Tratta di nigeriane in Europa

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Tratta di nigeriane in Europa
Tratta
di
nigeriane
in
Europa:
indagine
antropologica
sull’integrazione
e
lo
sfruttamento
di Giuseppe Garro
La Royal Niger Company fu giustificata dal governo del Regno
Unito nel 1886 ma già, tra il XVI e il XVII secolo, i
viaggiatori e i commercianti europei avevano fondato città
portuali per incrementare la crescente richiesta di manodopera
“nera” che andava ad alimentare la tratta degli schiavi
destinati alle Americhe; che con costante andamento si
protrasse fino al XIX secolo. La Nigeria divenne protettorato
britannico nel 1901 e colonia nel 1914. In risposta al
crescente nazionalismo nigeriano, in coincidenza con la fine
della Seconda guerra mondiale, i britannici diressero la
colonia verso l’autogoverno su base federale. Alla Nigeria fu
concessa la completa indipendenza il 1º ottobre 1960, come una
federazione di tre regioni, ognuna delle quali manteneva in
misura sostanziale un margine di autogoverno nei confronti
degli inglesi [Ake C. 1985. Political Economy of Nigeria, New
York, Longman Inc.].
Nel tardo periodo coloniale, oltre alla potenza militare
inglese che dominava le classi sociali, anche la stregoneria
era vista come una forza che si riteneva agisse nell’ambito
circoscritto della comunità di villaggio e dalla quale ci si
liberava allontanandosi, o eliminando la persona ritenuta
responsabile. Intorno alla metà del novecento, anzi, essa è
considerata in grado di colpire le vittime anche a distanza,
lungo le reti disperse della parentela e dei percorsi di
mobilità geografica [E. Colson, Tradition and contract. The
problem of order, Chicago, Aldine, 1971]. Negli ultimi
decenni, l’argomento ha occupato con prepotenza la scena
pubblica, amplificato dalla rapidità con cui i mezzi di
comunicazione di massa, all’interno e all’esterno dell’Africa,
hanno trattato notizie rese sensazionali entro una crescente
produzione di immagini e di immaginazione collettiva spesso
stereotipata.
Un giornale di Swahili, esplicitamente dedicato a «La
stregoneria, la superstizione e le vita dopo la morte», è
stato lanciato in Tanzania agli inizi del 2004 con l’obiettivo
di istruire la popolazione e ridurre l’incidenza sociale di
credenze nella stregoneria [Tanzania gets ‘voodoo newspaper’,
Wednesday, 18 february 2004.]. L’anno precedente, una macabra
esposizione di resti umani era stata organizzata a Dar Es
Salaam nel tentativo di rendere pubblico «il commercio
sotterraneo di pelle umana che ha colpito recentemente la
Tanzania meridionale espandendosi in tutto il continente
africano» [Tanzania fights human spinning, Friday, 4 July
2003.]. Progetti di sviluppo sono stati finanziati, nel corso
della fine degli anni Novanta, per gestire l’emergenza degli
omicidi anti-stregoneria nelle regioni settentrionali del
paese [Tackling eitch murders in Africa, Tuesday, 29 October
2002, by Daniel Dickinson]. L’opinione pubblica, comunque,
resta divisa principalmente in due parti: quelli che
considerano la stregoneria una piaga sociale e morale da
estirpare, anche con l’aiuto dell’autorità statale, e quelli
che invece professano posizioni scettiche e razionalistiche.
Ma cosa significa parlare di stregoneria? Per l’antropologia
Gaschiere ricopre un ruolo fondamentale per concepire il clima
su cui si muove una prospettiva teorica sul fenomeno. Egli
conferisce al fenomeno una sfumatura politica più che
economica. La sua tesi si riassume in due enunciati: il
fenomeno “Stregoneria” aiuterebbe a comprendere alcuni aspetti
della politica dell’Africa post-coloniale; essa è un mezzo
utilizzato da una varietà di soggetti per ottenere risultati
nell’area politica [Alice Bellagamba, Fuori dal Villaggio, VI,
p. 146.]. Per cogliere queste implicazioni, però, bisogna
compiere tre passaggi.
Il primo è abbandonare l’idea secondo cui il termine
stregoneria raggruppi al suo interno un insieme di pratiche e
concetti fra loro sempre e comunque interconessi (la loro
longevità deve essere letta nei termini di una massa di valori
e credenze, appropriate e costantemente immaginate da soggetti
differenti in situazioni storiche ben specifiche).
