La metamorfosi prima e dopo Ovidio
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La metamorfosi prima e dopo Ovidio
LA METAMORFOSI PRIMA E DOPO OVIDIO La metamorfosi è la trasformazione di un essere in un altro di natura diversa. E’ una credenza caratteristica e diffusa in ogni mitologia, con innumerevoli cambiamenti di forme, in particolare di essere umani mutati in animali, piante, e persino stelle, per intervento degli dei. Tale credenza ebbe origine, probabilmente, dall’osservazione della natura, dove le metamorfosi sono diffusissime in ogni settore, dalla botanica alla zoologia, dalla geologia all’astronomia, dalla biologia all’ecologia. Comprensibile, allora, che a partire da Ovidio, quando la sua opera è stata autenticamente compresa, che il fenomeno della metamorfosi sia stato inteso anche in senso antropologico e quindi psicologico. Ju.K. Sčeglov (Alcuni tratti strutturali delle `Metamorfosi' di Ovidio) ritiene che il fine del poeta in quest’opera sia quello «di mostrare tutto l'universo, tutto il mondo con tutto ciò che vi esiste; di creare quasi un'enciclopedia della natura». Un'opera universale quindi attraverso l'ottica dei miti metamorfici. Ma qual è la ragione di questa scelta (anche se non sarebbe difficile individuarla nella sospensione ambigua tra vero e falso che serpeggia nelle opere giovanili)? «La metamorfosi», scrive C. Segal (Ovidio e la poesia del mito), «può esprimere il carattere "fluido" e precario dell'identità, l'incertezza e l'imprevedibile materialità del mondo naturale. Ma, allo stesso tempo, la metamorfosi è capace di rappresentare la fissità del carattere, un'identità cui l'individuo non può sfuggire; da questo punto di vista si potrebbe dire che la metamorfosi appare come una metafora che è rimasta latente per tutta una vita e che viene improvvisamente capita in termini visivi: la crudeltà di Licaone, la rapacità di Tereo, la durezza delle Propetidi». Così, «considerate al livello più serio, le Metamorfosi costituiscono una visione complessiva, in forma d'immagine, sulla posizione dell'uomo tra stabilità e caducità, amore e morte, ordine e caos, tra un'oganizzazione giusta o ingiusta del mondo». E al di là della professione di fede nel verbo pitagorico, sia pure `modernizzato', che Ovidio abbraccia al termine dell'opera (fors'anche per darsi una giustificazione teorica), e proprio in questo equilibrio precario ed effimero che affiora «la "sua" personale filosofia, dalle venature profondamente pessimistiche», accertato che nel fluire ininterrotto dell'esistente «ogni trasformazione è un dramma più doloroso della morte vera, per la sua ambiguità, cioè perché, come dice Mirra (X 487), non è vita né morte» (P. Bernardini Marzolla, introd. a Ovidio, Metamorfosi). Infatti «il carattere fondamentale del mondo descritto dalle Metamorfosi è la sua natura ambigua e ingannevole, l'incertezza dei confini fra realtà e apparenza, fra la concretezza delle cose e l'inconsistenza delle apparenze. [...] .La lingua stessa, lo stile, si prestano a mostrare la natura ambigua delle cose: esibendo la sua connaturata doppiezza, anche il linguaggio rivela la sua pericolosità, lo scarto fra l'illusorietà di ciò che appare e la concretezza di ciò che è» (G.B. Conte, Letteratura latina). Allora, si domanda P. Bernardini Marzolla (cit.), «che cos'è in verità quest'opera? È scritta in forma epica, nello stile dell'epos, eppure presenta tratti "non epici": non Canto per la materia trattata, quanto proprio per la struttura e lo spirito. È un epos mai visto. [...] Il punto e che le Metamorfosi sono, sotto i panni della poesia epica, la prima opera narrativa di grande respiro della letteratura occidentale [...] il "romanzo della mitologia". [...] Ma questo narrare èugualmente un canto. Merito della forma? Ovidio ha sempre due volti: é serio e gioca, gioca ed é freddo, é freddo e partecipa, e questo fenomeno investe anche i suoi mezzi stilistici. Paradossalmente, proprio quelle che sono indicate come disarmonie formali e strutturali nella sua opera, sono importanti elementi da cui dipende l'impressione continua, e l'impressione finale, di una grande armonia estetica». Ma con acutezza riconosce che a render tale il poema è soprattutto «l'operazione culturale compiuta da Ovidio. [...] Le sue Metamorfosi vogliono essere, e sono, una personale "lettura" della mitologia in tutti i suoi prodotti e in tutte le sue esperienze storicamente documentate. È il modo di narrare di Ovidio lo conferma: tutte le esperienze letterarie entrano in gioco. [...] Ovidio ha coinvolto, nel suo poema, tutto. Tutte le forme della letteratura e dell'arte antica vi confluiscono, in quanto esperienza umana. [...] Tutti i pilastri della cultura greco-romana ripassano per le sue mani. [...] Forse, fra le 1 tante cose che Ovidio ha voluto dirci, c'é anche questa: che anche tutte le grandi opere antiche sono giganteschi moduli. In questo senso, infinitamente più ampio, si può dire, per riprendere l'espressione di Sčeglov, che Ovidio ha voluto scrivere una "enciclopedia" e rappresentare tutto l'universo: l'universo materiale, ma anche e soprattutto l'universo culturale». Perché in questo universo si muove la sua poesia, ormai così diversa da quella sorta con i poetae novi, con la "rivoluzione" catulliana e culminate in un continuo evolversi con Virgilio e Orazio, poi con Tibullo e Properzio, tanto che G.B. Conte (cit.) può scrivere: «In realtà il mondo del mito, per il letteratissimo Ovidio, è anzitutto il mondo delle finzioni poetiche», un mondo del quale egli si compiace, proprio in quanto summa del patrimonio letterario precedente. «Tale compiaciuta consapevolezza della propria letterarietà si traduce naturalmente anche in distaccato sorriso sul carattere fittizio dei propri contenuti, in garbata ironia sull'inverosimiglianza delle leggende narrate». Qui giunge pertinente la precisazione di S. Mariotti (cit.): «Ovidio sa che i miti appartengono al mondo dell'incredibile, che sono creazioni di poeti» e «al pari dell'Ariosto, che gli è spesso confrontato, egli conserva e vuol conservata nel lettore la consapevolezza dell'irrealtà