Scarica l`edizione di giugno
Transcript
Scarica l`edizione di giugno
la Biblioteca di via Senato mensile, anno viii Milano n. 6 – giugno 2016 SPECIALE GUIDO GOZZANO Preziosi libri di una breve esistenza di antonio castronuovo Profumi, essenze e aromi in Gozzano di epifanio ajello Morte e nostalgia: le maschere di Gozzano di marco cimmino Xilografie in mostra per il «bel Guido» di gianfranco schialvino Guido Gozzano alla Biblioteca di via Senato di gianluca montinaro ISSN 2036-1394 SPECIALE GUIDO GOZZANO WE OPTIMISE CONTENT AND CONNECTIONS TO FUEL BUSINESS SUCCESS. V.le del Mulino, 4 – Ed. U15 – 20090 Milanofiori – Assago (MI) – Tel. 02 33644.1 Via Cristoforo Colombo 173 - 00147 Roma – Tel. 06 488888.1 E-mail: [email protected] – web: www.mediacom.com la Biblioteca di via Senato – Milano M E N S I L E D I B I B L I O F I L I A – A N N O V I I I – N . 6 / 7 3 – M I L A N O , GIUGNO 2 0 1 6 Sommario 4 SPECIALE GUIDO GOZZANO PREZIOSI LIBRI DI UNA BREVE ESISTENZA di Antonio Castronuovo 12 SPECIALE GUIDO GOZZANO PROFUMI, ESSENZE E AROMI IN GOZZANO di Epifanio Ajello 18 SPECIALE GUIDO GOZZANO MORTE E NOSTALGIA: LE MASCHERE DI GOZZANO di Marco Cimmino 24 SPECIALE GUIDO GOZZANO XILOGRAFIE IN MOSTRA PER IL «BEL GUIDO» di Gianfranco Schialvino 28 SPECIALE GUIDO GOZZANO GUIDO GOZZANO IN VIA SENATO di Gianluca Montinaro 37 IN SEDICESIMO – Le rubriche LE MOSTRE – COLLEZIONI E COLLEZIONISTI a cura di Luca Pietro Nicoletti, Gianluca Montinaro e Corrado Mingardi 53 La riflessione LE SCELTE DELL’OCCIDENTE E LO SCONTRO FRA SUNNITI E SCIITI di Claudio Bonvecchio 54 Bibliofilia OLTRE LA STRAGE. UN FOGLIO VOLANTE MILANESE DEL ’500 di Giancarlo Petrella 61 Editoria GLI OTTANT’ANNI DEGLI STRUZZI DI EINAUDI di Massimo Gatta 68 In Appendice – Feuilleton L.E.X. LE BIBLIOTECHE PROFONDE di Errico Passaro 70 BvS: il ristoro del buon lettore DON CONSALVO, DEL CAMBIO E I SEGRETI DEL DOM PERIGNON di Gianluca Montinaro 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Ringraziamo le Aziende che ci sostengono con la loro comunicazione Biblioteca di via Senato Via Senato 14 - 20122 Milano Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567 [email protected] [email protected] www.bibliotecadiviasenato.it Presidente Marcello Dell’Utri Direttore responsabile Gianluca Montinaro Servizi Generali Gaudio Saracino Coordinamento pubblicità Ines Lattuada Margherita Savarese Progetto grafico Elena Buffa Fotolito e stampa Galli Thierry, Milano Immagine di copertina Gianfranco Schialvino, Ritratto di Guido Gozzano, xilografia, 2016 Stampato in Italia © 2016 – Biblioteca di via Senato Edizioni – Tutti i diritti riservati Reg. Trib. di Milano n. 104 del 11/03/2009 Per ricevere a domicilio (con il solo rimborso delle spese di spedizione, pari a 27 euro) gli undici numeri annuali della rivista «la Biblioteca di via Senato» scrivere a: [email protected] L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per immagini o testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte Editoriale N on le parole che state leggendo avrebbero dovuto essere l’editoriale di questo numero del nostro mensile. Ma ciò che è accaduto, nelle scorse settimane, al presidente della Fondazione Biblioteca di via Senato, e che svariati giornali hanno riportato, spinge ad alcune riflessioni. I comportamenti, gli atteggiamenti, le condizioni e, soprattutto, le umiliazioni a cui è stato sottoposto impongono parole chiare. Io, che ben conosco il dottor Dell’Utri (che, ricordo, è uomo di 75 anni, e da diverso tempo non più in perfetta salute), penso non si sia scomposto più di tanto nel trovare la turca della sua nuova cella, a Rebibbia, sporca di escrementi. Come immagino i suoi pensieri, improntati al fatalismo, quando, 48 ore dopo, ricoverato d’urgenza al Pertini di Roma per una gravissima setticemia, ha dovuto attendere per giorni l’arrivo della sua cartella medica (contenente anche gli esiti di una risonanza magnetica effettuata una settimana prima) dal carcere di Parma. Documenti che lo hanno raggiunto con molta calma (nonostante l’urgenza del caso) perché inviati dall’amministrazione penitenziaria, come sberleffo, per posta e non per via telematica. Credo che questi episodi (ultimi di una lunga serie, improntata alla costante mortificazione umana nascosta dietro parvenze di burocrazia, consuetudini di procedura, paludamenti di giustizia) siano la ‘prova provata’ da un lato dell’accanimento barbaro verso un uomo che è stato preso a simbolo di un certo ‘periodo politico’, dall’altro delle storture del sistema giudiziario del nostro Paese. Che, ricordo, per cavilli, consente la libertà ad assassini rei confessi, e al contempo si compiace di umiliare un (ex) senatore, come scritto qualche giorno fa su un quotidiano, «a pulirsi il cesso» e a costringerlo in attesa, a rischio della vita. Il tutto detto senza entrare nel merito del dispositivo di un giudizio che, peraltro, fa riferimento non al codice ma solo alla giurisprudenza. Certo, se da un lato è giusto che le sentenze si applichino, dall’altro – essendo commutate da uomini, fallibili – è altrettanto giusto si possano sempre discutere, considerato anche che la Storia, purtroppo, è piena di casi di condanne ingiuste (perché, ed è doveroso dirlo con la massima chiarezza, anche i giudici sbagliano). In questi ultimi due anni, per rispetto e per riserbo, gli amici e i collaboratori del dottor Dell’Utri e della sua famiglia non hanno quasi mai fatto sentire la loro voce su tutte queste tristi vicende. Ora la misura è colma. E, anche io, insieme a tanti altri (gli stessi che ricevono questa rivista, gli stessi che per anni hanno condiviso con il dottor Dell’Utri la passione per i raffinati volumi e il collezionismo, gli stessi che hanno affollato le Mostre del Libro Antico e gli eventi organizzati in via Senato, gli stessi che hanno partecipato assieme a lui alle avventure editoriali e tipografiche), dico «basta!». Dico che non mi riconosco nel giudizio di condanna del dottor Dell’Utri, benché esso sia stato emesso «in nome del popolo italiano». E dico, soprattutto, che i modi e i termini con cui sta scontando la pena sono umilianti tanto per lui quanto per tutti gli italiani, in nome dei quali la sentenza è stata pronunciata. Gianluca Montinaro giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 5 SPECIALE GUIDO GOZZANO PREZIOSI LIBRI DI UNA BREVE ESISTENZA Le edizioni in vita di Guido Gozzano ANTONIO CASTRONUOVO L’ esistenza di Guido Gozzano (1883-1916) fu breve, poco meno di 33 anni, ma il posto che egli occupa nella letteratura del primo Novecento è centrale: depurando il proprio stile dalla magniloquenza dannunziana superomistica e ‘sublime’ diede vita al disincanto del crepuscolarismo, abbracciando un nuovo rapporto sentimentale - anche patetico, anche ingenuo - con le cose. Tuttavia, non esente da vena ironica, la sua poesia si salvò dall’abbandono incondizionato alle ‘piccole cose’ del gusto crepuscolare e riuscì a intercettare la sensibilità moderna, al punto da accogliere nella propria poetica la vergogna di «essere poeta», così come era accaduto a Corazzini di affermare «io non sono un poeta» e sarebbe capitato a Palazzeschi di domandarsi «son forse un poeta?». Sopra: la cosiddetta “terza edizione” (in realtà seconda) de La via del rifugio, prima raccolta poetica di Gozzano. Rispetto alla prima edizione il disegno non è incorniciato e la data è solo «1907». Nella pagina accanto: il disegno di Filippo Omegna riportato di fianco al frontespizio nell’edizione Treves (1936) Gozzano proveniva da una famiglia agiata che gli permise di compiere studi di giurisprudenza, condotti tuttavia in maniera svogliata, anche perché angustiato assai presto dalla tubercolosi, malattia che lo portò presto alla morte. Entrò in contatto negli anni di studio con un ampio gruppo di letterati ostili all’imperante dannunzianesimo: ne trasse l’impulso ad abbracciare una poesia che - immersa nel quotidiano, capace di esprimere i sentimenti della disillusione e dell’incomunicabilità - si concretizzò nelle collezioni liriche La via del rifugio (1907) e I colloqui (1911). Un impegnativo viaggio in India, cui si sottomise per motivi di salute, diventò occasione di fantasia attorno a letture di tema esotico, più che motivo di osservazione della realtà vissuta: dalle corrispondenze giornalistiche del viaggio nacque il volume postumo Verso la cuna del mondo (1917). Fu anche autore di novelle (L’altare del passato, 1918; L’ultima traccia, 1919), e fiabe per bambini (La principessa si sposa, 1917). Se però la vita di Gozzano fu breve, la sua vicenda editoriale dimostra come i pochi vissuti fu- 6 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 Da sinistra: la copertina della prima edizione, pubblicata da Streglio, de La via del rifugio (1906-1907): notare il disegno in cornice e la data «1906-1907». Frontespizio della prima edizione che indica come data, a differenza della copertina, il solo «1907» rono anni di intensa preparazione all’edizione di opere. In vita ne vide nascere tre: le due citate raccolte liriche (1907, 1911) e le fiabe I tre talismani (1914), scarno elenco cui va aggiunto un estratto della «Nuova Antologia». L’ansioso fermento di lavoro lo aveva però portato a predisporre in larga misura anche altri progetti in prosa, quelli sopra citati, che videro la luce tra 1917 e 1919, vale a dire i primi anni dopo la scomparsa, e tutti presso Treves. Consapevoli che l’oggetto-libro è il contenitore della scrittura, e che questa è destinata a farsi questione critica e filologica, osserviamo che ciò accade in massimo grado con Gozzano: problema critico di rilievo per la letteratura italiana, ma anche - se solo s’indugia sul numero di varianti di una singola poesia e sul suo transito da un volume all’altro - pungente problema filologico. Qui dunque mi soffermo solo sulla ‘fisicità’ delle edizioni che Gozzano riuscì a vedere in vita. L’idea del primo libro, La via del rifugio, sorse alla fine del 1906, quando il poeta pensò di raccogliere i versi che aveva pubblicato negli ultimi tempi su riviste e giornali, specialmente di Torino. Per vari mesi lavorò intensamente a una rigorosa selezione del proprio materiale; impegno che comportò la revoca di versi che ormai sentiva estranei e una meticolosa opera di correzione e rielaborazione. E mentre era immerso in questa giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 7 Da sinistra: il disegno che sovrasta la prima poesia della raccolta La via del rifugio; la quarta di copertina, con il simbolo dell’editore Streglio occupazione addizionava nuovi componimenti, fino all’aprile del 1907, quando il libro vide la luce grazie all’aiuto finanziario della madre Diodata Mautino: Guido poté pagare l’editore Renzo Streglio e vedersi pubblicato. La casa editrice vantava sedi a Genova, Torino e Milano; ma la stampa della Via del rifugio, come suona un colophon nel retro di frontespizio, fu realizzata a Venaria Reale presso la «Tipografia della Casa Editrice R. Streglio», dunque a Torino. Il libro ha dimensioni di cm 22,5 × 15,5; copertina in brossura a due colori con un bel disegno incorniciato di Filippo Omegna (cugino di Gozzano) che rappresenta la facciata scrostata di un vecchio edificio il cui portale è dominato da una pianta rampicante. Fuori cornice, in alto a destra, appare la scritta «1906-1907», indicativa degli anni in cui le poesie erano state composte o ‘manipolate’. La struttura del libro è semplice: 88 pagine, senza suddivisioni delle singole poesie, venticinque in tutto (trenta se consideriamo i sei Sonetti del ritorno, uniti sotto il medesimo titolo, come testo singolo). All’opera arrise un successo insperato, anche se la critica, con una serie di giudizi non positivi apparsi sui giornali, non era stata bonaria: sta di fatto che in pochi mesi la prima tiratura andò esaurita. La via del rifugio fu pertanto riproposta dall’editore nell’agosto 1907 e sarebbe stata sufficiente una semplice ristampa, se non fosse che i te- 8 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 A sinistra dall’alto: l’edizione Treves de La via del rifugio (1936); firma autografa di Guido Gozzano. Nella pagina accanto da sinistra: la prima edizione de I colloqui (Milano, Treves, 1911); frontespizio della prima edizione Treves: trattasi di copia del “secondo migliaio” sti erano gravati da troppi refusi. Si decise pertanto di ricomporre il libro, accogliere qualche variante e procedere a una nuova edizione che, pur essendo la seconda, comparve con la falsa dicitura «3a Edizione» voluta dallo stesso Gozzano. Edizione che vide la luce con «qualche errore antico di meno e qualche nuovo di più», come l’autore scrisse a Carlo Vallini il 27 agosto 1907 (lo si legge nelle Lettere a Carlo Vallini con altri inediti, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1971). La nuova edizione differisce dalla prima per alcuni caratteri di co- pertina che la rendono immediatamente riconoscibile: il disegno di Omegna è lo stesso ma non è incorniciato; inoltre la scritta in alto a destra è solo «1907». L’interpretazione di questa data singola sembra essere ovvia: la nuova edizione era il frutto di un lavoro di correzione e rifacimento che risaliva esclusivamente al 1907. L’editore milanese Treves propose a Gozzano una (vera) terza edizione da pubblicare nel 1908, comprensiva di versi inediti nel frattempo composti, ma il poeta aveva già cominciato da mesi a elaborare l’idea di una nuova raccolta poetica, per cui rinunciò, dedicandosi al suo progetto. Ampia l’analisi critica su questa prima collezione poetica: qui accenno soltanto al fatto che essendo Gozzano considerato autore di un solo libro, I colloqui del 1911, nei quali il testo de La via del rifugio - poesia che, sorta dalla rielaborazione di un canto popolare, apre la raccolta e assegna il titolo all’intera collezione - non è ripreso, questi versi con stimmate di cantilenante filastrocca sono finiti in una posizione critica marginale, anche se la loro esemplarità è oggi riconosciuta proprio nel ritmo e nella struttura circolare di apparente semplicità. Ma la poesia, ripudiando lo stile lirico costituito dalle situazioni preziose e artificiose, è anche considerata la prima, significativa sperimentazione letteraria di abbandono del modello dannunziano, anche se vi si avverte la lettura, almeno, di d’Annunzio. Inoltre, nella raccolta compaiono le prime versioni dei testi più noti di Gozzano (Le due strade, L’amica di nonna Speranza). La via del rifugio è oggi libro assai raro e molto ricercato; le copie transitate in antiquariato hanno avuto quotazioni dai 1500 ai 2000 euro. La secon- giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano da edizione (cosiddetta «terza») ha quotazioni che si attestano attorno ai 500 euro. Rintracciabile è invece la cosiddetta ‘edizione definitiva’ che Treves pubblicò nel 1936 come primo volume delle “Opere di Guido Gozzano” e col titolo La via del rifugio. Con un’aggiunta di poesie varie. Di dimensioni diverse rispetto all’originale, cm 21,5 × 16,5, il volume è una brossura a due colori che riporta simpaticamente il disegno di Omegna all’interno, di fianco al frontespizio. Diverso anche l’impianto contenutistico: alle composizioni della prima edizione ne sono aggiunte altre nuove. Una simpatica pausa editoriale agì da cerniera fra il primo e il secondo libro di Gozzano. Nel marzo del 1909 la rivista «Nuova Antologia» pubblicò la sua più famosa poesia - il lungo poemetto di 434 versi La signorina Felicita ovvero la felicità - e ne stampò un estratto brossurato di dodici facciate 9 delle dimensioni di cm 24,5 × 16,5: l’estratto andò subito esaurito ed è oggi molto raro. Il tragitto alla nuova raccolta poetica fu segnato per Gozzano da eventi drammatici. Già da tempo si erano manifestati i primi sintomi di tubercolosi, e la malattia ricomparve in tutta la sua gravità dopo l’edizione della Via del rifugio, costringendo Gozzano a raggiungere, su consiglio medico, la riviera ligure e ad affrontare poi una serie di viaggi in climi più caldi, nella speranza di ottenere un beneficio di salute. Lungo questi spostamenti, avendo anche abbandonato gli studi universitari, il poeta si dedicò a un intenso lavoro compositivo, guidato dall’urgenza di assemblare il proprio ‘libro della vita’. Lavorò tra l’estate del 1907 e l’autunno del 1910 - pubblicando nel frattempo alcune liriche su periodici - prima di consegnare il materiale, 24 composizioni in tutto, all’editore Treves, che pubblicò la raccolta nel febbraio 1911 col titolo I colloqui. Liriche di Guido 10 Guido Gozzano, in un celebre scatto d’epoca Gozzano. Come la precedente, la raccolta ebbe successo e valse a Gozzano parecchie richieste di collaborazione a importanti quotidiani e riviste, sulle cui pagine pubblicò lungo il 1911 varie poesie e prose. Si tratta di una brossura con illustrazione di copertina a due colori di Leonardo Bistolfi, immagine simbolista di due figure i cui volti si sfiorano per un bacio dall’intenso sapore di morte; la loro stessa posa rammenta una scultura funebre di cimitero monumentale. Il libro conta 160 pagine (più 4 di premessa editoriale) e ha dimensioni di cm 22,5 × 16,5. Il materiale poetico vi è disposto secondo una struttura ben più organica, e internamente coesa, di quella della raccolta precedente: secondo un preciso progetto i componimenti sono divisi nelle tre sezioni Il giovenile errore, Alle soglie, Il reduce. La storia compositiva dei Colloqui, per la quantità delle varianti e per l’assenza di sicure testimonianze manoscritte che aiutino a fissare le forme certe di ogni singola poesia, è parecchio la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 anomala. Ma ugualmente complessa è la storia editoriale, che dopo la prima comparsa del 1911 vide varie ristampe (nel 1922 l’opera aveva raggiunto il 19° migliaio, ma non tutte le copie portano l’indicazione del migliaio). Una nuova edizione Treves nel 1925, dal titolo I primi e gli ultimi colloqui, era indicata come ‘edizione definitiva’ e contaminava La via del rifugio con I colloqui. Giunse poi nel 1935, sempre presso Treves, l’edizione dal titolo I colloqui e altre poesie. Nessuna di queste edizioni può essere giudicata ‘definitiva’, ragione per cui si tratta - dalla prima del 1911 a quella del 1935 - di libri tutti differenti che, sul piano della bibliofilia, rappresentano pezzi unici e ugualmente interessanti per il collezionista. Non è facile rintracciare nell’antiquariato la prima edizione del 1911, dovendo fare attenzione al fatto se si tratti o meno di copia appartenente a un ‘migliaio’ delle ristampe seguenti il 1911. In ogni caso, le copie oggi rintracciabili si attestano tra i 250 e i 700 euro, in base anche alle condizioni di conservazione. Tra le tante collaborazioni giornalistiche, Gozzano lavorava anche col «Corriere dei Piccoli» e nel 1914 raccolse sei fiabe, là pubblicate tra 1910 e 1911, nel volume I tre talismani, edito a Ostiglia da “La Scolastica” Editrice di A. Mondadori & C. (edizioni successive riportano l’acquisizione del diritto da parte di Mondadori nel 1913). Legato in tela, il volume ha dimensioni di cm 20 × 16,5 ed è ornato da belle illustrazioni a tre colori e capilettera di Antonio Rubino. La dicitura ‘introvabile’ è ironicamente accolta nel mondo della bibliofilia, dove si afferma che se un qualche rarissimo pezzo appare sul mercato non può essere davvero definito ‘introvabile’. Nel caso dei Tre talismani l’attributo è consono: il volume non si trova, e se anche dovesse sbucarne uno dall’oscurità, il fortunato acquirente lo nasconderebbe subito, rendendolo nuovamente ‘introvabile’. E farebbe bene. Dor