La metamorfosi prima e dopo Ovidio

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La metamorfosi prima e dopo Ovidio
LA METAMORFOSI PRIMA E DOPO OVIDIO
La metamorfosi è la trasformazione di un essere in un altro di natura diversa. E’ una credenza
caratteristica e diffusa in ogni mitologia, con innumerevoli cambiamenti di forme, in particolare di
essere umani mutati in animali, piante, e persino stelle, per intervento degli dei. Tale credenza ebbe
origine, probabilmente, dall’osservazione della natura, dove le metamorfosi sono diffusissime in
ogni settore, dalla botanica alla zoologia, dalla geologia all’astronomia, dalla biologia
all’ecologia. Comprensibile, allora, che a partire da Ovidio, quando la sua opera è stata
autenticamente compresa, che il fenomeno della metamorfosi sia stato inteso anche in senso
antropologico e quindi psicologico.
Ju.K. Sčeglov (Alcuni tratti strutturali delle `Metamorfosi' di Ovidio) ritiene che il fine del poeta in
quest’opera sia quello «di mostrare tutto l'universo, tutto il mondo con tutto ciò che vi esiste; di
creare quasi un'enciclopedia della natura». Un'opera universale quindi attraverso l'ottica dei miti
metamorfici. Ma qual è la ragione di questa scelta (anche se non sarebbe difficile individuarla nella
sospensione ambigua tra vero e falso che serpeggia nelle opere giovanili)? «La metamorfosi»,
scrive C. Segal (Ovidio e la poesia del mito), «può esprimere il carattere "fluido" e precario
dell'identità, l'incertezza e l'imprevedibile materialità del mondo naturale. Ma, allo stesso tempo, la
metamorfosi è capace di rappresentare la fissità del carattere, un'identità cui l'individuo non può
sfuggire; da questo punto di vista si potrebbe dire che la metamorfosi appare come una metafora che
è rimasta latente per tutta una vita e che viene improvvisamente capita in termini visivi: la crudeltà
di Licaone, la rapacità di Tereo, la durezza delle Propetidi». Così, «considerate al livello più serio,
le Metamorfosi costituiscono una visione complessiva, in forma d'immagine, sulla posizione
dell'uomo tra stabilità e caducità, amore e morte, ordine e caos, tra un'oganizzazione giusta o
ingiusta del mondo». E al di là della professione di fede nel verbo pitagorico, sia pure
`modernizzato', che Ovidio abbraccia al termine dell'opera (fors'anche per darsi una giustificazione
teorica), e proprio in questo equilibrio precario ed effimero che affiora «la "sua" personale filosofia,
dalle venature profondamente pessimistiche», accertato che nel fluire ininterrotto dell'esistente
«ogni trasformazione è un dramma più doloroso della morte vera, per la sua ambiguità, cioè perché,
come dice Mirra (X 487), non è vita né morte» (P. Bernardini Marzolla, introd. a Ovidio,
Metamorfosi). Infatti «il carattere fondamentale del mondo descritto dalle Metamorfosi è la sua
natura ambigua e ingannevole, l'incertezza dei confini fra realtà e apparenza, fra la concretezza delle
cose e l'inconsistenza delle apparenze. [...] .La lingua stessa, lo stile, si prestano a mostrare la natura
ambigua delle cose: esibendo la sua connaturata doppiezza, anche il linguaggio rivela la sua
pericolosità, lo scarto fra l'illusorietà di ciò che appare e la concretezza di ciò che è» (G.B. Conte,
Letteratura latina).
Allora, si domanda P. Bernardini Marzolla (cit.), «che cos'è in verità quest'opera? È scritta in forma
epica, nello stile dell'epos, eppure presenta tratti "non epici": non Canto per la materia trattata,
quanto proprio per la struttura e lo spirito. È un epos mai visto. [...] Il punto e che le Metamorfosi
sono, sotto i panni della poesia epica, la prima opera narrativa di grande respiro della letteratura
occidentale [...] il "romanzo della mitologia". [...] Ma questo narrare èugualmente un canto. Merito
della forma? Ovidio ha sempre due volti: é serio e gioca, gioca ed é freddo, é freddo e partecipa, e
questo fenomeno investe anche i suoi mezzi stilistici. Paradossalmente, proprio quelle che sono
indicate come disarmonie formali e strutturali nella sua opera, sono importanti elementi da cui
dipende l'impressione continua, e l'impressione finale, di una grande armonia estetica». Ma con
acutezza riconosce che a render tale il poema è soprattutto «l'operazione culturale compiuta da
Ovidio. [...] Le sue Metamorfosi vogliono essere, e sono, una personale "lettura" della mitologia in
tutti i suoi prodotti e in tutte le sue esperienze storicamente documentate. È il modo di narrare di
Ovidio lo conferma: tutte le esperienze letterarie entrano in gioco. [...] Ovidio ha coinvolto, nel suo
poema, tutto. Tutte le forme della letteratura e dell'arte antica vi confluiscono, in quanto esperienza
umana. [...] Tutti i pilastri della cultura greco-romana ripassano per le sue mani. [...] Forse, fra le
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tante cose che Ovidio ha voluto dirci, c'é anche questa: che anche tutte le grandi opere antiche sono
giganteschi moduli. In questo senso, infinitamente più ampio, si può dire, per riprendere
l'espressione di Sčeglov, che Ovidio ha voluto scrivere una "enciclopedia" e rappresentare tutto
l'universo: l'universo materiale, ma anche e soprattutto l'universo culturale».
Perché in questo universo si muove la sua poesia, ormai così diversa da quella sorta con i poetae
novi, con la "rivoluzione" catulliana e culminate in un continuo evolversi con Virgilio e Orazio, poi
con Tibullo e Properzio, tanto che G.B. Conte (cit.) può scrivere: «In realtà il mondo del mito, per il
letteratissimo Ovidio, è anzitutto il mondo delle finzioni poetiche», un mondo del quale egli si compiace, proprio in quanto summa del patrimonio letterario precedente. «Tale compiaciuta
consapevolezza della propria letterarietà si traduce naturalmente anche in distaccato sorriso sul
carattere fittizio dei propri contenuti, in garbata ironia sull'inverosimiglianza delle leggende
narrate». Qui giunge pertinente la precisazione di S. Mariotti (cit.): «Ovidio sa che i miti
appartengono al mondo dell'incredibile, che sono creazioni di poeti» e «al pari dell'Ariosto, che gli è
spesso confrontato, egli conserva e vuol conservata nel lettore la consapevolezza dell'irrealtà del
suo mondo». Il che equivale alla volontà, cosi connaturata nell'operazione artistica, di farci apparire
e credere il falso più vero del vero.
