, bellico, astronomico, devozionale. Con buona
pace di chi, come fra Girolamo
Malipiero, inveiva contro «zarlatani, mercatantuzzi di filastrocche e di mille superstizioni i quali
per cupidigia volendo spacciare al
volgar popolo tai mercatanzie
fanno a modo delli uccellatori».
Riprendiamoci dalla digressione e torniamo al ‘foglio volante’ astrologico milanese da poco
riscoperto. L’esemplare, ça va sans
dire, è unico e l’edizione finora
sconosciuta, anche a Ugo Rozzo
e alla bibliografia specifica. Il testo è disposto su quattro colonne,
chiaro indice della necessità di
contrarre i costi di stampa e stipare il contenuto su un solo foglio di
stampa. L’intestazione, impressa
in caratteri romani maiuscoli,
58
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
A sinistra: Madonna del Fuoco,
silografia, c. 1428. A destra, dall’alto:
Bartolomeo da Seravezza, Breve
discorso sopra la cometa apparsa alli
VIIII di Novembre M.D.LXXVII detta
la Scapigliata, stampata in Genova e
ristampata in Vercelli, Guglielmo
Molino, 28 gennaio 1578;
Crocifissione, silografia di origine
tedesca, c. 1450
non lascia adito a dubbi sul contenuto (che bene si prestava a essere
reclamizzato a gran voce da uno
di quegli ‘uccellatori’ cui si è fatto
cenno) e la paternità intellettuale:
«IL TACVUINO DEL REVERENDO PADRE FRA BAR.
DA SARAV.». Segue, in corsivo
minuscolo, dedica «Al Magnifico
M. Antonio Maria Grimaldo
Bracello da Genova, dell’anno,
1563». Si è pertanto alle prese
con un precoce almanacco per
l’anno 1563 compilato dal reverendo fra Bartolomeo Seravezza
dell’Ordine dei Serviti, professore di matematica presso lo Studium di Pavia dal 1570 al 1579 e
autore di alcuni pronostici, sebbene della sua produzione astrologica siamo solo in parte al corrente.2 Il ‘foglio volante’ consente addirittura di anticiparne di parecchio l’attività ufficiale di alma-
nacchista e pronosticante, finora
nota solo a partire dal 1571 tramite un Pronostico et lunario per quell’anno impresso a Bologna per
Alessandro Benacci di cui si conserva un esemplare presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di
Bologna.3 Al Seravezza rimandano almeno altri tre prodotti analoghi: rispettivamente Il pronostico
sopra l’Eclisse del 1574 e di altri
aspetti di pianeti del 1575, Pavia,
Girolamo Bartoli, 1575 (un
esemplare presso la Cambridge
University Library);4 un più articolato pronostico sine notis tràdito da un’unica copia nota presso
la Marciana di Venezia dal titolo
assai prolisso Pronostico nouo sopra
l’anno bisestile 1576 nel quale si denotano le grande e marauigliose cose,
segni, et prodigij c’hanno da venire,
scorrendo fino li anni 1580. Con vna
nuoua aggionta latina, detto Effectus futurorum, di grandissima consideratione, trouato in carta bergamina, et fu scritta li anni del Signore
DCCXI del mese di gennaro. Doue si
essorta tutti li principi christiani alla
vnione, et con diuersi altri notabili
moti;5 infine Il lunario del 1578 con
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
nuovo pronostico del presente anno,
Bologna, Benacci, 1578, noto in
via indiretta da fonti bibliografiche. Il Seravezza prese poi parte,
come parecchi altri, al dibattito
sulla cometa apparsa nel novembre del 1577, firmando un opuscoletto di quattro carte che godette di discreta fortuna: Breve discorso sopra la cometa apparsa alli
XII di Novembre M.D.LXXVII
detta la Scapigliata. L’opera è tràdita da un manipolo di edizioni
ravvicinate con le seguenti sottoscrizioni: Piacenza, Giovanni Bazachi e Anteo Conti, 1577
(EDIT16 CNCE 61696 non censisce alcun esemplare in biblioteche italiane; una copia alla British
Library); Venezia, Cristoforo Zanetti, s.a. [1577] (EDIT16 CNCE
70818 censisce tre copie presso la
Biblioteca Angelica di Roma, la
Comunale di Treviso e la Marciana di Venezia); stampata in Genova e ristampata in Vercelli, Guglielmo Molino, 28 gennaio 1578
(EDIT16 CNCE 74655 censisce
un unico esemplare presso la Biblioteca del Seminario vescovile
di Casale Monferrato); Pavia, Girolamo Bartoli, 1578 (EDIT16
CNCE 60915 censisce un unicum
presso la Biblioteca Trivulziana
di Milano); Mantova, Francesco
Osanna, 1578 (EDIT16 CNCE
74761 censisce un’unica copia
presso la Biblioteca Nazionale
Centrale di Firenze).6
Il Tacuino certifica dunque
che il frate Seravezza compilasse
pronostici per l’anno a venire al-
meno dagli anni Sessanta, dunque un decennio prima di quanto
finora suggerito dalla produzione
di cui si era a conoscenza. Non solo. Apprendiamo che l’autore non
fosse ancora docente di matematica a Pavia, ma «lettore in Sacra
Theologia in Genoa». E ciò giustifica la dedica ad Antonio Maria
Grimaldi Bracelli, figura di spicco
del patriziato cittadino, figlio del
doge Gaspare Grimaldi Bracelli
59
in carica nel biennio 1549-1551,
creato cavaliere aurato e conte
palatino dall’imperatore Ferdinando con diploma dato in Augusta il 26 maggio 1559. L’incipit del
pronostico confessa inoltre
un’informazione bibliografica indiretta, vale a dire che ne dovette
essere stampato uno analogo anche per l’anno precedente, di cui
però non si è finora individuato
alcun esemplare. Così infatti,
esplicitamente, l’autore si rivolge
al dedicatario: «L’anno passato …