de cabeça? Болит голова? MAL DI TESTA? DOLOR DE CABEZA? ? Con il codice QR puoi leggere il foglio illustrativo nella tua lingua. www.moment.it È un medicinale a base di ibuprofene che può avere effetti indesiderati anche gravi. Leggere attentamente il foglio illustrativo. Autorizzazione del 28/01/2016. giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 13 SPECIALE GUIDO GOZZANO PROFUMI, ESSENZE E AROMI IN GOZZANO Poesia e ‘scenografie volatili’ EPIFANIO AJELLO Ah! Se voi foste qui, tra questi fiori, amica! O bella voce tra i profumi! Se recaste con voi tutti i volumi Di tutti i nostri dolci ingannatori! Guido Gozzano, La medicina C he Guido Gozzano abbia sempre «vestito di tempo» le cose che ha messo nei suoi versi, è discorso acclarato. A tal punto secondo Edoardo Sanguineti - di aver fabbricato «direttamente l’obsoleto, in perfetta coscienza e serietà».1 La modernissima bicicletta» di «Graziella», oppure il rombo delle auto di fronte alla villa di «Totò Merumeni» sono votate a invecchiare e quindi a essere ricordate, con ironia o nostalgia, a libera scelta, al pari delle «crinoline» o delle «vecchie stampe». Tutta la poesia gozzaniana è fatta di sdoppiamenti, urti, differenze, a partire dallo stesso poeta, a tu per tu con se stesso. Ogni cosa è desueta o si appresta subito a esserlo come i contemporaneissimi, per lui, «dentifrici», «fialette», «camicie», «radioscopie», «cioccolatte», «gonne» o «dolci pericolanti», in perfetta Nella pagina accanto: riproduzione del disegno di Luigi Bistolfi che adorna la copertina della prima edizione de I colloqui (Milano, Fratelli Treves, 1911). A destra: autografo de L’amica di Nonna Speranza (fogli conservati presso il Centro Studi Gozzano, Università di Torino) convivenza (e invecchiamento) coi bei «manicotti», le «stampe truci», il «Loreto impagliato» e tutti i «rottami» deposti nel solaio di Villa Amarena. In questi - come dire? - amalgami di tempo e oggetti, nelle poesie di Gozzano andrebbe, però, notata la presenza di altre entità poco compatte e del tutto volatili, quali sono i profumi, gli aromi, le essenze, artificiali o naturali, che si diffondono dalle cose. Odori ‘evaporabili’ e poco consistenti, ma assai utili al poeta, al pari delle «buone cose di pessimo gusto» o delle «novissime cose», per addobbare le scene, creare le opportune atmosfere, e in definitiva «vestire di tempo» gli ambienti. Certo, ermeneuticamente, gli effluvi non possono 14 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 Sopra da sinistra: copertina de I colloqui e altre poesie, Milano, Garzanti, 1944. Questo volume (II tomo della collana “Opere di Guido Gozzano” composta da: I: La via del rifugio, con un’aggiunta di poesie varie; II: I colloqui e altre poesie; III: L’altare del passato - L’ultima traccia; IV: Verso la cuna del mondo; V: La principessa si sposa - Le dolci rime; VI: L’epistolario) è il numero 747 di 1000 esemplari. Sul frontespizio è inoltre specificato «prima edizione romana» (Milano, Biblioteca di via Senato). Immagine a destra: frontespizio de I colloqui di Guido Gozzano (Milano, Treves, 1911, tiratura quinto migliaio). Nella pagina accanto: Guido Gozzano (al centro) con alcuni amici, alla Marinetta di Genova (1910 circa) essere usati come temi letterari (visto, per altro, che non sono nemmeno contemplati tra le voci del Dizionario dei temi letterari),2 ma possono assumere se non proprio la funzione di motivi letterari, certamente di indizi. Tracce, ahimè, assai impalpabili, la cui presenza si avverte in «vecchie stanze, aulenti di cotogne» (Sonetti del ritorno), oppure, in giardino, dove «un maggio antico odora e canta» ([Stecchetti]), o ancora, più in là, dove si respira l’esotico «aroma dell’Atlantico selvaggio» (Congedo), e dove «odora la divina foresta spessa e viva» (La più bella), op- pure, in perfetto compendio, dove «salgono col profumo del passato/ da un cofanetto pieno di ricordi?» (Le non godute) o, infine, impeccabilmente e gozzanianamente, nel debito urtarsi di aromi differenti come accade in Prologo: «odor sacro e profano d’incensi e di belletti». Appare evidente che il gioco essenziale sul quale Gozzano innesca il rapporto oggetto/odore è da impiegarsi - per dirla con Giovanni Getto nello «sgomento dello spazio e del tempo e da un’esigenza di rifugio contro il loro inquietante incombere», ma anche - aggiungiamo - per un di- giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano staccato assaporare l’istante, verificare un’esperienza e alfine scherzare «gelido» con le cose da tenere intatte e lontane dalle tarme dell’oblio, a costo di custodirle (e qui il tanfo è decisivo) «sepolte come vesti, / sepolte in un armadio canforato» (Torino). I profumi assumono un ruolo quasi magico, ma sempre giocato con distaccata ironia, capaci di ricapitolare (addensare) al presente il tempo trascorso, e il fascino dell’istante rivissuto attraverso l’olfatto fa tutt’uno con la nominazione delle cose. Di quanto non può più ritornare, a salvarlo è soltanto, per Gozzano, il rifugio in un «Odore d’ombra! Odore di passato!/ Odore d’abbandono desolato!», La signorina Felicita), o meglio la sua nominazione. Non siamo lontani da quanto, in pratica, Mario Praz notava per le suppellettili dannunziane, ovvero che «se nominare una cosa val quanto enunciarne l’essenza stessa, evocarla in forza di un potere quasi fiabesco […] quasiché il nome ne contenesse la quintessenza»,3 e da quanto, misurate opportunamente le distanze, magistralmente faceva in quegli anni Marcel Proust: «riconobbe, segreta, sussurrante e distaccata, la frase aerea e odorosa che egli amava. […] Alla fine essa si allontanò, indicatrice, diligente, tra le ramificazioni del suo profumo, lasciando sul volto di Swann il riflesso del suo sorriso» (La strada di Swann). Ma, beninteso, per Gozzano, gli aromi non rivelano nulla, non agiscono nessun effetto epifanico da potersi accostare alle madelaines o al selciato del palazzo dei Guermantes (sebbene cronologicamente lì vicini), ma svolgono soltanto e impeccabilmente un ruolo scenografico, servono ad accrescere il senso degli spazi, a celebrare i dettagli, ad aiutare, negli intérieures, le cose a essere metronome del tempo, e a rammentarlo quando ce n’è bisogno. Ora, per mettere ordine in una materia così volatile proveremo soltanto a catalogare gli odori a seconda dei luoghi dove si effondono, suddividendoli in due grandi classi: gli odori naturali e quelli artificiali, quelli che si danno nell’interno 15 delle camere, ovvero in forte relazione con le cose che ammobiliano i «salotti» (o le dispense), da quelli della campagna o dalla strada; accogliendo il rischio (che mette in pericolo la scientificità dei criteri della collezione) che gli odori, forse per la loro stessa volubilità, amano diffondersi da una poesia all’altra, come, ad esempio, accade nella prima parte dei Sonetti del ritorno, dove l’«odor triste di cotogna» assieme a quelli di «muffa, di campestre», presenti «nell’umile casa centenaria», se ne vanno a miscelarsi col «profumo di mentastro» nella quarta parte dei Sonetti del ritorno, quale «buon odor di cotogna», e poi, non contenti, nell’Ipotesi, con gli olezzi assai poco aulici e campestri di «cera di pavimento,/ di fumo di zigaro…». Oppure, può anche accadere che gli aromi si mettano in urto tra loro (cosa molto amata da Gozzano), come succede nella seconda parte dei Sonetti del ritorno, dove il poeta invita il glicine ad aver ragione dei barbari tanfi di «muffa e cotogna»: «Il profumo di glicine dissìpi/ l’odor di muffa e di cotogna», e ad addobbare il frontespizio della casa paterna e centenaria: «O casa fra l’agreste e il gentilizio,/ coronata di glicini leggiadre,/ o in mezzo ai campi dolce romitaggio!». Altri scontri tra odori e cose si sviluppano nella poesia Dante dove per lo scolaro Gozzano è l’effluvio di ginestre a vincere la partita col noioso «comento retorico e fittizio» del «buon maesto» che s’addormenta. 16 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 Villa Il Meleto, ad Agliè Canavese, residenza estiva di Guido Gozzano (foto d’epoca) Per il nostro breve tragitto, è il caso, ora, di partire esemplarmente da quella sorta di catalogo visivo e odoroso che è la «Villa amarena» della Signorina Felicita, posizionata centralmente e strategicamente nei Colloqui, dove è tutto un profluvio di odori che si differenziano a seconda dei piani del caseggiato, dal salotto dove imperversa l’«odor d’inchiostro putrefatto» nel suo rivaleggiare con «l’odor d’ipecacuana» della farmacia del villaggio, o in cucina dove si godono «quegli odori/ tanta tanto per me consolatori,/ di basilico d’aglio di cedrina»,4 mentre «il buon aroma [del caffè] si diffonde intorno», per passare poi nell’«orto dal profumo tetro di busso», e alfine giungere al solaio, deposito puntuale di cianfrusaglie, «di ciò ch’è stato e non sarà più mai» per cui si diffonde stantio «Odore d’ombra! Odore di passato!/ Odore d’abbandono desolato!», ma dove anche si favoleggia, in debito contrasto, di viaggi per «guarire d’altri viaggi», «oltre Marocco, ad isolette strane,/ ricche in essenze, in datteri, in banane,/ perdute nell’Atlantico selvaggio…» (olezzi tutti da rinviarsi agli «aromi della jungla in fiore» della poesia di Ketty).5 Anche i profumi della natura sembrano giocare il classico ruolo del «rifugio» dal tempo e dallo spazio e dal morire (geograficamente poi cercato nel calpestio concreto della terra indiana), ma anche assaporare fino in fondo un presente che non durerà per molto. Se, infatti, entriamo, ad esempio, nella poesia Le due strade, e usciamo subito sulla «bella strada» che «tra bande verdigialle d’innumeri ginestre/ scendeva nella valle», ecco apparire «rapidamente in vista» la «bimba Graziella», e venirci subito incontro, assieme all’«aroma/ degli abeti», l’aroma di «adolescenza» della «Signo- giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano rina», del quale dolorosamente Gozzano assapora l’effluvio, e non serve certo a lenire la sua disillusione amorosa il «buon odore dei boschi./ Di quali aromi opimo odore non si sa:/ di resina? di timo? O di serenità?...». E, da qui, è tutto un rincorrersi di profumi naturali: di «glicine»: «di ginestre» (Dante), o di esotici aromi quali quelli dove «odora la divina foresta spessa e viva» (La più bella), e dove si diffonde «l’odor/ di pace, filtro di non so che frutto» (Paolo e Virginia), in un maggio che «odora e canta» ([Stecchetti]). Questa meccanica, odori compresi, è pienamente messa in piedi dal poeta torinese on l’Ipotesi, al di là della invertita cronologia di scrittura del testo della Signorina Felicita, dove una doppia risma di odori si danno convegno. Nell’Ipotesi, in perfetta polarità di date, riappare il salotto buono e ottocentesco di nonna Speranza, ma rivisitato nel «millenovecentoquaranta» e riadattato a «sala da pranzo». Sarà proprio in virtù della miscela degli odori di «cotogna, cera da pavimento e fumo di zigaro» che ancora vi permangono, che si avvia un istantaneo miracolo della ricerca di un tempo perduto. Ma, se questo accade all’interno delle camere della «villa remota del Canavese», all’esterno, in giardino, si configura un ipotetico futuro che non si darà, immaginato nella convivialità tutta borghese di un Gozzano settantenne in compagnia dei «superstiti amici d’adesso», in un quadretto da declinarsi al condizionale come un sogno che resterà tale. Ma è proprio lì, nel giardino immaginario, NOTE 1 Edoardo Sanguineti, Introduzione a G. Gozzano, Poesie, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1973, p. VII. 2 Dizionario dei temi letterari, a cura di R. Ceserani, M. Domenichelli, Pino Fasano, Torino, Utet, 2007. 3 MarioPraz, La carne, la morte e il dia- 17 che l’«aroma» del trionfo dei «frutti» permette il ricordo dei «vent’anni felici», all’arrivo del «massaio con le vecchie fruttiere»: «E l’uve moscate più bionde dell’oro vecchio; le fresche/ susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,// l’enorme pere mostruose, le bionde amandorle, i fichi/ incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose// emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore/ ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici» (L’ipotesi). Ma i profumi, per terminare il nostro breve catalogo, assumono per Gozzano anche una forte carica sensuale, come gli accade per strada, attratto e seguendo «l’odorosa traccia/ della tua gonna» (Il gioco del silenzio), oppure quando è sedotto dalle «capigliature» femminili debitamente profumate, che si mescolano, odorose di eros, leggere e frivole, alle paste, ai «velluti» della Confetteria Baratti & Milano, a Piazza Castello, a Torino, dove le «golose» si pavoneggiano «fra quegli aromi acuti,/ strani, commisti troppo/ di cedro, di sciroppo,/ di creme, di velluti,// di essenze parigine,/ di mammole, di chiome:» (Le golose). «Essenze parigine» di nuovo riusate nei versi del Responso, nei «bei capelli densi come matasse attorte…», per creare tutt’altra «truce» atmosfera, dove, oggetti e aromi insieme soccorrono ma non leniscono l’amaro dei ricordi del poeta: «C’era un profumo mite che mi tornava bimbo:/ …un gracile corimbo di primule fiorite.// E c’era una blandizie mondana acuta fine:/ …di essenze parigine, di sigarette egizie… // C’era un profumo forte che inebriava i sensi:/ …i bei capelli densi come matasse attorte…». volo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 430-431. 4 E qui si aprirebbe anche per Gozzano un rivolo di rapporti, tutto da indagare, con la funzione dell’olfatto in d’Annunzio, nelle cui prose e poesie gli odori, almeno lemmaticamente, giuocano un ruolo non del tutto opposto a quelli gozzaniani. 5 Le comparazioni, mediate dalla «jungla» indiana, si potrebbero allargare anche ai testi di Gozzano raccolti in Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India, dove è tutto un profluvio, per citarne alcuni, di «profumi acuti» (La danza di una devadasis), o «acutissimi» (Il fiume dei roghi), tra «odori di fiori» e «odore d’incenso» (Goa: la dourada). giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 19 SPECIALE GUIDO GOZZANO MORTE E NOSTALGIA: LE MASCHERE DI GOZZANO Le piccole cose e l’eterna poesia DI MARCO CIMMINO V i sono mille modi di affrontare la vita e ve ne sono mille di affrontare la morte: a seconda dell’indole, della situazione, del rapporto che intercorre tra speranza e disperazione. Gozzano scelse di eludere entrambe: tanto la vita quanto la morte. La sua poesia fu eminentemente elusiva, nel senso più piano e più pieno del termine. Quando pubblicò i suoi Colloqui, nel 1911, Gozzano era già un giovane malato incurabile: la tubercolosi, che fu la cifra di tanti altri poeti della sua generazione, e in particolare di altri crepuscolari, come, ad esempio, Sergio Corazzini, non si limitò a imporgli una sorta di filosofico distacco dall’esistenza,1 ma gli permise di sviluppare quelle che furono, secondo chi scrive, le sue caratteristica distintive, ovvero l’autoironia, il gioco tra realtà e finzione e, in definitiva, il suo gradevolissimo mimetismo. E su questo verterà questo breve intervento: sulla complicata decifrabilità del gioco A destra: Guido Gozzano, insieme alla madre, Diodata Mautino, ritratti nel giardino di villa Il Meleto, ad Agliè Canavese. Nella pagina a sinistra: copertina di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913). Il volume, stampato a Milano, dai Fratelli Treves, nel 1917, uscì postumo (e con una prefazione a firma di Giuseppe Antonio Borgese) ma seguendo le indicazioni dell’autore (esemplare conservato presso la Biblioteca di via Senato, Milano) gozzaniano, tra sorriso e sospiro. Perché Gozzano è poeta che si smentisce sapientemente da solo: che dice e subito nega, oppure irride e poco dopo accarezza. E questo suo affermare e negare, scherzare seriamente, è la dimensione più evidente del suo essere crepuscolare: crepuscolarismo che si esercita non solo nei colori, nel minimalismo da tinello di un Moretti, nel tono sommesso di un Corazzini, ma, nel suo caso, soprattutto nelle sfumature tra vero e invenzione, tra gioco fanciullesco e studiata recita intellettuale. Si spiegano così le efficacissime ‘metonimie d’ambiente’2 che Gozzano crea con grande facilità: gli anemoni arcaici, la matita ridicola, ci restituiscono tutto un mondo e una sensiblerie che il poeta osserva tra il divertito e il commosso, come 20 un osservatore diviso tra partecipazione sentimentale e gelida e ironica curiosità. D’altra parte, Gozzano stesso sovente indossa una sorta di costume di scena: il cittadino, l’uomo vissuto, il cinico, che commenta con compassionevole ironia l’ingenuità delle fanciulle ottocentesche, Speranza e Carlotta, che parlano di Goethe,3 tanto uguali alla signorina Felicita che domanda delle foglie di ciliegio intorno al capo del Tasso4 da diventarne il modello. Eppure, in una sorta di funambolica capriola in clausola, Carlotta Capenna, nella mirabile conclusione de L’amica di nonna Speranza, è la sola che il poeta avrebbe potuto amare. Anzi, proprio per essere più chiari, amare la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 d’amore, con una felicissima anadiplosi conclusiva. E alla povera signorina di Villa Amarena, Gozzano arriva addirittura a fare una proposta di matrimonio, coi toni riservati e compiti di un bravo giovanotto di provincia: ma sa che la sta ingannando e che si sta ingannando (nella realtà, la donna di Gozzano è agli antipodi della signorina Felicita: Amalia Guglielminetti era una straordinaria creatura, poetica e passionale, dalla lucidissima intelligenza e dalla cultura aperta). Incombe su di lui, giocoliere dai polmoni corrosi, la partenza per l’India, alla ricerca di una guarigione improbabile, forse impossibile: e Gozzano gioca con la propria vita con il disincanto e insieme l’amarezza di chi sa di averne pochissi- giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 21 Nella pagina accanto, in alto da sinistra: Guido Gozzano, in una immagine del 1912 circa; Amalia Guglielminetti (1881-1941), in una celebre foto; in basso, Sergio Corazzini (1886-1907), in una foto di poco anteriore alla morte. Qui a destra: Marino Moretti (Cesenatico, 18851979) ripreso sul porto canale della nativa città romagnola ma. Vi è, in queste due poesie, distanti pochi anni da un punto di vista compositivo e ancora meno nelle atmosfere, una calcolata costruzione del personaggio Gozzano, basata su di un repertorio tra il dandy ed il dannunziano trasognato: le figure lente e tarde degli ‘adulti’ ad esempio, in contrasto con la rapidità d’intuito e di parola del poeta, che gioca abilmente con le sequenze dialogiche, per descrivere la comicità delle sue marionette. Lo zio «gesuitico e tardo», il padre di Felicita, il farmacista, il «molto regio notaio», sono personaggi da commedia dell’arte. Solo lui, Gozzano, sa: solo lui è il «vero figlio del tempo nostro»,5 l’avvocato che nemmeno si è mai laureato in legge. Eppure, egli si autodefinisce avvocato svariate volte: quasi a esorcizzare una borghesissima delusione universitaria. Tanti e tanti poeti di grido sono scivolati su questo mal dissimulato rammarico:6 Gozzano, grandissimo infingitore, lo risolve facendosi chiamare avvocato dai villici, che non distinguono uno studente da un laureato. La cosa, tuttavia, la dice lunga sul carattere del Nostro: su questo suo giocare sempre sul filo dell’equivoco. Alla fine, però, il gioco più rischioso è il suo equilibrismo di fronte alla morte: alla sua morte, non a un’astratta visione intellettuale. In alcuni suoi versi, il poeta sembra quasi avere metabolizzato l’idea della propria morte: singolare appare che chi abbia definito «tetro» un caminetto,7 poi dichiari la morte essere cosa non tetra, in una sorta di visione metemsicotica dell’esistenza: come nella celebre Alle soglie.8 È questo il gioco sottile della poesia di Guido Gozzano: un’alternanza graziosa di serio e faceto, mescolati al punto da divenire un qualcosa di indistinguibile. Il resto, le tracce di una società benestante, divisa tra Agliè e Belgirate, l’attività giornalistica, la scrittura, perfino la malattia e la sofferenza, sfumano in secondo piano: quel che conta è quel presente di apparente banalità quotidiana, quelle donne quasi brutte, poco intelligenti, incompiute, quelle suppellettili, quei vialetti di ghiaia, quelle balaustre, quelle serrande. Perché è questo il rifugio di Gozzano, quello cui alluse nella sua prima felice raccolta di poche poesie che, nel 1907, gli diede una prima notorietà letteraria: un rifugio sottotraccia, mimetizzato nella collina piemontese, tra persone qualunque, tra gesti usati. Non a caso, i comprimari della vita raccontata dal poeta sono sempre figure parzialmente mutile: vecchi parenti rimbambiti, famiglie ultraconvenzionali, animali. I suoi «dolci compagni» sono questi: ogni intrusione dal mondo frenetico della realtà appare in Gozzano come una sorta di profa- 22 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 A sinistra: Guido Gozzano insieme ad Amalia Guglielminetti, in una delle rare fotografie insieme nazione, cui si sottopone di cattiva volontà, come per la visita dei «villosi forestieri» che vengono a disturbare la tranquillità claustrale di Totò Merumeni, il punitore di se stesso. Se si vuole cogliere la specificità di Gozzano, in un contesto come quello del Crepuscolarismo, che rischia tanto spesso di divenire maniera o me- NOTE 1 I malati di tisi dovevano evitare tanto gli sforzi fisici quanto le forti emozioni: da ciò gliene derivava una specie di atarassia indotta. 