la ripresa della natura: le riflessioni del cinema su un concetto

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la ripresa della natura: le riflessioni del cinema su un concetto
LA RIPRESA DELLA NATURA:
LE RIFLESSIONI DEL CINEMA
SU UN CONCETTO AMBIGUO
di Alessandro Poli *
La natura, ormai da tempo, è diventata
uno dei soggetti privilegiati del cinema, una
“ripresa” d’obbligo, si può dire, giocando
con le parole. La sua vita è comunque
ripresa in una veste inconsueta, grazie
all’integrazione efficace di immagine,
suono e parola. Senza tentare nuove sintesi artificiose o bizzarre definizioni, è possibile fare alcune attente valutazioni sul
modo in cui il cinema ha vissuto l’ambiguità del termine "natura", ne ha individuato i punti di crisi della rappresentazione
classica. La pellicola ha offerto le idealizzazioni naturali del romanticismo, le contraddizioni insite nella nozione di progresso e i torti inflitti al nostro pianeta dall’epoca moderna fino ai nostri giorni.
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A
Nature has been for a long time one of
the privileged subjects of the cinema,
almost a compulsory topic. Its life is
filmed in a rather unusual way, given the
combination of images, sounds and
words. Without attempting any artificial
or weird definition, we can carefully judge
the way in which the cinema interprets the
ambiguous meaning of the term
“Nature” and identifies the critical
points of its classical representation.
Filming nature has let us see natural
idealizations of romanticism, contradictions implicit in the notion of progress
and the wrongs suffered by our planet
from modern to contemporary times.
più di cento anni dalla sua nascita il cinema è ormai parte integrante della nostra cultura. In ognuno di noi esiste una
“memoria cinematografica”, un immaginario filmico che
sarebbe limitativo ignorare o considerare come fatto accessorio alla nostra
esistenza. Sta di fatto che le precedenti generazioni hanno etichettato il
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* Dottorando, Università degli Studi di Macerata
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cinema come fiction o semplice attività dall’intento ludico, mentre questa
riluttanza ha lasciato il posto ad una forte prossimità ed immedesimazione con le “immagini in movimento” da parte delle nuove generazioni.
Ormai la “settima arte” non può più presentarsi come compendio o sussidio alle forme di comunicazione consolidate, quali la scrittura, la parola
o l’immagine fotografica: è, al pari delle altre, produttrice di senso e significati sempre nuovi e differenti, produttrice della nostra esperienza del
mondo e, in questo caso, della nostra conoscenza della natura. Attraverso
il filtro dello schermo, specialmente televisivo, arrivano scorci dei luoghi
più emozionanti del globo ed è come se realmente li conoscessimo o
potremmo in ogni caso profferire qualcosa su di loro; però, anche se
un’esperienza del genere, quasi al vertice delle altre, può incredibilmente
essere vissuta senza muoversi dalla propria stanza in un itinerarium mentis,
si deve tentare di restituire la maniera in cui visione e conoscenza s’intersecano, alla riscoperta di un’estetica naturale.
Nel gioco di parole presente nel titolo si celano alcune considerazioni
elementari ma valide. La prima è che la natura - ormai da anni - è divenuta uno dei soggetti privilegiati del cinema: filtrata attraverso l’occhio della
telecamera e svelata in tutta la sua maestosità, grazie all’integrazione efficace d’immagine, suono e parola, la vita della natura è “ripresa” in una
veste inconsueta che, verosimilmente, non chiunque sarebbe stato in
grado di cogliere. Inoltre la visione della natura che una comunità o una
società compone, indica il patrimonio ed il tipo di conoscenze che una
determinata cultura possiede sull’argomento. Va quindi studiato ulteriormente questo solido connubio.
La seconda accezione secondo cui va invece letto il termine “ripresa”
indica in senso tecnico e specificatamente cinematografico il modo in cui
è inscenato lo spettacolo naturale, il come della rappresentazione. Se quindi appare chiaro il perché non si possa più rimanere completamente indifferenti al valore culturale di questo denso rapporto, questo secondo aspetto integra ulteriormente le ragioni del primo tramite le scelte stilistiche dei
registi. Nella narrazione filmica il come l’immagine è posta ed il tipo di raffigurazione impiegato, offre o meno la possibilità di fissare la realtà storica del “problema natura”, di scomporlo, analizzarlo e quindi ripensarlo in
termini critici ed artistici. Questa è l’enorme potenzialità del cinema che
non tutti i registi riescono a gestire.