gli dedicai un mio Taccuino, nel
quale per errore dello stampatore
e poca avvertenza di chi haveva
cura di correggerlo ci mancò il
suo nome, per il che havendone
fatto uno per quest’anno, m’è
parso, in ricompensa di quello di
dedicargli questo». Ne deriva, in
termini bibliografici, che la bibliografia delle edizioni astrologiche vada incrementata non di
uno, ma di due items, il primo dei
quali noto (almeno per ora) solo
in via indiretta. A chi spetta la responsabilità tipografica di questo
almanacco? Nient’affatto anonimo, come molti analoghi prodotti, presenta esplicita sottoscrizione all’ultima riga della prima colonna: «Si uendono in Milano, alla sta(m)pa di || Giouanbattista
de Ponti, alla Douana». Le cifre
I.B.P. del tipografo riappaiono
poco sopra, inscritte in un cuore,
in una piccola vignetta silografica
raffigurante un frate che tiene in
mano un crocifisso e, sul tavolo,
alcuni strumenti per lo studio dei
60
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
pianeti (una clessidra, un compasso, una squadra, una sfera, un libro). La stampa sembra dunque
da ricondursi senza troppe esitazioni a Giovanni Battista Da Ponte, libraio e stampatore camerale
e arcivescovile con indirizzo «alla
Dogana», la cui attività si estese
da metà Cinquecento almeno sino al 1581.7 Giovanni Battista, cui
riconducono circa 200 edizioni,
un paio delle quali di argomento
astrologico, fu fratello di Paolo
Gottardo, Pacifico e Giacomo
Paolo e discendente, tramite Pietro Paolo, del più noto libraioeditore di origini fiamminghe
Gottardo Da Ponte. La vignetta
con il frate non sembra esclusiva
del Da Ponte, né tantomeno andrà confusa con la sua marca editoriale. Riapparirà infatti, senza
troppe modifiche ma priva delle
iniziali tipografiche, anche in alcune delle successive edizioncine
astrologiche del Seravezza, al solo
scopo di suggerire all’acquirente
l’immagine dell’autore, il frate
Bartolomeo da Seravezza raffigurato nelle vesti di astrologo. Il
pronostico generale in forma di
almanacco-calendario era l’unico
consentito dall’autorità ecclesia-
NOTE
1
Già Libreria Antiquaria Piemontese
di Marco Cicolini. Ora, Milano, collezione
privata.
2
Ha censito la produzione a stampa
del Seravezza LEANDRO CANTAMESSA ARPINATI,
Astrologia Ins & Outs opere a stampa,
1468-1930, Milano, Otto/Novecento,
stica, né il Da Ponte poteva mettere a repentaglio la carica di
stampatore camerale e arcivescovile, che gli garantiva nutrite
commesse, per qualche pubblicazione non lecita. Pertanto usciva
con l’indicazione esplicita «con
licentia del Reverendo Padre
Maestro Angelo Inquisitor Gene(rale) nel Stato di Milano». Si
accerta che il Da Ponte stampò
pochissime altre edizioni di argomento astrologico, stando a ciò
che è giunto fino a noi. Almeno
un altro foglio volante: Ephemerides & prognosticon anni 1556, tràdito tramite l’unicum che si conserva presso la Biblioteca Estense
di Modena.8 E l’opuscoletto di
quattro carte dal titolo Discorso et
giudicio sopra alla cometa apparsa
l’anno presente MDLXXX circa al
fine del mese di settembre. Composto
da G.F.P. [1580] di cui si conserva
un unicum presso l’Ambrosiana di
Milano.9
Il Tacuino funziona da autentico ‘Frate Indovino’ ante litteram, condensato in un solo foglio
di stampa da potersi comodamente incollare al muro. Fornisce, nell’ordine, «i giorni ne’ quali l’eccellentissimo Senato di Mi-
lano non siede», le feste mobili, il
calendario astrologico con le previsioni metereologiche, cui seguono una serie di indicazioni
buone al medico e al contadino
relative ai «giorni idonei a cavar
sangue, o far de bagni … per dar
le medicine» o a «piantare arbori,
viti, potare, legare vigne, lavorare
campi, orti e seminare per far
buona ricolta». L’ultima colonna
trasmette infine il pronostico ufficiale per l’anno 1563, sottoscritto Genova I novembre 1562: «il
principio dell’anno sarà molto
freddo con acque, venti e nieve …
sarà l’aria quasi sempre oscura,
nera, torbida e malanconica, piena dico di cattivi vapori … la primavera, la quale apparirà tardi,
sarà nel principio fredda e bagnata e saranno venti terribili e nocivi, poi tempeste con tuoni e saette
nel finire … Parturiranno molte
donne gemelli, ma nel partorire
ne periranno assai. Saranno infermità gravi ne la testa, febri acute,
pestifere, mal mazzucco, detto da
altri mal de castrone … ». In
quell’anno ci sarebbe stata eclissi
del sole «alli 20 di giugno» ed
eclissi della luna «in lunedì a 5 di
Luglio».
2011, nn. 7394-7396.
3
EDIT16 CNCE 4500.
4
EDIT16 CNCE 74654.
5
EDIT16 CNCE 77921. Not in CANTAMESSA.
6
Si aggiunga anche l’edizione cinquecentesca sine notis tràdita dall’unicum della Biblioteca Vaticana (EDIT16
CNCE 61178).
7
Ma FERNANDA ASCARELLI - MARCO MENATO, La tipografia del ’500 in Italia, Firenze, Olschki, 1989, p. 151 ne fissa la data di
morte al 1591. Si veda la scheda sul tipografo di EDIT16 on line CNCT 280.
8
EDIT16 CNCE 76416.
9
EDIT16 CNCE 38490.
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
61
Editoria
Gli ottant’anni
degli Struzzi di Einaudi
La storia del celebre pennuto (1935-2015)
MASSIMO GATTA
Uno struzzo, quello di Einaudi,
che non ha mai messo la testa sotto
la sabbia.
Norberto Bobbio
Prima o poi tutto finisce in un libro.