2 Si tratta di metonimie che non si limitano a un trasferimento di significato, ma fungono da evocazione a interi ambiti culturali o a stati d’animo. 3 «Che versi divini!» - «Fu lui a donarmi quel libro, ricordi? che narra siccome, ra accademia, è in questa direzione che si deve guardare: non lasciarsi fuorviare dalla sua indubbia capacità tecnica, dalle sue rime interne, dai ritmi sapienti. E neppure seguirlo in queste microricostruzioni sociali, popolate di cocottes in villeggiatura e amanti del Re di Sardegna: se si insegue Gozzano nel suo presepe domestico si rischia di perdersi nella fuga dei corridoi e nel ciarpame dei solai, in quelle nobili ville secentesche un po’ in disarmo, circondate da giardini incolti dai profumi di cimitero. Gozzano va colto con una scherma di fioretto: bisogna inchiodarlo e costringerlo a gettare le molteplici maschere dietro cui si protegge. E, allora, si scoprirà una vena patetica e nostalgica, quasi arcade: un’intensa malinconia che, forse, nasce dal rimpianto per una vita che avrebbe potuto essere e che non sarà mai. Un Gozzano come un Leopardi nascosto dietro le ante del salotto buono, insomma. Per poi, inaspettatamente, essere folgorati dal miracolo di un sorriso, di uno squarcio d’azzurro, che sembra dirci che i poeti, a volte, muoiono in umidi letti d’ospedale, ma che la poesia non muore mai. Rimane sospesa nell’aria, come l’eco di un riso di bimbi. amando senza fortuna, un tale si uccida per una, per una che aveva il mio nome.» 4 «Avvocato, perché su quelle teste buffe si vede un ramo di ciliegie?» 5 In Totò Merumeni. 6 Montale e Quasimodo, per tutti. 7 In L’amica di nonna Speranza. 8 Mio cuore dubito forte - ma per te solo m’accora - che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte. (Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo le danno un nome, che, credo, esprima una cosa non tetra). È una Signora vestita di nulla e che non ha forma. Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma. Tu senti un benessere come un incubo senza dolori; ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome. Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano; né più ti ricordi i colloqui tenuti con guido gozzano. Media Italia S.p.a. Agenzia media a servizio completo Torino, Via Luisa del Carretto, 58 Tel. 011/8109311 [email protected] Milano, Via Washington, 17 Tel. 02/480821 Roma, Via Abruzzi 25, Tel. 06/58334027 Bologna, Via della Zecca, 1 Tel. 051/273080 giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 25 SPECIALE GUIDO GOZZANO XILOGRAFIE IN MOSTRA PER IL «BEL GUIDO» Figure, animali e fiori ad Agliè GIANFRANCO SCHIALVINO P erché una mostra ispirata a (da) Guido Gozzano? Perché continuare ad amare Gozzano un secolo dopo, in un nuovo millennio improntato alla immaterialità del vedere - dire ‘guardare’ sarebbe improprio - le immagini fluttuanti dentro uno schermo che ipnotizza, in un attimo, con il potere subliminale di miliardi di impulsi luminosi, altrettanti sguardi distratti e passeggeri, per carpirli, affascinandoli con l’adrenalina della sorpresa e la seduzione maliarda dello stupore? Penso a tante e disparate ragioni: la copertina dei Colloqui, illustrata da Bistolfi per Treves nel 1910, di vaghi sentori beardsleyani; la consuetudine, per me canavesano, della terra delle comuni radici, e per Gianni Ver- Sopra: Gianfranco Schialvino, Ritratto di Guido Gozzano, xilografia, 2016. Nella pagina accanto: Gianfranco Schialvino, Nel fare il giro a tondo / festeggiano le sorti. / (I bei capelli corti / come caschetto biondo), xilografia, 1989 XILOGRAFIA: OMAGGIO A GOZZANO Mostra a cura di Gianfranco Schialvino e Gianni Verna CASTELLO DUCALE DI AGLIÈ SALONE DI DIANA dall’8 luglio al 2 ottobre 2016 Castello Ducale, Piazza Castello 3, Agliè - Torino, tel. 0124/330335 www.lerosechenoncolsi.it APERTO TUTTI I GIORNI, CON VISITA LIBERA DALLE ORE 9.00 ALLE ORE 18.00 CHIUSO IL LUNEDÌ na, l’altro dell’«operoso cenacolo a due» (come ci definì, noi della “Nuova Xilografia”, Angelo Dragone, il nostro primo mentore), l’abitare a due passi dalla villa del Meleto; la lettura, da collegiale, nella «Ivrea turrita, dove scorre la cerulea Dora», della Cocotte, rinvenuta in un’antologia di versi proibiti; e ancora, negli anni d’università, l’averlo avuto per guida nella scoperta di una Torino rimasta straordinariamente fané: «un po’ vecchiotta, provinciale, fresca / tuttavia d’un tal garbo parigino». Ma col senno di poi per due versi colorati di assenzio che ne sintetizzano la figura e la poesia in un abusato cliché, leggerezza e melanconia, ma che esaltano la sua forza nella consapevolezza della fine incombente: «Senza querele, o Morte, discendo ai regni bui; /di ciò che tu mi desti o Vita, io ti ringrazio». È una mostra, quella allestita nel Castello Ducale di Agliè, il «dolce paese che non di- 26 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 A sinistra dall’alto: Gianni Verna, Danza di una Devadasis, xilografia, 2015; Gianni Verna, Alla sera mentre io contemplo il tramonto sui picchi nevati delle Levanne, xilografia, 2011. Nella pagina accanto, da sinistra: Gianfranco Schialvino, È questa l’ora antica torinese, / è questa l’ora vera di Torino, xilografia, 1988; Gianfranco Schialvino, Il profumo di glicine dissipi / l’odor di muffa e di cotogna, xilografia, 1985. In basso: Gianni Verna, Le agavi dall’immenso fiore centenario, xilografia, 2010 co», in cui predomina la tecnica xilografica, un linguaggio artistico che a cavallo fra l’Otto e il Novecento ebbe una vivace riscoperta e fortunati esiti, sia come incisione originale su matrice di legno sia soprattutto nello stile, che esalta le qualità espressive del chiaroscuro, preponderante in Inghilterra, con i disegni di Aubrey Beardsley cui fanno riferimento le contemporanee edizioni dannunziane milanesi (i debiti delle copertine di De Carolis per il Notturno del 1921 e bistolfiani di quella dei Colloqui appaiono in effetti lampanti). È dalla lettura dei testi letterari, da precisi versi, da puntuali parole, che prendono vita i grandi fogli che rivisitano in modo del tutto originale l’opera del «nostro bel Guido», come, confidenzialmente, lo chiamò Renato Serra. Lo ricorda Bruno Quaranta nel testo esplicativo che accompagna il catalogo: «È la natura il rifugio del bel Guido. Smemorando ogni indugio. Lui che è, sommamente, la ‘perplessità crepuscolare’ a cui si ribella la Signorina Felicita, una gemma dei Colloqui. La perplessità di fronte alla donna (la relazione-non relazione con Amalia Guglielminetti); di fronte al sapere (“Giova il sapere al corpo che ti langue? / Vale ben meglio un’oncia di buon sangue / che tutta la saggezza sonnolenta”); di fronte a sé stesso (“Ed io non voglio più essere io! / Non più l’esteta gelido, il sofista”); di fronte alla vita (“Non vissi. Muto sulle mute carte / ritrassi lui, meravigliando spesso. / Non vivo. Solo, gelido, in disparte, / sorrido e guardo vivere me stesso”); di fronte giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano all’universo mondo». Figure, animali, fiori, alberi montagne, paesaggi, riecheggiano via via il Meleto e il favoloso Oriente, i fiori in cornice e la strada boschiva, le «innumeri ginestre» e «il gran mazzo di rose», «la gran chioma disfatta nel tocco da fantino» e «le agavi dall’immenso fiore centenario», il profumo della glicinia, la danza di una Devadasis, il volo del Parnassus Apollo. Ma anche «l’ora antica torinese», «l’Alpi tra le nubi accese», la cocotte... «Una cocotte!... Che vuole dire, mammina?», Il «mite settembre canavesano», il colloquio con la luna «Alla sera mentre contemplo il tramonto sui picchi nevati delle Levanne. [...] Lassù nel candore perduto, abba- 27 gliante, inaccessibile agli uomini», i giochi infantili al Meleto «Nel fare il giro a tondo / festeggiano le sorti. / (I bei capelli corti / come caschetto biondo)». Insieme ai passi che definiscono il «guidogozzano» che tutti ha affascinato e ancora sa avvincere: familiare, intimo, seducente anche quando affranto cerca di prolungare «gli ultimi aneliti d’una lampada che si spegne» cantilenando: «ci sono pur sempre le rose, / ci sono pur sempre i gerani»; e nel salotto tocca i ninnoli baroccamente inutili, e dà vita perenne a «le buone cose di pessimo gusto». Tutte immagini che diventano più sue perché incise con parole sue. giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 29 SPECIALE GUIDO GOZZANO GUIDO GOZZANO IN VIA SENATO Fra prime edizioni e libri di pregio GIANLUCA MONTINARO L a Biblioteca di via Senato, nel proprio vasto Fondo di Letteratura italiana del Novecento, conserva quasi tutte le prime edizioni di Guido Gozzano, sia quelle che hanno visto la luce sotto il controllo diretto del poeta che le successive, uscite dopo la sua prematura morte. La via del rifugio, prima prova poetica di Gozzano, è presente con un esemplare del 1907 (ovvero prima edizione, tiratura secondo migliaio) impreziosito, al recto della prima carta bianca, dalla firma dell’autore, in inchiostro nero. La prima edizione della seconda raccolta, I colloqui (Milano, Fratelli Treves, 1911), è addirittura presente nelle collezioni della Biblioteca di via Senato in duplice copia (tiratura primo migliaio e terzo migliaio). Nella pagina accanto: copertina della prima edizione (tiratura secondo migliaio) del volume di novelle postumo L’ultima traccia, Milano, Fratelli Treves, 1919 (Milano, Biblioteca di via Senato). Sopra: una delle otto calcografie a colori di Ugo Nespolo (1941) che adornano il volume La via del rifugio. I colloqui, stampato a Torino, da Fògola Editore, nel dicembre 2005 (Milano, Biblioteca di via Senato) Notevoli per interesse sono anche le due edizioni, postume (ma concordate da Gozzano, prima della morte, con l’editore) di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913), con prefazione di Giuseppe Antonio Borgese (Milano, Fratelli Treves, 1917) e della raccolta di novelle L’ultima traccia (Milano, Fratelli Treves, 1919). Tralasciando di segnalare edizioni di minor valore e di più larga diffusione, è interessante puntare l’attenzione sulla folta presenza, presso la Biblioteca di via Senato, di titoli gozzaniani nelle collezioni di libri moderni di particolare pregio tipografico, numerati e impreziositi da illustrazioni d’artista. Fra essi è opportuno segnalare l’importante Liriche Scelte da «I colloqui», stampato nel giugno del 1954, a Verona (presso l’Officina Bodoni di Giovanni Mardersteig), per l’associazione I Cento Amici del Libro. Formato da 128 pagine, reca anche 17 litografie originali a colori, opera di Renato Cenni. L’edizione è limitata a 120 esemplari composti ad personam: quello conservato presso la Biblioteca di via Senato era di proprietà del conte Giovanni Treccani, fondatore dell’Istituto dell’Enciclopedia 30 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 Da sinistra: frontespizio della prima edizione (tiratura secondo migliaio) del volume di novelle postumo L’ultima traccia, Milano, Fratelli Treves, 1919 (Milano, Biblioteca di via Senato); frontespizio della prima edizione postuma (tiratura secondo migliaio) di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913), con prefazione di Giuseppe Antonio Borgese, Milano, Fratelli Treves, 1917 (Milano, Biblioteca di via Senato) Italiana. Notevoli (e sempre numerate) sono anche le tre copie de I colloqui (a cura di Franco Antonicelli) stampate, su carte preziose, ad Alpignano, da Alberto Tallone, nel 1970. Più recenti ancora, numerate e impreziosite dalla presenza di incisioni e acqueforti, sono i volumi La Notte Santa ed altri versi (Dogliani, Calcografia Al Pozzo, 2001) e La via del rifugio. I colloqui (Torino, Fogola, 2005). Interessanti, infine, sono i rari: Guido Gozzano - Amalia Guglielminetti, Lettere d’amore (Milano, Garzanti, 1951) e La moneta seminata e altri scritti con un saggio di varianti e una scelta di documenti (a cura di Vanni Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, 1968). Elenco delle prime edizioni e dei libri di pregio di Guido Gozzano conservati presso la Biblioteca di via Senato • Guido Gozzano, La via del rifugio, Genova - Torino - Milano, Casa Editrice Renzo Streglio. 1907. pp. 84 [4]. Prima edizione (tiratura: secondo migliaio). Firma autografa di Gozzano, in inchio- giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 31 Da sinistra: frontespizio del volume: Guido Gozzano - Amalia Guglielminetti, Lettere d’amore, prefazione e note di Spartaco Asciamprener, Milano, Garzanti, 1951 (Milano, Biblioteca di via Senato); frontespizio del volume La moneta seminata e altri scritti con un saggio di varianti e una scelta di documenti, a cura di Vanni Scheiwiller, introduzione e note di Franco Antonicelli, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 25 aprile 1968 (esemplare numero 1215 su 1500, conservato a Milano, presso la Biblioteca di via Senato stro nero, al recto della prima carta bianca. Brossura editoriale avorio, copertina illustrata e con titolo in rosso, titoli in nero al dorso, piccola marca tipografica al piatto posteriore. • Guido Gozzano, I colloqui, Milano, Fratelli Tre- ves, 1911. pp. 156; prima edizione (tiratura: primo migliaio). Brossura. • Guido Gozzano, I colloqui, Milano, Fratelli Treves, 1911. pp. 156; prima edizione (tiratura: terzo migliaio). Brossura. • Guido Gozzano, Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913), con prefazione di Giuseppe Antonio Borgese, Milano, Fratelli Treves, 1917. pp. [XV], 274; prima edizione, uscita postuma (tiratura: secondo migliaio, titolo presente presso la Biblioteca di via Senato in due copie ). Brossura. • Guido Gozzano, L’ultima traccia. Novelle, Milano, Fratelli Treves, 1919. pp. 277; prima edizione, uscita postuma (tiratura: secondo migliaio). Brossura. • Guido Gozzano, I colloqui e altre poesie, Milano, 32 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 33 A sinistra: copertina de I tre talismani. Il rarissimo volume, che contiene le sei fiabe pubblicate da Guido Gozzano sul «Corriere dei Piccoli» tra il 1910 e il 1911, venne stampato nel 1914, a Ostiglia, da “La Scolastica” Editrice di Arnoldo Mondadori (immagine tratta dal volume, conservato presso la Biblioteca di via Senato, La moneta seminata e altri scritti con un saggio di varianti e una scelta di documenti). A destra: Guido Gozzano in una fotografia di poco anteriore alla morte Garzanti, 1944. pp. [6], 182, [1]; 1000 copie numerate (l’esemplare in possesso della Biblioteca di via Senato reca il numero 747); prima edizione romana, come specificato nel frontespizio, tomo II, della collana “Opere di Guido Gozzano” composto da: I: La via del rifugio, con un’aggiunta di poesie varie; II: I colloqui e altre poesie; III: L’altare del passato - L’ultima traccia; IV: Verso la cuna del mondo; V: La principessa si sposa - Le dolci rime; VI: L’epistolario. Brossura. • Guido Gozzano - Amalia Guglielminetti, Lettere d’amore, prefazione e note di Spartaco Asciamprener, Milano, Garzanti, 1951. pp. 174. Brossura. • Guido Gozzano, Liriche Scelte da «I colloqui», Verona, Stampato per i Cento Amici del Libro, 1954 (giugno). pp. [II] 118 [8]. 