Il secondo passaggio consiste nel rompere l’associazione tra
stregoneria e tradizione, poteri invisibili e atavismo, che la
mentalità coloniale ha nel tempo elaborato. Si deve fare uno
sforzo per uscire dalla biblioteca coloniale entro cui
stregoneria, magia e
un fardello da cui
considerarle invece
pensare ed agire nel
forze invisibili sono rappresentate come
l’Africa faticherebbe a liberarsi, e
strumenti che la popolazione usa per
presente storico.
Infine, si deve smettere di studiare la stregoneria come un
fenomeno tipicamente da villaggio, che acquisisce un senso
all’interno di ambiti sociali circoscritti. Da quanto
analizzato sino a questo momento, due cose saltano all’occhio,
la prima riguarda gli esseri umani coinvolti entro questo
sistema semiotico e culturale cui il fenomeno si riconduce, la
seconda si riferisce a quelle pratiche di matrice religiosa
che si identificano nella prassi del voodoo, o ju-ju – come
spiegano i nigeriani- o stregoneria come la definiscono gli
occidentali.
Tra questi due poli, una intelaiatura si fa spazio pronta ad
unire alle proprie estremità donne, cultura e viaggio. Il
viaggio, che in questo caso è una vera e propria tratta, non
vista come quel fenomeno storico che ha avuto un’incidenza
allarmante, per quanto concerne la dimensione e la portata
degli individui messi in gioco tra il XVI e il XIX secolo (ove
anche le statistiche non appaiono sempre attendibili, i numeri
variano così velocemente che rendono difficile, se non
impossibile, una stima corretta dell’esatto numero degli
esseri umani che hanno subito una tale brutalità), ma come una
nuova tratta la cui incidenza risulta più allarmante nel mondo
attuale, una sorta di schiavitù continuata, contemporanea.
Al giorno d’oggi, con scarsa attenzione al fenomeno da parte
dei sociologi e degli antropologi, l’emigrazione africana,
anche se ha mutato nelle proporzioni, è rimasta una vera e
propria tratta di esseri umani che si è vista negare quei
valori morali e culturali di cui l’Europa si era fatta carico.
Una certezza emerge drammaticamente: le donne e i bambini sono
le vittime di questa attività criminale che è in continuo
aumento. La tratta, o meglio – l’emigrazione forzata -, di
donne, bambini e bambine oggi ha un impatto crudele sulla
realtà che difficilmente trova soluzioni.
Un dato inquietante è quello che viene fuori dell’Italia,
Paese prediletto e punto di arrivo d’un viaggio che per le
vittime diviene un vero e proprio incubo. Mentre sono note le
rotte che passano dall’est Europa – oggetto approfondito da
uno studio nell’ambito della ricerca denominata WEST i cui
risultati sono pubblicati e consultabili sull’apposito sito –
rimangono, invece , ancora estremamente difficili i contatti
con l’Africa dove, però, la Nigeria si presenta come il paese
dal quale inizia solitamente il lungo viaggio.
Le analisi delle vicende nigeriane portano ad individuare in
Benin City il luogo di partenza e la Sicilia (o la Spagna)
quello di arrivo di ragazzi e ragazze che vengono poi condotti
in altri territori italiani, come ad esempio l’Umbria, il
Piemonte, l’Emilia e la Toscana. Benin City, capitale di Edo
State, spesso viene descritta come uno dei “regni
dell’illegalità” più potenti dell’Africa occidentale e dove le
autorità, gli uomini i politici e l’amministrazione “si
nutrono di occulto” e si impongono su tutte le questioni
concrete, compresa quella delle donne trafficate in Italia per
essere immesse nel mercato dello sfruttamento sessuale. Un
meccanismo di business fatto sulla pelle di ragazze giovani,
che si regge sulla logica della domanda e dell’offerta, e che
si snoda dalla Nigeria all’Italia lungo le vie della tratta,
gestita da organizzazioni internazionali, che vengono ormai
identificate come vere e proprie “mafie”. Sembra che da Benin
City, attraverso il Ghana, o la Spagna, o la Sicilia provenga
la stragrande maggioranza delle ragazze trafficate in Italia:
Benin City si appalesa come il centro di quell’intricato
intreccio di business e traffici di azioni pseudo legali, di
riti tradizionali e di finanza che è all’origine della tratta:
un giro di favori, ricatti, doni e minacce di dimensioni
vastissime e complesse.
