Gazzetta Forense n. 1 del 2013

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Gazzetta Forense n. 1 del 2013
Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 7 – Gennaio‑Febbraio 2013
direttore responsabile
Roberto Dante Cogliandro
comitato di direzione
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redazione
capo redattore Mario de Bellis
redazione gazzetta forense
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proprietario
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Giuseppe Riccio
Giuseppe Tesauro
Renato Vuosi
n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
360o ‑ Roma – nell'aprile del 2013
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Giuseppe Riccio ]
Diritto e procedura civile
Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione
dei danni in sede fallimentare
13
Pietro Paolo Ferraro
Il punto sul licenziamento collettivo dopo le novità introdotte dalla riforma del lavoro
24
Maria Rosaria Palumbo
Potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità contrattuale e principi della domanda
e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato: il punto delle Sezioni unite
34
Roberta Catalano
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio]
40
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa]
42
In evidenza
Corte di Cassazione, Sez. civ. III, 19 febbraio 2013, n. 4030
[Nota redazionale a cura di Fabrizia Sabbatini]
44
Diritto e procedura penale
Operazioni infragruppo e vantaggi compensativi: la disciplina dell’art. 2634 c.c.
si estende anche alla bancarotta fraudolenta?
49
Dora Tagliaferro
La tutela giurisdizionale dei diritti in tempi di crisi finanziaria.
Il “Decreto Crescitalia” ed il riesame delle pronunce giudiziali
59
Rosanna Fattibene
Dialogo tra la corte Edu e le corti nazionali sulla natura delle confische
Due interpretazioni diverse su casi simili
64
Vittorio Sabato Ambrosio
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
69
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
73
76
Diritto amministrativo
Il cottimo fiduciario. Principi comunitari e corollari applicativi
nella più recente giurisprudenza
89
Maria d’Elia
Giudizio di ottemperanza e connessa domanda di risarcimento del danno
alla luce dell’Ad. Plen. n. 2 del 15 gennaio 2013
Francesco Foggia
94
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 101
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
A cura di Almerina Bove
Diritto tributario
Riflessioni a margine di alcuni casi di deroga al principio di alternatività tra imposta
sul valore aggiunto e imposta di registro
107
Maria Pia Nastri
Diritto internazionale
Rassegna di diritto internazionale 113
A cura di Francesco Romanelli
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
Nel caso in cui un’Amministrazione dello Stato sia parte nel processo esecutivo
a chi e in che modo vanno notificati il titolo esecutivo,
il precetto e l’atto di pignoramento presso terzi? / Marianna Falco
Se la sospensione condizionale della pena sia estensibile alle pene accessorie,
e se la decorrenza degli effetti delle pene accessorie sia riferibile al momento
del passaggio in giudicato della sentenza comminativa delle pene accessorie,
o, a quello successivo, della loro concreta esecuzione, con particolare
riguardo all’ipotesi della “sospensione-perdita del diritto elettorale”. / Myriam Di Domenico
Il sub ingresso nella titolarità della concessione demaniale marittima
attribuisce la qualità di nuovo cessionario
o di concessionario ab origine? / Anna Laura Magliulo e Mary Musto 123
125
129
Recensioni
L’esame incrociato tra legge e prassi, Vania Maffeo, Cedam, 2012 a cura di Giuseppe Riccio
131
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E per la Giustizia?
● Giuseppe Riccio
Professore di Procedura Penale
presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II"
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Un recente dibattito occasionato dalla presentazione di una
felice scoperta in terra nevana di un “Tribunale di Campagna”
ha riproposto all’attenzione degli studiosi, impegnati nella
singolare vicenda, tre ordini di problemi che sembrano spazia‑
re in tempi lunghi ed in epoche profondamente distanti e che,
invece, attestano una sconcertante continuità di comporta‑
menti politici in materia giuridica e giudiziaria nonostante la
radicale innovazione – questa sì – del tipo di Stato, delle sue
istituzioni e delle filosofie che lo aggregano dal Medioevo ad
oggi. Ed appare singolare che, storicizzando l’analisi, si nota
un dominio delle prassi, allora giustificate da ridotta sensibi‑
lità sui temi della Procedura penale ed oggi causati dalla in‑
differenza di chi è chiamato a regolare la democraticità istitu‑
zionale della Procedura e del Processo e la loro legalità: legi‑
slatori e giudici, ciascuno per la propria strada, lasciano cor‑
rere e attivano prassi spesso di durissima inquisitorietà, che
propongono al cittadino contemporaneo problemi di storia
negata, di democrazia negata e di libertà negata, su cui è ca‑
duto un sonoro silenzio nella passata campagna elettorale; non
v’è stato un cenno, dico uno, in materia di giustizia che abbia
impegnato questo o quel candidato, questo o quel giornalista,
che, poi, si meraviglia del silenzio da esso stesso causato per
mancanza di domande.
Insomma nel nostro Paese il “problema Giustizia” non
esiste.
Perciò, dichiaro gratitudine a questa “rivista di nicchia”
(con buona pace dei “tecnici” che hanno graduato la scienti‑
ficità delle riviste: che vergogna!); dichiaro gratitudine a que‑
sto contesto intellettuale, che, anche per mia indicazione,
dovrebbe interessarsi di eventi giudiziari regionali e che invece
ora ospita questo scritto.
A loro si è offerta la combinazione tra osservazione storio‑
grafica ed attualità giudiziaria ricavata dai discorsi dei Presi‑
denti delle Corti di Appello per l’inaugurazione dell’Anno
giudiziario; che, insieme ai recenti percorsi culturali impostimi
da un amico, denotano uno sconcertante quadro della situa‑
zione della Giustizia, rispetto alla quale nessuno é immune da
responsabilità.
Infatti, accomunando risalenti esperienze – ad esempio: del
Tribunale di Campagna – ed i moderni problemi della giurisdi‑
zione si scopre che la rivoluzione dello stato moderno non ha
dato frutti sul terreno dei principi del processo, ove si registra,
oggi, una tendenza antigarantista sulla quale sarebbe indispen‑
sabile riflettere; ma la cosa riguarda nessuno, anzi, ciascuno
rimbalza sull’altro la responsabilità del disimpegno, presentan‑
do il problema come tema di astratta ingegneria scientifica,
facendo finta di ignorare, così, (o: ignorando; il che è gravissi‑
mo) che questo è delicatissimo problema politico, attingendo
direttamente ai diritti ed alle dignità delle persone, oltreché
alla crisi economica che attanaglia il Paese. Ma tanto è.
E dunque, nell’ordine.
La sintesi unificante delle riflessioni originate da eventi
diversi si rintraccia nei comportamenti giudiziari dei protago‑
nisti delle distanti epoche storiche, che presentano una preoc‑
cupante cura delle prassi di cui bisogna scoprire cause ed ef‑
fetti. E suggerisce la necessità di penetrare la contraddizione
tra Storia e Politica, nella quale l’intersecarsi dei problemi che
qui interessano risultano indissolubilmente legati, appartenen‑
do essi ad una unità di essenza.
Nell’ordine.
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e d i t or i a l e
Per dare soddisfazione ad un amico che presentava la
storica scoperta di un sito giurisdizionale del tempo antico
nella sua terra (Raffaele Chiacchio, Il Tribunale di Campa‑
gna, Grumo Nevano, Ed. Atellana, 2012), mi son dovuto
sobbarcare l’affascinante ricerca di istituzioni e stili di evi tra
loro molto distanti, ovviamente non con piglio storico – non
lo ho; non ne sarei capace –, ma ricostruendo quelle vicende
con l’aiuto della Scuola storica federiciana – curata con impa‑
reggiabile maestria da Lello Ajello –, particolarmente attenta
agli eventi giuridici e giudiziari di viceré e vassalli delle domi‑
nazioni che hanno travagliato (ed oggi no?) questo splendido
sud del Paese.
L’intenzione era quella di un raffronto storicistico su epo‑
che e riti; quella di scoprire sinonimie istituzionali e differen‑
ze rituali attraverso l’osservazione di un giurista aduso alla
comunicazione tra storia e politica (mi permetto di ricordare
la travagliata opera con cui ho salutato la mia Facoltà è stata
la Procedura penale. Tra Storia e Politica, Napoli, Ed sc.
2010); un giurista abituato, soprattutto, alla ricostruzione
delle dinamiche tra Stato e diritto a cui l’intellettuale contem‑
poraneo dovrebbe interessarsi.
Ed è stato così. Solo che sono inciampato in una “scoper‑
ta” inattesa: lo studio del passaggio dall’assolutismo alla de‑
mocrazia anche nelle istituzioni giudiziarie e giurisdizionali
ha dato sconcertanti risposte nel confronto tra riti, inspiega‑
bilmente simili, nonostante la “rivoluzione culturale” che ha
caratterizzato gli anni ‘48‑88’ del secolo passato.
Certo, la sensibilità verso i diritti della persona è radical‑
mente mutata; l’elitaria cultura è diventata condiviso convin‑
cimento, talvolta addirittura abusato, quando, ad esempio,
senti il condannato dire che è oggetto di complotto o vittima
di una visione giustizialista del sistema; ed oggi lo dicono
tutti, anche i criminali “incalliti”, come si usa dire.
Ma a siffatto radicale mutamento non sembrano corri‑
spondere eguali comportamenti giudiziari, quelli, cioè, che
fanno (rectius: che dovrebbero fare) la differenza.
Ad esempio, seguendo gli accorti ricercatori che hanno
documentato quei risalenti accadimenti e ragionando sul
presente, esce fuori una indigesta perpetuità nel tempo di
condotte che relegano sullo sfondo il sofferto approdo al
processo democratico di fine millennio; sembra, anzi, che
l’unico codice repubblicano e democratico di questo Paese non
sia stato mai scritto, tanto é lontano dalla sua filosofa e dalle
sue regole l’attuale esercizio della funzione giurisdizionale.
Ti accorgi, insomma, che, seguendo la sottile tessitura
della storia, l’evoluzione democratica dello e degli Stati di cui
essa offre decisa traccia non ha eguale fortuna sul terreno del
processo, i cui comportamenti rivelano continuità con epoche
buie e con riti risalenti che neanche il diritto giurisprudenzia‑
le riesce a tenere sotto controllo.
Certo; i significati storiografici delle diverse epoche tesso‑
no il progredire delle istituzioni; raccontano del profondo e
drammatico mutamento dalla signoria dei potenti alla signo‑
ria della legge; ma dalla narrazione non si ricava la consequen‑
ziale altalena dei compiti della giurisdizione. Scopri, anzi, la
stabilità di vizi culturali acquisiti in epoche “buie” e mai
corretti nelle luminose epoche della democrazia.
In questo “diverso” orizzonte comparativistico si esalta il
dato esistenziale della storia. Esso è dato dal profondo cam‑
biamento, in epoca moderna, dei rapporti tra Stato e perso‑
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na – oggetto specifico della giurisdizione – ora condizionati
dalla centralità costituzionale della persona, finalmente libe‑
rata dalle munifiche blandizie del principe, perché soggetto
originario ed originale dei “diritti”.
L’ operazione è molto recente; è noto.
Si rintraccia nell’era contemporanea; nella quale quei di‑
ritti si sono costituiti come qualità della persona non come
mere “concessioni”, come presupposti della dignità umana,
non come privilegi; ma questi sicuri riconoscimenti non han‑
no comportato altrettante sicure realizzazioni per la mancata
consapevolezza della circolarità dei diritti, della loro recipro‑
cità, della loro contestualità operativa.
L’operazione comparativistica svela, anche, la centralità
del giurista e le indissolubili relazioni tra originalità del pen‑
siero filosofico e realizzazioni giuridiche e giudiziarie indi‑
spensabili alla concreta esistenza dei diritti originari; situa‑
zioni intellettuali, queste, che nelle epoche “di mezzo” vede‑
vano il giurista discutere delle liberalità del principe, non dei
diritti della persona.
Allora, il principe affidava al giurista la ricerca dei modi
per realizzare la sua politica, repressiva o raramente liberale,
riconoscendogli, così, un sostanziale ruolo di legislatore; la
cultura elitaria sui temi della “giustizia” spingeva, poi, le
Accademie (esistevano, e come; soprattutto: con quale auto‑
rità) a valutare la legittimità degli strumenti con il quale il
principe selezionava i modi per il suo incontrollato dominio
(Scuola di Bologna; Scuola di Pavia; Scuola Federiciana; al‑
tre).
Queste dinamiche sembrano oggi abbandonate: il giurista
ha rinunziato alla funzione di “informatore preventivo” e di
“operatore critico” di un principe che ha cambiato volto ed
assetto istituzionale, non gli strumenti “repressivi” per la
tutela della collettività; e, con tale incuria, ha delegato il
giudice ad una reale opera di legittimazione dei prodotti legi‑
slativi del principe, a dispetto del fatto che questo si dimostra
sempre più ignaro del compito che la giurisdizione svolge,
appunto, in Democrazia, secondo l’originale dettato del se‑
condo comma dell’art 101 Cost.
Riflettendo sulla comparazione storica e sugli umori po‑
litici delle diverse epoche, insomma, si scorge che oggi il tema
della funzione del giurista e, quindi, il suo coinvolgimento nel
tema politico è ancora offuscato dal clima illuministico che
sembra averlo escluso da tutti gIi ambiti di intervento dei
poteri pubblici. Nel tema politico, invece, si dovrebbero com‑
binare, indissolubilmente, principe (= potere) e accademia (=
giurista), luogo della decisione e sede della riflessione, della
preparazione, della ricerca, della critica, ancor più, della
formazione delle leggi e della interpretazione/applicazione
delle leggi.
In questo clima di irresistibile ‘non cale’, il politico si af‑
fida alla improvvisazione o, peggio, alla utilità del singolo,
ignorando gli effetti devastanti, nel sistema dei diritti, di ri‑
tocchi privilegianti; e ciò perché il politico non conosce la (o
si disinteressa della) coralità della storia, appunto, ed accan‑
tona la necessaria (= democratica) generalità degli interventi
politici in materia di diritto.
Nello stesso clima l’atteggiamento neutrale del giurista fa
perdere di vista la circolarità tra dottrina‑legislazione‑giuri‑
sprudenza‑dottrina: circuito virtuoso coltivato nell’epoca
d’oro del diritto processuale penale, quello in cui il giurista si
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occupava delle situazioni pregresse alla legge e della critica
dei prodotti giurisprudenziali, indirizzando la prima e confe‑
rendo autorità ai secondi, quand’essi si fossero mossi secondo
linee dogmatiche di valore sistematico.
In sostanza, l’atteggiamento neutrale nasconde i risultati
dell’ pera storiografica ed il dato di persistente continuità
delle vicende del diritto; offusca la vocazione giurispruden‑
ziale dell’ordinamento che consegna la legge al suo esecutore
come soggetto privilegiato della sua interlocuzione; mortifica
la modernità del principio di supremazia della legge, che ne
svela la funzione formale, non sempre la tenuta sostanziale.
Infine, l’atteggiamento neutrale rende inspiegabilmente
elitaria la convinzione dell’indissolubile intreccio tra Giustizia
e Democrazia e la loro reciprocità esistenziale, su cui si impe‑
gna magistralmente da ultimo il “Nobel” Amartya Sen (L’idea
di giustizia, Milano, 2010); si nasconde che l’una qualifica
l’altra e questa quella, soprattutto in un settore dove la Storia
e la Politica hanno vinto la barbara idea che il processo possa
essere strumento di ordine pubblico e/o di difesa sociale.
In questo clima assale il dubbio che la Storia sia trascorsa
invano; che la successione degli eventi “rivoluzionari”, che
essa descrive siano rimasti estranei alla intelligenza ed alla
coscienza dei regnanti che pure li hanno prodotti, soprattutto,
sul terreno del progressivo maturare dalle “ordinanze” asso‑
lutistiche, alle leggi, ai diritti; cose di cui si parla; cose che
avresti mai sospettato oggetto di irresponsabile disinteresse.
La Storia insegna che la Giustizia è problema di Democra‑
zia; che, in particolare, l’evoluzione del processo penale, in‑
dipendentemente dalle fonti, è il passaggio da strumenti op‑
pressivi a metodi di accertamento dialettico; che la Procedura
penale è l’incedere delle garanzie, l’insinuarsi delle forme di
tutela dell’individuo nel processo penale, il divenire soggetto
della persona, prima oggetto del processo.
Ma chi se ne ricorda più; chi ha voglia di ricordarlo.
Sono queste le premesse su cui si é bloccato il diritto di
illuministica impronta, per lasciare il posto ad un sistema nel
quale la “legalità” ha perduto il dominio della e sulla legge,
per assumere – almeno nel processo penale – il significato di
premessa ordinante le discipline del processo, comunque af‑
fidate, per il diritto, alle interpretazioni giudiziarie e, per la
loro realizzazione, alle prassi operanti nella giurisdizione, ai
comportamenti delle parti, alle condotte del giudice.
In questo senso “legalità” – nel suo ampio e complesso
significato contemporaneo – é metodo non fine, é gestione dei
rapporti tra legge e sua interpretazione, rectius: tra luogo
della decisione politica e luogo della realizzazione giuridica
dei diritti. In questa “sintesi”, poi, è determinante l’ambito
della libertà intellettuale (altri la chiamerebbero: “discrezio‑
nalità”) che il legislatore lascia al giudice o del quale il giudi‑
ce si appropria, magari, per far fronte alla colpevole ed irre‑
sponsabile inerzia del legislatore; soprattutto quando la “ri‑
chiesta” attiene alla tutela dei diritti.
Insomma, in tale diverso contesto, il termine non evoca più
situazioni “gerarchiche” tra legge e giudice, se non per deter‑
minare la misura dell’intervento ermeneutico, che rende dutti‑
le la tutela giurisdizionale dei diritti; legalità è gestione delle
regole per il potere di creare diritto, che stabilisce, in orizzon‑
tale, il rapporto tra legge e giudice, soprattutto quando il si‑
stema è a piani normativi verticali, sostanziali, valoriali.
Con questi ignorati presupposti è chiaro che la lettura dei
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discorsi d inaugurazione dell’Anno giudiziario ha perduto
importanza ed interesse; anche perché i rappresentanti istitu‑
zionali hanno versato, reciprocamente, sugli altri la respon‑
sabilità dell’insopportabile crisi della Giustizia (e questa
parte avremmo voluto fosse stata diffusa alla comunità; ma,
si è detto, a chi giova? Al Paese? Beh … non giustifica spreco
di inchiostro e carta).
Anche quest’anno la parata delle toghe rosse non ha im‑
pressionato nessuno; ovviamente mi riferisco alle toghe delle
Corti di appello, non alle “toghe rosse” degli anni ‘60 e ‘70,
che facevano cultura in questo Paese. Allora, messa sotto da
un appartato statale che stentava a incanalare in effettivi
solchi democratici il processo penale, la magistratura rispon‑
deva con pregevoli dibattiti costituzionalmente orientati, di
cui spesso trovavi eco nelle sentenze, nel sacro luogo del giu‑
dizio, lì dove, invece, avrebbe dovuto e dovrebbe imperare la
neutralità del fatto e del suo rapporto con la legge. Spesso non
era così; fortunatamente. Caparbiamente il giudice (= la ma‑
gistratura) dava senso democratico alle leggi fasciste; ed ogni
giorno incuneava un tarlo liberale nella interpretazione delle
norme: giorno dopo giorno egli (= essa) tesseva la tela del
nuovo processo. Ed era un piacere leggere nelle sentenze il
contrappunto tra rigore probatorio e ricostruzione garantista
di norme obsolete, con cui, la magistratura reagiva alla ten‑
tazione “autoritaria” dei nostalgici inquisitori e alle pericolo‑
se fughe della legalità rivoluzionaria; esercizi, che le legittime
esigenze di “carriera” (= allora si diceva “avanzamento”, per
allontanare il senso clientelare del vocabolo) spingevano sul
terreno della “sentenza dotta”, documenti con cui si afferma‑
va merito e capacità professionali necessari per raggiungere
“più elevate” funzioni e più appagante “soldo”.
Era affascinante partecipare a questa condivisa sensibilità
democratica. Docenti ed avvocati, in sedi dialettiche o con la
dialettica del processo, contribuivano al raggiungimento di
questi risultati minimi, ma esaltanti data l’epoca, paghi della
severità intellettuale del giudizio e della interpretazione “co‑
stituzionale” della legge che pure loro contribuivano a pro‑
durre.
Allora il problema erano le leggi per il governo del proces‑
so; ma non erano nascosti quelli relativi ai limiti della funzio‑
ne e alla democrazia interna della magistratura; ed erano
chiaramente palesati i desideri di umanizzazione del carcere,
attraversati dalla non rinviabile riforma del diritto sanziona‑
torio.
In questo clima cresceva il giovane professionista, magi‑
strato o avvocato, seguendo un coro autodidatta, fatto di
contrapposizioni culturali e di desideri emulativi che confer‑
mavano l’autorità della giurisdizione e l’autorevolezza dell’Ac‑
cademia, della Magistratura, dell’Avvocatura.
Già allora la politica era distratta; era lenta a capire; in‑
capace di intercettare gli umori intellettuali di quelle fortuna‑
te generazioni. Già allora si affacciavano spinte centrifughe,
interne ai ceti, verso la semplificazione dell’ impegno giudi‑
ziale, sentimento crescente col crescere della debole attenzio‑
ne del Consiglio superiore della Magistratura: già allora esso
puniva il magistrato indecoroso che aveva ballato in pantalo‑
ni corti su una spiaggia, essendo accorto ad evitare che più
gravi offese al decoro della magistratura ne minassero l’alone
guadagnato nella giurisdizione, non nei modi di progressione
in carriera (e qui scompaiono le virgolette).
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
E già allora i discorsi dei Procuratori generali (oggi dei
Presidenti di Corte di appello) riempivano i saloni di rappre‑
sentanza con le ragioni della “crisi della giustizia”: e le colpe
erano sempre, anno dopo anno, della legge e della politica,
della incapacità di questa di affrontare i problemi di organiz‑
zazione giudiziaria e giudiziale e dell’eccessivo lassismo di
quella.
Ed avevano ragione. Ma, anche quando cambiavano le
leggi di organizzazione strutturale e giudiziari la litania era
uguale; ed i recitanti avevano ancora ragione. Solo che avreb‑
bero avuto ragione, certamente ed incontestabilmente, se,
alla lamentela, avessero aggiunto la denuncia della “cattiva
coscienza” del sistema penale, che scarica sull’esecuzione e
sulla sorveglianza la democratizzazione dei diritti dei detenu‑
ti, dimenticando i doveri di solidarietà sociale che avrebbero
imposto la rimozione dello stato carcerocentrico; avrebbero
avuto ragione, certamente ed incontestabilmente, se avessero
testimoniato il male dei provvedimenti di clemenza, demoli‑
tori dello stato e della democrazia, non di altro. Epperó come
rinunziare a provvedimenti utili a “ridurre il lavoro”? E que‑
sto minimo beneficio personale poteva valere più dei bisogni
della effettività della giurisdizione?
Sta qui la radice dell’indegno stato delle carceri causato
da questa dissennata politica, oltreché da problemi struttura‑
li del sistema e dei luoghi. La responsabilità è comunque
della politica, perché i tecnici, interrogati, hanno offerto
sempre soluzioni diverse da quelle clemenziali; ma eguale
responsabilità ha chi, dovendo denunciare, ha taciuto: inutile
pensare che questi soggetti possano tirarsi fuori.
Eppure, a rileggere quei testi non si trova mai, dico: mai,
un cenno di autocritica, dall’una o dall’altra parte; mai, un’as‑
sunzione di responsabilità sul piano delle prassi e delle debo‑
lezze probatorie dei provvedimenti, soprattutto di quelli
cautelari, addirittura oggi in numero superiore a quelli assun‑
ti sotto la vigenza del Codice Rocco che non conosceva filo‑
sofia e regole cautelari; eppure anche questi provvedimenti
alimentano il problema carcerario: e ciò vale per una parte;
mai un’eguale assunzione di responsabilità dalla parte “av‑
versa” sulla povertà delle idee e sulla colpevole inerzia del
legislatore. Insomma, per questi ceti le colpe sono, alternati‑
vamente, della legge (che, dice, “il magistrato è costretto ad
applicare”) e delle “deboli maggioranze politiche” (che, dice,
non consentivano e non consentono riforme “strutturali”).
La falsità di questi detti è, forse, il vero conflitto tra ma‑
gistratura e politica e contestualmente la loro reciproca re‑
sponsabilità; certamente lo è la incapacità di capire che l’au‑
tocritica è indispensabile presupposto del dialogo e della so‑
luzione del problema.
Mai che si fosse fatta severa critica sugli effetti di un abu‑
so delle misure cautelari, che contribuisce, ed in che modo,
alla disumanizzazione della giurisdizione, prima ancora che
del carcere, ed alla perdita di autorevolezza della magistratu‑
ra; che, ora, con le prassi gestisce il peggior processo inquisi‑
torio dell’era democratica; e non vale ricordare il senso di
giustizia e/o l’ansia da prestazione che legittimamente la ani‑
mano in previsione di una sicura impunità causata dai folli
tempi processuali.
La conseguenza, ormai palese ed inarrestabile, è una gi‑
gantesca crisi di sistema che giorno dopo giorno mina gli
ideali democratici dello stato di diritto; una crisi ‘sbattuta’ tra
c i v i l e
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tecnica e politica sul fallace presupposto della distinzione di
cultura e di funzioni, che fornisce alibi a tecnici e politici, che
fingono di ignorare, strumentalmente, che il tecnico è tale se
ha cultura storiografica e visione politica dei problemi e che
il politico lo é, se ha capacità di sintesi tra storia, scienza e
politica.
È storia d’oggi; e so che la critica sarà liquidata – come al
solito – con l’accusa di utopismo (= degenerazione dell’ utopia)
e di irrealismo (= degenerazione della realtà), quando non di
qualunquismo e di incapacità di percepire la “difficoltà della
politica”.
È storia d’oggi; invasa da una cronaca giudiziaria che
racconta delle cerimonie inauguranti e degli elenchi di do‑
glianze copiate da quelle dell’ anno precedente e dell’ anno
prima e così di seguito di anno in anno. Nessuno si accorge
che questa autoreferenzialità è divenuta anno dopo anno
flebile ed inefficace; nessuno avverte che quella reciprocità di
addebiti non porta da nessuna parte; nessuno denunzia il
danno delle pericolose commistioni e dei dubbi di illegittime
ingerenze, che creano quei pochi o tanti magistrati che si
presentano in politica; ed è così, non perché il magistrato non
abbia il diritto di “entrare in politica” (= entrare è sinonimo
di luogo impenetrabile alla e dalla società), ma perché il ma‑
gistrato fa quel passo al coperto, se va male, con l’ombrello,
se poi piove; comunque c’è il rientro in magistratura, pur
avendo dichiarato la parzialità di appartenenza. Che avvili‑
mento; anche se, è vero, é così per gran parte di quelli che
“praticano politica” (= connotato di mestiere) qualunque la‑
voro facciano; se va male ci sono gli incarichi esterni.
È storia d’oggi, anche, la quotidiana delegittimazione
della magistratura ad opera dei “nominati immuni”, protetti
da uno status di marchio oligarchico ormai proiettato, in
nome della crisi, su illecite sponde clemenziali per rinnovare,
così, la perduta “verginità”. Del resto il disinteresse della
politica per il “Pianeta‑Giustizia” è documentato dall’assor‑
dante silenzio in argomento; non potendo pensare che tutti
abbiano da buttare la polvere sotto il tappeto.
Dio santissimo. La Giustizia è addirittura un Pianeta; ma
nessuno lo vede. Evidentemente gira intorno alla terra; é ir‑
raggiungibile; non appartiene agli umani; perciò meglio che
resti lì, ammirato, non conquistato.
Se no, come si fa? É così compromesso, sconosciuto, ine‑
splorato; appunto: è un pianeta; è cosa altra.
Meglio attendere che esploda la sua dimensione patologi‑
ca, così acquista consistenza l’istanza della impunita, magari
stupidamente non raggiunta durante il processo con la pre‑
scrizione. Tranquilli, pure qui vi sono gli ombrelli clemenzia‑
li; se non il condono, l’amnistia; o tutti e due. E, poi, tra
dieci anni, o prima, di nuovo condono o amnistia; e via di
seguito per rappacificare gli animi. Del resto, il pianeta é ir‑
raggiungibile; certamente per questa politica che in campagna
elettorale ha avuto la dignità di tacere sul punto; se no,che
dire? A chi giova la clemenza?; come essa può risolvere il
problema del carcere?; come può riparare alla violazione
della dignità di quanti sono ascritti nelle patrie galere, maga‑
ri in attesa di giudizio; di questi, in particolare, verso cui
maggiore dovrebbe essere la sensibilità istituzionale, se non
altro, per la presunzione di non colpevolezza; ma, ad essi,
come applichi l’amnistia se non c’è tempo per il giudizio?
È qui l’intreccio tra Storia negata‑Democrazia negata‑Li‑
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
bertà negata, su cui il silenzio è totale: operatori (= quelli che
dovrebbero provvedere) e controllori (= quelli che dovrebbe‑
ro denunciare) tacciono; meglio non scuotere il pantano: le
acque chete puzzano ma non ti sporchi se ne stai alla larga.