del suo mondo». Il che equivale alla volontà, cosi connaturata nell'operazione artistica, di farci apparire e credere il falso più vero del vero. Ovidio, s'e già detto, non possiede il senso del "sacro" e ciò non può che accentuare il suo disincantato distacco dalla materia che tratta, ma proprio per questo ne viene raddoppiato l'impegno di mostrarcela come se fosse reale, anche se è sottinteso, per convenzione fra autore e lettore, che non bisogna ritenerla tale. Non desta quindi meraviglia che Ovidio compia, come sostiene giustamente P. Bernardini Marzolla (cit.), «il prodigio di "rianimare" la mitologia: non qualche singolo mito - cosa tentata e fatta anche con successo da numerosi poeti anteriori —, ma la mitologia nella sua interezza, come categoria di manifestazioni del pensiero umano. [...] La mitologia ovidiana si muove". È una cosa viva; né testimonianza né materiale documentario, né serie di esercitazioni poetiche né addobbo decorativo, è centrata integralmente sulla natura e sull'uomo come parte della natura. [...] Diremo allora che una volta morti i miti (cioè perdutosi il loro valore socioreligioso), la "metamorfosi" resta il motivo che meglio spiega e giustifica, poeticamente, ma anche logicamente, il loro tipico intreccio di mondo divino, mondo umano e mondo della natura (e poi certo, ma in via secondaria, l'intercomunicabilità fra i regni della natura); il motivo che assicurando l'aggancio della realtà fisica è il più in linea con i passi compiuti dalla "ragione"; e anche il motivo più capace, per la sua universalità, di fungere da tessuto connettivo e di mettere in luce una coerenza in un materiale di una varietà immensa e di origine disparate. Tutto questo filtraggio intellettuale é stato verosimilmente alla base della scelta di Ovidio, al di la delle possibilità che quel tipo di miti, come egli sentiva, gli dava di esprimere la propria visione del mondo e dell'uomo». E continua: «Certo, Ovidio è un poeta completamente disimpegnato sia sul piano politico che su quello religioso: un fatto denso di significati in un'epoca come quella di Augusto, che, come è stato felicemente detto (Franz Cumont), segnò in Europa l'inizio dell'alleanza del trono e dell'altare. [...] Ovidio non richiama o rinvia a un "ideale di vita". Le sue Metamorfosi non sono la rappresentazione di un mondo tramontato dotato di belle usanze e bei valori; e in questo si distinguono profondamente, per esempio, dai nostri poemi cavallereschi, pure poggianti anch'essi sul primato della fantasia. Né si può propriamente dire che egli si arrocca nell'estetismo, anche se l'estetismo è fortissimo in lui; bada troppo all'uomo: e non all'uomo come era o come sarà, ma come è sempre stato ed è». L'uomo com'è nell'universo della natura, ma «il mondo reale», osserva Ju.K. Sčeglov nella sua indagine sulle strutture del poema, «non forma un sistema chiuso: esso è sminuzzato in una quantità di sistemi minori, ciascuno dei quali coglie, sotto qualche aspetto, una parte delle cose, ma non tutte le cose. Per questo nel mondo reale le cose sono isolate, non se ne percepisce il nesso originario. E Ovidio ricostruisce, si direbbe, il quadro del mondo nella sua forma primitiva, allorché tutte le cose componevano una unità che abbracciava l'intero universo. Egli perviene a questo risultato mediante una "depurazione" del mondo da tutte le incrostazioni, lasciando un unico livello a partire dal quale è possibile contemplare simultaneamente tutto ciò che esiste. Si tratta quasi di un modello del 2 mondo, di una sua esposizione semplificata e nello stesso tempo universale, sintetica. È per questo che il mondo diviene così sconfinato e acquista un tale fascino. Si scoprono l’affinità la differenza dei vari oggetti, le loro sottili gradazioni. il particolare principio della esposizione offre la possibilità di rappresentare cose quanto si vuole piccole e cose grandissime. Tutto ciò può venire descritto con l'aiuto dei tratti distintivi più semplici delle cose, i quali compiono il miracolo di trasformare il mondo in un sistema». Ma è sul piano narrativo che il disegno assume spessore: «le Metamorfosi sono il poema della rapidità: tutto deve succedersi a ritmo serrato, imporsi all'immaginazione, ogni immagine deve sovrapporsi a un'altra immagine, acquistare evidenza, dileguare», mentre «è continuando ad arricchire il quadro che Ovidio raggiunge un risultato di rarefazione e di pausa. Perché il gesto di Ovidio è sempre quello d'aggiungere, mai di togliere; di andare sempre più nel dettaglio, mai di sfumare nel vago», anche se «una legge di massima economia interna domina questo poema apparentemente votato al dispendio sfrenato. E’ l'economia propria alle metamorfosi, che vuole che le nuove forme recuperino quanto più è possibile i materiali delle vecchie» (I. Calvino, Gli indistinti confini, premessa a Ovidio, Metamorfosi, Torino 1979). E Piero Bernardini Marzolla (cit.) precisa: «il fatto è che la metamorfosi è di per se stessa un fenomeno ambiguo: evento tragico e distruttivo, ha anche un lato che è affermazione di vita: a volte è premio (e il caso principalmente degli eroi, "assunti" come astri come dei), a volte rimedio (è il caso delle persone infelici, convertite di solito in fiori o uccelli o fonti), quasi sempre, si, è punizione: ma in questo caso, risistemando i colpevoli, la trasformazione ne riconosce, anche se li menoma, il diritto all'esistenza. [...] Nessuno è cancellato dalla faccia della terra. Anche se ciò comporta un trauma inconsolabile, perchè nella metamorfosi «la ‘mente di prima’ (mens antiqua, mens pristina) rimane. E mente significa non il carattere, ma il modo di pensare e di sentire: le idee, i sentimenti, gli affetti, i ricordi. Ovidio ci mostra il dramma di queste personalità rivestite di un corpo che non è il loro, un dramma duplice: quello dell'io che ha perduto la propria identità, cioè i connotati che permettono di identificarlo, che lo rendono riconoscibile agli altri, e quello dell'io che non riesce a esprimersi». In questa sospensione ambigua, in fondo mai definitiva, perché il processo metamorfico potrebbe riverificarsi in senso opposto (ed è il caso delle trasformazioni e ritrasformazioni degli dei), risiede il fascino del poema, la straordinaria modernità della sua concezione, della sua struttura, che fortissimamente radicata nel classicismo lo stravolge al punto da non poterlo quasi più riconoscere. Un'ultima osservazione in appendice: «L'arte del poeta non è soltanto attratta dal corpo che si tramuta, ma pure e specialmente dall'animo che inorridendo si trasloca. Qui e la varietà grande e tragica del poema ovidiano. Lucrezio era stato il poeta delle cause; Ovidio fu il poeta delle forme» (C. Marchesi).