Il fenomeno della tratta proveniente dalla Nigeria presenta
però alcune peculiarità proprie:
– Il reclutamento della vittima nel villaggio.
– il viaggio.
– la contrazione del debito.
– la madam.
– la soggezione attraverso il rito hoodoo.
– la tenacia nel richiedere il pagamento del debito.
Nel caso in cui avviene la fuga della vittima
– la violenza esercitata in Nigeria sui familiari della
vittima che è fuggita, oppure che ha sporto denuncia.
A differenza di altre organizzazioni criminali che usano la
forza come mezzo coercitivo, in questo caso lo stato di totale
assoggettamento della vittima – paragonato ad uno stato di
schiavitù – viene
ottenuto soprattutto
attraverso la pratica
del rito hoodoo. Il
“voodoo”
(dai
nigeriani
chiamato
“ju ju” ) è il modo
in
cui
la
gente
nigeriana vive ed
interpreta la realtà.
Un sistema religioso a tutti gli effetti, con pratiche e
credenze che uniscono una intera comunità morale la quale si
riconosce nei vincoli prescritti dalla tradizione. C’è da
precisare che l’hoodoo, spesso confuso con il voodoo, non è
una vera e propria istituzione religiosa. Essa è un’insieme di
riti afro-americani, connotate di indole cristiana-ebraica,
che consiste in azioni rituali scanditi dal tempo e dalla
forza che il babalau (uomo) o madam (donna) conferiscono
all’evento. Tutti vi credono fermamente, anche la gente di
fede cristiana, anche chi ha un grado di istruzione medio
alto. È un’elaborazione molto forte a cui la popolazione si
lascia andare e da cui la semiotica ju ju prende corpo. È con
lo ju ju, che il “babalau” (lo stregone) o la “madam” di turno
miete le proprie vittime. Egli le inizia attraverso
procedimenti diversi: alcune volte mischia gli indumenti
intimi delle ragazze, o parti intime del loro corpo (come i
capelli, i peli, le unghie…) con essenze particolari che
faranno bere alle vittime asservendole così al loro volere;
sono “pozioni che danno loro potere” ma che incutono paura
alla vittima. Lo ju ju serve così a scongiurare il pericolo di
far rivelare i nomi di coloro che conducono il traffico in
Europa e in Nigeria. È una sorta di filo, o una catena, che
lega alle due estremità trafficanti e ragazze. Così le ragazze
restano incatenate ai loro aguzzini e a loro volta dovranno
onorare e/o confermare il contratto di compra vendita e di
trasporto stipulato, in gran maggioranza con il padre (spesso
questi contratti hanno anche una forma di pseudo legalità; una
sorta di accondiscendo sul debito contratto per pagare il
viaggio, e che servirà per eventuali ritorsioni sulla famiglia
di origine). Le storie si ripetono sempre inesorabilmente
uguali, persino nella loro crudeltà. Per illustrare meglio la
situazione e soprattutto la sofferenza delle vittime di
traffickig possiamo tentare di fare una breve sintesi.
Accade, per lo più, che nella periferia di un villaggio
nigeriano, una famiglia numerosa ed estremamente povera si
trova costretta a vendere una figlia – solitamente minorenne –
ad un trafficante, che spesso proviene dal Ghana. La famiglia
ovviamente ignora quelle sarà il destino già segnato della
giovane. Da qui nasce il debito della ragazza nei confronti
del trafficante che verrà maggiorato dalle spese del viaggio;
una sorta di dote che lei dovrà guadagnarsi per ricominciare
una nuova vita. La ragazza talvolta accetta di buon grado
quello che crede un cambiamento in positivo della propria
vita, perché convinta di trovare lavoro in una fabbrica, o
sarà ospitata come parrucchiera in qualche parte d’Europa da
amici connazionali da cui non deve temere nulla.