17 litografie originali a colori, di cui: 1 vignetta al frontespizio, 11 testatine, 3 illustrazioni a piena pagina e 2 finalini, opera di Renato Cenni (1906-1977). Edizione limitata a 120 esemplari. «Questa scelta di Liriche di Guido Gozzano, tratta per gentile concessione di Renato Gozzano e dell’editore Garzanti dalla loro edizione originale, è il nono volume pubblicato dai Cento Amici del Libro. Le 17 litografie a colori sono state disegnate dal pittore Renato Cenni e tirate a Milano da Piero Fornasetti. La stampa del testo dei 120 esemplari è stata eseguita a Verona con torchio dell’Officina Bodoni di Giovanni Mardersteig su carta a tino di Fabriano. Tutti gli esemplari sono firmati dal Presidente della Società». Esemplare ad personam per il Conte Giovanni Treccani degli Alfieri, con suo ex li- bris araldico al verso della prima carta bianca. Firmato al colophon da Bino Sanminiatelli, l’allora presidente dei Cento Amici. Brossura editoriale beige, litografia in nero con titoli in viola al piatto anteriore, «Gozzano» in nero al dorso, barbe. • Guido Gozzano, La moneta seminata e altri scritti con un saggio di varianti e una scelta di documenti, a cura di Vanni Scheiwiller, introduzione e note di Franco Antonicelli, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 25 aprile 1968. pp. 211, [17]. Volume tirato in 1500 copie numerate (l’esemplare posseduto dalla Biblioteca di via Senato è il n. 1215). Numerose illustrazioni e riproduzioni fotografiche in bianco e nero nel testo. Brossura con sovraccoperta editoriale e velina protettiva. Volume n. 37 della collana “Acquario”. • Guido Gozzano, I colloqui, a cura di Franco Antonicelli, Alpignano, Alberto Tallone, 1970. pp. 34 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 Sopra: Guido Gozzano, in una foto del 1914. A sinistra: copertina de La principessa si sposa. Il volume, che contiene altre sei fiabe, successive a quelle pubblicate ne I tre talismani, venne stampato a Milano, postumo ma seguendo le indicazioni dell’autore, da Treves, nel 1917 (immagine tratta dal raro volume, conservato presso la Biblioteca di via Senato, La moneta seminata e altri scritti con un saggio di varianti e una scelta di documenti) XXIII, [1], 96, [8]. Antiporta con riproduzione del disegno di Luigi Bistolfi per la prima edizione del 1911. Edizione limitata a 470 esemplari; sono stati tirati inoltre 10 esemplari su carta Japan Hodomura e 20 su carta Japan Hosho numerati in cifre romane (la Biblioteca di via Senato conserva il numero n. 373 e i numeri VIII/XX e XX/XX della tiratura su carta Japan Hosho). Il volume è stampato su carta Miliani di Fabriano, è stata composto a mano con il carattere Tallone corpo 12. • Guido Gozzano, La Notte Santa ed altri versi, Dogliani Castello, Calcografia Al Pozzo, 2001 (dicembre). pp. 23, [7]. Con tre acqueforti in nero, a piena pagina (firmate a matita in calce, oltre che al colophon), di Teresita Terreno (1950). Edizione limitata, n. 14/110 (100 esemplari numerati e 10 prove di stampa). Brossura editoriale bianca con titolo e marca tipografica in nero al piatto anteriore e al dorso, barbe. In custodia cartonata écru. • Guido Gozzano, La via del rifugio. I colloqui, a cura di Giorgio Bàrberi Squarotti e Folco Portinari, Torino, Fògola Editore, 2005 (dicembre). pp. [4], 184, [12]. Otto calcografie a colori e 14 acqueforti, protette da veline, opera di Ugo Nespolo (1941). Volu- giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano me n. 35 de “La Grande Collana”. Edizione limitata a 251 esemplari numerati, su carta a mano con filigrana originale appositamente fabbricata per l’editore dalle Manifatture Magnani di Pescia. Dei 251, 140 sono numerati in cifre arabe e i primi 125 dedicati ad personam ai sottoscrittori; 26 sono esemplari contraddistinti alfabeticamente A-Z e riservati ai collaboratori e al deposito legale; 10 sono riservati all’artista; LXVV infine sono adornati dalle 14 acquaforti. La cura grafica è di Antonio Brandoni, la composizione e impaginazione con il carattere De Roos corpo 12 e 14 è opera di Michele Francia. Vo- 35 lume stampato in Dogliani Castello dalla Calcografia Al Pozzo di Antonio Liboà. Esemplare n. VI/LXXV. Include segnalibro Fògola in foglia di betulla, personalizzato per l’edizione, illustrato e firmato. Legatura editoriale in pieno marocchino rosso della legatoria Luciano Fagnola di Torino. Filetto dorato ai bordi dei piatti. Labbri e unghie decorati in oro. Dorso a 4 nervi con scomparti riquadrati da filetto dorato, titolo e marca tipografica in oro. Taglio superiore dorato, gli altri con barbe. In custodia cartonata rivestita in carta vergata color sabbia, unghie in marocchino rosso. Frontespizio della prima edizione (uscita postuma) di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913), con prefazione di Giuseppe Antonio Borgese, Milano, Fratelli Treves, 1917 (volume conservato a Milano, presso la Biblioteca di via Senato) giiugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 37 inSEDICESIMO L E M O S T R E – C O L L E Z I O N I E LA MOSTRA/1 L’ARCADIA DI VALTELLINA I territori di Enrico Della Torre a cura di luca pietro nicoletti n occasione di una mostra organizzata in Germania per i suoi ottant’anni, nel 2011, Enrico Della Torre aveva detto che con l’età matura si diventa più “geometrici”, ovvero che l’evoluzione di una pittura astratta non poteva che sfociare in un’esigenza di maggiore rigore attraverso le “certezze” della geometria. Si potrebbe quindi immaginare, con queste premesse, un’inappellabile scelta per la via delle rette ortogonali, per un favore verso la linea spezzata rispetto a quella curva. Da tempo, del resto, Della Torre ha recuperato alcuni esempi della sua produzione giovanile in cui era evidente una scelta di emotività trattenuta che, rivisti a distanza, potevano far pensare a un precursore delle istanze della pittura I analitica. Un riconoscimento alla validità della sua produzione matura è dato dal medaglione monografico a firma di Cristina Casero per il numero 11 (72) della rivista “Titolo” (inverno-primavera 2016) dedicato da Giorgio Bonomi e Francesco Tedeschi ad artisti “over ottannta” e volto a considerare, oltre a ricordare che «il contemporaneo vive di stratificazioni di diverse forme di “presente” e di “contemporaneità”», scrive Tedeschi, «come molti protagonisti dell’arte contemporanea vivano e affermino la peculiarità della loro opera in una fase avanzata della vita». La sua vocazione di pittore non è mai stata quella della speculazione C O L L E Z I O N I S T I autoreferenziale per il tramite della pittura, quanto piuttosto di poesia intimista, di impulso tanto lirico quanto controllato, fatto di piccoli dettagli e di tracce che si trasformano in motivi di linea e di colore. Per questa ragione, per quanto la geometria sia più presente rispetto al lavoro degli anni Settanta o degli anni Ottanta, si tratta comunque di uno spirito di libera ed intuitiva composizione. Si tratta, come ha detto bene Francesco Tedeschi, presentando la mostra di pastelli Territori interiori presso la Galleria Marini, di una geometria «sempre acutamente naturale, come la natura produce geometria». Le opere realizzate dopo il Duemila, infatti, sono soprattutto, degli «appunti visivi tradotti in immagini compiute, come cristalli riflettenti». Sempre di più il ritiro estivo a Teglio coincide con il momento aurorale della sua ricerca: nella pace della montagna e Sotto: Spazio dinamico, c 2011, olio e pastello su tela applicata su tavola, 16x45,4 cm 38 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 A sinistra, dall’alto: Arca, 2003, pastello e collage su carta-tela applicata su tavola, 29,5x40 cm; Alberi d'autunno, 2004, pastello magro su carta vellutata, 30x40 cm A destra: Una montagna come una barca, 2003, pastello e collage su carta-tela su tavola, 37x40 cm dei boschi trova infatti quel contatto con la natura fondamentale per lui. Ne aveva scritto l’artista stesso in occasione di una mostra antologica a Sondrio, riconoscendo che le tappe cruciali della sua vita avevano seguito il corso dell’Adda, a ritroso, dalla bassa cremonese natia fino alle sorgenti valtellinesi. Fin da epoche remote, com’è noto, il suo lavoro aveva tratto ispirazione dal mondo acquatico e fluviale, diventi progressivamente scenario di apparizioni oniriche. Era qui, infatti, che si poteva innestare il confronto con Paul Klee, che va tuttavia inteso, come osserva sempre Tedeschi, non come referente formale ma per una affinità di ragioni profonde di discorso: li accomuna infatti il rapporto con la memoria del mondo esterno. Non esiste, oltretutto, memoria senza oblio, ed è il rapporto fra questi a far sì che la natura torni a palesarsi soprattutto in frammenti. Della Torre, dunque, osserva silenzioso i motivi ornamentali suggeriti dalla natura, il ritmo dei tronchi degli alberi, e da qui parte per un viaggio immaginativo fatto di logiche combinatorie e momenti di abbandono consapevole al calibrato moto ondoso della mano. L’andamento è quello del paesaggio, da cui derivano i formati orizzontali allungati ancora frequenti in questa stagione matura. Anche gli strumenti sono gli stessi di sempre, dall’olio al pastello. Quest’ultimo, in particolare, ha uno statuto intermedio nella ricerca di Della Torre: fa leva sul repertorio di segni e di gesti proprio del disegno, ma a questo non è assimilabile per via di una più complessa trama di trattamento del campo, per la quale Cristina Casero ha giustamente parlato di disegno «praticato con esiti pittorici». Collocandosi quindi nella categoria dell’opera su carta come un vero e proprio dipinto, il pastello non ha una funzione di messa a punto di idee figurative come le carte con soli tracciati di china a inchiostro o a pennello, pur condividendo con questi la spontaneità di invenzione non progettata e non programmatica. Memore dei tempi dell’Informale, Della giiugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano Torre si accosta alla carta con un’idea di immagina, ma questa si mette a fuoco solo mano a mano che il lavoro procede, rivelando, a detta dell’artista stesso, esiti talvolta inaspettati. Si assiste anzi spesso a un contrasto tra forme fisse e tracce più libere e duttili, in cui si legge ancora il lento incedere del pastello che riempie la campitura, talvolta smagrito con una velatura di diluente, e quando invece nasce da un tratto più rapido e più sicuro quanto di esatta calibratura. Spesso Enrico Della Torre mischia i linguaggi: parti campite e colorate come un quadro ed aree lasciate a minimali tracciati di sola grafite, come a voler includere un colore forte, una notazione caratterizzante dentro un’idea compositiva. Lo aveva notato anche la Casero, annotando, riguardo all’eclettica convivenza di più registri linguistici, che «l’esuberante ricchezza dei modi dell’artista si dispone […] più sul piano sincronico che su quello diacronico» (Casero) L’intervento a pastello, in questo caso, si palesa dunque come un’apparizione, come un elemento sovrapposto proprio con la volontà di marcare una discontinuità. In questo, il lavoro di Della Torre è debitore della pratica del collage, che del resto utilizza piuttosto spesso con inserti di carte colorate dai bordi sfrangiati. Enrico non ritaglia le forme nel colore come Matisse, che pure ha ben presente, ma le strappa con le mani e mette in evidenza il profilo dello strappo. L’inserto di collage compare talvolta come un’interferenza, come l’intrusione di un elemento di rottura dentro una rappresentazione connotata, ENRICO DELLA TORRE. TERRITORI INTERIORI A cura di Francesco Tedeschi MILANO, GALLERIA MARINI http://www.galleriamarini.it 28 aprile – 2 luglio 2016 provocando un salutare spiazzamento che rende più mosso l’insieme. Non mancano però momenti di puro affidamento al segno e al colore, come in un pastello di Alberi d’autunno del 2004, in cui il titolo vale come orientamento più che come immediata relazione a un referente. Su un fondo di giallo inacidito e dilagante, una macchia di verde ondeggia trafitta da quattro segni rossi tracciati con rapidità come dei dardi o dei graffi. Qui sono ricombinati pensieri sugli anni Cinquanta, dalla macchia di colore, 39 tanto in voga anche prima dell’incontro con la pittura di Rothko al PAC di Milano, ai quattro segni come saette circonfuse da una costellazione di punti rossi, di chiara derivazione spazialista, ma tradotta in pittura con gli accordi cromatici del quadro naturalista. È il colore, anzi, il vero elemento di orientamento vero quella connotazione stagionale dell’immagine. Non sarebbe azzardato, anzi, riordinare questi pastelli secondo il ritmo delle stagioni anziché seguendo la pura cronologia. Del resto, il lavoro di Della Torre riporta a un tempo dell’uomo all’avvicendarsi del giorno e della notte, al risveglio primaverile della natura dopo i rigori invernali e prima della frescura delle estati montane, fino a un autunno di esplosione vitale. Un tempo ciclico, dunque, in cui la lentezza ha un valore: quello dei lunghi silenzi arcadici. [lpn] 40 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 LA MOSTRA/2 VERSO SAO PAULO Italiani in Brasile al Mudec di Milano ra le rotte internazionali degli scambi artistici e culturali del secondo dopoguerra, l’asse che univa l’Italia al Brasile è stato a lungo poco considerato: eppure il trasferimento per periodi più o meno lungo di intellettuali e artisti italiani a San Paolo del Brasile o più in generale in quel grande stato sudamericano non è stato privo di conseguenze sia per la situazione culturale locale, sia per l’arricchimento di esperienze e di prospettive riportate in patria. Ne traccia un breve e suggestivo resoconto la mostra Italiani sull’Oceano curata presso il Mudec di Milano da Paolo Rusconi, coadiuvato da un gruppo di curatori che da tempo e da prospettive differenti hanno condotto indagini su singole figure coinvolte in questa dinamica. Si intrecciano così con il Nuovo Mondo, dunque, le storie di Pietro Maria Bardi (1900-1999), di Roberto Sambonet (1924-1995), di Margherita Sarfatti (1880-1961) e di Gastone Novelli (1925-1968). È proprio Bardi, al centro da lungo tempo delle ricerche di Rusconi, il perno di questa vicenda: attorno a lui, infatti, si era andata formando una colonia creativa di artisti e architetti, attratti dall’attività del MASP (Museo d’Arte di San Paolo) a cui questi aveva dato vita dopo il trasferimento definitivo in Brasile nel 1946, insieme alla moglie, l’architetto Lina Bo Bardi (1914-1992), a suo F tempo allieva di Gio Ponti a Milano e autrice dell’edificio del MASP. Già figura centrale nel sistema delle arti in Italia nel corso degli anni Trenta, dove svolge sia il ruolo di gallerista che quello di critico d’arte, oltre che direttore per un certo periodo della Galleria di Roma, Bardi era giunto per la prima volta in Brasile nel novembre del 1931, e di lui si era subito accreditata l’immagine di un promotore e divulgatore del verbo dell’architettura moderna. Soltanto in seguito egli si sarebbe poi affermato come il creatore del più grande museo d’arte del Sud America (il MASP appunto) che nel profondo ambiva anche a costituirsi come centro di formazione sulla scia del Bauhaus. L’approdo in Brasile, dunque, gli aveva offerto una grande occasione di crescita professionale e l’arrivo a una posizione di rilievo anche per gli scambi con l’Italia e per una diffusione di quanto di meglio potesse offrire l’arte italiana moderna (e non solo). ITALIANI SULL’OCEANO. STORIE DI ARTISTI NEL BRASILE MODERNO E INDIGENO ALLA METÀ DEL ‘900 A cura di Paolo Rusconi con Elisa Camesasca, Ana Gonçalves Magalhães, Viviana Pozzoli, Marco Rinaldi MILANO, MUDEC 25 marzo - 21 luglio 2016 In alto: Roberto Sambonet, Visite o Museu de Arte de São Paulo, 1951, poster, Milano, Archivio Roberto Sambonet A destra: Lina Bo Bardi, Largo Getulio Vargas, Rio de Janeiro, 20 ottobre 1946, 1946, acquerello e grafite su carta, São Paulo, Instituto Lina Bo e P.M. Bardi Diversa, invece, la vicenda di Margherita Sarfatti, che tolte due visite in Sud America, nel 1938 è costretta a rifugiarsi qui in esilio per sfuggire alle leggi razziali, riparando prima a Buenos Aires, poi a Montevideo, dove resta fino al 1947, infine in Brasile. Sono anni in cui presta attenzione alla realtà locale e scrive molto di pittura moderna sudamericana, ma al tempo stesso non dimentica l’arte italiana per cui tanto si era spesa fino a quel momento, che costituisce il suo principale contributo alla costituzione della collezione Matarazzo, nucleo principale del Museu de Arte Moderna (oggi MAC USP) di San Paolo. Per vie diverse, dunque, sia Bardi sia la Sarfatti sono il motore di un movimento di opere che sorvolano l’Oceano per giiugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano entrare nelle collezioni sudamericane, che in questo frangente si dotano di alcuni capolavori di prima grandezza dell’arte italiana. Ma oltre alle opere si muovono anche gli artisti e gli architetti. Nel 1948, per esempio, giunge in Brasile Sambonet, al seguito della moglie, Luisa Bernacchi, chiamata a insegnare disegno presso il MASP. L’esperienza, di non lunga durata, lo colpisce profondamente. La rigogliosa vegetazione tropicale, in particolare, gli lascia una impressione duratura, che nell’immediato ha ripercussioni nei disegni di motivi per tessuti e di modelli per la moda, oltre ad accessori e calzature, che realizza direttamente in Brasile: sono segni semplici, di natura grafica e non esenti, se si vuole, da certe tentazioni “primitive”, o almeno di ricerca di un “primordio” attraverso una purificazione e astrazione formale che approda, in questo caso, alle forme di design. Ma anche una volta tornato in Italia, Sambonet non dimentica la foresta amazzonica, che anzi ricompare dirompente nei disegni di piante e vegetali pubblicati nel volume 22 cause +1 pubblicato a Milano nel 1953 in collaborazione con Emilio Villa e Max Huber. Disegni che puntano verso l’astrazione, ma che sono ancora capaci, con le loro forme di sintesi, di restituire il senso della calura umida della vegetazione tropicale, intrisa di luce e trasformata in pura segno. Riserva non poche sorprese, in ultimo, riscontrare gli effetti immediati sulla pittura di Gastone Novelli dei prolungati soggiorni in Brasile compiuti fra 1948 e 1954. Oltre a collaborare con il MASP, infatti, egli compie numerosi viaggi all’interno del paese, passando le regioni del Rio Xingu, la Serra do Roncador e il Rio das Mortes, entrando in contatto con le tribù indigene come documenta un ricco album di appunti e fotografie riportato in Italia. Ma quel soggiorno riserva poi delle sorprese soprattutto sul piano della pittura, mostrando un vero e proprio “Novelli prima di Novelli”, cioè prima della sua produzione più nota. Novelli infatti non è estraneo ai suggerimenti offerti dagli artisti brasiliani, di cui dà conto 41 un nucleo di ritratti eseguiti fra 1948 e 1950, che lo inducono poi a una fase post-cubista nel 1951 fino a un affiancamento, a partire dal 1953, del concretismo brasiliano: il fulcro è il rapporto fra geometria e quarta dimensione, e sulla possibilità di restituzione del volume della figura anche attraverso il semplice utilizzo di campiture piatte e spigolose. Era alle porte, però, una svolta in direzione di Paul Klee che porterà una maggiore fluidità di forme e di andamenti, ma con una concretezza di forme e una sensibilità cromatica che ha i toni e le cromie, se si vuole, di terre calde viste dall’altra parte del mondo. [lpn] 42 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 LA MOSTRA/3 MARIO NEGRI E LA SCULTURA Una mostra per il centenario ono stato scultore per poter vivere la mia vita, ogni giorno, con una certa tensione e con molta libertà», scriveva di sé Mario Negri (1916-1987), specificando le ragioni iniziali della sua vocazione fondamentale per la scultura. Di lui si potrebbe dire che è stato scultore che molto ha visto, sotto le cui mani, oltre alla matita e l’argilla, sono passati molti libri. Del resto, che Negri fosse una mente critica acuta, attento osservatore di quanto accadeva nel mondo delle arti figurative del suo tempo, è testimoniato dalla sua collaborazione in qualità proprio di critico, fra 1950 e 1951, con la rivista «S “Domus”, e ne dà conto un piccolo ma preziosissimo libro delle edizioni Scheiwiller che raduna in un racconto compatto la sua visione della scultura e delle arti del Novecento e, soprattutto, il profilo dei suoi protagonisti principali. Tutto questo avveniva con maggiore intensità prima che Negri tenesse la sua prima importante mostra personale, alla Galleria del Milione di Milano, per quanto questa non segni una fine netta della sua attività di scrittore di cose d’arte. In ogni caso, il suo lavoro plastico rimane un esemplare crocevia di culture figurative, come un sismografo che ha registrato e criticamente riletto i sommovimenti che nel corso del Novecento hanno segnato la storia della scultura. Non è senza significato, in tal senso, che nel suo lavoro si rintraccino le prime avvisaglie della ricezione italiana della scultura di Henry Moore, mentre era quasi naturale, per lui nato a Tirano, tessere un dialogo ravvicinato con la scarnificazione filiforme della figura umana operata da Alberto Giacometti. Nel rapporto dialettico con entrambi, tuttavia, Negri inseriva un proprio dato di lettura che declinava in senso narrativo quelle istanze, facendone a sua volta un punto di partenza per la ricerca di artisti più giovani: non credo sia azzardato, infatti, affermare che il suo lavoro sia stato il tramite per introdurre scultori più giovani alla lettura di quei modelli internazionali, come se la lingua plastica di Mario Negri l’avesse resa più accostante, più accessibile perché declinata secondo una sensibilità tipicamente lombarda. Del resto, come fa notare Martina Corgnati nell’introduzione al catalogo della piccola e preziosa mostra dello Studio d’Arte del Lauro, il suo lavoro è giiugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano caratterizzato dalla coesistenza di «polarità dialettiche» che fanno di lui uno sperimentatore per temi e variazioni. Da questo, viene fatto notare, si dipana un percorso che «si nutre più del processo che del capolavoro, più della ricerca che della conquista, più della domanda che della risposta», che comporta una «indifferenza per l’opera singolare ed irripetibile a favore di quella febbrile metamorfosi della forma, le cui varianti si delineano nel tempo come provvisorie testimoni di un percorso ininterrotto e infinito». Non resta a questo punto che tentare una pur sommaria divisione delle serie, una classificazione dei filoni di sviluppo o, meglio, delle tipologie plastiche e operative di Negri. Ci si accorge subito, a questo punto, che il nodo cruciale è nel modo di intendere la figura e il suo rapporto con l’ambiente e con la struttura plastica della scultura stessa. Da una parte, per esempio, ci si accorge che il confronto con Moore si consuma in una serie di figure reclinate o di torsi seduti che costruiscono lo spazio attorno a loro grazie all’articolazione anatomica della figura stessa. Ne deriva una sintesi eminentemente grafica, in cui i volumi hanno profili marcati non dissimili da quelli che si ritrovano nei disegni degli stessi anni. Ma in questa sintesi, allo stesso tempo, quando non si gioca con la poetica del frammento, del torso acefalo e privo di arti come in una nuova teoria di rovine del mondo antico, la figura si anima come sottoposta a un processo metamorfico di cui non si può prevedere la conclusione. Oppure, altre volte Negri, memore di Giacometti, stabilisce un rapporto più MARIO NEGRI A cura di Cristina Sissa; testo di Martina Corgnati MILANO, STUDIO D’ARTE DEL LAURO 12 maggio – 30 giugno 2016 complesso tra figura e basamento, facendo di quest’ultimo, più che un sostegno, una pedana percorribile, uno spazio circoscritto e praticabile su cui la figura, ridotta a un segno stilizzato come corpo che accenna un movimento, potrebbe idealmente camminare. È in questa chiave che la lezione di Giacometti diventa più narrativa: quella che nello scultore svizzero era una 43 forma di desertificazione dell’identità individuale, oggetto di una ostensione impietosa della miseria esistenziale, in Negri diventa una forma di racconto mediata dalla concezione ambientale di Medardo Rosso, ma semplificata e illustrata. In ultimo, poi, ci sono quei progetti per ambienti che recuperano le modalità di presentazione tipiche dei plastici di architettura: anziché visualizzare però progetti realizzabili, gli spazi definiti da Negri sono luoghi visionari e d’invenzione di una geografia geologica e visionaria. Sono luoghi possibili, di esatta progettazione che compete con la geometria naturale, ma in attesa di nuovi possibili abitanti. [lpn] Nella pagina accanto, in alto: Mario Negri, Gli sposi,i 1975. In basso: Mario Negri, Seconda ipotesi per la genesi,i 1976. In questa pagina, in basso: Mario Negri, disegno. 