L’osservazione che più ti fa male è quella degli economisti,
evidentemente non di quelli che sono stati finora al governo:
la crisi della giustizia si intreccia a filo doppio con la crisi
economica, anzi la genera, perché l’impunità dei corrotti e i
tempi del processo – civile o penale che sia – tengono lontani
investitori e risorse; è da lungo tempo così, con buona pace
della globalizzazione e della crisi del mercato; è da tempo che
il perverso intreccio è pacifico, dimostrato, incontestabilmen‑
te documentato; inutilmente dimostrato.
Ma chi lo dice? Avete sentito mai rintuzzare il politico di
turno che elenca le cose che “bisogna fare” con la frase “per‑
ché non le avete fatte se sapevate cosa fare?”. Non si può;
come non si può chiedere all’interlocutore: “ma tu credi in
quello che dici? E perché hai fatto il contrario?”
Riflettete: queste cose valgono, soprattutto in tema di
Giustizia: basta pensare allo scempio delle leggi individuali
che hanno riempito il Parlamento per anni; come si fa a non
sapere che la legge è generale ed astratta. Ma forse non è così;
forse è pia illusione tendere alla uguaglianza; forse è farsesco
auspicare l’“efficienza della giurisdizione”: questo è problema
del Paese, non della politica.
E, dunque. Dove sono gli accorti media che fanno odien‑
ce e shere; meglio commentare tasse e balzelli che nessuno ha
mai voluto ma che tutti hanno messo addosso ai soliti paga‑
tori; ci sono sempre loro a salvare il Paese; e, se non basta,
2 0 1 3
9
tagliamo i posti di lavoro; andiamo all’estero: lì la manodo‑
pera costa meno; perché – per loro – lì i lavoratori hanno
minore dignità. Fanno finta: sanno bene che è tutto un pro‑
blema di struttura e di costi dell’appartato.
Ed ora tutto si ripeterà come prima, come sempre, visto il
folle risultato elettorale. Tutti i riti e le litanie saranno ripetu‑
te con un asfissiante ritmo, con un insopportabile cadenza;
certamente non ci sarà tempo per affrontare la crisi della
giustizia e dell’uguaglianza; premeranno ancora o problemi
economici; si farà ancora finta di non capire l’indissolubile
connessione tra le due crisi, tra i due problemi.
Tanto più che chi si lamenta? È la voce del singolo? Nes‑
suno si preoccupi; v’è rimedio: quando il singolo ha ragione,
basta il frastuono di massa per coprirne la voce, per non co‑
glierne l’oggettivo fragore e la richiesta di efficace autocritica
che essa chiede.
Se no basta dire che si tratta di irrazionali utopie; chi li
smentisce? E questo è successo in questi giorni in questo pa‑
ese (la minuscola qui è voluta!),
Sarebbe stato sufficiente riconoscere che quei problemi
esistono e che di essi bisogna farsi carico; prima, non poi.
Ma questa è la Politica; quella che costa fatica ed impegno;
quella praticata dai nostri Padri Costituenti che ora assistono
impotenti al dissolvimento dello Stato democratico, che vol‑
lero anche a costo di botte da orbi; quelle, sì, valeva la pena
di dare e ricevere; allora si giocavano gli ideali oggi buttati
nel cestino senza alcun rimorso e senza alcuna riflessione sui
drammatici effetti del gesto.
Ma… tant’è.
civile
Gazzetta
Diritto e procedura civile
Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione
dei danni in sede fallimentare
13
Pietro Paolo Ferraro
Il punto sul licenziamento collettivo dopo le novità introdotte dalla riforma del lavoro
24
Maria Rosaria Palumbo
Potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità contrattuale e principi della domanda
e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato: il punto delle Sezioni unite
34
Roberta Catalano
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio]
40
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa]
42
Corte di Cassazione, Sez. civ. III, 19 febbraio 2013, n. 4030
[Nota redazionale a cura di Fabrizia Sabbatini]
44
civile
In evidenza
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
●
Responsabilità
degli amministratori
di società e
quantificazione
dei danni in sede
fallimentare*
● Pietro Paolo Ferraro
*
Professore Aggregato di Diritto Commerciale
Seconda Università di Napoli
L’articolo riproduce il testo della comunicazione elaborata per il Convegno ita‑
lo‑spagnolo sul tema “Crisis económica y responsabilidad en la empresa” tenu‑
to nei giorni 25 e 26 ottobre 2012 in Spagna presso l’Università di Valenza.
2 0 1 3
13
Sommario: 1. I termini della questione. – 2. Il criterio
giurisprudenziale del c.d. deficit fallimentare. – 2.1. I rilievi
critici della dottrina. – 2.2. L’inversione di tendenza della
Corte di Cassazione. – 3. Il criterio dei netti patrimoniali di
periodo. – 4. Verso una ricostruzione sistematica. – 4.1. L’esi‑
genza di distinguere tra le diverse situazioni. – 4.2. Il paradig‑
ma della liquidazione equitativa del danno. – 5. Conclusio‑
ni.
1. I termini della questione
Le riflessioni contenute nel presente lavoro sono rivolte ad
approfondire la questione, da tempo dibattuta nell’ordinamen‑
to italiano, che riguarda la quantificazione dei danni in rela‑
zione all’azione di responsabilità esercitata dal curatore falli‑
mentare (o dagli organi di altre procedure concorsuali) nei
confronti dei soggetti deputati alla gestione (ed al controllo)
di società di capitali fallite (o assoggettate ad altra procedura
concorsuale)1.
Il confronto tra studiosi spagnoli ed italiani in materia di
crisi d’impresa mi sembra senz’altro un’ottima occasione non
solo per dare testimonianza della singolare esperienza italiana,
ma anche per stimolare una riflessione allargata su un aspetto
centrale del rapporto tra la disciplina delle società e quella del
fallimento, specie a seguito degli importanti interventi norma‑
tivi che nel nostro paese, in tempi relativamente recenti, hanno
interessato entrambi i comparti del diritto commerciale, prima
con la riforma organica del diritto societario, realizzata con il
d.lgs., 17 gennaio 2003, n. 6, poi con la riforma della legge
fallimentare ad opera del d.lgs., 9 gennaio 2006, n. 5 (modi‑
ficato ed integrato dal d.lgs., 12 settembre 2007, n. 169).
Com’è noto, la complessa tematica della responsabilità
degli esponenti degli organi sociali presenta maggiori elemen‑
ti di complicazione se considerata nell’ambito delle procedure
concorsuali, allorché le norme in materia societaria, tenden‑
zialmente orientate dall’interesse sociale nelle sue varie decli‑
nazioni 2 , vengono ad interagire con la disciplina fallimentare,
ispirata da un diverso assetto degli interessi in gioco, in base
al quale acquista prioritaria importanza l’esigenza di tutelare
le ragioni dei creditori. Tuttavia, mentre taluni aspetti proble‑
matici, sebbene in passato alquanto controversi3, in conseguen‑
za dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale, possono
dirsi oramai superati o, quanto meno, notevolmente ridimen‑
sionati (ad esempio, per quanto concerne la natura delle diver‑
se azioni contemplate dalla legge ed i loro rapporti reciproci),
ve ne sono altri che, nonostante i significativi risultati conse‑
guiti sul piano teorico‑pratico, conservano tuttora un elevato
livello di criticità.
Orbene, tra le questioni di vertice ancora aperte, si colloca
in primo piano quella della liquidazione dei danni rispetto
1Più precisamente, il problema riguarda soprattutto la s.p.a. e la s.r.l., dal mo‑
mento che per la s.a.p.a., in cui gli accomandatari sono di diritto amministrato‑
ri (art. 2455, comma 2, c.c.). così come per le società di persone, nelle quali i
soci sono naturali amministratori (artt. 2257, comma 1, e 2318, comma 2, c.c.),
il fallimento della società implica automaticamente, ai sensi dell’art. 147 l. fall.,
il “fallimento in estensione” dei soci illimitatamente responsabili.
2Si veda, per tutti, l’ampia trattazione, ancora di grande attualità, di P.G. Jaeger,
L’interesse sociale, Milano, 1964.
3Per approfondimenti, si consultino, fra i tanti, G. Minervini, Gli amministra‑
tori di società per azioni, Milano, 1956; F. Bonelli, La responsabilità degli
amministratori, in G.E. Colombo, G.B. Portale (diretto da), Trattato delle socie‑
tà per azioni, 4, Torino, 1991.
civile
Gazzetta
14
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
alle azioni di responsabilità promosse in sede fallimentare4, la
quale ha visto a lungo contrapposte dottrina e giurispruden‑
za5, che conserva oggi grande interesse ed attualità, tenuto
conto che, proprio con la “nuova” legge fallimentare, le azio‑
ni risarcitorie verso gestori e controllori hanno finito, di fatto,
per sostituire le azioni revocatorie – notevolmente ridimen‑
sionate dalle recenti disposizioni – quali fonti di finanziamen‑
to della procedura fallimentare e di soddisfacimento delle
pretese creditorie.
La rilevanza della questione è tanto più evidente, poi, se si
considera che il “campo elettivo” di esercizio delle azioni di
responsabilità è costituto dalle procedure fallimentari 6 ,
nell’ambito delle quali, tuttavia, tali azioni, specie per come
sono configurate dal “diritto pretorio”, assumono connota‑
zioni piuttosto singolari, divergendo in modo significativo
dalle azioni di responsabilità “civilistiche”, ben più rare, che
vengono esercitate qualora la società sia in bonis7.
A questo proposito, infatti, si riscontra tuttora una certa
tendenza dei giudici (di merito) che, in presenza del fallimen‑
to della società, sia pur mossi da apprezzabili esigenze di
giustizia sostanziale, non esitano a superare alcune tradizio‑
nali regole ermeneutiche, adottando soluzioni che, talvolta,
mal si conciliano con i principi che informano il nostro ordi‑
namento, probabilmente risentendo dell’assenza di un’unitaria
visione d’insieme secondo un coerente quadro sistematico.
In siffatto contesto, pertanto, assume fondamentale impor‑
tanza affermare – o meglio riaffermare – i principi e le regole
generali operanti in materia di responsabilità civile anche con
riguardo alla responsabilità dei soggetti preposti alla gover‑
nace di società (poi) fallite. E ciò vale, a maggior ragione, a
seguito della riforma delle società di capitali realizzata nel
2003, la quale, a differenza del regime previgente, è andata
nella direzione di assicurare una più precisa delimitazione di
competenze e correlative responsabilità delle diverse “figure
di produzione” dell’agire sociale, ponendo, in particolare, al
centro della relativa disciplina il fondamentale principio di
colpevolezza.
2. Il criterio giurisprudenziale del c.d. deficit fallimentare
Innanzi alle notevoli difficoltà, che spesso si incontrano,
soprattutto in caso di fallimento della società, nel determina‑
re con precisione l’ammontare dei danni arrecati da ammini‑
stratori e sindaci (o altri controllori) nei cui confronti il cura‑
tore fallimentare abbia esperito l’azione di responsabilità, in
passato si è andato consolidando un orientamento dei giudici
di merito, tendenzialmente condiviso dalla Corte di Cassazio‑
4Per completezza espositiva, si ricorda che, ai sensi dell’art. 146, comma 2, l.
fall. (come modificato dal d.lgs. n. 5/06), «sono esercitate dal curatore previa
autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori: a) le azio‑
ni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di
controllo, i direttori generali e i liquidatori; b) l’azione di responsabilità contro
i soci della società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall’art. 2476,
comma settimo, del codice civile».
5Una recente sintesi del relativo dibattito è contenuta in A. Jorio, La determi‑
nazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm.,
2011, I, 149 ss.
6Lo ha ricordato, in apertura del presente convegno, N. Abriani, Governo so‑
cietario e prevenzione della crisi, dattiloscritto, 2012, 1.
7Lo evidenzia, tra gli altri, P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori
e dei sindaci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, in Giur.
comm., 1988, I, 548 ss.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
ne, volto a quantificare, con una certa disinvoltura, il danno
derivante dalla mala gestio in misura corrispondente alla
differenza negativa tra l’attivo acquisito ed il passivo accerta‑
to nell’ambito della procedura concorsuale8.
L’applicazione, pressoché automatica e generalizzata, di
una simile tecnica di determinazione del danno risarcibile,
conosciuta anche come criterio del deficit fallimentare, seb‑
bene motivata dall’esigenza indiscutibile di preservare le ra‑
gioni creditorie in presenza di una maggiore opacità delle
vicende sociali e dei fatti di gestione in relazione all’accentuar‑
si della crisi d’impresa, mal si concilia con i principi del nostro
ordinamento in materia di responsabilità. Evidente, infatti, la
forzatura da parte dei giudici nel ricostruire il rapporto di
causalità, in quanto, commisurando la responsabilità alla
differenza negativa tra attivo e passivo fallimentare, si finisce
di fatto per invertire l’onere probatorio, così costringendo gli
amministratori a fornire la prova, spesso notevolmente diffi‑
coltosa, dell’inesistenza del nesso di causalità tra la loro
condotta e l’evento dannoso9.
Ciò nonostante, la distonia rispetto all’esercizio delle azio‑
ni di responsabilità esperibili sia da parte della società in
bonis ai sensi dell’art. 2393 c.c., sia da parte dei creditori
sociali ex art. 2394 c.c., tendeva ad essere giustificata in base
al diverso assetto di interessi determinato dal sopraggiungere
del fallimento della società, secondo un’impostazione di fon‑
do che trova ampio riscontro anche nel sistema positivo vi‑
gente.
Invero, mentre la disciplina delle azioni di responsabilità
contenuta nel codice civile pone in primo piano il pregiudizio
arrecato alla società, rispetto alla quale i creditori sociali
assumono una posizione (tutto sommato) subordinata, una
volta dichiarato il fallimento, l’esigenza di soddisfacimento
dei creditori assume una rilevanza primaria (se non esclusiva),
come conferma del resto l’unificazione delle due azioni, so‑
ciale e dei creditori, in un’unica azione, contemplata dall’art.
146 l. fall., che viene esercitata dal curatore nell’interesse
della massa dei creditori10.
In sostanza, procedendo in questa direzione, la giurispru‑
denza ha finito per costruire un’azione di responsabilità au‑
tonoma per le procedure concorsuali, la quale è concepita, nel
“diritto vivente”, in un’ottica di (accentuata) specialità, sia se
raffrontata con il sistema della responsabilità degli ammini‑
stratori di società in bonis, sia in relazione ai principi genera‑
li su cui si fonda la responsabilità civile11.
8Si vedano, tra le pronunce di merito, App. Bologna, 5 febbraio 1997, in Foro
it., 1997, I, 2284; App. Milano, 11 marzo 1986, in Società, 1986, 1098; Trib.
Catania, 30 agosto 1986, in Giur. comm., 1988, II, 228; Trib. Torino, 14
maggio 1991, in Fallimento, 1991, 867; tra le sentenze della Suprema Corte,
Cass., 4 aprile 1977, n. 1281, in Giur. comm., 1977, II, 449; Cass., 23 giugno
1977, n. 2671, in Dir. fall., 1977, II, 620; Cass., 19 dicembre 1985, n. 6493, in
Giur. comm., 1986, II, 813.
9 Cfr. P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle
procedure concorsuali: una valutazione critica, 550.
10Per una disamina degli aspetti problematici che si ponevano in passato, si veda,
in luogo di molti, A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali,
in G.E. Colombo, G.B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni,
9**, Torino, 1993, 370 ss.; con riguardo alla disciplina riformata, si consulti,
fra gli altri, V. Caridi, Commento ad art. 146, in A. Nigro, M. Sandulli, V.
Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, II, Torino, 2010,
1899 ss., anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
11Il carattere di specialità che assume, nell’esperienza giurisprudenziale, l’azione
di responsabilità ex art. 146 l. fall. è efficacemente rimarcato, ad esempio, da
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
In questo modo è stato a lungo affrontato il problema
della quantificazione dei danni dei quali sono chiamati a ri‑
spondere amministratori e sindaci per la violazione dei dove‑
ri comportamentali posti a loro carico, specie allorché ricorra
una situazione di crisi oppure una causa di scioglimento del‑
la società.
2.1. – I rilievi critici della dottrina.
L’orientamento giurisprudenziale che, costruendo l’azione
ex art. 146 l. fall. come una prerogativa sui generis del cura‑
tore fallimentare, individua l’ammontare dei danni da risar‑
cire nella differenza tra attivo e passivo fallimentare ha incon‑
trato, sin dall’inizio, le aspre critiche della dottrina pressoché
unanime12 , che ha insistentemente evidenziato il vistoso con‑
trasto delle soluzioni adottate dai giudici con i principi gene‑
rali che regolano nel nostro ordinamento la responsabilità
civile, segnatamente per quanto concerne l’onere della prova,
la colpevolezza ed il nesso di causalità tra condotta illecita ed
evento dannoso, con la conseguenza che la curatela attrice si
viene spesso a trovare in una posizione processuale decisa‑
mente più vantaggiosa rispetto a quella degli amministratori
(e dei sindaci) convenuti in giudizio, che non trova alcun fon‑
damento sul piano normativo, attraverso un’inversione
dell’onere della prova, che, il più delle volte, diventa per i
convenuti una vera e propria probatio diabolica. Ed infatti,
amministratori e sindaci vengono gravati, in modo anomalo,
della dimostrazione della mancanza del nesso di causalità tra
la loro condotta ed il pregiudizio lamentato dal curatore fal‑
limentare13.
Come si evince dalle più acute riflessioni sul tema, una
simile soluzione rischia di avere un impatto decisamente di‑
rompente, da un punto di vista sistematico, non solo in quan‑
to configura una sorta di responsabilità oggettiva a carico di
amministratori (e sindaci) di società di capitali, in controten‑
denza rispetto alle linee evolutive del nostro ordinamento, ma
anche perché, nonostante la personalità giuridica dell’ente
societario e la posizione di “mandatari” degli esponenti degli
organi sociali, questi ultimi finiscono, di fatto, per essere
assimilati ai soci illimitatamente responsabili di società per‑
sonali, attraverso una surrettizia traslazione sugli stessi del
rischio d’impresa, o meglio del rischio di insolvenza, che ri‑
G. Guizzi, L’art. 146 l. fall. nel sistema delle azioni di responsabilità nei con‑
fronti degli amministratori di società. Un falso problema?, in Riv. dir. comm.,
1999, 937 s.
12 Fra le voci più autorevoli, A. Bonsignori, Il fallimento delle società, in F.
Galgano (diretto da), Trattato dir. comm. e dir. pubbl. econ., X, Padova,
1986, 262 s.; P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sin‑
daci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, 548 ss.; L. Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra atti di
mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fallimento, 1989, 973
ss.; si vedano, altresì, più di recente, E. Gabrielli, La quantificazione del
danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della so‑
cietà fallita, in Riv. dir. priv., 2004, 7 ss.; S. Ambrosini, in S. Ambrosini, G.
Cavalli, A. Jorio (a cura di), Il fallimento, in G. Cottino (diretto da), Tratta‑
to di diritto commerciale, XI, Padova, 2009, 757 ss.; nonché, M. Spiotta,
Luci e ombre sul fallimento della società e dei soci, in A. Jorio, M. Fabiani
(diretto da), Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze normative a
cinque anni dalla riforma, Bologna, 2010, 858; in termini meno critici, G.
Guizzi, L’art. 146 l. fall. nel sistema delle azioni di responsabilità nei con‑
fronti degli amministratori di società. Un falso problema?, 944; N. Rondinone, La responsabilità per l’incauta gestione dell’impresa in crisi tra vecchio
e nuovo diritto societario, in Fallimento, 2005, 59.
13 Così P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle
procedure concorsuali: una valutazione critica, 550.
2 0 1 3
15
corda la peculiare esperienza francese dell’action en comble‑
ment du passif social (art. 99, loi 13 juillet 1967, n. 563), la
quale, peraltro, in Francia è stata col tempo notevolmente
stemperata14.
Approfondendo, poi, maggiormente il criterio adottato
dalla giurisprudenza, emerge chiaramente che esso mal si
concilia con i più elementari postulati della c.d. business
judgement rule, che sancisce l’insindacabilità delle scelte im‑
prenditoriali degli amministratori15. Difatti, applicare una
tecnica di determinazione automatica e approssimativa del
danno risarcibile, come quella che considera complessivamen‑
te il deficit fallimentare, rischia di chiamare a rispondere i
gestori anche per conseguenze negative derivanti da decisioni
rientranti nella loro sfera di discrezionalità, le quali non pos‑
sono essere reputate fonte di responsabilità, né tanto meno di
danno risarcibile.
In termini più generali, poi, non sembra comunque corret‑
to accomunare indistintamente e ricomprendere in un’unica
voce di danno tutte le conseguenze (negative) dell’intera ge‑
stione sociale, che possono anche scaturire da fattori del
tutto estranei alla condotta commissiva od omissiva di gesto‑
ri e controllori.
Da più parti, perciò, è stata rimarcata con forza l’inatten‑
dibilità del criterio dello sbilancio fallimentare, contestando‑
ne l’imprecisione non solo per eccesso, ma anche per difetto.
In particolare, si è evidenziato che tale metodo di calcolo è
impreciso per eccesso perché non sempre il deficit fallimenta‑
re è attribuibile per intero al comportamento colposo degli
amministratori, potendo, ad esempio, dipendere da eventi di
mercato; inoltre perché l’attivo risente della svalutazione dei
beni soggetti alla liquidazione fallimentare, mentre il passivo
tende ad incrementarsi per effetto delle sanzioni connesse ai
debiti d’imposta e previdenziali che la società in esercizio
potrebbe sovente evitare16; ed ancora in quanto il passivo può
lievitare per il maturare di interessi su crediti esigibili, che non
possono essere soddisfatti se non via via che le attività vengo‑
no liquidate17.
È emersa con altrettanta chiarezza, poi, l’imprecisione per
difetto del criterio dello sbilancio fallimentare se solo si con‑
sidera che, pur ricollegandosi tutte le perdite alla mala gestio
degli amministratori, il differenziale negativo tra attivo e
passivo può risultare inferiore al danno arrecato nella misura
14In particolare, si vedano le modifiche apportate all’art. 99, loi n. 563/67, da
parte dell’art. 180, loi 25 janvier 1985, n. 98, successivamente trasfuso nell’art.
L 651-2 code de commerce.
15 Al riguardo, si vedano, fra gli altri, C. Angelici, Diligentia quam in suis e
business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, 675 ss.; R. Weigmann,
Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974, 186 ss. e
297 ss.; L. Enriques, Il nuovo diritto societario nelle mani dei giudici: una ri‑
cognizione empirica, in Stato e mercato, 2001, 75 ss.; Id., Do Corporate Law
Judges Matter? Some Evidence from Milan, in European Business Organization
L. Rev., 2002, 765 ss.; M. Libertini, Considerazioni introduttive, in U. Breccia,
L. Bruscuglia, D. Busnelli (a cura di), Il diritto privato nel prisma dell’interesse
legittimo, Torino, 2001, 147 ss. e 176 ss.; nonché, più di recente, C. Gamba,
Diritto societario e ruolo del giudice, Padova, 2008.
16 Così L. Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra
atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, 973 ss.; G. Dongiacomo, Le azioni di responsabilità nel fallimento, in P. Celentano, E. Forgillo (a
cura di), Fallimento e concordati, Torino, 2008, 898; Trib. Milano, 22 settem‑
bre 1998, in Dir. fall., 1989, II, 449; Trib. Napoli, 27 novembre 1993, in Fal‑
limento, 1994, 861.
17In questi termini Trib. Catania, 8 maggio 1998, in Dir. fall., 1998, II, 599; Trib.
Milano, 30 ottobre 2003, in Fallimento, 2005, 45.
civile
Gazzetta
16
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
in cui alcuni creditori rinunzino a proporre domanda di am‑
missione al passivo fallimentare18.
A ciò si aggiunga, infine, che il metodo in questione finisce
per addossare agli amministratori responsabili gli esiti della
procedura concorsuale dipendenti dalla capacità (rectius in‑
capacità) gestionale del curatore fallimentare19 o da fatti
successivi alla dichiarazione di fallimento e, comunque, a
loro estranei 20.
Di qui la diffusa diffidenza nei confronti della metodica
del deficit fallimentare, che, secondo le più rigorose ricostru‑
zioni dottrinali, contrasta, almeno se impiegato in modo in‑
differenziato, con i principi che ispirano il sistema di respon‑
sabilità contemplato dagli artt. 1223 ss. c.c., in base al quale
il danno deve essere effettivo, ossia legato da un rapporto di
causalità materiale alla condotta illecita, non potendo ammet‑
tersi nel nostro ordinamento “danni punitivi” o equivalenti
meccanismi sanzionatori 21.
2.2. – L’inversione di tendenza della Corte di Cassazio‑
ne.
Dopo qualche timida deviazione dall’indirizzo dominante
da parte di alcuni giudici di merito22 , la Corte di Cassazione
ha progressivamente superato l’orientamento tradizionale e,
ripudiando il metodo del deficit fallimentare, ha statuito che
il danno cui deve essere condannato l’amministratore respon‑
sabile debba essere quantificato in relazione alle conseguenze
dirette ed immediate delle singole violazioni riscontrate, e cioè
individuato con riferimento al concreto pregiudizio che cia‑
scun atto di amministrazione ha comportato23.
Col tempo, quindi, si assiste ad una decisiva inversione di
rotta della giurisprudenza, che ha raggiunto il suo culmine
con due note sentenze della Corte di Cassazione del 2005, le
quali hanno fermamente riaffermato, anche in sede fallimen‑
tare, i principi civilistici in materia di responsabilità, specie
per quanto concerne colpevolezza e nesso di causalità, ed
18 Cfr. L. Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra
atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, 973 ss.; N. Rondinone, La responsabilità per l’incauta gestione dell’impresa in crisi tra vecchio
e nuovo diritto societario, 56; Trib. Genova, 24 novembre 1997, in Fallimento,
1998, 843.
19In questi termini M. Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, in F. Galgano
(diretto da), Le società, Torino, 2002, 405 s.
20 Ad esempio, il dissesto potrebbe discendere dal fallimento di un importante
cliente, che renda inesigibili i crediti verso il medesimo, come evidenziato da M.
Franzoni, Le responsabilità civili degli amministratori di società di capitali, in
F. Galgano (diretto da), Trattato dir. comm. e dir. pubbl. econ., XIX, Padova,
1994, 18.
21Si vedano, fra gli altri, R. Rordorf, Il risarcimento del danno nell’azione di
responsabilità contro gli amministratori, sindaci, liquidatori e direttori genera‑
li di società fallite, in Società, 1993, 617; S. Di Amato, L’azione di responsa‑
bilità ex art. 146 legge fallimentare alle soglie della riforma del diritto societario,
in Dir. fall., 2003, I, 66 s.; nonché, E. Gabrielli, La quantificazione del danno
nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita,
29, il quale, peraltro, appare favorevole ad un’introduzione normativa dei
“danni punitivi” in materia di gestione societaria.
22 Cfr. Trib. Genova, 6 aprile 1993, in Fallimento, 1993, 1263; Trib. Torino, 24
dicembre 1994, in Dir. fall., 1995, II, 361; Trib. Milano, 18 maggio 1995, in
Società, 1995, 1597; App. Bologna, 5 febbraio 1997, in Foro it., 1997, I,
2284.
23 Fra le altre, Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, in Dir. fall., 1998, II, 878 (con
nota di G. Ragusa Maggiore, Ancora su nuove operazioni e responsabilità
degli organi sociali in sede fallimentare); Cass., 2 novembre 1998, n. 10937;
Cass., 22 ottobre 1998, n. 10488, in Giust. civ., 1999, I, 75 (con nota di V.
Salafia, Considerazioni in tema di responsabilità degli amministratori verso la
società e verso i creditori sociali); Cass., 4 aprile 1998, n. 3483, in Dir. fall., II,
1999, 1032.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
hanno stabilito che il criterio della differenza tra attivo e
passivo fallimentare rimane utilizzabile, quale criterio presun‑
tivo, e salva la prova contraria del minor danno, solo nel caso
in cui il curatore si trovi nell’assoluta impossibilità di proce‑
dere alla ricostruzione delle vicende societarie per la sostan‑
ziale mancanza delle scritture contabili, sempre che sia logi‑
camente plausibile che il comportamento illegittimo degli
amministratori, in relazione alle circostanze del singolo caso,
abbia potuto provocare un danno corrispondente all’intero
sbilancio patrimoniale della società, quale accertato in sede
concorsuale24.
A queste sentenze si è successivamente uniformata, in linea
di massima, la gran parte delle decisioni dei giudici di merito
e della Suprema Corte, sia pur adottando soluzioni non sem‑
pre del tutto omogenee e talvolta sin’anche contraddittorie25.
Si è andato, così, consolidando un nuovo indirizzo giuri‑
sprudenziale volto ad escludere la possibilità di impiegare in
modo diffuso e generalizzato il criterio dello sbilancio falli‑
mentare, che può, invece, trovare applicazione soltanto nelle
ipotesi più gravi, allorché non sia possibile addivenire alla
prova effettiva del danno arrecato dai soggetti preposti alla
gestione ed al controllo di società (poi) fallite. In questa pro‑
spettiva, si tende ad individuare come naturale ambito appli‑
cativo del suddetto criterio i casi in cui manchino le scritture
contabili ed i bilanci, al punto da non consentire una precisa
ricostruzione delle vicende societarie e dei fatti di gestione.
