Anno X, n.3 (30), Settembre-Dicembre 2004

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Anno X, n.3 (30), Settembre-Dicembre 2004
Quadrimestrale di archeologia subacquea e navale
Sped. in abb. post. 70% - Autorizz. Filiale di Bari - Anno
X, n. 3 (30), Settembre - Dicembre 2 0 0 4
Corsi, Convegni: IKUWA 2,
Lezioni Fabio Faccenna, Archeologia
navale mediterranea a Barcellona
•
Notizie: Il mosaico del naufragio
di Populonia, Archeomar,
Il tesoretto di Rimigliano
•
Musei: Le navi vichinghe di Oslo
•
Speciale: Napoli
•
Recensioni e
segnalazioni bibliografiche
Se dieci anni vi sembran pochi
E
così, quasi senza rendercene
conto, come sempre accade
quando le cose si fanno con
interesse e passione, siamo arrivati a
10 anni, 30 fascicoli, 604 pagine di
archeologia subacquea e navale. Chi
ci conosce sa bene che non amiamo
affatto le celebrazioni, e meno che
mai le autocelebrazioni. Ma forse può
essere non del tutto superfluo un
bilancio, o meglio una riflessione,
prendendo le mosse da quell’editoriale del n. 1, nel quale si indicavano le
linee programmatiche del giornale e il
senso dell’iniziativa. Così definivamo
L’archeologo subacqueo: «...uno
strumento più agile, che consenta di
disporre di un’informazione rapida
sulle attività di ricerca in corso, su
pubblicazioni e convegni incentrati su
tematiche concernenti l’archeologia
subacquea, sulle occasioni di formazione, di dibattito e di approfondimento. Una sede autonoma e indipendente capace di garantire un confronto libero, franco, possibilmente spogliato da ipocrisie e da logiche
“accademiche”, un dibattito anche
aspro ma sempre civile e corretto.
Una sede in cui affrontare i temi
legati all’individuazione e alla valorizzazione della figura professionale
dell’archeologo subacqueo e della
sua deontologia, approfondire sia gli
aspetti tecnici e metodologici della
professione sia le problematiche sto-
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riche, promuovere il
dibattito sulla politica nel campo dei
beni culturali, con particolare riferimento a quelli sommersi».
Ripercorrendo le pagine di tutti i fascicoli finora pubblicati credo che questa funzione sia stata ampiamente assolta.
Si è dato conto di centinaia di convegni,
seminari, incontri, conferenze e mostre
tenuti in Italia e all’estero, a volte riportandone solo la notizia, ma spesso anche
fornendo ampi resoconti. Sono stati inoltre illustrati, quasi sempre a cura dei
diretti responsabili delle ricerche, i risultati di numerosi scavi di relitti, di ricerche su strutture sommerse e impianti portuali, su siti sommersi, insediamenti
lacustri, o di ricerche territoriali e progetti di carte archeologiche. Secondo lo
spirito del giornale, pari attenzione è
stata riservata alle attività sottomarine e
a quelle, per la verità meno
numerose, condotte in
ambito lacustre, fluviale e
in contesti umidi (si veda il
box a p. 3).
Non sono mancate interviste ad alcuni dei più autorevoli studiosi del settore (A.
Raban, P. Pomey, J. Gawroski, J. Litwin, J. Steffy) e
analisi dedicate ad alcuni
dei fondatori della disciplina, primo fra tutti Nino
Lamboglia, ma adeguata
attenzione è stato riservato
anche ai giovani e giovanissimi, sia con interventi
diretti sia dando notizia delle tesi di laurea discusse in Italia su argomenti legati
all’archeologia subacquea e navale. Allo
stesso modo, accanto alle novità, si è
ritenuto di dedicare ampio spazio, magari
cogliendo lo spunto di una ricorrenza,
anche a vecchi scavi o a scoperte fondamentali, dalle navi di Nemi ai Bronzi di
Riace e a Porticello.
Un’altra sezione di cui si può andare
orgogliosi è quella relativa
ai musei di archeologia
subacquea e navale, nella
quale accanto ai grandi
musei specializzati sono
stati segnalati anche piccoli
antiquaria o a volte sezioni
dedicate all’archeologia
subacquea collocate all’interno di musei archeologici; più recentemente si è
avviato anche un censimento dei parchi archeologici
subacquei: si
dispone così
di una sorta
di guida alle
esposizioni museali italiane
e straniere, che contiamo di
completare nei prossimi
anni e che sarebbe interessante, infine, raccogliere in
un fascicolo monografico.
Nella sezione delle recensioni e segnalazioni bibliografiche è stata raccolta
buona parte della produzione scientifica italiana e
straniera dell’ultimo decennio, con quasi 150 titoli:
anche in questo caso, secondo lo spirito
critico del giornale, accanto a recensioni
Visite guidate ai fondali di Empuries
U
n’iniziativa simpatica e utile è stata organizzata dal Centro di Archeologia
Subacquea della Catalogna e dal Museo di Empuries per visitare i fondali
del sito archeologico di Empuries, durante il periodo estivo (dalle ore 11 alle 19).
Sulla spiaggia è stato allestito un centro visita, dove una guida-archeologo conduce i visitatori alla conoscenza dell’antico porto della città, i cui resti di età
greca e romana sono visitabili nello splendido parco archeologico. È sufficiente
nuotare fino a 50 metri dalla riva per ammirare i resti delle strutture portuali di
Ampurias, importante centro commerciale del Mediterraneo occidentale. Si tratta
di un’iniziativa intelligente per completare la visita dell’area archeologica con
una piacevole nuotata: i nostri complimenti ai colleghi catalani. Per informazioni: www.mac.es; [email protected].
RICORDO DI EZIO
P
ermetteteci di rivolgere un pensiero di grande affetto e grato riconoscimento
a Ezio Mitchell, che per molti di noi è stato un maestro e un riferimento
importante. Ci ha lasciati a settembre e lo ha fatto come sempre nella sua vita
intensa: lavorando tanto – forse troppo – con dedizione unica alle cose che più
amava. Non è da lui fermarsi: lì dov’è adesso starà disegnando qualcosa.
R.A.
anche molto positive non sono mancate
sonore (e documentate) stroncature. Non
minore attenzione abbiamo dedicato ad
un altro ambito importante dell’attuale
comunicazione in campo archeologico,
Internet, con una serie di servizi sull’archeologia subacquea on-line.
Ma forse il cuore del giornale è stato rappresentato dal dibattito
‘politico culturale’ sulla
situazione dell’archeologia
subacquea in Italia e all’estero, con editoriali, documenti, lettere al Ministro
dei Beni Culturali, testi
legislativi, risoluzioni Unesco, ampi servizi sulla storia e l’organizzazione della
ricerca in altri paesi (Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, Danimarca, Ungheria) o su prestigiosi centri
di ricerca internazionali
come l’INA, il DRASSM, il
CASC, ecc.
Nonostante i toni a volte un po’ aspri,
abbiamo esercitato liberamente il nostro
spirito critico, con la maggiore obiettività possibile e sempre allo scopo di sottolineare l’alta specificità della disciplina
e della professione, e per promuovere il
dibattito e il confronto, anche duro se
necessario, sugli aspetti scientifici, metodologici e deontologici. Del resto, su queste pagine hanno avuto spazio voci anche
contrastanti.
Scorrendo le pagine del giornale si può
di fatto ripercorrere la storia più recente
della disciplina e dell’organizzazione
della didattica, della ricerca e della tutela. Non è il caso di trasformare questo
breve bilancio sulla nostra piccola esperienza editoriale in una riflessione complessiva sulla situazione dell’archeologia
subacquea italiana nell’ultimo decennio,
anche perché, in sostanza è cambiato
pochissimo e, se possibile, la situazione
è peggiorata a livello di organizzazione
della tutela e della ricerca: non si dispone
ancora di una legge adeguata sull’archeologia subacquea, lo STAS dopo
quasi un ventennio di discutibile attività
è stato di fatto ridotto ad una sigla, gli
scavi di relitti o siti sommersi si contano
sulle dita di una mano e sono quasi sempre legati all’‘emergenza’ o alla ‘scoperta sensazionale estiva’, manca ancora
una politica di programmazione e di
ricerca sistematica, ma al contrario si
continuano a privilegiare i grandi progetti milionari che rischiano di restare senza
seguito. Al contrario la disciplina ha
conosciuto un’espansione notevole in
ambito universitario, favorita anche dai
nuovi ordinamenti: dagli isolati casi di
un decennio fa si è passati ad una presenza assai diffusa di corsi universitari, sia
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pure con caratteristiche e
peso diversi (alle Università di Bologna-Ravenna,
Catania, Foggia, Lecce,
Napoli 2, Palermo-Agrigento, Pisa, Roma 3,
Venezia) e addirittura alla
creazione di curricula
(Sassari) o di Corsi di Laurea in Archeologia subacquea (Viterbo) o in
Archeologia navale (Bologna-Trapani), non senza,
secondo il parere di chi
scrive, un qualche rischio
di esagerazione, trattandosi di lauree di primo livello, di fatto incompatibili con l’approfondimento culturale e metodologico di una
disciplina così specialistica. Ma di questo e di molti altri temi continueremo a
discutere sulle pagine di questo giornale
nei prossimi anni.
In conclusione, sarebbe ipocrita negare
l’esistenza di alcune difficoltà anche per
il nostro giornale (che in qualche modo
risente inevitabilmente del clima generale della disciplina), come dimostra peraltro anche il ritardo con cui questo stesso
numero 30 giunge agli abbonati. Tutti i
collaboratori prestano la loro opera in
forma assolutamente volontaria e non è
facile garantire un tale sforzo per un
periodo così lungo: gli impegni lavorativi, scientifici, professionali, familiari
gravano su tutti!
Servono anche nuove energie, e ancora
una volta rinnoviamo il nostro invito alla
collaborazione. Inoltre è bene non
nascondersi un problema di fondo, cui si
faceva cenno poco fa: in Italia si produce
sempre meno ricerca archeologica subacquea (soprattutto di qualità) e dunque
rischia a volte di mancare ‘la materia
prima’.
Il giornale nacque in un clima di grande
entusiasmo nell’ambito dell’archeologia
subacquea italiana, a pochi anni di distanza
dalla costituzione dell’Associazione Italiana degli Archeologi Subacquei (AIASub),
alla quale L’archeologo subacqueo è rimasto sempre vicino (i fondatori e i collaboratori ne fanno tutti parte).
Rispetto al ristretto gruppo di amici che
nel 1995 decise di dar vita a L’archeologo subacqueo non c’è più Fabio Faccenna, che con il suo entusiasmo e la sua
riconosciuta competenza era stato tra i
più attivi fautori del progetto. È stata per
noi una grave perdita, sotto il profilo
umano oltre che scientifico: abbiamo
cercato di conservare vivo (sperando di
riuscirci) il significato profondo che
Fabio attribuiva alla nostra disciplina,
come ricerca e professione altamente
specializzata, sia nelle pagine del giornale
sia mediante iniziative culturali ed editoriali
come le Lezioni Fabio Faccenna e il suo volume sui
relitti di età postclassica, di
prossima uscita nella serie
Biblioteca de L’archeologo
subacqueo.
Senza alcuna retorica, vorrei
ringraziare in questa occasione tutti i collaboratori e gli
autori degli articoli e soprattutto gli abbonati, e in particolare i numerosi abbonati
sostenitori, che con il loro
consenso rendono possibile
questa pubblicazione.
Dopo dieci anni, non ci sembra necessario proporre
restyling e modifiche sostanziali all’impianto grafico, che ha conservato nel tempo la
sua freschezza e originalità. Un’unica piccola modifica ha riguardato il corpo del
testo, diventato un po’ meno microscopico:
gli anni passano e la vista non è più quella
di una volta!
