DELLE CITY CAR DELLE CITY CAR

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DELLE CITY CAR DELLE CITY CAR
Poste Italiane - Spedizione in A.P. Art. 2 Comma 20/C Legge 662/96 D.C. - D.C.I. n° 3/2008 - Contiene I.R.
aprile 2008
LA RIVISTA DEGLI ABBONATI EUROGROUP
LE ANTENATE
DELLE CITY CAR
EUROGROUP CRESCE
PER FAR CRESCERE LE IMPRESE
PAGINA
6
PMI: IN ITALIA DOMINA
LA DIMENSIONE MICRO
PAGINA
9
“BASILEA 2” TRA
RISCHI E OPPORTUNITÀ
PAGINA
12
INCENTIVI SU RISPARMIO
ENERGETICO E FONTI RINNOVABILI
PAGINA
19
SOMMARIO
LA PRESENZA EUROGROUP IN ITALIA
APRILE 2008
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ALBA
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EDITORIALE
3 UN PASSATO CHE RITORNA
PRIMO PIANO
4 BUBBLECARS, QUANDO LE AUTO ERANO A “BOLLA”
AZIENDA
6 EUROFIDI ED EUROCONS: RISULTATI 2007 NEL SEGNO DELLA REDDITIVITÀ
EUROPA
9 IMPRESE: IN ITALIA DOMINA LA DIMENSIONE MICRO
APPROFONDIMENTI
12 “BASILEA 2”: PER LE PMI UN’OCCASIONE PER CAMBIARE
FOCUS
14 PERCHÉ I LAVORATORI PRECARI SIANO MENO PRECARI
ABBONAMENTO
16 LA VETRINA DELLE AZIENDE EUROGROUP
AGEVOLAZIONI
19 BANDI PER IL RISPARMIO ENERGETICO E LE FONTI RINNOVABILI
21 NOVITÀ DALLE REGIONI
La rivista degli abbonati Eurogroup
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CREDITO E FINANZA
22 AL VIA LA “CAMPAGNA DI FINANZIAMENTI PER PMI”
23
LA PRESENZA EUROGROUP IN ITALIA
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il 22 aprile
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Cary Grant in una Bmw Isetta 300 alla fine degli anni Cinquanta
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EDITORIALE
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Un passato che ritorna
Alcuni di voi si saranno forse chiesti che cosa ci faccia Cary Grant in copertina su questa
rivista. La risposta è molto semplice. La storia in primo piano di questo mese, dedicata
alle bubblecars, ossia le auto a metà strada tra vettura classica e scooter di recente in
mostra a Roma, ci ha colpito per la sua duplice attualità.
Nata oltre cinquanta anni fa, l’Isetta (auto in
copertina nella quale giganteggia l’attore americano) era una vetturetta lunga appena 2,28
metri e larga 1,38, dalla linea ad uovo e con un
abitacolo per due persone con un’unica porta
frontale. Il primo spunto di attualità deriva dal
fatto che questo “uovo su quattro ruote” (anche
se l’impressione è di un triciclo, in quanto le due
posteriori sono molto ravvicinate tra loro) non
solo rafforzò il corso del nuovo design italiano
degli anni Cinquanta, ma rappresentò anche un
rivoluzionario concetto di automobile, precursore del moderno concetto di “city car”.
Il secondo elemento di attualità ci rimanda alla constatazione che, molto spesso, in
Italia le idee e le persone per avere un merito successo devono espatriare.
Rigorosamente made in Italy (fu prodotta dalla casa automobilistica Iso tra il 1953 e il
1956), l’Isetta fece infatti la fortuna della Bmw (che la realizzò su licenza tra il 1955 e il
1962). Come leggerete nell’articolo di Daniela Binello, il successo dell’Isetta fu pressoché
universale, tranne che Italia, e quando il progetto fu ceduto alla casa bavarese se ne
vendettero ancora, solo in Germania, 165 mila esemplari.
Accadeva negli anni Cinquanta e capita, forse ancora di più, ai giorni nostri. Per stare alla
cronaca recente, è noto che il premio Nobel Carlo Rubbia sia dovuto andare in Spagna per
realizzare una centrale solare termodinamica che l’Italia gli ha negato: il progetto era
stato infatti portato avanti per anni nel nostro Paese senza alcun successo. Il fenomeno
delle “migrazioni altamente qualificate” è sempre più scoraggiante: solo nel 2003 sono
centomila i lavoratori ad altissima qualificazione immigrati negli Stati Uniti e tra i cinque
Paesi che forniscono questo prezioso capitale umano l’Italia occupa il quarto posto (dopo
Regno Unito, Francia, Germania). Sempre nel 2003, il 17% degli italiani che si sono stabiliti in maniera permanente negli Usa erano manager, dirigenti e professionisti della ricerca.