Alberto Savinio
L
a storia della tipografia e
dell’editoria, fin dalla
protostampa, è costellata
di marche più o meno celebri che
nella loro immediatezza simbolico-iconica ma anche letteraria,
racchiudevano lo spirito complessivo delle botteghe alle quali
erano intimamente legate, nonché spesso dei committenti delle
opere stampate. Per la loro valenza simbolica le marche erano
strettamente correlate al vasto e
complesso ambito dell’araldica,
delle imprese, e dell’ex libris, ma
separate da quello di insegne, livree, cifre, emblemi e motti. Gli
stessi motivi iconografici, nati in
un preciso ambito storico-culturale, potevano essere ripresi in altri tempi e contesti, e adattati di
volta in volta alle nuove esigenze,
costituendo una sorta di work in
progress giunto fino ai nostri giorni, nei quali molte marche editoriali, originate nei lontani secoli
della protostampa, sono state riutilizzate e riadattate.
Una delle più celebri e conosciute (ma anche rielaborate)
fra queste marche è quella dell’Einaudi, il famoso struzzo che
inghiotte un chiodo di ferro (per
la verità l’incisione mostra che il
chiodo è ancora ben stretto nel
becco del pennuto) - tema iconografico assai antico, di origine pliniana (sebbene già Aristotele nel
suo Parti degli animali avesse ammirato lo struzzo per la sua singolarità di essere bipede e insieme
pennuto), - con il cartiglio latino
Spiritus durissima coquit.
La protomarca ebbe origine
nella metà del Cinquecento. Era
contenuta nella prima edizione
illustrata del Dialogo dell’imprese
militari et amorose di Monsignor
Giovio vescovo di Nocera, con un ragionamento di messer Lodovico Domenichi, nel medesimo soggetto, appunto di Paolo Giovio. L’incisione, realizzata dal cosiddetto
“Maître à la capeline”, artista tra i
62
più abili nella Lione del ’500 e collaboratore di Guillaume Rouillé,
lo stampatore del libro, ritrae appunto uno struzzo con un chiodo
di ferro stretto in becco e il succitato motto latino. Tale impresa
venne ideata da Giovio su commissione di Girolamo Mattei Romano, «capitan de’ cavalli della
guardia di Papa Clemente, huomo risoluto e d’alto pensiero, e
d’animo deliberato», e può essere
compresa solo se legata al motto
che la sostiene, il cui significato è
appunto «ch’un valoroso cuore ha
forza di smaltire ogni grave ingiuria». L’impresa aveva la sua ragion
d’essere, però, in un truce fatto di
sangue, evento molto comune
all’epoca. Il committente, Girolamo Mattei, aveva infatti atteso
molto tempo prima di poter vendicare la morte del fratello Paluzzio, ucciso in un litigio dal nipote
del cardinale Andrea della Valle,
Gieronimo. La vendetta, riconosciuta dai della Valle come frutto
appunto di «un valoroso cuore»in
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
grado di «smaltire ogni grave ingiuria», e appartenente a «huomo
risoluto e d’alto pensiero, e d’animo deliberato», venne da Papa
Clemente perdonata e il Mattei
insignito addirittura del titolo di
Capitano. Come giustamente nota Mauro Chiabrando, osservando bene questa marca, nei suoi
elementi strutturali ma anche
paesaggistici, si rileva una «suggestiva somiglianza tra il paesaggio sullo sfondo dell’ovale e quello che caratterizza due vedute appenniniche, rispettivamente di
Nocera Umbra (città di cui Paolo
Giovio fu vescovo per vent’anni) e
Castelnuovo laziale, incise all’acquaforte dal geografo editore Georg Braun (1541-1622) nel 1577
per la Civitates orbis terrarum
(grande opera in sei volumi, usciti
tra il 1572 e il 1618, che raccoglie
centinaia di panorami di città)
pubblicata a Colonia in collaborazione con il cartografo Franz Hogenberg (1535-1590. L’impresa
di Giovio venne ricordata, qual-
che decennio dopo, anche da Giulio Cesare Capaccio nel suo Delle
Imprese (ma il suo struzzo ha nel
becco un ferro di cavallo) nella sua
doppia realizzazione: Il ricco ignorante, realizzata per il Marchese
del Vasto, nella quale «lo struzzo,
la cui natura è, che non potendo
alzarsi dal suolo, suol correndo
farsi vela con l’ali, per avanzar gli
altri nel corso» (cioè che se anche i
ricchi non volano con l’ingegno
verso sublimi speculazioni, sempre correranno avanti agli altri
grazie alle comodità delle ricchezze); quindi quella nota col
motto Spiritus durissima coquit,
dove Capaccio aggiunge: «per significar che un generoso cuore
smaltisce ogni grave ingiuria del
tempo. E per significar un nuovo
modo che alcun tenga in cose
d’ingegno, figurò lo struzzo maschio, e la femina che miravano
fissamente l’uova, ch’essi non covano sedenti, come gli altri uccelli, ma guardante, e’l motto era
questo, Diversa ab aliis virtute ale-
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
mus. Per significar la Giustizia, è
buona impresa lo struzzo, perché
ha tutte le penne equali, dice
Oro».
Una curiosità poco nota, ma
documentata in epoca pre-einaudiana, è quella legata al riutilizzo
semantico di questa marca cinquecentesca, rielaborata non solo
nella parte iconografica ma anche
in quella letteraria. Essa venne infatti ripresa dall’incisore e disegnatore belga Félicien Joseph
Victor Rops (1833-1898), che la
utilizzò per disegnare una delle
‘divise’ dell’amico Charles Baudelaire, col motto latino modificato dal poeta in Virtus durissima
coquit e appunto lo struzzo, ma qui
rivolto verso sinistra, con nel becco una pietra al posto del chiodo di
ferro, e sullo sfondo le tre piramidi di Giza. Venne stampata nel
1921, in grande, al centro dell’antiporta delle Lettere di Charles
Baudelaire, pubblicate da Ugo
Nalato (Gian Dàuli) presso la sua
casa editrice Modernissima.