Ovidio, s'e già detto, non possiede il senso del "sacro" e ciò non può che accentuare il suo
disincantato distacco dalla materia che tratta, ma proprio per questo ne viene raddoppiato l'impegno
di mostrarcela come se fosse reale, anche se è sottinteso, per convenzione fra autore e lettore, che
non bisogna ritenerla tale. Non desta quindi meraviglia che Ovidio compia, come sostiene
giustamente P. Bernardini Marzolla (cit.), «il prodigio di "rianimare" la mitologia: non qualche
singolo mito - cosa tentata e fatta anche con successo da numerosi poeti anteriori —, ma la
mitologia nella sua interezza, come categoria di manifestazioni del pensiero umano. [...] La
mitologia ovidiana si muove". È una cosa viva; né testimonianza né materiale documentario, né
serie di esercitazioni poetiche né addobbo decorativo, è centrata integralmente sulla natura e
sull'uomo come parte della natura. [...] Diremo allora che una volta morti i miti (cioè perdutosi il
loro valore socioreligioso), la "metamorfosi" resta il motivo che meglio spiega e giustifica,
poeticamente, ma anche logicamente, il loro tipico intreccio di mondo divino, mondo umano e
mondo della natura (e poi certo, ma in via secondaria, l'intercomunicabilità fra i regni della natura);
il motivo che assicurando l'aggancio della realtà fisica è il più in linea con i passi compiuti dalla
"ragione"; e anche il motivo più capace, per la sua universalità, di fungere da tessuto connettivo e di
mettere in luce una coerenza in un materiale di una varietà immensa e di origine disparate. Tutto
questo filtraggio intellettuale é stato verosimilmente alla base della scelta di Ovidio, al di la delle
possibilità che quel tipo di miti, come egli sentiva, gli dava di esprimere la propria visione del
mondo e dell'uomo». E continua: «Certo, Ovidio è un poeta completamente disimpegnato sia sul
piano politico che su quello religioso: un fatto denso di significati in un'epoca come quella di
Augusto, che, come è stato felicemente detto (Franz Cumont), segnò in Europa l'inizio dell'alleanza
del trono e dell'altare. [...] Ovidio non richiama o rinvia a un "ideale di vita". Le sue Metamorfosi
non sono la rappresentazione di un mondo tramontato dotato di belle usanze e bei valori; e in questo
si distinguono profondamente, per esempio, dai nostri poemi cavallereschi, pure poggianti anch'essi
sul primato della fantasia. Né si può propriamente dire che egli si arrocca nell'estetismo, anche se
l'estetismo è fortissimo in lui; bada troppo all'uomo: e non all'uomo come era o come sarà, ma come
è sempre stato ed è».
L'uomo com'è nell'universo della natura, ma «il mondo reale», osserva Ju.K. Sčeglov nella sua
indagine sulle strutture del poema, «non forma un sistema chiuso: esso è sminuzzato in una quantità
di sistemi minori, ciascuno dei quali coglie, sotto qualche aspetto, una parte delle cose, ma non tutte
le cose. Per questo nel mondo reale le cose sono isolate, non se ne percepisce il nesso originario. E
Ovidio ricostruisce, si direbbe, il quadro del mondo nella sua forma primitiva, allorché tutte le cose
componevano una unità che abbracciava l'intero universo. Egli perviene a questo risultato mediante
una "depurazione" del mondo da tutte le incrostazioni, lasciando un unico livello a partire dal quale
è possibile contemplare simultaneamente tutto ciò che esiste. Si tratta quasi di un modello del
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mondo, di una sua esposizione semplificata e nello stesso tempo universale, sintetica. È per questo
che il mondo diviene così sconfinato e acquista un tale fascino. Si scoprono l’affinità la differenza
dei vari oggetti, le loro sottili gradazioni. il particolare principio della esposizione offre la
possibilità di rappresentare cose quanto si vuole piccole e cose grandissime. Tutto ciò può venire
descritto con l'aiuto dei tratti distintivi più semplici delle cose, i quali compiono il miracolo di
trasformare il mondo in un sistema».
Ma è sul piano narrativo che il disegno assume spessore: «le Metamorfosi sono il poema della
rapidità: tutto deve succedersi a ritmo serrato, imporsi all'immaginazione, ogni immagine deve
sovrapporsi a un'altra immagine, acquistare evidenza, dileguare», mentre «è continuando ad arricchire il quadro che Ovidio raggiunge un risultato di rarefazione e di pausa. Perché il gesto di Ovidio
è sempre quello d'aggiungere, mai di togliere; di andare sempre più nel dettaglio, mai di sfumare nel
vago», anche se «una legge di massima economia interna domina questo poema apparentemente
votato al dispendio sfrenato. E’ l'economia propria alle metamorfosi, che vuole che le nuove forme
recuperino quanto più è possibile i materiali delle vecchie» (I. Calvino, Gli indistinti confini,
premessa a Ovidio, Metamorfosi, Torino 1979). E Piero Bernardini Marzolla (cit.) precisa: «il fatto
è che la metamorfosi è di per se stessa un fenomeno ambiguo: evento tragico e distruttivo, ha anche
un lato che è affermazione di vita: a volte è premio (e il caso principalmente degli eroi, "assunti"
come astri come dei), a volte rimedio (è il caso delle persone infelici, convertite di solito in fiori o
uccelli o fonti), quasi sempre, si, è punizione: ma in questo caso, risistemando i colpevoli, la
trasformazione ne riconosce, anche se li menoma, il diritto all'esistenza. [...] Nessuno è cancellato
dalla faccia della terra. Anche se ciò comporta un trauma inconsolabile, perchè nella metamorfosi
«la ‘mente di prima’ (mens antiqua, mens pristina) rimane. E mente significa non il carattere, ma il
modo di pensare e di sentire: le idee, i sentimenti, gli affetti, i ricordi. Ovidio ci mostra il dramma di
queste personalità rivestite di un corpo che non è il loro, un dramma duplice: quello dell'io che ha
perduto la propria identità, cioè i connotati che permettono di identificarlo, che lo rendono
riconoscibile agli altri, e quello dell'io che non riesce a esprimersi».