A dieci anni da quel primo editoriale, mi
piace chiudere con le stesse parole usate
allora, perché quell’auspicio finale sembra
quanto mai attuale, valido, speriamo, per il
prossimo decennio: «In conclusione, L’Archeologo subacqueo si propone di essere
essenzialmente un osservatorio sull’archeologia subacquea, un luogo di incontro e di
dibattito.
Se potrà [continuare a] contare sul contributo dei suoi lettori, archeologi subacquei
e (soprattutto) non, tenterà di vincere la
sua non facile scommessa».
G.V.
NEI PRIMI 30 FASCICOLI:
• Relitti: Ulu Burun, Ma’agan Michel, Arles
4, Grado, Brindisi, Crotone, Gela, Giglio,
Tantura, Capo Linaro, Punta Iria, Terracina, Culip VI, Punta Ala, Bagaud 3, PortMan 1, Olbia, Pisa, Tektaş Burnu, SaintMalo, Grand Ribaud F, U Pezzu, Leporano, San Vito, Brunei, Escombreras, Cala
Sant Vicenç, Gnalić, Albenga B, Gela II,
Mercure;
• Strutture sommerse e impianti portuali:
Anzio, Cesarea Maritima, Marsiglia,
Kyme Eolica, Nea Paphos, Ponza, Sidone, Tiro, Thasos, Ustica;
• Siti sommersi: Baia, Bacoli, Santa Severa;
• Insediamenti lacustri: Bracciano, Frassino,
Banyoles;
• Carte archeologiche: Salento, Laguna di
Venezia, Yemen, Lazio, Isole di Hyères,
Pantelleria, Eolie, Libia, alto Adriatico,
Istria;
• Musei di archeologia subacquea e navale:
Bodrum, Cartagena, Malta, Mainz, Adge,
Fiumicino, San Sebastian, La Maddalena,
Lipari, Giza, Danzica, Roskilde, Pireo,
Venezia, Barcellona, Marsala, Lisbona,
Stoccolma, Oslo; Santa Severa, Ponente
Ligure, San Vito Lo Capo, Dock Romains
e Museo della Storia di Marsiglia, Ecija,
Antibes, Ventotene, Marina di Ravenna,
Pirano, Peniscola; Marsiglia, Sassnitz;
• Parchi archeologici subacquei: Baia, Gaiola, Ustica.
UN CORSO DI ARCHEOLOGIA NAVALE MEDITERRANEA
ALL’ UNIVERSITÀ DI BARCELLONA
S
i svolgerà a Barcellona, tra il 31
gennaio e il 28 febbraio un
corso post lauream di Archeologia
Navale del Mediterraneo. La presenza dell’archeologia subacquea e
navale nelle aule universitarie è una novità degli ultimi anni anche in Spagna,
dove non esiste ancora un titolo accademico specifico in questo settore. Sono i
vari organismi autonomi che si occupano di archeologia subacquea, e cioè quelli
della Catalunya, della Comunidad Valenciana, dell’Andalucía e di Cartagena
(Ministerio de Cultura), ad avere la possibilità di formare gli archeologi subacquei. Manca però ancora un collegamento organico con il mondo della formazione universitaria. Anche per questo motivo è stato organizzato questo corso di specializzazione, che sarà tenuto da ottimi specialisti, tra cui Xavier Nieto. Per informazioni: www.ub.es/prehist
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CORSI
CONVEGNI
INCONTRI
I
l secondo Convegno Internazionale
di Archeologia Subacquea si è svolto dal 21 al 24 ottobre presso l’Istituto Gottlieb-Duttweiler di Ruschlikon
(Zurigo). L’impeccabile organizzazione,
curata dalla Società Svizzera di Archeologia Subacquea, è stata premiata da
un’alta affluenza.
Il convegno è stato aperto dal veterano
Ulrich Ruoff, già archeologo cantonale
di Zurigo e autore di numerosi scavi in
quel lago.
La prima sessione dei lavori è stata dedicata ai luoghi di culto sott’acqua: hanno
preso la parola Felix Müller di Berna,
Christina Marangou di Atene, Andrej
Gaspari di Lubiana e Yves Billaud di
Annecy. L’ultimo intervento ha riguardato i rapporti tra le emergenze carsiche
e l’archeologia (il caso delle offerte di
monete di Fontaine de Vaucluse, Francia), riportando l’attenzione su un tema
più propriamente di archeologia subacquea.
Il pomeriggio di giovedì 21 ha avuto
luogo la prima parte della sessione dedicata agli abitati sommersi, con gli interventi di Christian Strahm di Friburgo,
Harald Lubke di Lubstorf, Jorgen
Dencker di Copenhagen e Garry Momber di Southampton. Particolarmente
interessante l’intervento di Lubke sui siti
preistorici sommersi nella baia di
Wismar.
Venerdì 22 si sono tenuti numerosi
interventi: Juris Urtans e Voldemars
Rains di Riga sulle nuove scoperte nel
Lago Latvian; Waldemar Ossowski e
Jerzy Marek Lapo sugli scavi subacquei
nei laghi nordoccidentali della Polonia;
Il convegno Ikuwa 2
Bernard Maurin e Parentis en Born sui
villaggi lacustri del Lago di Sanguinet
(Francia); Vladimir Nazarov di Kiev sull’insediamento sommerso di Berezan;
Aureliano Bertone e Luigi Fozzati sull’archeologia subacquea del nord ovest
d’Italia: bilancio della ricerca tra il 1970
e il 2004; Nicoletta Martinelli, Luigi
Fozzati, Francesca Bressan e Erio Valzolgher su archeologia subacquea e
dinamica del popolamento preistorico
nell’area del Lago di Garda; Luigi Fozzati, Claudia Pizzinato, Alessandra
Toniolo, Alberto Lezziero e Massimo
Capulli sull’archeologia subacquea della
Laguna di Venezia; Massimo Capulli sul
Progetto Archeomar; Frédéric Leroy
sugli abitati litoranei protostorici del
Mediterraneo nordoccidentale; André
Billamboz e Helmut Schlichtherle sugli
abitati del Neolitico e del Bronzo nel
Bodensee e nell’Oberschwaben; Guntram Schonfeld sugli abitati palafitticoli
delle Alpi bavaresi; Albert Hafner di
Berna sulla ricerca subacquea lacustre
nella Svizzera occidentale dal 1974 al
2004; Yves Billaud e André Marguet di
Annecy sugli abitati litoranei lacustri
alpini francesi (Neolitico e Bronzo). Nel
pomeriggio i lavori sono proseguiti con
gli interventi di Timm Weski di Monaco, Eric Rieth di Parigi, Virginie Serna
di Orléans, Ehud Galili di Atlit, Annie
Dumont e Jean-Francois Mariotti di
Annecy e Poitiers, Christophe Fevais di
Nantes e Colin Martin di St. Andrews su
problematiche di archeologia navale e
marittima. Di particolare interesse è
risultata la relazione di Virginie Serna,
che ha fatto il punto sulla ricerca archeo-
logica fluviale nella regione Centre.
Sabato 23 le relazioni hanno riguardato
ancora una volta spetti di archeologia
navale e marittima: Massimo Capulli ha
descritto le ricerche sui relitti scoperti
nelle acque interne dell’Italia del nord;
Marco D’Agostino e Stefano Medas
hanno svolto l’argomento della navigazione in epoca romana nella Laguna di
Venezia (relazione letta da C. Pizzinato); Irena Radic Rossi di Zagabria ha
svolto l’interessante tema delle rotte
commerciali marittime nell’Adriatico
orientale grazie alle ultime scoperte
subacquee; Thomas Forster di Lubstorf e
Jan Bill di Copenhagen hanno presentato
i risultati di ricerche subacquee nei mari
del nord con notevoli contributi metodologici per l’archeologia navale di epoca
storica.
In conclusione, una rassegna che si è
rivelata importante come momento di
scambio di esperienze e informazioni,
anche se la prevalenza dalla lingua tedesca, in mancanza di traduzioni, ha mortificato relatori e uditori che hanno utilizzato inglese e francese. Ciononostante,
IKUWA 2 è stato un traguardo raggiunto
sia per la ricchezza di contenuti tecnici e
metodologici, sia per il carattere “europeo” della manifestazione. Il successo
ha suggerito di programmare contestualmente IKUWA 3: una riunione tra le
varie nazionalità presenti ha già deliberato di affidare all’Inghilterra il nuovo
impegno che avrà luogo nel 2006 a
Southampton. Il carattere biennale del
convegno è stato incoraggiato da tutti
con le prossime candidature di Italia,
Turchia, Polonia.
L.F.
Lezioni “Fabio Faccenna”: l’VIII ciclo
G
iunte all’VIII ciclo, le Lezioni si
avviano a diventare – senza presunzione, beninteso – un’ “istituzione”, grazie al pubblico romano (ma
non solo) che continua a premiare l’iniziativa con assiduità e calore. Un’attrazione facilmente spiegabile, in quanto i
programmi offrono spunti di notevole
interesse, tra cui delle vere e proprie
‘anteprime’: risultati a volte ancora in
corso di elaborazione (come nel programma di quest’anno), presentati con
rigore scientifico ma in maniera informale e accessibile. La Soprintendenza
speciale al Museo “L. Pigorini” e l’As-
sociazione Italiana Archeologi Subacquei, che insieme organizzano le Lezioni, sono grati ai relatori che generosamente partecipano, e al pubblico che
(come si dice oggi) interagisce con
domande e curiosità. Ecco il programma
dell’VIII Ciclo:
• Martedì 25 gennaio 2005, ore 17.00
Maria Costanza Lentini (Soprintendenza ai Beni culturali di Messina), Archeologia subacquea a Naxos di Sicilia
• Martedì 22 febbraio 2005, ore 17.00
Rubens D’Oriano (Soprintendenza
archeologica di Sassari e Nuoro), I relitti
del porto di Olbia
• Martedì 22 marzo 2005, ore 17.00
Maria Teresa Iannelli (Soprintendenza
archeologica della Calabria), Dai rinvenimenti fortuiti ai progetti di ricerca.
L’archeologia subacquea in Calabria
• Martedì 26 aprile 2005, ore 17.00
Daniela Giampaola (Soprintendenza
archeologica di Napoli e Caserta), Un’area portuale romana a Piazza Municipio, Napoli
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Una scena di naufragio
a Populonia
NOTIZIE
P
opulonia è l’unica grande città etrusca sul mare. Due rotte vi si incrociavano: dal sud verso Gallia e Spagna e da est verso le isole e l’Africa, su
quelle vie del mare e del cielo che gli uccelli migratori ancora percorrono facendo il
punto del loro volo proprio su quel promontorio. Populonia è oggi al centro di una
nuova fase di ricerche, per un’iniziativa
congiunta della Soprintendenza Archeologica per la Toscana, della Società Parchi Val
di Cornia e delle Università di Pisa e di
Siena, che ha lo scopo di approfondire le
conoscenze sul sito e di valorizzarne le bellezze e il fascino. Il progetto mira in particolare a comprendere la natura di una grande struttura, nota con il nome di “Logge”,
che occupa le pendici dell’acropoli e che
con le sue imponenti arcate cieche colpì già
l’interesse dei viaggiatori dell’Ottocento,
rimanendo poi inesplorata. Il complesso
sembra infatti connotarsi come un’importante area sacra. Una delle divinità cui
attualmente si pensa è Venere: è possibile
infatti che anche a Populonia, sulla rotta
verso l’Occidente, si ergesse uno di quei
grandi santuari marittimi che accompagnavano i naviganti antichi lungo le coste del
Mediterraneo.
