Depositi all`estero: aspetti particolari nei rapporti tributari internazionali

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Depositi all`estero: aspetti particolari nei rapporti tributari internazionali
DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE
Depositi all’estero: aspetti particolari
nei rapporti tributari internazionali
di Massimo Sirri(*) e Riccardo Zavatta(**)
I contratti di deposito presentano, nell’ambito dei rapporti internazionali, variegati profili di
tassazione sia a livello di imposizione diretta che in materia di IVA, diversi a seconda della natura giuridica del rapporto contrattuale instaurato con gli operatori non residenti.
Le notevoli differenze di tassazione impongono un’attenzione particolare nella scelta dello
strumento negoziale da utilizzare e, altresì, rendono necessario indagare con precisione l’effettiva natura giuridica del contratto a causa della terminologia che gli operatori spesso usano impropriamente riferendosi genericamente al contratto di deposito.
1. Premessa
Il contratto di deposito rientra fra quelli tipici, ai
quali il codice civile dedica una specifica disciplina
legale e, quindi, presenta elementi giuridici propri
che ne delineano con precisione la struttura ed i
meccanismi operativi.
Sebbene il contratto di deposito abbia una sua
autonomia giuridica e presenti caratteristiche specifiche, spesso, nel linguaggio atecnico della prassi
commerciale, viene confuso con altre fattispecie negoziali, in presenza delle quali viene fatto semplicisticamente riferimento all’espressione «conto deposito».
Con tale espressione, gli operatori economici sono soliti riferirsi, indifferentemente, a varie tipologie
di negozi nominati, come il contratto estimatorio od
il comodato (più raramente), oppure alla vendita con
riserva di gradimento od a prova; per queste ultime
fattispecie contrattuali viene anche usato il termine
«conto visione».
Il altri casi, il riferimento è a contratti atipici, non
regolati dal codice civile, come accade con il «consignment stock agreement».
In una situazione come quella sopra descritta, caratterizzata da una notevole confusione terminologica, è di immediata evidenza come sia necessario distinguere esattamente le varie fattispecie contrattuali al fine di applicare ad esse il corretto trattamento
giuridico e, di riflesso, il regime fiscale appropriato.
2. Definizione
Ai sensi dell’art. 1766 c.c., il deposito è «il contratto col quale una parte riceve dall’altra una cosa
mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in
natura».
Come si evince dalla norma richiamata, la causa
del contratto di deposito, ossia la sua funzione, consiste semplicemente nell’assumere, da parte del depositario, l’obbligo di custodire beni mobili, garantendo la vigilanza su di essi e la loro conservazione
nel periodo in cui ne ha la detenzione, al fine di poterli restituire al depositante.
Gli artt. da 1766 a 1781 c.c. disciplinano il deposito «regolare», il quale si differenzia dal deposito
«irregolare» di cui all’art. 1782 c.c., caratterizzato
dal fatto di avere ad oggetto il denaro o altre cose
fungibili con facoltà per il depositario di servirsene,
acquisendone la proprietà, e con l’obbligo di restituire non le stesse cose ma altrettante della stessa
specie e qualità.
Dall’esame della disciplina legale di cui agli artt.
da 1766 a 1781 c.c., si evincono le seguenti caratteristiche del contratto di deposito regolare:
- al depositario non viene trasferita la proprietà dei
beni affidatigli in custodia e nemmeno il possesso; il depositario, infatti, ha la mera detenzione
dei beni nell’interesse del depositante, non potendo servirsene (art. 1770 c.c.);
- il depositario deve usare nella custodia la «diligenza del buon padre di famiglia» (art. 1768 c.c.);
- il depositario deve restituire i beni non appena il
depositante li richiede, salvo che sia convenuto
un termine nell’interesse del depositario (art.
1771 c.c.);
(*) (**) Dottori Commercialisti in Forlì - Studio Sirri-Gavelli-Zavatta &
Associati.
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- il depositario deve restituire i beni al depositante
od al soggetto indicato per riceverla, e non può
esigere che il depositante provi di esserne il proprietario (art. 1777 c.c.);
- il depositante è obbligato a rimborsare il depositario delle spese fatte per conservare i beni, o tenerlo indenne dalle perdite cagionate dal deposito e a
pagargli il compenso pattuito (art. 1781 c.c.).
3. Differenze rispetto ad altri negozi
giuridici
Il contratto di deposito, in virtù degli elementi
giuridici sopra indicati, si differenzia notevolmente
da altre fattispecie contrattuali, le quali presentano
il tratto comune di non implicare, nonostante la consegna dei beni, il trasferimento della proprietà degli
stessi o, quantomeno, l’immediato effetto traslativo
della proprietà.
In particolare, le fattispecie contrattuali a cui può
essere associato il termine atecnico di «conto deposito» nella prassi commerciale, possono tipicamente
riassumersi nelle seguenti:
- comodato di beni mobili(1), dove la proprietà dei
beni non viene trasferita;
- vendita con riserva di gradimento(2), dove il trasferimento della proprietà non è immediato con la
consegna dei beni, ma si perfeziona solo in conseguenza della dichiarazione di gradimento da
parte del compratore;
- vendita a prova(3), dove il passaggio della proprietà si presume avvenuto sotto la condizione sospensiva che i beni abbiano le qualità pattuite o
siano idonee all’uso a cui sono destinate;
- contratto estimatorio(4), caratterizzato anch’esso
dal fatto che il trasferimento della proprietà dei
beni non avviene al momento della loro consegna, ma nel momento successivo in cui avviene il
pagamento del prezzo;
- consignment stock, contratto atipico, non disciplinato dal codice civile, avente precise analogie
con il contratto estimatorio in quanto la proprietà
dei beni non viene trasferita con la loro consegna,
rimanendo in capo al proprietario.
La principale differenza tra il contratto di deposito (regolare) ed il comodato, consiste nel fatto che il
depositario non può servirsi dei beni, mentre il comodatario può farlo.
Il comodato è utilizzato soprattutto in riferimento
a beni strumentali, consegnati alla controparte estera al fine di consentirle determinate attività di lavorazione, oppure di effettuare specifiche prestazioni
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di servizi. L’esistenza di un contratto di comodato
può riscontrarsi anche nei casi in cui, nonostante il
termine usato di «conto visione», i beni siano concessi in uso gratuito per attività di tipo promozionale o pubblicitario.
Le altre fattispecie contrattuali relative a cessioni di beni sono, in sostanza, riconducibili a vendite
con effetti traslativi differiti e, quindi, non immediati ma, in ogni caso, fisiologicamente destinate a perfezionarsi nell’ottica del trasferimento della proprietà(5); tale ottica non è presente nel contratto di
deposito, finalizzato all’attività di custodia dei beni
in vista della loro conservazione e successiva restituzione al depositante, oppure a costituire elemento
di accordi più complessi di logistica integrata.