Fin dal gennaio del 1930 lo
struzzo cominciò a comparire sulle copertine e sulle quarte di copertina, della rivista «La Cultura», fondata nel 1882 da Ruggero
Bonghi e diretta in seguito da Cesare De Lollis dal ’21 e fino alla
morte, avvenuta nel ’28, in concomitanza con la trasformazione
della rivista in periodico trimestrale. Era stato l’intervento del
banchiere Raffaele Mattioli (spirito umanista e raffinato cultore di
libri preziosi), coinvolto da Mario
Praz nel progetto di salvataggio
della prestigiosa pubblicazione
(che dopo la morte di De Lollis
non navigava in buone acque), a
riportare in auge l’immagine dello struzzo. Fu proprio il celebre
anglista «uno degli animatori della rivista con Arrigo Cajumi e Pietro Paolo Trompeo, forse sfogliando l’edizione Hoepli del volume di Jacopo Gelli Divise, motti e
imprese di famiglie e personaggi ita-
63
liani, Milano 1916 (ristampato in
versione riveduta e ampliata giusto nel 1928), a rimanere colpito
dal potenziale evocativo di quell’emblema e del suo motto, proponendolo come marca della rivista e delle sue edizioni». Nel 1934,
essendosi definitivamente chiusa
la casa editrice «La Cultura»,
Mattioli cedette la testata a titolo
gratuito al giovane editore Giulio
Einaudi, ma la rivista, come è noto, fu soppressa poco dopo dal regime fascista e mai più ripubblicata. Lo struzzo cessò così di comparire su «La Cultura» con il passaggio della stessa all’Einaudi.
Lo struzzo einaudiano apparve ufficialmente la prima volta
nel 1935, in copertina de Il pensiero
politico italiano dal 1700 al 1870 di
Luigi Salvatorelli (primo volume
della “Biblioteca di cultura storica”), allora direttore della «Stampa», che nel nome di Leone Ginzburg e nel solco dell’impresa gioviana, lottava in pieno fascismo
64
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
per resistere alla barbarie nazifascista; quindi dal 1936 anche sui
volumi dei “Saggi”. Come rilevato da Claudio Pavese: «la prima
impostazione grafica adottata,
fortemente influenzata dal razionalismo tipografico di Frassinelli,
sicuramente sconsigliò l’utilizzo
dell’orpello xilografico cinquecentesco. Si dovette attendere fino al marzo del 1935 (quasi un anno e mezzo dopo la fondazione
della casa editrice torinese) quando su di esso comparì per la prima
volta. È lecito pensare che l’arresto di Ginzburg nel marzo del
1934 possa aver indotto Giulio
Einaudi a ‘rispolverare’ il vecchio
emblema per rivendicare forza e
coraggio nelle avversità». La marca diventò l’emblema di questa resistenza, con le armi dei libri e della ragione, capace di ingerire e digerire anche le più «gravi ingiu-
I LIBRI EINAUDI 1933-1983.
COLLEZIONE CLAUDIO PAVESE
L
a mostra, tenutasi a Milano,
presso la Galleria Gruppo Credito Valtellinese, in corso Magenta, ha ricostruito, grazie agli oltre tremila volumi e documenti provenienti
dalla collezione di Claudio Pavese, la
rie», «simbolo di un coraggioso e
perseverante impegno culturale e
civile» (Chiabrando) della casa di
via Biancamano. Fin dal 1938 era
il solo struzzo, senza medaglione e
cartiglio, a comparire sia sui piccoli cataloghi editoriali Einaudi di
diverso colore, che in bianco sulla
copertina azzurro chiaro della
Collana “Narratori stranieri tradotti” (1938) e su quella dei “Problemi contemporanei” (1939).
Tornò poi l’anno successivo in copertina di Capitalismo e socialismo.
Critica dei due sistemi di Arthur Cecil Pigou.
Nell’aprile del 1941 lo struzzo darà anche il nome alla Collana
“Biblioteca dello Struzzo”, di cui
divenne responsabile Cesare Pavese. In essa, il 10 maggio del ’41,
venne pubblicato Paesi tuoi, dello
stesso Pavese, con una copertina
in brossura e sovraccoperta di
più ampia e completa
storia della casa editrice Einaudi. Curata
da Andrea Tomasetig,
in collaborazione con
Cristina Quadrio Curzio e Leo Guerra, l’iniziativa ha prodotto
anche un interessante catalogo (Verona,
Credito Valtellinese e Libraccio Editore,
2016, pp. 148, s.i.p.) che contiene (oltre
un saggio del curatore) scritti di Stefano Salis, Mario Piazza e Mauro Chiabrando, nonché le schede redatte dallo
stesso Claudio Pavese.
Francesco Menzio. Quando Leone Ginzburg, in quel periodo confinato politico a Pizzoli in Abruzzo, venne informato della nascita
della Collana espresse un parere
negativo circa il titolo della stessa,
perché a suo giudizio faceva pensare a libri che solo gli struzzi
avrebbero digerito, e ciò non
avrebbe giovato a favore del pubblico; pensò invece a un altro titolo, poi adottato, “Narratori contemporanei”, dove il 27 agosto del
’45 venne poi ristampato il romanzo di Pavese. Pertanto la “Biblioteca dello Struzzo”, subito
soppressa, contenne un solo titolo. Paesi tuoi, nella nuova Collana,
aveva in copertina lo struzzo gioviano in nero, senza l’ovale e con il
motto latino qui ripristinato, che
venne poi utilizzato anche per le
sovraccoperte della prima grafica
della Collana “Universale Einau-
Altro volume da
tenere in considerazione, per ulteriori
approfondimenti sulla figura di Einaudi e
sulla storia della casa
editrice da lui fondata, è l’imponente Giulio Einaudi nell’editoria di cultura del Novecento italiano (Firenze, Olschki,
2016, pp. 416, 38 euro). Il libro, curato
da Paolo Soddu, raccoglie gli atti del
grande convegno tenutosi nel 2012
presso le fondazioni Giulio Einaudi e
Luigi Einaudi.
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
di” (grafica di Francesco Menzio,
nel ’46 di Max Huber e infine, intorno al ’60, di Oreste Molina);
nella seconda grafica, invece, il
medesimo struzzo compare, da
solo al centro, sul retro della sovraccoperta, una scelta grafica periferica alquanto particolare ma
che testimonia la forte valenza
simbolica e identitaria attribuita
allo struzzo, che da solo ‘comunica’ la casa editrice. Mentre dal
1948 nella nuova serie della “Universale” scompare lo struzzo dalla
copertina, che rimane con la sola
scritta Einaudi stampata di traverso, grande appena come «una cacatina di mosca»: scelta grafica,
questa, che fece infuriare Carlo
Muscetta.