*** Metamorfosi, VIII: Filemone e Bauci (611-724) Bauci e il marito Filemone ospitarono nella loro povera casa Giove e Mercurio travestiti da viandanti. Gli altri abitanti del paese li avevano scacciati. Gli dei mandarono un diluvio che sommerse tutte le case, eccetto quella dei due generosi ospiti. I due vecchi, avendo chiesto agli dei di morire insieme, furono mutati in due alberi che affiancavano la loro capanna divenuta un tempio. Amnis ab his tacuit. factum mirabile cunctos moverat; irridet credentes, utque deorum spretor erat mentisque ferox Ixione natus: "ficta refers nimiumque putas, Acheloe, potentes esse deos", dixit "si dant adimuntque figuras". obstipuere omnes, nec talia dicta probarunt; ante omnesque Lelex, animo maturus et aevo, 3 sic ait: "inmensa est finemque potentia caeli non habet et quicquid superi voluere peractum est. quoque minus dubites, tiliae contermina quercus collibus est Phrygiis, modico circumdata muro; ipse locum vidi; nam me Pelopeia Pittheus misit in arva, suo quondam regnata parenti. haud procul hinc stagnum est, tellus habitabilis olim, nunc celebres mergis fulicisque palustribus undae. Iuppiter huc specie mortali cumque parente venit Atlantiades positis caducifer alis. mille domos adiere locum requiemque petentes, mille domos clausere serae. tamen una recepit, parva quidem, stipulis et canna tecta palustri; sed pia Baucis anus parilique aetate Philemon illa sunt annis iuncti iuvenalibus, illa consenuere casa paupertatemque fatendo effecere levem nec iniqua mente ferendo. nec refert dominos illic famulosne requiras; tota domus duo sunt, idem parentque iubentque. ergo ubi caelicolae parvos tetigere penates summissoque humiles intrarunt vertice postes, membra senex posito iussit relevare sedili. quo super iniecit textum rude sedula Baucis inque foco tepidum cinerem dimovit et ignes suscitat hesternos foliisque et cortice sicco: nutrit et ad flammas anima producit anili multifidasque faces ramaliaque arida tecto detulit et minuit parvoque admovit aeno. quodque suus coniunx riguo collegerat horto, truncat holus foliis; furca levat illa bicorni sordida terga suis nigro pendentia tigno servatoque diu resecat de tergore partem exiguam sectamque domat ferventibus undis. interea medias fallunt sermonibus horas [sentirique moram prohibent. erat alveus illic fagineus curva clavo suspensus ab ansa. is tepidis impletur aquis artiusque fovendos accipit; in medio torus est de mollibus ulvis impositus lecto, sponda pedibusque salignis.] concutiuntque torum de molli fluminis ulva impositum lecto sponda pedibusque salignis; vestibus hunc velant, quas non nisi tempore festo sternere consuerant; sed et haec vilisque vetusque vestis erat, lecto non indignanda saligno. accubuere dei. mensam succincta tremensque ponit anus; mensae sed erat pes tertius impar; testa parem fecit; quae postquam subdita clivum sustulit, aequatam mentae tersere virentes. ponitur hic bicolor sincerae baca Minervae conditaque in liquida corna autumnalia faece intibaque et radix et lactis massa coacti 4 ovaque non acri leviter versata favilla, omnia fictilibus. post haec caelatus eodem sistitur argento crater fabricataque fago pocula, qua cava sunt, flaventibus illita ceris. parva mora est epulasque foci misere calentes, nec longae rursus referuntur vina senectae dantque locum mensis paulum seducta secundis. hic nux, hic mixta est rugosis carica palmis prunaque et in patulis redolentia mala canistris et de purpureis collectae vitibus uvae. candidus in medio favus est; super omnia vultus accessere boni nec iners pauperque voluntas. interea totiens haustum cratera repleri sponte sua per seque vident succrescere vina; attoniti novitate pavent manibusque supinis concipiunt Baucisque preces timidusque Philemon et veniam dapibus nullisque paratibus orant. unicus anser erat, minimae custodia villae, quem dis hospitibus domini mactare parabant; ille celer penna tardos aetate fatigat eluditque diu tandemque est visus ad ipsos confugisse deos. superi vetuere necari; "di" que "sumus meritasque luet vicinia poenas impia"; dixerunt "vobis inmunibus huius esse mali dabitur; modo vestra relinquite tecta ac nostros comitate gradus et in ardua montis ite simul". parent ambo baculisque levati nituntur longo vestigia ponere clivo. tantum aberant summo quantum semel ire sagitta missa potest; flexere oculos et mersa palude cetera prospiciunt, tantum sua tecta manere; dumque ea mirantur. dum deflent fata suorum, illa uetus dominis etiam casa parva duobus vertitur in templum; furcas subiere columnae; stramina flavescunt aurataque tecta videntur caelataeque fores adopertaque marmore tellus. talia tum placido Saturnius edidit ore: "dicite, iuste senex et femina coniuge iusto digna quid optetis". cum Baucide pauca locutus, iudicium superis aperit commune Philemon "esse sacerdotes delubraque vestra tueri poscimus et, quoniam concordes egimus annos, auferat hora duos eadem ne coniugis umquam busta meae videam, neu sim tumulandus ab illa. vota fides sequitur; templi tutela fuere, donec vita data est. Annis aevoque soluti ante gradus sacros cum starent forte locique narrarent casus, frondere Philemona Baucis, Baucida conspexit senior frondere Philemon. iamque super geminos crescente cacumine vultus mutua, dum licuit, reddebant dicta; "vale" que, 5 "o coniunx" dixere simul, simul abdita texit ora frutex. ostendit adhuc Thyneius illic incola de gemino vicinos corpore truncos. haec mihi non vani, neque erat cur fallere vellent, narravere senes. equidem pendentia