4. Riflessi contrattuali ed operativi
Ai fini di una corretta redazione dei contratti di
deposito (regolare), anche collegati o innestati in
contratti di agenzia o di commissione, nonché dei
contratti estimatori o di consignment stock, è importante evidenziare come vadano opportunamente disciplinati alcuni aspetti operativi e gestionali.
In particolare, occorrerà prestare attenzione nella
stesura delle clausole relative ai seguenti aspetti:
- assicurazione dei beni custoditi nel deposito;
- individuazione dei beni di proprietà di terzi oggetto di deposito, distinguendoli da quelli di proprietà del depositante; a tal fine dovranno essere
indicati criteri oggettivi e spazi precisi dove posizionare i beni;
- indicazione dei documenti idonei a «certificare»
i trasferimenti fisici dei beni, in entrata ed uscita
dal deposito (documenti di trasporto, buoni o liste
di prelievo ed altri);
- indicazione delle modalità con cui custodire i beNote:
Ai sensi dell’art. 1803 c.c., il comodato è «il contratto col quale una
parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne
serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Il comodato è essenzialmente gratuito».
(1)
(2)
Ai sensi dell’art. 1520 c.c. «quando si vendono cose con riserva di
gradimento da parte del compratore, la vendita non si perfeziona fino a che il gradimento non sia comunicato al venditore».
L’art. 1521 c.c. stabilisce che «la vendita a prova si presume fatta
sotto la condizione sospensiva che la cosa abbia le qualità pattuite o
sia idonea all’uso a cui è destinata».
(3)
Secondo l’art. 1556 c.c. «con il contratto estimatorio una parte consegna una o più cose mobili all’altra e questa si obbliga a pagare il
prezzo, salvo che restituisca le cose nel termine stabilito».
(4)
(5)
Cfr., per una disamina delle varie tipologie di cessioni ad effetti differiti, G. Mandò - D. Mandò, Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, IPSOA, XXVI ed., 2007, pagg. 134-136.
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ni nel deposito e degli eventuali requisiti operativi relativi ai sistemi contabili ed informatici a cui
si deve uniformare il depositario.
5. L’utilizzo dei depositi
nei traffici internazionali
Nell’ambito dei traffici internazionali, gli operatori economici ricorrono frequentemente all’uso di
depositi situati nei mercati di sbocco delle merci,
soprattutto nell’ottica di razionalizzare e rendere più
economica la gestione dei trasporti e la logistica nel
suo complesso.
L’utilizzo dei depositi può assumere forme diverse, le quali si differenziano in virtù delle loro caratteristiche operative e specificità giuridiche, nonché
per i differenti riflessi in campo doganale e tributario, in materia di imposte dirette ed IVA.
In estrema sintesi, possono enuclearsi alcune fattispecie di depositi caratterizzate da regimi impositivi particolari, tipicamente riassumibili nelle seguenti:
a) depositi «propri» dell’operatore economico istituiti all’estero, gestiti direttamente o tramite l’attività di soggetti terzi (ad esempio vettori internazionali) incaricati della custodia dei beni (e di
determinati servizi accessori);
b) depositi costituiti presso agenti o commissionari
esteri;
c) depositi presso clienti o concessionari di vendita
esteri disciplinati sulla base di un «consignment
stock agreement»;
d) depositi IVA, soggetti alla specifica regolamentazione comunitaria concernente le modalità di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto.
Quanto al settore delle imposte dirette, l’utilizzo
di depositi in Paesi esteri pone specifiche problematiche relative alla possibile configurabilità di una
stabile organizzazione nello Stato in cui gli stessi sono ubicati, da esaminare alla luce della disciplina
convenzionale di cui ai trattati contro le doppie imposizioni e della normativa interna dello Stato interessato.
I regimi d’imposizione IVA, inoltre, come meglio
si vedrà in seguito, si differenziano non solo in base
alla tipologia dei depositi, ma anche in relazione al
luogo in cui sono istituiti, se in uno Stato membro
della UE oppure in un Paese extracomunitario.
6. Depositi e stabili organizzazioni
all’estero
La disponibilità di un deposito all’estero potreb-
be implicare la sussistenza di una stabile organizzazione nello Stato, comunitario od extracomunitario,
in cui i locali adibiti a magazzino sono situati.
Il deposito, infatti, inteso nella sua consistenza fisica, in linea di principio può costituire una sede fissa d’affari se utilizzata per un periodo di tempo sufficientemente lungo, tale da realizzare il requisito
della permanenza stabile nel territorio, e non meramente temporanea, ai sensi di quanto previsto dall’art. 5, del Modello OCSE di Convenzione contro le
doppie imposizioni sui redditi(6).
Ai fini della configurazione di una stabile organizzazione, è indifferente che si tratti di un deposito
di proprietà dell’impresa residente oppure che, di
tale deposito, l’impresa abbia solo la disponibilità,
trattandosi d’immobile di terzi concesso in uso tramite un contratto di locazione o, comunque, messo a
sua disposizione ad altro titolo(7).
A tale ultimo riguardo, il Commentario OCSE,
proprio in merito alle possibili caratteristiche della
sede fissa d’affari ed alle possibili modalità di utilizzo della stessa, nel par. 4 specifica che anche un deposito doganale può costituire una stabile organizzazione qualora un’area al suo interno sia usata in modo permanente indicando, a titolo di esempio, lo
stoccaggio di beni in attesa di essere assoggettati ai
dazi doganali(8).
Tornando agli esempi di depositi indicati nel paragrafo precedente, pertanto, sia i depositi di proprietà dell’impresa residente, sia quelli di terzi condotti in locazione all’estero, così come quelli istituiNote:
Ai sensi del par. 1, dell’art. 5, del Modello OCSE di Convenzione
contro le doppie imposizioni nella versione del 2005, non modificata sul punto dal Modello nella versione aggiornata pubblicata il 18
luglio 2008, «the term «permanent establishment» means a fixed
place of business through which the business of an enterprise is
wholly or partly carried on». Il Commentario OCSE al paragrafo 1
dell’art. 5, nella versione pubblicata il 15 luglio 2005, nel paragrafo
2 afferma che «this place of business must be «fixed», i.e. it must be
established at a distinct place with certain degree of permanence»
mentre, nel paragrafo 6, ulteriormente specifica che «a permanent
establishment can be deemed to exist only if the place of business
has a certain degree of permanency, i.e. if it is not of a purely temporary nature».