Gli scavi condotti a partire dagli anni ‘80
nella sella fra le due sommità dell’acropoli
hanno portato alla luce i resti di un tempio
ellenistico. Il recente rinvenimento di una
grande strada basolata, che dal tempio saliva verso l’acropoli, ha suggerito che le
diverse vestigia devono essere ricollegate
ad un unico monumentale intervento di
ristrutturazione dell’acropoli condotto quando Populonia era ancora una città formalmente libera, ma gravitava ormai stabilmente nell’orbita di Roma. L’indagine sulla terrazza superiore delle “Logge” ha riportato
in luce anche una nicchia semicircolare, che
doveva ospitare un celebre mosaico policromo che fu rinvenuto nel 1842 durante l’impianto di un vigneto e che, dopo varie peripezie, è oggi finalmente esposto al Museo
di Cittadella a Piombino. Il soggetto raffigura una scena di fondale marino, secondo
una iconografia ben nota in età ellenistica,
ma una particolarità lo rende eccezionale.
Capovolta nella composizione appare infatti
una scena di naufragio che sembrerebbe far
pensare ad un inserto con una specifica funzione: ad esempio un ex-voto per uno scampato pericolo.
La scena ci rivela una barca in grande difficoltà e tre poveri naviganti concitatamente
rivolti al cielo, ma benedetti e protetti dal
più classico simbolo di Afrodite, la colomba, che si libra nell’aria, foriera di salvezza.
La colomba si
rivela però solo
ribaltando l’immagine di un mollusco frammista agli
altri animali marini. Si tratta dunque
di una figura
ambigua, che si
svela solo ammirando il tappeto
musivo dall’interno della piccola
esedra che lo conteneva. L’impressione visiva può
dunque ingannare:
nel senso che quel
che sembra mollusco è una colomba
e viceversa.
I molluschi superIl mosaico
stiti nel mosaico
sono due. Un’analisi comparativa indica che, pur essendo assai
simili, le due immagini presentano un’evidente diversità di dimensioni, ma anche
altre difformità nella forma della conchiglia
e dell’animale che esce da essa. In particolare, la base del mollusco/colomba si espande assumendo un imprevisto profilo a
becco, animato dall’inserzione di due tessere gialle che danno l’evidenza dell’occhio
caratterizzando la figura. Il mollusco ‘ambiguo’ ha richiesto non solo un maggior
numero di tessere ma anche una loro diversa disposizione, in corrispondenza proprio
della testa e delle ali della colomba che in
esso si nasconde.
Un’analisi più generale della composizione
mette inoltre in luce la posizione perfettamente verticale della colomba sui flutti in
tempesta, e l’atteggiamento di sorpresa dei
naviganti in balia delle onde: le loro braccia
si indirizzano al prodigio apparso in cielo,
che viene additato dal timoniere. Questo
gesto - che raffigura, con l’apparizione epifanica del simbolo di Afrodite, la fine di un
incubo - è analogo a quello presente nella
pittura della casa pompeiana del sacerdos
Amandus, dove alcuni marinai assistono
alla caduta di Icaro: in quel caso l’apparizione di un evento inatteso dal cielo, nel
nostro la manifestazione nel cielo di un
evento prodigioso.
L’iconografia del naufragio è molto rara
nell’arte greco-romana. Sappiamo però che
era diffusa l’abitudine di appendere, in caso
di salvezza, offerte e quadretti votivi nei
diversi santuari o di mendicare per strada
portandosi appresso la riproduzione dell’e-
vento fatale. Si può richiamare l’attenzione
anche su un’immagine graffita su una parete dalla Casa degli stucchi di Delo, nella
quale è raffigurata una lunga imbarcazione,
sovrastata da una figura che si leva nel cielo
con l’atteggiamento di un’epifania divina.
La mente corre alla suggestiva descrizione
dell’apparizione di Iside a Lucio nelle
Metamorfosi di Apuleio: «Avevo appena
chiusi gli occhi che di mezzo al mare emerse una divina apparizione mostrando un
volto degno di reverenza anche per gli dèi.
Poi a poco a poco la splendida immagine
d’un corpo intero staccandosi dal mare mi
parve che si fermasse innanzi a me… È la
dea che quieta il fragore delle tempeste e
calma il movimento delle onde; la dea che
solo gli Etiopi e gli Egizi chiamano col vero
nome di Iside, che rivela i suoi molti epiteti,
tra cui quello di Venere Pafia, che le danno
gli abitanti di Cipro».
Sappiamo che, in caso di “crisi in mare”, ci
si poteva rivolgere all’immagine del dio
protettore presente sulla nave, come l’antico
simulacro di Afrodite portato da Cipro che
salvò Erostrato da Naucrati dalla furia della
tempesta. Una delle preghiere del marinaio
era rivolta a Glaukos, il dio marino del
quale si invocava l’epifania, o ai Dioscuri,
riconosciuti talora nei fuochi di S. Elmo,
come ci descrive un testo trasmesso da un
papiro del II secolo: «Non si vedeva più né
la terra né il cielo. Tutto era avvolto in una
notte impenetrabile… le onde del mare si
rovesciavano sulla nave. Spesso guizzavano
da un lato e l’altro del pennone brevi fiammelle, fossero stelle – come credevano i
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La colomba
Il gesto del timoniere
marinai, che invocavano a gran voce i nomi
dei Dioscuri – o fossero lampi a forma di
stelle prodotti qua e là dalla tempesta. Era
impossibile dire qualcosa di preciso, ma
tutti si inginocchiavano e pregavano…».
Ma torniamo al mosaico: anche l’orientamento della colomba e la direzione del suo
volo possono confermare la nostra interpretazione. È nota infatti la simbologia fausta
attribuita al movimento da sinistra verso
destra; e infatti la civetta che apparve a
Salamina attraversando le navi di Temistocle volando ‘sulla destra’ fu accolta come
auspicio fortunato. Ma erano importanti
anche le forme del volo: un volo rapido ad
ali spiegate – come nel nostro caso – risultava infatti favorevole. Nel mondo antico
alcuni esempi di figurazioni bifronti possono essere rintracciati non a caso proprio
nelle decorazioni musive, dove il ribaltamento del punto di vista è più facilmente
praticabile, dal momento che la circolarità
della frequentazione attorno all’immagine
consente di favorire di volta in volta i punti
di vista previsti dall’artista/architettto. Un
esempio (Gorgone/Sileno) lo abbiamo nell’emblema del mosaico che occupa un
ambiente centrale della domus presso il
Palazzo di Giustizia di Ascoli Piceno. Un
secondo esempio, di età imperiale più avanzata, si trova in un mosaico di una villa di
Diekirch in Lussemburgo. Un terzo esempio viene dalla domus tardoantica presente
al di sotto della cattedrale di Luni. Nel pavimento di un ambiente il mosaico, diviso in
Il graffito di Delo
quattro riquadri, raffigura l’immagine del
Sileno che assume le fattezze di una
maschera bifronte in sembianze alternatamente giovanili e senili. Non è questa la
sede per approfondire i rapporti fra immagini ambigue e ambiguità letterarie, coltivate
nelle crittografie e nei versi palindromi ellenistici sulla scorta delle opere di Sotades di
Maronea. Alcuni versi del Sota di Ennio,
ispirati a quel genere letterario, ci introducono in ambiente marino o sono legati direttamente a Venere. In una scenetta, impegnati ad intrecciare coroncine d’amore,
sono descritti i malaci, cioè i lascivi, i molli,
personaggi delicati e voluttuosi. Ma questo
nome descrive anche i languidi, gli arrendevoli, i calmi e placati. E infatti con il nome
di malacia maris si indicava anche quella
‘bonaccia’ che il naufrago in tempesta chiede e spera dalle divinità marine. Anche il
termine greco malakos indica il molle, il
tenero e ciò che è senza vigore, e il sostantivo malakion/malachion indica le collane
femminili e al tempo stesso il mollusco.
Esiste un rapporto che lega il mollusco alla
colomba portatrice di salvezza? Le colombe
svolgevano un ruolo particolare nel culto
della Afrodite Ericina, specie nelle feste
Anagogia, quando si riteneva che la dea
dalla Sicilia si recasse in Libia con le sue
colombe per nove giorni, finché un uccello
di grande bellezza non giungeva dal mare
indicando il loro ritorno, festeggiato nelle
Katagogia. La colomba ha in particolare un
ruolo foriero di salvezza per la navigazione:
lanciata in volo dalla nave degli Argonauti
in pericolo, sarà proprio una colomba a dare
loro il segnale per il passaggio delle Simplegadi. L’introduzione delle colombe bianche
in Grecia, che le fonti assegnano al 492
a.C., cioè al momento della distruzione
della flotta persiana presso il Monte Athos,
va forse collegato all’usanza da parte della
marineria fenicia, cipriota e cilicia dell’armata persiana di recare a bordo questi
uccelli, che potevano svolgere anche un
compito strategico. Il nostro mollusco ha le
fattezze di una conchiglia ritorta, quella
stessa da cui si ricavavano le trombe usate
nella guida e nel controllo della navigazione. Si tratta della bucina del mitico Tritone,
l’essere marino che ha la prerogativa di trasportare dei e eroi sulle vie del mare, partecipando anche del corteo di Afrodite. È lui
il protettore della navigazione, che può con
il suono della sua tromba sollevare o calmare i flutti del mare. D’altra parte è nota
anche la simbologia sessuale legata al termine concha, e in particolare il suo rapporto
con Afrodite. Se l’immagine della colomba
(quali che siano le sue implicazioni, sia erotiche che funzionali alla navigazione), una
volta riconosciuta nell’ambiguità della figura riprodotta nel mosaico, aderisce dunque
perfettamente alla scena del naufragio;
quella del mollusco non svolge solo un
ruolo ornamentale: quel tritone è sì un abitante del mare, ma è al tempo stesso una
conchiglia di Venere e presiede tanto al
dominio delle onde quanto alla lascivia d’amore; è il sesso femminile e la malacia del
mare; è il languore amoroso, ma anche il
mostro marino amico di Venere che con la
sua tromba atterrisce i marosi. L’inserimento nel mosaico di Populonia dell’immagine
ambigua del mollusco/colomba rientra dunque nell’ambito di una cultura ellenistica
che coltivava il “doppio senso”, che non
stupisce vedere trasposti dal testo all’immagine. La scena inserita capovolta nel mosaico di Populonia palesa pertanto l’epifania
della Astarte fenicia, della grande dea di
Cipro, dell’Afrodite Ericina, della dea
euploia di Cnido, dell’Iside Pelagia di tanti
altri santuari marittimi, benevola guida ai
naviganti. Se la colomba di Venere e il mollusco, simbolo di languore erotico e di
bonaccia marina, non sono lì per caso,
neanche l’intero mosaico è dunque lì per
caso. La sua funzione non è solo decorativa,
ma si giustifica meglio se ammettiamo la
natura di ex voto che il mosaico doveva
avere nel contesto in cui fu progettato ed
eseguito.
D.M.
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Il progetto Archeomar
L
a tutela archeologica presuppone la
conoscenza del territorio. Nonostante l’ovvietà di questa affermazione,
l’Italia non possiede una mappa dei propri
siti: i numerosi precedenti progetti (tranne
alcune eccezioni) non hanno lasciato tracce
a livello topografico. L’autunno del 2002
ha quindi riservato una sorpresa per l’archeologia subacquea italiana, abituata a
sopravvivere con esigui fondi soprattutto
legati a situazioni di emergenza: i mari italiani avranno la prima cartografia scientifica dei siti archeologici sommersi, operazione per la quale è stato varato il Progetto
Archeomar. Archeomar scaturisce dalla
legge n. 264 dell’8 novembre 2002, che
all’articolo 13 recita: “Censimento dei beni
archeologici sommersi nei fondali marini.
E’ autorizzata la spesa di 3.751.825 euro
per ciascuno degli anni 2003 e 2004 a
favore del Ministero per i beni e le attività
culturali per la realizzazione del censimento dei beni archeologici sommersi nei fondali marini delle coste delle regioni Campania, Basilicata, Puglia e Calabria”.
La legge 264 stabilisce pertanto una priorità
chiara e precisa: la necessità di realizzare un
censimento. Poiché ogni censimento, secondo i moderni criteri topografici, ha come
sede naturale di destinazione la cartografia
archeologica, il progetto Archeomar è stato
concepito con questa specifica funzione pratica. In altre parole, l’obiettivo del progetto
consiste nel superamento della scoperta
casuale mirando alla ricerca programmata,
attraverso una metodologia interdisciplinare
finalizzata a realizzare una moderna cartografia vettoriale e una banca dati.