In questa sospensione ambigua, in fondo mai definitiva, perché il processo metamorfico potrebbe
riverificarsi in senso opposto (ed è il caso delle trasformazioni e ritrasformazioni degli dei), risiede
il fascino del poema, la straordinaria modernità della sua concezione, della sua struttura, che
fortissimamente radicata nel classicismo lo stravolge al punto da non poterlo quasi più riconoscere.
Un'ultima osservazione in appendice: «L'arte del poeta non è soltanto attratta dal corpo che si
tramuta, ma pure e specialmente dall'animo che inorridendo si trasloca. Qui e la varietà grande e
tragica del poema ovidiano. Lucrezio era stato il poeta delle cause; Ovidio fu il poeta delle forme»
(C. Marchesi).***
Metamorfosi, VIII: Filemone e Bauci (611-724)
Bauci e il marito Filemone ospitarono nella loro povera casa Giove e Mercurio travestiti da
viandanti. Gli altri abitanti del paese li avevano scacciati. Gli dei mandarono un diluvio che
sommerse tutte le case, eccetto quella dei due generosi ospiti. I due vecchi, avendo chiesto agli dei
di morire insieme, furono mutati in due alberi che affiancavano la loro capanna divenuta un
tempio.
Amnis ab his tacuit. factum mirabile cunctos
moverat; irridet credentes, utque deorum
spretor erat mentisque ferox Ixione natus:
"ficta refers nimiumque putas, Acheloe, potentes
esse deos", dixit "si dant adimuntque figuras".
obstipuere omnes, nec talia dicta probarunt;
ante omnesque Lelex, animo maturus et aevo,
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sic ait: "inmensa est finemque potentia caeli
non habet et quicquid superi voluere peractum est.
quoque minus dubites, tiliae contermina quercus
collibus est Phrygiis, modico circumdata muro;
ipse locum vidi; nam me Pelopeia Pittheus
misit in arva, suo quondam regnata parenti.
haud procul hinc stagnum est, tellus habitabilis olim,
nunc celebres mergis fulicisque palustribus undae.
Iuppiter huc specie mortali cumque parente
venit Atlantiades positis caducifer alis.
mille domos adiere locum requiemque petentes,
mille domos clausere serae. tamen una recepit,
parva quidem, stipulis et canna tecta palustri;
sed pia Baucis anus parilique aetate Philemon
illa sunt annis iuncti iuvenalibus, illa
consenuere casa paupertatemque fatendo
effecere levem nec iniqua mente ferendo.
nec refert dominos illic famulosne requiras;
tota domus duo sunt, idem parentque iubentque.
ergo ubi caelicolae parvos tetigere penates
summissoque humiles intrarunt vertice postes,
membra senex posito iussit relevare sedili.
quo super iniecit textum rude sedula Baucis
inque foco tepidum cinerem dimovit et ignes
suscitat hesternos foliisque et cortice sicco:
nutrit et ad flammas anima producit anili
multifidasque faces ramaliaque arida tecto
detulit et minuit parvoque admovit aeno.
quodque suus coniunx riguo collegerat horto,
truncat holus foliis; furca levat illa bicorni
sordida terga suis nigro pendentia tigno
servatoque diu resecat de tergore partem
exiguam sectamque domat ferventibus undis.
interea medias fallunt sermonibus horas
[sentirique moram prohibent. erat alveus illic
fagineus curva clavo suspensus ab ansa.
is tepidis impletur aquis artiusque fovendos
accipit; in medio torus est de mollibus ulvis
impositus lecto, sponda pedibusque salignis.]
concutiuntque torum de molli fluminis ulva
impositum lecto sponda pedibusque salignis;
vestibus hunc velant, quas non nisi tempore festo
sternere consuerant; sed et haec vilisque vetusque
vestis erat, lecto non indignanda saligno.
accubuere dei. mensam succincta tremensque
ponit anus; mensae sed erat pes tertius impar;
testa parem fecit; quae postquam subdita clivum
sustulit, aequatam mentae tersere virentes.
ponitur hic bicolor sincerae baca Minervae
conditaque in liquida corna autumnalia faece
intibaque et radix et lactis massa coacti
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ovaque non acri leviter versata favilla,
omnia fictilibus. post haec caelatus eodem
sistitur argento crater fabricataque fago
pocula, qua cava sunt, flaventibus illita ceris.
parva mora est epulasque foci misere calentes,
nec longae rursus referuntur vina senectae
dantque locum mensis paulum seducta secundis.
hic nux, hic mixta est rugosis carica palmis
prunaque et in patulis redolentia mala canistris
et de purpureis collectae vitibus uvae.
candidus in medio favus est; super omnia vultus
accessere boni nec iners pauperque voluntas.
interea totiens haustum cratera repleri
sponte sua per seque vident succrescere vina;
attoniti novitate pavent manibusque supinis
concipiunt Baucisque preces timidusque Philemon
et veniam dapibus nullisque paratibus orant.
unicus anser erat, minimae custodia villae,
quem dis hospitibus domini mactare parabant;
ille celer penna tardos aetate fatigat
eluditque diu tandemque est visus ad ipsos
confugisse deos. superi vetuere necari;
"di" que "sumus meritasque luet vicinia poenas
impia"; dixerunt "vobis inmunibus huius
esse mali dabitur; modo vestra relinquite tecta
ac nostros comitate gradus et in ardua montis
ite simul". parent ambo baculisque levati
nituntur longo vestigia ponere clivo.
tantum aberant summo quantum semel ire sagitta
missa potest; flexere oculos et mersa palude
cetera prospiciunt, tantum sua tecta manere;
dumque ea mirantur. dum deflent fata suorum,
illa uetus dominis etiam casa parva duobus
vertitur in templum; furcas subiere columnae;
stramina flavescunt aurataque tecta videntur
caelataeque fores adopertaque marmore tellus.
talia tum placido Saturnius edidit ore:
"dicite, iuste senex et femina coniuge iusto
digna quid optetis". cum Baucide pauca locutus,
iudicium superis aperit commune Philemon
"esse sacerdotes delubraque vestra tueri
poscimus et, quoniam concordes egimus annos,
auferat hora duos eadem ne coniugis umquam
busta meae videam, neu sim tumulandus ab illa.
vota fides sequitur; templi tutela fuere,
donec vita data est. Annis aevoque soluti
ante gradus sacros cum starent forte locique
narrarent casus, frondere Philemona Baucis,
Baucida conspexit senior frondere Philemon.
iamque super geminos crescente cacumine vultus
mutua, dum licuit, reddebant dicta; "vale" que,
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"o coniunx" dixere simul, simul abdita texit
ora frutex. ostendit adhuc Thyneius illic
incola de gemino vicinos corpore truncos.
haec mihi non vani, neque erat cur fallere vellent,
narravere senes. equidem pendentia vidi
serta super ramos ponensque recentia dixi:
"cura deum di sint et qui coluere colantur".