vidi serta super ramos ponensque recentia dixi: "cura deum di sint et qui coluere colantur". “Il fiume tacque dopo queste parole. Il fatto prodigioso aveva colpito tutti. Il figlio di Issione deride chi ci crede e, sprezzante com'era nei confronti degli dei e d'animo orgoglioso, disse: "Racconti cose inventate, e credi, Acheloo, che gli dei siano troppo potenti, se danno e tolgono le sembianze". Rimasero tutti allibiti, e non credettero a tali parole; e prima di tutti Lelege, maturo per animo ed età, così disse: "E' immensa la potenza del cielo e non ha limite, e tutto quello che gli dei superni vogliono è fatto. E perché tu dubiti di meno, c'è nei colli frigi una quercia vicino ad un tiglio, circondata da un piccolo muro. Io stesso vidi il posto; infatti Pitteo mi mandò nella terra di Pelope, una volta governata da suo padre. Non lontano da lì c'è uno stagno, terra un tempo abitabile, ora paludi abitate da smerghi e folaghe palustri. In questo luogo Giove sotto spoglie mortali venne e con il padre venne il nipote di Atlante, portatore del caduceo, deposte le ali. In mille case si accostarono, con la richiesta di un luogo per riposare, mille catenacci chiusero le case. Tuttavia una li accolse, seppur piccola e ricoperta da stoppie e canne palustri. Ma la pia vecchia Bauci e Filemone di pari età si erano uniti negli anni giovanili ed erano invecchiati insieme in quella casa; non cercando di nascondere la povertà e sopportandola serenamente la resero accettabile. E non importa che tu cerchi dove siano i servi o i padroni in quella dimora: tutta la casa sono loro due, sono loro stessi ad obbedire e comandare. Dunque, quand'ebbero toccato gli dei la piccola casa e, chinato il capo, passarono per la piccola porta, il vecchio li invitò a riposare le membra, dopo aver porto una panca, sopra la quale la premurosa Bauci gettò un rozzo tessuto. Poi smosse la cenere tiepida sul focolare e ravviva il fuoco del giorno prima, lo alimenta con foglie e corteccia secca e lo fa fiammeggiare col suo fiato di vecchia; portò giù dalla soffitta rami di pino fatti a pezzi e ramaglie secche, li spezzò e li pose sotto un piccolo recipiente di bronzo. E libera dalle foglie un cavolo che suo marito aveva raccolto nell'orto irrigato. Con una forca a due punte stacca una spalla di porco affumicata, che pendeva da una trave annerita, e taglia dalla spalla un tempo messa da parte una 6 fettina, e dopo averla tagliata la mette a cuocere nell'acqua bollente. Intanto ingannano il tempo dell'attesa con discorsi, e impediscono che l'attesa sia avvertita. C'era lì una tinozza di faggio, appesa ad un chiodo per il manico ricurvo: è riempita d'acqua tiepida ed accoglie le membra ( degli dei ) per ristorarle. In mezzo c'è un materasso di morbida ulva, posto su un letto con sponda e piedi di salice. Lo coprono con una coperta, che erano soliti stendere solo nei giorni di festa; ma anche questa coperta era rozza e vecchia, ben adatta al letto di salice. Gli dei vi si accomodarono. La vecchia prepara la tavola con la veste tirata in su e un po' tremolando. Ma il terzo piede della tavola era diseguale: un coccio lo livellò. E dopo che quello posto sotto il piede eliminò la pendenza pulì la tavola pareggiata la menta fresca. Qui viene posta la bacca bicolore della vergine Minerva (olive), corniole autunnali conservate nell'aceto, e cicoria, e un ravanello, una forma di cacio, uova cotte a fuoco lento nella tiepida cenere: tutte queste cose in vasi di terracotta. Dopo questi viene disposto un cratere cesellato del medesimo argento, e coppe fatte di faggio, spalmate di cere bionde dove sono cave. C'è una piccola pausa, ed i focolari mandarono pietanze calde e di nuovo vengono riportati vini di non eccessiva stagionatura, e danno posto alle seconde mense, lasciati per un po' da parte. Ed ecco le noci, ecco i fichi secchi mescolati ai datteri rugosi, le prugne e le mele profumate nei grandi canestri, e le uve raccolte da viti rosseggianti. Nel mezzo c'è un favo candido. Su ogni cosa si aggiunsero i volti sorridenti ed una disponibilità né svogliata né limitata. Nel frattempo osservano il cratere, ogni volta che è stato svuotato si riempie ed il vino ripullula da sé. Stupiti dalla novità hanno paura, e con le palme rivolte in alto si mettono a pregare Bauci ed il timido Filemone, e chiedono perdono per lo scarso cibo e per non aver preparato nulla. C'era un'unica oca, custode della piccola capanna, che i padroni si preparavano a sacrificare agli dei ospiti. Quella li mette a dura prova, perché è veloce d'ali e loro sono lenti per l'età, e li elude a lungo, ed infine sembrò che si fosse rifugiata proprio dagli dei. Gli dei vietarono che fosse uccisa, e dissero : "Siamo dei, e l'empio vicinato pagherà la giusta punizione. Vi sarà concesso di essere immuni da questo male. Frattanto lasciate la vostra casa, seguite i nostri passi ed andate insieme sulla cima del monte". Entrambi obbedirono e, appoggiati ai bastoni, si sforzano a procedere per la lunga salita. Erano ormai tanto lontani dalla cima quanto un tiro di freccia: si volsero a guardare e videro tutte le altre case sommerse dalla palude, solo la loro rimase in piedi. E mentre le guardano, 7 mentre compiangono i destini dei loro vicini, quella vecchia casetta, piccola persino per i due padroni, si trasforma in tempio: colonne subentrano ai pali biforcuti, la stoppia del tetto prende riflessi d'oro, e si vede che il tetto è d'oro, le porte cesellate ed il pavimento ricoperto di marmo. Allora con placido volto il figlio di Saturno proferì queste parole: "Dite quello che desiderate, vecchio onesto e tu, donna degna dell'onesto marito". Dopo aver confabulato poco con Bauci, Filemone rivela agli dei la risposta presa in comune: "Chiediamo di essere sacerdoti e di custodire il vostro tempio e, poiché siamo vissuti in concordia, il medesimo momento ci porti via entrambi, possa non vedere mai il sepolcro di mia moglie, né io debba essere seppellito dopo di lei". Il compimento segue i voti: furono i custodi del tempio, fino a quando fu data loro la vita. Ormai indeboliti dagli anni e dall'età, mentre per