(6)
Il medesimo Commentario OCSE del 2005 esprime tale concetto
molto chiaramente, specificando che «it is immaterial whether the
premises, facilities or installations are owned or rented by or are otherwise at the disposal of the enterprises».
(7)
«A place of business may thus be constituted by a pitch in a market place, or by a certain permanently used area in a customs depot
(e.g. for the storage of dutiable goods)». Per approfondimenti sul
deposito doganale quale possibile stabile organizzazione, cfr., P.
Mandarino, «I confini tra stabile organizzazione e installazioni ai fini del deposito, esposizione o consegna di merci, alla luce del Modello OCSE e della normativa domestica», in il fisco n. 34/2007, pagg.
5039 e 5040.
(8)
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ti presso locali di agenti o commissionari non residenti, potrebbero, in linea di principio, configurare
stabili organizzazioni nello Stato estero in cui sono
utilizzati.
Affinché ciò avvenga, non è però sufficiente la
mera disponibilità di un luogo fisico in cui sono depositate le merci di proprietà dell’impresa residente
ma, quale ulteriore requisito, è necessario che tramite tale sede fissa sia svolta in modo pieno o parziale l’attività caratteristica dell’impresa stessa.
Se l’attività che caratterizza l’operatività e la
«mission» imprenditoriale dell’azienda è assente,
non scattano i presupposti per la configurabilità della stabile organizzazione.
Tale concetto, nella cui ottica non sono idonee a
realizzare i presupposti della stabile organizzazione
le attività meramente preparatorie od ausiliarie dell’attività principale svolta dall’impresa non residente, è tradotto nelle ipotesi «negative» contenute nel
par. 4, dell’art. 5, del Modello OCSE di Convenzione
contro le doppie imposizioni sui redditi(9).
Tra le varie ipotesi comprese nella «negative list», vi sono quelle indicate nelle lett. a) e b), che
escludono l’esistenza di una stabile organizzazione
quando:
- si fa uso di un’installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna di beni o merci
appartenenti all’impresa (lett. a);
- i beni o le merci appartenenti all’impresa sono
immagazzinate ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna.
6.1 Le due fattispecie di deposito
del Modello OCSE
Le due fattispecie indicate nel par. 4, dell’art. 5,
del Modello OCSE, appaiono similari e quasi coincidenti; la differenza fra di esse è sottile e neppure il
Commentario la chiarisce con sufficiente precisione
anche se, da quanto indicato nel par. 22(10), pare
evincersi che l’ipotesi di cui alla lett. (a) si riferisca
alla disponibilità dell’installazione, nella sua consistenza fisica, usata per depositare merci, anche in
prospettiva, e quella di cui alla lett. (b) riguardi, invece, l’attività d’immagazzinaggio dei beni intesa in
quanto tale(11).
Si tratterebbe, in sostanza, di due angoli visuali
nella cui ottica, secondo alcuni autori(12), viene tradotta la fase «dinamica», imperniata sull’utilizzo
del bene immobile, e la fase «statica», costituita del
formarsi dello stock di magazzino, accumulato a tali
fini.
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Ciò che accomuna le due fattispecie è il fatto che,
per escludere l’esistenza della stabile organizzazione, i locali e le attività in essi esercitate devono riferirsi esclusivamente ai beni dell’impresa e non di altri soggetti; deve trattarsi, quindi, di attività svolte
esclusivamente nella sfera interna dell’impresa che
fa uso dell’installazione e non proiettate all’esterno
nei confronti di terzi.
Inoltre, nei predetti locali non deve essere svolta
l’attività caratteristica dell’impresa e, pertanto, i depositi non devono rappresentare un luogo in cui viene esercitata l’attività commerciale di raccolta degli
ordini e/o di vendita dei beni o delle merci appartenenti ad essa.
6.2 Le attività consentite
Affinché l’uso del deposito non implichi la sussistenza di una stabile organizzazione, lo stesso non
deve comportare lo svolgimento della fase attiva della gestione aziendale, ma deve limitarsi alla fase
precedente e prodromica rispetto a quella della vendita dei beni o, anche, della prestazione dei servizi.
In sostanza, le attività consentite sono limitate a
quella promozionale e logistica dove, quest’ultima,
può giungere fino alla consegna dei beni.
Quanto alle citate prestazioni di servizi, è opportuno sottolineare come il par. 25 del Commentario al
Modello OCSE, a partire dalla versione del 2003, individui l’esistenza di una stabile organizzazione nei
casi in cui il deposito venga utilizzato per la consegna di parti di ricambio ai clienti che hanno acquistato macchinari se, oltre a tale consegna, si provvede anche all’attività di manutenzione e riparazione
Note:
(9)
Nel par. 21 del Commentario al Modello OCSE, dedicato ad illustrare le diposizioni del par. 4, dell’art. 5, si afferma, in relazione alle
attività ivi indicate, che «the common feature of these activities is
that they are, in general, preparatory or auxiliary activities», e, inoltre, che «the provisions of paragraph 4 are designed to prevent an
enterprise of one State from being taxed in the other State, if it carries on in that other State, activities of a purely preparatory or auxiliary character».
«Sub paragraph a) relates only to the case in which an enterprise
acquires the use of facilities for storing, displaying or delivering its
own goods or merchandise. Subparagraph b) relates to the stock of
merchandise itself and provides that the stock, as such, shall not be
treated as a permanent establishment if it is maintained for the purpose of storage, display or delivery».
(10)
In senso conforme, cfr., M. Piazza, Guida alla fiscalità internazionale, Milano, 2004, pagg. 218 e 219 e A. De Luca e A. Bambo, La stabile organizzazione in Italia, IPSOA, 2009, pag. 51.
(11)
(12)
Cfr., in tal senso, A. De Luca e A. Bambo, cit., loc. cit., IPSOA, 2009,
pag. 100 e M. Leo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano,
2007, pagg. 2408 e 2409.
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dei macchinari venduti, andandosi oltre la mera
consegna di beni indicata nella lett. (a), del par. 4,
dell’art. 5, del Modello OCSE(13) (14).
In questo caso, infatti, si configura l’organizzazione di un’attività di assistenza post-vendita che
realizza una parte essenziale e significativa dei servizi che un’impresa rende ai propri clienti, non configurando, detti servizi, attività meramente ausiliarie.
Se, dunque, l’attività svolta tramite il deposito è
limitata al magazzinaggio e successiva consegna dei
beni o delle parti di ricambio, non sussiste una stabile organizzazione.