Intanto alla fine del ’45 il
marchio venne rivisitato da Renato Guttuso in termini ancora più
‘ideologici’: fu infatti ritagliato il
solo struzzo ma, in questa occasione, rivolto verso ‘sinistra’ rispetto all’archetipo gioviano.
Questo nuovo struzzo, la cui grafica non era delle più felici (Guttuso, benché grande pittore, non
aveva capacità da grafico), venne
utilizzato per la copertina della seconda edizione del ’46 di Cristo si è
fermato a Eboli di Carlo Levi, dove
compare al piede, in bianco, attraversato al centro dalla scritta in
nero «EINAUDI». Tale pregnanza identitaria la ritroveremo
nelle copertine della Collana
“Piccola Biblioteca scientifico
65
letteraria” nata nel ’49, curata redazionalmente da Giulio Bollati e
con grafica di Max Huber, dove lo
struzzo, qui tornato al suo ovale
gioviano completo, è posto in alto
a destra in ampia dimensione; la
casa editrice non è menzionata in
copertina, delegando al solo
struzzo l’identità editoriale generale del volume, in una sorta di sineddoche grafica di notevole pregnanza simbolica, in cui la copertina, oltre che sobria, deve «nello
66
stesso tempo rimandare chi guarda ad una linea progettuale ben
precisa che individui una matrice
comune ed una linea coerente di
quell’editore piuttosto che di un
altro», la parte per il tutto.
Nel 1946, in occasione della
“Settimana del libro Einaudi”,
venne stampato un pieghevole,
oggi rarità bibliografica, realizzato a Milano in piena era «Politecnico» da Max Huber dove, insieme al celebre ovale gioviano qui
stampato in azzurro, veniva in un
certo senso attestandosi, in uno
scritto di poche righe, l’intera
poetica della marca e della politica
einaudiane, costituendo di fatto
«un vero e proprio manifesto
ideologico dello struzzo dopo il
fascismo»: «Lo struzzo che tiene
nel becco un lungo chiodo e il
motto Spiritus durissima coquit impressi sulle copertine delle nostre
collezioni, sono il simbolo di una
cultura pronta ad assimilare ogni
esperienza, sia pure aspra e difficile, sono il simbolo dell’intelletto
umano avido di ogni specie di nutrimento. Spiritus durissima coquit,
lo spirito tutto trasforma in sé e da
tutto trae alimento, e nulla che in
questo mondo avvenga o viva gli è
estraneo: lo spirito unifica sotto il
suo comune denominatore storia
e natura».
Latamente alla progressiva
modificazione del modello gioviano si deve pure rilevare un curioso fenomeno grafico, notato
per primo dal libraio antiquario e
bibliografo Roberto Palazzi.
Confrontando, infatti, alcuni dei
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
vari clichérealizzati dall’Einaudi ricavati dalla marca originale di
Paolo Giovio, Palazzi notò un significativo ‘degrado semantico’:
«nel tempo il castello, sormontato
da un volo di uccelli presente nel
disegno originale sullo sfondo dell’ellisse, si era di fatto tramutato in
un cumulo di rovine (senza peraltro essere poi mai stato ripristinato
nella versione originale), quasi a
significare
involontariamente
un’altra allegoria, quella della caducità delle umane imprese».
Ulteriore rivisitazione implicita dello struzzo, ma ovviamente non per l’Einaudi, sarà
l’Autruche disegnato nel 1942 da
Pablo Picasso ad Antibes per una
selezione dai 36 volumi dell’Histoire naturelle di Georges-Louis
Leclerc, conte di Buffon, pubblicata da Martin Fabiani per Ambroise Vollard, poi donata nel ’51
dal grande artista spagnolo a Giulio Einaudi; la casa editrice lo
adottò in copertina dei due cataloghi storici dell’83 e del ’93, e alla fine del 2004 quale logo per la Collana “Einaudi Tascabili” e in seguito per la Collana “Stile Libero”. Nel 1946, intanto, il bisogno
di rinnovare graficamente la casa
torinese investì anche il noto pennuto. Due importanti varianti
vennero, infatti, apportate allo
struzzo gioviano, a partire dalle
nuove Collane dei “Narratori
stranieri tradotti” e dei “Coralli”
(1947): lo struzzo torna a essere riprodotto scontornato dal contesto paesaggistico, senza cartiglio,
e ora rivolto verso sinistra (co-
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
m’era in quello di Guttuso) e in
posizione dinamica, con la zampa
destra in avanti e la destra indietro, non statica, come appariva
nell’emblema cinquecentesco.
Nel 1961 fu la volta di un altro
grande artista, Giacomo Manzù,
rivisitare per l’Einaudi l’archetipo
gioviano, disegnando espressamente uno struzzo molto stilizzato, racchiuso in un ovale vuoto,
circondato dal cartiglio latino;
venne inciso in occasione della
pubblicazione della sua raccolta
Quarantun disegni di Giacomo
Manzù, e utilizzato da Bruno Munari per la collezione “Biblioteca
dell’Orsa” del 1986, dove venne
riprodotto, in basso, solo sul dorso dei volumi. Questa versione
manzuniana verrà ripresa dall’Einaudi anche per contrassegnare il
retro di buste, cartoncini e chiudilettera. L’artista realizzò, ma del
solo struzzo, anche una limitatissima fusione in oro per gioielli.
Altra lettura en artiste dello
struzzo einaudiano è quella che
Giulio Paolini realizzò nell’ottobre del 2000 in occasione della
Fiera del libro di Francoforte, e
mai utilizzato dall’editore sui propri volumi: «La bellissima interpretazione di Paolini del marchio
Einaudi mostra uno struzzo stilizzato contenente quello originario, come a indicare che l’innovazione della casa editrice conserva
comunque una continuità con la
propria tradizione». Tutti e tre
questi ultimi Struzzi d’artista pervennero a Giulio Einaudi per
amicizia e in segno di stima, nes-
suno su commissione e ad attestare, come ribadiva Roberto Cerati,
una «vicenda familiare». Infine
come non ricordare il personale
omaggio che, nel 2008,lo stampatore Alberto Casiraghy fece allo
struzzo? Opera di Pino Guzzonato il disegno, che mostra il maestoso animale mentre corre
(stampato in bianco su fondo giallo), adorna la plaquette di Mario
Rigoni Stern, Due dediche a Roberto
Cerati. Lo struzzo appare anche in
un’altra plaquette, promossa sempre da Casiraghy insieme al libraio Bruno Biagi: Vent’anni di Einaudi in via Bovara. Qui, in copertina, il celebre pennuto è isolato e
come assorto in un pensiero, con
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le zampe palmate ben poggiate su
un morbido tappeto d’erba. La
plaquette, circolata assai limitatamente a causa della bassa tiratura,
riporta sia la frase di Bobbio, da
noi usata in esergo, che allegati in
una bustina un chiodo di ferro e
l’ovale completo con lo struzzo di
Einaudi, stampato in rosso.