caso si trovavano davanti ai sacri giardini e narravano la storia del luogo, Bauci vide che a Filemone spuntavano delle foglie, ed il più anziano Filemone vide che a Bauci spuntavano foglie. E mentre ormai la cima di un albero avviluppava i volti di entrambi, finchè fu possibile si indirizzavano a vicenda parole: "Addio, coniuge" dissero insieme, e contemporaneamente il fogliame ricoprì le bocche nascoste. Ancora oggi in quel luogo la gente frigia mostra due tronchi vicini nati dai due corpi. Dei vecchi sinceri mi narrarono queste cose e non c'era motivo per cui volessero ingannarmi. Per parte mia vidi coroncine di fiori che erano appese sui rami, e ponendone di fresche dissi: "Gli uomini pii sono cari agli dei e coloro che li hanno onorati sono da essi onorati". Il ritorno del motivo della Metamorfosi Nell’ambito della breve stagione dell’estetismo letterario ritorna il tema della metamorfosi. Esso viene interpretato tragicamente da O. Wilde e in modo sublimante dal D’Annunzio. In ogni caso, per quanto in entrambi resti pur sempre un gioco di forme, queste due esperienze costituiscono in prospettiva un preannuncio alla moderna e nuova modellizzazione kafkiana, nella quale scopriamo metaforicamente la problematicià assurda e ineludibile dell’uomo contemporaneo, del quale diventa, a differenza della versione serena ed eternatrice di Ovidio, un orizzonte di lugubre mostruosità e terrificante mortalità, 8 Il ritratto di Dorian Gray di O. Wilde, Cap. XX Era una bella nottata, così tiepida che gettò il soprabito sul braccio e non si avvolse nemmeno la sciarpa di seta intorno al collo. Mentre si dirigeva verso casa fumando una sigaretta, due giovani in abito da sera gli passarono accanto. Sentì uno dei due sussurrare all'altro: "Quello è Dorian Gray." Ricordò come gli faceva piacere una volta quando lo indicavano, lo fissavano o parlavano di lui. Adesso era stanco di sentire ripetere il suo nome. Il fascino del piccolo villaggio dove era stato tanto spesso negli ultimi tempi era dovuto per metà al fatto che nessuno sapeva chi fosse. Aveva detto molte volte alla ragazza che aveva lusingato a innamorarsi di lui, di essere povero e lei gli aveva creduto. Una volta le aveva detto di essere malvagio e lei aveva riso, dicendogli che i malvagi sono sempre vecchi e brutti. Quella sua risata pareva il canto di un tordo. E come era bella con i suoi vestitini di cotone e i suoi grandi cappelli! Non sapeva nulla ma aveva tutto ciò che lui aveva perduto. A casa trovò il cameriere che lo attendeva. Lo mandò a letto, si distese sul divano della biblioteca e cominciò a pensare ad alcune delle cose che Lord Henry gli aveva detto. Era proprio vero che è impossibile cambiare? Provava un desiderio sfrenato per l'immacolata purezza dell'adolescenza: la sua infanzia bianco rosata, come l'aveva chiamata una volta Lord Henry. Sapeva di essersi macchiato, di aver colmato lo spirito di corruzioni, di aver nutrito di orrori la sua fantasia; sapeva di aver avuto un'influenza maligna sugli altri e di aver provato una gioia terribile nel farlo; e sapeva che delle vite che avevano attraversato la sua, proprio le più belle e le più ricche di promesse, erano state da lui condotte all'infamia. Ma era irreparabile, tutto questo? Non aveva nessuna speranza? Ah! in quale mostruoso attimo di orgoglio e di passione aveva invocato che il ritratto portasse il peso dei suoi giorni, lasciando a lui l'immacolato candore dell'eterna giovinezza! A questo era dovuto il suo fallimento. Sarebbe stato meglio, per lui, se ogni peccato avesse portato con sé il suo castigo certo e immediato. Il castigo purifica. Non "perdona i nostri peccati", ma "colpiscici per le nostre iniquità" dovrebbe essere la preghiera dell'uomo nei confronti di un Dio più giusto. Lo specchio stranamente intagliato che Lord Henry gli aveva regalato molti anni prima era sulla tavola e, come un tempo, gli amorini dalle bianche membra ridevano 9 tutto intorno alla cornice. Lo sollevò, come aveva fatto in quella notte tremenda quando per la prima volta aveva notato il cambiamento nel quadro fatale, e guardò la liscia superficie con occhi disperati e colmi di lacrime. Una volta, una persona che lo aveva amato terribilmente gli aveva scritto una lettera folle che terminava con queste parole di adorazione: "Il mondo è cambiato perché tu sei fatto di avorio e d'oro. La curva delle tue labbra riscrive la storia." La frase gli ritornò alla mente e la ripeté più volte tra sé, poi imprecò contro la propria bellezza e, gettato lo specchio sul pavimento, lo ridusse a schegge d'argento sotto i tacchi. La bellezza lo aveva rovinato, la bellezza e la giovinezza da lui invocata. Senza queste due cose, la sua vita avrebbe potuto essere senza macchie. La sua bellezza era stata solo una maschera, la gioventù solo una beffa. Che cos'era la gioventù, nel migliore dei casi? Un'età verde, acerba, un'età di amori superficiali e di pensieri morbosi. Perché ne aveva indossato la livrea? La gioventù lo aveva rovinato. Meglio non pensare al passato. Nulla poteva mutarlo. A se stesso, al suo futuro, doveva pensare. James Vane era sepolto in una tomba senza nome nel cimitero di Selby. Alan Campbell si era sparato una sera nel suo laboratorio, senza però rivelare il segreto che era stato costretto a conoscere. L'eccitazione per la scomparsa di Basil Hallward si sarebbe esaurita presto. Stava già affievolendosi. Da quel lato si sentiva al sicuro. E, d'altra parte, non era la morte di Basil Hallward che gli opprimeva la mente. Lo preoccupava piuttosto la morte vivente della sua anima. Basil aveva dipinto il ritratto e gli aveva rovinato la vita. Non glielo poteva perdonare. Il ritratto era la causa di tutto. Basil gli aveva detto delle cose intollerabili e tuttavia le aveva sopportate pazientemente. L'omicidio era stato solo un atto di follia momentanea. Per quanto riguardava Alan Campbell, poi, era lui che si era ucciso. Lo aveva fatto di sua volontà, la cosa non lo riguardava affatto. Una nuova vita! Ecco che cosa voleva. Ecco che cosa attendeva. Certo l'aveva già iniziata. In ogni caso aveva risparmiato una creatura