Al riguardo, gli operatori dovranno prestare la
massima attenzione proprio alla consegna dei beni,
in quanto non tutti i trattati internazionali contro le
doppie imposizioni disciplinano tale ipotesi in modo
conforme al Modello OCSE(15).
Alcuni Paesi, infatti, soprattutto nell’area asiatica, non prevedono la consegna nelle ipotesi «negative» dei trattati stipulati con l’Italia, in riferimento
alle installazioni adibite a magazzino, limitando l’operatività di esse, in senso più restrittivo, al solo deposito ed esposizione delle merci appartenenti all’impresa(16).
In altri trattati è, invece, previsto che l’attività di
consegna tramite il deposito non implichi la sussistenza della stabile organizzazione purché la stessa
abbia natura occasionale(17).
In altri casi ancora, disposizioni specifiche sono
previste in alcuni trattati stipulati dall’Italia in relazione alle ipotesi di stabile organizzazione «personale».
In tali trattati, infatti, con riferimento agli agenti
dipendenti (diversi da quelli che godono di uno status indipendente), è specificato che gli stessi sono
considerati stabile organizzazione dell’impresa estera mandante quando, pur non avendo il potere di
concludere contratti in nome di detta impresa, dispongono abitualmente di un deposito di merci dal
quale consegnare regolarmente merci per conto della stessa impresa(18).
Nei rapporti commerciali con i Paesi da ultimo
citati, pertanto, l’operatore economico residente dovrà prestare particolare attenzione nello stipulare
contratti di agenzia con deposito.
Da ultimo, occorre sottolineare come il Commentario OCSE, al par. 30, abbia esteso il regime della
stabile organizzazione anche ai casi in cui, pur ricorrendo una delle ipotesi di cui alla «negative list»,
la sede fissa di affari sia utilizzata anche per altre attività escluse dalle eccezioni e, al riguardo, esempli-
fica il caso di locali utilizzati per la consegna di beni ma nei quali è svolta anche l’attività di vendita(19).
7. Riflessi fiscali dei depositi all’estero
L’istituzione di un deposito all’estero, oltre alle
problematiche già esaminate riguardanti l’eventuale
sussistenza di una stabile organizzazione, comporta
riflessi fiscali in materia di imposte dirette ed IVA
radicalmente diversi a seconda della natura giuridica specifica del rapporto contrattuale utilizzato.
In primo luogo, occorre distinguere tra i rapporti
di deposito che implicano trasferimenti di beni ad
effetti traslativi sospesi, da quelli che riguardano beni inviati all’estero in attesa di essere successivamente venduti.
Nel secondo caso, infatti, l’operatore economico
nazionale che trasferisce i beni in un deposito di sua
proprietà istituito all’estero o dal medesimo detenuto in locazione, oppure presso i locali di agenti o
commissionari con deposito ivi nominati, non realizza alcuna vendita, in assenza di clienti che già hanno effettuato ordini di acquisto.
In tale ipotesi, l’invio dei beni all’estero avviene
per motivi di carattere distributivo, legati all’organizzazione ed alla logistica di vendita; i beni spediti
all’estero rimangono di proprietà dell’impresa residente che avrà cura di inventariarli fra le rimanenze
qualora, alla chiusura dell’esercizio, essi si trovino
ancora giacenti presso i depositi istituiti all’estero.
Note:
Nella versione modificata del Commentario del 2003 viene previsto che la consegna dei pezzi di ricambio, e non la vendita, consente
di evitare la configurabilità di una stabile organizzazione; in tal senso, cfr., A Dragonetti - V. Piacentini - A. Sfondrini, Manuale di fiscalità internazionale, IPSOA, 2004, pagg. 919 e 920 e nota 69, pag. 919.
(13)
(14)
Ai fini della sussistenza della stabile organizzazione, occorre che
vengano contemporaneamente svolte, oltre alla consegna dei pezzi
di ricambio, anche le attività successive di assistenza post-vendita; in
tal senso, cfr., P. Tognolo, La stabile organizzazione, Milano, 2004,
pagg. 20 e 21, M. Piazza, op. loc. cit., pagg. 218 e 219 e nota 149,
pag. 218 e A. Dragonetti - V. Piacentini - A. Sfondrini, op. loc. cit.,
pag. 920.
Per maggiori approfondimenti, cfr., P. Tognolo, op. loc. cit., pag.
35 e P. Mandarino, op. loc. cit., pag. 5040.
(15)
(16)
Si tratta delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni di Algeria, Bangladesh, India, Indonesia, Pakistan e Vietnam.
(17)
Cfr. Convenzione stipulata tra Italia e Filippine.
Si tratta delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia con l’India e l’Indonesia.
(18)
(19)
«A fixed place of business used both for activities which rank as
exceptions (paragraph 4) and for other activities would be regarded
as a single permanent establishment and taxable as regards both
types of activities. This would be the case, for instance, where a store
maintained for the delivery of goods also engaged in sales».
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La predetta situazione è riconducibile a quella
disciplinata nella normativa dell’IVA comunitaria
nell’art. 17, della direttiva 28 novembre 2006, n.
2006/112/CE, riferita ai trasferimenti di beni a destinazione di un altro Stato membro che gli operatori effettuano per esigenze della propria impresa(20).
I predetti trasferimenti di beni, per intuibili ragioni di controllo e monitoraggio, sono assimilati, ai
fini IVA, a cessioni di beni a titolo oneroso e, come
tali, implicano l’insorgere dei relativi obblighi di fatturazione, registrazione, dichiarazione e compilazione dei modelli Intrastat(21).
Tale finzione giuridica, implica che i trasferimenti «a se stessi» per esigenze proprie dell’impresa
configurino, nell’ambito del territorio comunitario,
sebbene in assenza di cessioni che originano ricavi
di vendita ai fini del bilancio e delle imposte dirette,
operazioni rilevanti ai soli fini IVA, con la conseguente necessità, per l’operatore residente, di acquisire una posizione IVA nello Stato membro di destinazione dei beni per ivi formalizzare l’acquisto intracomunitario(22).
Il soggetto residente, pertanto, dovrà provvedere
a nominare un rappresentante fiscale ai fini IVA o ad
identificarsi direttamente(23) nello Stato membro in
cui è situato il deposito a cui sono trasferiti i beni.
Il meccanismo sopra delineato è valido in linea
generale, ad esclusione delle specifiche eccezioni
indicate nel par. 2, del medesimo art. 17, della direttiva n. 2006/112/CE.
Tra tali esclusioni, sono comprese quelle riguardanti i trasferimenti di beni in regime «sospensivo»
indicate nelle lett. f), g) ed h) del par. 2, del citato
art. 17 e recepite dalla normativa interna nell’art.