In merito alla prova del danno, quindi, la giurisprudenza
più recente, pur confermando la necessità in via generale di
un rigoroso accertamento secondo i principi civilistici, con‑
sente di far ricorso al criterio che individua il danno nella
differenza tra attivo e passivo risultanti in sede fallimentare
soltanto quando la quantificazione dello stesso sia stata im‑
possibile per causa imputabile agli stessi amministratori, come
appunto avviene, anzitutto, qualora abbiano omesso di tene‑
24 Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, in Foro it., I, 2006, 1898; Cass., 8 febbraio
2005, n. 2538, in Giur. it., 2005, 1637: l’importanza di queste due sentenze –
che vedono entrambe come illustre relatore Renato Rordorf – non è tanto
nell’avere segnato l’inversione di rotta della giurisprudenza, già avvenuta pre‑
cedentemente, quanto piuttosto nell’aver messo ordine, da un punto di vista
concettuale, tra il vecchio orientamento e le nuove posizioni dei giudici, inqua‑
drando il metodo del deficit fallimentare come regola meramente residuale,
operante soltanto in ipotesi ben determinate, nelle quali sia impossibile quan‑
tificare il danno risarcibile.
25Seguendo un criterio un po’ eterodosso, ritengo sia utile considerare le senten‑
ze in materia nella loro successione cronologica, a prescindere da una distinzio‑
ne in base al grado di giudizio, poiché ciò consente di cogliere meglio il percor‑
so evolutivo della giurisprudenza su una tematica che, pur richiedendo l’affer‑
mazione di precisi principi di diritto, si sviluppa in tutta la sua complessità
nell’ambito dei giudizi di merito, specie innanzi ai tribunali: così, ex multis,
Trib. Napoli, 4 aprile 2000, in Società, 2000, 1243; Trib. Catania, 1 settembre
2000, in Fallimento, 2001, 1127; Trib. Milano, 10 maggio 2001, in Giur. it.,
2001, I, 2, 1898; Trib. Como, 16 giugno 2001, ivi, 2002, I, 2, 568; Trib. Na‑
poli, 22 gennaio 2002, in Giur. napoletana, 2002, 191; Trib. Milano, 20 feb‑
braio 2003, in Fallimento, 2003, 268; Trib. Milano, 30 ottobre 2003, ivi, 2005,
45; App. Bologna, 12 gennaio 2004, ibidem, 37; Trib. Torino, 15 aprile 2005,
in Giur. it., 2005, 1859; Trib. Marsala, 2 maggio 2005, in Fallimento, 2006,
461; Trib. Torino, 6 maggio 2005, in Giur. it., 2005, 1858; Trib. Milano, 29
marzo 2006, in Corr. merito, 2007, 1, 42; Trib. Salerno, 25 ottobre 2006,
ibidem, 74; Trib. Milano, 14 novembre 2006, in Società, 2007, 864; Cass., 23
luglio 2007, n. 16211, ivi, 2008, 1364; Trib. Torino, 12 gennaio 2009, in
Fallimento, 2010, 35; Cass., 22 aprile 2009, n. 9616; Trib. Milano, 27 aprile
2009, in Giur. it., 2009, 2466; Cass., 8 luglio 2009, n. 16050, in Società, 2010,
407; Trib. Milano, 14 ottobre 2009; Trib. Milano, 24 novembre 2009, in Giur.
it., 2010, 1329; Trib. Milano, 10 marzo 2010, in Società, 2010, 774; Cass., 11
marzo, 2011, n. 5876; Cass., 4 aprile 2011, n. 7606.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
re un’adeguata contabilità 26.
In questi termini, si può dire che si sia affermato un vero e
proprio principio giurisprudenziale, secondo il quale la liqui‑
dazione del danno, nel giudizio di responsabilità ex art. 146
l. fall., deve avvenire facendo riferimento alle regole sul nesso
di causalità materiale e cioè valutando, in concreto, quanta
parte dell’attivo patrimoniale perduto sia eziologicamente
imputabile alle singole condotte; tuttavia, la stessa giurispru‑
denza ha altresì precisato che là dove non sia materialmente
possibile procedere alla quantificazione analitica del danno,
per l’impossibilità di ricostruire la gestione sociale in modo
da individuare le conseguenze dannose dei singoli atti illeciti,
soccorre il criterio della determinazione del danno con riferi‑
mento alla differenza tra l’attivo ed il passivo fallimentare27.
2 0 1 3
17
3. Il criterio dei netti patrimoniali di periodo
I successivi sviluppi che si registrano in dottrina e giuri‑
sprudenza sono indirizzati ad affinare maggiormente i criteri
da impiegare per una più precisa quantificazione del danno
derivante da mala gestio, allorché, sopraggiunto il fallimento
della società, il curatore eserciti l’azione di responsabilità ex
art. 146 l. fall.
In questa prospettiva, è stato elaborato un nuovo metodo
di determinazione del danno risarcibile, noto come il criterio
dei netti patrimoniali di periodo28, a volte inteso come una
mera specificazione del criterio del deficit fallimentare, altre
volte considerato come una tecnica distinta ed alternativa
rispetto a quest’ultimo.
Un primo dato che è possibile evincere dalla prassi appli‑
cativa è che il criterio dei netti patrimoniali di periodo entra
in gioco ogni qualvolta la condotta illecita degli amministra‑
tori rilevi, piuttosto che nella causazione diretta del fallimen‑
to, nell’aggravamento del dissesto della società 29. Qui, infatti,
gli amministratori sono chiamati a rispondere per avere pro‑
seguito l’ordinario esercizio dell’attività produttiva, piuttosto
che assumere tempestivamente le iniziative previste dalla
legge nel momento in cui si verifichi una causa di scioglimen‑
to prevista dall’art. 2484 c.c., di solito rappresentata dalla
perdita del capitale sociale rilevante ex artt. 2447 e 2482‑ter
c.c., oppure in presenza dello stato di insolvenza della socie‑
tà30.
In questi casi l’aggravamento della situazione di crisi è
evidentemente ascrivibile all’ingiustificata ed illegittima iner‑
zia degli amministratori, i quali non hanno rispettato quanto
prescritto dall’art. 2485 c.c. in merito alla pubblicità della
causa di scioglimento oppure, in caso di insolvenza, non si
sono attivati per tempo al fine di presentare istanza al tribu‑
nale per la dichiarazione di fallimento della società, determi‑
nando così un incremento delle perdite e l’aggravamento del
dissesto31.
Pertanto, in caso di inerzia colpevole dell’amministratore,
il quale non si è limitato ad una gestione meramente conser‑
vativa del patrimonio sociale ai sensi dell’art. 2486 c.c.32 , e
maggiormente, in presenza di una situazione di insolvenza,
non si è attivato per richiedere il fallimento della società, il
danno può essere quantificato nella misura differenziale tra
il saldo del patrimonio netto risultante dal bilancio nel mo‑
mento in cui l’amministratore acquisisce o avrebbe dovuto
acquisire consapevolezza del dissesto e quello all’atto della
dichiarazione di fallimento, rettificando il primo in modo da
fare emergere la perdita allora già maturata e tenendo conto
della diminuzione di valore che il patrimonio, presumibilmen‑
te, avrebbe comunque subito qualora fossero stati assolti
senza indugio gli obblighi di legge33.
Il danno, quindi, viene determinato nella differenza che
risulta dalla comparazione tra la situazione patrimoniale
della società riferita alla data in cui si è verificata la causa di
scioglimento oppure l’insolvenza della società e la situazione
patrimoniale riferita alla data della dichiarazione di fallimen‑
to34.
Più precisamente, con il metodo in questione vengono
presi in considerazione, da un lato, il patrimonio netto calco‑
lato alla data in cui gli amministratori (o i controllori) pren‑
dono, o avrebbero dovuto prendere, conoscenza della causa
di scioglimento e/o dell’insolvenza, dall’altro, il patrimonio
netto relativo al momento in cui gli amministratori (e/o i
controllori) vengono sostituiti o sopraggiunge il fallimento
della società.
È evidente che, nei casi considerati, tale metodica consente
di calcolare in modo più preciso i pregiudizi derivanti dalla
condotta illecita degli amministratori, superando buona par‑
te dei rilievi critici mossi al criterio della differenza tra attivo
e passivo fallimentare. In questo modo, infatti, il danno viene
quantificato in base alla somma algebrica delle conseguenze
economiche di vicende positive e negative che trova riscontro
nei saldi di periodo, i quali indicano l’evoluzione in peius del
patrimonio netto della società nell’arco di tempo considerato,
il cui peggioramento deriva dall’illegittima prosecuzione
26 Cfr. Cass., 8 luglio 2009, n. 16050, cit.; Cass., 22 aprile 2009, n. 9616, cit.;
Trib. Milano, 10 marzo 2010, cit.; Trib. Milano, 24 novembre 2009, cit.; Trib.
Milano, 14 ottobre 2009, cit.; Trib. Milano, 27 aprile 2009, cit.; Trib. Torino,
12 gennaio 2009, cit.
27 Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, cit.; Cass., 23 luglio 2007, n. 16211, cit.; Cass.,
8 luglio 2009, n. 16050, cit.
28Si vedano, ad esempio, Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, in Dir. e prat. socie‑
tà, 2005, 71; Trib. Milano, 3 febbraio 2010; Trib. Torino, 12 gennaio 2009,
in Fallimento, 2010, 35; Trib. Padova, 24 giugno 2009, ibidem, 729; Trib.
Marsala, 2 maggio 2005, in Fallimento, 2006, 461; in dottrina, fra gli altri,
A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsa‑
bilità, 155 ss.; nonché, D. Galletti, Brevi note sull’uso del criterio dei
“netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità, in www.ilcaso.
it, doc. n. 215/2010, 1 ss.
29In questi termini, A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azio‑
ni di responsabilità, 155 ss.
30Si tenga presente che spesso la situazione di insolvenza irreversibile si manifesta
prima della perdita del capitale sociale rilevante ex artt. 2447 e 2482-ter c.c.
31Tale condotta assume rilevanza anche sul piano penale secondo il combinato
disposto degli artt. 217, comma 1, e 224 l. fall.
32Si veda, fra i molti, G. Niccolini, Commento ad art. 2485, in G. Niccolini, A.
Stagno d’Alcontres (a cura di), Società di capitali. Commentario, Napoli, 2004,
1728.
33 Condivide tale approccio ermeneutico A. Jorio, La determinazione del danno
risarcibile nelle azioni di responsabilità, 156, il quale precisa altresì che, in caso
di pluralità di amministratori, occorre distinguere le responsabilità di ciascuno
di essi in relazione alla permanenza in carica e alla posizione ricoperta nella
società da ognuno di loro.
34 Cfr. Trib. Marsala, 2 maggio 2005, cit., secondo cui, in ipotesi di azione di
responsabilità fondata sulla mancata liquidazione e sul compimento di nuove
operazioni, il danno risarcibile è dato dal minor valore del patrimonio sociale
e complessivamente della garanzia patrimoniale dei creditori e può essere
quantificato nella differenza di patrimonio netto della società tra il momento
del verificarsi della causa di scioglimento e quello della data di fallimento;
analogamente, Trib. Milano, 7 febbraio 2003, in Società, 1385; Trib. Catania,
29 settembre 2000, in Foro it., 2001, I, 1729.
civile
Gazzetta
18
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dell’attività d’impresa35.
Ciò nonostante, non si è mancato di evidenziare un’inevi‑
tabile margine di imprecisione che presenta anche questo
modus operandi. Innanzi tutto, come rilevato da autorevole
dottrina, anche atti di per sé non direttamente lesivi possono
avere inciso sull’aggravamento del dissesto, per il solo fatto di
aver ritardato il fallimento36. D’altra parte, al verificarsi di
una causa di scioglimento, non è agevole, e può risultare ol‑
tremodo artificioso, distinguere tra le operazioni che hanno
una finalità conservativa e quelle che, invece, ne sono prive,
dovendosi più correttamente considerare non già il singolo
atto, ma la complessiva attività37, che nel suo insieme deve
essere espressione di una gestione conservativa del patrimonio
sociale in vista della sua liquidazione, secondo quanto dispo‑
sto dall’art. 2486 c.c., il quale – a seguito della riforma socie‑
taria del 2003 – ha sostituito il rigido divieto di nuove opera‑
zioni che era contenuto nel previgente art. 2449 c.c. 38.
Nei casi indicati, pertanto, non viene contestato all’ammi‑
nistratore l’aver posto in essere singoli e determinati atti ge‑
stori pregiudizievoli, ma di avere proseguito l’attività impren‑
ditoriale pur in presenza di una causa di scioglimento della
società, come ad esempio quella relativa alle perdite rilevanti
ex artt. 2447 e 2482‑ter c.c., oppure nonostante la sussisten‑
za di uno stato di insolvenza, così da determinare un incre‑
mento dell’indebitamento e/o un deterioramento della situa‑
zione patrimoniale, aggravando quindi il dissesto della socie‑
tà, anzitutto a discapito dei creditori sociali.
I più attenti osservatori, però, non hanno mancato di evi‑
denziare taluni aspetti problematici derivanti anche dall’im‑
piego della metodica dei netti patrimoniali di periodo39. Si è
rilevato, in particolare, che l’attivo considerato è costituito da
alcuni cespiti destinati, comunque, a subire inevitabili e signi‑
ficative svalutazioni una volta avviata la procedura liquida‑
toria o concorsuale (come avviene, ad esempio, per gli intan‑
gibile assets)40. Ed un discorso speculare vale anche per deter‑
35Spunti in tal senso sono rinvenibili in L. Panzani, Responsabilità degli ammi‑
nistratori: rapporto di causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della
giurisprudenza, 980; C. Proto, Responsabilità e danno nell’azione del curato‑
re contro amministratori e sindaci, in Fallimento, 1998, 678.
36 A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsa‑
bilità, 156 s.
37Sulla nozione giuridica di attività, come serie coordinata di atti legati da una
funzione unitaria, si veda, per tutti, G. Auletta, voce Attività (diritto privato),
in Enc. dir., III, Milano, 1958, 981 ss. La rilevanza che, nel diritto dell’impresa,
riveste il concetto dinamico di attività, in contrapposizione ad una considera‑
zione atomistica del singolo atto, è autorevolmente rimarcata da P. FerroLuzzi, I contratti associativi, Milano, 1971, 188 ss.; C. Angelici, La riforma
delle società di capitali, Padova, 2006, 189 ss.
38Per approfondimenti in merito alla disciplina previgente, si rinvia, ex multis, a
G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni,
in G.E. Colombo, G.B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni,
7***, Torino, 1997, 247 ss.
39 Cfr. Cass., 23 maggio 2008, n. 17033, in Fallimento, 2009, 565, dove si
legge che «nel caso in cui l’azione di responsabilità nei confronti degli am‑
ministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di
intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società
derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti
dall’art. 2447 c.c., non è giustificata, in mancanza di uno specifico accerta‑
mento in proposito, la liquidazione del danno in misura pari alla perdita
incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività, poiché non tutta la
perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere
riferita alla prosecuzione dell’attività medesima, potendo in parte comunque
prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il
solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno
dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa».
40 Così Cass., 23 maggio 2008, n. 17033, cit.; App. Bologna, 21 marzo 2007, in
c i v i l e
Gazzetta
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minate poste del passivo, che ben può incrementarsi a prescin‑
dere dalla condotta dei gestori (si pensi all’incidenza automa‑
tica di interessi ed altri oneri finanziari, come i canoni di le‑
asing), e quindi loro non imputabile.
Nonostante simili rilievi puntuali, sembra, però, inconte‑
stabile che, in caso di aggravamento della crisi per non aver
dato corso alla liquidazione o al fallimento, il deterioramento
della situazione economica e finanziaria della società in dif‑
ficoltà, connessa all’esigenza di reperire fonti esterne di finan‑
ziamento per proseguire l’impresa, di solito più costose rispet‑
to a quelle reperibili in condizioni di fisiologico svolgimento
dell’attività produttiva, determina un incremento degli oneri
finanziari, che a rigore non può che essere imputato agli am‑
ministratori41.
In fin dei conti, il criterio dei netti patrimoniali di periodo
è senz’altro più attendibile di altre metodologie di calcolo, per
lo meno in determinate situazioni, ma presenta inevitabilmen‑
te un certo margine di approssimatività, consistendo pur
sempre in una comparazione virtuale, rispetto alla quale non
è agevole stabilire quali debbano essere le modalità di indivi‑
duazione dei valori iniziali e finali di riferimento, tenuto
conto che i bilanci sono redatti secondo criteri prudenziali,
rispetto alle rappresentazioni in essi contenute vi sono valori
inespressi e i loro contenuti variano a seconda se riferiti ad
un’impresa in funzionamento, in liquidazione o fallita, specie
per quanto concerne l’applicazione/disapplicazione del prin‑
cipio del going concern.
4. Verso una ricostruzione sistematica
Come evidenziato nei precedenti paragrafi, quindi, con
riguardo al quantum debeatur relativo alle azioni ex art. 146
l. fall., si registra una significativa evoluzione giurispruden‑
ziale: all’indirizzo secondo cui il danno può essere commisu‑
rato alla differenza fra l’attivo realizzato e il passivo accerta‑
to nella procedura concorsuale, variamente criticato dalla
dottrina, si contrappone una più rigorosa impostazione, ora‑
mi affermatasi nella giurisprudenza più recente, fondata sulla
necessità di determinare il danno in relazione alle conseguen‑
ze immediate e dirette delle violazioni contestate e dimostra‑
te, fatto salvo il ricorso a criteri presuntivi e/o equitativi lad‑
dove il concreto pregiudizio oggetto di prova sia di difficile
quantificazione.
All’esito del rapido excursus del dibattito relativo alla
problematica in esame, tuttavia, si ha l’impressione che, pur
dovendosi riconoscere il conseguimento di un alto grado di
affinamento delle soluzioni proposte ed adottate, da accoglie‑
re senz’altro con favore, ciò nondimeno manchi ancora una
coerente visione di insieme ed un preciso inquadramento si‑
stematico della questione in esame, sia pur considerata in
tutta la sua complessità teorica ed applicativa, che emerge
inequivocabilmente dalla casistica giurisprudenziale.
www.giuremilia.it.
41Occorre, altresì, considerare che incidono sulla situazione in cui si trova la
società le richieste di rientro delle banche, che diventano quasi inevitabili nel
momento in cui queste ultime siano venute a conoscenza della situazione di
difficoltà o addirittura di insolvenza della società. Certamente meno problema‑
tici sono, invece, i costi fissi relativi alla gestione del personale, ossia oneri re‑
tributivi e previdenziali, che in caso di cessazione dell’attività imprenditoriale
della società non graverebbero sul patrimonio sociale, analogamente a quanto
avviene per taluni oneri fiscali.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
Senza pretendere di dare, in questa sede, una soluzione al
problema di vertice cui si è accennato, che richiederebbe ben
altri approfondimenti, ci si sente tuttavia di affermare con una
certa sicurezza che, fra le diverse metodologie elaborate nel
corso del tempo per quantificare i danni da mala gestio in
sede concorsuale, non vi sia necessariamente antitesi ed in‑
compatibilità, ma anzi – a ben vedere – possano (e debbano)
essere tutte ricondotte ad unità secondo una coerente logica
di sistema.
Innanzi tutto, va premesso che, considerando la posizione
processuale dell’amministratore convenuto in giudizio, il
problema non mi pare vada posto tanto in termini di inver‑
sione dell’onere della prova – specie ora che sembra aver
perso di intensità la questione relativa alla natura delle azioni
di responsabilità42 , potendosi ricondurre anche l’azione dei
creditori sociali ex art. 2394 c.c. nell’ambito della più ampia
responsabilità da inadempimento di preesistenti obblighi di
legge43 – trattandosi piuttosto di un ragionevole aggravamen‑
to dell’onus probandi sulla base del principio di contiguità o
vicinanza alla fonte della prova, ampiamente acquisito a livel‑
lo giurisprudenziale44. Pertanto, sarà l’amministratore conve‑
nuto in giudizio a dover dimostrare l’assenza di un rapporto
di consequenzialità tra la sua condotta illegittima e l’evento
dannoso, per cui, in presenza di una causa di scioglimento o
dell’insolvenza della società, qualora non abbia rispettato
quanto prescritto dall’art. 2485 c.c. oppure non abbia dato
impulso alla dichiarazione di fallimento, dovrà fornire la
prova, certo non facile, che la sua inottemperanza al compor‑
tamento doveroso non ha provocato alcun danno o che non
tutta la perdita patrimoniale conseguente alla prosecuzione
dell’attività è imputabile alla sua responsabilità, posto che è
stata determinata da cause ad egli estranee e che, comunque,
si sarebbe verificata qualora avesse adottato le iniziative ne‑
cessitate.
Analogo discorso può farsi con riguardo all’impiego del
criterio dello sbilancio fallimentare nel caso in cui le scritture
contabili non siano state tenute o la loro irregolarità sia tale
da non consentire la ricostruzione dei fatti di gestione45. Inve‑
42Si tenga, peraltro, presente che la significativa diffusione dei concordati preven‑
tivi, a seguito dei più recenti interventi normativi, è destinata a porre maggior‑
mente al centro dell’attenzione l’azione sociale di responsabilità, dal momento
che gli organi della liquidazione concordataria sono legittimati ad esperire
soltanto l’azione di responsabilità nell’interesse della società, in mancanza di
una norma che concentri nelle loro mani anche l’azione dei creditori sociali.
43 Così, fra gli altri, G. Guizzi, L’art. 146 l. fall. nel sistema delle azioni di respon‑
sabilità nei confronti degli amministratori di società. Un falso problema?, 942
s.; P.P. Ferraro, Sulla responsabilità degli amministratori di società a respon‑
sabilità limitata nei confronti dei creditori sociali, in Dir. fall., II, 2011, 122 s.
44 Fondamentale, a riguardo, quanto statuito da Cass., Sez. Un., 30 ottobre
2001, n. 13533, in Giust. civ., 2002, I, 1934. A questa sentenza si è unifor‑
mata la giurisprudenza unanime della Suprema Corte: si vedano, in partico‑
lare, Cass., 28 gennaio 2002, n. 982, in Giust. civ., 2002, I, 978; Cass., 21
febbraio 2003, n. 2647; Cass., 1 aprile 2004, n. 6395, in Giust. civ., I, 448;
Cass., 13 giugno 2006, n. 13674; Cass., 26 gennaio 2007, n. 1743, in Giust.
civ., 2007, I, 2121; Cass., 11 novembre 2008, n. 26953; Cass., 3 luglio 2009,
n. 15677; Cass., 20 gennaio 2010, n. 936, in Riv. dir. proc., 2011, I, 186;
Cass., 15 luglio 2011, n. 15659.
45 Beninteso la violazione sia dell’obbligo di tenere regolarmente le scritture con‑
tabili, sia dell’obbligo di depositare tale documentazione presso la cancelleria
del tribunale rileva in primo luogo sotto il profilo penale, configurando i reati
fallimentari di cui agli artt. 216, comma 1, 2), 217, comma 2, e 220 l. fall.
Occorre, tuttavia, precisare che, secondo la più attenta giurisprudenza, la
mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili è un comportamento
contrario ai doveri degli amministratori di società, ma di per sé non è fonte di
danno, a meno che ciò non abbia prodotto una diminuzione patrimoniale, in
2 0 1 3
19
ro, proprio considerando il suddetto principio di prossimità
della prova, gli amministratori, ma anche i sindaci (e gli altri
controllori), per non rispondere dei danni nella misura pari al
deficit fallimentare, devono fornire una convincete prova li‑
beratoria, in quanto loro soltanto, oltre ad avere piena cono‑
scenza (o conoscibilità) delle vicende sociali, dispongono dei
relativi strumenti di rappresentazione prescritti dalla legge.
Alcuni problemi specifici si pongono, poi, sul piano istrut‑
torio. In particolare, lì dove sia utilizzabile il criterio del de‑
ficit fallimentare, occorre valutare quale rilevanza possa
avere in concreto il ricorso, da parte del giudice, ad una con‑
sulenza tecnica d’ufficio, la quale – a ben riflettere – potrebbe
rivelarsi inutile in assenza di scritture contabili regolari ed
aggiornate sulla base delle quali elaborare la stima; d’altra
parte, nell’ipotesi considerata la quantificazione dei danni si
risolve in una semplice sottrazione matematica tra due valori
(attivo e passivo) acquisiti o comunque agevolmente identifi‑
cabili e verificabili senza alcun bisogno di un ausilio tecnico
specialistico. Né, a tal proposito, può destare qualche perples‑
sità l’impiego, come mezzo di prova, dello stato passivo,
sebbene lo stesso costituisca il risultato di un accertamento
con rilevanza meramente endofallimentare46.
4.1. – L’esigenza di distinguere tra le diverse situazioni.
Dall’esame della vasta casistica giurisprudenziale emerge
con una certa evidenza che, nell’individuazione del criterio di
determinazione dei danni da mala gestio, è da escludere un
discorso generalizzato, dovendosi piuttosto distinguere tra le
diverse situazioni in cui, in concreto, vengono a trovarsi gli
amministratori, tenuto conto di una serie di variabili, tra cui
il differente contesto societario nel quale operano.
In questa prospettiva, occorre anzitutto distinguere a se‑
conda se la condotta illegittima dell’amministratore sia stata
la causa del dissesto della società oppure abbia determinato
l’aggravamento di una preesistente situazione di crisi, più o
meno significativa47.
In presenza di uno stato di crisi della società che sia già
consolidato, qualora si configuri una causa di scioglimento
ex art. 2484 c.c., gli amministratori, una volta che ne siano
venuti (o avrebbero dovuto venirne) a conoscenza, devono
attivarsi tempestivamente, secondo quanto disposto dall’art.
via diretta o indiretta, ad esempio nell’ipotesi in cui abbia consentito di prose‑
guire l’attività in una situazione che avrebbe imposto l’adozione delle misure
previste dall’art. 2447 c.c. o dall’art. 2482-ter c.c.: cfr. Cass., 20 giugno 2000,
n. 8368, in Fallimento, 2001, 745; Cass., 8 marzo 2000, n. 2624, in Foro it.,
2001, I, 627; Trib. Milano, 7 giugno 2001, in Giur. milanese, 2001, 63; Trib.
Ivrea, 29 gennaio 2004, in Società, 2004, 1564.
46Sul punto si vedano Cass., 28 marzo 1990, n. 2545, in Dir. fall., 1990, II, 966;
Cass., 23 giugno 1977, n. 2671, secondo le quali «il principio, in base al quale
il decreto di approvazione dello stato passivo non ha efficacia di giudicato
fuori del procedimento fallimentare, non osta a che il giudice del merito, in un
diverso processo (nella specie, instaurato dal curatore del fallimento di una
società con azione di responsabilità contro gli amministratori ed i sindaci),
possa utilizzare le risultanze di quello stato passivo come dati obiettivi su cui
fondare il proprio convincimento (nella specie, al fine di stimare il danno pro‑
dotto dagli illeciti commessi da detti organi sociali)».
47La giurisprudenza, invece, non sempre distingue: cfr., ad esempio, App. Bologna,
12 gennaio 2004, e Trib. Milano, 30 ottobre 2003, entrambe in Fallimento,
2005, 37 e 45, che richiamano il criterio del deficit fallimentare quando agli
amministratori sia imputabile il dissesto della società o il suo aggravamento. Si
vedano, altresì, App. Milano, 14 ottobre 1994, in Società, 1995, 390: App.
Milano, 27 aprile 1982, ivi, 1983, 27; Trib. Genova, 20 gennaio 1992, ivi, 1992,
538; Trib. Torino, 14 maggio 1991, ivi, 1991, 867; Trib. Milano, 13 ottobre
1983, ivi, 1984, 545.
civile
Gazzetta
20
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
2485 c.c., per avviare il procedimento di liquidazione volto
ad estinguere la società dopo aver definito i rapporti giuridici
pendenti48. A questo proposito, l’ipotesi più rilevante ai fini
del nostro discorso, anche per la sua maggiore ricorrenza, è
senza dubbio quella contemplata dagli artt. 2447 e 2482‑ter
c.c., in relazione al verificarsi di perdite superiori ad un terzo
del capitale sociale, che lo abbiano portato al di sotto del
minimo legale o addirittura azzerato 49.
È evidente che, nei casi considerati, l’inerzia degli ammini‑
stratori nell’avviare la liquidazione della società e, maggior‑
mente, in caso di insolvenza, nel “portare i libri in tribunale”
per chiederne il fallimento, può rilevare sotto il profilo della
responsabilità.
Tuttavia, occorre tenere presente che, nel sistema societario
riformato nel 2003, venuto meno il rigido divieto di nuove
operazione previsto dalla disciplina previgente, gli ammini‑
stratori devono limitarsi ad una “gestione conservativa” del
patrimonio sociale, come stabilito dall’art. 2486 c.c., che non
è escluso possa includere anche la prosecuzione temporanea
dell’attività di impresa in funzione di una migliore liquidazio‑
ne50, cosicché eventuali profili di responsabilità devono essere
verificati e valutati caso per caso.