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La difficoltà della trattazione sta però nell’ambiguità ed ampia valenza
propria del termine “natura”, il concetto che, più d’ogni altro, ha posto
contraddizioni che non è possibile qui sciogliere. Senza quindi tentare
nuove sintesi artificiose o bizzarre definizioni, è possibile fare alcune
attente valutazioni sul modo in cui il cinema ha vissuto quest’ambiguità e
portato in scena elementi della natura. Il cinema ha individuato i punti di
crisi e rottura della rappresentazione classica della natura. La pellicola ha
offerto sotto un’altra veste le idealizzazioni naturali del romanticismo, le
contraddizioni insite nella nozione di progresso ed i torti inflitti al pianeta dall’epoca moderna ad oggi, concludendo questa sua parabola nell’afasia o impossibilità stessa di poter definire il termine “natura”, in una
sospensione quasi mistica che restituisce la grandezza e lo splendore di un
misterioso termine.
Cominciando quindi a riflettere sulla messa in scena della natura in pellicole il cui set è direttamente l’aria aperta, in cui agiscono personaggi che
abitano e lavorano in un contesto forestale rilevante, un bosco per esempio, sono svariati i lavori - come Il bosco di betulle (Vajda, 1971) o Il taglio del
bosco (Cottafavi, 1963) - ove il paesaggio si coniuga con le sottolineature
psicologiche dei protagonisti e con la descrizione dei loro comportamenti. Solo limitandoci al panorama italiano è probabilmente grazie allo scrittore bellunese Dino Buzzati che alcuni registi hanno tratto fuori dai
boschi, dalle vette e dai pascoli quanto di animista, fiabesco e stregato vi
sia, per poi immergervi i loro attori. Mi riferisco al Segreto del bosco vecchio
(Olmi, 1993), tratto da un lungo racconto di Buzzati e girato nella zona
dolomitica tra Auronzo e il Passo Tre Croci, oppure all’altra opera italiana Barnabo delle montagne (1994). Quest’ultimo, del veneziano Mario Brenta
(già allievo e collaboratore di Olmi), è la vicenda di un guardiaboschi che
perde il posto e la dignità di fronte a dei contrabbandieri e che in seguito,
pur avendone l’occasione, non consumerà mai la sua vendetta.
Ambientato negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale, è un’opera
cinematografica che ci fa percepire, nei prati e nelle boscaglie, i segnali
d’intatte presenze metafisiche. Brenta realizza soprattutto una parabola
sull’amore per la montagna e, grazie ai rari dialoghi, un film ieratico e lirico dove il silenzio ha il valore di una meditazione e la natura acquista il
significato di una contemplazione: «un’orgia di ascetismo al rallentatore»
che «esige attenzione agli incanti minimi e alle minacce della natura, ai tra-
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salimenti del cuore» [Morandini, 153]. Il film, oltre ad essere un singolare
caso in cui appartenenti al Corpo Forestale dello Stato furono realmente
impiegati come comparse ed attori non protagonisti, ha il merito di introdurre un immaginario naturale che non è mai un retroscena o un contorno illustrativo, ma presenza viva, complemento insostituibile all’articolazione narrativa della storia. Barnabo delle montagne è un film in cui lo sfondo interagisce con gli attori fino al punto di poter immaginare la storia
ambientata esclusivamente in quel luogo e non in un altro; in questo caso
«il recupero estetico e la rappresentazione della natura in quanto paesaggio hanno la funzione positiva di mantenere aperto il legame dell’uomo
con la natura, dandogli la possibilità di esprimersi nella parola e nello
sguardo» [Ritter, 60].
Al contrario il cinema è egualmente stracolmo d’esempi non riusciti,
stucchevoli e deprecabili, in cui l’uso di un particolare ambiente naturale
è volutamente pretestuoso. Dalla giovane Brooke Shield di Laguna blu
(Kleiser, 1980) ai novelli Adamo ed Eva del tristemente famoso Paradise
(Gillard, 1982), l’incanto di un tremendo e falso Eden è solo una semplice cornice per una vicenda sostanzialmente avvolta sull’uomo, in cui il
paesaggio dovrebbe far da mediatore per un impossibile ritorno alla natura incontaminata, dopo la perdita dell’innocenza.