44 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 LA MOSTRA/4 IL RINASCIMENTO DI PIERO Indagine su un mito di gianluca montinaro ella splendida cornice dei Musei San Domenico di Forlì si sta tenendo, fino al 26 giugno, l’importante mostra Piero della Francesca. Indagine su un mito. Impresa difficile quella proposta nella cittadina romagnola perché il riunire un nucleo adeguato di opere di Piero della Francesca (1417-1492), artista tanto sommo quanto ‘raro’, è stato già di per sé un’operazione complessa. Riuscire poi a proporre un confronto con i più grandi maestri del Rinascimento, da Domenico Veneziano, Beato Angelico, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi, Fra Carnevale a Francesco Laurana tra gli altri, è stato uno studio difficile. Così come lo è stato anche documentare l’influsso del genio di N Sansepolcro sulla generazioni di artisti a lui successiva: Marco Zoppo, Francesco del Cossa, Luca Signorelli, Melozzo da Forlì, Antoniazzo Romano e Giovanni Bellini. Ma questa mostra si è spinta oltre, indagando il mito di Piero della Francesca nell’Ottocento: nei Macchiaioli, in Borrani, in Lega, in Signorini. Ma anche in molti altri artisti europei: da Johann Anton Ramboux a Charles Loyeux, fino alla fondamentale riscoperta inglese del primo Novecento, legata in particolare a Roger Fry, Duncan Grant e al Gruppo di Bloomsbury. In Italia, invece, la fortuna novecentesca dell’artista è affidata a Guidi, Carrà, Donghi, De Chirico, Casorati, Morandi, Funi, Campigli, Ferrazzi. Come nota Antonio Paolucci Sotto da sinistra: Piero della Francesca, San Girolamo e un devoto, 1440-1450 ca., Gallerie dell’Accademia, Venezia; Santa Apollonia, 1454-69, National Gallery of Art, Washington. Sopra: Beato Angelico, Imposizione del nome al Battista, Museo di San Marco, Firenze (uno dei curatori della mostra) nel catalogo ufficiale (edito da Silvana editoriale): «a un certo momento, nella storiografia critica del Novecento, Piero della Francesca è sembrato la dimostrazione perfetta, antica e perciò profetica, di una idea che ha dominato a lungo il nostro tempo; di come cioè la pittura, prima di essere discorso, sia armonia di colori e di superfici». Insomma una mostra che, tra critica e arte, tra ricerca storiografica e produzione artistica, nell’arco di più di cinque secoli, tenta per la prima volta un’indagine serrata su colui che Luca Pacioli aveva definito «il monarca della pittura». In fondo l’eterna immobilità dei solidi umani di Piero della Francesca, i volti dei suoi personaggi appena sfiorati da un’ombra di passione - continuano ad apparire, ancora oggi, rivelazioni di figure eterne, immerse in una pace sovrannaturale. PIERO DELLA FRANCESCA INDAGINE SU UN MITO A cura di: Antonio Paolucci, Daniele Benati, Frank Dabell, Fernando Mazzocca, Paola Refice FORLÌ, MUSEI SAN DOMENICO PIAZZA GUIDO DA MONTEFELTRO 13 febbraio - 26 giugno 46 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 COLLEZIONI E COLLEZIONISTI I ‘LIBRI D’ARTISTA’ DI CORRADO MINGARDI di corrado mingardi olleziono da trent’anni quelli che s’usano chiamare libri d’artista, ma l’amore per i bei libri, belli per contenuto e per veste editoriale, posso dire risalga alla fanciullezza, quando i regali più graditi erano proprio i libri. E uomo di libri, lettore onnivoro, lo sono rimasto per la vita. Così da far mia l’epigrafe di Paul Eluard «O livre, raison ardente!» che è un ispirato ossimoro (razionalità e ardore passionale) per definire il rapporto con il libro, in specie il libro d’artista. Colleziono libri d’artista anche se non so più bene che cosa sia in senso stretto un libro d’artista, soprattutto dopo che la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta dello scorso secolo, gli anni della seconda avanguardia, Pop Art, Arte Povera, Arte Concettuale, C Fluxus, ha capovolto la natura aristocratica, preziosa, esclusiva dei libri che impegnano progetto e mano diretta degli artisti. Sono apparse infatti in quel giro d’anni opere appartenenti a queste correnti, opere che, pur conservando la forma di libro, si presentano con modestia tipografica, per via di una stampa tecnicamente standardizzata, con una tiratura non limitata, oppure al contrario limitata a un solo esemplare, per sconfinare talora nel libro-oggetto non replicabile: sono solo queste opere che da allora (quasi per usurpazione di termine) si chiamano libri d’artista. E chi li apprezza li carica di una valenza per così dire concettuale, fitta di intenzioni e significati plurimi. Devo ringraziare il maestro che recentemente me ne ha fatto divenire attento, Giorgio Maffei, rigoroso documentatore e studioso, ma anche charmeur,r vero incantatore nell’avviare i bibliofili a tale conversione. Conversione che resta per me sospesa tra dubbi e resistenze. Io sto infatti per lo più ancorato alla definizione tradizionale, che nel tempo è stata data, del libro d’artista, anche se comincia ad andarmi stretta, dopo che gli orizzonti sono tanto mutati. È possibile una conciliazione fra queste due concezioni del libro d’artista? Forse sì, se, fatto salvo che il libro d’artista non è ovviamente un libro d’Arte, né un libro sull’arte, ma è un’opera d’arte. E l’arte, si sa, non si imprigiona in una teoria, in una definizione. Per me un libro d’artista resta quello che in Francia fu chiamato all’origine un livre de peintre, termine che si attaglia a un’edizione a tiratura limitata, particolare per il pregio del supporto cartaceo e per il rigore tipografico, la quale edizione associ con convenienza testi in prosa o poesia a immagini realizzate con grafica originale da pittori o scultori, spesso non professionalmente specialisti nelle tecniche incisorie e di riproduzione, e quindi già per ciò sperimentatori, innovatori, artisti che abbiano vissuto le esperienze del loro tempo con forte originalità, per lo più appartenenti alle avanguardie storiche. Che il testo sia d’un autore contemporaneo, o un classico del passato non conta. Quel che importa è che esso sia per l’artista fonte di ispirazione o motivo di confronto, di scambio, di dialogo, e che un editore lungimirante ne abbia favorito l’incontro e abbia resa concreta l’opera attraverso uno stampatore di vaglia. Ma non è detto che un libro d’artista tali caratteristiche le possegga tutte contemporaneamente. L’esito, in ogni modo, vorrebbe essere unitario, conseguente; ma il dialogo è troppo spesso più ideale che reale, perché è un mito di lunga data quello dell’unità delle arti, il mito che deriva dal motto di Orazio ut pictura poesis e quindi giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano viceversa. Lo ha rivisitato spesso, e misticamente, Kandinskij, alla ricerca di corrispondenze emotive e formali tra arte, letteratura e musica. Per me invece, ed è così anche nella vita, unico incontro concesso è sfiorarsi da paralleli sentieri. Ma la tangenza, quasi per miracolo, può talora divenire detonante. In ogni modo, ogni libro d’artista si configura come esperimento per così dire sinfonico. Walter Valentini, il pittore, ma anche architetto, con il rigore rinascimentale della sua Urbino negli occhi, che a molti libri d’artista ha collaborato, una volta parlò dell’orchestra del libro d’artista. E la metafora musicale - se si vuole potrebbe essere anche cinematografica - bene calza a un’opera che, tra l’altro, abbisogna per essere goduta del tempo sequenziale di chi la sfoglia, e meglio se in chiusa stanza, more domestico. Testo e immagine a confronto, non come si verifica di solito nel libro illustrato tradizionale, dove le figure dovrebbero porsi soprattutto al servizio della narrazione oppure della parola poetica, rendendole visive o decorarle. Matisse scriveva: «Il libro non deve aver bisogno d’essere completato da un’illustrazione imitativa. Il pittore e lo scrittore devono agire insieme, senza confusione, ma in parallelo. Il disegno deve essere un equivalente plastico del poema. Non direi: primo e secondo violino, ma un insieme concertante». Nel libro d’artista tuttavia è sempre per me l’immagine che si impone sovrana e comunica in realtà solo se stessa. Senza che io trascuri il doppio vantaggio nel libro d’artista di avere insieme alle immagini d’arte, dei testi in poesia o prosa in edizione originale. È successo con molti celebri scrittori della letteratura francese moderna e contemporanea, da Stéphane Mallarmé a André Gide, Guillaume Apollinaire, Alfred Jarry, Tristan Tzara, Max Jacob, Paul Éluard, Nella pagina accanto, in alto: una delle storiche sale della Biblioteca di Busseto; a sinistra: Ardengo Soffici, Chimismi lirici, Firenze, 1915. Sotto: Pablo Picasso per Les Chant des Morts 47 André Bréton, Blaise Cendrars, Pierre Reverdy, René Char, Francis Ponge, Yves Bonnefoy, André Du Boucher e altri, orgogliosi di farsi visivamente interpretare, o solo di lasciarsi appaiare con gli amici artisti, simbolisti, cubisti, surrealisti e così via. In Italia, nella serie dei “Cento amici del libro”, i testi sono tutti pubblicati in prima edizione: si vedano i versi estremi di Mario Luzi accostati alle cosmiche geometrie di Walter Valentini (2005), o quelli di Andrea Zanzotto alle acquetinte luminosissime di Joe Tilson (2011). Poi, se il testo è parto dell’artista stesso, e pare allora che il dialogo sia solo un soliloquio, pur celebrandovi l’immagine ancora il suo quasi esclusivo trionfo, il libro raggiunge il massimo di unità di concepimento e di realizzazione. Si veda Klänge, poesie e xilografie di Wassily Kandinskij (1913), tra i più riusciti. Ma paradigmatico al sommo è Jazz di Matisse, in cui il pittore, rifiutando del tutto la stampa tipografica, manoscrive lui stesso e poi riproduce una serie di personali pensieri allo scopo di intervallare le grandi tavole accese di colore. E così faranno, subito dopo, Fernand Léger nel suo Cirque (1950), Le Corbusier nel Poème de l’angle droit (1955) e più volte Jean Dubuffet. Come inizia la mia lunga passione per il libro d’artista La collezione è iniziata con una passione bibliofila certo più tradizionale. È iniziata con Giambattista Bodoni, il sommo disegnatore e incisore di caratteri, il tipografo-editore, che da Parma nell’Europa dei Lumi e di Napoleone diffuse opere, soprattutto i 48 El Lisitskij-Vladimir Maiakovsky, Per la voce, 1 grandi classici, elegantissime per nitore di stampa. Bodoni, colui che nella maturità, col rifiuto programmatico delle figure e della decorazione, diede alla pagina tipografica una mirabile, forse mai superata, valenza estetica autonoma. È lui che affermava: «Quanto più un libro è classico, tanto più sta bene che la bellezza dei caratteri vi si mostri sola». Da Bodoni breve fu il passo a raccogliere volumi dei celebri stampatori del passato, da Jenson a Manuzio fino a Marcolini, Étienne, Baskerville, Ibarra, i Didot, e del nostro tempo Giovanni Mardesteig e Alberto la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 Tallone. Tra i disegnatori di caratteri vanto una lunga ammirazione e amicizia per Hermann Zapf, il più famoso di tutti, come ricordo sempre con nostalgia gli incontri affettuosi con Aldo Novarese, il più prolifico degli italiani. Tra gli editori: Franco Maria Ricci, personale, fantasioso eppure coerente, è da lunga data un amico caro, lui che, adottando i caratteri di Bodoni, ne ha rinnovato la fama, accostandovi in più un apparato illustrativo senza pari. La mia veramente notevole collezione bodoniana è confluita nella sua, che sta, via via per magnifici acquisti successivi, divenendo, se non ne è già divenuta, la più importante e vasta in mani private. La cessione a lui dei miei Bodoni, e ad altri degli incunaboli e delle importanti edizioni dei secoli successivi, mi ha permesso così la ricerca e l’acquisto dei libri d’artista. Fu una radicale inversione di marcia alla caccia di nuova bellezza, fu una svolta improvvisa e sfolgorante. Vidi presso il libraio Carlo Alberto Chiesa L’oleandro di d’Annunzio stampato da Mardesteig (1936) coi caratteri corsivi di Bodoni e le sensuali litografie in sanguigna di Günter Boehmer, miracolo di tipografia e di illustrazione, che subito mi portò a comprare da Pregliasco Parallèlement di Verlaine e Bonnard (Parigi 1900) con cui Ambroise Vollard aveva inaugurato la straordinaria serie delle sue edizioni: volume che non può avere confronto per libertà grafica e superiore voluttà delle rosee litografie, ma inferiore per perfezione tipografica, pur essendo molto belli gli storici caratteri usati, quelli di Garamond. Ho accennato alle mie cessioni, che tuttavia non furono complete, perché non ebbi l’animo di separarmi fra gli altri dell’Hypnerotomachia Poliphili di Aldo Manuzio (1499) e del Liber Cronicarum (Norimberga 1493), l’incunabolo più illustrato che esista, cui forse pose mano anche il giovane Albrecht Dürer. Come trattenni tanti libri di civiltà parmigiana, con le stampe e i disegni originali preparatori dell’architetto Ennemond Alexandre Petitot. Cessione per la quale molti mi rimproverarono fu quella del De divina proportione di Luca Paciolo (Venezia 1509), fatta al momento di acquistare Jazz di Matisse. Io non ne sono per nulla pentito, dato che Jazz rappresenta il vertice per bellezza, rarità, e valore di mercato, dei libri d’artista, e limone pesca deteinato limone sseguici eguici su www.estathe.it www.esstathe.it deteinato pesca 50 Henry Matisse, Jazz, z Parigi, Tériade, 1947 per me segnale quasi di compimento della collezione. Compimento che per il collezionista non può mai essere tale, poiché nell’inconscio di costui c’è come una sfida col tempo, con l’eternità. Libro d’artista, fragilità ed esclusività C’è una fragilità materiale che dipende dal prezioso supporto, carte al tino di storica fattura o carte del Giappone o di Cina più pregiate ancora. Ma c’è anche al contrario la vile ordinaria consistenza delle carte usate dagli artisti delle recenti avanguardie, come d’altronde povere erano, poco meno di un secolo fa, le carte dei futuristi e dei dadaisti. E c’è poi una debolezza insita nei colori originali che il tempo e la luce insidiano rendendoli spenti. Il libro d’artista subisce inoltre l’attentato non raro della scomposizione, dello scioglimento al fine di recuperare le tavole a farne oggetto improprio di arredo. C’è poi la sua rarefazione imputabile al ristretto numero delle copie tirate, e la sua la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 esclusività dovuta alla gelosia, o ritrosia del possessore a mostrare il libro, per cui il contenuto figurativo, e non solo, resta come celato all’interno. Ma nella civiltà delle immagini, dove la riproducibilità attraverso i media è infinita, nulla per ipotesi può sfuggire alla conoscenza generale. Col rischio che la troppa esposizione mediatica provochi, per così dire, un’usura dell’immagine d’arte, la sua banalizzazione. E l’offesa per essere stata tolta dal contesto per il quale è stata realizzata. Rischio di tutta l’arte. Con la riproducibilità estesa vien infatti meno quella che suole dirsi ‘aura’, cioè l’emanazione sacrale che dal Romanticismo in poi si attribuisce alle opere d’arte. Ma i media possono fare anche altro, cioè imporre massicciamente un’immagine e crearne un’icona, un riconoscibile, talora venerato simbolo nell’immaginario collettivo. È stato fatto, ad esempio, per l’Icaro notturno di Jazz campeggiante su un intenso cielo blu forato di stelle. Quanto alla rarefazione, al nascondimento, alla esclusività dei libri d’artista, le mostre ad essi dedicate possono in parte ovviarvi. Ma in che modo? E a quali rischi? Ne ho visitate diverse, ma tutte offrivano l’esposizione di una copia, al più due, del libro aperto, negandone così la fruizione completa. Io negli scorsi anni ho potuto tentare un’operazione differente, non ottimale, ma migliore sì. Mi guidava lo spirito di condivisione della bellezza, e una certa qual vanità, perché, come diceva Sacha Guitry, quando si è collezionista o si è ‘armadio’ o si è ‘vetrina’, cioè o esclusivamente custodi timorosi o aperti alla partecipazione estetica dei propri beni. In due amplissime mostre, la prima in Palazzo Magnani a Reggio Emilia nel 2005, la seconda a Parma in Palazzo Bossi-Bocchi sede della Fondazione Cariparma nel 2008, entrambe curate con la competenza ed esperienza che sono sue da Sandro Parmiggiani e fornite di poderosi cataloghi Skira, i libri che io avevo collezionato furono momentaneamente sciolti, affinché le tavole potessero essere quasi al completo squadernate sulle pareti e il resto del volume restasse aperto al frontespizio nella bacheca sottostante. Lo potei fare perché parecchi miei libri erano stati acquistati non rilegati ma a fogli sciolti, così come gli editori li avevano licenziati. La legatura d’arte d’altronde è nei libri frutto di un intervento estraneo successivo che può snaturare il progetto originario. Anche se riconosco come