41, comma 3 (per le cessioni) e nell’art. 38, comma
5, lett. a) (per gli acquisti), del D.L. 30 agosto 1993,
n. 331(24).
La disapplicazione dell’assimilazione alle cessioni intracomunitarie dei trasferimenti in altro Stato
membro in regime «sospensivo» non si esaurisce,
però, in tali ipotesi previste nella normativa interna e
comunitaria, ma è conseguente anche ad ulteriori fattispecie negoziali, dove il trasferimento dei beni si riferisce a vere e proprie cessioni caratterizzate dal fatto che i relativi effetti traslativi sono sospesi(25).
Proprio in tale ambito, si innestano le problematiche fiscali tipiche dei depositi istituiti all’estero
nell’ambito delle pattuizioni contrattuali del «consignment stock».
Al di fuori dell’ambito comunitario, l’invio di beni presso depositi propri (o presso agenti o commissionari con deposito) in Paesi extracomunitari non
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segue le stesse regole, applicandosi la normativa ordinaria di cui al decreto IVA.
In merito, come verrà meglio specificato nel successivo paragrafo 9.2, si rileva che, per effetto dell’interpretazione fornita dall’Agenzia delle entrate
con la risoluzione 5 maggio 2005, n. 58/E, pare ormai consolidato l’orientamento in base al quale le
cessioni di beni esistenti all’estero, nel momento in
cui si realizza la vendita, devono essere fatturate
fuori campo applicativo dell’IVA ai sensi dell’art. 7,
secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972, in assenza
del requisito territoriale.
8. Il «consignment stock»
nei rapporti intracomunitari
Nella prassi commerciale con il termine «consiNote:
L’art. 17, par. 1, della direttiva n. 2006/112/CE, stabilisce che «è assimilato ad una cessione di beni effettuata a titolo oneroso il trasferimento da parte di un soggetto passivo di un bene della sua impresa a destinazione di un altro Stato membro. Costituisce “trasferimento a destinazione di un altro Stato membro” qualsiasi spedizione o trasporto di un bene mobile materiale effettuato dal soggetto
passivo o per suo conto, fuori dal territorio dello Stato membro in
cui si trova il bene, ma nella Comunità, per le esigenze della sua impresa». Nella terminologia inglese della direttiva, il riferimento alle
«esigenze della sua impresa» è indicato con «for the purposes of his
business».
(20)
L’art. 41, comma 2, lett. c), del D.L. n. 331/1993, comprende tali trasferimenti tra le cessioni intracomunitarie assimilate. La circolare ministeriale 23 febbraio 1994, n. 13/E, diramata a commento della nuova normativa intracomunitaria, nel par. B. 2.2 dedicato alle cessioni
assimilate, indica al punto 3) «l’invio in altro Stato membro da parte
di un soggetto passivo di beni per esigenze della sua impresa, ivi
compresi i beni destinati ad altra impresa comunitaria appartenente
allo stesso soggetto nazionale». Per un’ampia disamina sui trasferimenti «a se stessi», cfr., P. Centore, Manuale dell’IVA europea, IPSOA,
V ed., 2008, pag. 498 ss.
(21)
Ai sensi dell’art. 21, della direttiva n. 2006/112/CE, «è assimilata ad
un acquisto intracomunitario di beni effettuato a titolo oneroso la
destinazione da parte di un soggetto passivo alle esigenze della propria impresa di un bene spedito o trasportato, dal soggetto passivo
o per suo conto, a partire da un altro Stato membro …». La norma
comunitaria è stata recepita nel diritto interno con la disposizione di
cui all’art. 38, comma 3, lett. b), del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito con legge 29 ottobre 1993, n. 427. Tale norma è commentata
nella circolare ministeriale 23 febbraio 1994, n. 13/E, cit., che, nel par.
B. 1.2, specifica come la ricomprensione tra gli acquisti intracomunitari dei beni trasferiti per esigenze dell’impresa da parte di un soggetto passivo abbia «carattere cautelativo, in quanto assicura la possibilità di seguire le successive cessioni in Italia dei beni trasferiti (es.,
beni inviati per deposito o stoccaggio)».
(22)
La procedura dell’identificazione diretta, quale alternativa alla
nomina del rappresentante fiscale ai fini IVA, è stata regolamentata
dalla direttiva 17 ottobre 2000, n. 2000/65/CE ed è stata recepita dal
D.Lgs. 19 giugno 2002, n. 191, per effetto del quale è stato introdotto l’art. 35-ter, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
(23)
Il D.L. n. 331/1993 è stato convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427.
(24)
(25)
Per un approfondimento sulle cessioni di beni ad effetti traslativi
sospesi in ambito comunitario, cfr., P. Centore, op. loc. cit., pag. 498
ss.
DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE
gnment stock agreement» viene usualmente definito
l’accordo tra fornitore e cliente, nella veste di rivenditore o produttore, in base al quale il cedente invia
i beni (merci, materie prime, semilavorati e materiali in genere) presso i magazzini del proprio cessionario, con la particolarità che i beni rimangono di proprietà del cedente fino al momento in cui il cessionario non li preleva per destinarli alla vendita, se rivenditore, oppure per destinarli alla lavorazione, se
produttore.
Effetto del consignment stock è che il cliente non
è obbligato ad acquistare i beni, i quali rimangono di
proprietà del fornitore, dovendo restituirli se, ad una
scadenza predeterminata contrattualmente, non ha
provveduto al loro prelievo dal magazzino per la rivendita o per destinarli alla produzione.
La finalità di tale accordo, inquadrata nell’ottica
della strategia della distribuzione commerciale, è
quella di esonerare il rivenditore dal rischio dell’invenduto che resta a carico del fornitore, ponendosi
in netta controtendenza rispetto alle clausole che
usualmente vengono utilizzate per addossare al rivenditore i rischi economici della mancata vendita.
Tale tipologia contrattuale, sebbene non rientri
nel novero di quelle «nominate» di cui alla normativa civilistica nazionale, è sostanzialmente riconducibile alla fattispecie del contratto estimatorio, quale negozio tipico disciplinato dagli artt. da 1556 a
1558 c.c., in quanto ne condivide i seguenti aspetti
giuridici fondamentali:
- la consegna dei beni mobili dal fornitore («tradens») al cliente - depositario («accipiens») non
implica il trasferimento della proprietà dei beni
stessi a quest’ultimo, il quale acquisisce soltanto
la facoltà di disporne;
- il cliente - depositario si obbliga a pagare il prezzo di acquisto dei beni consegnatigli a meno che
non li restituisca nel termine previsto contrattualmente.