Ed allora, in caso di omessa liquidazione, pur in presenza
di una causa di scioglimento, oppure in caso di mancato
“autofallimento”, nonostante lo stato di insolvenza, sul piano
della responsabilità gestionale, il criterio che appare più ap‑
propriato per la determinazione del danno risarcibile è senza
dubbio quello dei netti patrimoniali di periodo e non, invece,
quello che individua il danno nella differenza negativa tra
attivo e passivo fallimentare51.
Invero, ciò che, in queste ipotesi, viene contestato agli
amministratori è il non avere tempestivamente arrestato l’at‑
tività produttiva, una volta venute meno le condizioni che ne
consentano la prosecuzione in termini di continuità azienda‑
le (going concern), facendo valere lo scioglimento della socie‑
tà o il suo fallimento, allorché ne ricorrano i presupposti.
Pertanto, al verificarsi di una causa di scioglimento, tenu‑
to conto che non necessariamente i danni e, in particolare, le
perdite che hanno inciso sul capitale sociale sono ricollegabi‑
li con certezza e per intero ad una condotta illegittima degli
amministratori, in base al principio di causalità materiale,
occorre considerare solo gli effetti degli atti vietati compiuti
48Si veda, per tutti, G. Niccolini, Commento ad art. 2485, 1730 ss.; nonché, F.
Brizzi, Responsabilità gestorie in prossimità dello stato di insolvenza e tutela
dei creditori, in Riv. dir. comm., 2008, I, 1027 ss.
49 Cfr., fra gli altri, R. Rordorf, La responsabilità degli amministratori di s.p.a.
per operazioni successive alla perdita del capitale sociale, in Società, 2009,
277 ss.; nonché, G.M. Zamperetti, La prova del danno da gestione non
conservativa nella società disciolta per perdita del capitale, in Fallimento,
2009, 569 ss.; in giurisprudenza, Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, in Dir. e
prat. società, 2005, 71.
50Si vedano, tra gli altri, G. Ferri jr, La gestione di società in liquidazione, in Riv.
dir. comm., 2003, 423 ss.; A. Paciello, Scioglimento e liquidazione, in AA.VV.,
Diritto delle società, Milano, 2012, 470 s.
51Ovviamente vi sono casi in cui la determinazione dei danni da risarcire è deci‑
samente più semplice: si veda, ad esempio, la soluzione adottata da Trib. Na‑
poli, 24 gennaio 2007, in Fallimento, 2007, 946, secondo cui l’amministratore
della società fallita che abbia distrutto, distratto, sottratto, dissipato, abbando‑
nato od occultato una cospicua parte dei beni materiali della società è tenuto
al risarcimento, in favore del fallimento, nella misura pari alla differenza tra il
valore delle immobilizzazioni materiali da lui iscritte in bilancio e quello delle
immobilizzazioni materiali inventariate dal curatore; in termini analoghi Trib.
Milano, 18 maggio 1995, in Società, 1995, 1597.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
dopo il verificarsi della causa di scioglimento: ad esempio, il
compimento di operazioni non rientranti in una “gestione
conservativa” dopo che, in conseguenza di perdite, il capitale
sociale sia andato al di sotto del minimo legale, senza che si
sia provveduto alla ricapitalizzazione o alla trasformazione
della società ai sensi degli artt. 2447 o 2482‑ter c.c. 52. A tal
fine, peraltro, occorre sottrarre dalle passività derivanti dalle
operazioni illegittime le attività da queste prodotte53. In alter‑
nativa, volendo considerare la complessiva attività, si può
pensare di detrarre dal passivo fallimentare sia le passività
riconducibili alla gestione anteriore alla causa di scioglimen‑
to, sia le attività conseguite successivamente alla stessa54.
Ovviamente, sul piano processuale, il curatore deve pro‑
vare il compimento di nuovi atti di impresa non rientranti in
operazioni in corso, né dettati da finalità conservative, dopo
il verificarsi di una causa di scioglimento55.
Resta il fatto, però, che, nell’ambito di una complessa at‑
tività d’impresa, non è certo agevole distinguere fra gli effetti
di ciascun atto di gestione, per cui non può farsi a meno di
ricorrere a criteri presuntivi, onerando l’amministratore con‑
venuto di fornire la prova contraria.
Quando, invece, mancano o sono gravemente irregolari le
scritture contabili ed i bilanci, al punto da non consentire agli
organi della procedura concorsuale una ricostruzione atten‑
dibile dei fatti di gestione, si deve ritenere applicabile il crite‑
rio semplificativo del deficit fallimentare, che può essere
ammesso soltanto nelle ipotesi più gravi, nelle quali non sia
possibile determinare altrimenti i pregiudizi arrecati alla so‑
cietà56.
Occorre, tuttavia, chiarire quale sia il livello di irregolari‑
tà tale da giustificare il ricorso al criterio dello sbilancio fal‑
limentare. Al riguardo, ritengo che, non potendosi dare una
risposta in termini generali ed assoluti, si debba verificare
caso per caso se la corretta rappresentazione dei fatti di ge‑
stione sia, nella sostanza, gravemente compromessa, così da
rendere impossibile la ricostruzione delle vicende societarie.
Più problematico è, poi, stabilire se vi siano altre ipotesi
nelle quali possa essere ravvisato nel deficit fallimentare il
danno risarcibile per mala gestio.
L’attenzione si sofferma su quelle condotte illegittime degli
amministratori che abbiano inciso in maniera significativa
sulla causazione del dissesto e del conseguente fallimento
della società. Si pensi, ad esempio, ad iniziative imprendito‑
riali estremamente rischiose o avventate, che abbiano com‑
portato notevoli perdite o un eccessivo indebitamento della
società, oppure, qualora la società appartenga ad un gruppo
di imprese, ad atti di esecuzione delle direttive della holding
in contrasto con l’interesse della società controllata, che l’ab‑
52 Aperture in tal senso sono rinvenibili in Trib. Genova, 2 marzo 1992, in Falli‑
mento, 1992, 1047.
53 Cfr. Trib. Milano, 20 febbraio 2003, in Fallimento, 2003, 268.
54 Cfr. Cass., 5 gennaio 1972, n. 21, in Giust. civ., 1972, I, 246.
55 Così N. Rondinone, La responsabilità per l’incauta gestione dell’impresa in
crisi tra vecchio e nuovo diritto societario, 60.
56 Cfr. Cass., 8 luglio 2009, n. 16050, cit. Più rigoroso, ma non senza una certa
ambiguità, Trib. Milano, 14 novembre 2006, cit., secondo cui l’assenza o
l’inaffidabilità delle scritture contabili o altri inadempimenti di carattere «for‑
male» non implicano tout court l’esistenza di un danno risarcibile, reputando
necessario che il curatore accerti il nesso di causalità tra i dedotti atti omissivi
o commissivi e il danno patrimoniale lamentato; analogamente, Trib. Milano,
10 maggio 2001, cit.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
biano portata al dissesto.
A questo proposito, non sono mancate talune sentenze, le
quali, individuando la condotta illecita degli amministratori
come causa determinante del dissesto, hanno quantificato il
danno risarcibile proprio facendo riferimento all’ammontare
del passivo fallimentare, dedotto l’attivo esistente e recupera‑
to nell’ambito della procedura concorsuale57.
Scongiurando eccessive semplificazioni, non solo con ri‑
guardo al nesso causale, ma anche per ciò che concerne l’in‑
dividuazione della condotta illegittima e del danno conse‑
guente58, sarei propenso, in linea di massima, ad applicare il
criterio del deficit fallimentare come misura del risarcimento
quando risulta in modo inequivoco che il dissesto ed il conse‑
guente fallimento della società siano stati determinati dalla
condotta illegittima e abusiva degli amministratori convenu‑
ti in giudizio. Invero, se il fallimento è diretta conseguenza di
operazioni illegittime compiute dagli amministratori che ab‑
biano arrecato pregiudizio alla società ed ai creditori sociali,
lo svilimento del patrimonio residuo provocato dalla vicenda
fallimentare rappresenta una conseguenza collegata all’ope‑
rato degli amministratori ed alla loro responsabilità, in coe‑
renza con l’interpretazione elastica della giurisprudenza in
merito ai danni mediati e indiretti59.
Per procedere in questa direzione, però, occorre valutare
attentamente ciascun caso concreto, tenuto conto delle carat‑
teristiche strutturali della società e dell’assetto dei poteri
esistente al suo interno. Allorché, ad esempio, venga utilizza‑
to un tipo societario come la s.r.l., rispetto al quale manca
una netta linea di separazione tra proprietà e gestione (diver‑
samente da quanto previsto per la s.p.a.), il socio (o la coali‑
zione) di maggioranza o comunque di controllo può gestire
direttamente la società e dispone di un potere di direzione
dell’impresa sociale che gli consente di incidere in maniera
penetrante sull’operato degli amministratori in carica, con
tutto ciò che ne consegue sul piano della responsabilità60.
57Si pronunciano in senso conforme, in dottrina, A. Jorio, La determinazione
del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, 153 ss.; in giurisprudenza,
Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, in Fallimento, 1998, 666, secondo cui
«anche una rigorosa applicazione delle regole sul nesso di causalità materiale
ben giustifica la quantificazione del danno (…) nella differenza tra attivo e
passivo (…) se, per fatto imputabile agli organi sociali, si sia venuto a determi‑
nare il dissesto della società e la conseguente sua sottoposizione a procedura
concorsuale. Se, infatti, tra i comportamenti di amministratori e sindaci ed il
dissesto vi è nesso eziologico, anche la liquidazione fallimentare ne è conseguen‑
za immediata e diretta»; nei medesimi termini, più di recente, Trib. Milano, 10
marzo 2010, in Società, 2010, 774, ove si legge che «in linea di principio, il
danno risarcibile dagli amministratori convenuti in giudizio e da coloro che
hanno concorso nell’illecito è quello causalmente riconducibile, in via imme‑
diata e diretta, alla condotta dolosa ovvero colposa dell’agente. Tuttavia, anche
una rigorosa applicazione delle regole sul nesso di causalità materiale può
giustificare – in mancanza di prova del maggior pregiudizio – la quantificazio‑
ne del danno nella differenza tra attivo e passivo fallimentare se per fatto im‑
putabile agli organi sociali si sia venuto a determinare il dissesto della società».
Spunti in tal senso sono rinvenibili anche in Cass., 6 dicembre 2000, n. 15487;
Cass., 17 settembre 1997, n. 9252; Cass., 8 febbraio 2000, n. 1375; Trib. Ca‑
tania, 8 maggio 1998, in Giur. merito, 1999, I, 607; Trib. Messina, 12 novem‑
bre 1999, in Fallimento, 2000, 1279.
58Trib. Milano, 10 marzo 2010, cit., evidenzia che la quantificazione del danno
impone la rilevazione dell’efficacia causale dell’atto posto in essere rispetto al
pregiudizio; solo nel caso di impossibilità o estrema difficoltà di fornire ade‑
guata prova del pregiudizio patrimoniale prodottosi, la liquidazione del danno
può essere rapportata alla differenza fra attivo e passivo fallimentare.
59Si vedano, per tutte, Cass., 28 gennaio 2000, n. 971, in Dir. prat. soc., 2000,
7; Cass., 6 marzo 1997, n. 2009.
60Sul punto, sia consentito rinviare a P.P. Ferraro, Le situazioni soggettive del
socio di società a responsabilità limitata, Milano, 2012, 199 ss.
2 0 1 3
21
In questi casi ben può riscontrarsi la sussistenza di un
nesso di causalità materiale fra la condotta illecita o abusiva
perpetrata da chi detiene le “redini” dell’impresa sociale e i
danni arrecati alla società, al punto da non escludere una
loro identificazione con il fallimento della società, che può
essere considerato come un danno in re ipsa, senza che sia
invocabile, quale facile esimente, la business judgement ru‑
le.
Una simile modalità di misurazione del risarcimento – che
(detto per inciso) si giustifica soltanto in una logica equitati‑
va61 – non può non coinvolgere chi è al vertice della società ed
esercita un potere di direzione strategica dell’impresa sociale,
che – a seconda del tipo di società e della sua conformazione
statutaria – non è necessariamente colui che è formalmente
investito della funzione amministrativa, ma può essere anche
il socio (o i soci) di comando, come spesso accade nella
s.r.l.62.
In questa prospettiva, possono venire in rilievo, sul piano
risarcitorio, anche operazioni decise dai soci63, che coinvolgo‑
no solo marginalmente gli amministratori, come, ad esempio,
il trasferimento della sede sociale all’estero con finalità so‑
stanzialmente estintiva della società, senza passare per il
procedimento di liquidazione, così danneggiando i creditori
sociali.
Nei termini specificati, quindi, il criterio del deficit falli‑
mentare può trovare applicazione ogniqualvolta il dissesto
della società sia direttamente imputabile ad una illegittima
condotta degli amministratori64, ovvero quando l’addebito sia
costituito dall’assenza delle scritture contabili o dalla loro
inidoneità a permettere la ricostruzione delle vicende patri‑
moniali ed economiche della società fallita65.
4.2. – Il paradigma della liquidazione equitativa del dan‑
no.
Procedendo nella direzione indicata, fatta un’analitica scom‑
61Vedi infra § 4.3.
62Si tenga presente che, con specifico riguardo alla s.r.l., l’art. 2476, comma 7,
c.c. prevede la responsabilità, in solido con gli amministratori, del socio che
abbia intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi
per la società, i soci o i terzi. Questa particolare forma di corresponsabilità
gestionale – che il curatore fallimentare può attivare ai sensi dell’art. 146,
comma 2, lett. b), l. fall. – si distingue dalla responsabilità del socio che
abbia esercitato le mansioni gestorie senza essere formalmente investito dei
relativi poteri (c.d. “amministratore di fatto”), al quale si applica la stessa
disciplina degli amministratori in carica. Per approfondimenti, si vedano, ex
multis, G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, in Commenta‑
rio Schlesinger, Milano, 2010, II, 1122 ss.; V. Meli, La responsabilità dei
soci nella s.r.l., in P. Abbadessa, G.B. Portale (a cura di), Il nuovo diritto
delle società. Liber Amicorum Gianfranco Campobasso, 3, Torino, 2007,
517 ss.; da ultimo, U. Tombari, La responsabilità dei soci, in A.A. Dolmet‑
ta, G. Presti (a cura di), S.r.l./Commentario dedicato a G.B. Portale, Milano,
2011, 717 ss.; tra le prime pronunzie giurisprudenziali, Trib. Salerno, 9
marzo 2010, in Società, 2010, 1455, con nota di V. Meli; più recentemente,
App. Milano, 18 gennaio 2012, ivi, 2012, 462.
63 A riguardo, interessanti riflessioni sono rinvenibili in F. Guerrera, La respon‑
sabilità “deliberativa” nelle società di capitali, Torino, 2004, passim.
64 Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, cit.; Trib. Torino, 6 maggio 2005, cit.; App.
Bologna, 12 gennaio 2004, cit.; Trib. Milano, 30 ottobre 2003, cit.
65 Cass., luglio 2009, 16050, cit.; Cass., 23 luglio 2007, n. 16211, cit.; Cass.,
8 febbraio 2005, n. 2538, cit.; Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, cit.; Cass.,
4 aprile 1998, n. 3483, cit.; App. Bologna, 12 gennaio 2004, cit.; App. Bo‑
logna, 5 febbraio 1997, cit.; Trib. Milano, 27 aprile 2009, cit.; Trib. Milano,
14 novembre 2006, cit.; Trib. Milano, 29 marzo 2006, cit.; Trib. Marsala,
2 maggio 2005, cit.; Trib. Milano, 30 ottobre 2003, cit.; Trib. Catania, 1
settembre 2000, cit.
civile
Gazzetta
22
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
posizione delle diverse situazioni che, in sede fallimentare,
possono venire in considerazione sul piano della responsabilità
gestionale, occorre tentare di ricondurre ad unità di sistema i
differenti metodi applicati dai giudici al fine della liquidazione
dei danni risarcibili.
Volendo, allora, proporre un unitario inquadramento delle
soluzioni giurisprudenziali, talvolta contrastanti, mi sembra si
possa senza dubbio affermare che i diversi criteri di quantifica‑
zione dei danni, a cominciare da quello più sbrigativo dello
sbilancio fallimentare, nelle sue varie applicazioni, fino ad ar‑
rivare al più mirato criterio dei netti patrimoniali di periodo,
vadano tutti ricondotti nell’ambito della tecnica di determina‑
zione equitativa del danno66, che pure è richiamata in talune
sentenze che si sono occupate della questione in esame67.
Pertanto, inquadrando, o meglio ricollocando, in una logica
sistematica l’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., acquista
importanza centrale la disposizione contenuta nell’art. 1226 c.c.,
che – sotto il profilo del quantum debeatur – stabilisce che, «se
il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è
liquidato dal giudice con valutazione equitativa».
In tal senso, tenuto conto che – in conformità alle regole
generali operanti in materia di onus probandi – colui che pro‑
muove un’azione risarcitoria deve provare non solo la sussisten‑
za del danno, ma anche il suo esatto ammontare, eventualmen‑
te avvalendosi di presunzioni (artt. 2727 e 2729 c.c.), la liqui‑
dazione equitativa sopperisce soltanto al difetto di prova che
riguarda la misura precisa del pregiudizio, ma presuppone co‑
munque la dimostrazione, da parte del danneggiato, dell’even‑
to lesivo68.
Ciò vale, evidentemente, anche per il giudizio avente ad
oggetto l’azione di responsabilità nei confronti dei gestori (e dei
controllori) della società fallita69, nel quale è possibile il ricorso
al criterio equitativo per la liquidazione del danno, ma questo
presuppone che il pregiudizio economico del quale il curatore
fallimentare reclama il risarcimento sia certo nella sua esisten‑
za ed è consentito al giudice soltanto in presenza di impossibi‑
66Su posizioni analoghe E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione
di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, 26 ss. In
senso contrario, invece, è orientato N. Rondinone, La responsabilità per
l’incauta gestione dell’impresa in crisi tra vecchio e nuovo diritto societario, 57,
il quale considera la quantificazione del danno secondo equità alternativa al
criterio del deficit fallimentare.
67Si vedano, tra le decisioni della Corte di Cassazione, Cass., 4 luglio 2012, n.
11155; Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, cit.; Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538,
cit.; tra le sentenze di merito, App. Roma, 14 marzo 2000, in Gius., 2000, 1879;
Trib. Bologna, 22 maggio 2007, in Guida al diritto, 2007, 82; Trib. Milano, 29
marzo 2006, cit.; Trib. Milano, 30 ottobre 2003, cit.; Trib. Catania, 29 settem‑
bre 2000, cit.; Trib. Genova, 24 novembre 1997, cit.; Trib. Roma, 10 febbraio
1987, in Dir. fall., 1988, II, 338.
68In questi termini, il danneggiato non è esonerato dall’onere di fornire gli ele‑
menti probatori e di comunicare i dati di fatto in suo possesso, al fine della
determinazione, il più possibile precisa, del danno: così Cass., 26 febbraio 2003,
n. 2874, in Giur. it., 2003, 2020; Cass., 7 marzo 2002, n. 3327, ivi, 2002, 2262;
analogamente, Cass., 17 marzo 2006, n. 6067, secondo cui, la valutazione
equitativa del danno è consentita soltanto qualora, sulla base del materiale
probatorio acquisito al processo, sia possibile una quantificazione che non si
discosti in misura notevole dalla sua reale entità, fermo l’obbligo del giudice di
indicare, almeno sommariamente, i criteri seguiti nella propria determinazione.
Più di recente, affermano la necessità della certezza dell’esistenza ontologica del
danno, Cass., 30 aprile 2010, n. 10607; Cass., 15 febbraio 2008, n. 3794; Cass.,
2 settembre 2008, n. 22061; in dottrina, fra gli altri, G. Visintini, Risarcimen‑
to del danno, in P. Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, 2ed, IX,
Torino, 1999, 278.
69 Così G. Guizzi, L’art. 146 l. fall. nel sistema delle azioni di responsabilità nei
confronti degli amministratori di società. Un falso problema?, 944.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
lità ovvero oggettiva difficoltà per la curatela interessata di
provare il suo esatto ammontare70.
D’altra parte, è acquisito a livello giurisprudenziale che
l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via
equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. (così come in base all’art.
2056 c.c.), espressione del più ampio potere di cui all’art. 115
c.p.c. (relativo alla disponibilità delle prove), dà luogo non già
ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto, caratte‑
rizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva o integrativa71.
Si spiega, così, perché l’attore può richiedere in via giudizia‑
le la liquidazione equitativa del danno, ma l’esercizio di tale
facoltà è concesso al giudice dall’art. 1226 c.c. anche a prescin‑
dere da un’iniziativa di parte, allorché la prova dell’ammontare
del danno risulti impossibile o difficoltosa, secondo quanto
prospettato dall’attore72.
Al tempo stesso occorre evidenziare che la determinazione
del danno in via equitativa deve mantenersi entro il sistema
codicistico di risarcimento espresso dagli artt. 1218 e 1223 c.c.,
onde non è ammissibile il ricorso a criteri del tutto personali o
arbitrari di misurazione del pregiudizio, ma è possibile utiliz‑
zare soltanto metodiche oggettive e, soprattutto, verificabili nel
70In tal senso, si veda, fra le decisioni più recenti, Cass., 19 dicembre 2011, n.
27447, secondo cui «l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in
via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che
sia provata l’esistenza dei danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossi‑
bile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo
preciso ammontare»; analogamente, Cass., 30 aprile 2010, n. 10607.
71 Così è orientata la giurisprudenza della Suprema Corte: cfr., Cass., 18 no‑
vembre 2002, n. 16202, in Giur. it., 2003, 1342, dove si legge che «l’eserci‑
zio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito
al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di
cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un
giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva od
integrativa, che, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che ri‑
sulti obbiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte
interessata provare il danno nel suo preciso ammontare, come desumibile
dalle citate norme sostanziali, dall’altro non ricomprende anche l’accerta‑
mento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già
assolto l’onere della parte di dimostrare sia la sussistenza sia l’entità mate‑
riale del danno, né esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori
e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprez‑
zamento equitativo sia per quanto possibile ricondotto alla sua funzione di
colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equi‑
valente pecuniario del danno stesso. La necessità della prova di un concreto
pregiudizio economico sussiste anche nelle ipotesi di danno in re ipsa, in cui
la presunzione si riferisce solo all’an debeatur, e non anche alla entità del
danno ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione dello
stesso per equivalente pecuniario»; nei medesimi termini, Cass., 18 giugno
2002, n. 8827, in Giust. civ., 2003, I, 1306, ove si aggiunge che «nell’ope‑
rare la valutazione equitativa il giudice non è tenuto a fornire una dimostra‑
zione minuziosa e particolareggiata della corrispondenza tra ciascuno degli
elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente
che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processua‑
le globalmente considerata»; in linea con dette sentenze anche Cass., 18
agosto 2005, n. 16992, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 632; Cass., 7 giugno
2007, n. 13288.
72Si veda, Cass., 12 ottobre 2011, n. 20990, secondo cui «il potere di liquidare
il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., co‑
stituisce espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.c. ed il suo
esercizio rientra nella discrezionalità del giudice di merito, senza necessità della
richiesta di parte, dando luogo ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d.
equità giudiziale correttiva od integrativa, con l’unico limite di non potere
surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debito‑
re o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza, do‑
vendosi, peraltro, intendere l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del
danno in senso relativo e ritenendosi sufficiente anche una difficoltà solo di un
certo rilievo. In tali casi, non è, invero, consentita al giudice del merito una
decisione di non liquet, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto,
invece, già definitivamente accertato in termini di esistenza di una condotta
generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità della relativa richiesta
risarcitoria»; così anche Cass., 11 gennaio 2002, n. 315.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
loro processo logico‑giuridico, del quale il giudice deve dare
conto, almeno sommariamente, nella motivazione della senten‑
za.
Nei termini indicati, quindi, è rimesso al giudice il delicato
compito di individuare, di volta in volta, in relazione alla fatti‑
specie in concreto considerata, quale sia il parametro più ade‑
guato che consenta di stabilire, sia pur solo in via presuntiva, il
quantum del danno da risarcire.
A ben vedere, la ricostruzione proposta in questa sede con
specifico riferimento alla quantificazione dei danni in sede
fallimentare è pienamente in linea con le più recenti posizioni
assunte, in merito alle azioni di responsabilità, dalla Corte di
Cassazione, allorché riconosce espressamente che è ammissibi‑
le la liquidazione equitativa nell’eventuale impossibilità o
estrema difficoltà di offrire la prova degli elementi di giudizio
sufficienti a identificare gli effetti dei comportamenti illegittimi
degli amministratori73.
Pertanto, solo in questi casi e nei termini indicati si giusti‑
ficano criteri di calcolo dell’ammontare del danno inevitabil‑
mente connotati da un grado, più o meno elevato, di appros‑
simatività, che ciò nondimeno trovano il loro paradigma
nella regola fondamentale di cui all’art. 1226 c.c., che concor‑
re a definire, nel nostro ordinamento, il sistema positivo
delle prove operante in materia di responsabilità.
5. Conclusioni
Presa piena consapevolezza della necessità, anche con riguar‑
do all’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., di individuare
con precisione e valutare rigorosamente, nel rispetto del princi‑
pio di colpevolezza, il rapporto di consequenzialità tra mala
gestio ed evento dannoso, non può che essere apprezzato l’ab‑
bandono, da parte della giurisprudenza, del ricorso generaliz‑
zato al criterio che considera il deficit fallimentare come misu‑
ra del risarcimento, il quale, per la notevole approssimazione
che lo caratterizza, rischia di assumere una valenza – per così
dire – sanzionatoria, cosicché può essere utilizzato soltanto
eccezionalmente ed in via meramente residuale, qualora manchi
o sia inutilizzabile la contabilità sociale oppure in caso di ope‑
razioni illegittime che siano la causa diretta del dissesto e,
quindi, del fallimento della società.
Senz’altro più affidabile e preciso è, invece, il criterio dei
netti patrimoniali di periodo, che si riferisce ad un arco tempo‑
rale più circoscritto e ben definito, consentendo di dare rilievo,
sotto il profilo del rapporto di causalità materiale, alla specifi‑
ca condotta illegittima, commissiva od omissiva, che è imputa‑
bile al gestore e presumibilmente (ma con alta probabilità) ha
determinato l’evento dannoso o, comunque, ha concorso in
maniera significativa a determinarlo.
In ogni caso, entrambi i criteri (o, se si preferisce, entrambe
le varianti di un medesimo criterio) di cui può avvalersi il giu‑
dice, per un verso, hanno una specifica ed autonoma rilevanza,
rivendicando ciascuno un distinto spazio operativo, per altro
verso, si ascrivono a pieno titolo nella logica della liquidazione
equitativa contemplata dall’art. 1226 c.c.
In questa prospettiva, allora, non sembra si possa del tutto
condividere quanto sostenuto da autorevole dottrina, che – se
ben si comprende – considera il criterio dei netti patrimoniali
73Cfr. Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, cit.
2 0 1 3
23
di periodo come l’unico oggettivamente applicabile «a qualsia‑
si tipologia di impresa e di insolvenza»74.
In realtà, invece, ponendosi nell’ottica della liquidazione
equitativa del danno, è agevole replicare che possono essere
utilizzati, di volta in volta e tenuto conto della fattispecie og‑
getto di esame, diversi parametri per determinare, in sede fal‑
limentare, il pregiudizio derivante da mala gestio, il quale,
quindi, a seconda del caso, può essere commisurato alla sem‑
plice riduzione della massa attiva disponibile e distribuibile,
oppure può essere quantificato in relazione al passivo maturato
in ciascun esercizio in conseguenza della continuazione della
gestione sociale pur in presenza di una causa di scioglimento
della società, o ancora sulla base della comparazione dei netti
patrimoniali individuati nei diversi momenti dell’attività socia‑
le vietata, ed infine, come extrema ratio, considerando l’intero
sbilancio fallimentare.
Si tratta, tuttavia, di metodiche che comunque devono
essere attentamente ponderate e motivate dal giudicante, dal
momento che, ponendo il curatore fallimentare in una posi‑
zione processuale di forte vantaggio, se non correttamente
utilizzate, rischiano di determinare effetti perversi e, conse‑
guentemente, di disincentivare l’assunzione delle cariche so‑
ciali, nonché di incrementarne i costi, a cominciare da quelli
connessi alla copertura assicurativa dei soggetti investiti del‑
le funzioni di amministrazione e controllo.
Soltanto nei termini indicati, quindi, le diverse soluzioni
prospettate possono essere accolte e considerate compatibili
con il sistema positivo e con i principi che lo ispirano, sebbe‑
ne presentino inevitabilmente un certo margine di approssi‑
matività, che peraltro può e deve essere stemperato dal giudi‑
ce, considerando le specifiche variabili incidenti sul caso
concreto, tenuto conto che, in generale, tutte le tecniche di
stima del danno, nella loro applicazione, richiedono l’adozio‑
ne di correttivi e adattamenti necessari a depurare il risultato
da possibili “anomalie”.
civile
Gazzetta
74 A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità,
158; nei medesimi termini, D. Galletti, Brevi note sull’uso del criterio dei
“netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità, 23.