Inizia quindi il viaggio, solitamente a piedi e in un gruppo,
accompagnata da uno o più trafficanti. A seguito di vari
spostamenti, all’interno della Nigeria e del Ghana, si arriva
sino alla riva del mare. Da qui le ragazze vengono
“traghettate” con imbarcazioni di fortuna sino alla Spagna (è
usuale che per varie ragioni non tutte le ragazze sopravvivano
alla traversata perciò quelle che muoiono vengono gettate in
mare, senza alcuno scrupolo). Una volta in Spagna (o in
Italia, siamo in un ipotetico viaggio) ci può essere un cambio
di guardia tra i trafficanti, oppure accade che le ragazze
vengano vendute – nuovamente – ma ad un prezzo più che
quadruplo di quello che è stato pagato all’origine alla
famiglia. Il passaggio delle frontiere europee avviene
attraverso un meccanismo complesso e talvolta anche grazie a
documenti falsi. Una volta in Italia le ragazze vengono
private dei documenti posseduti e capiscono che il loro unico
lavoro sarà la prostituzione. Vengono quindi addestrate alla
vita di strada con la forza, con la violenza, con minacce di
ritorsioni alla famiglia, ma soprattutto terrorizzate dal rito
hoodoo (effettuato prima della partenza). «Hai con noi un
debito di 70.000 € da rimborsare per le spese sostenute per il
tuo viaggio e dopo sarai libera», «noi abbiamo speso tanto per
portarti qui e devi ringraziarci di essere in Italia»»: questo
è quello che una donna può sentirsi rinfacciare giornalmente
dai loro vessatori.
Non c’è scampo, si “lavora in strada” al mattino sulle statali
e sui raccordi autostradali e di notte nei vicoli della città.
La storia è sempre uguale, così ogni ragazza piange, si
dispera, medita la fuga ma è terrorizzata dalle ritorsioni
sulla famiglia, dalle maledizioni del rito, dalla violenza
della sua “madame”. Gli ospedali sono i luoghi in cui le
ragazze acquistano coraggio e si confidano con qualche
infermiera che le mette in contatto con le forze dell’Ordine
e/o con gli operatori di una casa di accoglienza. A questo
punto la ragazza “viene accolta in fuga”, inizia la trafila
burocratica che le consente di ottenere il permesso di
soggiorno (in base all’ art. 18 del T.U. sull’immigrazione),
denuncia la” madame” e affronta il processo. Grazie alla
struttura in cui viene accolta la ragazza ricomincia una vita
normale, impara la lingua italiana, gode di assistenza
psicologica e culturale, riesce ad ottenere un lavoro
“onesto”, e in casi eccezionali partecipa al processo contro i
suoi sfruttatori, magari assistita da un avvocato che cercherà
di garantirle la sicurezza di un giusto processo.
Se
l’incubo
della
segregazione in Italia
sembra essere dissolto
il risveglio non è meno
amaro a causa delle
notizie che arrivano
dai
famigliari
in
Nigeria. La “fuga”
della ragazza, la sua
denuncia e persino la
celebrazione
del
processo a carico della
sua madam, e dei suoi vari “aiutanti” nella gestione della
tratta, provoca violente ripercussioni.
«Tuo padre è stato portato via per essere sottoposto al rito»
oppure «una donna e due uomini armati si sono presentati in
casa dove vive la famiglia e, puntando una pistola alla tempia
del fratellino più piccolo, hanno picchiato la mamma,
pretendendo da lei il saldo del debito e la mia assenza dal
processo che si sta celebrando in Italia»: ecco cosa potrebbe
accadere alla nostra ipotetica ragazza. La reazione è
scontata, la denuncia in Italia delle violenze sui familiari
non porta ad alcun risultato pratico, le più fiduciose
richieste di rogatorie internazionali cadono nel vuoto e alla
vittima non rimane che “rientrare nel giro” della illegalità,
lasciando la “casa accoglienza”, il nuovo lavoro con la
conseguente revoca del permesso di soggiorno. Il ciclo
ricomincia, ma questa volta per la ragazza è peggio di prima:
chi la vuole incontrare si può recare di giorno sui raccordi e
sulle statali, di notte alla stazione o verso lo stadio. Il
processo contro la sua madame si sarà anche concluso con la
condanna, perché comunque le varie prove erano sufficienti, ma
la madame è però “irreperibile” (….e forse il prezzo della sua
fuga e del rientro in Nigeria è stato pagato con i soldi che
la ragazza ricomincia a consegnare alla nuova “padrona”). La
sentenza avrà anche ordinato il pagamento del risarcimento in
danno, ma tutto questo rimane solo su carta. Le chiamano
“prostitute”, ma sarebbe meglio dire Prostituite, ragazzine
costrette a vendere se stesse, il loro corpo, la loro dignità,
ridotte a merce di un traffico che ha assunto la intollerabile
forma di una delle peggiori schiavitù contemporanee.