Ai sensi dell’art. 1556 c.c. è, infatti, stabilito che
«con il contratto estimatorio una parte consegna una
o più cose mobili all’altra e questa si obbliga a pagare il prezzo, salvo che restituisca le cose nel termine
stabilito».
Il contratto estimatorio, in cui possono riscontrarsi alcuni elementi riconducibili a tre figure negoziali tipiche quali il deposito, la vendita e il mandato,
ha la funzione economica di esonerare dal rischio
dell’invenduto il rivenditore, analogamente a quanto
avviene per il consignment stock agreement.
Altra caratteristica che accomuna il consignment
stock agreement ed il contratto estimatorio, è quella
di essere impropriamente denominati nella prassi
commerciale con l’espressione «conto deposito» in
quanto, non realizzandosi il trasferimento della proprietà, in entrambi i casi il cliente - destinatario acquisisce unicamente il possesso dei beni presso il
proprio magazzino o presso depositi dove ne ha comunque la disponibilità.
L’assimilabilità al contratto estimatorio e la confusione terminologica dovuta al lessico atecnico della prassi commerciale, rendono quanto mai opportuno analizzare la normativa specificamente applicabile al consignment stock agreement nell’ambito dei
rapporti con soggetti non residenti, al fine di evitare
pericolosi fraintendimenti.
8.1 Normativa IVA applicabile
Con la risoluzione 18 ottobre 1996, n. 235/E, il
Ministero delle finanze si è pronunciato per la prima
volta in merito al contratto di «consignment stock» in
risposta al quesito di una società che aveva inviato
del materiale (a titolo di «consignment stock») dall’Italia in Irlanda nel magazzino del proprio cliente
estero, il quale diventava proprietario dei beni solo
per le quantità che prelevava periodicamente secondo le proprie esigenze produttive e finanziarie.
Al riguardo, l’Amministrazione finanziaria ha
chiarito che, in presenza della particolare clausola
relativa alla vendita dei beni (cd. «consignment
stock») adottata contrattualmente e considerata l’esclusiva di acquisto a favore dell’acquirente, deve
ritenersi applicabile al caso di specie la disposizione di cui all’art. 6, primo comma, del D.P.R. n.
633/1972 e che, pertanto, la cessione dei beni si
considera effettuata nel momento in cui si produce
l’effetto traslativo della proprietà per il soggetto acquirente, «vale a dire all’atto del prelievo dei beni
dal deposito ad opera di quest’ultimo»(26).
È solo al momento del prelievo dei beni, pertanto, che si realizza il presupposto impositivo ai fini
IVA e sorge l’obbligo di emettere la fattura per il fornitore.
Con tale interpretazione, pertanto, viene esclusa
l’applicabilità dell’art. 41, comma 2, lett. c), del D.L.
Nota:
(26)
L’art. 6, primo comma, del D.P.R. n. 633/1972, dopo aver stabilito
che le cessioni di beni mobili si considerano effettuate nel momento
della consegna o spedizione, specifica ulteriormente che, tuttavia,
«le cessioni i cui effetti traslativi o costitutivi si producono posteriormente, …, si considerano effettuate nel momento in cui si producono tali effetti e comunque, se riguardano beni mobili, dopo il decorso di un anno dalla consegna o spedizione».
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DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE
n. 331/1993, riguardante l’invio di beni in altro Stato membro per «esigenze proprie dell’impresa», pur
ricorrendone in linea teorica i presupposti.
Agli effetti di tale norma, se fosse stata ritenuta
applicabile, le spedizioni di beni all’estero nel deposito del cliente comunitario, sarebbero state considerate come operazioni assimilate alle cessioni intracomunitarie, anche se avvenute a titolo non traslativo della proprietà, con i conseguenti obblighi di
fatturazione e registrazione delle operazioni già al
momento della loro effettuazione.
Viene così risolto il primo fondamentale problema interpretativo.
La citata risoluzione n. 235/E/1996 colma, inoltre, un vuoto normativo che rendeva difficoltoso accertare con sicurezza quale fosse la disciplina applicabile in concreto per tali trasferimenti all’estero
con destinazione in altri Stati membri.
Con riguardo ai trasferimenti di beni non implicanti effetti traslativi della proprietà, la normativa
interna in materia di IVA comunitaria prevede, infatti, una disciplina specifica solo in riferimento agli
acquisti intracomunitari.
Tale norma è rappresentata dall’art. 39, comma 1,
del D.L. n. 331/1993 il quale, dopo aver stabilito
che gli acquisti si considerano effettuati nel momento in cui si producono gli effetti traslativi o costitutivi della proprietà, qualora gli stessi si manifestino
successivamente alla consegna dei beni nel territorio dello Stato (od al momento di arrivo nel luogo di
destinazione nel territorio stesso, in caso di trasporto con mezzi del cessionario), prevede espressamente che «nel caso di beni ricevuti in dipendenza di
contratti estimatori e simili, l’acquisto di essi si considera effettuato all’atto della loro rivendita o del
prelievo da parte del ricevente ovvero, se i beni non
sono restituiti anteriormente, alla scadenza del termine pattuito dalle parti e in ogni caso dopo un anno
dal ricevimento».
A differenza degli acquisti, per le cessioni intracomunitarie con efficacia traslativa della proprietà
differita né la norma, né la circolare 23 febbraio
1994, n. 13/E illustrativa della disciplina IVA comunitaria, specificano nulla.
A colmare tale vuoto, come sopra accennato, è intervenuta la risoluzione n. 235/E/1996, con cui
l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto applicabili i criteri generali di cui al decreto IVA in tema di
momento di effettuazione delle operazioni di cessione di beni, indicati nell’art. 6, primo comma, del
D.P.R. n. 633/1972.
Il predetto richiamo normativo, peraltro, è sinto482
Novembre-Dicembre 2009
matico della peculiarità della fattispecie contrattuale del consignment stock, alla quale non è stata ritenuta applicabile la previsione normativa specifica
del contratto estimatorio, contenuta nel medesimo
art. 6, al secondo comma, lett. d).