“Il fiume tacque dopo queste parole. Il fatto prodigioso aveva colpito tutti. Il figlio di
Issione deride chi ci crede e, sprezzante com'era nei confronti degli dei e d'animo
orgoglioso, disse: "Racconti cose inventate, e credi, Acheloo, che gli dei siano troppo
potenti, se danno e tolgono le sembianze". Rimasero tutti allibiti, e non credettero a
tali parole; e prima di tutti Lelege, maturo per animo ed età, così disse: "E' immensa
la potenza del cielo e non ha limite, e tutto quello che gli dei superni vogliono è fatto.
E perché tu dubiti di meno, c'è nei colli frigi una quercia vicino ad un tiglio,
circondata da un piccolo muro. Io stesso vidi il posto; infatti Pitteo mi mandò nella
terra di Pelope, una volta governata da suo padre. Non lontano da lì c'è uno stagno,
terra un tempo abitabile, ora paludi abitate da smerghi e folaghe palustri. In questo
luogo Giove sotto spoglie mortali venne e con il padre venne il nipote di Atlante,
portatore del caduceo, deposte le ali. In mille case si accostarono, con la richiesta di
un luogo per riposare, mille catenacci chiusero le case. Tuttavia una li accolse,
seppur piccola e ricoperta da stoppie e canne palustri. Ma la pia vecchia Bauci e
Filemone di pari età si erano uniti negli anni giovanili ed erano invecchiati insieme in
quella casa; non cercando di nascondere la povertà e sopportandola serenamente la
resero accettabile. E non importa che tu cerchi dove siano i servi o i padroni in quella
dimora: tutta la casa sono loro due, sono loro stessi ad obbedire e comandare.
Dunque, quand'ebbero toccato gli dei la piccola casa e, chinato il capo, passarono per
la piccola porta, il vecchio li invitò a riposare le membra, dopo aver porto una panca,
sopra la quale la premurosa Bauci gettò un rozzo tessuto. Poi smosse la cenere
tiepida sul focolare e ravviva il fuoco del giorno prima, lo alimenta con foglie e
corteccia secca e lo fa fiammeggiare col suo fiato di vecchia; portò giù dalla soffitta
rami di pino fatti a pezzi e ramaglie secche, li spezzò e li pose sotto un piccolo
recipiente di bronzo. E libera dalle foglie un cavolo che suo marito aveva raccolto
nell'orto irrigato. Con una forca a due punte stacca una spalla di porco affumicata,
che pendeva da una trave annerita, e taglia dalla spalla un tempo messa da parte una
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fettina, e dopo averla tagliata la mette a cuocere nell'acqua bollente. Intanto
ingannano il tempo dell'attesa con discorsi, e impediscono che l'attesa sia avvertita.
C'era lì una tinozza di faggio, appesa ad un chiodo per il manico ricurvo: è riempita
d'acqua tiepida ed accoglie le membra ( degli dei ) per ristorarle. In mezzo c'è un
materasso di morbida ulva, posto su un letto con sponda e piedi di salice. Lo coprono
con una coperta, che erano soliti stendere solo nei giorni di festa; ma anche questa
coperta era rozza e vecchia, ben adatta al letto di salice. Gli dei vi si
accomodarono. La vecchia prepara la tavola con la veste tirata in su e un po'
tremolando. Ma il terzo piede della tavola era diseguale: un coccio lo livellò. E dopo
che quello posto sotto il piede eliminò la pendenza pulì la tavola pareggiata la menta
fresca. Qui viene posta la bacca bicolore della vergine Minerva (olive), corniole
autunnali conservate nell'aceto, e cicoria, e un ravanello, una forma di cacio, uova
cotte a fuoco lento nella tiepida cenere: tutte queste cose in vasi di terracotta. Dopo
questi viene disposto un cratere cesellato del medesimo argento, e coppe fatte di
faggio, spalmate di cere bionde dove sono cave. C'è una piccola pausa, ed i focolari
mandarono pietanze calde e di nuovo vengono riportati vini di non eccessiva
stagionatura, e danno posto alle seconde mense, lasciati per un po' da parte. Ed ecco
le noci, ecco i fichi secchi mescolati ai datteri rugosi, le prugne e le mele profumate
nei grandi canestri, e le uve raccolte da viti rosseggianti. Nel mezzo c'è un favo
candido. Su ogni cosa si aggiunsero i volti sorridenti ed una disponibilità né svogliata
né limitata. Nel frattempo osservano il cratere, ogni volta che è stato svuotato si
riempie ed il vino ripullula da sé. Stupiti dalla novità hanno paura, e con le palme
rivolte in alto si mettono a pregare Bauci ed il timido Filemone, e chiedono perdono
per lo scarso cibo e per non aver preparato nulla. C'era un'unica oca, custode della
piccola capanna, che i padroni si preparavano a sacrificare agli dei ospiti. Quella li
mette a dura prova, perché è veloce d'ali e loro sono lenti per l'età, e li elude a lungo,
ed infine sembrò che si fosse rifugiata proprio dagli dei. Gli dei vietarono che fosse
uccisa, e dissero : "Siamo dei, e l'empio vicinato pagherà la giusta punizione. Vi sarà
concesso di essere immuni da questo male. Frattanto lasciate la vostra casa, seguite i
nostri passi ed andate insieme sulla cima del monte". Entrambi obbedirono e,
appoggiati ai bastoni, si sforzano a procedere per la lunga salita. Erano ormai tanto
lontani dalla cima quanto un tiro di freccia: si volsero a guardare e videro tutte le
altre case sommerse dalla palude, solo la loro rimase in piedi. E mentre le guardano,
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mentre compiangono i destini dei loro vicini, quella vecchia casetta, piccola persino
per i due padroni, si trasforma in tempio: colonne subentrano ai pali biforcuti, la
stoppia del tetto prende riflessi d'oro, e si vede che il tetto è d'oro, le porte cesellate
ed il pavimento ricoperto di marmo. Allora con placido volto il figlio di Saturno
proferì queste parole: "Dite quello che desiderate, vecchio onesto e tu, donna degna
dell'onesto marito". Dopo aver confabulato poco con Bauci, Filemone rivela agli dei
la risposta presa in comune: "Chiediamo di essere sacerdoti e di custodire il vostro
tempio e, poiché siamo vissuti in concordia, il medesimo momento ci porti via
entrambi, possa non vedere mai il sepolcro di mia moglie, né io debba essere
seppellito dopo di lei". Il compimento segue i voti: furono i custodi del tempio, fino a
quando fu data loro la vita. Ormai indeboliti dagli anni e dall'età, mentre per caso si
trovavano davanti ai sacri giardini e narravano la storia del luogo, Bauci vide che a
Filemone spuntavano delle foglie, ed il più anziano Filemone vide che a Bauci
spuntavano foglie. E mentre ormai la cima di un albero avviluppava i volti di
entrambi, finchè fu possibile si indirizzavano a vicenda parole: "Addio, coniuge" dissero insieme, e contemporaneamente il fogliame ricoprì le bocche nascoste.