24
D i r i t t o
●
Il punto sul licenziamento
collettivo dopo
le novità introdotte
dalla riforma del lavoro
● Maria Rosaria Palumbo
Magistrato presso la sezione Lavoro
del Tribunale di Torre Annunziata
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
S om m ar io : 1. Premessa – 2. Ambito di applicazione
dell’istituto – 3. Il licenziamento collettivo per i datori di la‑
voro imprenditori – 4. Il licenziamento collettivo per riduzio‑
ne di personale – 4.1 Destinatari – 5. Il licenziamento collet‑
tivo per messa in mobilità – 5.1 Presupposti – 5.2 La proce‑
dura di mobilità – 5.2.1 L’obbligo di comunicazione: destina‑
tari – 5.2.2 La forma ed il contenuto della comunicazio‑
ne – 5.2.2.1 Allegazione del versamento all’inps – 5.2.2.2.
Direzione provinciale del lavoro – 5.3. La fase sindacale – 5.4.
La fase amministrativa – 5.4.1. I termini delle due fasi – 6.
L’individuazione dei lavoratori da licenziare e l’intimazione
del licenziamento – 6.1 I criteri di scelta del lavoratori – 6.2
Il licenziamento – 6.3 Il sistema sanzionatorio – 7. Il licen‑
ziamento collettivo per i datori di lavoro non imprendito‑
ri. – 8. Licenziamento collettivo e licenziamento individuale
plurimo per giustificato motivo oggettivo. – 9. Cenni sulla
trattazione del licenziamento collettivo.
1. Premessa
Il licenziamento collettivo, forma di risoluzione del rappor‑
to di lavoro diversa dal licenziamento individuale, risulta di‑
sciplinato dalla legge 23.07.1991 n. 223.
Un ruolo fortemente propulsivo nell’emanazione di tale
legge é stato svolto dal diritto comunitario (al riguardo, si ri‑
chiama la direttiva 20.07.1998 n. 59, nella quale é confluita
la precedente direttiva 17.02.1975 n. 129, modificata dalla
direttiva 24.06 1992 n. 56).
In precedenza, la complessità del fenomeno e la consapevo‑
lezza delle difficoltà di apprestare un’idonea tutela a tutti gli
interessati coinvolti in un licenziamento collettivo aveva in‑
dotto il legislatore italiano ad un voluto astensionismo in
materia.
Di tal che, i licenziamenti collettivi erano regolati da due
accordi interconfederali (20.12.1950, recepito nel d.p.r.
14.07.1960 n. 1019 e 05.05.1965).
Le uniche disposizioni legislative, relative alla materia, era‑
no quelle dell’art. 11, comma 2, legge n. 604 del 1966, e dell’art.
6 della legge n. 108 del 1990, entrambe statuenti l’esclusione
dei licenziamenti collettivi dall’ambito di applicazione delle
leggi predette, relative ai licenziamenti individuali.
La scelta astensionistica risultava compensata, in via pre‑
ventiva, da (un abusato) ricorso agli istituti della cig e della
mobilità.
2. Ambito di applicazione dell’istituto
L’istituto del licenziamento collettivo, applicabile, in origi‑
ne, solo ai datori di lavoro imprenditori, a seguito del decreto
legislativo 08.04.2004 n. 110, riguarda ora, sia pure con si‑
gnificative differenze, anche i datori di lavoro non imprendi‑
tori (vedi articolo 24 legge n. 223 del 1991, come modificato,
e successivo paragrafo 8).
3. Il licenziamento collettivo per i datori di lavoro imprenditori
(art. 24)
In relazione alla disciplina dettata per i datori di lavoro
imprenditori, va tenuto conto della connessione dell’istituto in
esame con quello della cig, nel senso che, in linea generale, a
quest’ultima si ricorre nell’ipotesi di crisi considerata reversi‑
bile, al primo, invece, nel caso di ritenuta irreversibilità della
crisi predetta.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
I due istituti possono, però, essere anche succedanei, nel
senso che si può procedere al licenziamento di lavoratori posti
in cassa integrazione anche, allorquando, nel corso della cig,
un’eccedenza di personale, da reversibile, si trasformi in irre‑
versibile.
Fatto salvo il necessario approfondimento, in questa prima
analisi, va rimarcato che il delicato equilibrio tra i due istitu‑
ti é sottoposto ad un triplice controllo: sindacale, amministra‑
tivo, giudiziario.
La legge prevede due tipi di licenziamento collettivo: quel‑
lo per riduzione di personale (art. 24) e quello per messa in
mobilità (art. 4), ciascuno sottoposto a specifiche causali e
requisiti numerici.
4. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale.
Come si è anticipato tale tipo di licenziamento risulta re‑
golato dall’articolo 24, anche attraverso il richiamo a parte
delle disposizioni dettate dall’articolo 4.
Va subito evidenziato che le disposizioni dell’art. 4 non
richiamate espressamente dall’art. 24 (e cioè commi 1 e
12‑15bis) non possono essere applicate analogicamente, a
causa del carattere eccezionale della regolamentazione del
licenziamento “per messa in mobilità”, il quale rende neces‑
saria l’utilizzazione di criteri analoghi a quelli adottati per
l’interpretazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. 1
Sotto il profilo dei dati numerici un licenziamento collet‑
tivo per riduzione di personale richiede che il datore di lavoro
imprenditore abbia più di quindici dipendenti e che intenda
procedere al licenziamento di almeno cinque dipendenti nella
provincia nell’arco di centoventi giorni.
Sintetim:
16 dipendenti occupati, almeno 5 dipendenti destinatari di
licenziamento nella provincia 2 , arco temporale 120 giorni.
Sotto il profilo della causale del licenziamento, va osserva‑
to che essa deve essere unitaria e deve dipendere da una ridu‑
zione o da una trasformazione del lavoro o dell’attività di
impresa (da intendersi come il complesso delle energie lavora‑
tive e del sostrato produttivo inteso a realizzare gli scopi
aziendali).
La formula é di ampia portata e tale da ricomprendere
anche casi in cui la riduzione di personale non sia necessaria‑
mente determinata dalla ricorrenza di una crisi aziendale o
da una contrazione delle strutture o dell’attività3, ma risulti
giustificata pure solo dall’adozione di innovazioni o ammo‑
dernamenti tecnologi, che si riflet‑tano negativamente sull’or‑
ganico aziendale, oppure dalla programmazione di una diver‑
1 Cass. Sez. lav. 08/02/2010 n. 2734.
2 Ai fini della sussistenza di un licenziamento collettivo e della applicabilità della
relativa disciplina, il termine licenziamento va inteso in senso tecnico, non
potendo ad esso parificarsi qualunque altro tipo di cessazione del rapporto
determinata (anche o soltanto) da una scelta del lavoratore, come nelle ipotesi
di dimissioni, risoluzioni concordate, o prepensionamenti, anche ove tali forme
di cessazione del rapporto siano riconducibili alla medesima operazione di ri‑
duzione delle eccedenze della forza lavoro che giustifica il ricorso ai licenzia‑
menti Cass. Sez. lav. 29/03/2010 n. 7519.
3La fattispecie di riduzione del personale regolata dalla legge n. 223 del 1991
non presuppone necessariamente una crisi aziendale, e neppure il ridimensio‑
namento strutturale dell’attività produttiva, potendo il requisito della riduzione
o trasformazione di attività o di lavoro ravvisarsi nella decisione di modificare
l’organizzazione produttiva anche soltanto con la contrazione della forza lavo‑
ro, con incidenza sul solo elemento personale dell’azienda (Cass. Sez. lav.
07.01.2009 n. 82 ed ancora 24.02.09 n. 4411 e 17.03.09 n. 6446).
2 0 1 3
25
sa organizzazione aziendale finalizzata a ridurre i costi e che,
come nella prima ipotesi, incida, in modo non transeunte
sulla forza lavoro occupata. 4
Il sindacato giudiziale non può estendersi al “merito” del‑
le scelte aziendali, ma deve limitarsi a verificare la:
A) La ricorrenza della causale posta a base del licenzia‑
mento, senza alcun sindacato di merito sulla legittimità (ra‑
gionevolezza) della scelta;5
B)
La ricorrenza del nesso eziologico tra la causale
predetta ed i provvedimenti di licenziamento;
In tema di licenziamenti collettivi impugnati giudizialmen‑
te, il giudice, investito della valutazione di legittimità dei re‑
cessi, se non può sindacare le scelte imprenditoriali nel dimen‑
sionare il livello occupazionale in riferimento alla program‑
mata ristrutturazione, riorganizzazione o conversione azien‑
dale (sicché non vi è valutazione di merito sulla giustificatez‑
za del recesso datoriale come nella fattispecie del licenziamen‑
to per giustificato motivo oggettivo), deve comunque accerta‑
re la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il pro‑
gettato ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di re‑
cesso.
Cass. Sez. lav. 18.09.2007 n. 19347 e 19.04.2003
n. 6385.
C) La correttezza della procedura dettata dagli articoli
4 e 5;
Oltre alle sentenze richiamate nelle note, si riportano le
successive massime:
In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di per‑
sonale, la legge 23 luglio 1991, n. 223, nel prevedere agli artt.
4In tema di ridimensionamento dell’attività imprenditoriale che legittima il ri‑
corso alla procedura di mobilità ex art. 24 della legge n. 223 del 1991, condot‑
te datoriali, quali la richiesta di svolgimento di lavoro straordinario, l’assunzio‑
ne di nuovi lavoratori o la devoluzione all’esterno dell’impresa di parte della
produzione, successive al licenziamento collettivo, non sono suscettibili di inci‑
dere sulla validità del licenziamento stesso, una volta che la procedura di mo‑
bilità si sia svolta nel rispetto dei vari adempimenti previsti dagli artt. 4 e 5
della legge n. 223 del 1991, ove non risulti la necessità di colmare vuoti di or‑
ganico originati ingiustificatamente dal processo di ristrutturazione, e ove non
si sia in presenza di un ampliamento dell’attività economica dell’impresa, non
giustificata sulla base delle ragioni che hanno portato alla riduzione del perso‑
nale. Ne consegue che non è sufficiente dedurre che vi sia stata l’assunzione di
nuovi lavoratori per escludere “sic et simpliciter” la legittimità del ricorso alla
procedura di mobilità. (Cass. Sez. lav. 20.01.2011 n. 1253)
5 Cass. Sez. lav. 17.03.2009 n. 6446 (allegata, alla fine, nella sua integralità) se‑
condo la quale” …….nel disegno legislativo, la fattispecie di licenziamento
collettivo per riduzione di personale è assoggettato a forme di controllo ex
ante della decisione imprenditoriale, controllo di tipo sindacale e pubblico, ri‑
tenute maggiormente adeguate alla rilevanza sociale del fenomeno rispetto alle
tecniche di controllo giudiziale ex post ed a dimensione individuale, restando
escluso che la legittimità del recesso possa dipendere dai motivi della riduzione
di personale, non sindacabili, infatti, dal giudice (tanto è vero che la riduzione
di personale “ingiustificata” non è prevista dalla legge tra i motivi di annulla‑
mento dei singolo licenziamento).
Secondo precedente orientamento, poi superato, “dopo l’entrata in vigore
della legge n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto
autonomo, che si distingue radicalmente dal licenziamento individuale per
giustificato motivo oggettivo, essendo caratterizzato in base alle dimensioni
occupazionali dell’impresa (più di quindici dipendenti), al numero dei licenzia‑
menti (almeno 5) e all’arco temporale (120 giorni) entro cui sono effettuati i
licenziamenti ed è strettamente collegato al controllo preventivo, sindacale e
pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento della struttura
aziendale. Nell’ambito di questa disciplina é ultronea ogni indagine circa l’esi‑
stenza o meno di un programma di ristrutturazione aziendale e assume rilievo
il mancato espletamento dell’iter procedurale delineato dall’art. 4 della legge
n. 223 del 1991, che comporta l’inefficacia del licenziamento e l’applicabilità
dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, mentre non è proponibile l’ipotesi di
una “conversione” del licenziamento collettivo in licenziamento individuale.
Cass. Sez. lav. 06/07/2000 n. 9045
civile
Gazzetta
26
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizza‑
zione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha
introdotto un significativo elemento innovativo consistente
nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex
post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo
dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensiona‑
mento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni
sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e
consultazione secondo una metodica già collaudata in materia
di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devo‑
luti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quin‑
di, gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la
correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la
sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progetta‑
to ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso),
con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede
giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza contesta‑
re specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati
artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei
poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle pro‑
cedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i la‑
voratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di
un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzio‑
ne o trasformazione dell’attività produttiva. (Nel caso speci‑
fico, in cui si è affermata la legittimità del recesso, i giudici
di legittimità hanno ritenuto che la Corte territoriale aveva
esercitato il necessario controllo nei limiti devolutile dalla
legge, accertando che, come già esposto nell’istorico di lite,
la parte datoriale aveva rispettato gli obblighi procedimen‑
tali a suo carico, era stato provato che aveva dato corso alla
procedura collettiva per far fronte alla antieconomicità
dell’unico reparto produttivo, aveva licenziato tutti gli ad‑
detti ai Reparti Abbigliamento, Borse e Calzature e aveva
effettivamente chiuso l’unico stabilimento produttivo di
Napoli. Cass. Sez. lav. 03/03/2009 n. 5089.
Di analogo tenore la massima che segue:
In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di per‑
sonale, la legge n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5
la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del
provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto
un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio
dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel prece‑
dente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa
imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’im‑
presa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, desti‑
natarie di incisivi poteri di informazione e consultazione se‑
condo una metodica già collaudata in materia di trasferimen‑
ti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice
in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici
motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto
accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo
obiettivo) ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi
compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra
il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di
recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingres‑
so in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza
contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai
citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni
dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle
procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i
c i v i l e
Gazzetta
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lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di
un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzio‑
ne o trasformazione dell’attività produttiva. (Nella specie, la
S.C., sulla scorta dell’enunciato complessivo principio, ha
confermato la sentenza impugnata con la cui congrua e logi‑
ca motivazione era stata adeguatamente rilevata la sussisten‑
za delle condizioni procedimentali per far luogo alla proce‑
dura di licenziamento collettivo in dipendenza dell’emergen‑
za delle esigenze oggettive, richieste dalla legge, di riduzione
o trasformazione di attività o di lavoro, il cui accertamento
di fatto sfuggiva alle censure del ricorrente fondate essenzial‑
mente sul rilievo della divergenza tra la situazione rilevata
con la comunicazione iniziale di apertura della procedura di
mobilità e quella di fatto sussistente al momento conclusivo,
in cui furono adottati i provvedimenti di recesso).
Cass. Sez. lav. 06/10/2006 n. 21541
L’onere della prova della prova della ricorrenza di un licen‑
ziamento collettivo grava su chi ne deduce l’esistenza. 6
Una volta provata, però, la natura collettiva del licenzia‑
mento l’onere della prova delle varie circostanze rilevanti ai
fini della legittimità del recesso si ripartisce secondo i princi‑
pi generali (art. 2697) 7
4.1 Destinatari
Le disposizioni dell’articolo 24 non trovano applicazione
nel caso di scadenza di contratti di lavoro a termine, di fine
lavoro nelle costruzioni edili 8 e nei casi di attività stagionali
e saltuarie (art. 24, comma 3)
Contrapponendosi a precedente orientamento giurispru‑
denziale, l’articolo 24, comma 2, stabilisce espressamente che
la normativa sui licenziamenti collettivi (art. 4, commi 2‑12
e 15bis, art. 5, commi 1‑5) si applica anche alla fattispecie
della cessazione di attività da parte delle imprese9.
6In materia di licenziamento collettivo, l’onere della prova della sussistenza
dei requisiti prescritti dall’art. 24 della legge n. 223 del 1991 incombe sulla
parte (datore di lavoro o lavoratore) che sostenga che il licenziamento pre‑
senti i requisiti indicati dalla norma, senza che rilevi la diversa ripartizione
dell’onere probatorio prevista dall’art. 5 della legge n. 604 del 1966, in tema
di prova della giusta causa o del giustificato motivo, attesa l’inapplicabilità
della predetta normativa ai licenziamenti per riduzione di personale (art. 11
della legge n. 604 cit.). (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione
della corte territoriale che aveva escluso l’applicabilità della disciplina sulle
riduzioni del personale per non aver il lavoratore assolto l’onere della prova
del recesso di almeno cinque dipendenti nell’arco di centoventi giorni). Cass.
Sez. lav. 22.03.2010 n. 6849.
7 Grava sul datore di lavoro che adduca la natura collettiva dei licenziamenti
intimati l’onere di provare l’effettività e definitività del diminuito fabbisogno
di forza‑lavoro, attraverso la prova della mancata sostituzione dei lavorato‑
ri licenziati o dell’assenza di successive assunzioni. Cass. Sez. lav. 27.11.1997
n. 1194.
8L’esclusione non opera quando la risoluzione sia determinata da una situazione
di crisi per riduzione di attività e dal fisiologico completamento dei lavori che
avevano giustificato l’assunzione. Cass. Sez. lav. 26.09.1998 n. 9657
9In materia di licenziamenti collettivi per cessazione di attività, l’ambito della
trattativa tra imprese e sindacati, cui l’art. 24, secondo comma, della legge
n. 223 del 1991 (nel testo antecedente alle modifiche di cui al d.lgs. n. 110 del
2004) estende l’applicabilità delle disposizioni del comma 1, è condizionata
dalle peculiarità della fattispecie, rispetto a quella del ridimensionamento
aziendale, dal fatto che si tratti di una società per azioni e di rilevanti dimen‑
sioni e dalle regole e principi, anche di rilievo costituzionale, che tale fattispecie
disciplinano. Ne deriva che non è illegittima la procedura di mobilità attivata
dopo diversi mesi dalla deliberazione di scioglimento e messa in liquidazione
della società, costituendo la delibera assembleare l’espressione della sola “in‑
tenzione” di cessare l’attività, ed essendo compatibile la rilevante durata della
procedura di liquidazione, con impiego di scaglioni di lavoratori via via decre‑
scenti, con la possibilità, per i sindacati, di intervenire nella procedura di mo‑
bilità, in funzione di controllo e di trattativa, anche in vista di un possibile
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27
Le disposizioni dell’art. 4, commi 3, ultimo periodo, e 10,
dell’art. 5, commi 4 e 5, si applicano solo alle imprese richia‑
mate dal comma 1 dell’articolo 16 (articolo 24 comma 3)
Sul piano soggettivo la normativa non si applica ai dirigen‑
ti10, mentre trova applicazione nei confronti dei soci delle
cooperative di produzione e lavoro.
zione deve essere effettuata alle associazioni di categoria
aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul
piano nazionale.
La comunicazione alle associazioni di categoria può essere
effettuata per il tramite dell’associazione dei datori di lavoro
alla quale l’impresa aderisce o conferisce mandato.
5. Il licenziamento collettivo per messa in mobilità (art. 4)
5.1 Presupposti
La materia della procedura per la dichiarazione di mobili‑
tà é disciplinata dalla legge 23 luglio 1991 n. 223 (artt. 4 e 5),
come modificata dalla legge n. 92 del 2012.
L’articolo 1, commi 44‑46, di tale ultima legge si limita ad
operare alcune modifiche, di seguito elencate.
Giova evidenziare che i commi 44 e 45 incidono sull’art. 4
della legge n. 223 del 1991, che disciplina la procedura per la
dichiarazione di mobilità.
Il comma 46 incide, invece, sull’articolo 5, relativo ai cri‑
teri di scelta.
La procedura di mobilità può essere avviata dall’impresa
(con più di quindici dipendenti) ammessa al trattamento stra‑
ordinario di integrazione salariale, qualora, nel corso di at‑
tuazione del programma di cui all’articolo 1, ritenga di non
essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori
sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative (com‑
ma 1).
Il licenziamento collettivo a seguito di mobilità presuppo‑
ne, quindi, la preventiva ammissione alla cassa integrazione
guadagni straordinaria e la sopravvenuta irreversibilità della
crisi, nel corso o al termine del programma di cui all’art. 1,
tale da impedire il reimpiego dei lavoratori sospesi e la possi‑
bilità di ricorrere a misure alternative.
La scelta tra il ricorso alla cig ed il ricorso immediato al
licenziamento collettivo per riduzione di personale resta affi‑
data alla valutazione del datore di lavoro.
Nonostante il richiamo anche alla necessità dell’impossi‑
bilità di ricorrere a misure alternative (introdotto dal decreto
legislativo n. 151 del 1997), resta incerto se tanto si traduca
in una mera sollecitazione o comporti un vero e proprio ob‑
bligo di repechage.
5.2.2 La forma ed il contenuto della comunicazione
La comunicazione deve essere scritta (comma 2) e deve
essere specifica (seria ed analitica), nel senso che deve presen‑
tare il contenuto indicato dal comma 3.
E cioè:
motivi che determinano la situazione di eccedenza;
motivi tecnici, organizzativi e produttivi, per i quali si ri‑
tiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio
alla predetta situazione ed evitare in tutto o in parte, la di‑
chiarazione di mobilità;
numero, collocazione aziendale e profili professionali del
personale eccedente 11;
tempi di attuazione del programma di mobilità;
eventuali misure programmate per fronteggiare la conse‑
guenza sul piano sociale della attuazione del programma
medesimo.
metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali di‑
verse da quelle già previste dalla legislazione vigente e dalla
contrattazione collettiva
5.2. La procedura di mobilità
Verificatisi i suindicati presupposti, la materiale espulsione
del lavoratore dall’azienda è subordinata all’espletamento
della procedura di mobilità disciplinata dall’art. 4, commi 2‑9,
e dall’art. 5.
5.2.1 L’obbligo di comunicazione: destinatari
L’impresa che decide di avviare la procedura di mobilità è
tenuta ad adempiere ad un preventivo obbligo di comunica‑
zione della scelta operata, da assolversi nei confronti delle
rappresentanze sindacali aziendali costituite a norma dell’ar‑
ticolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, (ora r.s.u.),
nonché delle rispettive associazioni di categoria.
In mancanza delle predette rappresentanze la comunica‑
collocamento del personale eccedente in altre società del gruppo. Cass. Sez. lav.
28/01/2009 n. 2161
10 Corte cost. 18.07.1997 n. 258
5.2.2.1 Allegazione del versamento all’Inps
Alla comunicazione va allegata copia dalla ricevuta del
11In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, la comunicazio‑
ne di avvio della procedura di mobilità, ai sensi dell’art. 4, comma 3, della
legge n. 223 del 1991, deve specificare i “profili professionali del personale
eccedente” e non può limitarsi all’indicazione generica delle categorie di perso‑
nale in esubero (operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti), non essendo
tale generica indicazione sufficiente a concretizzare il piano di ristrutturazione
aziendale, mentre la successiva conclusione di un accordo sindacale, nell’ambi‑
to della procedura di consultazione non sana il menzionato difetto della comu‑
nicazione iniziale se anche l’accordo non contiene la specificazione dei profili
professionali dei lavoratori destinatari del licenziamento (Cass. Sez. lav.
22/06/2012 n. 10424).
In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti col‑
lettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunica‑
zione preventiva di cui all’art. 4, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223,
deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che re‑
stano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicché, ove il progetto imprendi‑
toriale sia diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale
al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indica‑
zione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi
profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato
nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con ecceden‑
za, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in
presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della proce‑
dura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licen‑
ziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l’accesso
alla pensione. Cass. Sez. lav. 26/02/2009 n. 4653
In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali dettate per i licenziamen‑
ti collettivi per riduzione di personale dalla legge n. 223 del 1991, la sufficienza
dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all’art. 4, comma 3, deve
essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, sottratti al
controllo giurisdizionale, cosicché, nel caso di progetto imprenditoriale diretto
a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire
il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero
complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professiona‑
li contemplati dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza
che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza (coincidendo la
collocazione dei dipendenti da licenziare con l’intero complesso aziendale)
ovvero l’indicazione delle concrete posizioni lavorative o delle mansioni svolte.
Cass. Sez. lav. 07/01/2009 n. 84
civile
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28
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
versamento dell’Inps, a titolo di anticipazione sulla somma di
cui all’articolo 5, comma 4, di una somma pari al trattamen‑
to massimo mensile di integrazione salariale moltiplicato per
il numero dei lavoratori ritenuti eccedenti.
5.2.2.2. Direzione provinciale del lavoro
Copia della comunicazione e della ricevuta di pagamento
vanno inviate anche alla direzione provinciale del lavoro.
5.3. La fase sindacale
Trattasi di fase preliminare ed eventuale (commi 5 e 6).
Entro sette giorni dalla data di ricevimento della comuni‑
cazione, il sindacato (r.s.u. e rispettive associazioni), può ri‑
chiedere al datore di lavoro un esame congiunto della questio‑
ne, al fine di esaminare le cause che hanno determinato la
necessità di riduzione del personale, allo scopo di ricercare un
accordo che risolva in tutto o anche solo in parte la proble‑
matica.
In tale fase, grava sul datore l’onere di trattare con buona
fede, la cui violazione, ove immotivata, può costituire com‑
portamento antisindacale ex art. 28 ed essere anche causa di
inefficacia dei recessi.
Tale fase, in cui il sindacato può farsi assistere da esperti,
deve concludersi nel termine di quarantacinque giorni dalla
ricezione della comunicazione inviata dall’impresa.
La legge prevede incentivi vari (ad esempio, possibilità di
demansionamento in deroga all’art. 2103 c.c. ed altri) per
favorire la conclusione dell’accordo, anche se le parti conser‑
vano piena libertà sia di promozione dell’incontro (sindacato),
sia di conclusione dell’accordo (entrambe).
La giurisprudenza si è evoluta nel senso di riconoscere
all’accordo eventualmente raggiunto, e sia pure a determina‑
te condizioni, un effetto sanante di eventuali vizi inerenti la
comunicazione di cui al comma 3 12
L’esito negativo della trattativa ed i motivi di tale esito
vanno comunicata alla Direzione Provinciale del Lavoro (le‑
gittimazione spetta ad entrambe le parti).
5.4. La fase amministrativa (comma 7)
Tale fase è subordinata al mancato raggiungimento dell’ac‑
cordo.
Legittimata a promuoverla è la Direzione Provinciale del
lavoro, la quale può percorrere anche strade diverse per favo‑
rire la conciliazione.
Essa deve concludersi entro trenta giorni dalla ricezione
della comunicazione dell’impresa.
12In tema di collocamento in mobilità e licenziamento collettivo, la comunicazio‑
ne di avvio della procedura ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991
rappresenta una cadenza essenziale per la proficua partecipazione alla cogestio‑
ne della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisiona‑
le del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore è legittimato a far valere
l’incompletezza della comunicazione quale vizio del licenziamento e che il
successivo raggiungimento di un accordo sindacale, pur essendo rilevante ai
fini del giudizio retrospettivo sull’adeguatezza della comunicazione, non sana
“ex se” il “deficit” informativo, atteso che il giudice di merito può accertare
che il sindacato partecipò alla trattativa, sfociata nell’intesa, senza piena con‑
sapevolezza dei dati di fatto. (Cass. Sez. lav. 06/04/2012 n. 5582).
c i v i l e
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5.4.1. I termini delle due fasi 13
Riepilogando:
I termini della fase sindacale sono rispettivamente di sette
e quarantacinque giorni.
Il termine della fase amministrativa è di trenta giorni.
Quando i licenziamenti sono in numero inferiore a dieci
tutti i predetti termini vengono dimezzati (comma 8).
6. L’individuazione dei lavoratori da licenziare e l’intimazione del
licenziamento
Solo a conclusione della procedura di mobilità, come disci‑
plinata dai commi da 2 a 8, qualora permanga, in tutto o anche
solo in parte, la necessità di provvedere a riduzione del persona‑
le il datore di lavoro può procedere all’individuazione dei lavo‑
ratori da collocare in mobilità ed all’intimazione del recesso.
6.1 I criteri di scelta del lavoratori (art. 5)
Dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità
si occupa l’art. 5, comma 1, il quale privilegia, in relazione
alle esigenze tecnico produttive dell’impresa ed alle esigenze
aziendali, l’applicazione dei criteri concordati dai contratti
collettivi stipulati dai sindacati indicati dall’art. 4 comma 2.
In via di gradata, e per la sola ipotesi in cui la contratta‑
zione collettiva non abbia provveduto, trovano applicazione,
in concorso tra loro, i criteri legali dettati dallo stesso artico‑
lo 5, costituiti dai carichi di famiglia, dall’anzianità lavorati‑
va, dalle esigenze tecnico‑produttive ed organizzative.14
La giurisprudenza di legittimità15 ha chiarito che il doppio
richiamo operato dall’art. 5, comma 1, legge n. 223 del 1991
alle esigenze tecnico produttive ed organizzative del comples‑
so aziendale, assolve alla funzione, quanto alla previsione
contenuta nella prima parte della norma, di delimitare, in
ragione dei motivi posti a fondamento della riduzione di per‑
sonale, l’ambito entro il quale dovrà essere operata la scelta
dei lavoratori e, quindi, in riferimento ai posti soppressi,
mentre il secondo – contenuto nei concreti criteri di scel‑
ta – opera, una volta determinato il suddetto ambito, con ri‑
guardo alla individuazione dei singoli posti di lavoro rimasti
dopo la soppressione.