Negli esempi citati, tuttavia, gli interpreti delle pellicole, dotate di bellezza o meno, si rapportano alla natura secondo una norma che potremmo generalmente definire romantica, d’essenziale vicinanza e concordia
con l’ambiente, già tematizzata dalla letteratura inglese di Wordsworth e
Coleridge o da Schiller ed Humboldt sul versante tedesco. In questi casi
non si tratta di esternare un panteismo naturalista, ma d’interpretare la
natura nel suo rapporto con la sensibilità dell’uomo e di rappresentarla
quale si rispecchia nell’interiorità. I romantici hanno tentato questa mediazione tra pensiero e natura dando voce alla vita del macrocosmo universale così come si rispecchia nel microcosmo individuale. Ma è anche in
opposizione alla scienza moderna ed al tentativo di leggere il “grande
libro” della natura in termini matematici, che il romanticismo preannuncia il risvolto negativo del Metodo Sperimentale: questo può portare alla
separazione tra uomo e mondo, all’indifferenza ed alla fredda vivisezione
scientifica della natura.
Oggi le medesime critiche e perplessità circa l’atteggiamento della
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ricerca scientifica sono state riposte in lavori video apparentemente lontani dal tema, invece aderenti. Nelle arcinote opere di Steven Spielberg, Lo
squalo (1975) e Jurassic Park (1993), il tema della natura offesa e del mondo
animale mutilato è presentato come la conseguenza del nostro tentativo di
disciplinare il rapporto con la natura in modo da diminuirne il potenziale
di minaccia, senza però rispettarla. Con un atto di superbia si accoglie la
scienza come legittima procedura razionale d’ammansimento della natura
che è invece predisposta ad aggredire, e «cova come un fuoco sotto la
brace, pronta a riemergere» [Bernardi, 27]. Il cinema spielberghiano sembra dar credito a quest’ipotesi e segue lo schema classico della tragedia
greca: alla hybris, l’umana tracotanza, segue sempre la nemesi, la vendetta.
Nel cinema del regista americano assistiamo ad un ribaltamento del concetto romantico di natura che ridiventa problema, e non più «un principio
rassicurante o un’istanza più o meno legata ai nostri desideri o alle ipotesi scientifiche: qui la natura, che sembrava definirsi in maniera così intima
e tranquillizzante, finisce paradossalmente per trasformarsi in una forza
ostile ed estranea» [Cabrera, 88]. Il quadro può essere perfezionato con
l’aggiunta del “genere catastrofico”, le “tetralogie degli elementi” in cui
aria (Twister, de Bont, 1996), acqua (Waterworld, Reynolds, 1995), terra
(Vulcano, Jackson, 1995) e fuoco (Fuoco assassino, Howard, 1991), tornano
ciclicamente come piaghe antagoniste lo sviluppo storico dell’uomo.
Questo genere di pellicole ottiene troppo spesso un effetto contrario, derealizzante; ossia c’informano di un pericolo non ipotetico ma autenticamente presente con una resa stilistica inverosimile, sovraffollata di pirotecnici effetti che distolgono lo spettatore dal problema.
Il risultato è differente se, un po’ come lo storico, il cineasta non trascura il fatto, l’evento realmente accaduto, un disastro ambientale o problema ecologico motivato e sorretto da dati accertabili. Allora egli lavora
con quella stessa commistione di “realtà” e “possibilità” cui già Manzoni
con i Promessi Sposi, o narratori come Balzac e Tolstoj, ci hanno abituato.
Nascono così i documentari, o docu-fiction, che, se non siano già pensati per
un’ampia commercializzazione o per un trattato d’etologia scritto in fotogrammi, vanno oltre l’immediata oggettivazione descrittiva dell’ambiente
permettendo allo spettatore di riflettere ed interpretare. I migliori documentari sono saldamente ancorati alla roccia dei fatti, come il film del siciliano Vittorio de Seta, In Calabria (1993), sconsolata ricognizione ecologi-
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ca sui segni di un’industrializzazione risoltasi in degrado ambientale e
sociale, o le opere di Werner Herzog. Il cineasta tedesco è stato prima
testimone della distruzione del territorio degli aborigeni australiani e dello
scontro di culture con Dove sognano le formiche verdi (1984), poi della tragedia planetaria seguita alla Guerra del Golfo, con migliaia di pozzi petroliferi in fiamme: uno scorcio d’inferno, un assaggio della fine dei tempi,
un’Apocalisse nel deserto (1992). Animato da sincero spirito ambientalista ed
altrettanto lirismo poetico, Herzog ha spesso riferito che non poté non
recarsi in Kuwait per filmare quello scempio. Nel fantastico lavoro prodotto c’è un’evidente “torsione” dello spazio e deformazione, solo apparente, dello sguardo che presenta gru, ruspe e tutti i mezzi meccanici adoperati per lo spegnimento dei pozzi alla stregua d’animali preistorici che si
cibano delle carcasse del progresso, dei resti di un efferato delitto compiuto a discapito della terra. Il deserto del Kuwait appare un territorio incontrollabile, infestato da potenze che sovrastano l’uomo, ove il petrolio non
più imbrigliato rompe con violenza ogni catena e trascina via gli uomini
indifesi. Apocalisse nel deserto è un documentario sconsolato che contempla
il fallimento della civiltà occidentale, in cui l’uomo - e la tecnica - ricadono ancora più miseramente dentro la potenza della natura che si ripresenta ad un livello superiore, come una spaventosa realtà che vuole nuovamente affermarsi.