Tutti gli Struzzi einaudiani, e
le tante Collane, sono infine documentati nell’ottimo catalogo
della mostra I libri Einaudi 19331983. Collezione Claudio Pavese
(che si è appena conclusa con successo a Milano, presso la Galleria
Gruppo Credito Valtellinese, in
corso Magenta) e al quale si rimanda per ulteriori curiosità.
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la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
In Appendice - Feuilleton
L.E.X.
Le biblioteche profonde
IX capitolo
ERRICO PASSARO
RIASSUNTO DELLE
PUNTATE PRECEDENTI
“Lupo” è il guardiano di una
biblioteca clandestina nel Deep Web.
Contatta Victor Stasi, agente di LEX,
la branca dei servizi segreti italiani di
cui è informatore, ma finisce torturato
e ucciso da Abel Kane, uomo
dell’organizzazione antagonista di
LEX, la Loggia. Bonera, il capo di
LEX, manda Stasi e Livia Malatesta,
il suo agente di supporto, ad Atene.
Stasi scampa all’attacco di un
commando armato.
A
tene era il solito caos di
auto e pedoni. Stasi, nella griglia di strade che
circondava il suo albergo, ancora
pensava all’agguato subito alla Biblioteca e alla sua reazione letale.
Tre assassini in meno.
Entrò nel Dorian Inn e tirò
dritto verso la 930. Trovò la porta
aperta, dal che dedusse che Livia
lo stava attendendo nella stanza.
E invece…
La poltrona accoglieva la figuSopra e nella pagina successiva, Victor
Stasi e Abel Kane, illustrazioni di Anna
Emilia Falcone, espressamente realizzate
per «la Biblioteca di via Senato»
ra immobile di Abel Kane, il braccio sinistro appoggiato allo schienale. Accanto, un concentrato di
muscoli e tatuaggi: la sua guardia
del corpo personale, suppose…
grossa come un buttafuori, il corpo monolitico, la muscolatura
possente… Stasi era costretto a
guardarlo dall’alto in basso, dal
momento che gli rendeva almeno
venti centimetri di altezza.
- Punteggio pieno alla biblioteca, colonnello. Ti sei guadagnato la mia attenzione.
Parlava così piano che sembrava non aprisse bocca. La voce
usciva dalle labbra nervose.
- Colonnello? - simulò Stasi,
continuando a professarsi esperto
bibliotecario. - Chi è lei? Come è
entrato qui?
- Saltiamo i preliminari - lo
sbeffeggiò Kane. - Non darti pena
di fingere. A cosa devo l’onore
della tua visita in questa città?
L’intruso attinse un bicchiere
di whisky da una bottiglia già
aperta e lo porse a Stasi. Poi si versò una parte per sé. Soddisfatto, si
servì una seconda volta. Stasi declinò cortesemente il bis.
Vedendo che Stasi non ribatteva, Kane insistette, alzando il bicchiere nella sua direzione.
- Come posso aiutarti, Stasi?
Era inutile inscenare ancora la
giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
parte del professor Manuzio.
- Possiamo parlare a tu per tu?
La guardia del corpo era sempre lì: un bisonte ipofisario, con il
viso piatto, quasi schiacciato, che
probabilmente non cambiava
espressione neppure sotto il fuoco
concentrico di una decina di kalasnikov. La nerboruta body-guard
sovrastava Stasi di buoni venti
centimetri, confermato. Non si
mosse, né Kane fece nulla per farlo
allontanare: si limitò a flettere le
mani in un gesto minaccioso.
- Per chi lavori? - chiese l’agente di L.E.X., scrollando le spalle.
La Loggia era da nessuna parte
e dappertutto. Per portare a termini certi suoi piani, doveva aver offerto un ingaggio principesco al
criminale.
Kane, serafico, ignorò la domanda.
- Se per te non è un problema,
me ne scolo un altro di quello buono.
Stasi non gli diede la soddisfazione di farsi vedere irritato. Snebbiò la mente da ogni residuo emotivo.
- Sappiamo che per anni non
hai dato notizia di te… Sappiamo
che sei implicato nell’uccisione di
“Lupo”. Sappiamo anche che la
Loggia ha interessi nella gestione
del Deep Web e delle biblioteche
clandestine.
Kane si fece accendere una sigaretta dal suo scimmione.
- Senza offesa, ma sono informazioni di poco conto. Voi di
L.E.X. lo sapete bene.
L.E.X. era l’agenzia che non
esiste. La sua conoscenza era nota
a non più di quindici persone fra
Interni e Difesa italiani. Fuori dai
confini nazionali, coloro che sapevano della sua esistenza si contavano sulle dita di una mano.
- Ormai è una questione personale. Non importa quanto pensi di
essere furbo. Alla fine, ti prenderò.
L’uomo studiò la forma del fumo che si levava dalla sua sigaretta,
come se potesse trarne auspici.
Dopo un po’, fece un cenno allo
spezzapollici, che gli passò un
mazzo di foto. La bocca di lui assunse una piega volgare.
- Guarda qui.
Gettò le foto sul tavolinetto davanti alla poltrona. Le immagini,
prese in quella stessa stanza d’albergo, ritraevano Livia in varie
pose personali. Doveva essere state scattate poco prima dell’arrivo
di Stasi al Dorian Inn.
- Potrebbe succedere qualcosa
di spiacevole alla tua amica. Ma
noi non lo vogliamo, vero, Stasi?