13In tema di licenziamenti collettivi, il mancato rispetto dei termini previsti
dall’art. 4 dalla legge n. 223 del 1991 per l’espletamento delle varie fasi della
relativa procedura non ne comporta l’illegittimità e l’inopponibilità, ai singoli
lavoratori interessati, dei provvedimenti conclusivi, atteso che tale effetto non
è previsto da alcuna disposizione legislativa, i termini non sono posti a tutela
dei lavoratori (il cui rapporto di lavoro resta in corso per tutta la durata della
procedura senza che il licenziamento possa retroagire), bensì a tutela del dato‑
re di lavoro, a garanzia che la procedura non sia procrastinata oltre il tempo
ritenuto dal legislatore congruo per la ricerca di ogni possibile superamento
della situazione determinante la necessità di riduzione di personale, e, infine,
non può essere posto a titolo di responsabilità oggettiva a carico del datore di
lavoro il superamento, da parte di terzi (quali gli organi pubblici o le associa‑
zioni sindacali), di termini connotati, oltre ogni previsione legislativa, da effet‑
ti decadenziali. Cass. Sez. lav. 10/02/2009 n. 3261.
In tema di licenziamenti collettivi, il mancato rispetto dei termini previsti dalla
legge n. 223 del 1991 per l’espletamento delle varie fasi della relativa procedu‑
ra, laddove si sia resa necessaria, dopo la cessazione dell’attività di impresa, una
lunga procedura di liquidazione con impiego per anni di scaglioni di lavorato‑
ri via via decrescenti, non comporta l’illegittimità della stessa e, quindi, l’inop‑
ponibilità ai singoli lavoratori interessati dei provvedimenti conclusivi di essa,
tanto più se la medesima lunga durata del suo espletamento abbia dato ai sin‑
dacati il tempo necessario per condurre agevolmente le trattative sulla mobilità.
Cass. Sez. lav. 19/12/2008 n. 29831
14 Trattasi degli stessi criteri previsti dall’accordo interconfederale del 1965.
15 Cass. Sez. lav. 27/01/2011 n. 1938
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g e n n a i o • f e b b r a i o
Ne consegue che, ove, in sede di accordo sindacale, le
parti sociali abbiano concordato la sostituzione dei criteri
legali con quelli della prossimità alla pensione tenendo conto
delle esigenze tecnico produttive ed organizzative dell’azienda,
i nuovi criteri debbono ritenersi alternativi e di integrale ap‑
plicazione, dovendosi ritenere arbitraria la qualificazione
delle esigenze tecnico produttive ed organizzative solo come
mera riconduzione alla previsione di cui alla prima parte
dell’art. 5, comma 1, legge n. 223 del 1991.
Anche i criteri dettati dalla contrattazione collettiva In
materia di licenziamento collettivo, ove non siano predeter‑
minati secondo uno specifico ordine previsto dai contratti
collettivi, vanno applicati con valutazione globale da parte del
datore di lavoro. 16
Tali criteri non possono essere vaghi e generici 17, ma deb‑
bono essere generali ed astratti, obiettivi e predeterminati. 18
Una volta concordato, il criterio/i non può/possono essere
successivamente disapplicato/i o modificato/i, travalicando
gli ambiti originariamente previsti, non essendo consentito
che in tale spazio temporale l’individuazione dei singoli desti‑
natari dei provvedimenti datoriali venga lasciata all’iniziativa
ed al mero potere discrezionale dell’imprenditore, in quanto
ciò pregiudicherebbe l’interesse dei lavoratori ad una gestione
trasparente ed affidabile della mobilità e della riduzione del
personale. 19
Particolarmente utilizzato dalla contrattazione collettiva,
in contrapposizione al criterio legale dell’anzianità lavorativa,
è il criterio dell’anzianità di servizio e del possesso dei requi‑
siti pensionistici, nell’ottica di salvaguardare il posto di lavo‑
ro dei dipendenti più giovani.
Il criterio adottato dalla parti sociali può essere anche
unico ma, per la sua legittimità, occorre che esso permetta
l’esauriente e univoca selezione dei lavoratori destinatari del
licenziamento e, quindi, risulti applicabile senza margini di
discrezionalità da parte del datore di lavoro. 20
16 Cass. Sez. lav. 23/12/2009 n. 27165
17 Cass. Sez. lav. 23/12/2009 n. 27675
18 Con gli accordi che concludono la procedura di mobilità, i sindacati e il datore
di lavoro possono concordare sull’individuazione di criteri di scelta, ma non
indicare concretamente i singoli lavoratori da porre in mobilità, giacché i sud‑
detti accordi sono direttamente efficaci nei confronti dei datori di lavoro e
soltanto indirettamente possono incidere, attraverso l’applicazione dei criteri
di scelta concordati, sui singoli rapporti di lavoro. (divieto dei cd. criteri foto‑
grafici) Cass. Sez. lav. 24.04.1999 n. 4097
19 Cass. Sez. lav. 22/03/2010 n. 6841
Cfr. poi Cass. Sez. lav. 07/01/2009 n. 81 secondo cui “In sede di messa in mo‑
bilità dei lavoratori a seguito di ristrutturazioni o riconversioni aziendali, do‑
vendo la riduzione del personale seguire un “iter” procedimentale, non è con‑
sentito determinare un mutamento dei criteri di scelta del personale da sospen‑
dere, con l’abbandono dei criteri inizialmente previsti nel programma e la
contestuale adozione di altri criteri diversi che lascino più ampi spazi di discre‑
zionalità all’imprenditore, e che per di più siano suscettibili di determinare per
il loro contenuto il pericolo di diversità di trattamento o illegittime forme di
discriminazione tra i lavoratori, potendosi operare un mutamento dei criteri
selettivi solo a seguito di ulteriore decreto di proroga (che accerti la compatibi‑
lità del cambiamento con il programma già autorizzato) o distinta domanda di
integrazione salariale che contempli i diversi criteri. Ne consegue che è illegit‑
timo il licenziamento, intimato nell’ambito della procedura in applicazione dei
nuovi criteri, in difetto delle indicate condizioni.
20 Cass. Sez. lav. 22.06.2012 n. 10424.
Su legittimità unico criterio di scelta vedi pure Cass. Sez. lav. 27/01/2011 n.1738,
secondo cui “in materia di collocamento in mobilità e di licenziamenti colletti‑
vi, il criterio di scelta adottato nell’accordo sindacale tra datore di lavoro e
organizzazioni sindacali può anche essere unico e consistere nella vicinanza al
pensionamento, in quanto esso permette di formare una graduatoria rigida e
può essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da
2 0 1 3
29
Sotto il profilo degli oneri allegatori e probatori, deve rile‑
varsi che grava sul datore di lavoro l’onere di allegazione dei criteri di scelta e la prova della loro piena applicazione nei
confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazio‑
ne a ciascuno di questi ultimi, dello stato familiare, dell’an‑
zianità e delle mansioni; incombe, invece, al lavoratore dimo‑
strare l’illegittimità della scelta, con indicazione dei lavorato‑
ri in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o
illegittimamente realizzata.
Discende da ciò che, ove il datore di lavoro si sia limitato
a comunicare dei criteri assolutamente vaghi, inidonei a con‑
sentire al lavoratore di contestare le scelte operate e di com‑
parare la propria posizione con quella degli altri dipendenti
che hanno conservato il posto di lavoro, nessun onere è rav‑
visabile in capo al lavoratore. (Cass. Sez. lav. 23/12/2009
n. 27675).
La comparazione va operata, in linea generale, tra tutti i
lavoratori dell’impresa 21.
parte del datore di lavoro. Tuttavia, ove quello della vicinanza al pensionamen‑
to sia l’unico criterio prescelto e lo stesso, applicato nella realtà, si riveli insuf‑
ficiente a individuare i dipendenti da licenziare, esso diviene automaticamente
illegittimo se non combinato con un altro criterio di selezione interna”. (Nella
specie, in sede di accordo sindacale le parti sociali avevano stabilito la sostitu‑
zione dei criteri legali con quelli della prossimità al pensionamento in unione
alle esigenze tecniche e produttive dell’azienda; il datore di lavoro aveva, inve‑
ce, ritenuto doversi procedere solo in base al criterio dell’anzianità anagrafica
e contributiva, sull’assunto della oggettività del criterio; la S.C., nel ritenere
l’illegittimità della scelta datoriale, ha affermato il principio di cui alla massi‑
ma).
21In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale la platea dei la‑
voratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti
ad un determinato reparto o settore ove ricorrano, in relazione al progetto di
ristrutturazione aziendale, oggettive esigenze tecnico‑produttive, restando
onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito
nel quale la scelta è stata effettuata. Ne consegue che non può essere ritenuta
legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto lavorativo
soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a
quella di addetti ad altre realtà organizzative. Cass. Sez. lav. 02/12/2009
n. 25353 in Notiziario Giurisprudenza del Lavoro, 2010, 1, 93 (con nota re‑
dazionale).
In tema di licenziamento collettivo, il doppio richiamo operato dall’art. 5,
comma 1, della legge n. 223 del 1991 alle esigenze tecnico produttive ed orga‑
nizzative del complesso aziendale comporta che la riduzione del personale deve,
in linea generale, investire l’intero ambito aziendale entro il quale operano i
criteri di scelta, potendo l’intervento essere limitato a specifici rami aziendali
soltanto se caratterizzati da autonomia e specificità delle professionalità utiliz‑
zate. Ne consegue che il riferimento al “personale abitualmente impiegato”,
aggiunto all’originario testo dell’art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991
dal d.lgs. n. 151 del 1997, comporta che i profili professionali da prendere in
considerazione sono quelli propri di tutti i dipendenti potenzialmente interes‑
sati alla mobilità, tra i quali, all’esito della procedura, il datore di lavoro potrà
operare – con l’osservanza dei criteri legali di selezione del personale in concor‑
so tra loro, salva la possibilità di accordare prevalenza alle esigenze tecniche e
produttive ove tale indicazione trovi giustificazione in fattori obbiettivi e non
sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie – la scelta dei lavoratori da
collocare in mobilità. Cass. Sez. lav. 28/10/2009 n. 22824.
In tema di licenziamento collettivo, il doppio richiamo operato dall’art. 5,
comma 1, della legge n. 223 del 1991 alle esigenze tecnico‑produttive ed orga‑
nizzative del complesso aziendale, comporta che la riduzione del personale
deve, in linea generale, investire l’intero ambito aziendale, potendo essere limi‑
tato a specifici rami d’azienda soltanto se caratterizzati da autonomia e speci‑
ficità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre. Ne consegue
che il riferimento al “personale abitualmente impiegato”, aggiunto all’origina‑
rio testo dell’art. 4, comma 3, della legge n. 223, dal d.lgs. n. 151 del 1997,
comporta che i profili professionali da prendere in considerazione sono quelli
propri di tutti i dipendenti potenzialmente interessati (in negativo) alla mobili‑
tà, tra i quali potrà, all’esito della procedura, operarsi la scelta dei lavoratori
da collocare in mobilità. La dimostrazione della ricorrenza delle specifiche
professionalità o comunque delle situazioni oggettive che rendano impraticabi‑
le qualunque comparazione, costituisce onere probatorio a carico del datore di
lavoro (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della Corte territoriale
che aveva riconosciuto fondate le domande dei lavoratori per avere il datore di
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Se, però, l’azienda è organizzata in singole unità produtti‑
ve si ammette, a determinate condizioni, che la comparazione
possa avvenire nell’ambito delle singoli unità produttive inte‑
ressate al ridimensionamento22.
6.2 Il licenziamento (comma 9)
All’esito, il datore di lavoro può intimare il recesso nei
confronti del prescelto con comunicazione scritta e nel rispet‑
to del termine di preavviso.
Sembra necessaria specifica motivazione. 23
lavoro ingiustificatamente limitato la scelta del personale da porre in mobilità
ad un solo cantiere edile indicando, nella comunicazione di avvio della proce‑
dura, la causa della messa in mobilità nella riduzione del proprio ambito ope‑
rativo conseguente all’ avvenuta comunicazione, da parte della Prefettura, ad
alcuni committenti della società, del diniego del nulla osta prefettizio per asse‑
rite infiltrazioni mafiose, circoscrivendo l’ambito della scelta dei dipendenti da
licenziare unicamente a quelli del cantiere di committenza pubblica, e non
provando le ragioni oggettive per cui la chiusura dei cantieri avesse comporta‑
to la limitazione della scelta ai dipendenti ivi addetti). Cass. Sez. lav. 28/10/2009
n. 22825 in Notiziario Giurisprudenza del Lavoro 2009, 765.
Vedi, altresì, nota 15 ed ulteriore giurisprudenza ivi richiamata.
22In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il pro‑
getto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un’unità
produttiva o a un settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine
di individuare quelli da avviare alla mobilità, può essere limitata agli addetti
dell’unità o del settore da ristrutturare, in quanto ciò non sia l’effetto dell’uni‑
laterale determinazione del datore di lavoro, ma sia obiettivamente giustificato
dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione di personale; i motivi di re‑
strizione della platea dei lavoratori da comparare devono essere adeguatamen‑
te esposti nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991,
onde consentire alle organizzazioni sindacali di verificare il nesso tra le ragioni
che determinano l’esubero di personale e le unità lavorative che l’azienda inten‑
de concretamente espellere, ma l’eventuale incompletezza di tale comunicazio‑
ne deve essere appositamente censurata da chi impugna il licenziamento.
(Nella specie, relativa a licenziamento per riduzione di personale circoscritto ad
un centro operativo territoriale, la S.C., pur ritenendo generica la motivazione
comunicata dal datore di lavoro circa gli “alti costi” di quell’articolazione
aziendale, ha cassato la decisione di merito che aveva dichiarato illegittimo il
licenziamento per il vizio di informazione, non dedotto nella pertinente impu‑
gnativa). Cass. Sez. lav. 20/02/2012 n. 2429.
In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, ove la contro‑
versia riguardi l’accertamento della natura di unità produttiva della struttura
organizzativa dell’impresa nel cui ambito sia stata attuata la comparazione dei
dipendenti per individuare quelli da avviare alla mobilità, non assume rilievo il
mancato assolvimento, da parte dei lavoratori, dell’onere di allegare il risultato
vantaggioso conseguibile all’esito del corretto procedimento di selezione, né il
coinvolgimento dei dipendenti rimasti estranei alla procedura in concreto
espletata, venendo in discussione la correttezza del procedimento adottato e la
legittimità di tale estraneità (Nella specie, relativa ad una procedura di riduzio‑
ne del personale operata da un Istituto di Vigilanza tra i dipendenti addetti
all’attività di sorveglianza presso la centrale nucleare di Montalto di Castro, la
S.C., nel rigettare il ricorso, ha corretto la motivazione della sentenza impugna‑
ta, rilevando che l’erronea identificazione della platea dei lavoratori interessati
dalla procedura comporta l’inefficacia dei licenziamenti e non l’annullabilità,
prevista per il caso di violazione dei criteri di scelta). Cass. Sez. lav. 03/11/2008
n. 26376.
In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, qualora il pro‑
getto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità
produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavora‑
tori al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità non deve necessaria‑
mente interessare l’intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima
scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico – pro‑
duttive, nell’ambito della singola unità produttiva ovvero del settore interessa‑
to alla ristrutturazione, in quanto ciò non è il frutto di una determinazione
unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze
organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale. All’interno, poi,
dell’unità o settore suddetti, assume rilievo non la categoria di inquadramen‑
to – la quale constando di più profili è scarsamente significativa della reale
organizzazione del lavoro – ma il profilo professionale, come si deduce dall’art.
4 della legge n. 223 del 1991, dove la categoria è menzionata solo tra i dati da
comunicare una volta che la procedura è esaurita (comma nono) e non tra
quelli finalizzati a limitare il novero dei lavoratori oggetto della scelta (com‑
ma terzo). Cass. Sez. lav. 19/05/2005 n. 10590.
Cass. Sez. lav. n. 12879 del 1998 e n. 1335 del 1999 (non trovate).
23In tema di procedura di mobilità, la previsione, di cui all’art. 4, nono comma,
c i v i l e
Gazzetta
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L’atto di recesso comporta l’inserimento del lavoratore
nelle liste di mobilità.
Come dispone la legge, il datore di lavoro deve, inoltre,
assolvere agli oneri informativi nei confronti dell’Ufficio re‑
gionale del lavoro, della commissione regionale del lavoro,
delle associazioni di categorie di cui al comma 2.
Entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi (e non
più contestualmente) 24, il datore di lavoro deve, invero, tra‑
smettere, alle predette parti, l’elenco dei lavoratori collocati
in mobilità con l’indicazione per ciascun soggetto del nomi‑
nativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di
inquadramento dell’età, del carico di famiglia, nonché con
puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati
legge n. 223 del 1991, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione
preventiva con la quale dà inizio alla procedura, deve dare una “puntuale indi‑
cazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche
quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a
specificare nella detta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che
essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavora‑
tore di percepire perché lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del
collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter
eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva. (Nella specie, la
S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato l’illegittimità della
procedura sulla base del mero rilievo formale che la comunicazione conteneva
l’elenco dei soli lavoratori destinatari del provvedimento espulsivo e non di
tutti i dipendenti fra i quali era stata operata la scelta, senza considerare che la
comunicazione indicava specificamente il criterio di scelta, individuato in sede
di accordo sindacale, del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione di
anzianità o vecchiaia, la cui natura oggettiva rendeva superflua la comparazio‑
ne con i lavoratori privi del requisito stesso). Cass. Sez. lav. 06/06/2011
n. 12196.
Nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, la
comunicazione di cui all’art 4, comma nono, che fa obbligo di indicare “pun‑
tualmente” le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei
lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavoratori interessati, alle
organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttez‑
za dell’operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti. A tal fine non è
sufficiente la trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e la comunicazio‑
ne dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, nè la predi‑
sposizione di un meccanismo di applicazione in via successiva dei vari criteri,
poiché vi è necessità di controllare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti
previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, in secondo luogo, nel
caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai previsti licenziamenti, se
siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per
l’individuazione dei dipendenti da licenziare. Cass. Sez. lav. 16/02/2010
n. 3603.
In tema licenziamento collettivo, la specificità degli oneri di comunicazione in
sede di apertura e chiusura della procedura di mobilità, previsti dagli artt. 4,
commi 3 e 9, della legge n. 223 del 1991, fonda la possibilità di controllo sin‑
dacale e individuale dell’operazione, altrimenti insindacabile in sede giudiziaria,
trovando conferma l’importanza di tali adempimenti nella previsione della
sanzione dell’inefficacia dei licenziamenti, anche nel caso di comunicazione
iniziale o finale incompleta o infedele. Ne consegue che, con riguardo alle
modalità di applicazione dei criteri di scelta, la comunicazione ex art. 4, com‑
ma 9, della legge n. 223 del 1991, deve essere specifica e dare pienamente
conto dei criteri effettivamente e concretamente seguiti. (Nella specie, la S.C.,
nel rigettare il ricorso, ha rilevato che correttamente la Corte territoriale aveva
accolto le domande dei lavoratori poiché il datore di lavoro, nell’individuare la
causa della messa in mobilità nel diniego da parte della Prefettura ad alcuni
committenti del nulla osta per asserite infiltrazioni mafiose, aveva ingiustifica‑
tamente circoscritto l’ambito della scelta dei dipendenti da licenziare unicamen‑
te a quelli del cantiere di committenza pubblica, senza chiarire le ragioni ogget‑
tive del nesso tra chiusura dei cantieri e limitazione della scelta, salvo poi pre‑
cisare – al di fuori di ogni comunicazione – di aver limitato il licenziamento
alla manovalanza generica). Cass. Sez. lav. 28/10/2009 n. 22825
24In tema di licenziamenti collettivi, il requisito della contestualità della comuni‑
cazione del recesso al lavoratore e alle organizzazioni sindacali e ai competenti
uffici del lavoro, richiesto a pena d’inefficacia del licenziamento medesimo, non
può che essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo
rigido ed analitico, e con termini molto ristretti, nel senso di una necessaria ed
ineliminabile contemporaneità delle due comunicazioni la cui mancanza, solo
se sostenuta da giustificati motivi di natura oggettiva, da comprovare dal dato‑
re di lavoro, può non determinarne l’inefficacia. Cass. Sez. lav. 31/03/2011
n. 7490 e Cass. Sez. lav. 23/01/2009 n. 1722
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g e n n a i o • f e b b r a i o
applicati i criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1.
La comunicazione assolve ad una finalità informativa nei
confronti della parte pubblica e di garanzia circa la correttez‑
za e trasparenza della procedura nei confronti della parte
privata, fornendole ogni elemento di utile valutazione.
A conferma, giova richiamare la seguente massima:
Nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 lu‑
glio 1991, n. 223, la comunicazione di cui all’art 4, com‑
ma nono, che fa obbligo di indicare “puntualmente” le mo‑
dalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei
lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavorato‑
ri interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi am‑
ministrativi di controllare la correttezza dell’operazione e la
rispondenza agli accordi raggiunti. A tal fine non è sufficien‑
te la trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e la co‑
municazione dei criteri di scelta concordati con le organizza‑
zioni sindacali, nè la predisposizione di un meccanismo di
applicazione in via successiva dei vari criteri, poiché vi è ne‑
cessità di controllare se tutti i dipendenti in possesso dei re‑
quisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutina‑
re e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in
numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati
correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa
per l’individuazione dei dipendenti da licenziare. (Cass.
Sez. lav. 16/02/2010 n. 3603).
6.3. Il sistema sanzionatorio
La riforma del lavoro ha influito sul sistema sanzionato‑
rio.
Al riguardo, é bene evidenziare che:
A) L’art. 4, comma 12, si limitava a stabilire (fino al
17.07.2012) che le comunicazioni previste dal comma 9 (ai
lavoratori ed ai soggetti pubblici e privati ivi indicati) sono
viziate (inefficaci) nel caso di inosservanza delle forme pre‑
scritte e della procedura.
L’art. 1, comma 45, incide sul comma 12 dell’art. 4 legge
n. 223 del 1991 stabilendo, in via aggiuntiva, che: “Gli even‑
tuali vizi della comunicazione di cui al comma 2 del presente
articolo possono essere sanati, ad ogni effetto di legge,
nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della
procedura di licenziamento collettivo».
Per effetto della modifica l’art. 4 comma 12, dal 18.07.2012,
è ora il seguente: “Le comunicazioni di cui al comma 9 sono
prive di efficacia ove siano state effettuate senza l’osservanza
della forma scritta e delle procedure previste dal presente
articolo. Gli eventuali vizi della comunicazione di cui al
comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad ogni
effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso
nel corso della procedura di licenziamento collettivo”.
Per comprendere l’esatta portata dell’intervento non può
prescindersi dalla lettura di quanto previsto dal comma 2
dello stesso articolo 4.
Il comma 2 disciplina le comunicazioni cui è tenuta l’im‑
presa che voglia avviare una procedura di mobilità e dispone
che:
2. Le imprese che intendano esercitare la facoltà di cui al
comma 1 sono tenute a darne comunicazione preventiva per
iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali costituite a
norma dell’articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300,
nonché alle rispettive associazioni di categoria. in mancanza
2 0 1 3
31
delle predette rappresentanze la comunicazione deve essere
effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confede‑
razioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. la
comunicazione alle associazioni di categoria può essere effet‑
tuata tra il tramite dell’associazione dei datori di lavoro alla
quale l’impresa aderisce o conferisce mandato.
Nell’ambito dei vizi procedurali riconducibili alla procedura
di mobilità complessivamente considerata, risulta, quindi, in‑
trodotta, una possibilità di sanatoria dei soli vizi della comuni‑
cazione di cui all’articolo 2, (sanatoria) precedentemente inesi‑
stente.
Ciò posto, va, poi, rilevato che:
B) Il regime delle sanzioni per il licenziamento collettivo
viziato è fondato sul comma 3 dell’articolo 5, modificato
dalla legge di riforma n. 92 del 2012.
Per comodità di lettura si riporta il testo vigente fino al
18.07.2012.
3. Il recesso di cui all’articolo 4, comma 9, è inefficace
qualora sia intimato senza l’osservanza della forma scritta o
in violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, com‑
ma 12, ed è annullabile in caso di violazione dei criteri di
scelta previsti dal comma 1 del presente articolo. Salvo il
caso di mancata comunicazione per iscritto, il recesso può
essere impugnato entro sessanta giorni dal ricevimento della
comunicazione con qualsiasi atto scritto, anche extragiudi‑
ziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche
attraverso l’intervento delle organizzazioni sindacali. al re‑
cesso di cui all’articolo 4, comma 9, del quale sia stata dichia‑
rata l’inefficacia o l’invalidità si applica l’articolo 18 della
legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni.
Fino al 17.07.2012, la norma prevedeva l’inefficacia del
recesso intimato senza l’osservanza della forma scritta o in
violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, com‑
ma 12, e la sua annullabilità in caso di violazione dei criteri
di scelta previsti dal comma 1
In tutti i casi predetti, il lavoratore poteva far valere le sue
ragioni impugnando il licenziamento con l’osservanza delle
forme e nel termine di decadenza previste dall’articolo 6
della legge n. 604 del 1966 per il licenziamento individuale.
Il riconoscimento del vizio comportava l’inefficacia o
l’annullamento del licenziamento con applicazione delle con‑
seguenze previste dall’articolo 18 della legge n. 300 del
1970.
Limitatamente al vizio determinato dalla violazione dei
criteri di scelta, la legge mitigava il rigore sanzionatorio con‑
sentendo al datore di lavoro di sostituire, con altro, il lavora‑
tore mal licenziato, facendo corretto uso dei poteri di scelta
ma senza necessità di ricorrere all’espletamento di una nuova
procedura.
Unico onere aggiuntivo era costituito da una preventiva
comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali.
La legge non poneva limiti quantitativi o temporali alla
facoltà di sostituzione.
Il nuovo comma terzo stabilisce che:
3. Qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservan‑
za della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di
cui all’articolo 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970,
n. 300, e successive modificazioni. In caso di violazione del‑
le procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, si applica
il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del pre‑
civile
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32
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
detto articolo 18. In caso di violazione dei criteri di scelta
previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto
comma del medesimo articolo 18. Ai fini dell’impugnazione
del licenziamento si applicano le disposizioni di cui all’arti‑
colo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modi‑
ficazioni».
Il nuovo regime previsto dalla legge a partire dal 18.07.2012
è naturale conseguenza della diversificazione di tutele previ‑
ste dal nuovo articolo 18.
Sintetim:
1. Innanzitutto, il nuovo terzo comma stabilisce che, ai
fini dell’impugnazione del licenziamento, si applicano le di‑
sposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966,
n. 604, e successive modificazioni.
Si applica cioè quanto previsto per i licenziamenti indivi‑
duali, dopo l’entrata in vigore della legge 4.11.2010 n. 183.
2. Il licenziamento intimato senza l’osservanza della forma
scritta gode della tutela prevista dall’art. 18 comma 25.
3. Il licenziamento intimato in violazione delle procedure
richiamate all’articolo 4, comma 12, gode della tutela prevista
dall’articolo 18, comma 7, terzo periodo.
4. Il licenziamento intimato in violazione dei criteri di
scelta previsti dal comma 1, gode della tutela previsto dall’ar‑
ticolo 18 comma 4.
L’esame comparativo delle due norme rende di immediata
evidenza:
• la previsione, anche per il recesso intimato nell’ambito di
un licenziamento collettivo, della necessità di impugnativa
del recesso 26 secondo il più rigoroso meccanismo predispo‑
sto dal collegato lavoro per il licenziamento individuale.
• la conferma delle conseguenze derivanti dalla varie viola‑
zioni possibili, con diversificazione, in base alle specifiche
violazioni, delle tutele accordate, secondo la nuova filoso‑
fia che sovrintende alla modifica dell’articolo 18.
7. Il licenziamento collettivo per i datori di lavoro
non imprenditori
Il decreto legislativo 8 aprile 2004 n. 110 ha ampliato
l’operatività del licen‑ziamento collettivo anche ai datori di
25In tema di licenziamento collettivo, la chiusura dello stabilimento aziendale cui
sono addetti i lavoratori licenziati non esclude, in linea di principio, la possibi‑
lità di reintegrarli nel posto di lavoro, eventualmente trasferendoli ad altre
unità produttive, ove il datore di lavoro non abbia specificato, nella comunica‑
zione di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991, le ragioni per cui i lavoratori,
in relazione alla loro professionalità, non possano essere utilizzati in altri repar‑
ti dell’azienda. Cass. Sez. lav. 14/02/2011 n. 3597
La reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro può essere disposta anche
nei confronti di una società posta in liquidazione, allorché non risulti avvenuta
la cessazione definitiva dell’attività sociale e l’azzeramento effettivo dell’orga‑
nico del personale. Cass. Sez. lav. 07/02/2011 n. 2983
26In tema di decadenza, si richiama Cass. Sez. lav. 04/05/2009 n. 10235, secondo
cui: “La decadenza dall’impugnativa del licenziamento, individuale o collettivo,
preclude l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e la tutela risar‑
citoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto, sia sul
piano contrattuale, in quanto l’inadempimento del datore di lavoro consista nel
recesso illegittimo in base alla disciplina speciale, sia sul piano extracontrattua‑
le, ove il comportamento illecito dello stesso datore consista, in sostanza,
proprio e soltanto nell’illegittimità del recesso. (Principio affermato in contro‑
versia in cui il lavoratore, pur non invocando l’applicazione, in suo favore,
dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, aveva esperito unicamente
azione risarcitoria per ritenuta illegittimità del comportamento datoriale, rav‑
visata nel mancato rispetto dei criteri dettati dalla legge 23 luglio 1991, n. 223
per l’ individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, senza tuttavia al‑
legare un diverso fatto ingiusto accompagnatosi al licenziamento).
c i v i l e
Gazzetta
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lavoro non imprenditori, estendendo a questi, ma solo in
parte, le disposizioni della legge n. 223 del 1991.