innocente. Non avrebbe mai più insidiato l'innocenza, sarebbe stato buono. Pensando a Hatty Merton, si domandò se il ritratto nella camera chiusa fosse cambiato. Certo, non doveva più essere così orribile. Forse, se fosse riuscito a purificare la sua vita, sarebbe stato in grado di eliminare dal viso le tracce di ignobili passioni. Forse le tracce del male erano già scomparse. Sarebbe andato a vedere. Prese la lampada sulla tavola e salì cautamente 10 le scale. Mentre apriva la porta, un sorriso di gioia gli sfiorò il viso stranamente giovane e indugiò un attimo sulle labbra. Sì, sarebbe stato buono e l'orrenda cosa nascosta non lo avrebbe più terrorizzato. Gli parve che il peso gli fosse già stato tolto di dosso. Entrò tranquillamente, chiuse la porta alle sue spalle, come era solito fare, e tolse il panno cremisi dal ritratto. Un grido di dolore e di indignazione gli sfuggì dalle labbra. Non riusciva a scorgere nessun cambiamento, se non negli occhi che avevano assunto un'espressione scaltra e nella bocca sulla quale erano apparse le rughe dell'ipocrisia. La cosa era sempre disgustosa - più ripugnante di prima, se possibile e la rugiada scarlatta che macchiava la mano sembrava più brillante, più simile a sangue appena versato. Allora cominciò a tremare. Solo per vanità aveva compiuto la sua unica buona azione? Oppure per desiderio di una nuova sensazione, come aveva suggerito Lord Henry con la sua risata beffarda? O per quel desiderio di recitare una parte che a volte ci fa compiere azioni migliori di noi? O forse per tutte queste cose insieme? E come mai la macchia rossa si era allargata? Pareva essersi diffusa come un'orribile malattia sulle dita rugose. C'era del sangue sui piedi come se fosse colato, sangue anche sulla mano che non aveva impugnato il coltello. Confessare? Voleva dire che doveva confessare? Denunciarsi e farsi condannare a morte? Rise. L'idea gli sembrava mostruosa. D'altra parte, se anche avesse confessato, chi gli avrebbe creduto? Della vittima non rimanevano tracce. Tutto quello che gli apparteneva era stato distrutto. Lui stesso aveva bruciato le cose che erano rimaste dabbasso. La gente avrebbe detto semplicemente che era matto. Se avesse insistito lo avrebbero chiuso in manicomio... Tuttavia era suo dovere confessare per soffrire pubblicamente la vergogna che gliene sarebbe venuta e per espiare davanti a tutti. C'era un Dio che imponeva agli uomini di rivelare i peccati in terra così come in cielo. Qualunque sua azione non lo avrebbe mondato finché non avesse confessato la sua colpa. La sua colpa? Scosse le spalle. La morte di Basil Hallward gli sembrava una cosa di minima importanza. Pensava a Hatty Merton: non era infedele, questo specchio della sua anima che stava fissando. Vanità? Curiosità? Ipocrisia? Solo questi erano i motivi della sua rinuncia? No, c'era stato qualche cosa di più. Almeno così pensava. Ma chi poteva dirlo? ... No, non c'era stato nient'altro. L'aveva risparmiata per vanità, per ipocrisia aveva indossato la maschera della bontà, per curiosità era stato spinto alla 11 rinuncia. Ora se ne rendeva conto. Ma questo delitto... lo avrebbe perseguitato per tutta la vita? Sarebbe sempre stato costretto a sopportare il peso del suo passato? Doveva proprio confessare? Mai. Era rimasto solo un elemento di prova contro di lui. Il ritratto: ecco la prova. Lo avrebbe distrutto. Perché lo aveva conservato per tanto tempo? Una volta gli faceva piacere vederlo cambiare e invecchiare. Negli ultimi tempi questo piacere era scomparso. Lo teneva sveglio la notte. Quando era lontano lo terrorizzava l'idea che altri potessero vederlo, aveva portato la malinconia nelle sue passioni, il suo ricordo gli aveva rovinato diversi momenti di gioia. Per lui aveva rappresentato la coscienza. Sì, era stato una coscienza. L'avrebbe distrutto. Si guardò in giro e vide il coltello che aveva colpito Basil Hallward. Lo aveva pulito molte volte e non vi era rimasta nessuna macchia: era liscio e lucente. Come aveva ucciso il pittore così avrebbe ucciso la sua opera e tutto ciò che essa significava. Avrebbe ucciso il passato e, quando il passato fosse morto, sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso la mostruosa vita della sua anima e, senza i suoi infami avvertimenti, si sarebbe sentito in pace. Afferrò il coltello e colpì la tela. Si udì un grido poi un tonfo. Un grido di agonia così terribile che i domestici si svegliarono spaventati e uscirono intimoriti dalle loro stanze. Due signori che passavano nella piazza si fermarono e guardarono in alto, verso la grande casa. Proseguirono finché incontrarono un poliziotto e lo condussero lì. L'uomo suonò diverse volte il campanello ma non ottenne risposta. Tranne una finestra illuminata all'ultimo piano, la casa era immersa nell'oscurità. Dopo un poco si allontanò, si fermò sotto un portico vicino e rimase a osservare. "Di chi è questa casa, agente?" domandò il più giovane dei due. "Del signor Dorian Gray, signore," rispose il poliziotto. I due uomini si guardarono e si allontanarono con una smorfia di scherno. Uno dei due era lo zio di Sir Henry Ashton. All'interno, nei quartieri della servitù, i domestici semisvestiti parlavano tra loro a bassa voce. La vecchia signora Leaf piangeva e si torceva le mani. Francis era pallido come un morto. Dopo un quarto d'ora circa prese con sé un cocchiere e uno degli uomini di fatica. Bussarono, ma non ottennero risposta. Chiamarono. Tutto era silenzioso. Alla fine, dopo aver tentato invano di forzare la porta, salirono sul tetto e si calarono sul balcone. La finestra cedette facilmente: la serratura era vecchia. Quando furono entrati, videro appeso alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto l'ultima volta, in tutto lo splendore della sua gioventù e della sua bellezza. Disteso sul pavimento c'era un 12 uomo, in abito da sera, con un coltello piantato nel cuore. Era sfiorito, rugoso, con un volto ripugnante. Solo quando esaminarono i suoi anelli lo riconobbero. G. D’Annunzio: La pioggia nel pineto Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude, o Ermione. Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitío che dura e varia nell'aria secondo le fronde più rade, men rade. Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale 13 che il pianto australe non impaura, nè il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d'arborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta. L'accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall'umida ombra remota. Più sordo e più fioco s'allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s'ode voce del mare. Or s'ode su tutta la fronda crosciare l'argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell'aria è muta; ma la figlia 14 del limo lontana, la rana, canta nell'ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pesca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l'erbe, i denti negli alvèoli son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c'intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude, o Ermione. Data di composizione ignota. Probabile fra la metà di luglio 1902 e la metà dell'agosto dell'anno successivo) Franz Kafka, La metamorfosi, 1916] Della vicenda de La metamorfosi è protagonista il commesso viaggiatore Gregorio Samsa il quale, dopo aver trascorso una notte agitata, si sveglia con una strana 15 sensazione addosso e si accorge di essersi trasformato in un enorme scarafaggio. Inizia così per lui una nuova vita; per evitare la repugnanza dei suoi familiari vive nascosto nella sua stanza (dove la sorella, per permettergli di sopravvivere, porta qualche avanzo dei pasti familiari), si aggira fra i mobili in un'assurda condizione: la consapevolezza umana coesiste con la sua dimensione animale. Intanto la famiglia — di cui era l'unico sostegno — per sbarcare il lunario accetta alcuni pensionanti in casa. Una sera, mentre la sorella suona il violino di fronte ai familiari e agli ospiti, Gregorio furtivamente esce dalla sua stanza e ascolta, felice, anche lui. Ma uno dei pensionanti si accorge, inorridito, di lui: succede un inferno; ferito e respinto nella sua camera Gregorio vi muore per fame. La vecchia cameriera pensa a far sparire quell'ingombrante cadavere, quella roba lì. È una liberazione per tutti: uscirono di casa tutti insieme, cosa che non facevano da mesi, per una gita fuori città e, appoggiati comodamente agli schienali del tram, discussero le possibilità del loro avvenire. Ambientato, come tante altre opere di Kafka, in un mondo piccolo borghese, La metamorfosi è un esempio illustre d'una costante dell’opera di Kafka, cioè la vicenda illogica e fuori dalle normali leggi dell'esistenza fisica è narrata con una minuziosa attenzione ai particolari realistici: da ciò scaturisce un gioco di contrasti che la rende assurda e inquietante. Come sempre in Kafka, la vicenda narrata è aperta a una vasta gamma di interpretazioni: qui oltre a una trascrizione in termini simbolici di una situazione autobiografica (il conflitto col padre di cui la famosa Lettera al padre è agghiacciante testimonianza), sono dominanti il motivo dell'esclusione e della solitudine dell'uomo, il suo anelito ad un colloquio con gli altri che, per misteriosi ed arbitrari limiti nei quali viene incatenato (la trasformazione in scarafaggio), gli viene rifiutato; e sono resi con una fusione di grottesco e di pietà che rientra certo nel clima e nei moduli dell'espressionismo ma è carica di quell'angoscia esistenziale tipicamente kafkiana. “Sebbene Gregorio si ripetesse che non succedeva nulla, che tutto si riduceva allo spostamento di qualche mobile, dovette presto confessarsi che i movimenti delle donne, le loro brevi esclamazioni, lo stridio dei mobili sul pavimento, lo sconvolgevano: per quanto rientrasse testa e gambe, schiacciandosi contro il pavimento, non avrebbe potuto reggere a lungo. Gli vuotavano la sua camera, gli prendevano tutte le cose alle quali era affezionato: il cassettone, ove era riposto il 16 traforo con gli altri arnesi, lo avevano già portato fuori; ora tentavano di smuovere la scrivania, sulla quale aveva scritto i compiti dell’accademia di commercio, delle medie, persino delle elementari. No, non poteva più tenere conto delle buone intenzioni delle donne, le quali, del resto, mute per la fatica, avevano fatto dimenticare la loro esistenza. Si sentivano solo i loro passi pesanti. Mentre la mamma e la sorella, nella stanza accanto, riprendevano fiato appoggiandosi alla scrivania, lui uscì fuori, tanto disorientato da cambiare direzione quattro volte; perplesso, stava pensando cosa doveva salvare per prima, quando sulla parete ormai nuda scorse il ritratto della signora in pelliccia. Rapido raggiunse il quadro e si appoggiò al vetro, che aderì contro il suo ventre bruciante, dandogli un senso di sollievo. Almeno quel ritratto, che copriva col suo corpo, nessuno glielo avrebbe tolto. Il capo rivolto verso la porta della sala, attese che le donne rientrassero. Queste, che non si erano concesse troppo riposo, tornarono subito. Grete teneva un braccio intorno alla vita della mamma, quasi sorreggendola. “E ora, cosa prendiamo?” disse Grete, guardandosi intorno; ma, d’un tratto, il suo sguardo incontrò quello di Gregorio sulla parete. Se conservò il suo sangue freddo, fu per la mamma. Tremando tutta e cercando di coprire, con il capo, la vista del muro, disse alla donna: “Vieni, forse è meglio che torniamo un momento in sala”. Gregorio capì che Grete voleva mettere al sicuro la mamma, per poi cacciarlo dal muro. Ci si provasse! Lui non si sarebbe mosso dal suo quadro: piuttosto le sarebbe saltato in faccia. Ma le parole di Grete servirono mettere in sospetto la mamma, la quale si scansò e vide l’enorme macchia bruna sulla carta fiorata. Prima ancora di aver identificato quella macchia con Gregorio, gridò con voce rauca: “Oh Dio, oh Dio!” e alzando le braccia, in un gesto di suprema rinuncia, cadde sul divano, per non muoversi più. “Ah, Gregorio!” gridò la sorella, alzando il pugno e trafiggendolo con lo sguardo. Erano le prime parole che gli rivolgeva direttamente, dal momento della metamorfosi. Corse nella stanza vicina a prendere qualche cosa per far rinvenire l’esanime; Gregorio volle seguirla, a salvare il ritratto c’era ancora tempo, ma era rimasto attaccato al vetro, e dovette fare uno sforzo per liberarsi. Quindi anche lui si affrettò in sala, quasi fosse ancora in grado di consigliare la sorella, seguendola passivamente, mentre frugava tra flaconi e boccette, e spaventandola quando si voltò. 