capolavori le legature parigine di Paul Bonnet, Jacques e Pierre Legrain, Henri Creuzevault, Pierre-Lucien Martin. Alle pareti riuscii allora ad appendere centinaia e centinaia di figure, mai se n’erano viste tante. Ma là spariva la contestualizzazione con i testi dei giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano classici o dei moderni e lo scardinamento delle sequenze feriva la specificità del libro. Il risultato fu quello di due mostre di grafica bellissime, il cui rimando al libro era però labile, affidato alla fantasia, all’esperienza, alla cultura del visitatore. Le esposizioni, tuttavia, furono un successo perché a buon conto rivelarono un universo d’arte ai più totalmente nascosto. A Jazz ogni volta era stata riservata un’intera sala al cui ingresso ognuno non poteva non essere sorpreso dai colori abbaglianti colori timbrici, per usare un’espressione di Gillo Dorfles - e dalle forme arditamente semplificate, allusive al mondo del circo, ai racconti popolari, alla notte dei miti, alle alghe fluttuanti nei fondali oceanici della Polinesia che Matisse aveva memorizzato nel suo viaggio anteguerra e trasfigurato in ritmi e forme sincopati come nella musica jazz. Una volta l’artista chiamò tali immagini ‘cristallizzazioni di ricordi’ e nella definizione c’è l’aggancio alla realtà della memoria e la stilizzazione dei cristalli. E ricordi sono per lo più i testi di Matisse, in trascrizione autografa che scandiscono Jazz tra tavola e tavola. Sono, inoltre, considerazioni che rivelano una saggezza d’uomo e d’artista maturata nell’esperienza morale e professionale. Nel pensiero messo a modo di conclusione si trova espressa modestamente la natura pratica di tali testi, funzionali all’architettura dell’intero libro: «Ho fatto queste pagine scritte per smorzare le reazioni simultanee delle mie improvvisazioni cromatiche e ritmate, pagine che formano come uno “sfondo sonoro” che le sorregge, le circonda e ne protegge così la particolarità». Ma nella nota in premessa, aveva riconosciuto come al pittore si addice più l’operare che il parlare: «Chi vuol darsi alla pittura deve cominciare col farsi tagliare la lingua». E mi viene in mente l’affermazione del Caravaggio che cito a braccio: «I pittori han da parlare con le mani». Questi testi, al di là del valore letterario, si pongono sempre tuttavia come utile chiarificazione pratica e spesso poetica del suo agire d’artista. Si veda la bella metafora del suo lavoro coi papiers coupés: 51 «Disegnare con le forbici», con quel che segue: «Ritagliare nel vivo del colore mi ricorda lo sbozzare diretto degli scultori. Questo libro è stato concepito nello stesso spirito». Ma si lascino da parte i pensieri che in Jazz non la fanno certo da protagonisti. Protagonista è il colore, come sempre in Matisse. L’impatto, lo choc direi, che si rinnova ogni volta nell’osservatore, è esaltazione, stupore gioioso, frutto di una purezza di tinte, di una audacia di accostamenti, che non mi rimanda a contenuti, a significati che pure ci sono: la loro lettura è per me solo visiva, formale, e ciò ne condiziona l’assolutezza. Il dramma della vecchiaia, della malattia che è del Matisse degli anni di guerra, vi appare completamente esorcizzato. Bene aveva visto Apollinaire, da poeta e da critico, scrivendo nel catalogo della mostra “Matisse-Picasso” alla galleria Guillaume di Parigi nel lontanissimo 1918: «Se si dovesse paragonare l’opera di Henri Matisse a qualche cosa, bisognerebbe scegliere l’arancia: come questa l’opera di Matisse è un frutto di luminosità esplosiva». I LIBRI D’ARTISTA DI CORRADO MINGARDI IN DONO ALLA BIBLIOTECA DI BUSSETO opo anni di attente ricerche e acquisti sul mercato, Corrado Mingardi ha donato alla Fondazione Cariparma la sua collezione di libri d’artista. Il prezioso corpus di livres de peintre (ben 139 opere) è così diventato patrimonio della Fondazione Cariparma presso la Biblioteca di Busseto (storica istituzione prossima ai 250 anni di attività). Vastissimo l’e- D lenco degli artisti che compongono questa straordinaria collezione, dai grandi libri dell’Ottocento con Delacroix, Manet e Toulouse-Lautrec sino all’appassionato impegno dei grandi dell’Avanguardia nell’illustrazione del libro, a iniziare dal celebre Parallélement di Verlaine illustrato da Bonnard che inaugurò le edizioni di Ambroise Vollard, proseguendo con il Sa- tie e l’Apollinaire di Braque e l’immancabile Jazz di Matisse, per non dimenticare molti Picasso, Léger, Giacometti, Moore, Le Corbusier sino a Andy Warhol e gli italiani De Pisis, Sironi, Campigli, Carrà, Manzù, Valentini e quasi l’intera produzione di Carlo Mattioli. I libri saranno consultabili già dalle prossime settimane, non appena terminata la catalogazione. giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 53 La riflessione Le scelte dell’Occidente e lo scontro fra Sunniti e Sciiti Visioni e differenze interne all’Islam CLAUDIO BONVECCHIO L a parola ‘Islam’, oggi, provoca una sorta di fremito interiore, in cui l’indignazione si mescola alla paura. Si tratta, senza dubbio, di una incontrollata reazione emotiva, suscitata dai tragici eventi in cui ‘terrorismo’ si è sovrapposto a ‘Islam’. E, come è noto, difficile è controllare l’emotività: soprattutto quando assume i connotati di un fenomeno di massa. Tuttavia, è doveroso formulare qualche riflessione per comprendere meglio quello che si sta verificando. In primo luogo, è erroneo pensare che il mondo islamico voglia iniziare una guerra con l’Occidente. Piuttosto, il mondo islamico sta sperimentando una guerra, durissima, al suo interno. È la recrudescenza del conflitto, secolare, tra Sciiti e Sanniti, i cui soggetti sono, a loro volta, gli Stati che si riconoscono nelle due parti in lotta. L’Occidente, l’Europa, sono solo lo schermo su cui si proietta e si amplifica questa contesa: non è il reale teatro dello scontro. Non comprenderlo è un grande (e pericoloso) errore strategico e di valutazione. Infatti, la posta in gioco di questa belligeranza è altissimo: si tratta della leadership sul mondo arabo e non solo, visto che le fonti energetiche dell’Occidente, in gran parte, dipendono proprio da questo area. Conviene, dunque, non fare di ogni erbe un fascio, ma cercare, piuttosto, gli alleati giusti: ossia quelli che possono essere più vicini a quel modello di modernità cui si ispira la nostra cultura e il nostro sistema politico. In secondo luogo, bisogna aver ben chiara la distinzione tra Sciiti e Sunniti, evitando sofisticati distinguo teologici e semplificando al massimo. I Sunniti vivono una spiritualità a sfondo politico, priva di una classe di religiosi gerarchizzati e culturalmente preparati, in grado di poter interpretare il Corano. Significa che, chiunque possegga un suo personale carisma può arrogare a sé la prerogativa di essere un ‘califfo’: ossia una guida politica e spirituale, ma non religiosa. Come è accaduto con il capo dell’ISIS: il “califfo” AlBagdadi. Al contrario, gli Sciiti – considerati dai Sunniti (e particolarmente dai Wahhabiti dell’Arabia Saudita) pericolosi eretici – sono profondamente religiosi, credono nella presenza storica dei 12 Grandi Imam portatori di trascendenza e di grande saggezza e attendono la venuta salvifica dell’ultimo: il dodicesimo Imam. Questo ha fatto si che costruissero una gerarchia religiosa, spirituale e culturalizzata – di cui gli Ayatollah (religiosi esperti nella teologia, giurisprudenza e misticismo islamico) sono l’espressione – in grado di interpretare, in senso religioso ed esoterico, il Corano. Come si verifica con i Grandi Ayatollah dell’Iraq, del Libano e, soprattutto, dell’Iran. Sono dunque gli Sciiti gli unici a poter interpretare il Testo Sacro e le Leggi che ne discendono, adeguandolo, senza stravolgerlo, alle esigenze che la modernità può richiedere: anche al mondo islamico. La scelta strategica dell’Occidente non può che andare in questa direzione. Non si può e non si deve non tenerne conto. giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 55 Bibliofilia Oltre la strage. Un foglio volante milanese del ’500 Una vicenda della produzione tipografica ‘minore’ GIANCARLO PETRELLA A lla strage silenziosa, e fino a pochi anni fa sostanzialmente ignorata, che il tempo e gli uomini hanno compiuto della produzione ‘minore’ dell’editoria rinascimentale è fortunosamente scampato un pronostico astrologico stampato a Milano negli anni Sessanta del Cinquecento. È probabile che qualche colto lettore abbia già riconosciuto l’esplicita citazione di un robusto studio che qualche anno fa Ugo Rozzo dedicò al più effimero dei prodotti tipografici d’Ancien Régime, il cosiddetto ‘foglio volante’: La strage ignorata. I fogli volanti a stampa nell’Italia dei secoli XV e XVI, Udine, Forum, 2008. In effetti anche il pronostico milanese, accidentalmente riemerso qualche mese fa Nella pagina accanto: Il Tacvuino del Reverendo Padre Fra Bartolomeo Da Seravezza per l’anno 1563, Milano, Giovanni Battista Da Ponte, [1562]. Sopra: Bartolomeo da Seravezza, Pronostico nouo sopra l’anno bisestile 1576, edizione sine notis sul mercato antiquario torinese per eclissarsi, di lì a poco, tra gli anfratti del più raffinato collezionismo privato,1 appartiene alla categoria, assai eterogenea per contenuto e tipologia testuale, dei ‘fogli volanti’. Di cosa si tratta? L’appellativo ‘volante’ adottato nel contesto italiano gode di indubbio fascino, ma è palesemente ambiguo. La bibliografia tedesca è ricorsa a una definizione che non lascia invece adito a dubbi: Einblattdrucke, vale a dire stampa su un solo foglio. Perché di questo si tratta: testi di varia natura impressi su un unico foglio, affissi o circolanti di mano in mano e pertanto destinati a rapido consumo e distruzione. La reale entità di questa produzione appare difficilmente valutabile. Solo per il secolo XV la più autorevole fonte bibliografica sulla tipografia nel Quattrocento (ISTC) ne censisce poco meno di 2.500, ma il numero è in difetto rispetto a quelli realmente stampati. Quanto all’Italia - secondo i dati forniti da Ugo Rozzo - sono censiti un centinaio di ‘fogli volanti’, più del 60% dei quali prodotti in tre sole città (nell’ordine Venezia, Roma, Milano). Il più antico di cui siamo a conoscenza risale al 1473: l’Epistola ad Clementem VI papam uscita dall’officina romana di Ulrich Han. Datano a non molti anni più tardi un manipolo di lettere di indulgenza riguardanti la lotta contro i Turchi. La bolla Pastoris aeterni emessa da papa Sisto IV in data I 56 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 Sopra da sinistra: Avviso ai librai impresso a Roma nel 1574 dagli eredi del Blado contenente su due colonne 42 proibizioni di autori o interi generi proibiti; foglio volante [Venezia, c. 1526] che racconta di una nascita mostruosa avvenuta il 18 dicembre 1525 probabilmente messo in circolazione con significato antiluterano settembre 1480 per la crociata antiturca sembra fosse un autentico successo editoriale: sotto l’intestazione di Sisto IV fu impressa dapprima per i tipi dell’officina romana di Eucario Silber, poi due volte a Firenze da Nicolò Tedesco sullo scorcio dell’anno o a inizio 1481; quindi, sempre nel 1481, fu la volta della tipografia veneziana di Johann Herbort e di quella ferrarese di Andrea Belfortis. Il documento fu infine riproposto da alcuni commissari che si occupavano della raccolta delle indulgenze. Rudolfus Graf von Werdenberg ne promosse la stampa soprattutto in Germania, dove si contano almeno 25 edizioni; Francesco da Milano e Cristoforo, rettore della chiesa di S. Giovanni di Gerusalemme a Parma, furono invece responsabili di due nuove edizioni italiane, rispettivamente Bologna, per i tipi di Johann Schriber e Parma, tipografo non identificato. Oltremodo variegata è la tipologia di que- sto materiale: calendari, lunari, cronache, alfabeti per iniziare a leggere, componimenti poetici, avvisi. Fino ad arrivare alla categoria dei fogli di natura devozionale o religiosa, spesso rappresentati da una semplice silografia accompagnata o meno da una breve porzione di testo, cui appartengono, alla stregua di veri e propri talismani da piegare e portare con sé, alcuni foglietti recanti preghiere di valore quasi magico circa la possibilità di scampare giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano pericoli, malattie o persino la morte. È il caso dell’Oratio ad sanctam crucem di Giovanni Mercurio da Correggio stampata a Roma da Eucario Silber nel 1499 indirizzata contro «omnem mortis diabolique furorem». Ne sopravvive un solo esemplare presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco. Si presenta come una stampa bicolore, nella quale l’inchiostrazione in rosso dei caratteri al centro della pagina produce l’effetto di una croce. Incise su una matrice lignea o di metallo e impresse su un supporto non esclusivamente cartaceo, erano poi destinate a circolare fra i vari strati sociali, appese a un muro, incollate ai piatti di un volume, ritagliate e inserite all’interno di un codice, piegate e portate con sé con funzione protettiva, fino a diventare, in taluni casi, autentici oggetti di culto. Alludo a uno dei più antichi e noti esempi del genere, una silografia datata c. 1428 raffigurante la Madonna col Bambino (soggetto fra i più diffusi), circondata dalle scene dell’Annunciazione, della Crocifissione e da gruppi di santi. La silografia è meglio nota come Madonna del Fuoco, poiché pare essere miracolosamente sopravvissuta all’incendio scoppiato nel febbraio 1428 nella scuola dove era conservata appesa al muro. Da lì fu poi trasportata, come oggetto di culto, in una cappella del Duomo di Forlì, dove tuttora si conserva. Sul versante profano alla ti- pologia dei ‘fogli volanti’ appartengono i più antichi documenti che testimoniano del processo di autopromozione messo in atto dall’attività tipografica. I primi tipografi attivi in Italia, i tedeschi Sweynheym e Pannartz, nel 1472 fecero circolare autonomamente come foglio sciolto una lista delle 28 edizioni fino ad allora impresse, con relativa tiratura. La varietà dei testi trasmessi da questa tipologia editoriale è assai variegata: eventi storici, episodi di cronaca, fatti straordinari, come il foglio non datato, ma attribuibile a circa 1525-26, che trasmette notizia di una nascita mostruosa, letta in chiave antiluterana. Il foglio, composto di testo e immagine, associa la nascita del ‘mostro di Castelbaldo’ avvenuta il 18 dicembre 1525 (probabilmente un parto siamese) con la contemporanea comparsa di uno pseudoprofeta, alias Lutero, in terra di Alemagna. Il partito avverso rispondeva facendo circolare in Italia testi altrettanto infamanti di propaganda protestante. Un genere particolare è infine quello dei fogli di tipo censorio, ossia le censure e proibizioni in materia libraria diffuse tramite bandi e manifesti che rappresentano interventi giuridici pienamente operativi atti a integrare o modificare le proibizioni sancite dagli indici ufficiali. Presso l’Estense di Modena si conserva un singolo foglio impresso a Roma dagli eredi del Blado in data 22 maggio 57 1574 che si rivela a tutti gli effetti un indice ufficiale romano. Sotto il titolo Aviso alli librari che non faccino venire l’infrascritti libri et ritrovandosene havere che non li vendino senza licenza il foglio si rivolge ai librai cui impedisce la vendita e il commercio di una nutrita serie di autori e testi, fino a giungere alla generica condanna senza appello di canzoni e commedie «dishoneste e lascive». Quanto alla vendita di tale materiale, il canale privilegiato non era tanto quello tradizionale della libreria, quanto piuttosto quello assai meno controllabile dei venditori ambulanti, capaci di offrire a gran voce immaginette a stampa e fogli volanti di interesse cronachistico, politico, bellico, astronomico, devozionale. Con buona pace di chi, come fra Girolamo Malipiero, inveiva contro «zarlatani, mercatantuzzi di filastrocche e di mille superstizioni i quali per cupidigia volendo spacciare al volgar popolo tai mercatanzie fanno a modo delli uccellatori». Riprendiamoci dalla digressione e torniamo al ‘foglio volante’ astrologico milanese da poco riscoperto. L’esemplare, ça va sans dire, è unico e l’edizione finora sconosciuta, anche a Ugo Rozzo e alla bibliografia specifica. Il testo è disposto su quattro colonne, chiaro indice della necessità di contrarre i costi di stampa e stipare il contenuto su un solo foglio di stampa. L’intestazione, impressa in caratteri romani maiuscoli, 58 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 A sinistra: Madonna del Fuoco, silografia, c. 1428. A destra, dall’alto: Bartolomeo da Seravezza, Breve discorso sopra la cometa apparsa alli VIIII di Novembre M.D.LXXVII detta la Scapigliata, stampata in Genova e ristampata in Vercelli, Guglielmo Molino, 28 gennaio 1578; Crocifissione, silografia di origine tedesca, c. 1450 non lascia adito a dubbi sul contenuto (che bene si prestava a essere reclamizzato a gran voce da uno di quegli ‘uccellatori’ cui si è fatto cenno) e la paternità intellettuale: «IL TACVUINO DEL REVERENDO PADRE FRA BAR. DA SARAV.». Segue, in corsivo minuscolo, dedica «Al Magnifico M. Antonio Maria Grimaldo Bracello da Genova, dell’anno, 1563». Si è pertanto alle prese con un precoce almanacco per l’anno 1563 compilato dal reverendo fra Bartolomeo Seravezza dell’Ordine dei Serviti, professore di matematica presso lo Studium di Pavia dal 1570 al 1579 e autore di alcuni pronostici, sebbene della sua produzione astrologica siamo solo in parte al corrente.2 Il ‘foglio volante’ consente addirittura di anticiparne di parecchio l’attività ufficiale di alma- nacchista e pronosticante, finora nota solo a partire dal 1571 tramite un Pronostico et lunario per quell’anno impresso a Bologna per Alessandro Benacci di cui si conserva un esemplare presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna.3 Al Seravezza rimandano almeno altri tre prodotti analoghi: rispettivamente Il pronostico sopra l’Eclisse del 1574 e di altri aspetti di pianeti del 1575, Pavia, Girolamo Bartoli, 1575 (un esemplare presso la Cambridge University Library);4 un più articolato pronostico sine notis tràdito da un’unica copia nota presso la Marciana di Venezia dal titolo assai prolisso Pronostico nouo sopra l’anno bisestile 1576 nel quale si denotano le grande e marauigliose cose, segni, et prodigij c’hanno da venire, scorrendo fino li anni 1580. Con vna nuoua aggionta latina, detto Effectus futurorum, di grandissima consideratione, trouato in carta bergamina, et fu scritta li anni del Signore DCCXI del mese di gennaro. Doue si essorta tutti li principi christiani alla vnione, et con diuersi altri notabili moti;5 infine Il lunario del 1578 con giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano nuovo pronostico del presente anno, Bologna, Benacci, 1578, noto in via indiretta da fonti bibliografiche. Il Seravezza prese poi parte, come parecchi altri, al dibattito sulla cometa apparsa nel novembre del 1577, firmando un opuscoletto di quattro carte che godette di discreta fortuna: Breve discorso sopra la cometa apparsa alli XII di Novembre M.D.LXXVII detta la Scapigliata. L’opera è tràdita da un manipolo di edizioni ravvicinate con le seguenti sottoscrizioni: Piacenza, Giovanni Bazachi e Anteo Conti, 1577 (EDIT16 CNCE 61696 non censisce alcun esemplare in biblioteche italiane; una copia alla British Library); Venezia, Cristoforo Zanetti, s.a. [1577] (EDIT16 CNCE 70818 censisce tre copie presso la Biblioteca Angelica di Roma, la Comunale di Treviso e la Marciana di Venezia); stampata in Genova e ristampata in Vercelli, Guglielmo