Ancora oggi in quel luogo la gente frigia mostra due tronchi vicini nati dai due corpi.
Dei vecchi sinceri mi narrarono queste cose e non c'era motivo per cui volessero
ingannarmi. Per parte mia vidi coroncine di fiori che erano appese sui rami, e
ponendone di fresche dissi: "Gli uomini pii sono cari agli dei e coloro che li hanno
onorati sono da essi onorati".
Il ritorno del motivo della Metamorfosi
Nell’ambito della breve stagione dell’estetismo letterario ritorna il tema della
metamorfosi. Esso viene interpretato tragicamente da O. Wilde e in modo sublimante
dal D’Annunzio. In ogni caso, per quanto in entrambi resti pur sempre un gioco di
forme, queste due esperienze costituiscono in prospettiva un preannuncio alla
moderna e nuova modellizzazione kafkiana, nella quale scopriamo metaforicamente
la problematicià assurda e ineludibile dell’uomo contemporaneo, del quale diventa,
a differenza della versione serena ed eternatrice di Ovidio, un orizzonte di lugubre
mostruosità e terrificante mortalità,
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Il ritratto di Dorian Gray di O. Wilde, Cap. XX
Era una bella nottata, così tiepida che gettò il soprabito sul braccio e non si avvolse
nemmeno la sciarpa di seta intorno al collo. Mentre si dirigeva verso casa fumando
una sigaretta, due giovani in abito da sera gli passarono accanto. Sentì uno dei due
sussurrare all'altro: "Quello è Dorian Gray." Ricordò come gli faceva piacere una
volta quando lo indicavano, lo fissavano o parlavano di lui. Adesso era stanco di
sentire ripetere il suo nome. Il fascino del piccolo villaggio dove era stato tanto
spesso negli ultimi tempi era dovuto per metà al fatto che nessuno sapeva chi fosse.
Aveva detto molte volte alla ragazza che aveva lusingato a innamorarsi di lui, di
essere povero e lei gli aveva creduto. Una volta le aveva detto di essere malvagio e
lei aveva riso, dicendogli che i malvagi sono sempre vecchi e brutti. Quella sua risata
pareva il canto di un tordo. E come era bella con i suoi vestitini di cotone e i suoi
grandi cappelli! Non sapeva nulla ma aveva tutto ciò che lui aveva perduto.
A casa trovò il cameriere che lo attendeva. Lo mandò a letto, si distese sul divano
della biblioteca e cominciò a pensare ad alcune delle cose che Lord Henry gli aveva
detto.
Era proprio vero che è impossibile cambiare? Provava un desiderio sfrenato per
l'immacolata purezza dell'adolescenza: la sua infanzia bianco rosata, come l'aveva
chiamata una volta Lord Henry. Sapeva di essersi macchiato, di aver colmato lo
spirito di corruzioni, di aver nutrito di orrori la sua fantasia; sapeva di aver avuto
un'influenza maligna sugli altri e di aver provato una gioia terribile nel farlo; e
sapeva che delle vite che avevano attraversato la sua, proprio le più belle e le più
ricche di promesse, erano state da lui condotte all'infamia. Ma era irreparabile, tutto
questo? Non aveva nessuna speranza? Ah! in quale mostruoso attimo di orgoglio e di
passione aveva invocato che il ritratto portasse il peso dei suoi giorni, lasciando a lui
l'immacolato candore dell'eterna giovinezza! A questo era dovuto il suo fallimento.
Sarebbe stato meglio, per lui, se ogni peccato avesse portato con sé il suo castigo
certo e immediato. Il castigo purifica. Non "perdona i nostri peccati", ma "colpiscici
per le nostre iniquità" dovrebbe essere la preghiera dell'uomo nei confronti di un Dio
più giusto.
Lo specchio stranamente intagliato che Lord Henry gli aveva regalato molti anni
prima era sulla tavola e, come un tempo, gli amorini dalle bianche membra ridevano
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tutto intorno alla cornice. Lo sollevò, come aveva fatto in quella notte tremenda
quando per la prima volta aveva notato il cambiamento nel quadro fatale, e guardò la
liscia superficie con occhi disperati e colmi di lacrime. Una volta, una persona che lo
aveva amato terribilmente gli aveva scritto una lettera folle che terminava con queste
parole di adorazione: "Il mondo è cambiato perché tu sei fatto di avorio e d'oro. La
curva delle tue labbra riscrive la storia." La frase gli ritornò alla mente e la ripeté più
volte tra sé, poi imprecò contro la propria bellezza e, gettato lo specchio sul
pavimento, lo ridusse a schegge d'argento sotto i tacchi. La bellezza lo aveva
rovinato, la bellezza e la giovinezza da lui invocata. Senza queste due cose, la sua
vita avrebbe potuto essere senza macchie. La sua bellezza era stata solo una
maschera, la gioventù solo una beffa. Che cos'era la gioventù, nel migliore dei casi?
Un'età verde, acerba, un'età di amori superficiali e di pensieri morbosi. Perché ne
aveva indossato la livrea? La gioventù lo aveva rovinato. Meglio non pensare al
passato. Nulla poteva mutarlo. A se stesso, al suo futuro, doveva pensare. James
Vane era sepolto in una tomba senza nome nel cimitero di Selby. Alan Campbell si
era sparato una sera nel suo laboratorio, senza però rivelare il segreto che era stato
costretto a conoscere. L'eccitazione per la scomparsa di Basil Hallward si sarebbe
esaurita presto. Stava già affievolendosi. Da quel lato si sentiva al sicuro. E, d'altra
parte, non era la morte di Basil Hallward che gli opprimeva la mente. Lo
preoccupava piuttosto la morte vivente della sua anima. Basil aveva dipinto il ritratto
e gli aveva rovinato la vita. Non glielo poteva perdonare. Il ritratto era la causa di
tutto. Basil gli aveva detto delle cose intollerabili e tuttavia le aveva sopportate
pazientemente. L'omicidio era stato solo un atto di follia momentanea. Per quanto
riguardava Alan Campbell, poi, era lui che si era ucciso. Lo aveva fatto di sua
volontà, la cosa non lo riguardava affatto.