17 Una boccetta cadde a terra e andò in frantumi, una scheggia ferì Gregorio in faccia, mentre intorno a lui si spandeva un liquido corrosivo. Grete, senza indugiare, afferrò quante più boccette poté e corse dalla mamma, chiudendosi dietro la porta con un calcio. Ora Gregorio era separato dalla madre, forse vicina a morire per colpa sua; non poteva aprire la porta, se non voleva far fuggire la sorella che doveva rimanere accanto alla mamma: non gli restava dunque che aspettare e, pieno di rimorsi e di angoscia, cominciò a strisciare sulle pareti, sui mobili, sul soffitto, finché non ebbe l’impressione che tutta la stanza gli girasse intorno: a questo punto, disperato, cadde in mezzo al grande tavolo. Passò qualche minuto. Gregorio giaceva, spossato, sul tavolo; intorno non si sentiva nulla, forse questo era un buon segno. A un tratto, suonarono. La domestica era, naturalmente, chiusa in cucina, e Grete dovette andare ad aprire. Era il babbo. “Che è successo?” furono le sue prime parole: l’aspetto di Grete gli aveva rivelato ogni cosa. Grete rispose con voce soffocata - forse appoggiava il viso contro il suo petto -: “La mamma è svenuta, ma ora va meglio. Gregorio è scappato”. “Me l’aspettavo”, disse il padre. “Ve l’ho sempre detto, ma voi donne non volete starmi a sentire”. Gregorio capì che il padre aveva interpretato male le parole di Grete, che lo immaginava colpevole di qualche violenza. Bisognava cercare di placarlo, perché mancavano tempo e modi per spiegargli le cose. Corse verso la porta della camera e si strinse ad essa, affinché il babbo, entrando nell’anticamera, vedesse che lui aveva l’intenzione di rientrare subito nella sua stanza, e che non era necessario spingerlo: sarebbe sparito, non appena gli avessero aperto la porta. Ma il padre non era in un umore da apprezzare simili finezze: “Ah!” gridò entrando, con una specie di feroce allegria. Gregorio distolse la testa dalla porta, e la alzò verso il babbo. Non se lo immaginava davvero, in quel modo. Negli ultimi tempi, tutto preso dalla novità delle sue passeggiate lungo le pareti, aveva trascurato di seguire gli avvenimenti domestici; non doveva quindi stupirsi di qualche cambiamento. Ma, ma… quell’uomo era proprio suo padre? L’uomo stanco, che rimaneva sprofondato nel letto quando Gregorio partiva per un viaggio d’affari? Che, quando tornava, lo riceveva senza alzarsi dalla poltrona, in veste da camera, limitandosi ad alzare le braccia in segno di gioia? Che in occasione delle rare passeggiate familiari - qualche domenica, qualche grande festa - si trascinava tra Gregorio e la moglie, avanzanti 18 passo passo? L’uomo infagottato in un vecchio cappotto, col bastone prudentemente puntato in avanti, che si fermava ogni dieci passi, facendo fermare gli altri per dire qualche cosa? Eccolo lì impettito, in un’impeccabile uniforme blu coi bottoni d’oro, da commesso di banca; sopra l’alto colletto duro traboccava il suo pesante doppiomento; gli occhi neri brillavano, vivi e attenti, al di sotto delle folte sopracciglia; i capelli bianchi, di solito in disordine, erano accuratamente pettinati, lucidi e divisi da una esatta scriminatura. Per prima cosa buttò sul divano il berretto col monogramma dorato, probabilmente di una banca, facendolo volare attraverso la stanza, quindi, spinte indietro le falde della lunga giacca, le mani in tasca, avanzò minaccioso verso Gregorio. Neppure lui doveva sapere cosa aveva in mente; avanzava levando i piedi più di quanto normalmente si faccia, e Gregorio stupì per la lunghezza delle sue scarpe. Ma non indugiò a riflettere su questo punto: sino dal primo giorno della sua nuova vita sapeva bene che il padre considerava opportuna, nei suoi confronti, solo la più grande severità, e si diede alla fuga. Si fermava quando quello si fermava, e riprendeva a correre appena l’altro accennava a muoversi. In questo modo fecero diverse volte il giro della stanza, senza che accadesse nulla; il ritmo dei loro movimenti era, anzi, tanto lento, da non avere neppure l’apparenza di un inseguimento. Gregorio, temendo che il padre considerasse una fuga sulle pareti o sul soffitto come una beffa, restava sul pavimento. Ma presto dovette dirsi che non avrebbe retto a lungo quella corsa: un solo passo del padre gli costava un’infinità di movimenti e già lo opprimeva l’affanno, non aveva mai avuto polmoni robusti. Avanzava barcollando, con tale sforzo da non riuscire a tenere gli occhi aperti, nell’assurda speranza che la fuga rappresentasse la salvezza, senza neppure pensare alle pareti pur sempre accessibili, anche se piene di mobili finemente intagliati, pieni di cuspidi e di festoni. A un tratto qualcosa gli cadde vicino, rotolò via adagio. Era una mela, subito seguita da un’altra. Gregorio, atterrito, si fermò: inutile continuare a correre, se il padre aveva deciso di bombardarlo. Si era riempito le tasche dalla fruttiera sulla credenza, e lanciava una mela dopo l’altra, senza badare troppo alla mira. Le mele, piccole e rosse, rotolavano sul pavimento, urtandosi come elettrizzate. Una lo sfiorò e scivolò via senza fargli male; ma un’altra affondò addirittura nel suo dorso. Gregorio volle trascinarsi ancora avanti, come se il movimento potesse lenire l’incredibile dolore che lo aveva sorpreso: ma rimase inchiodato al suolo, sentendosi venir meno. Poté ancora vedere la porta della sua camera che si spalancava, facendo 19 passare la sorella che urlava e la mamma discinta, perché Grete l’aveva svestita per farla riavere, la madre correre verso il padre, inciampando nelle gonne che cadevano una dopo l’altra, slanciarsi su di lui, abbracciarlo e tenendolo stretto a sé, con le mani intrecciate dietro la nuca, chiedergli di risparmiare la vita del loro figliolo. A questo punto, Gregorio non vide più nulla”. Romualdo Marandino 20