Molino, 28 gennaio 1578 (EDIT16 CNCE 74655 censisce un unico esemplare presso la Biblioteca del Seminario vescovile di Casale Monferrato); Pavia, Girolamo Bartoli, 1578 (EDIT16 CNCE 60915 censisce un unicum presso la Biblioteca Trivulziana di Milano); Mantova, Francesco Osanna, 1578 (EDIT16 CNCE 74761 censisce un’unica copia presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze).6 Il Tacuino certifica dunque che il frate Seravezza compilasse pronostici per l’anno a venire al- meno dagli anni Sessanta, dunque un decennio prima di quanto finora suggerito dalla produzione di cui si era a conoscenza. Non solo. Apprendiamo che l’autore non fosse ancora docente di matematica a Pavia, ma «lettore in Sacra Theologia in Genoa». E ciò giustifica la dedica ad Antonio Maria Grimaldi Bracelli, figura di spicco del patriziato cittadino, figlio del doge Gaspare Grimaldi Bracelli 59 in carica nel biennio 1549-1551, creato cavaliere aurato e conte palatino dall’imperatore Ferdinando con diploma dato in Augusta il 26 maggio 1559. L’incipit del pronostico confessa inoltre un’informazione bibliografica indiretta, vale a dire che ne dovette essere stampato uno analogo anche per l’anno precedente, di cui però non si è finora individuato alcun esemplare. Così infatti, esplicitamente, l’autore si rivolge al dedicatario: «L’anno passato … gli dedicai un mio Taccuino, nel quale per errore dello stampatore e poca avvertenza di chi haveva cura di correggerlo ci mancò il suo nome, per il che havendone fatto uno per quest’anno, m’è parso, in ricompensa di quello di dedicargli questo». Ne deriva, in termini bibliografici, che la bibliografia delle edizioni astrologiche vada incrementata non di uno, ma di due items, il primo dei quali noto (almeno per ora) solo in via indiretta. A chi spetta la responsabilità tipografica di questo almanacco? Nient’affatto anonimo, come molti analoghi prodotti, presenta esplicita sottoscrizione all’ultima riga della prima colonna: «Si uendono in Milano, alla sta(m)pa di || Giouanbattista de Ponti, alla Douana». Le cifre I.B.P. del tipografo riappaiono poco sopra, inscritte in un cuore, in una piccola vignetta silografica raffigurante un frate che tiene in mano un crocifisso e, sul tavolo, alcuni strumenti per lo studio dei 60 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 pianeti (una clessidra, un compasso, una squadra, una sfera, un libro). La stampa sembra dunque da ricondursi senza troppe esitazioni a Giovanni Battista Da Ponte, libraio e stampatore camerale e arcivescovile con indirizzo «alla Dogana», la cui attività si estese da metà Cinquecento almeno sino al 1581.7 Giovanni Battista, cui riconducono circa 200 edizioni, un paio delle quali di argomento astrologico, fu fratello di Paolo Gottardo, Pacifico e Giacomo Paolo e discendente, tramite Pietro Paolo, del più noto libraioeditore di origini fiamminghe Gottardo Da Ponte. La vignetta con il frate non sembra esclusiva del Da Ponte, né tantomeno andrà confusa con la sua marca editoriale. Riapparirà infatti, senza troppe modifiche ma priva delle iniziali tipografiche, anche in alcune delle successive edizioncine astrologiche del Seravezza, al solo scopo di suggerire all’acquirente l’immagine dell’autore, il frate Bartolomeo da Seravezza raffigurato nelle vesti di astrologo. Il pronostico generale in forma di almanacco-calendario era l’unico consentito dall’autorità ecclesia- NOTE 1 Già Libreria Antiquaria Piemontese di Marco Cicolini. Ora, Milano, collezione privata. 2 Ha censito la produzione a stampa del Seravezza LEANDRO CANTAMESSA ARPINATI, Astrologia Ins & Outs opere a stampa, 1468-1930, Milano, Otto/Novecento, stica, né il Da Ponte poteva mettere a repentaglio la carica di stampatore camerale e arcivescovile, che gli garantiva nutrite commesse, per qualche pubblicazione non lecita. Pertanto usciva con l’indicazione esplicita «con licentia del Reverendo Padre Maestro Angelo Inquisitor Gene(rale) nel Stato di Milano». Si accerta che il Da Ponte stampò pochissime altre edizioni di argomento astrologico, stando a ciò che è giunto fino a noi. Almeno un altro foglio volante: Ephemerides & prognosticon anni 1556, tràdito tramite l’unicum che si conserva presso la Biblioteca Estense di Modena.8 E l’opuscoletto di quattro carte dal titolo Discorso et giudicio sopra alla cometa apparsa l’anno presente MDLXXX circa al fine del mese di settembre. Composto da G.F.P. [1580] di cui si conserva un unicum presso l’Ambrosiana di Milano.9 Il Tacuino funziona da autentico ‘Frate Indovino’ ante litteram, condensato in un solo foglio di stampa da potersi comodamente incollare al muro. Fornisce, nell’ordine, «i giorni ne’ quali l’eccellentissimo Senato di Mi- lano non siede», le feste mobili, il calendario astrologico con le previsioni metereologiche, cui seguono una serie di indicazioni buone al medico e al contadino relative ai «giorni idonei a cavar sangue, o far de bagni … per dar le medicine» o a «piantare arbori, viti, potare, legare vigne, lavorare campi, orti e seminare per far buona ricolta». L’ultima colonna trasmette infine il pronostico ufficiale per l’anno 1563, sottoscritto Genova I novembre 1562: «il principio dell’anno sarà molto freddo con acque, venti e nieve … sarà l’aria quasi sempre oscura, nera, torbida e malanconica, piena dico di cattivi vapori … la primavera, la quale apparirà tardi, sarà nel principio fredda e bagnata e saranno venti terribili e nocivi, poi tempeste con tuoni e saette nel finire … Parturiranno molte donne gemelli, ma nel partorire ne periranno assai. Saranno infermità gravi ne la testa, febri acute, pestifere, mal mazzucco, detto da altri mal de castrone … ». In quell’anno ci sarebbe stata eclissi del sole «alli 20 di giugno» ed eclissi della luna «in lunedì a 5 di Luglio». 2011, nn. 7394-7396. 3 EDIT16 CNCE 4500. 4 EDIT16 CNCE 74654. 5 EDIT16 CNCE 77921. Not in CANTAMESSA. 6 Si aggiunga anche l’edizione cinquecentesca sine notis tràdita dall’unicum della Biblioteca Vaticana (EDIT16 CNCE 61178). 7 Ma FERNANDA ASCARELLI - MARCO MENATO, La tipografia del ’500 in Italia, Firenze, Olschki, 1989, p. 151 ne fissa la data di morte al 1591. Si veda la scheda sul tipografo di EDIT16 on line CNCT 280. 8 EDIT16 CNCE 76416. 9 EDIT16 CNCE 38490. giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 61 Editoria Gli ottant’anni degli Struzzi di Einaudi La storia del celebre pennuto (1935-2015) MASSIMO GATTA Uno struzzo, quello di Einaudi, che non ha mai messo la testa sotto la sabbia. Norberto Bobbio Prima o poi tutto finisce in un libro. Alberto Savinio L a storia della tipografia e dell’editoria, fin dalla protostampa, è costellata di marche più o meno celebri che nella loro immediatezza simbolico-iconica ma anche letteraria, racchiudevano lo spirito complessivo delle botteghe alle quali erano intimamente legate, nonché spesso dei committenti delle opere stampate. Per la loro valenza simbolica le marche erano strettamente correlate al vasto e complesso ambito dell’araldica, delle imprese, e dell’ex libris, ma separate da quello di insegne, livree, cifre, emblemi e motti. Gli stessi motivi iconografici, nati in un preciso ambito storico-culturale, potevano essere ripresi in altri tempi e contesti, e adattati di volta in volta alle nuove esigenze, costituendo una sorta di work in progress giunto fino ai nostri giorni, nei quali molte marche editoriali, originate nei lontani secoli della protostampa, sono state riutilizzate e riadattate. Una delle più celebri e conosciute (ma anche rielaborate) fra queste marche è quella dell’Einaudi, il famoso struzzo che inghiotte un chiodo di ferro (per la verità l’incisione mostra che il chiodo è ancora ben stretto nel becco del pennuto) - tema iconografico assai antico, di origine pliniana (sebbene già Aristotele nel suo Parti degli animali avesse ammirato lo struzzo per la sua singolarità di essere bipede e insieme pennuto), - con il cartiglio latino Spiritus durissima coquit. La protomarca ebbe origine nella metà del Cinquecento. Era contenuta nella prima edizione illustrata del Dialogo dell’imprese militari et amorose di Monsignor Giovio vescovo di Nocera, con un ragionamento di messer Lodovico Domenichi, nel medesimo soggetto, appunto di Paolo Giovio. L’incisione, realizzata dal cosiddetto “Maître à la capeline”, artista tra i 62 più abili nella Lione del ’500 e collaboratore di Guillaume Rouillé, lo stampatore del libro, ritrae appunto uno struzzo con un chiodo di ferro stretto in becco e il succitato motto latino. Tale impresa venne ideata da Giovio su commissione di Girolamo Mattei Romano, «capitan de’ cavalli della guardia di Papa Clemente, huomo risoluto e d’alto pensiero, e d’animo deliberato», e può essere compresa solo se legata al motto che la sostiene, il cui significato è appunto «ch’un valoroso cuore ha forza di smaltire ogni grave ingiuria». L’impresa aveva la sua ragion d’essere, però, in un truce fatto di sangue, evento molto comune all’epoca. Il committente, Girolamo Mattei, aveva infatti atteso molto tempo prima di poter vendicare la morte del fratello Paluzzio, ucciso in un litigio dal nipote del cardinale Andrea della Valle, Gieronimo. La vendetta, riconosciuta dai della Valle come frutto appunto di «un valoroso cuore»in la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 grado di «smaltire ogni grave ingiuria», e appartenente a «huomo risoluto e d’alto pensiero, e d’animo deliberato», venne da Papa Clemente perdonata e il Mattei insignito addirittura del titolo di Capitano. Come giustamente nota Mauro Chiabrando, osservando bene questa marca, nei suoi elementi strutturali ma anche paesaggistici, si rileva una «suggestiva somiglianza tra il paesaggio sullo sfondo dell’ovale e quello che caratterizza due vedute appenniniche, rispettivamente di Nocera Umbra (città di cui Paolo Giovio fu vescovo per vent’anni) e Castelnuovo laziale, incise all’acquaforte dal geografo editore Georg Braun (1541-1622) nel 1577 per la Civitates orbis terrarum (grande opera in sei volumi, usciti tra il 1572 e il 1618, che raccoglie centinaia di panorami di città) pubblicata a Colonia in collaborazione con il cartografo Franz Hogenberg (1535-1590. L’impresa di Giovio venne ricordata, qual- che decennio dopo, anche da Giulio Cesare Capaccio nel suo Delle Imprese (ma il suo struzzo ha nel becco un ferro di cavallo) nella sua doppia realizzazione: Il ricco ignorante, realizzata per il Marchese del Vasto, nella quale «lo struzzo, la cui natura è, che non potendo alzarsi dal suolo, suol correndo farsi vela con l’ali, per avanzar gli altri nel corso» (cioè che se anche i ricchi non volano con l’ingegno verso sublimi speculazioni, sempre correranno avanti agli altri grazie alle comodità delle ricchezze); quindi quella nota col motto Spiritus durissima coquit, dove Capaccio aggiunge: «per significar che un generoso cuore smaltisce ogni grave ingiuria del tempo. E per significar un nuovo modo che alcun tenga in cose d’ingegno, figurò lo struzzo maschio, e la femina che miravano fissamente l’uova, ch’essi non covano sedenti, come gli altri uccelli, ma guardante, e’l motto era questo, Diversa ab aliis virtute ale- giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano mus. Per significar la Giustizia, è buona impresa lo struzzo, perché ha tutte le penne equali, dice Oro». Una curiosità poco nota, ma documentata in epoca pre-einaudiana, è quella legata al riutilizzo semantico di questa marca cinquecentesca, rielaborata non solo nella parte iconografica ma anche in quella letteraria. Essa venne infatti ripresa dall’incisore e disegnatore belga Félicien Joseph Victor Rops (1833-1898), che la utilizzò per disegnare una delle ‘divise’ dell’amico Charles Baudelaire, col motto latino modificato dal poeta in Virtus durissima coquit e appunto lo struzzo, ma qui rivolto verso sinistra, con nel becco una pietra al posto del chiodo di ferro, e sullo sfondo le tre piramidi di Giza. Venne stampata nel 1921, in grande, al centro dell’antiporta delle Lettere di Charles Baudelaire, pubblicate da Ugo Nalato (Gian Dàuli) presso la sua casa editrice Modernissima. Fin dal gennaio del 1930 lo struzzo cominciò a comparire sulle copertine e sulle quarte di copertina, della rivista «La Cultura», fondata nel 1882 da Ruggero Bonghi e diretta in seguito da Cesare De Lollis dal ’21 e fino alla morte, avvenuta nel ’28, in concomitanza con la trasformazione della rivista in periodico trimestrale. Era stato l’intervento del banchiere Raffaele Mattioli (spirito umanista e raffinato cultore di libri preziosi), coinvolto da Mario Praz nel progetto di salvataggio della prestigiosa pubblicazione (che dopo la morte di De Lollis non navigava in buone acque), a riportare in auge l’immagine dello struzzo. Fu proprio il celebre anglista «uno degli animatori della rivista con Arrigo Cajumi e Pietro Paolo Trompeo, forse sfogliando l’edizione Hoepli del volume di Jacopo Gelli Divise, motti e imprese di famiglie e personaggi ita- 63 liani, Milano 1916 (ristampato in versione riveduta e ampliata giusto nel 1928), a rimanere colpito dal potenziale evocativo di quell’emblema e del suo motto, proponendolo come marca della rivista e delle sue edizioni». Nel 1934, essendosi definitivamente chiusa la casa editrice «La Cultura», Mattioli cedette la testata a titolo gratuito al giovane editore Giulio Einaudi, ma la rivista, come è noto, fu soppressa poco dopo dal regime fascista e mai più ripubblicata. Lo struzzo cessò così di comparire su «La Cultura» con il passaggio della stessa all’Einaudi. Lo struzzo einaudiano apparve ufficialmente la prima volta nel 1935, in copertina de Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870 di Luigi Salvatorelli (primo volume della “Biblioteca di cultura storica”), allora direttore della «Stampa», che nel nome di Leone Ginzburg e nel solco dell’impresa gioviana, lottava in pieno fascismo 64 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 per resistere alla barbarie nazifascista; quindi dal 1936 anche sui volumi dei “Saggi”. Come rilevato da Claudio Pavese: «la prima impostazione grafica adottata, fortemente influenzata dal razionalismo tipografico di Frassinelli, sicuramente sconsigliò l’utilizzo dell’orpello xilografico cinquecentesco. Si dovette attendere fino al marzo del 1935 (quasi un anno e mezzo dopo la fondazione della casa editrice torinese) quando su di esso comparì per la prima volta. È lecito pensare che l’arresto di Ginzburg nel marzo del 1934 possa aver indotto Giulio Einaudi a ‘rispolverare’ il vecchio emblema per rivendicare forza e coraggio nelle avversità». La marca diventò l’emblema di questa resistenza, con le armi dei libri e della ragione, capace di ingerire e digerire anche le più «gravi ingiu- I LIBRI EINAUDI 1933-1983. COLLEZIONE CLAUDIO PAVESE L a mostra, tenutasi a Milano, presso la Galleria Gruppo Credito Valtellinese, in corso Magenta, ha ricostruito, grazie agli oltre tremila volumi e documenti provenienti dalla collezione di Claudio Pavese, la rie», «simbolo di un coraggioso e perseverante impegno culturale e civile» (Chiabrando) della casa di via Biancamano. Fin dal 1938 era il solo struzzo, senza medaglione e cartiglio, a comparire sia sui piccoli cataloghi editoriali Einaudi di diverso colore, che in bianco sulla copertina azzurro chiaro della Collana “Narratori stranieri tradotti” (1938) e su quella dei “Problemi contemporanei” (1939). Tornò poi l’anno successivo in copertina di Capitalismo e socialismo. Critica dei due sistemi di Arthur Cecil Pigou. Nell’aprile del 1941 lo struzzo darà anche il nome alla Collana “Biblioteca dello Struzzo”, di cui divenne responsabile Cesare Pavese. In essa, il 10 maggio del ’41, venne pubblicato Paesi tuoi, dello stesso Pavese, con una copertina in brossura e sovraccoperta di più ampia e completa storia della casa editrice Einaudi. Curata da Andrea Tomasetig, in collaborazione con Cristina Quadrio Curzio e Leo Guerra, l’iniziativa ha prodotto anche un interessante catalogo (Verona, Credito Valtellinese e Libraccio Editore, 2016, pp. 148, s.i.p.) che contiene (oltre un saggio del curatore) scritti di Stefano Salis, Mario Piazza e Mauro Chiabrando, nonché le schede redatte dallo stesso Claudio Pavese. Francesco Menzio. Quando Leone Ginzburg, in quel periodo confinato politico a Pizzoli in Abruzzo, venne informato della nascita della Collana espresse un parere negativo circa il titolo della stessa, perché a suo giudizio faceva pensare a libri che solo gli struzzi avrebbero digerito, e ciò non avrebbe giovato a favore del pubblico; pensò invece a un altro titolo, poi adottato, “Narratori contemporanei”, dove il 27 agosto del ’45 venne poi ristampato il romanzo di Pavese. Pertanto la “Biblioteca dello Struzzo”, subito soppressa, contenne un solo titolo. Paesi tuoi, nella nuova Collana, aveva in copertina lo struzzo gioviano in nero, senza l’ovale e con il motto latino qui ripristinato, che venne poi utilizzato anche per le sovraccoperte della prima grafica della Collana “Universale Einau- Altro volume da tenere in considerazione, per ulteriori approfondimenti sulla figura di Einaudi e sulla storia della casa editrice da lui fondata, è l’imponente Giulio Einaudi nell’editoria di cultura del Novecento italiano (Firenze, Olschki, 2016, pp. 416, 38 euro). Il libro, curato da Paolo Soddu, raccoglie gli atti del grande convegno tenutosi nel 2012 presso le fondazioni Giulio Einaudi e Luigi Einaudi. giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano di” (grafica di Francesco Menzio, nel ’46 di Max Huber e infine, intorno al ’60, di Oreste Molina); nella seconda grafica, invece, il medesimo struzzo compare, da solo al centro, sul retro della sovraccoperta, una scelta grafica periferica alquanto particolare ma che testimonia la forte valenza simbolica e identitaria attribuita allo struzzo, che da solo ‘comunica’ la casa editrice. Mentre dal 1948 nella nuova serie della “Universale” scompare lo struzzo dalla copertina, che rimane con la sola scritta Einaudi stampata di traverso, grande appena come «una cacatina di mosca»: scelta grafica, questa, che fece infuriare Carlo Muscetta. Intanto alla fine del ’45 il marchio venne rivisitato da Renato Guttuso in termini ancora più ‘ideologici’: fu infatti ritagliato il solo struzzo ma, in questa occasione, rivolto verso ‘sinistra’ rispetto all’archetipo gioviano. Questo nuovo struzzo, la cui grafica non era delle più felici (Guttuso, benché grande pittore, non aveva capacità da grafico), venne utilizzato per la copertina della seconda edizione del ’46 di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, dove compare al piede, in bianco, attraversato al centro dalla scritta in nero «EINAUDI». Tale pregnanza identitaria la ritroveremo nelle copertine della Collana “Piccola Biblioteca scientifico 65 letteraria” nata nel ’49, curata redazionalmente da Giulio Bollati e con grafica di Max Huber, dove lo struzzo, qui tornato al suo ovale gioviano completo, è posto in alto a destra in ampia dimensione; la casa editrice non è menzionata in copertina, delegando al solo struzzo l’identità editoriale generale del volume, in una sorta di sineddoche grafica di notevole pregnanza simbolica, in cui la copertina, oltre che sobria, deve «nello 66 stesso tempo rimandare chi guarda ad una linea progettuale ben precisa che individui una matrice comune ed una linea coerente di quell’editore piuttosto che di un altro», la parte per il tutto. Nel 1946, in occasione della “Settimana del libro Einaudi”, venne stampato un pieghevole, oggi rarità bibliografica, realizzato a Milano in piena era «Politecnico» da Max Huber dove, insieme al