8.2 Conseguenze operative
e adempimenti fiscali
Alla luce dei chiarimenti forniti con la più volte
citata risoluzione n. 235/E/1996, le conseguenze
operative in capo all’impresa residente fornitrice
che invia i propri beni al cliente estero comunitario,
sono i seguenti:
- all’atto dell’invio dei beni presso il deposito del
cliente comunitario, non sorgono obblighi di fatturazione, non trattandosi di operazione assimilata alle cessioni intracomunitarie, né di compilazione dei modelli Intrastat; sarà, invece, necessario annotare il registro di cui all’art. 50, comma 5,
del D.L. n. 331/1993, relativo ai movimenti di
beni avvenuti a titolo non traslativo della proprietà, sulla base del documento di trasporto utilizzato (sul quale è opportuno indicare che si tratta di trasferimento di beni senza passaggio della
proprietà);
- all’atto del prelievo dei beni dal deposito da parte
del cliente estero, per la successiva rivendita (o
utilizzazione), l’impresa italiana fornitrice dovrà
emettere fattura non imponibile IVA ai sensi dell’art. 41, comma 1, lett. a), del D.L. n. 331/1993;
- si dovrà, quindi, provvedere alla registrazione
della fattura ed alla compilazione del modello Intrastat delle cessioni.
Quanto alla fatturazione da parte dell’impresa nazionale, la stessa potrà avvenire sulla base di apposita comunicazione da parte del cliente estero delle
quantità prelevate dal deposito.
Al riguardo, nell’ottica di permettere il rispetto
dei termini legali di fatturazione da parte del fornitore, è necessario che il contratto preveda il periodo
(settimanale, bisettimanale, mensile) cui fare riferimento per la determinazione dei prelievi ed il relativo addebito dei corrispettivi; occorre, inoltre, che la
comunicazione sia tempestiva al fine di consentire
l’emissione della fattura in adempimento ai predetti
termini.
Oltre che ai fini fiscali, le comunicazioni relative
ai prelievi sono comunque necessarie anche per monitorare costantemente l’ammontare dei beni giacenti in stock, nonché per verificare la situazione
esistente al momento della scadenza del termine
DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE
contrattualmente convenuto per la riconsegna in caso di mancato prelievo.
Il consignment stock agreement, analogamente a
quanto avviene per il contratto estimatorio, può, infatti, prevedere una scadenza predeterminata al termine della quale i beni ancora in deposito presso il
cliente devono essere restituiti o, in alternativa, acquistati in blocco se non riconsegnati.
Se dunque, a tale scadenza, i beni non vengono
restituiti, sarà obbligo del cliente pagarne il prezzo
e, per il fornitore, sorgerà l’obbligo di emettere la relativa fattura di vendita.
Quanto al termine convenuto contrattualmente, si
sottolinea che non sussistono problemi particolari ai
fini fiscali se lo stesso è inferiore all’anno; qualora il
periodo fosse, invece, superiore ai 12 mesi, è necessario considerare che la normativa IVA di cui all’art.
6, primo comma, già citato, prevede il termine massimo di un anno, dalla consegna o spedizione dei beni, decorso il quale le cessioni di beni mobili si considerano in ogni caso effettuate (ai fini IVA), con i
conseguenti obblighi di fatturazione.
8.3 I successivi chiarimenti
Le conclusioni raggiunte con la risoluzione 18 ottobre 1996, n. 235/E sono state successivamente
confermate dall’Amministrazione finanziaria con la
risoluzione 10 aprile 2000, n. 44/E che, in sostanza,
richiama la precedente ribadendone la validità.
Tale risoluzione ministeriale è meritevole di particolare attenzione, in quanto aggiunge ulteriori
chiarimenti che consentono di aggiornare il quadro
interpretativo relativo al consignment stock agreement in ambito comunitario dopo la sua espressa
menzione nell’art. 50-bis del D.L. n. 331/1993, riguardante la disciplina dei depositi fiscali IVA(27).
In particolare, in risposta ad una specifica istanza, viene chiarito che il consignment stock relativo a
beni provenienti da un altro Stato membro può essere utilizzato sia mediante utilizzo di «depositi IVA»
a norma dell’art. 50-bis sopra citato, sia mediante
utilizzo di depositi «non fiscali»(28).
Tale alternativa posta all’operatore economico,
deve però essere valutata alla luce della precisa differenziazione, evidenziata e sottolineata dall’interprete ministeriale, esistente tra le due modalità di
gestire il deposito in relazione ad un accordo di consignment stock.
In sintesi, viene specificato quanto segue:
a) in caso di deposito fiscale IVA, il cliente-destinatario dei beni deve essere anche il titolare del de-
posito in cui vengono immagazzinate le merci del
fornitore comunitario; qualora ciò non avvenga e,
quindi, non vi sia identità tra titolare del deposito e soggetto acquirente finale che provvede al
prelievo dei beni, non può realizzarsi un contratto di consignment stock;
b) in caso di deposito non fiscale, affinché possa
realizzarsi la condizione sospensiva, in base alla
quale il trasferimento della proprietà si verifica
solo all’atto del prelievo dei beni da parte del
cliente - destinatario, la stessa «deve essere collegata alla circostanza che i beni, di proprietà del
cedente, siano nella piena disponibilità del cessionario, ancorché custoditi per conto di quest’ultimo presso un terzo soggetto».
8.4 Considerazioni conclusive
Per quanto concerne la particolare fattispecie
contrattuale del consignment stock in ambito comunitario, si sottolinea che la procedura fin qui illustrata riguarda esclusivamente il soggetto nazionale
e riflette l’interpretazione ufficiale dell’Amministrazione finanziaria italiana.
La deroga all’applicazione della disciplina specifica di cui all’art. 41, comma 2, lett. c), del D.L. n.
331/1993, infatti, è il frutto di un approccio interpretativo al contratto di consignment stock che non è
detto sia condiviso anche dalle Amministrazioni fiscali degli altri Stati membri .
Nonostante la predetta interpretazione abbia dei
presupposti normativi precisi nella legislazione interna di cui al D.P.R. n. 633/1972 ed al D.L. n.
331/1993, fondata a sua volta sulla legislazione comunitaria, gli effetti «sospensivi» del consignment
stock non possono essere considerati automaticamente riscontrabili in ogni Stato comunitario.
L’eventuale mancato riconoscimento di tale fattispecie contrattuale, implicherebbe la configurabilità del trasferimento di beni a se stessi per esigenze
proprie dell’impresa, con la conseguente necessità
di aprire una posizione IVA nel Paese membro di destinazione dei beni, tramite un rappresentante fiscaNote:
(27)
L’art. 50-bis, comma 2, ultima parte, del D.L. n. 331/1993, prevede
una disciplina specifica per «i depositi che custodiscono beni, spediti
da soggetto passivo identificato in altro Stato membro della Comunità europea, destinati ad essere ceduti al depositario; in tal caso
l’acquisto intracomunitario si considera effettuato dal depositario,
al momento dell’estrazione dei beni».
(28)
Per ulteriori approfondimenti, cfr., P. Centore, «Trasferimenti di
beni destinati in depositi presso terzi, contratto estimatorio e consignment stock», in Corr. Trib. n. 22/2000, pag. 1569 ss.