Tanto in applicazione della condanna emessa dalla CGUE
per l’affermata violazione della direttiva n. 59/98
La nozione ed il campo di applicazione del licenziamento
collettivo per riduzione di personale sono identici.
In caso di licenziamento illegittimo comminato da datori
di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro,
attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione,
oppure di religione o di culto (art. 4, comma 1 legge n. 108
del 1990) la tutela spettante non è quella reale prevista dall’ar‑
ticolo 18.
Inoltre, il lavoratore licenziato può iscriversi nelle liste di
mobilità, ma senza beneficiare degli ammortizzatori sociali
(in particolare, indennità di mobilità), né delle agevolazioni
contributive per il nuovo datore di lavoro in caso di loro as‑
sunzione.
8. Licenziamento collettivo e licenziamento individuale plurimo per
giustificato motivo oggettivo
Dopo l’entrata in vigore della L. n. 223 del 1991, secondo
l’orientamento giurisprudenziale largamente maggioritario, il
licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo, che
si distingue radicalmente dal licenziamento individuale per
giustificato motivo oggettivo, anche plurimo, poiché se pur
fondato sulle stesse ragioni oggettive, risulta caratterizzato
dalla rilevanza sociale del fenomeno, rappresentata dalle di‑
mensioni occupazionali dell’impresa (più di quindici dipen‑
denti), dal numero dei licenziamenti (almeno 5), dall’arco
temporale (120 giorni) entro cui sono effettuati i licenziamen‑
ti ed essendo strettamente collegato al controllo preventivo,
sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridi‑
mensionamento della struttura aziendale.
Ne consegue che:
• il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche se
plurimo, qualora non raggiunga i requisiti richiesti per la
ricorrenza del licenziamento collettivo resta sottoposto
alla disciplina del licenziamento individuale prevista
dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966 27;
• attesa la diversità dei presupposti di licenziamento collet‑
tivo rispetto a quelli propri del licenziamento individuale,
non è ammissibile l’ipotesi di una “conversione” del licen‑
ziamento collettivo in licenziamento individuale (vedi, tra
le numerose decisioni, Cass. 23 marzo 2004, n. 5794), né
sarebbe consentito al giudice, adito dal lavoratore per
l’annullamento o l’accertamento di inefficacia di un licen‑
ziamento collettivo, ravvisare, in difetto di domanda ricon‑
venzionale del datore di lavoro, la diversa fattispecie del
licenziamento individuale per giustificato motivo oggetti‑
vo, incorrendo altrimenti in violazione dell’art. 112 c.p.c.
(vedi Cass. 20 dicembre 2004, n. 23611)28.
27 Cass. Sez. lav. 02/01/2001 n. 5, in Notiziario Giurisprudenza del Lavoro, 2001,
4, 480 con nota redazionale.
28 Cass. Sez. lav. 29/10/2010 n. 22167, Cass. Sez. lav. 02/12/2009 n. 25353, Cass.
Sez. Lav. 23/03/2004 n. 5794, in Notiziario Giurisprudenza del Lavoro, 2004,
676, con nota redazionale, Cass. S.U. 11/05/2000 n. 302;
In senso contrario, ma prima dell’entrata in vigore della legge n. 223 del 1991,
si riteneva che “nel caso in cui, in riferimento a licenziamenti che il datore di
lavoro abbia intimato richiamando la disciplina sui licenziamenti collettivi per
riduzione di personale, risulti giudizialmente la mancanza dei relativi presup‑
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posti, formali e sostanziali, il giudice deve fare applicazione della disciplina
generale, qualificando i licenziamenti stessi come individuali (senza che venga
in considerazione l’istituto della conversione in senso tecnico di cui all’art. 1424
cod. civ.) e verificandone di conseguenza la legittimità dal punto di vista forma‑
le e sostanziale. Quindi, anche in tali circostanze, perché si possa ritenere il
potere di recesso legittimamente esercitato per l’esistenza di un giustificato
motivo oggettivo (art. 3, seconda parte, legge n. 604 del 1966), il datore di
lavoro ha l’onere di provare, per ciascun lavoratore – in relazione alla sua po‑
sizione lavorativa ‑, le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazio‑
ne del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, compresa l’impossibilità di
adibirlo ad altre posizioni lavorative.”
civile
9. Cenni sulla trattazione del licenziamento collettivo
è sufficiente, in questa sede, rilevare che i ricorsi depositati
a partire dal 18.07.2012, anche se relativi a licenziamenti in‑
timati precedentemente, vanno trattati con la procedura spe‑
ciale previsti dall’art.1, commi 47‑68, della legge 28.06.2012
n. 92.
è bene evidenziare che tale procedura, secondo l’espressa
previsione del comma 67, trova applicazione limitatamente
alle controversie instaurate successivamente alla data di en‑
trata in vigore della legge.
Tanto premesso, deve poi rilevarsi che la riforma riguarda
come espressamente dispone il comma 47, “le controversie
aventi ad oggetto l’impugnativa di licenziamenti soggetti
alla disciplina dettata dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970,
e successive modificazioni, anche quando devono essere ri‑
solte questioni relative alla qualificazione del rapporto di
lavoro”.
La procedura speciale riguarda solo le cause aventi ad
oggetto:
Le ipotesi di licenziamenti sottoposti alla disciplina det‑
tata dall’articolo 18 legge 20.5.1970 e successive modifiche
(occorre considerare quindi la versione attuale dell’articolo
introdotta dalla stessa legge, vedi precedente comma 42), con
l’aggiunta, di non semplice interpretazione, che tanto vale
“anche se devono essere risolte questioni attinenti alla qua‑
lifica del rapporto”.
Resta pertanto ininfluente (sotto il profilo processuale) la
data del licenziamento, il cui rilievo rimane circoscritto alla
disciplina sostanziale applicabile alla fatti‑specie (“tempus
regit actum”).
Più particolarmente, avuto riguardo al nuovo articolo 18,
il rito speciale certa‑mente si applica, tra l’altro, nel caso di
licenziamenti collettivi.
è, invero, decisivo il richiamo all’applicabilità del regime
sanzionatorio previsto dall’articolo 18 operato dal terzo
comma dell’art. 5 legge n. 223 del 1991, come modificato
dall’art. 1, comma 46 legge n. 92/2012.
Per le problematiche processuali si rinvia alla legge 28
giugno 2012 n. 92, art. 1, commi 47‑68.
34
D i r i t t o
e
●
Potere del giudice
di rilevare d’ufficio
la nullità contrattuale
e principi della domanda
e della corrispondenza
tra chiesto e pronunciato:
il punto delle Sezioni unite
● Roberta Catalano
Ricercatore in Diritto civile
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Nullità contrattuale – Rilevabilità d’ufficio – Potere del giudi‑
ce – Principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e
pronunciato.
Il giudice di merito ha il potere di rilevare, dai fatti alle‑
gati e provati o emergenti ex actis, ogni forma di nullità non
soggetta a regime speciale e, provocato il contraddicono sul‑
la questione, deve rigettare la domanda di risoluzione, volta
ad invocare la forza del contratto. Pronuncerà con efficacia
idonea al giudicato sulla questione di nullità ove, anche a
seguito di rimessione in termini, sia stata proposta la relativa
domanda. Nell’uno e nell’altro caso dovrà disporre, se richie‑
sto, le restituzioni.
Cass. Civ., Sez. Un., 04 settembre 2012, n. 14828
Pres. P. Vittoria, Rel. P. D’Ascola
(Omissis)
Motivi della decisione
2) Secondo l’orientamento dominante in giurisprudenza,
“il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità di un
contratto ex art. 1421 c.c. va coordinato col principio della
domanda fissato dagli art. 99 e 112 c.p.c., sicché solo se sia in
contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui
validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il
giudice è tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del giudi‑
zio, l’eventuale nullità dell’atto, indipendentemente dall’attivi‑
tà assertiva delle parti. Al contrario, qualora la domanda sia
diretta a fare dichiarare la invalidità del contratto o la risolu‑
zione per inadempimento, la deduzione (nella prima ipotesi)
di una causa di nullità diversa da quella posta a fondamento
della domanda e (nella seconda ipotesi) di una qualsiasi causa
di nullità o di un fatto costitutivo diverso dall’inadempimento,
sono inammissibili: né tali questioni possono essere rilevate
d’ufficio, ostandovi il divieto di pronunciare ultra petita” (tra
le tante v. Cass. 2398/88; 6899/87). Cass. n. 1127/70 sostenne
con chiarezza che la rilevabilità ex officio della nullità del
contratto, sancita dall’art. 1421 c.c., opera, anche in sede di
impugnazione, quando si chieda in giudizio l’applicazione del
contratto, perché in tal caso “la legge stessa respinge con la
forza dei suoi principi imperativi gli effetti che promanano da
un negozio affetto da nullità assoluta”. Aggiunse che quando
in giudizio non si chiede l’applicazione del contratto, ma la
risoluzione di esso, il giudice non può dichiarare ex officio la
nullità, perché il divieto di decidere su domande non proposte
si concreta in un preclusione all’esercizio della giurisdizione,
la cui violazione “da luogo a vizio di extrapetizione”. Questo
insegnamento si è tramandato con continuità di accenti (cfr.
Cass. 14/71; 661/71; 3443/73; 243/77; 5295/78; 5766/79),
sebbene significativamente resistito dalla coeva Cass. n.578/70,
la quale aveva, proprio in ipotesi di domanda di risoluzione di
contratto preliminare relativo a compravendita nulla perché
simulata, semplicemente osservato che la Corte di appello
avrebbe dovuto senz’altro rilevare la nullità, “dal momento
che la nullità può essere rilevata dal giudice anche d’ufficio”
(v. anche Cass. 550/86).
2.1) Negli anni successivi, accanto a pronunce conformi
all’orientamento tradizionale (indicativamente cfr. Cass.
4817/99; 1378/99; 4607/95; 4064/95; 1340/94; 141/93), co‑
stanti nel ribadire che la nullità del contratto è rilevabile d’uf‑
ficio, sempre che risultino acquisiti al processo gli elementi che
la evidenziano, solo nella controversia promossa per far valere
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
diritti presupponenti la validità del contratto stesso, non anche
nella diversa ipotesi in cui la domanda prescinda dalla suddet‑
ta validità, come quando la domanda sia diretta a far dichia‑
rare l’invalidità del contratto o a farne pronunciare la risolu‑
zione per inadempimento, mette conto segnalare, in senso
opposto, qualche significativa presa di posizione del giudice di
legittimità. Trattasi di Cass. n. 2858/97 (e anche Cass.
6710/94), che ha ritenuto che “la nullità di un contratto del
quale sia stato chiesto l’annullamento (ovvero la risoluzione o
la rescissione) può essere rilevata d’ufficio dal giudice, in via
incidentale, senza incorrere in vizio di ultrapetizione, atteso
che in ognuna di tali domande è implicitamente postulata
l’assenza di ragioni che determinino la nullità del contratto;
pertanto il rilievo di quest’ultima da parte del giudice da luogo
a pronunzia che non eccede il principio dell’art. 112 c.p.c.”.
2.2) Fino all’anno 2005, nel corso del quale il contrasto si
è radicato con maggior vigore, si censiscono numerose sen‑
tenze ispirate all’orientamento tradizionale (v. Cass. n. 123/00;
12644/00; 13628/01; 435/03; 2637/03). Cass. 3 sez civ.
22.3.2005 n. 6170 ha vistosamente infranto questo fronte
giurisprudenziale, affermando, in accordo con la dottrina
quasi unanime, che le domande di risoluzione e di annulla‑
mento presuppongono la validità del contratto, dunque “im‑
plicano, e fanno valere, un diritto potestativo di impugnativa
contrattuale nascente dal contratto in discussione, non meno
del diritto all’adempimento”. La Corte ha in quell’occasione
evidenziato che la domanda di risoluzione contrattuale è
animata da sostanziale identità di presupposti con la doman‑
da di adempimento, secondo quanto riconosciuto da Cass.
Sez. Un. 13533/01. L’accertamento sulla nullità del contratto
ha, secondo Cass. 6170/05, natura di pronuncia incidentale
su una pregiudiziale in senso logico, con la conseguenza che:
a) il giudice deve dichiarare d’ufficio la nullità negoziale in
ogni caso; e b) l’accertamento d’ufficio ex art. 1421 c.c., ha
effetto anche in successivi giudizi imperniati sul contratto
dichiarato nullo, non perché si verta in ipotesi di cui all’art.
34 c.p.c., ma “perché l’efficacia della decisione di detta nulli‑
tà, pregiudiziale alla statuizione di rigetto della domanda,
costituisce giudicato implicito”.
2.3) L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite da conto
del successivo radicalizzarsi delle due posizioni.
3) Da un lato l’ulteriore frazionarsi del quadro giurispru‑
denziale; dall’altro le gravi incertezze derivanti dalla radica‑
lizzazione delle conseguenze delle due tesi impongono la
composizione del contrasto. Occorre partire dai rilievi che da
gran tempo la dottrina ha formulato con riguardo al rappor‑
to tra azione di risoluzione e nullità del contratto. Si è osser‑
vato che la domanda di risoluzione comporta l’esistenza di un
atto valido, perché mira a eliminarne gli effetti. Domanda di
adempimento e domanda di risoluzione implicano quindi allo
stesso modo la richiesta di applicazione del contratto, presup‑
ponendo che esso sia valido. La funzione dell’art. 1421 cc, è
di impedire che il contratto nullo, sul quale l’ordinamento
esprime un giudizio di disvalore, possa spiegare i suoi effetti.
Il compito di far valere la nullità è in via di azione affidato a
chiunque abbia interesse, ma al giudice, al quale si chiede di
giudicare secundum ius, spetta di rilevare se un atto è nullo e
quindi di evidenziare in giudizio la mancanza di fondamento
di una domanda che presupponga la sussistenza dei requisiti
di validità del contratto.
2 0 1 3
35
3.1) L’aver insistentemente negato che l’azione di risolu‑
zione presupponga, dal punto di vista logico, la validità del
contratto e che dunque sia possibile la risoluzione del contrat‑
to nullo è tesi invisa alla maggioranza della dottrina civilisti‑
ca. La spiegazione dell’atteggiamento giurisprudenziale ostile
al rilievo officioso della nullità riposa sulla doppia natura
della norma, che è all’incrocio tra diritto sostanziale e diritto
processuale. Se si rammentano le ragioni della giurisprudenza
maggioritaria sopra riassunte, si nota che la ritrosia delle
Corti rispetto al rilievo della nullità del contratto nasce da
timori di natura processuale, quali la violazione del principio
di terzietà e dell’obbligo di corrispondenza tra chiesto e pro‑
nunciato. Ciò ha portato a una riduttiva lettura dell’art. 1421
c.c., ipotizzando che solo l’azione di adempimento richieda la
verifica dell’esistenza dei requisiti di validità ed efficacia del
negozio da cui è sorta l’obbligazione, questione su cui vi è
invece da interrogarsi per ogni azione contrattuale. Si è quin‑
di verificata una inversione logica, prontamente segnalata in
dottrina: per il timore dell’extrapetizione e quindi di amplia‑
re indebitamente la formazione del giudicato, anziché ragio‑
nare sulla portata della decisione conseguente al rilievo offi‑
cioso della nullità, si è preferito restringere l’area in cui detta
questione è rilevabile, limitandola (oltre che all’azione di
nullità espressamente proposta) all’azione di adempimento.
Questa linea interpretativa non è più sostenibile.
3.2) Essa in primo luogo svilisce la categoria della nullità,
l’essenza della quale, pur con i molti distinguo dottrinali su cui
non è il caso di soffermarsi, risiede nella tutela di interessi ge‑
nerali, di valori fondamentali o che comunque trascendono
quelli del singolo. La qualificazione negativa che l’ordinamento
da del contratto viene elusa dall’orientamento fin qui dominan‑
te, il che è incoerente con l’insegnamento professato in ipotesi
di domanda di esecuzione del contratto. Si è infatti affermato
(S.U. 21095/04) che la nullità può essere rilevata d’ufficio, in
qualsiasi stato e grado del giudizio, indipendentemente dall’at‑
tività assertiva delle parti, quindi anche per una ragione diver‑
sa da quella espressamente dedotta, nel caso in cui sia in con‑
testazione l’applicazione o l’esecuzione del contratto, la cui
validità rappresenta quindi un elemento costitutivo della do‑
manda; con la conseguenza che la contestazione della validità
dell’atto non costituisce domanda giudiziale, bensì mera difesa,
che non condiziona l’esercizio del potere di dichiarare d’ufficio
la nullità per vizi diversi da quelli eccepiti.
3.3) In secondo luogo viene depotenziato il ruolo che
l’ordinamento affida all’istituto della nullità, per esprimere il
disvalore di un assetto di interessi negoziale. Non può negar‑
si che, nonostante talune critiche degli operatori del diritto,
esso è stato negli ultimi decenni ampliato, introducendo con
la legislazione speciale nuovi casi di nullità contrattuale.
Questo ruolo trae forza anche dalla previsione della rilevabi‑
lità di ufficio, che, salvi i casi di espressa deroga, contribuisce
a definire il carattere indisponibile delle norme in tema di
nullità. Infatti, al di là delle distinzioni tra le stesse ipotesi di
nullità previste nel codice, che anche in giurisprudenza sono
state in proposito tentate, l’unica differenza che rilevi ai fini
del disposto normativo in esame è quella ravvisabile con le
nullità per le quali sia dettato un regime speciale, come nel
caso delle c.d. nullità di protezione, in cui il rilievo del vizio
genetico è espressamente rimesso alla volontà della parte.
3.4) Con riferimento al regime delle nullità, occorre por‑
civile
Gazzetta
36
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
tare l’attenzione su quanto è stato stabilito dalla Corte di
Giustizia delle Comunità Europee, Sez. 4, 4 giugno 2009,
causa 0243/08 ha stabilito che il giudice deve esaminare d’uf‑
ficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e, in
quanto nulla, non applicarla, tranne nel caso in cui il consu‑
matore vi si opponga. L’uso in questa sentenza del termine
obbligo, anziché di quello facoltà, in precedenza comune, è
stato inteso come acquisita consapevolezza del concetto di
dovere dell’ufficio di rilevare la nullità ogniqualvolta il con‑
tratto sia elemento costitutivo della domanda. Dunque non di
facoltà propriamente trattasi, ma di obbligo, così come il
verbo “può” usato nell’art. 1421 c.c., è da intendersi “deve”,
laddove la domanda proposta implichi la questione da rileva‑
re e non si ponga quindi un problema di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato. Di sicura importanza è poi la sentenza
Asturcom (6 settembre 2009 in procedimento C‑ 40/08), in
forza della quale il giudice è tenuto, a partire dal momento in
cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal
fine, a valutare d’ufficio il carattere abusivo della clausola
contenuta in un contratto stipulato tra un professionista e un
consumatore, qualora, secondo le norme procedurali nazio‑
nali, egli possa procedere a tale valutazione nell’ambito di
ricorsi analoghi di natura interna. In tal caso, incombe a
detto giudice di trarre tutte le conseguenze che ne derivano
secondo il diritto nazionale, affinché il consumatore di cui
trattasi non sia vincolato da detta clausola. Dalla considera‑
zione che la giurisprudenza comunitaria attribuisce al pote‑
re‑dovere di rilievo d’ufficio della nullità, risulta ancor più
appropriato parlare di disagio del civilista in caso di mancato
uso dei poteri officiosi.
4) Si torna per questa via ai profili processuali, dai quali
ha tratto spunto l’orientamento restrittivo. Muovendo dal
rilievo, sopra argomentato, che l’azione di risoluzione per
inadempimento è coerente solo con l’esistenza di un contratto
valido, va detto che la nullità del contratto è un evento impe‑
ditivo che si pone prioritariamente rispetto alla vicenda
estintiva della risoluzione. Il giudice chiamato a pronunciarsi
sulla risoluzione di un contratto, di cui emerga la nullità dai
fatti allegati e provati e comunque ex actis, non può sottrarsi
all’obbligo del rilievo e ciò non conduce ad una sostituzione
dell’azione proposta con altra. Soltanto fa emergere una ecce‑
zione rilevabile d’ufficio, che può condurre a variabili svilup‑
pi processuali, ma con cui viene qualificata una ineliminabile
realtà del rapporto controverso, senza squilibrare i rapporti
tra le parti, né introdurre una materia del contendere che non
faccia già parte dell’oggetto del giudizio. In quel giudizio, che
mira a riconoscere vigore ai contratto, viene eccepito, anche
d’ufficio, come d’obbligo, un impedimento costituito da un
motivo di nullità, con la conseguenza, salvo quanto si dirà nel
paragrafo seguente, del rigetto della domanda di risoluzione
per una ragione che impedisce di accertare quale delle due
parti sia inadempiente. Opera così l’innegabile funzione op‑
positiva del potere‑dovere di cui all’art. 1421, sicuramente
individuata dall’orientamento restrittivo, ma da esso non ben
coniugata con la regola di cui all’art. 112 c.p.c., giacché la
decisione, in questi limiti, resta sicuramente nell’ambito del
petitum. La stessa funzione, si badi, non è con altrettanto
nitore ravvisabile nel caso di azione di annullamento, il che
peraltro rafforza il convincimento che si viene esprimendo in
tema di azione di risoluzione. Invero alcuni autori, nell’inda‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
gare la tematica che ci occupa e più in generale la funzione
dell’azione di nullità, hanno evidenziato che la rilevazione
incidentale della nullità è doverosa nel casi di azione per l’ese‑
cuzione o la risoluzione del contratto, ma non nel caso in cui
siano allegati altri vizi genetici, come avviene nell’azione di
annullamento. La relativa domanda non postula la validità
del contratto, sicché, sebbene la tradizione giurisprudenziale
e dottrinale dell’orientamento favorevole al rilievo d’ufficio
apparenti le ipotesi di risoluzione, annullamento e rescissione,
andrà a suo tempo verificato se sussistano i presupposti per
questa equiparazione.
4.1) Gli orientamenti giurisprudenziali sin qui manifesta‑
tisi hanno trascurato gli esiti processuali che pure la dottrina
aveva intuito da molto tempo e che ha ora delineato con pre‑
cisione anche grazie, da ultimo, alle modifiche degli artt. 101
e 153 c.p.c.. Sin dalla versione originaria del codice di rito, il
secondo comma dell’art. 183 prevedeva il dovere del giudice
di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio, – tra le
quali senza dubbio rientra la nullità del contratto – con la
possibilità di armonizzare il principio di cui all’art. 1421 c.c.
con quelli del contraddittorio, della domanda e della corri‑
spondenza tra chiesto e pronunciato. A seguito della riforma
di cui alla legge 353/90, l’introduzione del regime delle pre‑
clusioni ha reso ancor più stringente, per effetto delle scansio‑
ni temporali, questo obbligo del giudice (trasfuso prima nel
terzo e ora nel quarto comma del medesimo articolo), indi‑
spensabilmente connesso alla conoscenza dei fatti di causa
anche tramite la richiesta di chiarimenti, eventualmente in
sede di libero interrogatorio. È questo il manifestarsi del
principio di collaborazione tra giudice e parti, e non un inna‑
turale esercizio dei poteri processuali, come pure ha temuto
parte della dottrina che ha sorretto l’orientamento restrittivo.
A seguito del rilievo officioso, le parti hanno possibilità di
formulare domanda che ne sia conseguenza (arg. ex art. 183
comma IV, ora comma V) e quindi anche la eventuale doman‑
da di risoluzione potrà essere convertita in (o cumulata con)
azione di nullità. A favorire questo sviluppo processuale, che,
è da credere, avrà corso nella maggior parte dei casi, confi‑
nando ad ipotesi residuali la insistenza esclusivamente nell’ini‑
ziale domanda di risoluzione, sono anche le recenti modifiche
sopra indicate. Il nuovo comma secondo dell’art. 101 c.p.c.
(aggiunto dall’art. 45 L. 69/09, ma già v. art. 384 c.p.c.) im‑
pone anche al giudice che sia in fase di riserva della decisione,
se ritiene di porre a fondamento di quest’ultima una questio‑
ne rilevata d’ufficio, di assegnare alle parti un termine per
memorie contenenti osservazioni sulla questione. L’art. 153
ha ampliato la facoltà di essere rimessa in termini della parte
che sia incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabi‑
le, come accade quando il rilievo officioso giunga tardivamen‑
te. In tal caso il giudice dovrà, nei limiti schiusi dal rilievo
stesso, consentire la formulazione di ogni conseguente dedu‑
zione. Giova osservare che già la problematica era stata mes‑
sa a fuoco in relazione alla nullità della sentenza c.d. della
terza via (si veda Cass. 14637/01). Con pienezza di argomen‑
ti, Cass. 21108/05 ha successivamente precisato che il giudice
che ritenga, dopo l’udienza di trattazione, di sollevare una
questione rilevabile d’ufficio e non considerata dalle parti,
deve sottoporla ad esse al fine di provocare il contraddittorio
e consentire lo svolgimento delle opportune difese, dando
spazio alle consequenziali attività. La mancata segnalazione
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
da parte del giudice comporta la violazione del dovere di
collaborazione e determina nullità della sentenza per viola‑
zione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del
contraddittorio, con le connesse facoltà di modificare doman‑
de ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste
istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione so‑
litaria. Qualora la violazione, nei termini suindicati, si sia
verificata nel giudizio di primo grado, la sua denuncia in
appello, accompagnata dalla indicazione delle attività proces‑
suali che la parte avrebbe potuto porre in essere, cagiona, se
fondata, non già la regressione al primo giudice, ma, in forza
del disposto dell’art. 354 comma quarto cod. proc. civ., la
rimessione in termini per lo svolgimento nel processo d’appel‑
lo delle attività il cui esercizio non è stato possibile. È questa
dunque la via da percorrere, che pone nel nulla tutte le per‑
plessità in tema di extrapetizione, poteri del giudice e “sog‑
gettivismo giudiziario” a suo tempo fatte proprie dalla giuri‑
sprudenza maggioritaria riassunta sub 2.2.
4.1.1) Altro esito del rilievo d’ufficio della nullità e del
relativo accertamento è l’accoglimento di ogni richiesta for‑
mulata unitamente alla domanda di risoluzione e compatibi‑
le con la diversa ragione rappresentata dalla nullità, come
avviene nel caso di domanda restitutoria. Questa conseguen‑
za si verifica senz’altro in ipotesi di modifica della domanda
con richiesta di declaratoria della nullità. Altrettanto avverrà
però in ipotesi di rigetto – fondato sulla nullità contrattuale
rilevata d’ufficio – della domanda di risoluzione, alla quale
sia associata, anche originariamente, la richiesta di condanna
alle restituzioni. Il rilievo della nullità fa venir meno la “cau‑
sa adquirendi” e la richiesta di restituzione del bene conse‑
gnato in esecuzione del contratto, che era già stata formulata
con la pretesa iniziale, sarà accolta sulla base di questo pre‑
supposto, senza bisogno di espressa dichiarazione della nul‑
lità. Va infatti confermato che qualora venga acclarata la
mancanza di una “causa adquirendi” – tanto nel caso di nul‑
lità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto,
quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno
il vincolo originariamente esistente – l’azione accordata dalla
legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecu‑
zione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito
oggettivo; ne consegue che, ove sia proposta una domanda di
risoluzione del contratto per inadempimento e il giudice rile‑
vi, d’ufficio, la nudità del medesimo, l’accoglimento della ri‑
chiesta restitutoria conseguente alla declaratoria di nullità,
non mutando la causa petendi, non viola il principio di corri‑
spondenza tra chiesto e pronunciato (v. Cass. 2956/11 cit.)
inoltre cfr. Cass. 9052/10; 1252/00; e anche 21096/05;
5624/09).
4.2) La mancata segnalazione da parte del giudice com‑
porta la violazione del dovere di collaborazione e determina
nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle
parti, private dell’esercizio del contraddittorio, con le connes‑
se facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti
nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione che ha
condotto alla decisione solitaria. Qualora la violazione, nei
termini suindicati, si sia verificata nel giudizio di primo grado,
la sua denuncia in appello, accompagnata dalla indicazione
delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in
essere, cagiona, se fondata, non già la regressione al primo
giudice, ma, in forza del disposto dell’art. 354 comma quarto
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cod. proc. civ., la rimessione in termini per lo svolgimento nel
processo d’appello delle attività il cui esercizio non è stato
possibile. È questa dunque la via da percorrere, che pone nel
nulla tutte le perplessità in tema di extrapetizione, poteri del
giudice e “soggettivismo giudiziario” a suo tempo fatte pro‑
prie dalla giurisprudenza maggioritaria riassunta sub 2.2
5) Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso
nei limiti suddetti, con enunciazione del seguente principio: Il
giudice di merito ha il potere di rilevare, dai fatti allegati e
provati o emergenti ex actis, ogni forma di nullità non sog‑
getta a regime speciale e, provocato il contraddicono sulla
questione, deve rigettare la domanda di risoluzione, volta ad
invocare la forza del contratto. Pronuncerà con efficacia ido‑
nea al giudicato sulla questione di nullità ove, anche a segui‑
to di rimessione in termini, sia stata proposta la relativa do‑
manda. Nell’uno e nell’altro caso dovrà disporre, se richiesto,
le restituzioni. La sentenza impugnata va cassata e la causa
rinviata per nuovo esame ad altra sezione della Corte di ap‑
pello di Venezia, che provvedere anche in ordine alle spese di
questo grado di giudizio.