Una nuova vita! Ecco che cosa voleva. Ecco che cosa attendeva. Certo l'aveva già
iniziata. In ogni caso aveva risparmiato una creatura innocente. Non avrebbe mai più
insidiato l'innocenza, sarebbe stato buono. Pensando a Hatty Merton, si domandò se
il ritratto nella camera chiusa fosse cambiato. Certo, non doveva più essere così
orribile. Forse, se fosse riuscito a purificare la sua vita, sarebbe stato in grado di
eliminare dal viso le tracce di ignobili passioni. Forse le tracce del male erano già
scomparse. Sarebbe andato a vedere. Prese la lampada sulla tavola e salì cautamente
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le scale. Mentre apriva la porta, un sorriso di gioia gli sfiorò il viso stranamente
giovane e indugiò un attimo sulle labbra. Sì, sarebbe stato buono e l'orrenda cosa
nascosta non lo avrebbe più terrorizzato. Gli parve che il peso gli fosse già stato tolto
di dosso.
Entrò tranquillamente, chiuse la porta alle sue spalle, come era solito fare, e tolse il
panno cremisi dal ritratto. Un grido di dolore e di indignazione gli sfuggì dalle
labbra. Non riusciva a scorgere nessun cambiamento, se non negli occhi che avevano
assunto un'espressione scaltra e nella bocca sulla quale erano apparse le rughe
dell'ipocrisia. La cosa era sempre disgustosa - più ripugnante di prima, se possibile e la rugiada scarlatta che macchiava la mano sembrava più brillante, più simile a
sangue appena versato. Allora cominciò a tremare. Solo per vanità aveva compiuto la
sua unica buona azione? Oppure per desiderio di una nuova sensazione, come aveva
suggerito Lord Henry con la sua risata beffarda? O per quel desiderio di recitare una
parte che a volte ci fa compiere azioni migliori di noi? O forse per tutte queste cose
insieme? E come mai la macchia rossa si era allargata? Pareva essersi diffusa come
un'orribile malattia sulle dita rugose. C'era del sangue sui piedi come se fosse colato,
sangue anche sulla mano che non aveva impugnato il coltello. Confessare? Voleva
dire che doveva confessare? Denunciarsi e farsi condannare a morte? Rise. L'idea gli
sembrava mostruosa. D'altra parte, se anche avesse confessato, chi gli avrebbe
creduto? Della vittima non rimanevano tracce. Tutto quello che gli apparteneva era
stato distrutto. Lui stesso aveva bruciato le cose che erano rimaste dabbasso. La
gente avrebbe detto semplicemente che era matto. Se avesse insistito lo avrebbero
chiuso in manicomio... Tuttavia era suo dovere confessare per soffrire pubblicamente
la vergogna che gliene sarebbe venuta e per espiare davanti a tutti. C'era un Dio che
imponeva agli uomini di rivelare i peccati in terra così come in cielo. Qualunque sua
azione non lo avrebbe mondato finché non avesse confessato la sua colpa. La sua
colpa? Scosse le spalle. La morte di Basil Hallward gli sembrava una cosa di minima
importanza. Pensava a Hatty Merton: non era infedele, questo specchio della sua
anima che stava fissando. Vanità? Curiosità? Ipocrisia? Solo questi erano i motivi
della sua rinuncia? No, c'era stato qualche cosa di più. Almeno così pensava. Ma chi
poteva dirlo? ... No, non c'era stato nient'altro. L'aveva risparmiata per vanità, per
ipocrisia aveva indossato la maschera della bontà, per curiosità era stato spinto alla
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rinuncia. Ora se ne rendeva conto. Ma questo delitto... lo avrebbe perseguitato per
tutta la vita? Sarebbe sempre stato costretto a sopportare il peso del suo passato?
Doveva proprio confessare? Mai. Era rimasto solo un elemento di prova contro di lui.
Il ritratto: ecco la prova. Lo avrebbe distrutto. Perché lo aveva conservato per tanto
tempo? Una volta gli faceva piacere vederlo cambiare e invecchiare. Negli ultimi
tempi questo piacere era scomparso. Lo teneva sveglio la notte. Quando era lontano
lo terrorizzava l'idea che altri potessero vederlo, aveva portato la malinconia nelle
sue passioni, il suo ricordo gli aveva rovinato diversi momenti di gioia. Per lui aveva
rappresentato la coscienza. Sì, era stato una coscienza. L'avrebbe distrutto.
Si guardò in giro e vide il coltello che aveva colpito Basil Hallward. Lo aveva pulito
molte volte e non vi era rimasta nessuna macchia: era liscio e lucente. Come aveva
ucciso il pittore così avrebbe ucciso la sua opera e tutto ciò che essa significava.
Avrebbe ucciso il passato e, quando il passato fosse morto, sarebbe stato libero.
Avrebbe ucciso la mostruosa vita della sua anima e, senza i suoi infami avvertimenti,
si sarebbe sentito in pace. Afferrò il coltello e colpì la tela. Si udì un grido poi un
tonfo. Un grido di agonia così terribile che i domestici si svegliarono spaventati e
uscirono intimoriti dalle loro stanze. Due signori che passavano nella piazza si
fermarono e guardarono in alto, verso la grande casa. Proseguirono finché
incontrarono un poliziotto e lo condussero lì. L'uomo suonò diverse volte il
campanello ma non ottenne risposta. Tranne una finestra illuminata all'ultimo piano,
la casa era immersa nell'oscurità. Dopo un poco si allontanò, si fermò sotto un
portico vicino e rimase a osservare. "Di chi è questa casa, agente?" domandò il più
giovane dei due. "Del signor Dorian Gray, signore," rispose il poliziotto. I due
uomini si guardarono e si allontanarono con una smorfia di scherno. Uno dei due era
lo zio di Sir Henry Ashton. All'interno, nei quartieri della servitù, i domestici
semisvestiti parlavano tra loro a bassa voce. La vecchia signora Leaf piangeva e si
torceva le mani. Francis era pallido come un morto. Dopo un quarto d'ora circa prese
con sé un cocchiere e uno degli uomini di fatica. Bussarono, ma non ottennero
risposta. Chiamarono. Tutto era silenzioso. Alla fine, dopo aver tentato invano di
forzare la porta, salirono sul tetto e si calarono sul balcone. La finestra cedette
facilmente: la serratura era vecchia. Quando furono entrati, videro appeso alla parete
uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto l'ultima volta, in tutto
lo splendore della sua gioventù e della sua bellezza. Disteso sul pavimento c'era un
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uomo, in abito da sera, con un coltello piantato nel cuore. Era sfiorito, rugoso, con un
volto ripugnante. Solo quando esaminarono i suoi anelli lo riconobbero.