Per il Progetto sono impegnati due Servizi
(II e III) della Direzione Generale per i
Beni Archeologici con quindici unità, e le
sei soprintendenze per i Beni archeologici
di Napoli e Caserta, di Pompei, di Salerno,
Avellino e Benevento, della Calabria, della
Basilicata e della Puglia. I lavori sono stati
affidati con gara d’appalto all’Associazione
Temporanea di Imprese composta dalla
capomandataria Nautilus (Vibo Valentia), e
da altre imprese (Cooperativa Archeologia
– Firenze; Delta Dator-Sinergis – Trento;
Dario Silenzi srl – Roma; Comex – Marsiglia; Arena sub – Messina; GeoLab - Napoli; Tesi – Genova). Sotto il profilo tecnicoscientifico, responsabile unico è stato nominato l’arch. Antonella Recchia, ora Direttore Generale presso il Dipartimento dell’Innovazione. La direzione scientifica è stata
affidata a Claudio Mocchegiani Carpano e
a Luigi Fozzati. Responsabile scientifico
per conto dell’ATI è Edoardo Tortorici.
Per la realizzazione sono stati previsti 18
mesi, con inizio dall’aprile 2004, con oltre
300 giornate di ricerca nelle aree marine
delle quattro regioni previste. Archeomar si
articola in quattro
fasi operative,
ciascuna indipendente ma propedeutica allo svolgimento delle successive.
La prima prevede
la raccolta dei
dati informativi
derivati dai progetti precedenti:
Rilevamento dei
reperti archeologici e altri beni
giacenti sul fondo
marino prospiciente la costa
Relitto in alta profondità vicino a Capri
calabra e Maratea (1987-1988);
Porti e approdi nell’antichità dalla prei- stero e degli organi di tutela e vigilanza prestoria all’alto medioevo (I Fase 1990); senti sul territorio (Nuclei Carabinieri TutePorti e approdi nell’antichità dalla prei- la Patrimonio Culturale, Guardia di Finanstoria all’alto medioevo (II Fase 1991- za-Unità Navali, Capitanerie di Porto).
1993); Siti e relitti antichi sommersi nei Saranno prodotte cartografie generali e di
mari italiani (1991-1992). La raccolta dettaglio; chartplotter con GPS satellitare
differenziale o comunque compatibili con
attingerà inoltre a tutti i dati utili reperibili GPS e software di navigazione delle Forze
nelle più diverse sedi; non solo ovviamen- dell’Ordine; il materiale sarà inoltre pubblite le diverse Soprintendenze coinvolte nel cato sia in forma scientifica (monografie a
progetto, ma anche altre amministrazioni, stampa, atlanti), e divulgato con dèpliant,
nonché privati cittadini come pescatori e supporti digitali CD-ROM, poster etc., e
operatori di diving centers. Per questa con l’organizzazione di convegni regionali
prima riorganizzazione è stata studiata una e internazionali.
“scheda di sito archeologico subacqueo”. I Verrà dunque prodotto un apparato di
materiali, attentamente verificati, serviran- gestione del patrimonio archeologico somno anche come orientamento per la ricerca merso delle quattro regioni che avrà l’aggiornamento tra i suoi punti di forza. La
in acqua.
La seconda fase, più impegnativa, com- possibilità di implementare strutture inforprende prospezioni e rilevamenti subacquei, matizzate in grado di fungere non solo da
con l’impiego di archeologi subacquei e meri raccoglitori di dati, ma anche e sopratnavali e di sofisticate attrezzature. È stata tutto da strumenti di amministrazione e di
approntata una piccola flotta composta da studio, rappresenta infatti l’unica via metotre navi oceanografiche, attrezzate con labo- dologica per conferire chiarezza alla comratori in grado di effettuare analisi di geolo- plessa stratificazione delle conoscenze già
gia marina e apparecchiature per la prospe- raccolte e che verranno acquisite in futuro.
banca dati accoglierà anche informaziozione strumentale (Side Scan Sonar, Sub- La
ni prodotte da discipline non archeologiche,
bottom Profiler, magnetometri e ecoscanda- ad esempio la geomorfologia.
gli tipo MULTIBEAM; sistemi topografici Per la prima volta, in conclusione, si potrà
satellitari DGPS; 3 ROV filoguidati e tre disporre di una cartografia vettoriale sia
imbarcazioni minori di appoggio). Inoltre è della costa sia che del fondo marino con
stato impiegato il mini sommergibile di ulti- l’individuazione topografica a mezzo GPS
ma generazione REMORA della Comex, delle aree d’interesse archeologico: uno
consentendo agli archeologi la prospezione strumento di lavoro per archeologi e urbafino a 500 metri di profondità.
nisti, per la pesca professionale e il turismo.
La terza fase è mirata all’interpretazione Contemporaneamente, la sensibilizzazione
finale dei dati, alla schedatura e all’eventua- culturale dei subacquei sportivi e dei cittale nuova documentazione (recupero di dini delle zone coinvolte dalle scoperte
reperti). I risultati saranno raccolti in un archeologiche consentirà di recuperare
database territoriale integrato, organizzato quella memoria del nostro passato troppo
su una piattaforma informatica GIS (Siste- spesso sottovalutata, dando vita a un archima Informativo Territoriale), utile anche vio ecostorico e archeoantropologico dei
per la messa a punto di piani di tutela.
rapporti tra l’uomo e il mare, che è tra i preL’ultima fase sarà dedicata alla formazione supposti di un futuro di pace e di sviluppo
e all’aggiornamento del personale del Mini- del Mediterraneo.
L.F. - E.T.
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Il tesoretto di Rimigliano
Un rinvenimento “subacqueo” ed una doppia sperimentazione
A
l Museo Archeologico del Territorio di Populonia di Piombino
(Livorno) è stato recentemente
esposto un rinvenimento numismatico
subacqueo casuale di una certa rilevanza,
presentato preliminarmente a Roma nel
corso della Settimana della cultura, e poi in
una mostra che ha toccato il Museo
Archeologico Nazionale di Firenze e la
sede della Cassa di Risparmio a Livorno.
Nell’agosto 2002, infatti, nelle acque della
frequentata spiaggia di Rimigliano, un
bagnante recuperava casualmente un
ammasso metallico, che si affrettava a consegnare alla vicina stazione della Guardia
di Finanza. L’oggetto si è subito rivelato
come un ammasso concrezionato di monete di argento di età romana imperiale. Il
reperto, purtroppo, non si trovava nella
posizione originaria; ripetuti sopralluoghi
da parte del Nucleo Operativo Subacqueo
della Soprintendenza hanno portato alla
conclusione che esso doveva provenire da
un relitto originariamente a largo di San
Vincenzo, e che doveva essere stato depositato in prossimità della riva da subacquei
clandestini, in attesa di un più agevole
recupero, considerandone anche il consistente peso (17 kg., di cui circa 14 di lega
d’argento).
Il tesoretto. Alcune considerazioni
Una preliminare pulizia della concrezione
ha rivelato che le monete erano conservate
in pilette da 10 esemplari, allo stesso modo
nel quale ancor oggi si avvolgono le mone-
te, singolarmente avvolte da materiale
deperibile; questi gruzzoli erano contenuti
in sacchetti di stoffa piuttosto ben legati
(altrimenti la più rapida decomposizione
dell’involto dei gruzzoli ne avrebbe comportato il rimescolamento); i sacchetti
erano a loro volta contenuti probabilmente
in un cesto, forse di fibra vegetale. L’eccezionalità della conformazione del deposito
ha motivato la scelta di smontarne solo una
piccola parte (il 10 %, circa 350 monete).
La quasi totalità del tesoretto è composto
da antoniniani o radiati, cioè da quella
moneta di argento del peso di un denario e
mezzo, e del generalmente supposto valore
di due, istituita da Caracalla nel 215 e che,
nel corso del III secolo sostituisce completamente il denario. Le monete rinvenute
permettono di datare il contesto all’epoca
di Gallieno e dell’usurpatore Postumo. La
principale differenza tra il rinvenimento di
Rimigliano e la maggior parte dei rinvenimenti monetari di III secolo, è proprio
nella origine non intenzionale del suo
deposito, e quindi nella sua formazione;
infatti, evidentemente chiuso con un evento traumatico quale un naufragio, non è
stato occultato volontariamente, e quindi
non ha una vera e propria data di chiusura,
da collegare ad un evento di tipo militare e
politico; la presenza di una consistente,
diremmo quasi anomala, percentuale di
monete dell’imperium Galliarum porta ad
interpretare le monete come parte di una
cassa in transito, non chiusa, forse, in via
del tutto ipotetica, di un commerciante in
presumibile viaggio costiero in direzione
di Roma.
Sperimentazione nel restauro
La procedura di restauro conservativo è
stata piuttosto innovativa; la possibilità di
una desalinizzazione completa di una concrezione di questa portata è infatti estremamente remota, e prevederebbe bagni di
lunghissima durata. Questo ha motivato la
scelta di mantenere e mostrare l’oggetto in
bagno di acqua demineralizzata, cambiata
costantemente. La prima rimozione delle
monete è stata effettuata con un’apparecchiatura ad ultrasuoni, mentre la successiva
pulitura delle monete libere e del rimanente ammasso è stata effettuata con l’ausilio
di un laser opportunamente programmato
per la pulitura in immersione, ottenendo
con questo sistema una pulitura omogenea
e a fondo e con l’assoluta assenza di tracce
che le attrezzature meccaniche, anche se
adoperate con scrupolo, possono lasciare.
L’operazione, effettuata in collaborazione
con il CNR-IFAC di Firenze, con gli ottimi
risultati ottenuti, è il primo passo per una
prossima sperimentazione sull’impiego del
laser in immersione.
Sperimentazione nell’esposizione
Il problema della conservazione e della
esposizione museale dei manufatti che
costituiscono il patrimonio culturale che si
tramanda nei secoli assume un’importanza
sempre crescente: individuare le possibili
soluzioni e tradurle in procedure controllate che dal livello sperimentale possano
diventare lo strumento accettato ed utilizzato in ambito pubblico e privato per nuovi
sistemi espositivi è estremamente impor-
Fabio Faccenna
Di
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“A” e “B” di Marsala; un contributo alla lettura storica del territorio trapanese alla luce delle recenti indagini subacquee;
il censimento delle segnalazioni dei relitti medievali in Italia. L’introduzione, con un aggiornamento bibliografico, è di Alessandra Molinari. Quanti vorranno acquistare in anticipo una copia dell’opera – in tal modo sostenendola concretamente –
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tante, sia per una più piacevole fruizione
del pubblico sia per dare risalto a particolari recuperi, ricreando gli scenari del loro
ambiente di ritrovamento e progettando
una struttura espositiva che rifletta la giacitura nella quale i beni si sono conservati
per secoli.
In questi ultimi anni è stata effettuata una
sperimentazione che ha risposto brillantemente sia per quanto riguarda l’interesse e
la fruibilità da parte dei visitatori, sia per
l’aspetto conservativo dei reperti: nel
Museo Archeologico del Territorio di
Populonia (Piombino) sono infatti in
mostra, dal mese di aprile del 2003, una
serie di ritrovamenti marini (cilindretti in
legno, anforette e contenitori in stagno)
che sono esposti in un acquario opportunamente modificato per le esigenze dei reperti archeologici stessi, monitorati costantemente per valutarne le problematiche che
si dovessero presentare, onde prendere
tempestivamente i correttivi necessari.
L’assenza di fattori negativi di questa
prima sperimentazione, ci ha spinto ad
adottare lo stesso sistema espositivo per il
tesoretto di monete in argento.
