elaborati - Fondazione Basaglia
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Recensione “Cronache da un manicomio criminale” di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito, Edizioni dell’Asino Giada Orrù, Mattia Puledda, Denisa Bichiri, classe VF, Liceo “Galileo Galilei”, Macomer Quando c' è stato dato questo libro la prima cosa che abbiamo notato è stata una scritta “I LIBRI NECESSARI”. Ora abbiamo appena finito di leggerlo e capiamo il perchè di questa scritta. “CRONACHE DA UN MANICOMIO CRIMINALE” non è il classico bestseller, non racconta una storia a lieto fine, ma lascia in bocca un retrogusto amaro al lettore. E’ un libro necessario per avere una visione complessa della realtà psichiatrica odierna, è necessario per sensibilizzare il cittadino ad un tema che sembra così lontano, assurdo e che puzza tanto di lager. Invece non bisogna tornare ad Auschwits per vedere corpi ammassati, gracili, lividi, vestiti di stracci strappati, laceri e anneriti dallo sporco e dalle feci, non bisogna far ricorso ai nazisti, basta lasciarsi catapultare da questo appassionante libro nel manicomio criminale di Aversa, un luogo tristemente noto alla cronaca nera, dove si subiscono le più degradanti umiliazioni, un posto dove il cibo è immangiabile, dove c’è una doccia ogni 60 persone se ti va bene, dove al minimo sgarro vieni legato a un letto e lasciato li a crepare per giorni, dove le violenze e le morti si ripetono. E come in un girone dantesco, Aldo Trivini mentre ci racconta la sua storia di internamento, avvenuta tra il 1972 al 1974, porta il lettore a conoscere gli altri, a volte inquietanti personaggi. Uno di questi è Domenico Ragozzino, direttore del manicomio criminale. Una figura autorevole e potente, per anni incontrastato padrone del manicomio, medico privato, possidente di immobili, azionista di cliniche private, che ha goduto per molti anni della protezione del Ministero della Giustizia e della magistratura di sorveglianza. Il suo profilo è appena tratteggiato nel memoriale perchè sono pochi gli internati che hanno il privilegio di vederlo. A fargli da controfigura vi è invece il Maresciallo Focone, suo braccio destro, sempre presente a vigilare sulla vita all’interno dell’istituto. C’è anche l’appuntato Cardillo. Uomo crudele descritto da tutti come colui che va in giro per i reparti con una siringa in tasca e un ago sul petto della camicia, sempre lo stesso ago, sterilizzato di tanto in tanto con la sigaretta. Ma è soprattutto la storia di Aldo Trivini e con lui quella degli altri 876 detenuti, del loro internamento durante il quale vengono sottoposti a ogni genere di maltrattamenti e abusi da parte dei pubblici ufficiali addetti alla custodia; della sua denuncia e della sua lotta grazie alle quali riesce a far aprire un processo che si rivelerà interminabile, fatto di piccole vittorie e troppe sconfitte. Un processo che rimane inconcluso a seguito della morte violenta del suo principale imputato, lasciando a mani vuote non solo Trivini, ma anche tutti gli internati che rappresentava. Chiunque legge questo libro ne rimane inevitabilmente colpito. E’ la storia di tutti coloro che, ancora oggi sono detenuti in quelli che vengono chiamati Ospedali psichiatrici giudiziari, ma non solo, sono anche pagine che ci insegnano che per guardare avanti è necessario voltarsi e dare un’occhiata indietro, perchè gli errori commessi nel passato si ripresentano sempre con sottigliezza nel presente. Ed è proprio nel presente che ci riporta l’ultima parte di questo libro. L’orrore degli ospedali psichiatrici giudiziari infatti non si è mai interrotto. Oggi sono ancora sei gli OPG in Italia: Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa e Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere. Qui, gli “ospiti” – il modo pietoso in cui vengono chiamati i reclusi – sono ancora sottoposti a violenze e soprusi di ogni tipo, ancora viene fatto ricorso ai letti di contenzione, ancora viene fatto ricorso alla violenza fisica e psicologica. Utilizzando il linguaggio tecnico delle convenzioni internazionali, potremmo dire che gli internati sono sottoposti a condizioni detentive inumane e degradanti. Molte sono le morti sospette, così come tanti sono gli “ergastoli bianchi”, per dirla in altre parole, “il fine pena mai” a cui la maggior parte