È evidente che ancora siamo sotto quella che Ritter ha definito «pressante influenza di una filosofia che condanna la civiltà moderna» a causa
dello «sfruttamento di tutta la terra» e «disumanizzazione dell’uomo»
[Ritter, 62]. Allora non è sempre possibile e lecito ravvisare nella natura le
qualità insite all’essere umano, quali perfezione o amore, ma anche rabbia,
odio e sofferenza. Probabilmente il lungometraggio che più d’ogni altro
negli ultimi anni ha insistito su questa difformità, rivelandosi un possente
crogiolo di riflessioni sul termine natura, è La sottile linea rossa (Malick,
1999). È una delle espressioni più impegnative del mercato cinematografico su quelle che spesso e con superficialità nominiamo “leggi di natura”.
La conquista statunitense dell’isola di Guadalcanal nel Sud Pacifico, nel
novembre 1942, è solo lo sfondo di una tragedia vissuta su due livelli:
antropico e naturale. Guadalcanal è l’archetipo del bello, paradiso in terra,
in cui la natura è rigogliosissima, maestosa e celestiale. Ne La sottile linea
rossa il teatro di guerra messo in opera da Terrence Malick, riesce «a dare
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visibilità alle forme e ai gesti dell’invisibile», riesce in qualcosa che non è
stato possibile per generazioni di pensatori “naturalisti”: «a dare un tempo
- cinematografico - all’atemporale, una voce e un canto ai silenzi dei primordi» [Arecco, 70]. Tuttavia lo spettacolo dell’isola è solo il prologo di
una carneficina in cui i marines moriranno a centinaia, in seguito ad un
attacco, forse, decisivo. Aumenta progressivamente nei combattenti la certezza che lo stesso odio che li contrappone sul campo di battaglia sia il
nomos della terra, la legge che presiede a tutti gli eventi naturali. Alcuni trovano la spiegazione dell’irrazionale carneficina che l’uomo compie a
danno dell’uomo nella stessa contrapposizione - o darwiniana struggle for
survive - che nella giungla piante rampicanti, animali ed acqua, quotidianamente combattono ingoiandosi a vicenda, una specie a discapito dell’altra,
un elemento contro l’altro. La voce fuori campo narra il flusso di coscienza dei soldati ed è l’espressione del confronto con l’ambiguità delle presunte “domande fondamentali”. La parola prende il sopravvento, il dialogo interiore si sostituisce a quello fra gli esseri umani; ma ciascun soldato
non sa se osserva i tratti di un solo volto o due principi antagonisti, così
come chi osserva un uccello morire non sa se pensare che la vita sia solo
dolore senza risposta, o gloria e meraviglia. L’esperienza sempre estrema
della guerra diviene estrema esperienza dei conflitti esistenti in natura, e la
natura radice e fondamento delle contrastanti sensazioni dell’uomo, del
combattere d’istinti e pulsioni, alcuni volti alla conservazione, altri alla
distruzione ed al predominio.
Il tema del film non è certamente nuovo e segue, per stile, grandiosità
realizzativa e riuscita estetica, la scia di Apocalipse Now (Coppola, 1979).
Già nel libro di Joseph Conrad Cuore di tenebra, cui Coppola si è ispirato
per la realizzazione di Apocalipse Now, si descrive il passaggio dall’orrore
della cultura a quello della natura, la regressione dell’uomo civile allo stato
ferino, ove la perdita della natura equivale alla perdita del bene. La cultura può sempre corrompersi e ritornare all’inciviltà iniziale, all’ingens sylva
cui si riferiva Gian Battista Vico, la gran selva della barbarie che si rifà
all’elemento inconscio dell’uomo, legato a tutta un’evoluzione animalesca
che precede la civiltà umana. Lasciando però questa possibilità aperta ed
il dubbio insoluto, La sottile linea rossa esprime qualcosa d’ulteriore.