Il progetto espositivo consiste nell’immettere il reperto in un acquario di sicurezza, in acqua demineralizzata riproponendo eccetto che per la salinità le condizioni ambientali e di giacitura originarie,
con impianti di illuminazione o altro che
non creino dannose fonti di calore, un
filtraggio continuo dell’acqua demineralizzata che deve essere mantenuta a temperatura costante e controllata (e che
deve essere sostituita a cadenze regolari).
Lo scopo è quello di adottare un nuovo
modello espositivo, che non solo garantisca la corretta conservazione dei reperti
archeologici in esposizione, ma che sia
anche legato agli scenari del loro luogo
di ritrovamento.
La pulizia con il laser
Il tesoretto in fase di ripulitura
Le navi vichinghe
di Oslo
MUSEI
C
A.C.
ento anni fa, nel 1904, nella località
di Oseberg in Norvegia (sulla costa
occidentale del fiordo di Oslo),
venne alla luce una straordinaria nave d’epoca vichinga, riutilizzata per accogliere la
sepoltura di due defunte di altissimo rango.
Non si trattava della prima scoperta d’imbarcazioni riferibili a questa epoca, infatti
già nel 1867 a Tune e nel 1880 a Gokstad
erano state rinvenute navi, che avevano permesso di conoscere direttamente i mezzi
con i quali i Vichinghi, nel corso della loro
storia (800-1030 d.C. circa), affrontarono
viaggi d’alto mare superando di molto i
limiti del Mare del Nord, raggiungendo le
isole britanniche, l’Islanda, la Groenlandia
e con buona probabilità le coste settentrionali del continente americano.
Fino ad allora, pur essendo ampiamente
nota attraverso le fonti letterarie l’abilità
marinara delle popolazioni scandinave, non
si aveva una conoscenza diretta delle navi
vichinghe, limitata alle poche raffigurazioni
- molto semplificate - incise sulle pietre
tombali rinvenute nell’isola di Gotland e
alle immagini ricamate sul celebre arazzo
conservato nella cattedrale di Bayeux in
Normandia, raffigurante i preparativi dell’invasione dell’Inghilterrra da parte di
Guglielmo il Conquistatore.
L’archeologo subacqueo si è già occupato
di ritrovamenti di navi vichinghe e di musei
che le conservano (9, 1997, pp. 7 e ss.); per
arricchire il quadro offriamo ai Lettori una
panoramica sulle imbarcazioni del Museo
delle navi vichinghe di Oslo, in Norvegia. Il
Vikingskipshuset è un museo storico-culturale dell’Università di Oslo e sorge nel
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La poppa della nave di Oseberg, durante lo
scavo
La nave di Oseberg restaurata, vista da prua
grande parco suburbano di Bigdøy. Inaugurato nel 1957, ospita le navi e i corredi
funerari rinvenuti nei tre grandi tumuli di
Tune, Gokstad e Oseberg.
La nave di Tune
Il più antico ritrovamento di nave vichinga
risale al 1867, quando nella regione agricola di Tune (località della costa orientale del
fiordo di Oslo) venne intrapreso lo scavo di
un grande tumulo funerario.
La camera funeraria, realizzata interamente
in legno, era collocata sopra la parte poppiera della nave, con i fianchi laterali poggiati all’esterno dello scafo. La nave, parzialmente conservata per una lunghezza di
circa m 15, doveva in origine raggiungere i
20 e avere una larghezza di m 4,35. Si presenta con un profilo latitudinale largo e
appiattito, caratterizzata quindi da un’opera
viva poco profonda e murate molto basse
rispetto alla linea di galleggiamento, cosa
che evidentemente era funzionale a garantire la massima stabilità durante la navigazione a vela in mare aperto.
La nave è interamente realizzata in legno di
quercia, ad eccezione del timone e dei bagli
che sono in pino. Manca la fila superiore
delle tavole del fasciame e questo impedisce di sapere con precisione quante fossero
le coppie di remi che muovevano la nave
(forse 11 o 12), alla cui spinta certamente
contribuiva la velatura sostenuta dall’albero
centrale. La tecnica costruttiva è quella tipica dei drakkar e delle karver vichinghe con
le tavole del fasciame montate in maniera
che la superiore risulti sovrapposta e
inchiodata all’inferiore (secondo la tecnica
definita a klinker).
Nello scavo venne recuperata anche scarsa
suppellettile recuperata (alcuni frammenti
di legno intagliato, perle di vetro, resti di
tessuto, vanghe di legno, parti di armi), che
però ha permesso un inquadramento nell’ambito della seconda metà del IX secolo.
La nave di Gokstad
Alla scoperta della nave di Tune venne ad
aggiungersi quella della nave messa in luce
nell’estate del 1880 a Gokstad, località
posta sulla costa occidentale del fiordo di
Oslo. Anche in questo caso l’imbarcazione,
servita al complesso rituale funerario
vichingo, ospitava nella parte posteriore la
camera sepolcrale di un defunto di sesso
maschile. Un tumulo di argilla mista a sabbia di quasi 50 m di diametro e di 5 m d’altezza, aveva ricoperto il tutto, e il suo peso
aveva causato lo sprofondamento dello
scafo nel sottosuolo di argilla blu, venendo
così favorita l’ottimale conservazione di
buona parte delle strutture.
L’assenza di armi o gioielli ha indotto a
pensare che la tomba avesse già subito una
consistente opera di saccheggio. Nella
camera sepolcrale, realizzata con mezzi
tronchi di betulla, furono rinvenuti solo
alcuni frammenti di tessuti (lana e seta),
relativi agli indumenti del defunto, parti del
letto funebre, una tavola da gioco, una
grande quantità di guarnizioni in metallo
decorate per finimenti di cavalli. Interesse
notevole per la definizione del rituale funerario destò il rinvenimento, al di fuori della
nave, degli scheletri di 12 cavalli, di 6 cani
e d’un pavone.
Nella zona centrale della nave e in quella
prodiera, erano inoltre disposte tre barche a
remi (lunghe tra i 6 e i 9 metri), sei letti con
le testate scolpite, i pali decorati ad intaglio
di una tenda, una slitta, oltre a pochi utensili da cucina.
Anche la nave di Gokstad, lunga poco più
di 23 m e larga 5,20 m, rientra nella categoria delle karver, imbarcazioni meglio adatte
alla navigazione lungo costa, ma che potevano alla bisogna ben affrontare il mare
aperto. Particolare cura fu adottata nella
realizzazione della chiglia, in un sol pezzo,
per la quale fu scelta una quercia di dimensioni eccezionali alta almeno 25 metri. Al
momento dello scavo furono trovati i resti
di 64 scudi rotondi in legno, ancora in posizione sui bordi, dipinti alternativamente di
giallo e di nero.
Nel complesso questa nave si contraddistingue per la robustezza e l’ottima qualità
della tecnica costruttiva, certamente imposta dagli usi pratici a cui era destinata.
Manca, viceversa, l’attenzione verso l’apparato decorativo, che si trova circoscritto
esclusivamente alla barra del timone scolpita con una testa animale di notevole pregio.
La cronologia della nave si pone intorno
all’anno 850, mezzo secolo dopo quella di
Oseberg, e si inserisce bene nel periodo storico in cui hanno luogo i primi viaggi in
alto mare dei vichinghi.
La nave di Oseberg
Anche questa scoperta avvenne casualmente nel corso di lavori agricoli, nell’estate del
1904. Le ricerche, condotte dal professore
Gabriel Gustafson dell’Università di Oslo,
consistettero nello scavo di un grande
tumulo funerario di m 44 diametro e di m 6
d’altezza, composto dalla sovrapposizione
di innumerevoli zolle erbose, innalzato al di
sopra di una nave vichinga servita come
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contenitore della deposizione. Il tumulo
risultò essere stato già violato nel passato
da saccheggiatori, che avevano raggiunto la
camera sepolcrale, dove era raccolto il corredo funerario. La nave, al momento della
realizzazione del tumulo, era stata riempita
con pietre, il cui peso aveva causato la frantumazione dello scafo in più parti e il suo
sprofondamento nel sottosuolo.
Più piccola delle classiche navi vichinghe
risulta essere stata realizzata interamente in
legno di quercia e presenta una lunghezza
fuori tutto di m 21,58, larghezza massima
di m 5,10, profondità massima all’interno
di m 1,58. Rientra anch’essa probabilmente
nella categoria delle karver, le piccole navi
impiegate per uso personale dall’aristocrazia vichinga per muoversi lungo la costa. Si
tratta in genere di scafi attrezzati per la
navigazione congiunta a vela e a remi, da
svolgersi preferibilmente in acque chiuse
piuttosto che in mare aperto. Tenendo conto
di tutta l’attrezzatura necessaria e di un
equipaggio di 35 uomini si è calcolato per
essa un dislocamento pari ad 11 tonnellate.
La chiglia, formata da due travi congiunti
ad incastro tra loro e bloccati con chiodi in
ferro ribattuti, si contraddistingue per la
linea filante e sottile, il cui spessore alle
estremità non supera i 13 cm. La ruota di
prua e la ruota di poppa, ricavate da travi
sceltissimi di quercia, sono riccamente
ornate ad intaglio con un fregio di motivi
stilizzati animali e vegetali. Parzialmente
conservate, sono state ricostruite nella parte
superiore con una terminazione a ricciolo.
Il fasciame, che si unisce direttamente alla
chiglia e alle ruote di prua e di poppa, si
compone di 12 file di tavole unite sovrapponendo la superiore all’inferiore (secondo
la tecnica nota come a klinker) e fissate per
mezzo di chiodi di ferro ribattuti. Per garantire l’impermeabilizzazione dello scafo gli
interstizi tra le tavole risultavano accuratamente calafatati con un sottile strato di lana.
L’ultima fila di tavole del fasciame presenta
un listello leggermente sporgente sul quale
d’abitudine erano posti gli scudi (come
sulla nave di Gokstad). Subito al di sotto si
aprono su ogni fiancata 15 fori rotondi, che
servivano come portelli per i remi.
Il carro di Oseberg
All’interno della nave, a mo’ d’ossatura, contraddistingue per la
erano collocate 17 coste ricavate da un soli- robustezza modesta e per l’esilità complesdo pezzo di quercia scelto accuratamente a siva della costruzione, chiaro indizio di una
seconda della naturale curvatura del tronco, destinazione d’uso limitata alle acque
per adattarsi perfettamente al profilo della costiere, come anche mostra la bassezza
nave. Interessante è il sistema di collega- delle murate rispetto alla lunghezza dello
mento tra le coste e il fasciame, realizzato scafo. Si tratta dunque con buona probabiattraverso legamenti passanti composti da lità non di una nave d’uso quotidiano, ma
strisce sottili di fanoni di balena. In corri- piuttosto d’una nave da cerimonia appartespondenza d’ogni costa è posto un baglio, nuta ad un personaggio di prestigio, impiesolido trave congiungente le opposte fianca- gata per brevi spostamenti in condizioni clite della nave, di rinforzo alla struttura e fun- matiche ottimali. Questa ipotesi è del resto
zionale a sostenere le tavole del ponte.
avvalorata dall’alta qualità dei lavori artiAl centro dello scafo è posta la struttura di gianali, dall’eleganza delle forme, dall’ecfissaggio dell’albero, composta in basso da cezionale altezza della prua e della poppa,
un grosso blocco di quercia (sovrapposto riccamente intagliate con la stessa tecnica e
alla chiglia) in cui era ricavata la scassa per i medesimi motivi che si ritrovano su buona
il piede dell’albero; al di sopra era collocata parte della suppellettile funeraria insieme
la mastra, un massiccio pezzo di quercia rinvenuta.
collegato ai bagli, funzionale a sostenere in Cronologicamente la realizzazione della
posizione verticale l’albero, aperto sul lato nave può essere attribuita intorno all’anno
di poppa per consentirne l’eventuale abbatti- 800, cioè all’inizio dell’epoca vichinga. La
mento. L’albero, il cui fusto massiccio era nave però venne adibita ad accogliere una
ricavato da un tronco di pino, si conserva deposizione funeraria solo dopo alcuni
solo in parte e doveva avere una altezza ori- decenni, come inducono a pensare gli
ginaria di m 13. La nave era armata con una oggetti in essa presenti, che si pongono tutti
grande vela quadra.
intorno alla metà del IX secolo.