Secondo la c.d. “Direzione Nazionale Antimafia”, che con la
c.d. “Transcrimine” si occupa del problema a partire dalla
firma della Convenzione ONU sulla criminalità organizzata
transnazionale (Palermo 2000), nel sistema italiano lo
strumento
di
maggior
interesse
è
rappresentato
dall’applicazione dell’art. 18 del T.U. sull’immigrazione: il
permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ha,
infatti, favorito le denunce e stabilizzato sul territorio i
potenziali testimoni. Dal punto di vista pratico tale norma
cerca di assicurare un minimo di tutela alle vittime, dato che
il sistema approntato dal legislatore con l’art. 18 dl 286 del
1998 offre un mezzo assolutamente valido per garantire alle
vittime di tratta e prostituzione forzata una reale e valida
assistenza per liberarsi dalla condizione disumana in cui
versano .
Il rilascio del permesso di soggiorno è condizionato dalla
presenza di elementi oggettivi quali le accertate situazioni
di violenza o grave sfruttamento di cittadini stranieri, il
concreto, grave ed attuale pericolo per la loro incolumità da
un lato, e dall’altro, la rilevanza del contributo offerto
dalla vittima stessa all’attività investigativa dell’autorità
giudiziaria finalizzata alla lotta contro l’organizzazione
criminale. Di certo, la collaborazione della vittima non può,
in virtù del carattere umanitario della norma, essere usata
come oggetto di scambio, non può essere offerta per ottenere
il rilascio del permesso di soggiorno, così come la mancata
collaborazione non può, da sola, giustificarne la revoca. In
realtà, il sistema dell’art. 18 incentiva la collaborazione,
ma non scaturisce da essa.
L’indicazione di rischio è venuto fuori durante alcuni
accertamenti in cui la strumentalizzazione della norma, da
parte di immigrati illegali per ottenere l’accesso a strutture
assistenziali, hanno alimentato nuovi rischi per la vittima,
con tutto ciò che ne consegue. Tali rischi, però, possono
essere evitati con un’attenta valutazione dei piani
d’intervento e della serietà delle organizzazioni interessate.
D’altro canto la istituzione in seno ai progetti di attuazione
dell’art. 18 di uffici legali, con avvocati che valutano con
competenza e attenzione i casi nei quali il ricorso alla via
giudiziaria appaia utile, si è rivelata determinante alla
riduzione dei rischi di strumentalizzazione.
L’esperienza dimostra che, per intraprendere il cammino verso
la libertà ed l’indipendenza dai trafficanti occorre
consentire alle vittime trafficate di poter subito fruire
dell’accoglienza della prima assistenza e del permesso di
soggiorno che le toglie dallo stato di illegalità involontario
in cui si trovano. L’art. 18 testo unico sull’immigrazione
interviene in questo contesto prevedendo anche la istituzione
di programmi di assistenza e di integrazione sociale, veri e
propri percorsi di “doppio binario “, giuridico e sociale per
soggetti stranieri, in particolare per le donne e i minori,
che intendano sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti di
personaggi dediti al traffico di persone a scopo di
sfruttamento sessuale.
L’auspicio è di individuare nuove strategie per il contrasto
di questi crimini, che si rivelino determinanti, così come lo
è stata l’attuazione dell’art. 18 del TU sull’immigrazione che
ad oggi ha permesso di togliere dalla schiavitù del
marciapiede più di 3.000 donne. Lo strumento previsto
dall’art. 18 in esame deve essere assolutamente preso in
considerazione dalle procure nazionali attuando programmi di
assistenza e di integrazione sociale, come previsto dall’art.
18 D.L.gls. n° 286/98.
Il programma deve essere finalizzato alla assistenza ed
integrazione sociale delle donne immigrate, vittime della
tratta e di violenza ai fini di sfruttamento sessuale onde
salvaguardare il diritto alla salute delle stesse, il diritto
alla loro integrità psicofisica, il diritto alla libertà
sessuale contro ogni forma di soprusi e violenza, tutelando la
loro dignità e favorendo il pieno sviluppo della loro
personalità. Alle vittime accolte in fuga deve essere
assicurata la possibilità di avvalersi di una assistenza
legale, in modo gratuito, che le assiste nella fase della
preparazione del processo e le rappresenta nel momento del
giudizio.
Le vittime non devono essere lasciate da sole: la comunità
deve rappresentare il proprio sdegno nei confronti del
fenomeno criminale rivendicando il dovere istituzionale la
tutela dei diritti umani.