La natura “naturante”, che continuamente cambia al passaggio degli
antieroici soldati di Malick, diventa paradossalmente invisibile ed incom-
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prensibile, arretra assieme agli indugi e le domande degli attori. Il regista
pare rammentarci l’impossibilità di personificare la natura, che rimane
sempre indifferente alle sofferenze dell’umanità tutta, ed è davanti ad una
natura meravigliosa ma impassibile che serpeggia un dubbio che senza
fine ci fa chiedere: chi sei tu, natura, per vivere sotto così tante forme?
Questa forma omogenea e coerente, questo velo di perfezione che l’uomo cerca di creare ed al quale si aggrappa, si svela essere un simulacro,
poiché «questa natura nascosta dietro le apparenze non la vediamo mai
direttamente, l’incontriamo solo nella mediazione di una forma sovrapposta ad essa che ci consente di trasformare il kaos delle impressioni sensibili in un kosmos ordinato e comprensibile» [Bernardi, 21]. La natura è il vertice della cultura ma anche il limite invalicabile in cui il paesaggio, quella
porzione di natura che scorgiamo, non è solo un oggetto di piacere ma
«sembra piuttosto una soglia che trascina l’uomo al di là di se stesso, verso
il suo trascendimento, e anche al di là del comune sapere, verso ciò che
appare inconoscibile» [Bernardi, 16].
Perché, dunque, parlare delle “definizioni” di natura presenti nel cinema ed accostare l’ambiente alla macchina da presa? Si è notato che la pellicola rivaleggia con le riflessioni della cultura scritta ed orale; talvolta le
compendia e le catalizza senza voler essere l’equivalente visivo della scrittura, ma semplicemente una differente forma espressiva che va riconosciuta come tale. Ciononostante è ancora comunemente diffuso un fuorviante pregiudizio secondo cui l’“esperienza naturale” realizzabile attraverso la visione è sempre frapposta dallo schermo e quindi non valida,
non può possedere una portata veritativa ed un reale intento pedagogico.
C’è ancora un pizzico di repulsione a pensare che valide risposte non
siano più racchiuse soltanto nei libri ma anche nelle pieghe dell’immagine.
Ciò è ancora più insensato se consideriamo che il passaggio da molti
auspicato, da una conoscenza eminentemente “letteraria” dell’ambiente
ad una diretta, vissuta e partecipata, specialmente da ragazzi in età scolare, non si va assolutamente realizzando. Dalla perplessità non può di certo
nascere un effettivo cambiamento di politica o sensibilizzazione personale al problema ambientale, o studio delle scienze naturali sotto una forma
che possa interagire con le altre espressioni culturali, cinema compreso.
Questa valutazione vuol essere principalmente un invito alla visione, a
percorrere una strada che da qui può solo prendere le mosse e spingere
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all’utilizzo di nuovi mezzi formativi, al fine di liberare progressivamente il
potenziale educativo delle “immagini in movimento”. Si può facilmente
evitare di cadere nella noncuranza ambientale se ammettiamo un’unione
d’intenti nelle differenti qualità specifiche della scrittura e della cinematografia, se pensiamo che il modo in cui si documenta la natura è sempre un
atto estetico eticamente orientato. Come per il Ragazzo selvaggio (1970) di
François Truffaut, a noi rimane solo il compito di imparare nuovamente
ad ascoltare e guardare.
Oltre ad essere un mezzo didatticamente valido ed interessante se presentato nella giusta maniera, il cinema «è potenzialmente uno strumento
per ripensare il mondo attraverso lo sguardo, poiché il cambiamento di
punti di vista (montaggio) e il loro slittamento (movimenti della cinepresa) incarnano tecnicamente il movimento dello sguardo e del pensiero, la
possibilità di guardare una cosa da molti lati, di avvicinarsi e allontanarsi,
di allontanarsi anche da se stessi e di guardarsi attraverso il rapporto fra le
immagini» [Bernardi, 17]. Il cinema, nonostante sia stato tacciato di relativismo, falsità o ideologia, è un moltiplicatore dell’immagine, mostra differenti Weltanschauung indispensabili per la ricostruzione del concetto di
natura. Sopra ad ogni altro linguaggio, attraverso la sinestesia che crea e
permette, è oggi l’arte che più si avvicina a ciò che non potremo mai realizzare: guardare il mondo con gli occhi di un altro.
Bibliografia
ARECCO, S. 2001 - Il paesaggio del cinema, Genova, Le Mani.
BERNARDI, S. 2002 - Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio.
CABRERA, J. 2000 - Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Milano,
Paravia.
MORANDINI, M. 2004 - Dizionario del cinema 2005, Bologna, Zanichelli.
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RITTER, J. 1994 - Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, Milano, Guerini e
Associati.
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