Io ora uscirò da questa stanza e tu
non farai nulla per impedirmelo.
69
Kane era un rifiuto della società, capace di bassezze indescrivibili. Era fra coloro che tenevano
l’agenda della paura per conto della Loggia. Poteva bluffare, o avere
realmente la possibilità di nuocere
a Livia.
- Non vai da nessuna parte. Ti
darò la caccia. L.E.X. vince sempre.
- È ciò che ripeti a te stesso, ma
ti tengo in pugno, e lo sai.
Kane aveva scorpioni nel cervello. Stasi si affacciò alla finestra,
dandogli le spalle.
- Apri bene le orecchie: non te
la caverai a buon mercato. - Tirò
fuori dalla tasca la pistola, lentamente, per non far allarmare i suoi
‘ospiti’. - Questa pallottola è per te
- sibilò.
- Sei così prevedibile, Stasi.
Quando tornò a voltarsi, Kane
era evaporato, insieme al suo
guardiaspalle.
La morte di “Lupo” non sarebbe rimasta impunita.
- Preparati la bara, Kane - disse, rivolto al nulla. - Sto arrivando.
70
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
BvS: il ristoro del buon lettore
Don Consalvo, Del Cambio
e i segreti del Dom Perignon
L’imperio della Storia alla tavola di Cavour
GIANLUCA MONTINARO
C
i era riuscito. Era arrivato a
coronare quell’ambizione
che, dalla Sicilia, lo aveva
spinto a Roma. Era finalmente entrato nel Gabinetto, come «ministro
dell’Interno e vice Presidente del
Consiglio». Così, al principe Consalvo Uzeda di Francalanza (protagonista dell’incompiuto romanzo di Federico De Roberto L’imperio, di cui la
Biblioteca di via Senato conserva copia della prima edizione, stampata a
Milano, da Mondadori, nel 1929)
sembrò naturale, come primo atto,
recarsi in visita a Torino. Là, nell’antica capitale, aveva preso forma la primigenia idea d’Italia. Là, aveva operato con genio Camillo di Cavour. E
sempre là si era insediato il primo parlamento nazionale.
Arrivò quindi a Torino, raggiungendo in carrozza palazzo Carignano. Dopo la visita a quelle sale cariche di storia, ma pure di «quella finzione che mai viaggia disgiunta dagli
uffici parlamentari», Consalvo sentì
bisogno di verità. Attraversò la piazza
e si fermò per colazione al Del Cambio, il ristorante ove Cavour era solito
recarsi a mangiare. Lo accolse sulla
porta il talentuoso chef Matteo Baronetto. La pacatezza della voce e la sin-
Ristorante Del Cambio
Piazza Carignano, 2
Torino
Tel. 011/546690
cerità dello sguardo del giovane fugarono in Consalvo quegli spiacevoli
ricordi di «accordi politici stretti in
un’occasione e rotti in un’altra» che
abitano, invariabilmente, da veri inquilini, tutte «le stanze del potere».
Lo fecero accomodare al primo
piano del locale, nella rinnovata
Stanza Verde, aperta, in suo onore,
per la prima volta. Le ricche sete e i
damaschi cangianti, le luci soffuse e i
volumi antichi alle pareti, trasportarono, come per magia, Consalvo alla
tavola di Cavour. «Lo scoppio delle
bottiglie di sciampagna sturiacciate»
lo scosse dalle sue fantasticherie. Baronetto, Dépositaire Dom Perignon, aveva scelto di onorarlo aprendo P2 1998. Consalvo centellinò
quello Champagne del mito, che attende e matura almeno quindici anni
nelle cantine di Épernay fino a giungere alla Deuxième Plénitude. Uno
Champagne ancora così teso in energia da risultare quasi sbilanciato, e
che certo esprimerà l’apoteosi assoluta fra qualche anno, quando tutte le
componenti del vino saranno perfettamente integrate fra loro. Dalla cucina intanto giunsero le prime portate. Gli asparagi bianchi con caviale
riportarono Consalvo in Sicilia, alle
pendici dei monti Iblei, per via di
quelle mandorle che occhieggiavano
nel piatto. Se gli scampi rossi, accompagnati da insalata verde e cioccolato
bianco, gli sembrarono poi un omaggio alla bandiera nazionale, le pappardelle cacio e pepe gli parvero un
accenno di Roma in terra sabauda.
Quando fu il momento del merluzzo
affumicato con piselli, Consalvo ricordò i tempi della sua prima giovinezza, passata in viaggio, «fra Vienna, Parigi e Londra». Al momento
del commiato Consalvo fece chiamare Baronetto: «“Siete un poeta”.
Politica e cucina la medesima arte sono. Il politico “prepara leggi invece
di pietanze”. Cercherò di esser bravo
quanto voi. Addio!». Fuori la carrozza attendeva: il treno per Roma sarebbe partito a breve...
SCOPRI SU BELLISSIMA.COM IL NUOVO MONDO DI
72
HANNO
COLLABORATO
A QUESTO
NUMERO
CORRADO
MINGARDI
Corrado Mingardi
(1939) vive a Busseto.
Insegnante di lettere,
ora in pensione, da oltre 40 anni anni è consulente della Biblioteca della Fondazione
Cariparma a Busseto,
erede della secolare biblioteca del Monte di
Pietà, ricca di 40.000
volumi.
Svolge inoltre attività di consulenza, collaborando alle mostre
e ai cataloghi tenutesi
a Parma a Palazzo Bossi-Bocchi. Ha diretto
per anni il Museo Verdiano di Casa Barezzi
ed è stato consigliere
d’amministrazione del
Museo Bodoni di Parma. Fa parte del sodalizio “I Cento Amici del
Libro”.
la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016
EPIFANIO AJELLO
Epifanio Ajello è
professore ordinario di
Letteratura
italiana
moderna e contemporanea nell’Università di
Salerno.
Ha pubblicato articoli su autori contemporanei (Calvino, Campanile, Celati, d’Annunzio, Montale, Moravia, Gatto, Pasolini,
Sanguineti e altri) e ha
riunito gli scritti sull’India di Gozzano
(Nell’Oriente favoloso,
2004).