Un altro aspetto rende ancora più preoccupante la situazione. Mentre la fuga di cervelli procede, non si sfruttano, o si sfruttano assai poco, le opportunità che derivano dai cosiddetti
“brain exchange” (lo scambio di cervelli) e “brain gain” (l’acquisizione di cervelli): secondo
l’Eurispes (Rapporto Italia 2007), gli immigrati che arrivano in Italia hanno spesso un alto
grado di scolarità che rimane sprecato e chi viene a studiare in Italia non “viene intercettato” e rientra nel suo Paese prima che sia stato possibile per l’Italia “crescere in senso lato”.
Insomma, dai tempi di Isetta, purtroppo, non sembra che sia cambiato poi molto in Italia.
Alessandra Romano
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PRIMO PIANO
4
BUBBLECARS
QUANDO LE AUTO
ERANO A “BOLLA”
La Smart, la nuova 500,
la iQ della Toyota hanno
dei lontani antenati.
Si tratta di “vetturette”
assolutamente originali
che ancora oggi stupiscono
per il loro design e per le
soluzioni tecniche adottate
di Daniela Binello
È
il Dizionario Moderno dell’editrice
milanese Hoepli del 1923 a fornire
per la prima volta una definizione del termine “vetturetta”: «Automobile con un
telaio di piccola potenzialità. La forma della
carrozzeria non conta». Eppure, agli occhi di
un non-esperto di cilindri e di pistoni è proprio la forma della scocca a rendere queste
microvetture irresistibilmente curiose.
Forme buffe, avvolgenti, a uovo o a bolla (da
cui bubble), le bubblecar colpiscono per la
bizzarria del loro design industriale che, a
dispetto dell’epoca in cui vennero costruite,
sembra anticipare di molti decenni quello
delle nostre contemporanee city car.
“Macchinette. Le bubblecars nel design
del Novecento” è il titolo di una mostra e
di un catalogo fotografico appena uscito
a cura della Fondazione Ce.s.a.r. di Roma
(Centro Studi sull’architettura razionalista), in collaborazione con la Regione
Lazio, l’Aimac (Associazione italiana
Microvetture Anni Cinquanta) e altri enti.
L’editrice del catalogo, che contiene le
belle immagini di Giampiero Ortenzi a cui
sono abbinate le schede descrittive per
ogni singolo modello di vettura rappresentata, è la Palombi & Partner (Roma).
Nel 1921, la “Prince”, antesignana delle
odierne “macchinette”, viene costruita a
Torino dalla Vittorio Carena e Mazza. Non
si può tuttavia sostenere che il mercato
italiano la accolga con esagerato entusiasmo: «Scarsa propensione per l’innovazione dello schema classico dell’automobile»
decretano infatti i cronisti dell’epoca sui
gusti degli italiani.
Intorno al 1936, però, la Fiat Balilla e la 500
Topolino vengono pubblicizzate come
“Nuove piccole grandi vetture del risparmio e del lavoro. Ultra utilitarie per consumi, veloci come auto di lusso” e i cinegiornali dell’Istituto Luce, che informano
anche sui modelli stranieri, dalla Pou de la
Route (pulce della strada) alla Rytecraft,
enfatizzano le loro performance lillipuziane, mostrandole entrare e uscire da un cottage americano, come da un appartamento parigino, o addirittura raggiungere l’87°
piano di un grattacielo newyorkese.
Incuranti del gigantismo stradale di
camion e altri veicoli di più normali dimensioni, le macchinette – da 220 centimetri di
lunghezza al massimo di 283 quando si
esagera – negli anni Quaranta si presentano come una concreta soluzione ai problemi del traffico e per parcheggiarle fra
un’auto e l’altra, strombazza la pubblicità,
che ci vuole? Basta sollevarle a mano.
Ma le macchinette sono dei surrogati
d’automobile? Si tratta più che altro d’invenzioni, molto creative, e in certi casi al
limite della trovata come la “pedalauto”,
vetturetta a pedali per due persone. Così
la descrizione: “Con duplice motore: meccanico e umano”. Annoverata fra i veicoli
autarchici, dotati cioè di un’autosufficienza assoluta, la “pedalauto” fu inventata
dal signor Pennacchio che lavorava con il
fratello di un noto carrozziere dell’epoca
(Castagna di Milano).
Di maggiore interesse, rimanendo in
tema d’invenzioni per l’autotrasporto,
l’“elettropattino” a tre ruote quasi invisibili da fuori, che fu disegnato da Marco
Revelli di Beaumont (designer che collaborava con le carrozzerie più famose di
allora) e che sfrutta un motore elettrico
costruito a Torino nel 1941.