delle persone internate sono condannate. In tutta Italia sono tante le persone che non vogliono continuare a tenere la testa sotto la sabbia e fare finta di niente. In particolare, il Comitato StopOpg, formato da Fondazioni, Associazioni e cittadini lotta per la chiusura, purtroppo rinviata ancora una volta al 2015, dei manicomi giudiziari e per la restituzione dei diritti umani e civili a tutti coloro che ancora vi si trovano imprigionati. Recensione “Sottovuoto” di Alice Banfi, Edizioni Eretica Maria Idda, Alessandra Deriu, Emanuela Faedda, classe V, Liceo “Madonna di Bonaria”, Macomer Alice Banfi è un’artista milanese che ha attraversato i luoghi della moderna psichiatria. Quando approda in questo mondo ha poco meno di vent’anni, viene espulsa diverse volte dalla comunità per ricominciare la trafila dei ricoveri in Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura). Il suo sogno di bambina era appunto diventare pittrice. Col tempo il sogno si trasforma in rabbia che riversa per lo più su se stessa con l’alcol, l’anoressia, picchiandosi e infliggendosi tagli sempre più profondi, ma con tutti i suoi pregi e i suoi difetti nei suoi racconti parla molto apertamente di se con lucidità, fa capire al lettore che è cosciente di ciò che sta facendo, sia negli aspetti positivi che negativi di una qualsiasi azione da essa compiuta. È una giovane donna, Alice, fragile e forte allo stesso tempo. Il suo problema è non avere paura, quando forse dovrebbe averne. Appare leader, energica, nonostante il suo animo devastato. Nel libro racconta la sua “resistenza” a ogni luogo che l’accoglieva, dalle comunità, alle cliniche, agli ospedali. Lotta per non farsi sopraffare, per conquistare la propria libertà di scelta e affermare la sua identità. Inizia col raccontare del suo ingresso in comunità: un mondo in cui sperimentava sentimenti e relazioni per re-imparare a vivere attraverso piccole strategie di sopravvivenza e adattamento. Qui Alice ne combinava tante, ma la notte non riusciva a lottare contro la sua stessa paura. Si definisce una “stronza” perché capisce che, a differenza delle sue compagne, non riesce a non sentirsi in colpa quando fa del male. Nel suo percorso, tra la comunità e Villa Crispina, una delle strutture che l’ha ospitata, nella quale ogni volta che ci entrava le sembrava quasi di andare in guerra, di dover schiacciare gli altri per non essere schiacciata, Alice incontra tante persone. Richy, che descrive come colui che riesce a rendere le sue giornate meno dolorose. Valentina e la Signora Ida, le amiche grazie alle quali riesce a rimanere a galla. Gianna, l’unica infermiera che la trattava come una “persona”, l’unica di cui ricorda il nome, l’unica che si rivolgeva a lei come a una persona cara, l’unica che sceglieva di opporsi alle regole di reparto, di non legare le persone, di parlare con loro, l’unica che rispondeva al suo pianto con un abbraccio e alla sua stronzaggine con un “rimprovero dal basso”, così come è tra amici. Alice conoscerà anche l’amore, quello per Dado, un bel ragazzo dai lunghi ricci neri. Di Villa Crispina ci racconta le sue lotte quotidiane, da quelle per una sedia e il caffè, al cercare di ottenere le birre, rubare dagli armadietti e dalle stanze altrui per non rimanere senza niente, visto che rubare era all’ordine del giorno per tutti gli ospiti. Per passare il tempo iniziò a fare anche la chiromante all’interno della struttura e barattava soldi o piccole cose con le compagne che si appellavano alla sua “magia”. Un passo molto importante di questo libro è il meravigliarsi di Alice dopo una delle sue tante bravate, di non essere stata punita, di non essere stata legata. Forse uno dei passi più tristi. La consapevolezza che l’unico rimedio, l’unico metodo, sarebbe stato violento e inutile. Dalle parole di Alice traspare l’importanza di sentirsi accettati, di sentirsi a proprio agio, lontano dai pregiudizi, lontano dal male. “Sottovuoto” immerge il lettore nella vicenda di Alice, quasi come se fosse presente nei luoghi da essa descritti. E’ una storia che fa riflettere, che fa capire che non servono più i vecchi metodi, ma basta rivolgersi al paziente con un tono di voce più amichevole, con più dolcezza e le situazioni possono, quindi, essere risolte in maniera più serena e pacifica. Quella di Alice è una storia