Sono state rinvenute tutte e 15 le coppie di
remi, realizzate in legno di pino, di lunIl corredo funerario
ghezza variabile da m 3,70 a m 4,03,
in funzione dell’altezza dei portelli
Di grande interesse è risultato essere il
di voga sulla linea di galleggiamencorredo funerario rinvenuto a bordo
to. Molto ben lavorati presentano
della nave, che testimonia l’importanza
ancora tracce della decorazione
dipinta, ma non hanno tracce
di usura, il che indica che
non vennero mai impiegati.
Si conserva ancora perfettamente il timone che presenta
la forma di un remo di maggiori dimensioni. Collocato
nella parte posteriore della
nave, sulla fiancata di tribordo, era collegato ad
essa in alto attraverso una
larga correggia intrecciata
di cuoio, in basso
mediante un elastico cordone ritorto di radice di
pino. La rotazione dell’asse del timone, per
mezzo di una barra fissata
all’estremità superiore, e
conseguentemente della
pala del timone, era in grado
di trasmettere alla nave la
direzione voluta.
Tra le attrezzature della
nave sono state recuperate
l’ancora in ferro, eccezionalmente ben conservata, di
piccole dimensioni e dal
peso modesto (10 kg.); la
passerella in legno; la gottazza in legno a forma di
grande pala per svuotare
l’acqua dalla sentina.
La poppa della nave di Oseberg
Nel complesso la nave si
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La slitta di Oseberg durante lo scavo
La nave di Gokstad durante lo scavo, da prua
del personaggio seppellito e il suo rango
aristocratico.
In particolare sono stati scavati e ricostruiti
un carro e tre slitte, tutti sontuosamente
ornati da intagli, rara testimonianza delle
notevoli capacità tecniche e artistiche degli
artigiani vichinghi. Il carro, completo in
ogni sua parte, è lungo m 5,50 e largo m
1,50. Il cassone, che poggia su quattro ruote
di faggio, presenta le fiancate riccamente
decorate a rilievo con motivi vegetali, figure
umane e animali, formanti intrecci di grande
effetto decorativo e scene relative a storie e
personaggi della mitologia vichinga. Proprio
queste caratteristiche hanno fatto pensare
per il carro ad una probabile destinazione
religiosa. Anche le tre slitte rinvenute (lunghe poco più di m 2), realizzate in legno di
faggio, si offrono con le superfici riccamente coperte da intagli decorativi, tanto nella
cassa (smontabile) che nel traino, composto
dai pattini e dai montanti. Al momento
dello scavo erano ancora evidenti tracce di
policromia delle superfici (ora svanite), che
dovevano contribuire a rendere i motivi più
comprensibili. Le slitte erano munite dei
rispettivi timoni magnificamente decorati
ad intaglio. Allo stesso altissimo livello
qualitativo si pongono cinque sostegni
(ancora di incerta interpretazione) terminanti con teste di animali di superba fattura,
che denotano una padronanza della tecnica
e una fantasia decorativa notevolissime.
Pochi, al confronto, sono gli oggetti in
metallo recuperati nel corso degli scavi,
poiché evidentemente sottratti in precedenza nel corso dei saccheggi che interessarono il tumulo sepolcrale. Tra di essi si segnalano placche quadrate e borchie in bronzo
sbalzato relative a finimenti per cavalli,
tanto di fattura indigena, quanto d’importazione (si tratta di lavori di tradizione celtica,
probabilmente provenienti dall’Irlanda).
Tra i lavori più interessanti si segnala il
cosiddetto secchio di Budda (impropriamente
così denominato dalla placca quadrata di
sostegno del manico, decorata in smalto policromo con una figura maschile seduta a
gambe incrociate), realizzato in doghe di
legno di tasso e con cerchi e parti metalliche
d’ottone, di fattura forse britannica, da interpretare quale suppellettile cerimoniale di pregio. Non mancano poi recipienti ordinari
muniti di anse d’ottone, botti, una grande
quantità di utensili e oggetti da cucina in
legno (tra cui quattro madie, cinque attingitoi,
piatti e scodelle). Tra gli utensili figurano
anche asce, coltelli, calderoni, treppiedi e
sostegni di calderoni, padelle, lucerne in
ferro. Come strumenti da lavoro agricolo si
annoverano vanghe in legno, forconi e zappe.
Tra gli oggetti di mobilio figurano tre letti
in legno intagliato, sostegni vari, una sedia,
bauli rinforzati con doghe in ferro battuto.
Di grande interesse sono poi gli strumenti
di lavoro – tipicamente femminili – impiegati per la tessitura di panni e arazzi, come
alcuni telai, una rocca per la lana, un arco-
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laio, mazzuoli per battere il lino, spilli di
legno, pettini in osso per la cardatura. A
questo proposito di straordinaria importanza, per la loro rarità, risultano i frammenti
di tessuto recuperati nel corso dello scavo,
tra cui stoffe di lana e di seta, e in particolare porzioni di arazzi stretti e lunghi, sui
quali troviamo riprodotte processioni di
persone a piedi, a cavallo, in carrozza, probabili rappresentazioni di funzioni religiose
o di avvenimenti storici. Non mancano poi
gli oggetti più propriamente personali,
come i pettini per la toeletta femminile,
alcune paia di scarpe in cuoio e una sella in
legno.
L’importanza della scoperta delle
navi vichinghe
Il rinvenimento delle navi d’epoca vichinga
riveste un ruolo centrale nella conoscenza
di questo periodo, particolarmente per quel
che riguarda le abitudini funerarie del ceto
aristocratico vichingo con le loro credenze
e gli aspetti rituali, evidentemente incentrati
sul “viaggio” del defunto verso la futura
residenza ultraterrena.
Di rilievo sono poi gli aspetti tecnici e
costruttivi riscontrabili sulle navi, che rivelano una notevole abilità e padronanza dei
mezzi e dei materiali. A questo riguardo
sembra evidente presupporre l’esistenza
d’una vera “scuola” di costruttori navali,
alla quale si dovettero formare più generazioni di maestri d’ascia, che contribuirono a
raffinare le tecniche e a migliorare la struttura e la solidità degli scafi, in grado di
affrontare senza problemi anche lunghe traversate in mare aperto, come avverrà in
seguito con le più recenti imbarcazioni
medievali di grandezza doppia.
Gli oggetti in legno rinvenuti, poi, in particolare quelli rinvenuti nello scavo di Oseberg, hanno fornito elementi importanti per
definire un quadro esauriente sulla vita quotidiana dei vichinghi: il lavoro dei campi, la
preparazione degli alimenti e dei cibi, la
filatura e la tessitura di stoffe ed arazzi.
Molti oggetti confermano, infine, la vitalità
dei rapporti e degli scambi culturali con
aree e regioni anche lontane (come l’Irlanda e la Bretagna).
Fondamentale appare, per concludere,
anche l’apporto fornito per le conoscenze
relative alla storia dell’arte e dell’artigianato, potendo disporre per questa epoca di
una quantità rilevantissima di testimonianze
omogenee relative alla tecnica decorativa
dell’intaglio e della scultura in legno, per la
quale è possibile riconoscere veri e propri
maestri, contraddistinti da stile, fantasia,
eleganza e grande raffinatezza.
prima volta ci ritrovava di fronte ad una
massa enorme di reperti lignei, anche di
grande dimensione, in buono stato di conservazione, preservati per secoli dagli strati
argillosi del terreno, che avevano agito da
sigillanti, impedendo l’azione di batteri,
microrganismi, muffe attivissimi in
ambiente aerobico.
Gli specialisti norvegesi si trovarono così a
gestire una massa enorme di materiali
lignei, realizzati in differenti specie arboree
e caratterizzati da livelli diversi di conservazione. Si decise così d’intervenire con tre
procedimenti diversi: uno per le navi; uno
per il carro, le slitte e la maggior parte degli
oggetti di grande dimensione; un altro per i
piccoli oggetti caratterizzati da decorazioni
ad intaglio.
I numerosissimi frammenti delle navi furono numerati singolarmente e disegnati in
maniera minuziosa prima di procedere alla
loro rimozione dallo strato archeologico.
Lavati accuratamente con acqua, vennero
sottoposti ad un processo d’impregnamento
con creosoto (sostanza antibatterica) e olio
di lino. Successivamente i frammenti,
essendo perlopiù contorti e deformati dal
peso del tumulo, vennero uno ad uno sottoposti ad un trattamento con il vapore allo
scopo di far riacquistare loro la forma originaria. Rimontati a ricomporre la struttura
dello scafo vennero infine interessati da un
trattamento protettivo superficiale di lacca
opaca. Solo i chiodi originali, molto compromessi, furono sostituiti con chiodi
nuovi.
Per gli oggetti di dimensioni ragguardevoli,
come il carro e le slitte, si adottò un diverso
procedimento di conservazione, consistente
nell’immersione in una soluzione bollente
di allume. Questo trattamento, se presentava l’inconveniente di restituire i reperti
molto fragili, aveva il vantaggio di non alterare minimamente la
forma, cosicché le singole parti potevano
essere incollate ottimamente tra loro.
Anche in questo caso a questo lungo e laborioso procedimento seguiva l’impregnamento con olio di lino e la laccatura finale.
Per gli oggetti più piccoli e delicati, dopo
alcuni tentativi non soddisfacenti, si decise
d’intervenire mediante la sostituzione dell’acqua che impregnava i legni con un
alcool speciale (trimetilcarbinolo), procedendo successivamente con l’impregnamento progressivo di una lacca plastica.
Bisogna dire che nonostante alcune difficoltà intercorse negli anni, e la necessità di
ripetere i trattamenti e di verificare gli interventi di restauro, le navi vichinghe di Oslo
e i molteplici reperti esposti si offrono ai
visitatori in condizioni eccellenti. Per inciso
va ricordato (con notevole amarezza) che
proprio alla consulenza degli specialisti
norvegesi si ricorse, in Italia, quando nei
primissimi anni ’30 del XX secolo venne
deciso il recupero delle due navi del lago di
Nemi, poi distrutte dalla stupidità degli
uomini nel corso della Seconda Guerra
Mondiale.
Testi e immagini da T. Sjøvold, Le navi vichinghe di Oslo, Oslo 1983
a cura di F.P.A.
Museo delle Navi Vichinghe (Vikingskipshuset), Huk Aveny 35, N-0287
Oslo. Tel. 22135280; E-mail:
[email protected]
www.ukm.uio.no/vikingskipshuset
Orari: lun.-dom. 9-18 (maggio-settembre), lun.-dom. 11-16 (ottobre-aprile)
Biglietto: adulti NOK 40; bambini
NOK 20.
Restauro e conservazione
La scoperta e il recupero delle navi vichinghe pose in maniera pressante il problema
del restauro e della conservazione. Per la
La nave di Gokstad restaurata
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SPECIALE NAPOLI
Il mare torna a bagnare Neapolis
Parte II: dalla scoperta del porto al recupero dei relitti
Veduta dei tre relitti
D
opo pochi mesi dalla prima notizia
su questa stessa rivista (L’archeologo subacqueo 28, 2004, pp. 3-5)
della scoperta del porto di Neapolis e dei
suoi relitti, si è giunti ai primi di settembre
al recupero delle imbarcazioni e poco dopo
al completamento dell’indagine finalizzata
a consentire la realizzazione della stazione
Municipio della Linea 1 della Metropolitana di Napoli.
Lo scavo
In questa sede riprenderemo la descrizione dello scavo da dove la avevamo interrotta lo scorso aprile e daremo un breve
resoconto sul sistema di documentazione
e recupero adottato.