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483
DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE
le o la procedura dell’identificazione diretta, al fine
di effettuare l’acquisto intracomunitario e realizzare
la successiva cessione interna secondo la normativa
IVA ivi applicabile.
Nella pianificazione del consignment stock agreement con un partner commerciale comunitario è necessario, pertanto, verificare in via preliminare se il
relativo regime IVA, valido per l’operatore economico nazionale, sia il medesimo anche secondo la normativa dello Stato membro scelto per istituire il deposito all’estero o se, diversamente, sia invece prevista l’apertura di una posizione IVA.
Occorrerà, inoltre, prestare la massima attenzione anche alle possibili differenze terminologiche riscontrabili nei vari Stati membri, influenzate dai diversi sistemi giuridici, al fine di evitare pericolosi
fraintendimenti sull’uso dello stesso termine «consignment stock»(29).
In tale ottica, è assolutamente necessario definire
correttamente ed in modo chiaro le pattuizioni contrattuali, al fine di delineare compiutamente le caratteristiche giuridiche dell’accordo.
9. Il «consignment stock»
in Paesi extracomunitari
In assenza di interventi ministeriali sul consignment stock nei rapporti con operatori extracomunitari, erano sorti dubbi interpretativi in merito al regime IVA applicabile al momento della fatturazione
delle cessioni(30).
In sostanza, per il fornitore nazionale si poneva
l’alternativa se emettere fattura in regime di non imponibilità ex art. 8, del D.P.R. n. 633/1972, oppure
trattare la vendita come cessione di beni fuori campo IVA ai sensi dell’art. 7, secondo comma, dello
stesso decreto, in assenza del requisito territoriale.
La seconda teoria, fondata sul fatto che il trasferimento della proprietà dei beni avviene nel momento in cui gli stessi si trovano già all’estero e, pertanto, al di fuori del territorio dello Stato, si è andata
consolidando nel tempo con ripetute pronunce dell’Amministrazione finanziaria(31).
Tale orientamento interpretativo poteva indurre,
quantomeno a fini prudenziali, a preferire la tesi
dell’applicabilità dell’art. 7, secondo comma, con
conseguente effettuazione di operazioni fuori campo IVA e perdita del «plafond» previsto per gli
esportatori abituali, con effetti sicuramente penalizzanti.
La situazione di incertezza sopra illustrata implicava una netta discriminazione con il consignment
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stock in ambito comunitario, in merito al quale
l’Amministrazione finanziaria si era già pronunciata in due occasioni(32) confermando l’«unicità» dell’operazione e il differimento del momento impositivo, con conseguente fatturazione in regime di non
imponibilità ai fini IVA ex art. 41, comma 1, del
D.L. n. 331/1993.
In sostanza, in presenza di rapporti tra operatori
di Stati membri comunitari, l’unitarietà della cessione intracomunitaria di beni è stata mantenuta, senza
effetti «interruttivi» determinati dalla consegna precedente al successivo trasferimento della proprietà.
9.1 La risoluzione n. 58/E/2005
Con la risoluzione 5 maggio 2005, n. 58/E, l’Agenzia delle entrate pone fine a tali dubbi interpretativi, pronunciandosi sul contratto di consignment
stock utilizzato nell’ambito di rapporti commerciali
con operatori extracomunitari, estendendo ad esso le
medesime conclusioni già raggiunte per le operazioni intracomunitarie.
L’Agenzia, infatti, sottolinea le specificità giuridiche di tale contratto atipico, evidenziando soprattutto la clausola in base alla quale il cliente - depositario ha un diritto di esclusiva all’acquisto per le
merci che vengono stoccate presso i suoi magazzini;
in tale fattispecie, secondo l’Agenzia, si è in presenza di una cessione a titolo oneroso dei beni che si
realizza «secondo un procedimento che si perfezionerà solo in un secondo momento all’atto del prelievo dal deposito».
Dalla predetta impostazione giuridica del contratto, deriva che l’operazione viene inquadrata come cessione ad effetti traslativi sospesi, con conseguente fatturazione in regime di non imponibilità ai
sensi dell’art. 8, primo comma, lett. a), del D.P.R. n.
633/1972; il concorso alla formazione del plafond,
specifica l’Agenzia, avverrà solo nel momento e nella misura in cui i beni risultano prelevati dal cliente
- depositario e fatturati dal fornitore residente.
Note:
(29)
Si cita, ad esempio, l’esperienza del Regno Unito, dove il termine
che più corrisponde allo schema contrattuale denominato consignment stock dalla prassi ministeriale italiana, è indicato come «call-of
stock». Cfr., per approfondimenti, S. Garelli «Contratto di call-off
stock con fornitore estero», in Fiscalità internazionale n. 1/2007,
pag. 88.
(30)
Cfr., Assonime, circolare 16 maggio 2005, n. 22, pag. 2.
Cfr., nota 6 maggio 1997, n. 1248, C.M. 15 luglio 1999, n. 156/E e
nota 5 giugno 2000, n. 839.
(31)
(32)
Cfr., R.M. 18 ottobre 1996, n. 235/E e R.M. 10 aprile 2000, n. 44/E.
DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE
9.2 Ulteriori precisazioni
In merito alle conclusioni raggiunte dall’Agenzia
delle entrate con la risoluzione n. 58/E/2005, è importante sottolineare che le stesse, come chiarito
nella medesima pronuncia, non sono riproponibili in
mancanza di un contratto di consignment stock oppure in fattispecie «in cui l’operatore nazionale invia
merci verso un proprio deposito situato in un Paese
terzo per la successiva rivendita», in assenza di una
cessione a titolo oneroso al momento dell’esportazione dei beni.
Tali conclusioni, espresse in modo estremamente
sintetico dall’Agenzia delle entrate e senza ulteriori
approfondimenti, devono essere attentamente valutate ed interpretate.
Al riguardo, in attesa di future ed auspicabili ulteriori pronunce che possano integrare la risoluzione
n. 58/E/2005, si ritiene che il ricorso alla fatturazione ex art. 8, primo comma, del D.P.R. n. 633/1972
riconosciuta applicabile al contratto di consignment
stock, sia possibile anche in presenza di fattispecie
del tutto analoghe dal punto di vista giuridico ed assimilabili ad esso per il fatto di prevedere anch’esse
cessioni di beni con effetti traslativi sospesi ai sensi
dell’art. 6, del D.P.R. n. 633/1972, come avviene per
il contratto estimatorio, nella prassi commerciale
spesso definito «conto deposito».
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