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Negli anni Cinquanta, il miraggio dell’automobile alla portata di tutti diviene parte
integrante dello stesso fenomeno del boom
che, basterà attendere ancora una manciata d’anni, farà dell’Italia una nazione in crescita economica, culturale e sociale. Un programma d’emancipazione su scala nazionale che trovò nell’industria automobilistica una delle sue leve maggiori.
La storia di “Isetta” comincia nel 1952.
Progettata dall’ingegner Renzo Rivolta
della Iso di Bresso (la fabbrica del milanese
allora famosa per i suoi scooter e, dal 1998,
per la “Isigò” prodotta a Foligno) in varie
versioni, ottiene un plauso mondiale, ma
“nemo propheta in patria”, come si suol
dire. In Italia se ne immatricolano solo un
migliaio. Isetta è un’icona del suo tempo,
come oggi è un cult la piccola Smart.
Isetta (330 chili, 220 centimetri di lunghezza, 135 di larghezza) piacque tanto agli stranieri per il suo riconoscibile design italiano.
La forte curvatura dei finestrini in plexiglas, il tettuccio apribile e il geniale portellone con apertura anteriore, che garantiva
una facile accessibilità all’abitacolo per
“tutte le taglie”, le fecero ottenere il primato di city car mondiale. Ma anche dentro
l’Isetta era all’avanguardia, con la lubrificazione per mezzo di una pompa dell’olio
separata che consentiva di rifornire il
motore a due tempi con benzina, anziché
miscela, e le due ruote anteriori accostate
a darle più stabilità rispetto ai modelli a tre
ruote. Infine, quell’eleganza su cui si basò il
messaggio pubblicitario: «L’Isetta è un
mezzo di trasporto elegante e pratico che
può essere utilizzato dalla signora, dall’uomo d’affari, dal professionista, dal viaggiatore, dal turista».
Ma in Italia no. Nemmeno le brillanti prestazioni dell’Isetta alla Mille Miglia del
1954 e del 1955 in cui sfiorò gli 80 chilometri orari di media e il buon servizio
svolto dai furgoncini Isetta scelti dall’Aci
per il soccorso autostradale convinsero i
nostri connazionali a confidare nelle qualità di quell’ovetto con le ruote.
Fu così che, nel 1955, la Bmw, allora nota
soprattutto per le moto, acquisì la licenza
di costruzione dalla Iso, comprando anche
l’intera catena di montaggio. Isetta entrò
alla grande sul mercato tedesco come
una motocoupé a un prezzi concorrenziali e con importanti migliorie (motore a
quattro tempi, fanaleria più efficiente,
impianto di riscaldamento): il risultato fu
che la Bmw ne vendette in Germania 165
mila esemplari. Il successo di questa
second car dalla Germania alla Francia,
Belgio, Austria, Spagna, a Brighton (nel
Sussex) e poi fino in Brasile (Isetta è stata
la prima vettura d’origine italiana fabbricata nell’avveniristica capitale Brasilia
dall’industria locale Romi) proseguì fino
alla seconda metà degli anni Sessanta.
Sul design italiano delle vetturette che
non trovò adeguato riconoscimento in
Patria si potrebbero fare molti altri esempi – fra cui il volugrafo “46” (prodotto a
Torino
nelle
Fonderie
Officine
Meccaniche di corso Belgio), la “Volpe”
(della Alca di Milano, il cui testimonial per
la pubblicità fu Macario), il “Mivalino”
(della Mi-Val Valtrompia) – fino all’arrivo
della scossa, nel 1956, provocata dalla
Seicento e, l’anno successivo, dalla Nuova
500, entrambe della Fiat.
Ora come ora, però, da dove arriveranno le
nuove macchinette? Le possibilità maggiori potrebbe aggiudicarsele l’India con la
“Nano”, annunciata per il prossimo ottobre al prezzo di 1.700 euro (4 posti, 310 centimetri di lunghezza, motore 624 cc da 30
cv, carrozzeria in plastica). Prodotta da Tata
Group, di cui è partner la Fiat, è una utilitaria rivolta soprattutto all’immenso mercato nazionale indiano. Il suo impatto, infatti,
potrebbe essere paragonabile a quello che
si ebbe con la motorizzazione dell’Italia
negli anni Cinquanta.
Non scordiamoci, però, quello che ha in
serbo la Toyota nel campo delle second car
di fascia medio-alta: la “iQ” di griffe a benzina o diesel. E poi la Bmw. Vi ricordate che
la casa automobilistica tedesca acquisì la
licenza della nostra Isetta dalla Iso di
Bresso? Ebbene, la Bmw ne metterà sul
mercato una strepitosa versione elettrica.
Il design italiano di questa bubblecar confermerà, ancora una volta, un punto a
nostro favore, peccato che da “ex”.