La continuazione dello scavo ha precisato
la situazione del bacino portuale del I
secolo d.C., epoca alla quale possiamo ora
fare risalire con certezza il molo perpendicolare alla linea di costa, orientato in direzione est-ovest (lungh. circa m 23, largh.
m 4,50), costituito da una gettata di pietre
calcaree messe in opera a secco, contenute da pali di legno di diverse dimensioni
(191 pali con diametro tra 10 e 18 cm; h
da 1,50 a 2,00 m) infissi verticalmente
nella sabbia. Si è inoltre chiarita nei pressi
di tale struttura la presenza di tre imbarca-
zioni di cui è stato possibile stabilire la
successione cronologica.
Immediatamente a nord del molo giacevano
due imbarcazioni fra loro perpendicolari
(relitti A e C): la prima, affondando, con la
poppa è penetrata nella fiancata della
seconda, danneggiandola. Esse sembrano
essere state dismesse e abbandonate alla
fine del I secolo d.C., i loro scafi si sono
progressivamente insabbiati nel corso del II
secolo d.C. fino alla totale obliterazione. Su
questi più recenti livelli sabbiosi sono realizzati due pontili con andamento obliquo
rispetto al molo più antico, i cui pali penetrano nelle barche ormai insabbiate, rom-
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SPECIALE
pendone il fasciame. Dei pontili sono conservati i pali di legno disposti su due file
parallele distanti m 1,50/1,60, conservati
per un’altezza da m 1,50 a 2,50 (diametro
tra 12 e 15 cm).
Ad un momento successivo, collocabile tra
la fine del II e gli inizi del III secolo d.C.,
risale l’imbarcazione B rinvenuta ad ovest
del molo e parzialmente sovrapposta ad
esso e ad uno dei pontili più tardi: in questo
caso la barca è sicuramente affondata, perché al suo interno sono state rinvenute tracce del carico costituito di calce e scaglie di
calcare.
La stratigrafia indagata al di sotto dei relitti
e del molo ha evidenziato a partire dal III
sec. a..C. i livelli precedenti di utilizzazione
dell’insenatura come scalo commerciale,
costituiti da strati alternati di sabbie e limo
e piante marine (posidonie). Prima della
costruzione del molo non sono documentati
strutture né relitti affondati, ma si sono
individuati per un’altezza di ca. m. 1,50
livelli sabbiosi sovrapposti databili per i
numerosi reperti in tutto l’arco del I sec.
d.C.; il rapido e potente insabbiamento
avvenuto in questo periodo può essere forse
dovuto a fenomeni di subsidenza, che le
analisi geomorfologiche in corso potranno
chiarire. Tutti i fondali hanno restituito
un’enorme quantità di reperti ceramici, in
parte perduti durante le operazioni di carico, come nel caso di alcune coppette in
sigillata di produzione del golfo di Napoli
di I secolo d.C., ritrovate ancora impilate e
pronte per essere imbarcate. Si sono recuperate anche diverse àncore di pietra con la
parte lignea (marra) conservata, insieme ad
un esemplare con ceppo in piombo a perno
fisso e braccio in legno proveniente da uno
strato più antico databile al III-II secolo
a.C. Notevole anche il rinvenimento di
ceste, stuoie, cime, cuoi e altri materiali
organici.
I livelli più profondi raggiunti (a quota m
-5,60/-7,00 s.l.m.), databili al III secolo
a.C., documentano un’estesa operazione di
dragaggio dei fondali, di cui si sono rinvenute le tracce conservate sulla sabbia o
direttamente sul sostrato superficiale del
banco di tufo giallo napoletano. Sono fossati larghi circa m 1,80, documentati in tutta
l’area di scavo, sul cui fondo sono riconoscibili in negativo i segni impressi dall’attrezzo utilizzato, e di cui si distinguono
diverse fasi. L’opera è stata probabilmente
effettuata in acqua bassa, forse da barche
munite di ruota sul fondo, come quelle ipotizzate da P. Pomey nel caso di Marsiglia, o
anche da chiatte e/o puntoni ed è finalizzata
ad un più razionale utilizzo portuale di questa parte dell’insenatura.
In conclusione le imbarcazioni rappresentano una scoperta straordinaria, che avvicina
Napoli agli altrettanto famosi siti di Fiumicino, Comacchio, Pisa, Olbia, Marsiglia,
Tolone, accomunati dalla circostanza di
Segni di dragaggio
costituire siti non più sommersi, oggetto di
più favorevoli condizioni di recupero e
documentazione.
Lo scavo ha inoltre consentito di puntualizzare la questione topografica del porto di
Neapolis e di indagarne un’estesa area, in
cui è stato possibile riconoscere la sequenza
stratigrafica originaria, poco disturbata dall’azione dell’acqua, essendo l’insenatura
ben protetta naturalmente.
Lo studio dei reperti rinvenuti, unito
all’analisi stratigrafica ha permesso sia di
stabilire la cronologia dei relitti, anche se
non ne era conservato il carico, sia di
ricostruire le diverse fasi di utilizzo e i
traffici dello scalo commerciale dal III
secolo a.C. al V secolo d.C.
I relitti
Cenni preliminari sull’architettura navale.
Tutte le imbarcazioni rinvenute a Napoli
sono state costruite secondo il metodo classico della costruzione navale greco-romana
detto a “mortase e tenoni” secondo un principio di costruzione a guscio portante.
Le tavole del fasciame erano connesse tra
di loro da una fittissima rete interna di collegamenti costituita dai tenoni (delle sottili
linguette in legno duro) che venivano inserite in appositi incassi (le mortase) praticati
ad intervalli regolari lungo il bordo delle
tavole del fasciame. I tenoni erano poi fermati da piccoli spinotti.
Cenni preliminari sulla struttura degli
scafi. Il relitto Napoli B, databile al III
secolo, è stato recuperato dopo essere stato
parzialmente smontato. Le strutture dell’imbarcazione sono apparse smembrate e
deformate, presumibilmente a causa dell’azione dei marosi che si infrangevano sul
molo in prossimità del quale essa era
naufraga ta.
La porzione di carena messa in luce, lunga
all’incirca 7 m e larga 2,20 m, ha restituito
parte del fasciame interno, del paramezzale,
della carpenteria trasversale (le ordinate) e
della carpenteria longitudinale, ovvero il
fasciame e la chiglia.
Il fasciame interno, che serviva a rendere
praticabile il fondo dell’imbarcazione e
proteggere il carico dalle acque di sentina,
era costituito da correnti, fissati sulle ordinate a mezzo di chiodi in ferro, e tavolette
di pagliolo mobili. Queste potevano essere
rimosse per ispezionare e pulire il fondo
della barca.
Il paramezzale, conservato per una lunghezza di 2,27 m, è un pezzo massiccio
scolpito inferiormente per poterlo incastrare
sulle ordinate. Presenta quattro incassi di
cui i primi tre rettangolari, l’ultimo quadrato. Il secondo incasso doveva alloggiare il
piede dell’albero ed era munito di una sorta
di zeppa in legno più scuro, una sorta di
riparazione.
Le ordinate sono costituite, nella maggior
parte dei casi, da madieri, ovvero elementi
che intersecano la chiglia. La loro sezione è
piuttosto limitata mentre la maglia è abbastanza regolare ed ampia. Il collegamento
con il fasciame è costituito da cavicchi
lignei e da qualche chiodo metallico. Si è
notato che alcune di queste ordinate vennero collegate anche alla chiglia. Al centro, le
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ordinate presentano dei fori di biscia per
permettere la circolazione dell’acqua di
sentina.
Lungo la fiancata nord si conservano solo 4
corsi di fasciame, mentre a sud se ne conservano 10. Tutti sono molto deformati e
anche spezzati. Alcune tavole terminavano
a unghia persa, ovvero a punta, altre erano
interessate da giunti obliqui.
Infine, la chiglia è risultata molto deformata
e spezzata alle estremità.
Il relitto denominato Napoli A si è conservato per una lunghezza di circa 11,70 m,
una larghezza massima di 3,50 m ed un’altezza massima di 80 cm.
Esso presenta una struttura molto simile a
quella già osservata nel relitto B.
Al contrario di questo, la forma originale
dello scafo si è ben conservata e le strutture
arrivano fino al livello della cinta bassa,
ovvero di quella tavola del fasciame più
spessa delle altre che serviva per irrobustire
lo scafo longitudinalmente.
Il fasciame interno è composto da correnti
fissi e da tavolette di pagliolo mobili.
Il paramezzale è incastrato sulle ordinate e
presenta due incassi, uno cruciforme e l’altro rettangolare. Quest’ultimo alloggiava il
piede dell’albero poiché munito del classico
scivolo interno utilizzato per abbatterlo.
A poppa, uno spazio libero affiancato da
incassi quadrangolari nei correnti e non
ricoperto dal fasciame interno, alloggiava,
probabilmente, la pompa di sentina che serviva a rimuovere l’acqua che si accumulava
sul fondo dell’imbarcazione.
La maglia delle ordinate, anche qui collegate al fasciame esterno con cavicchi lignei e
chiodi in rame, è molto fitta e le ordinate,
costituite da madieri e semi-ordinate, sono
piuttosto massicce.
Il fasciame esterno è collegato da tenoni
bloccati da spinotti ed è interessato da
numerose riparazioni antiche.
La chiglia è costituita da un elemento centrale e da due elementi ricurvi alle estremità. Tutti questi pezzi sono collegati da
calettature a palella e denti, giunti in grado
di resistere agli sforzi di trazione e compressione.
Perpendicolare al relitto A, giaceva il relitto
Napoli C conservato per una lunghezza di
circa 13,20 m, una larghezza massima di
3,70 m e un’altezza di 50 cm circa.
Questo natante presenta una struttura completamente diversa rispetto alle imbarcazioni fin qui analizzate. Il fondo è piatto con
una curvatura molto accentuata di raccordo
tra le fiancate ed il fondo. Un’estremità è
affinata, mentre l’altra è chiusa da una spessa tavola verticale. Questa tavola risulta
bloccata da due longheroni longitudinali
fissati sulle ordinate.
Come sulle altre imbarcazioni, all’interno
sono presenti dei lunghi correnti. La struttura delle ordinate è massiccia con la classica
alternanza tra madieri e semiordinate. Tutti
questi elementi sono collegati al guscio con
grossi cavicchi lignei e chiodo metallici.
Inoltre, sulle ordinate è possibile osservare
alcuni incassi triangolari che servivano per
alloggiare il paramezzale. Questo elemento
fu asportato già in antico e, al suo posto,
troviamo alcune tavole in legno a testimonianza del fatto che, in un momento non
meglio precisabile della vita dell’imbarcazione, si optò per l’abbandono della propulsione velica. La chiglia è composta da due
elementi collegati da una calettatura. Le
tavole del fasciame, infine, sono piuttosto
spesse (4/5 cm) ed sono collegate da una
fitta rete di tenoni. Numerose riparazioni
sono state osservate soprattutto all’esterno
dello scafo, mentre sia l’interno che l’esterno furono abbondantemente spalmati con
resina per garantire la tenuta stagna dell’imbarcazione.
I relitti A e C sono databili al I secolo d.C. e
furono presumibilmente abbandonati
accanto al molo. Infatti, non è stata rinvenuta alcuna traccia del carico mentre le
numerose riparazioni testimoniano della
loro lunga utilizzazione.
Funzione e tipo. I due relitti A e B appartengono ad un tipo di imbarcazione ben nota
per l’epoca romana e conosciuta attraverso
un gran numero di esempi archeologici. Si
tratta di naves onerariae ovvero navi da
carico marittime di medio tonnellaggio.
Esse erano armate con una vela quadra e
dovevano essere adibite a trasporti di piccolo o medio cabotaggio (ricordiamo che il
relitto B ha restituito un carico di calce).
Ma la vera novità dello scavo di Piazza
Municipio è rappresentato da relitto C.
Si tratta, infatti, di un tipo di imbarcazione
completamente diverso dagli altri per forma
e struttura.