celebre ovale gioviano qui stampato in azzurro, veniva in un certo senso attestandosi, in uno scritto di poche righe, l’intera poetica della marca e della politica einaudiane, costituendo di fatto «un vero e proprio manifesto ideologico dello struzzo dopo il fascismo»: «Lo struzzo che tiene nel becco un lungo chiodo e il motto Spiritus durissima coquit impressi sulle copertine delle nostre collezioni, sono il simbolo di una cultura pronta ad assimilare ogni esperienza, sia pure aspra e difficile, sono il simbolo dell’intelletto umano avido di ogni specie di nutrimento. Spiritus durissima coquit, lo spirito tutto trasforma in sé e da tutto trae alimento, e nulla che in questo mondo avvenga o viva gli è estraneo: lo spirito unifica sotto il suo comune denominatore storia e natura». Latamente alla progressiva modificazione del modello gioviano si deve pure rilevare un curioso fenomeno grafico, notato per primo dal libraio antiquario e bibliografo Roberto Palazzi. Confrontando, infatti, alcuni dei la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 vari clichérealizzati dall’Einaudi ricavati dalla marca originale di Paolo Giovio, Palazzi notò un significativo ‘degrado semantico’: «nel tempo il castello, sormontato da un volo di uccelli presente nel disegno originale sullo sfondo dell’ellisse, si era di fatto tramutato in un cumulo di rovine (senza peraltro essere poi mai stato ripristinato nella versione originale), quasi a significare involontariamente un’altra allegoria, quella della caducità delle umane imprese». Ulteriore rivisitazione implicita dello struzzo, ma ovviamente non per l’Einaudi, sarà l’Autruche disegnato nel 1942 da Pablo Picasso ad Antibes per una selezione dai 36 volumi dell’Histoire naturelle di Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, pubblicata da Martin Fabiani per Ambroise Vollard, poi donata nel ’51 dal grande artista spagnolo a Giulio Einaudi; la casa editrice lo adottò in copertina dei due cataloghi storici dell’83 e del ’93, e alla fine del 2004 quale logo per la Collana “Einaudi Tascabili” e in seguito per la Collana “Stile Libero”. Nel 1946, intanto, il bisogno di rinnovare graficamente la casa torinese investì anche il noto pennuto. Due importanti varianti vennero, infatti, apportate allo struzzo gioviano, a partire dalle nuove Collane dei “Narratori stranieri tradotti” e dei “Coralli” (1947): lo struzzo torna a essere riprodotto scontornato dal contesto paesaggistico, senza cartiglio, e ora rivolto verso sinistra (co- giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano m’era in quello di Guttuso) e in posizione dinamica, con la zampa destra in avanti e la destra indietro, non statica, come appariva nell’emblema cinquecentesco. Nel 1961 fu la volta di un altro grande artista, Giacomo Manzù, rivisitare per l’Einaudi l’archetipo gioviano, disegnando espressamente uno struzzo molto stilizzato, racchiuso in un ovale vuoto, circondato dal cartiglio latino; venne inciso in occasione della pubblicazione della sua raccolta Quarantun disegni di Giacomo Manzù, e utilizzato da Bruno Munari per la collezione “Biblioteca dell’Orsa” del 1986, dove venne riprodotto, in basso, solo sul dorso dei volumi. Questa versione manzuniana verrà ripresa dall’Einaudi anche per contrassegnare il retro di buste, cartoncini e chiudilettera. L’artista realizzò, ma del solo struzzo, anche una limitatissima fusione in oro per gioielli. Altra lettura en artiste dello struzzo einaudiano è quella che Giulio Paolini realizzò nell’ottobre del 2000 in occasione della Fiera del libro di Francoforte, e mai utilizzato dall’editore sui propri volumi: «La bellissima interpretazione di Paolini del marchio Einaudi mostra uno struzzo stilizzato contenente quello originario, come a indicare che l’innovazione della casa editrice conserva comunque una continuità con la propria tradizione». Tutti e tre questi ultimi Struzzi d’artista pervennero a Giulio Einaudi per amicizia e in segno di stima, nes- suno su commissione e ad attestare, come ribadiva Roberto Cerati, una «vicenda familiare». Infine come non ricordare il personale omaggio che, nel 2008,lo stampatore Alberto Casiraghy fece allo struzzo? Opera di Pino Guzzonato il disegno, che mostra il maestoso animale mentre corre (stampato in bianco su fondo giallo), adorna la plaquette di Mario Rigoni Stern, Due dediche a Roberto Cerati. Lo struzzo appare anche in un’altra plaquette, promossa sempre da Casiraghy insieme al libraio Bruno Biagi: Vent’anni di Einaudi in via Bovara. Qui, in copertina, il celebre pennuto è isolato e come assorto in un pensiero, con 67 le zampe palmate ben poggiate su un morbido tappeto d’erba. La plaquette, circolata assai limitatamente a causa della bassa tiratura, riporta sia la frase di Bobbio, da noi usata in esergo, che allegati in una bustina un chiodo di ferro e l’ovale completo con lo struzzo di Einaudi, stampato in rosso. Tutti gli Struzzi einaudiani, e le tante Collane, sono infine documentati nell’ottimo catalogo della mostra I libri Einaudi 19331983. Collezione Claudio Pavese (che si è appena conclusa con successo a Milano, presso la Galleria Gruppo Credito Valtellinese, in corso Magenta) e al quale si rimanda per ulteriori curiosità. 68 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 In Appendice - Feuilleton L.E.X. Le biblioteche profonde IX capitolo ERRICO PASSARO RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI “Lupo” è il guardiano di una biblioteca clandestina nel Deep Web. Contatta Victor Stasi, agente di LEX, la branca dei servizi segreti italiani di cui è informatore, ma finisce torturato e ucciso da Abel Kane, uomo dell’organizzazione antagonista di LEX, la Loggia. Bonera, il capo di LEX, manda Stasi e Livia Malatesta, il suo agente di supporto, ad Atene. Stasi scampa all’attacco di un commando armato. A tene era il solito caos di auto e pedoni. Stasi, nella griglia di strade che circondava il suo albergo, ancora pensava all’agguato subito alla Biblioteca e alla sua reazione letale. Tre assassini in meno. Entrò nel Dorian Inn e tirò dritto verso la 930. Trovò la porta aperta, dal che dedusse che Livia lo stava attendendo nella stanza. E invece… La poltrona accoglieva la figuSopra e nella pagina successiva, Victor Stasi e Abel Kane, illustrazioni di Anna Emilia Falcone, espressamente realizzate per «la Biblioteca di via Senato» ra immobile di Abel Kane, il braccio sinistro appoggiato allo schienale. Accanto, un concentrato di muscoli e tatuaggi: la sua guardia del corpo personale, suppose… grossa come un buttafuori, il corpo monolitico, la muscolatura possente… Stasi era costretto a guardarlo dall’alto in basso, dal momento che gli rendeva almeno venti centimetri di altezza. - Punteggio pieno alla biblioteca, colonnello. Ti sei guadagnato la mia attenzione. Parlava così piano che sembrava non aprisse bocca. La voce usciva dalle labbra nervose. - Colonnello? - simulò Stasi, continuando a professarsi esperto bibliotecario. - Chi è lei? Come è entrato qui? - Saltiamo i preliminari - lo sbeffeggiò Kane. - Non darti pena di fingere. A cosa devo l’onore della tua visita in questa città? L’intruso attinse un bicchiere di whisky da una bottiglia già aperta e lo porse a Stasi. Poi si versò una parte per sé. Soddisfatto, si servì una seconda volta. Stasi declinò cortesemente il bis. Vedendo che Stasi non ribatteva, Kane insistette, alzando il bicchiere nella sua direzione. - Come posso aiutarti, Stasi? Era inutile inscenare ancora la giugno 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano parte del professor Manuzio. - Possiamo parlare a tu per tu? La guardia del corpo era sempre lì: un bisonte ipofisario, con il viso piatto, quasi schiacciato, che probabilmente non cambiava espressione neppure sotto il fuoco concentrico di una decina di kalasnikov. La nerboruta body-guard sovrastava Stasi di buoni venti centimetri, confermato. Non si mosse, né Kane fece nulla per farlo allontanare: si limitò a flettere le mani in un gesto minaccioso. - Per chi lavori? - chiese l’agente di L.E.X., scrollando le spalle. La Loggia era da nessuna parte e dappertutto. Per portare a termini certi suoi piani, doveva aver offerto un ingaggio principesco al criminale. Kane, serafico, ignorò la domanda. - Se per te non è un problema, me ne scolo un altro di quello buono. Stasi non gli diede la soddisfazione di farsi vedere irritato. Snebbiò la mente da ogni residuo emotivo. - Sappiamo che per anni non hai dato notizia di te… Sappiamo che sei implicato nell’uccisione di “Lupo”. Sappiamo anche che la Loggia ha interessi nella gestione del Deep Web e delle biblioteche clandestine. Kane si fece accendere una sigaretta dal suo scimmione. - Senza offesa, ma sono informazioni di poco conto. Voi di L.E.X. lo sapete bene. L.E.X. era l’agenzia che non esiste. La sua conoscenza era nota a non più di quindici persone fra Interni e Difesa italiani. Fuori dai confini nazionali, coloro che sapevano della sua esistenza si contavano sulle dita di una mano. - Ormai è una questione personale. Non importa quanto pensi di essere furbo. Alla fine, ti prenderò. L’uomo studiò la forma del fumo che si levava dalla sua sigaretta, come se potesse trarne auspici. Dopo un po’, fece un cenno allo spezzapollici, che gli passò un mazzo di foto. La bocca di lui assunse una piega volgare. - Guarda qui. Gettò le foto sul tavolinetto davanti alla poltrona. Le immagini, prese in quella stessa stanza d’albergo, ritraevano Livia in varie pose personali. Doveva essere state scattate poco prima dell’arrivo di Stasi al Dorian Inn. - Potrebbe succedere qualcosa di spiacevole alla tua amica. Ma noi non lo vogliamo, vero, Stasi? Io ora uscirò da questa stanza e tu non farai nulla per impedirmelo. 69 Kane era un rifiuto della società, capace di bassezze indescrivibili. Era fra coloro che tenevano l’agenda della paura per conto della Loggia. Poteva bluffare, o avere realmente la possibilità di nuocere a Livia. - Non vai da nessuna parte. Ti darò la caccia. L.E.X. vince sempre. - È ciò che ripeti a te stesso, ma ti tengo in pugno, e lo sai. Kane aveva scorpioni nel cervello. Stasi si affacciò alla finestra, dandogli le spalle. - Apri bene le orecchie: non te la caverai a buon mercato. - Tirò fuori dalla tasca la pistola, lentamente, per non far allarmare i suoi ‘ospiti’. - Questa pallottola è per te - sibilò. - Sei così prevedibile, Stasi. Quando tornò a voltarsi, Kane era evaporato, insieme al suo guardiaspalle. La morte di “Lupo” non sarebbe rimasta impunita. - Preparati la bara, Kane - disse, rivolto al nulla. - Sto arrivando. 70 la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 BvS: il ristoro del buon lettore Don Consalvo, Del Cambio e i segreti del Dom Perignon L’imperio della Storia alla tavola di Cavour GIANLUCA MONTINARO C i era riuscito. Era arrivato a coronare quell’ambizione che, dalla Sicilia, lo aveva spinto a Roma. Era finalmente entrato nel Gabinetto, come «ministro dell’Interno e vice Presidente del Consiglio». Così, al principe Consalvo Uzeda di Francalanza (protagonista dell’incompiuto romanzo di Federico De Roberto L’imperio, di cui la Biblioteca di via Senato conserva copia della prima edizione, stampata a Milano, da Mondadori, nel 1929) sembrò naturale, come primo atto, recarsi in visita a Torino. Là, nell’antica capitale, aveva preso forma la primigenia idea d’Italia. Là, aveva operato con genio Camillo di Cavour. E sempre là si era insediato il primo parlamento nazionale. Arrivò quindi a Torino, raggiungendo in carrozza palazzo Carignano. Dopo la visita a quelle sale cariche di storia, ma pure di «quella finzione che mai viaggia disgiunta dagli uffici parlamentari», Consalvo sentì bisogno di verità. Attraversò la piazza e si fermò per colazione al Del Cambio, il ristorante ove Cavour era solito recarsi a mangiare. Lo accolse sulla porta il talentuoso chef Matteo Baronetto. La pacatezza della voce e la sin- Ristorante Del Cambio Piazza Carignano, 2 Torino Tel. 011/546690 cerità dello sguardo del giovane fugarono in Consalvo quegli spiacevoli ricordi di «accordi politici stretti in un’occasione e rotti in un’altra» che abitano, invariabilmente, da veri inquilini, tutte «le stanze del potere». Lo fecero accomodare al primo piano del locale, nella rinnovata Stanza Verde, aperta, in suo onore, per la prima volta. Le ricche sete e i damaschi cangianti, le luci soffuse e i volumi antichi alle pareti, trasportarono, come per magia, Consalvo alla tavola di Cavour. «Lo scoppio delle bottiglie di sciampagna sturiacciate» lo scosse dalle sue fantasticherie. Baronetto, Dépositaire Dom Perignon, aveva scelto di onorarlo aprendo P2 1998. Consalvo centellinò quello Champagne del mito, che attende e matura almeno quindici anni nelle cantine di Épernay fino a giungere alla Deuxième Plénitude. Uno Champagne ancora così teso in energia da risultare quasi sbilanciato, e che certo esprimerà l’apoteosi assoluta fra qualche anno, quando tutte le componenti del vino saranno perfettamente integrate fra loro. Dalla cucina intanto giunsero le prime portate. Gli asparagi bianchi con caviale riportarono Consalvo in Sicilia, alle pendici dei monti Iblei, per via di quelle mandorle che occhieggiavano nel piatto. Se gli scampi rossi, accompagnati da insalata verde e cioccolato bianco, gli sembrarono poi un omaggio alla bandiera nazionale, le pappardelle cacio e pepe gli parvero un accenno di Roma in terra sabauda. Quando fu il momento del merluzzo affumicato con piselli, Consalvo ricordò i tempi della sua prima giovinezza, passata in viaggio, «fra Vienna, Parigi e Londra». Al momento del commiato Consalvo fece chiamare Baronetto: «“Siete un poeta”. Politica e cucina la medesima arte sono. Il politico “prepara leggi invece di pietanze”. Cercherò di esser bravo quanto voi. Addio!». Fuori la carrozza attendeva: il treno per Roma sarebbe partito a breve... SCOPRI SU BELLISSIMA.COM IL NUOVO MONDO DI 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO CORRADO MINGARDI Corrado Mingardi (1939) vive a Busseto. Insegnante di lettere, ora in pensione, da oltre 40 anni anni è consulente della Biblioteca della Fondazione Cariparma a Busseto, erede della secolare biblioteca del Monte di Pietà, ricca di 40.000 volumi. Svolge inoltre attività di consulenza, collaborando alle mostre e ai cataloghi tenutesi a Parma a Palazzo Bossi-Bocchi. Ha diretto per anni il Museo Verdiano di Casa Barezzi ed è stato consigliere d’amministrazione del Museo Bodoni di Parma. Fa parte del sodalizio “I Cento Amici del Libro”. la Biblioteca di via Senato Milano – giugno 2016 EPIFANIO AJELLO Epifanio Ajello è professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Salerno. Ha pubblicato articoli su autori contemporanei (Calvino, Campanile, Celati, d’Annunzio, Montale, Moravia, Gatto, Pasolini, Sanguineti e altri) e ha riunito gli scritti sull’India di Gozzano (Nell’Oriente favoloso, 2004). Fra gli ultimi suoi lavori si segnalano: Il racconto delle immagini. La fotografia nella modernità letteraria italiana (2009); Arcipelaghi. Calvino e altri. Personaggi, oggetti, libri, immagini, (2013) e l’edizione critica delle Memorie italiane (2012) di Carlo Goldoni. CLAUDIO BONVECCHIO Claudio Bonvecchio è Professore Ordinario di Filosofia delle Scienze Sociali nell’Università degli Studi dell’Insubria (Varese) dove è anche Coordinatore del Dottorato in Filosofia delle Scienze Sociali e Comunicazione Simbolica. È Direttore Scientifico della rivista «Metabasis». Autore di innumerevoli saggi e pubblicazioni, è direttore di svariate collane editoriali per varie case editrici. È Member dell’Advisory Board della Eranos Foundation di Ascona (Svizzera). ANTONIO CASTRONUOVO Antonio Castronuovo (1954), bibliofilo e saggista, dirige varie collane per la Editrice la Mandragora di Imola e collabora con parecchie riviste. Tra i suoi titoli: Libri da ridere: la vita e i libri di Angelo Fortunato Formíggini (2005); Macchine fantastiche (2007); Alfabeto Camus (2011); Ossa cervelli mummie e capelli (Quodlibet 2016). Traduttore dal francese, ha da ultimo pubblicato L’incendio e altri racconti di Irène Némirovsky, Il cervello non ha pudore di Jules Renard, Fisiologia del flâneur di Louis Huart. MARCO CIMMINO Marco Cimmino (Bergamo, 1960). Storico, membro della Società Italiana di Storia Militare e socio accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, si occupa prevalentemente di Grande Guerra. Collaboratore Rai, scrive su molte testate. Membro del comitato scientifico del Festival Internazionale della Storia di Gorizia, è uno dei responsabili del progetto èStoriabus. Tra i suoi saggi più recenti: La conquista dell’Adamello (2009), Da Yalta all’11 settembre (2010) e La conquista del Sabotino (2012), finalista al premio Acqui Storia 2013. MASSIMO GATTA Massimo Gatta (1959) ricopre l’incarico, dal 2001, di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about books), e fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri». Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli. LUCA P. NICOLETTI Luca Pietro Nicoletti, dottore di ricerca PhD in storia dell’arte, ha studiato presso le Università di Milano e Udine. Si è occupato di arte del Novecento, di storia della critica e di cultura editoriale. Dopo aver insegnato storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti ACME di Novara ha collaborato con la Civica Galleria d’Arte Moderna di Torino. Ha vinto una borsa di studio presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Cura per Quodlibet la collana “Biblioteca Passaré. Studi di arte contemporanea e arti primarie”. Ha scritto: Gualtieri di San Lazzaro (Quodlibet 2014) e curato l’edizione di scritti di Enrico Crispolti (Burri “esistenziale”, Quodlibet 2015) e Gualtieri di San Lazzaro (Parigi era viva, 2011; Modigliani. I ritratti, 2013). ERRICO PASSARO Passaro Errico (1966) è ufficiale dell’Aeronautica Militare esperto in materie giuridiche. Giornalista e scrittore, ha pubblicato oltre millesettecento articoli, dieci romanzi, centoventi racconti, fra cui il “triplete” per le collane da edicola Mondadori: la bianca (Zodiac, Urania n. 1557; La Guerra delle Maschere, Millemondi Urania n. 58), la gialla (Necropolis, Supergiallo n. 39), la nera (L.E.X. Law Enforcement X, Segretissimo, n. 1591; L.E.X. - Operazione Spider, Segretissimo n. 1610; L.E.X. - Inverno arabo, Segretissimo n. 1611). GIANCARLO PETRELLA Giancarlo Petrella (1974) è docente a contratto di discipline del libro presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Nel 2013 ha conseguito l’abilitazione per la I fascia di insegnamento di Scienze del libro e del documento. È autore di numerose monografie fra cui: L’officina del geografo; Uomini, torchi e libri nel Rinascimento; La Pronosticatio di Johannes Lichtenberger; Gli incunaboli della biblioteca del Seminario Patriarcale di Venezia (2010); L’oro di Dongo ovvero per una storia del patrimonio librario del convento dei Frati Minori di Santa Maria del Fiume (2012). Collabora con «Il Giornale di Brescia» e la «Domenica del Sole24ore». GIANFRANCO SCHIALVINO Gianfranco Schialvino (1948), allievo di Tullio Alemanni, si dedica da sempre all’antica arte della xilografia. Ha fondato, nel 1987, con Gianni Verna l’associazione “Nuova Xilografia”, che Angelo Dragone ebbe a definire «operativo cenacolo a due». L’intento è quello di promuovere la più antica forma di stampa con mostre, conferenze, seminari e con corsi di insegnamento. Ha all’attivo, insieme a Verna, innumerevoli mostre, sia in Italia che all’estero. GIANLUCA MONTINARO Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero (2013); L’utopia di Polifilo (2015).