Fra gli ultimi suoi
lavori si segnalano: Il
racconto delle immagini. La fotografia nella
modernità letteraria
italiana (2009); Arcipelaghi. Calvino e altri.
Personaggi, oggetti, libri, immagini, (2013) e
l’edizione critica delle
Memorie italiane (2012)
di Carlo Goldoni.
CLAUDIO
BONVECCHIO
Claudio Bonvecchio è Professore Ordinario di Filosofia delle
Scienze Sociali nell’Università degli Studi
dell’Insubria (Varese)
dove è anche Coordinatore del Dottorato in
Filosofia delle Scienze
Sociali e Comunicazione Simbolica.
È Direttore Scientifico della rivista «Metabasis». Autore di innumerevoli saggi e
pubblicazioni, è direttore di svariate collane
editoriali per varie case
editrici.
È Member dell’Advisory Board della Eranos Foundation di
Ascona (Svizzera).
ANTONIO
CASTRONUOVO
Antonio Castronuovo (1954), bibliofilo e saggista, dirige varie collane per la Editrice la Mandragora di
Imola e collabora con
parecchie riviste.
Tra i suoi titoli: Libri da ridere: la vita e i
libri di Angelo Fortunato Formíggini (2005);
Macchine fantastiche
(2007); Alfabeto Camus (2011); Ossa cervelli mummie e capelli
(Quodlibet 2016).
Traduttore
dal
francese, ha da ultimo
pubblicato L’incendio e
altri racconti di Irène
Némirovsky, Il cervello
non ha pudore di Jules
Renard, Fisiologia del
flâneur di Louis Huart.
MARCO CIMMINO
Marco Cimmino
(Bergamo, 1960). Storico, membro della Società Italiana di Storia
Militare e socio accademico del Gruppo
Italiano Scrittori di
Montagna, si occupa
prevalentemente di
Grande Guerra.
Collaboratore Rai,
scrive su molte testate.
Membro del comitato
scientifico del Festival
Internazionale della
Storia di Gorizia, è uno
dei responsabili del
progetto èStoriabus.
Tra i suoi saggi più
recenti: La conquista
dell’Adamello (2009),
Da Yalta all’11 settembre (2010) e La conquista del Sabotino
(2012), finalista al premio Acqui Storia 2013.
MASSIMO GATTA
Massimo
Gatta
(1959) ricopre l’incarico, dal 2001, di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato
diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e
aspetti paratestuali del
libro (ex libris).
Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico
«Charta». È direttore
editoriale della casa
editrice Biblohaus di
Macerata specializzata
in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri”
(books about books), e
fa parte del comitato direttivo del periodico
«Cantieri».
Numerose sono le
sue pubblicazioni e i
suoi articoli.
LUCA P. NICOLETTI
Luca Pietro Nicoletti,
dottore di ricerca PhD in
storia dell’arte, ha studiato presso le Università di Milano e Udine. Si è
occupato di arte del Novecento, di storia della
critica e di cultura editoriale. Dopo aver insegnato storia dell’arte
all’Accademia di Belle
Arti ACME di Novara ha
collaborato con la Civica
Galleria d’Arte Moderna
di Torino. Ha vinto una
borsa di studio presso la
Fondazione Giorgio Cini
di Venezia. Cura per
Quodlibet la collana “Biblioteca Passaré. Studi di
arte contemporanea e
arti primarie”. Ha scritto:
Gualtieri di San Lazzaro
(Quodlibet 2014) e curato l’edizione di scritti di
Enrico Crispolti (Burri
“esistenziale”, Quodlibet
2015) e Gualtieri di San
Lazzaro (Parigi era viva,
2011; Modigliani. I ritratti, 2013).
ERRICO PASSARO
Passaro
Errico
(1966) è ufficiale dell’Aeronautica Militare
esperto in materie giuridiche.
Giornalista e scrittore, ha pubblicato oltre millesettecento articoli, dieci romanzi,
centoventi racconti,
fra cui il “triplete” per le
collane da edicola
Mondadori: la bianca
(Zodiac, Urania n.
1557; La Guerra delle
Maschere, Millemondi
Urania n. 58), la gialla
(Necropolis, Supergiallo n. 39), la nera (L.E.X. Law Enforcement X,
Segretissimo, n. 1591;
L.E.X. - Operazione Spider, Segretissimo n.
1610; L.E.X. - Inverno
arabo, Segretissimo n.
1611).
GIANCARLO
PETRELLA
Giancarlo Petrella
(1974) è docente a
contratto di discipline
del libro presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Nel 2013
ha conseguito l’abilitazione per la I fascia di
insegnamento
di
Scienze del libro e del
documento.
È autore di numerose monografie fra
cui: L’officina del geografo; Uomini, torchi e
libri nel Rinascimento;
La Pronosticatio di Johannes Lichtenberger;
Gli incunaboli della biblioteca del Seminario
Patriarcale di Venezia
(2010); L’oro di Dongo
ovvero per una storia
del patrimonio librario
del convento dei Frati
Minori di Santa Maria
del Fiume (2012). Collabora con «Il Giornale
di Brescia» e la «Domenica del Sole24ore».
GIANFRANCO
SCHIALVINO
Gianfranco Schialvino (1948), allievo di
Tullio Alemanni, si dedica da sempre all’antica arte della xilografia.
Ha fondato, nel
1987, con Gianni Verna
l’associazione “Nuova
Xilografia”, che Angelo
Dragone ebbe a definire «operativo cenacolo
a due».
L’intento è quello di
promuovere la più antica forma di stampa
con mostre, conferenze, seminari e con corsi
di insegnamento. Ha
all’attivo, insieme a
Verna, innumerevoli
mostre, sia in Italia che
all’estero.
GIANLUCA
MONTINARO
Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di
Milano.
Storico delle idee, si
interessa ai rapporti fra
pensiero politico e utopia legati alla nascita
del mondo moderno.
Collabora alle pagine
culturali del quotidiano
«il Giornale».
Fra le sue monografie si ricordano: Lettere
di Guidobaldo II della
Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II
della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico
Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e
diplomazia nel tramonto dei della Rovere
(2009); Ludovico Agostini, lettere inedite
(2012); Martin Lutero
(2013); L’utopia di Polifilo (2015).