Il relitto A
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Il relitto C
Questo tipo è noto soltanto attraverso le
fonti iconografiche, mentre gli esempi
archeologici (praticamente ancora inediti)
sono soltanto due e provengono dallo scavo
del porto di Tolone in Francia.
Grazie ad un mosaico rinvenuto ad Althiburus, in Tunisia, in cui le diverse immagini
d’imbarcazioni sono associate alle loro
denominazioni antiche, conosciamo il
nome, horeia, del relitto C di Napoli.
Sappiamo dalle fonti che le horeiae erano
delle barche di servitù portuale (utilizzate
per lo scarico e il ricarico delle merci) e che
potevano anche essere adibite ad un’attività
di pesca. Il loro spazio di manovra e di
navigazione doveva dunque essere limitato
al bacino portuale e alla rada limitrofa.
Grazie alle rappresentazioni iconografiche
siamo in grado di conoscere la direzione
di marcia di tali imbarcazioni che, contrariamente a quanto possiamo immaginare,
avevano la prua in corrispondenza della
tavola verticale, lo specchio di prua, mentre il remo timone e il timoniere erano
sempre rappresentati in corrispondenza dell’estremità ricurva.
I due relitti rinvenuti nel porto di Tolone, e
databili come il nostro al I secolo d.C., rappresentano gli unici due confronti archeologici noti. Più piccoli di dimensioni, essi ci
dimostrano come la famiglia delle horeiae
dovesse conoscere numerose varianti, di cui
già si intuiva l’esistenza grazie allo studio
dei documenti iconografici.
Il recupero dei relitti
Il progetto dell’intervento è stato redatto
con l’apporto dei funzionari tecnici e dei
restauratori della Soprintendenza archeologica della Toscana che hanno collaborato
anche operativamente con le professionalità
della Soprintendenza Archeologica di
Napoli, con i tecnici della Società Metropolitana di Napoli e con le maestranze impegnate in cantiere. Un prezioso apporto per
quanto attiene gli aspetti conservativi è
stato fornito dai laboratori dall’Istituto Centrale del Restauro del Ministero per i Beni e
le Attività Culturali. Si è trattato di uno
stretto e proficuo rapporto di collaborazione
che, inserito in una tempistica serrata e
verificata puntualmente in corso d’opera,
ha consentito lo scavo ed il recupero delle
tre imbarcazioni in cinque mesi.
Considerato l’eccezionale stato di conservazione dei relitti A e C, il criterio informatore dell’intervento è stato quello di procedere al recupero delle imbarcazioni nella
loro interezza mediante il sistema del
guscio aperto elaborato nel cantiere delle
navi di Pisa, perfezionato e sperimentato
per la prima volta a Napoli. Solo nel caso
del relitto B, in cattivo stato di conservazione in quanto arenatosi sul molo, si è provveduto, dopo lo scavo e la documentazione,
allo smontaggio delle parti costituenti. Questi resti sono attualmente conservati in
acqua all’interno di una vasca appositamente costruita nel deposito laboratorio che
ospita le tre imbarcazioni.
Nei casi dei relitti A e C la prima fase del
recupero ha comportato la realizzazione di
un telaio in ferro zincato, che ha rappresentato un ausilio sia nella fase di scavo dell’esterno delle imbarcazioni sia in quella del
sollevamento, e di un guscio in vetroresina.
Lo scavo ha dapprima interessato l’interno
delle imbarcazioni che sono state schedate
ed analizzate puntualmente in situ grazie
alla presenza in cantiere di un archeologo
navale.
Il rilievo ha previsto una documentazione
di tipo manuale (con produzione di sezioni
trasversali, longitudinali e rilievi di dettaglio in scala 1:1) e una di tipo strumentale
con teodolite Laser. Inoltre per la prima
volta è stato utilizzato un apparecchio per la
scansione laser tridimensionale.
Tutte le strutture lignee degli scafi sono
state sottoposte a campionamento, per le
analisi sulle specie legnose utilizzate nella
costruzione, oltre che per la datazione dendrocronologica e per la definizione chimica, fisica, biologica del degrado.
Successivamente lo scavo è proseguito
all’esterno mediante trincee realizzate
lungo l’intero perimetro delle imbarcazioni,
sino ad arrivare ad una distanza di circa 1020 cm dallo scafo, e profonde 1,50 m oltre
l’altezza degli scafi. Si è quindi calato il
telaio in ferro zincato all’interno del pozzo
di stazione in modo da inglobare i relitti ed
il piccolo testimone di sabbia circostante. A
cominciare dalla prua della imbarcazione A
si è, infine, proceduto a rimuovere la stratigrafia sottostante mettendo in luce il fasciame per singoli tratti che sono stati sostenuti
prima con carpenteria mobile, poi ancorati
al telaio mediante cinghie in fibra di nylon.
Allo scavo e alla relativa documentazione è
poi seguita la realizzazione del guscio in
vetroresina, fissato al telaio con setti di
compensato marino.
Tali operazioni sono state ripetute per tutta
la lunghezza delle imbarcazioni sino al loro
scavo integrale. Ultimati i gusci in vetroresina si è così ottenuta una vasca di contenimento aderente alla imbarcazione che - unitamente al telaio - ha permesso il solleva-
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19
SPECIALE
Il relitto B
Relitto in fase di sollevamento con il guscio in vetroresina
mento delle barche dal pozzo di stazione.
La vasca costituisce il contenitore indispensabile per mantenere le imbarcazioni in
acqua e per i futuri interventi conservativi,
sia di desalinizzazione, sia di restauro vero
e proprio. Le imbarcazioni, dopo la rimozione dal cantiere, sono conservate presso il
deposito ferroviario di Piscinola-Secondigliano, di proprietà comunale, dove è stato
allestito un capannone opportunamente climatizzato e dove sono sottoposte per ora
alle prime operazioni di lavaggio.
Il passo successivo è la predisposizione e
l’attuazione del progetto di restauro.
Considerato il carattere complesso delle
operazioni, il restauro delle barche rappresenta una sfida particolarmente ambiziosa
per sperimentare tecniche conservative e
allestitive all’avanguardia: un’occasione
straordinaria per recuperare al patrimonio
archeologico nazionale e alla pubblica fruizione un contesto monumentale di eccezionale importanza, in grado di esercitare una
notevole capacità di attrazione culturale e
turistica. Di qui la necessità che tutte le Istituzioni coinvolte, quelle statali e gli Enti
locali, collaborino per garantire le più efficaci modalità di reperimento delle ingenti
risorse economiche necessarie per il restauro e al tempo stesso per individuare la sede
più opportuna dove esporre le imbarcazioni, fulcro di un futuro Museo degli scavi
della città di Napoli.
D.G.-V.C.- G.B.
Alle indagini, sotto il coordinamento scientifico della dott.ssa D. Giampaola della Soprintendenza per i Beni archeologici di Napoli e
Caserta, hanno partecipato: V. Carsana, F.
Crema, V. D’Amico, C. Florio, D. Pansa, P.
Toro, G. Boetto per la documentazione e schedatura dei relitti. Allo stoccaggio dei materiali
e al loro precatalogo hanno partecipato: S.
Calderone, F. Del Vecchio, Lilli Ripa, C. Scarpati. I rilievi si devono all’architetto I. Calcagno e collaboratori, la documentazione con il
LASER SCANNER 3D alla Società TECNOIN S.r.l. La documentazione fotografica è
stata effettuata dalla dott.ssa V. Carsana e dal
fotografo G. Avallone.
• BIBLIOTHECA ARCHAEOLOGICA (n.15)
Marta Giacobelli (a cura di)
LEZIONI FABIO FACCENNA. CONFERENZE DI
ARCHEOLOGIA SUBACQUEA (III-V CICLO)
© 2004, f.to 21x30, pp. 142, ill. b/n., ril.
ISBN 88-7228-404-X, € 25,00
• BIBLIOTHECA ARCHAEOLOGICA (n.12)
Alessandra Benini – Marta Giacobelli (a cura di)
ATTI DEL II CONVEGNO NAZIONALE DI
ARCHEOLOGIA SUBACQUEA.
(CASTIGLIONCELLO 7-9 SETTEMBRE 2001).
© 2003, f.to 21x30, pp. 312, ill. b/n., ril.
ISBN 88-7228-367-1, € 60.00
• Munera (n.21)
Rita Lizzi Testa
SENATORI, POPOLO, PAPI. IL GOVERNO
DI ROMA AL TEMPO DEI VALENTINIANI.
© 2004, f.to 17x24, pp. 530, 18 Tavv. b/n, ril.
ISBN 88-7228-392-2, € 40,00
• Siris n.4,2003
STUDI E RICERCHE DELLA SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN ARCHEOLOGIA DI MATERA
© 2004, f.to 21x30, pp. 134, ill. b/n, bross.
ISBN 88-7228-395-7, € 30,00
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20
Roses II, Perola V
e Presido
RECENSIONI E
SEGNALAZIONI
BIBLIOGRAFICHE
I
l volume intende presentare i
recenti risultati delle ricerche del
Centre d’Arqueologia Subaquatica
de Catalunya nel luogo di affondamento di tre vascelli degli inizi del XIX
secolo. Il libro è firmato da ben sette
autori a cui vanno aggiunti alcuni collaboratori anche non spagnoli.
Le navi sono affondate nel corso di
uno scontro tra una flotta inglese ed un
convoglio francese tra il 21 e il 23
ottobre 1809. Dopo un accenno metodologico, viene affrontata la questione
storica per passare poi alla rendicontazione dei risultati di ogni relitto. Il
Roses II e il Perola V conservano
ancora buona parte degli scafi, documentati in dettaglio dagli archeologi,
elementi dell’armamento e molti
oggetti della suppellettile di bordo tra
cui molto vasellame.
Del Presido rimane solo il carico di
lingotti di piombo.
Il volume presenta anche i risultati di
numerose analisi archeometriche effettuate su varie tipologie di materiali. In
appendice è un utile glossario nautico.
Buona la documentazione grafica e
fotografica, un po’ scarna la bibliografia a dimostrazione che forse gli studi
potrebbe essere ancora approfonditi.
C.B.
L’ARCHEOLOGO SUBACQUEO
Quadrimestrale di archeologia subacquea e navale
Spedizione in abbonamento postale 70%
Autorizzazione del Tribunale di Bari
n. 1197 del 9.11.1994
Direttore responsabile:
Giuliano Volpe
Redazioni:
• Roma: Via Tripolitania 195, 00199
• Bari: c/o Edipuglia srl, via Dalmazia 22/B,
70050, Santo Spirito,
tel. 080-5333056, fax 080-5333057,
Internet: http://www.edipuglia.it/arcsub/
I collaboratori di questo numero:
Francesco Paolo Arata (F.P.A.); Rita Auriemma
(R.A.); Giulia Boetto (G.B.); Carlo Beltrame
(C.B.); Andrea Camilli (A.C.); Vittoria Carsana
(V.C.); Luigi Fozzati (L.F.); Enrico Felici (E.F.);
Daniela Giampaola (D.G.); Daniele Manacorda
(D.M.); Edoardo Tortorici (E.T.); Giuliano Volpe
(G.V.).
Le illustrazioni di questo numero:
P. 4: L.F.; pp. 5-6: D.M.; p. 7: Comex Marsiglia;
pp. 8-9: Soprintendenza per i beni archeologici
della Toscana; pp. 10-13: da T. Sjøvold 1983;
pp.15-19: V.C., G. Avallone
Pujol, M., De la Fuente, P, Raurich,
X., Sanchez Picon, A., Llorens, J.M.,
Palomo, A., Nieto, X., 2003, Roses II,
Perola V i Presido: Tres Vaixells
Enfonsats a l’Empordà durant la
Guerra del Francès (1808-1814),
Girona (Museu d’Arqueologia de
Catalunya, Centre d’Arqueologia
Subaquatica de Catalunya), pp. 188,
immagini in bianco e nero.
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