dura, che racconta le cose così come accadono; è una storia però che apre alla speranza perché, mentre fa notare i danni subiti dalla protagonista dal sistema dei servizi psichiatrici, parla di un percorso personale che le ha permesso di riappropriarsi della sua vita, di ritrovarsi e di riacquistare un ruolo nella società e soprattutto di capire il ruolo fondamentale delle sue scelte, che affronta ogni giorno. Recensione “Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano, Edizioni Mondadori Michele Murgia, classe V Liceo “Madonna di Bonaria”, Macomer Questo libro non è soltanto l’autobiografia di una donna che è passata attraverso l’inferno dell’anoressia, è molto di più. E’ più di una confessione, è un mettersi a nudo di fronte ai suoi lettori, la condivisione audace di un’esperienza molto privata e personale che, come lei stessa dice: “Mi ha insegnato a vivere”. Anche chi non è venuto mai direttamente in contatto con il problema dell’anoressia può comunque riconoscere nelle parole della Marzano come certe convinzioni, possano diventare una prigione costruita con le proprie mani, e che hanno le loro radici nel rapporto con un genitore anaffettivo, rigido, da cui è necessario fuggire. Provocano un’alterazione dei pensieri, che diventano distorti, ma soprattutto inefficaci e autolesionisti. Un’impalcatura di credenze formata su doveri assoluti spalanca paure e sofferenze che portano inevitabilmente a quella spirale depressiva che purtroppo è così diffusa nel nostro tempo, specie nella popolazione femminile. Leggendolo mi vengono in mente alcune parole di una canzone di Stromae (un cantante Belga): “Où est ton papa? Dis-moi où est ton papa? Sans même devoir lui parler, Il sait ce qui ne va pas, Ah sacré papa! Dis-moi où es-tu caché?” che significa: “Dov'è tuo padre? Dimmi dov'è tuo padre? Senza nemmeno poter parlare con lui, Egli sa che cosa c'è che non va, Ah! sacro papà dimmi dove ti nascondi?”. Michela infatti vuole renderci partecipi del suo percorso per uscire da quel baratro di dolore che può sembrare definitivo e di cui parla con accenti che si percepiscono nati da un vissuto personale travagliato, pieno di sensi di colpa, di doveri assoluti e di risposte alle rigide aspettative degli altri. Di continui tentativi di tenere tutto sotto controllo con angoscia, nel bisogno continuo d’approvazione, di paura della vita che paralizza più del timore della morte, di consapevolezza di ripetere sempre gli stessi errori, sentendosi sempre inadeguati. Ma gli intralci nella vita verso la normalità , gli errori in cui tante donne possono riconoscersi, sono analizzati, per essere capiti e superati. Lo sforzo che si intuisce in tutto il libro è il voler rendere partecipi i suoi lettori di un cammino verso una comprensione che può diventare liberatoria. Michela non offre ricette universali per la felicità, soluzioni precostituite valide sempre e per tutti, ma ci racconta come lei è riuscita a fare un passo avanti, per poter andare oltre il sintomo, oltre il disagio. Perché per lei ,se mai ci può essere una soluzione, il superamento di quel blocco si è realizzato quando è riuscita ad accettare i propri limiti, anche quella parte di sé depressa, senza negarla, ma con una ritrovata indulgenza, consapevole che le ferite non si cancellano mai, che restano parte di quello che siamo: “Niente cambia se non si riesce a dare un senso al proprio disturbo e integrarlo all’interno della propria vita”. Imparare a vivere significa allora accettare l’attesa, la sospensione, l’incertezza. Integrare lentamente l’idea che nonostante tutto il vuoto che ci portiamo dentro questo non potrà mai essere colmato, che ci sarà sempre qualcosa che ci manca. Michela ci dice che crescere significa accettare la delusione, il problema, sapere che anche se si perde tutto si sopravvive, che nulla è per sempre, che bisogna smetterla di voler riparare il passato, capire che voler controllare tutto è un illusione, che si può e si deve disubbidire e che si può sbagliare senza per questo valere di meno, o non essere più amati. Che non si deve necessariamente piacere a tutti, e che l’ amore vero è imperfetto. Un percorso, un radicamento vitale per giungere alla capacità di relazione e di riconciliazione con se stessi che porterà tante persone a dire “Quello sono io! Allora ce la posso fare!”