G. D’Annunzio: La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
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che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
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del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
Data di composizione ignota. Probabile fra la metà di luglio 1902 e la metà
dell'agosto dell'anno successivo)
Franz Kafka, La metamorfosi, 1916]
Della vicenda de La metamorfosi è protagonista il commesso viaggiatore Gregorio
Samsa il quale, dopo aver trascorso una notte agitata, si sveglia con una strana
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sensazione addosso e si accorge di essersi trasformato in un enorme scarafaggio.
Inizia così per lui una nuova vita; per evitare la repugnanza dei suoi familiari vive
nascosto nella sua stanza (dove la sorella, per permettergli di sopravvivere, porta
qualche avanzo dei pasti familiari), si aggira fra i mobili in un'assurda condizione: la
consapevolezza umana coesiste con la sua dimensione animale. Intanto la famiglia
— di cui era l'unico sostegno — per sbarcare il lunario accetta alcuni pensionanti in
casa. Una sera, mentre la sorella suona il violino di fronte ai familiari e agli ospiti,
Gregorio furtivamente esce dalla sua stanza e ascolta, felice, anche lui. Ma uno dei
pensionanti si accorge, inorridito, di lui: succede un inferno; ferito e respinto nella
sua camera Gregorio vi muore per fame. La vecchia cameriera pensa a far sparire
quell'ingombrante cadavere, quella roba lì. È una liberazione per tutti: uscirono di
casa tutti insieme, cosa che non facevano da mesi, per una gita fuori città e,
appoggiati comodamente agli schienali del tram, discussero le possibilità del loro
avvenire. Ambientato, come tante altre opere di Kafka, in un mondo piccolo
borghese, La metamorfosi è un esempio illustre d'una costante dell’opera di Kafka,
cioè la vicenda illogica e fuori dalle normali leggi dell'esistenza fisica è narrata con
una minuziosa attenzione ai particolari realistici: da ciò scaturisce un gioco di
contrasti che la rende assurda e inquietante. Come sempre in Kafka, la vicenda
narrata è aperta a una vasta gamma di interpretazioni: qui oltre a una trascrizione in
termini simbolici di una situazione autobiografica (il conflitto col padre di cui la
famosa Lettera al padre è agghiacciante testimonianza), sono dominanti il motivo
dell'esclusione e della solitudine dell'uomo, il suo anelito ad un colloquio con gli
altri che, per misteriosi ed arbitrari limiti nei quali viene incatenato (la
trasformazione in scarafaggio), gli viene rifiutato; e sono resi con una fusione di
grottesco e di pietà che rientra certo nel clima e nei moduli dell'espressionismo ma è
carica di quell'angoscia esistenziale tipicamente kafkiana.
“Sebbene Gregorio si ripetesse che non succedeva nulla, che tutto si riduceva allo
spostamento di qualche mobile, dovette presto confessarsi che i movimenti delle
donne, le loro brevi esclamazioni, lo stridio dei mobili sul pavimento, lo
sconvolgevano: per quanto rientrasse testa e gambe, schiacciandosi contro il
pavimento, non avrebbe potuto reggere a lungo. Gli vuotavano la sua camera, gli
prendevano tutte le cose alle quali era affezionato: il cassettone, ove era riposto il
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traforo con gli altri arnesi, lo avevano già portato fuori; ora tentavano di smuovere la
scrivania, sulla quale aveva scritto i compiti dell’accademia di commercio, delle
medie, persino delle elementari. No, non poteva più tenere conto delle buone
intenzioni delle donne, le quali, del resto, mute per la fatica, avevano fatto
dimenticare la loro esistenza. Si sentivano solo i loro passi pesanti.
Mentre la mamma e la sorella, nella stanza accanto, riprendevano fiato
appoggiandosi alla scrivania, lui uscì fuori, tanto disorientato da cambiare direzione
quattro volte; perplesso, stava pensando cosa doveva salvare per prima, quando sulla
parete ormai nuda scorse il ritratto della signora in pelliccia. Rapido raggiunse il
quadro e si appoggiò al vetro, che aderì contro il suo ventre bruciante, dandogli un
senso di sollievo. Almeno quel ritratto, che copriva col suo corpo, nessuno glielo
avrebbe tolto. Il capo rivolto verso la porta della sala, attese che le donne
rientrassero. Queste, che non si erano concesse troppo riposo, tornarono subito. Grete
teneva un braccio intorno alla vita della mamma, quasi sorreggendola. “E ora, cosa
prendiamo?” disse Grete, guardandosi intorno; ma, d’un tratto, il suo sguardo
incontrò quello di Gregorio sulla parete. Se conservò il suo sangue freddo, fu per la
mamma. Tremando tutta e cercando di coprire, con il capo, la vista del muro, disse
alla donna: “Vieni, forse è meglio che torniamo un momento in sala”. Gregorio capì
che Grete voleva mettere al sicuro la mamma, per poi cacciarlo dal muro. Ci si
provasse! Lui non si sarebbe mosso dal suo quadro: piuttosto le sarebbe saltato in
faccia.
Ma le parole di Grete servirono mettere in sospetto la mamma, la quale si scansò e
vide l’enorme macchia bruna sulla carta fiorata. Prima ancora di aver identificato
quella macchia con Gregorio, gridò con voce rauca: “Oh Dio, oh Dio!” e alzando le
braccia, in un gesto di suprema rinuncia, cadde sul divano, per non muoversi più.
“Ah, Gregorio!” gridò la sorella, alzando il pugno e trafiggendolo con lo sguardo.
Erano le prime parole che gli rivolgeva direttamente, dal momento della
metamorfosi. Corse nella stanza vicina a prendere qualche cosa per far rinvenire
l’esanime; Gregorio volle seguirla, a salvare il ritratto c’era ancora tempo, ma era
rimasto attaccato al vetro, e dovette fare uno sforzo per liberarsi. Quindi anche lui si
affrettò in sala, quasi fosse ancora in grado di consigliare la sorella, seguendola
passivamente, mentre frugava tra flaconi e boccette, e spaventandola quando si voltò.
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Una boccetta cadde a terra e andò in frantumi, una scheggia ferì Gregorio in faccia,
mentre intorno a lui si spandeva un liquido corrosivo. Grete, senza indugiare, afferrò
quante più boccette poté e corse dalla mamma, chiudendosi dietro la porta con un
calcio. Ora Gregorio era separato dalla madre, forse vicina a morire per colpa sua;
non poteva aprire la porta, se non voleva far fuggire la sorella che doveva rimanere
accanto alla mamma: non gli restava dunque che aspettare e, pieno di rimorsi e di
angoscia, cominciò a strisciare sulle pareti, sui mobili, sul soffitto, finché non ebbe
l’impressione che tutta la stanza gli girasse intorno: a questo punto, disperato, cadde
in mezzo al grande tavolo.
Passò qualche minuto. Gregorio giaceva, spossato, sul tavolo; intorno non si sentiva
nulla, forse questo era un buon segno. A un tratto, suonarono. La domestica era,
naturalmente, chiusa in cucina, e Grete dovette andare ad aprire. Era il babbo. “Che è
successo?” furono le sue prime parole: l’aspetto di Grete gli aveva rivelato ogni cosa.
Grete rispose con voce soffocata - forse appoggiava il viso contro il suo petto -: “La
mamma è svenuta, ma ora va meglio. Gregorio è scappato”. “Me l’aspettavo”, disse
il padre. “Ve l’ho sempre detto, ma voi donne non volete starmi a sentire”. Gregorio
capì che il padre aveva interpretato male le parole di Grete, che lo immaginava
colpevole di qualche violenza. Bisognava cercare di placarlo, perché mancavano
tempo e modi per spiegargli le cose. Corse verso la porta della camera e si strinse ad
essa, affinché il babbo, entrando nell’anticamera, vedesse che lui aveva l’intenzione
di rientrare subito nella sua stanza, e che non era necessario spingerlo: sarebbe
sparito, non appena gli avessero aperto la porta.
Ma il padre non era in un umore da apprezzare simili finezze: “Ah!” gridò entrando,
con una specie di feroce allegria. Gregorio distolse la testa dalla porta, e la alzò verso
il babbo. Non se lo immaginava davvero, in quel modo. Negli ultimi tempi, tutto
preso dalla novità delle sue passeggiate lungo le pareti, aveva trascurato di seguire
gli avvenimenti domestici; non doveva quindi stupirsi di qualche cambiamento. Ma,
ma… quell’uomo era proprio suo padre? L’uomo stanco, che rimaneva sprofondato
nel letto quando Gregorio partiva per un viaggio d’affari? Che, quando tornava, lo
riceveva senza alzarsi dalla poltrona, in veste da camera, limitandosi ad alzare le
braccia in segno di gioia? Che in occasione delle rare passeggiate familiari - qualche
domenica, qualche grande festa - si trascinava tra Gregorio e la moglie, avanzanti
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passo passo? L’uomo infagottato in un vecchio cappotto, col bastone prudentemente
puntato in avanti, che si fermava ogni dieci passi, facendo fermare gli altri per dire
qualche cosa? Eccolo lì impettito, in un’impeccabile uniforme blu coi bottoni d’oro,
da commesso di banca; sopra l’alto colletto duro traboccava il suo pesante
doppiomento; gli occhi neri brillavano, vivi e attenti, al di sotto delle folte
sopracciglia; i capelli bianchi, di solito in disordine, erano accuratamente pettinati,
lucidi e divisi da una esatta scriminatura. Per prima cosa buttò sul divano il berretto
col monogramma dorato, probabilmente di una banca, facendolo volare attraverso la
stanza, quindi, spinte indietro le falde della lunga giacca, le mani in tasca, avanzò
minaccioso verso Gregorio. Neppure lui doveva sapere cosa aveva in mente;
avanzava levando i piedi più di quanto normalmente si faccia, e Gregorio stupì per la
lunghezza delle sue scarpe. Ma non indugiò a riflettere su questo punto: sino dal
primo giorno della sua nuova vita sapeva bene che il padre considerava opportuna,
nei suoi confronti, solo la più grande severità, e si diede alla fuga. Si fermava quando
quello si fermava, e riprendeva a correre appena l’altro accennava a muoversi. In
questo modo fecero diverse volte il giro della stanza, senza che accadesse nulla; il
ritmo dei loro movimenti era, anzi, tanto lento, da non avere neppure l’apparenza di
un inseguimento. Gregorio, temendo che il padre considerasse una fuga sulle pareti o
sul soffitto come una beffa, restava sul pavimento. Ma presto dovette dirsi che non
avrebbe retto a lungo quella corsa: un solo passo del padre gli costava un’infinità di
movimenti e già lo opprimeva l’affanno, non aveva mai avuto polmoni robusti.
Avanzava barcollando, con tale sforzo da non riuscire a tenere gli occhi aperti,
nell’assurda speranza che la fuga rappresentasse la salvezza, senza neppure pensare
alle pareti pur sempre accessibili, anche se piene di mobili finemente intagliati, pieni
di cuspidi e di festoni. A un tratto qualcosa gli cadde vicino, rotolò via adagio. Era
una mela, subito seguita da un’altra. Gregorio, atterrito, si fermò: inutile continuare a
correre, se il padre aveva deciso di bombardarlo. Si era riempito le tasche dalla
fruttiera sulla credenza, e lanciava una mela dopo l’altra, senza badare troppo alla
mira. Le mele, piccole e rosse, rotolavano sul pavimento, urtandosi come elettrizzate.
Una lo sfiorò e scivolò via senza fargli male; ma un’altra affondò addirittura nel suo
dorso. Gregorio volle trascinarsi ancora avanti, come se il movimento potesse lenire
l’incredibile dolore che lo aveva sorpreso: ma rimase inchiodato al suolo, sentendosi
venir meno. Poté ancora vedere la porta della sua camera che si spalancava, facendo
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passare la sorella che urlava e la mamma discinta, perché Grete l’aveva svestita per
farla riavere, la madre correre verso il padre, inciampando nelle gonne che cadevano
una dopo l’altra, slanciarsi su di lui, abbracciarlo e tenendolo stretto a sé, con le mani
intrecciate dietro la nuca, chiedergli di risparmiare la vita del loro figliolo. A questo
punto, Gregorio non vide più nulla”.
Romualdo Marandino
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