• • • Nota a sentenza
1. Con la decisione in epigrafe le Sezioni unite intervengo‑
no a comporre un contrasto sorto tra le Sezioni semplici in
ordine ai limiti entro i quali il giudice può rilevare d’ufficio la
nullità del contratto ai sensi dell’art. 1421 c.c.1.
Questi, in estrema sintesi, i due orientamenti da cui ha
tratto origine il contrasto.
Secondo l’opinione più tradizionale, la nullità è rilevabile
d’ufficio solo quando la domanda abbia ad oggetto l’adempi‑
mento del contratto e non anche quando il giudizio sia inizia‑
to con una azione di annullamento, rescissione o risoluzione.
Si osserva, infatti, che l’assenza di cause di nullità del contrat‑
to è presupposta dall’azione di adempimento ma non anche
dalle azioni di rescissione, risoluzione e annullamento, che si
fondano sull’accertamento di elementi e circostanze specifi‑
che, affatto diverse da quelle poste a base della nullità; sicché
la nullità può essere rilevata di ufficio nel primo caso, ma non
anche quando il petitum riguardi l’annullamento, la rescissio‑
ne ovvero la risoluzione del contratto stanti i limiti imposti
dai principi della domanda (art. 99 c.p.c.) e della corrispon‑
denza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 c.p.c.)2.
Secondo un diverso e più recente orientamento, invece, la
nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice, in via inciden‑
tale, senza incorrere nel vizio di ultrapetizione, anche se la
richiesta miri ad ottenere l’annullamento, la rescissione o la
risoluzione del contratto; e ciò in quanto – si afferma – ognu‑
na di tali domande implicitamente postula l’assenza di ragio‑
1Nel quadro della più recente dottrina che ha esaminato le questioni sorte circa
i limiti entro i quali il giudice può rilevare ex officio la nullità ai sensi dell’art.
1421 c.c. v., ex multis, Nardi, Nullità del contratto e potere‑dovere del giudice,
in Riv. dir. civ., 2012, 155 e ss.; Pagliantini, Struttura e funzione dell’azione di
nullità contrattuale, ivi, 2011, 751 e ss.; Pirovano, Rilevabilità d’ufficio della
nullità e domanda di risoluzione, in Contratti, 2011, 681 e ss.; Corsini, Rileva‑
bilità d’ufficio della nullità contrattuale, principio della domanda e poteri del
giudice, in Riv. dir. civ., 2004, 667 e ss.
2Tra le numerose altre v. Cass. 6 ottobre 2006, n. 21632, ivi, 2007, I, 430 e ss.;
Cass. 18 maggio 1999, n. 4817, ivi, 1999, I, 2542 e ss.; Cass. 9 febbraio 1994,
n. 1340, ivi, 1995, I, 611 e ss.
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ni che determinano l’inefficacia del contratto e, quindi, con‑
sente il rilievo ex officio della nullità senza eccedere i limiti
di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c.3.
La controversia in ordine alla quale sono chiamate a pro‑
nunciarsi le Sezioni Unite concerne, appunto, la richiesta di
risoluzione di un contratto preliminare di permuta del quale
una delle parti eccepisce, però solo in secondo grado, la nul‑
lità. Tale eccezione viene dichiarata inammissibile perché
volta ad introdurre in appello una questione nuova e di ciò si
duole la parte soccombente con ricorso in Cassazione. I Su‑
premi giudici, censurando la pronuncia di appello e distac‑
candosi dall’orientamento giurisprudenziale più tradizionale,
ammettono la rilevabilità d’ufficio della nullità anche in sede
di gravame e nonostante che il giudizio pendente tragga ori‑
gine da una azione di risoluzione.
Le Sezioni Unite affermano che “l’azione di risoluzione
per inadempimento è coerente solo con l’esistenza di un con‑
tratto valido”, poiché “la nullità del contratto è un evento
impeditivo che si pone prioritariamente rispetto alla vicenda
estintiva della risoluzione”. Pertanto, “il giudice chiamato a
pronunciarsi sulla risoluzione di un contratto, di cui emerga
la nullità dai fatti allegati e provati e comunque ex actis, non
può sottrarsi all’obbligo del rilievo e ciò non conduce ad una
sostituzione dell’azione proposta con altra”. E ciò seppure
della nullità il giudicante si accorga solo in secondo grado;
infatti, il secondo comma dell’art. 183 prevede “il dovere del
giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d’uffi‑
cio, – tra le quali senza dubbio rientra la nullità del contrat‑
to – con la possibilità di armonizzare il principio di cui all’art.
1421 c.c. con quelli del contraddittorio, della domanda e
della corrispondenza tra chiesto e pronunciato”.
I Supremi giudici chiariscono infatti che la mancata segna‑
lazione alle parti delle eccezioni rilevabili d’ufficio comporta
“la violazione del dovere di collaborazione e determina nullità
della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti,
private dell’esercizio del contraddittorio, con le connesse facol‑
tà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e
formulare richieste istruttorie sulla questione che ha condotto
alla decisione solitaria”. Dunque, “qualora la violazione, nei
termini suindicati, si sia verificata nel giudizio di primo grado,
la sua denuncia in appello, accompagnata dalla indicazione
delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in
essere, cagiona, se fondata, non già la regressione al primo
giudice, ma, in forza del disposto dell’art. 354 comma quarto
cod. proc. civ., la rimessione in termini per lo svolgimento nel
processo d’appello delle attività il cui esercizio non è stato
possibile. È questa dunque la via da percorrere, che pone nel
nulla tutte le perplessità in tema di extrapetizione”.
2. La sentenza in epigrafe si segnala perché, con argomen‑
tazioni condivisibili, supera un orientamento giurispruden‑
ziale risalente e radicato in una tradizione di pensiero assai
autorevole. E precisamente, negli studi dedicati da Giuseppe
Chiovenda alla categoria delle eccezioni processuali.
Fu Chiovenda infatti, sulle orme di alcuni pandettisti te‑
deschi, a proporre la ripartizione delle eccezioni in tre gruppi
ed a comprendere nel primo gruppo “qualunque mezzo di cui
il convenuto si serva per giustificare la domanda di rigetto e
quindi anche la semplice negazione del fondamento della
domanda attrice”; nel secondo gruppo solo le difese di merito
non consistenti nella “semplice negazione del fatto costitutivo
del fatto affermato dall’attore, ma nella contrapposizione di
un fatto impeditivo o estintivo che escluda gli effetti giuridici
del fatto costitutivo affermato dall’attore e quindi dell’azione
(esempi, eccezioni di simulazione, di pagamento, di novazio‑
ne); e nel terzo gruppo, denominato delle eccezioni in senso
stretto, le difese che costituiscono la proiezione processuale
difensiva di azioni esercitabili in via autonoma che, in quanto
tali, non sono rilevabili d’ufficio dal giudice. Fu Chiovenda,
quindi, a proporre l’inclusione della nullità nel novero delle
eccezioni in senso stretto non rilevabili d’ufficio 4.
Queste autorevoli conclusioni ebbero grande seguito tra
gli interpreti perché proponevano una sistemazione convin‑
cente di un materiale normativo, quello post‑unitario, ancora
assai caotico e disordinato. Inoltre, l’inclusione dell’eccezione
di nullità tra quelle in senso stretto appariva assai plausibile
perché il codice civile del 1865 – vigente all’epoca dei citati
scritti di Chiovenda – non conteneva alcuna norma che dispo‑
nesse espressamente la rilevabilità d’ufficio della nullità con‑
trattuale5.
Si formò così una tradizione di pensiero che è stata poi
tenacemente rispettata dalla giurisprudenza fino ai nostri
giorni nonostante, nel frattempo, sia entrato in vigore il codi‑
ce civile del 1942 il quale, all’art. 1421 c.c., prevede espressa‑
mente la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto 6. Al
riguardo, infatti, i giudici fedeli alla tradizione osservano che
il potere di cui all’art. 1421 c.c. è comunque sottoposto ai li‑
miti di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c., cosicché può essere eser‑
citato solo quando l’efficacia del contratto sia elemento costi‑
tutivo dell’azione – come nel caso della domanda di adempi‑
mento – e non nelle altre ipotesi.
Questa opinione, non convince per una molteplicità di
motivi da ultimo accolti dalla decisione in commento.
3. La lettera dell’art. 1421 c.c. non conforta affatto l’orien‑
tamento giurisprudenziale tradizionale, che si palesa viepiù
insoddisfacente ove solo si consideri che il legislatore, quando
ha voluto limitare la rilevabilità ex officio di un fatto ai soli
giudizi di adempimento, lo ha fatto espressamente. Come, ad
esempio, nell’art. 1442, ult. co., c.c., alla cui stregua l’ecce‑
zione imprescrittibile di annullamento può “essere opposta
dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto”.
3Tra le altre v. Cass. 22 marzo 2005, n. 6170, in Corr. Giur., 2005, 957 e ss.;
Cass. 2 aprile 1997, n. 2858, in Giust. civ., 1997, I, 2459 e ss.
Sulla rilevabilità d’ufficio della nullità di protezione prevista dalla dir. 93/13/Ce
in materia di clausole abusive v. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 4
giugno 2009, causa 0243/08, in Racc. Giur. Corte Giust., 2009, I‑04713; ed
anche in Contratti, 2009, 1115 e ss., con nota di Monticelli, La rilevabilità
d’ufficio condizionata della nullità di protezione: il nuovo ‘atto’ della Corte di
Giustizia. V. anche, da ultimo, G. Bilo’, Rilevabilità d’ufficio e potere di conva‑
lida nelle nullità di protezione del consumatore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011,
484 e ss.
4Le frasi tra virgolette sono tratte da Chiovenda, Istituzioni di diritto processua‑
le civile, Napoli, 1944, 304‑305; sulle eccezioni in senso stretto v. anche Id.,
Principi di diritto processuale, Napoli, 1928, 273.
5Sulla disorganicità del tessuto normativo post‑unitario, specie in relazione alle
norme del codice civile del 1865 concernenti l’invalidità contrattuale, v. Sacco,
Nullità e annullabilità (dir. civ.), Noviss. Dig. it., XI, Torino, 1965, 464 e ss.
6 Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli, 1983, 108 in nota.
Si ispira chiaramente alle tesi di Chiovenda, nonostante che all’epoca fosse già
entrato in vigore l’art. 1421 del codice civile del 1942, Cass. 13 aprile 1959,
1086, in Giust. civ., 1959, I, 1, 1010.
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7Irti, Risoluzione di un contratto nullo?, in Foro pad., 1971, 743. Ma v. anche
Amato, Risoluzione, rescissione o annullamento di un contratto nullo, in Giur.
it., 1971, I, 1, 445‑6.
8Mariconda, Bonfilio, L’azione di nullità, in I contratti in generale, a cura di
Alpa e Bessone, in Giur. sist. giur. civ. e comm., Torino, 1991, 467 e ss. In
giurisprudenza cfr. con le sentenze già indicate nella nota 3.
9 Cfr. per tutte l’analisi di Massetani, Ingiustificate limitazioni alla rilevabilità
d’ufficio della nullità del contratto, in Foro it., 1989, I, 1943 e ss.
10 Amato, Risoluzione, rescissione o annullamento di un contratto nullo, cit., 446;
Massetani, Ingiustificate limitazioni alla rilevabilità d’ufficio della nullità del
contratto, cit., 1944.
11Tra i primi ad indicare l’art. 183 c.p.c. come una possibile soluzione al proble‑
ma della rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale Protopisani, Nota a Cass.
18 aprile 1970, n. 1127, in Foro it., 1970, I, 1908 e ss.; ID., Lezioni di diritto
processuale civile, Napoli, 1994, 106 e ss. Al riguardo v. anche Bonfilio, Mari‑
conda, L’azione di nullità, cit., 501.
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Non convince, poi, l’affermazione che solo l’azione di
adempimento – e non anche quelle di risoluzione, rescissione
ed annullamento – include tra i propri elementi costitutivi
l’assenza di cause di nullità del contratto. Infatti, al riguardo
è facile constatare che quando il contratto è inefficace in ra‑
gione della sua nullità, non può sussistere, evidentemente,
alcun rapporto contrattuale da rescindere perché squilibrato,
o da risolvere per l’inadempimento, l’eccessiva onerosità o
l’impossibilità sopravvenuta; allo stesso modo l’annullamento,
mirando ad eliminare retroattivamente gli effetti contrattua‑
li, comunque presuppone che quegli effetti il contratto li abbia
prodotti7.
Inoltre, a rafforzare queste considerazioni intervengono
gli artt. 793, co. 3 e 4, e 1453 c.c. che, riferendosi all’azione
di adempimento e di risoluzione come a risposte alternative
all’identica fattispecie dell’inadempimento, dimostrano l’iden‑
tità di presupposti di queste azioni8. Identità di presupposti
che risulta confermata persino dalla giurisprudenza la qua‑
le – dimentica di quanto sinora caparbiamente sostenuto
circa la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto – ormai
pacificamente riconosce la continenza (art. 39 c.p.c.) nei giu‑
dizi di adempimento sia delle cause di risoluzione sia delle
cause di annullamento; così come quando riconosce la conti‑
nenza delle causa di annullamento nei giudizi di risoluzio‑
ne9.
Insomma, se l’azione di adempimento presuppone l’effica‑
cia del contratto lo stesso vale anche per la risoluzione, la
rescissione e l’annullamento; e quindi nei giudizi relativi a
tutte queste azioni l’efficacia del contratto integra gli estremi
della questione pregiudiziale sulla quale il giudice, anche in
assenza di eccezione di parte, può decidere in via incidentale
ai sensi degli artt. 1421 c.c. e 34 c.p.c.10.
L’accertamento incidentale però, seppur consente al giu‑
dice di rilevare d’ufficio la nullità senza violare i limiti dispo‑
sti dagli artt. 99 e 112 c.p.c., presenta il grave inconveniente
di non eliminare dal traffico giuridico il contratto invalido.
Ed è appunto in considerazione di ciò che le Sezioni Unite,
raccogliendo il suggerimento di alcuni studiosi, chiariscono
che gli artt. 101, 153 e 183 c.p.c. impongono al giudice di
stimolare il contraddittorio sulla nullità rilevata d’uffi‑
cio – all’uopo rimettendo le parti in termini – sì da consentire
alla parte interessata di adeguare le proprie difese alla nuova
questione eventualmente chiedendo una decisione sul merito
con efficacia di giudicato11.
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Rassegna di legittimità
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A cura di
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Accessione invertita – Modo di acquisto della proprietà del bene
da parte della P.A. – Legittimità – Esclusione.
Alla luce della costante giurisprudenza della Corte euro‑
pea dei diritti dell’uomo, nonché dell’art. 42‑bis del d.P.R. 8
giugno 2001, n. 327, la realizzazione di un’opera pubblica su
di un fondo oggetto di legittima occupazione in via di urgen‑
za, non seguita dal perfezionamento della procedura espro‑
priativa, costituisce un mero fatto, non in grado di assurgere
a titolo dell’acquisto, ed è, come tale, inidonea, da sé sola, a
determinare il trasferimento della proprietà in favore della
P.A.
Cassazione civ., Sez. II, sentenza 14 gennaio 2013 n. 705
Pres. Felicetti, Est. Giusti
Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Disciplinare magistrati – Obbligo di astensione – Interesse proprio
o di un prossimo congiunto – Sussistenza dell’obbligo – Mera facol‑
tà di astensione ex art. 51 cod. proc. civ. – Abrogazione – Limiti
Le Sezioni Unite hanno stabilito che l’obbligo di astensio‑
ne del magistrato, rilevante in sede disciplinare, sussiste, per
effetto dell’art. 323 cod. pen., in tutti i casi nei quali ricorra
un interesse, anche di natura non patrimoniale, proprio del
magistrato o di un suo prossimo congiunto, e che, pertanto,
in tal caso, con riferimento al giudice civile, la facoltà di
astenersi per gravi ragioni di convenienza ex art. 51 cod. proc.
civ. deve ritenersi abrogata per incompatibilità e sostituita dal
corrispondente obbligo.
Cassazione civ., Sez. un., sentenza 13 novembre 2012,
n. 19704
Pres. Preden, Est. Segreto
Esecuzione forzata – Espropriazione mobiliare presso il debito‑
re – Ufficiale giudiziario – Potere di valutazione dei titoli di appar‑
tenenza dei beni rinvenuti nell’abitazione del debitore – Sussi‑
stenza – Esclusione
In tema di espropriazione mobiliare presso il debitore,
l’art. 513 cod. proc. civ. pone una presunzione di appartenen‑
za al debitore dei beni che si trovano nella casa del debitore e
negli altri luoghi a lui appartenenti. Pertanto, poiché l’attivi‑
tà svolta dall’ufficiale giudiziario in sede di pignoramento
mobiliare è meramente esecutiva, deve ritenersi preclusa al
medesimo qualsiasi valutazione giuridica dei titoli di appar‑
tenenza dei beni da sottoporre al pignoramento, rimanendo
a disposizione degli eventuali terzi proprietari lo strumento
processuale dell’opposizione di terzo all’esecuzione.
Cassazione civ., Sez. III, sentenza 20 dicembre 2012,
n. 23625
Pres. Trifone, Est. Cirillo
Fallimento e procedure concorsuali – Concordato preventi‑
vo – Controllo di legittimità del giudice sul giudizio di fattibilità
della proposta di concordato – Ammissibilità – Contenuto
Risolvendo una questione di particolare importanza, le
Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto:
“Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità
sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non
restando questo escluso dall’attestazione del professionista,
mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al
merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di
successo economico del piano ed i rischi inerenti; il controllo
di legittimità del giudice si realizza facendo applicazione di
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un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammis‑
sibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedu‑
ra di concordato preventivo; il controllo di legittimità si attua
verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta
della procedura di concordato; quest’ultima, da intendere
come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non
ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente
dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale
quadro di riferimento, finalizzato al superamento della situa‑
zione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e all’assicurazione
di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e
parziale, dei creditori, da un altro”.
Cassazione civ., Sez. un.., sentenza 23 gennaio 2013 n. 1521
Pres. Preden, Est. Piccininni
Fallimento e procedure concorsuali – Concordato preventivo con
cessione dei beni o ad esso assimilabile – Nomina del liquidato‑
re – Medesimo soggetto già incaricato come commissario giudi‑
ziale – Conflitto di interessi – Configurabilità – Ragioni
In tema di concordato preventivo con cessione dei beni,
o ad esso assimilabile, la nomina a liquidatore della persona
già in carica come commissario giudiziale collide con il re‑
quisito – di cui al combinato disposto degli art. 182, secondo
comma, e 28, secondo comma, l. fall., nei rispettivi testi
applicabili “ratione temporis”, risultanti dalle modifiche ad
essi apportate dal d.lgs. 12 settembre 2009, n. 167 – che il
liquidatore sia immune da conflitto di interessi, anche poten‑
ziale, ipotesi, invece, configurabile laddove nella sua persona
si cumulino la funzione gestoria con quella di sorveglianza
dell’adempimento del concordato, di cui all’art. 185, primo
comma, della legge fallimentare.
Cassazione civ., Sez. I, sentenza 18 gennaio 2013 n. 1237
Pres. Plenteda, Est. Di Palma
Giurisdizione – Ricorso straordinario al Presidente della Repub‑
blica – Decreto presidenziale conforme al parere del Consiglio di
Stato – Natura – Conseguenze
Il decreto del Presidente della Repubblica che decide sul
ricorso straordinario in conformità al parere del Consiglio di
Stato è un atto giurisdizionale in senso sostanziale, come
tale impugnabile in cassazione per motivi attinenti alla giu‑
risdizione.
Cassazione civ., Sez. un, sentenza 19 dicembre 2012,
n. 23464
Pres. Preden,. Amoroso
Procedimento d’ingiunzione – Opposizione – Forma – Controver‑
sie in materia di locazione – Opposizione a decreto ingiunti‑
vo – Proposizione con citazione in luogo di ricorso – Effetti
In ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo in materia
di locazione proposta erroneamente con citazione, e non con
ricorso, ferma la sua ammissibilità se iscritta a ruolo e depo‑
sitata entro il termine di cui all’art. 641 cod. proc. civ., non
è necessario che l’opponente richieda l’emanazione del decre‑
to di fissazione dell’udienza di discussione da notificare
all’opposto, dovendo il giudice d’ufficio disporre il passaggio
dal rito ordinario al rito speciale, con ordinanza da notifica‑
re alla parte contumace.
Cassazione civ., Sez. III, sentenza 15 gennaio 2013 n. 797
Pres. Trifone, Est. Frasca
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Professioni e professionisti – Indennità di maternità – Adozione
di minori d’età – Estensione del godimento al padre – Principio di
alternatività e fungibilità tra i genitori adottivi – Qualità di libero
professionista di uno solo dei genitori – Irrilevanza
In materia di indennità di maternità dovuta alle libere
professioniste, l’interesse all’inserimento della prole adottiva
è adeguatamente tutelato mediante l’attribuzione del benefi‑
cio ad uno soltanto dei genitori, sicché, per effetto della
sentenza della Corte costituzionale n. 385 del 2005, che ne
ha esteso il godimento al padre, vige un principio di alterna‑
tività e fungibilità tra i genitori adottivi, nel senso che la
percezione dell’indennità da parte dell’uno esclude il diritto
dell’altro, ancorché uno dei genitori sia libero professionista
e l’altro lavoratore dipendente.
Cassazione civ., Sez. lav., sentenza 15 gennaio 2013 n. 809
Pres. Lamorgese, Est. D’Antonio
Responsabilità civile – Danno ambientale – Decreto‑legge n. 135
del 2009 – Adeguamento all’ordinamento comunitario – Doman‑
da di risarcimento del danno – Comprensione nella medesima
della domanda di riduzione in pristino – Criteri
Con riferimento al danno ambientale, alla luce del princi‑
pio secondo cui vanno evitate tutte le distonie tra l’ordinamen‑
to comunitario e quello nazionale, la possibilità di chiedere la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi – alla luce del nuo‑
vo testo dell’art. 303 del t.u. n. 152 del 2006, applicabile anche
alle domande proposte in precedenza – deve ritenersi compre‑
sa, sebbene non espressamente formulata, nella generica do‑
manda di risarcimento del danno medesimo.
Cassazione civ., Sez. III, sentenza 10 dicembre 2012,
n. 22382
Pres. Massera, Est. Amendola
Risarcimento danni – Consenso informato – Requisiti – Onere
della prova – Criteri
In materia di consenso informato, la S.C. ha precisato i
seguenti princìpi: 1) non può esservi un consenso tacito per
facta concludentia; 2) la qualità personale del soggetto da
informare (nella specie, medico) non fa venire meno l’obbligo
di informazione; 3) l’onere della prova con riguardo all’av‑
venuta illustrazione delle possibili conseguenze dannose
della terapia spetta al medico, una volta dedotto dal pazien‑
te il relativo inadempimento.
Cassazione civ., Sez. III, sentenza 27 novembre 2012,
n. 20984
Pres. Petti, Est. Vivaldi
Spese giudiziali civili – spese di giudizio – liquidazione – attività
processuale svolta e conclusa nella vigenza del D.M. n. 127 del
2004 – Applicazione odierna della tabella allora vigente – criteri
Quando il giudice debba procedere alla liquidazione
delle spese “ora per allora” – in riferimento ad un’attività
processuale conclusa nella vigenza del d.m. n. 127 del 2004
e prima dell’entrata in vigore del d.m. n. 140 del 2012 – la
liquidazione va compiuta alla luce delle vecchie tariffe, senza
che sia possibile applicare i nuovi parametri (principio enun‑
ciato in un caso di cassazione con decisione nel merito).
Cassazione civ., Sez. III, sentenza 18 dicembre 2012,
n. 23318
Pres. Petti, Est. Barreca
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Rassegna di merito
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A cura di
Mario De Bellis e Daniela Iossa
Avvocati
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Azione di reintegra nel possesso – Mancanza possesso esclusi‑
vo – Tutela del mero compossessore.
a) Non si ha mutamento di domanda, ne vizio di ultrape‑
tizione quando, chiestasi la reintegrazione nel possesso esclu‑
sivo di un immobile, la reintegra venga poi chiesta o accorda‑
ta all’attore per essere egli, anziché possessore esclusivo,
semplicemente compossessore, in quanto il fatto costitutivo
dell’azione resta in ogni caso il possesso, mutando solo il
profilo giuridico dell’azione, ed in quanto non può ritenersi
inibito al giudice, chiamato ad emettere l’interdetto posses‑
sorio, di scorgere, nel sovrano apprezzamento delle prove,
anziché una situazione di possesso solitario, una convergenza
di poteri di fatto che si traducano in un compossesso.
b) Provata l’esistenza di una situazione di compossesso sul
bene in oggetto, qualora uno dei compossessori impedisca agli
altri di partecipare al godimento di un cespite, tale compor‑
tamento – che manifesta una pretesa possessoria esclusiva sul
bene – va considerato atto di spoglio sanzionabile con l’azio‑
ne di reintegrazione.
Trib. Napol i , S ez . VIII , sentenza 04 dicembre 2012
Giud. M. Amura
Azione revocatoria – Credito eventuale‑litigioso – Sospensione ne‑
cessaria ex art. 295 c.p.c. – Conflitto tra giudicati – Impossibilità.
Poiché ai fini dell’esperimento dell’azione revocatoria
ordinaria da parte del creditore avverso un atto di disposizio‑
ne patrimoniale compiuto dal debitore è sufficiente l’esisten‑
za di una ragione di credito, ancorché non accertata giudizial‑
mente, la definizione dell’eventuale controversia sull’accerta‑
mento del credito non costituisce l’antecedente logico – giu‑
ridico indispensabile della pronunzia sulla domanda revoca‑
toria, sicché il giudizio relativo a tale domanda non è sogget‑
to a sospensione necessaria, ai sensi dell’art. 295 cod. proc.
civ. Il conflitto pratico tra giudicati che tale norma mira ad
evitare mediante la sospensione della causa pregiudicata è
reso d’altronde impossibile dal fatto che la sentenza dichiara‑
tiva dell’inefficacia dell’atto dispositivo nei confronti del
creditore, a seguito dell’accoglimento della domanda revoca‑
toria, non costituisce titolo sufficiente per procedere ad ese‑
cuzione nei confronti del terzo acquirente, essendo a tal fine
necessario che il creditore disponga anche di un titolo sull’esi‑
stenza del credito, che può procurarsi soltanto nella causa
relativa al credito e non anche in quella concernente esclusi‑
vamente la domanda revocatoria, nella quale la cognizione
del giudice sul credito e meramente incidentale.
Trib. Napoli, Sez. III, sentenza 05 dicembre 2012.
Giud. E. Pastore Alinante
Contratto di viaggio – Impossibilità parziale – Definizione – Sussi‑
stenza del diritto di recesso – Impossibilità di godere bellezze
naturali – Nullità del contratto per mancanza di causa concreta.
a) L’impossibilità totale della prestazione consiste in un
impedimento assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo,
della prestazione che determina l’automatica estinzione
dell’obbligazione e la risoluzione contratto che ne costituisce
la fonte ai sensi degli artt. 1463 e 1256 c.c., in ragione del
venir meno della relazione di interdipendenza funzionale in
cui la medesima si trova con la prestazione della controparte.
L’impossibilità parziale consiste, invece, nel deterioramento
della cosa dovuta, o più generalmente nella riduzione mate‑
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riale della prestazione che dà luogo ad una corrispondente
riduzione della controprestazione o al diritto al recesso per
la parte che non abbia un apprezzabile interesse al manteni‑
mento del contratto, laddove la prestazione residua venga a
risultare incompatibile con la causa concreta del contratto.
b) L’impossibilità di godere delle bellezze naturali a causa
di un incendio distruttivo della pineta e della vegetazione
circostante l’albergo, come pure il venir meno della possibili‑
tà di consumare i pasti nel ristorante sito direttamente sulla
spiaggia, determina il venir meno dell’interesse degli attori
alla prestazione complessivamente considerata e la caduca‑
zione, per un evento non imputabile alle parti, della causa
concreta del contratto concluso con la struttura alberghiera,
intesa come lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli
interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare.
Trib. Napoli, Sez. X, sentenza 03 dicembre 2012.
Giud. C. Sorrentini
Credito bancario – Onere probatorio – Commissione massimo
scoperto – Liceità – Capitalizzazione trimestrale degli interes‑
si – Liceità.
a) In tema di prova del credito azionato da una banca
mediante ricorso per decreto ingiuntivo, l’art. 50 d.lgs. n. 385
del 1993 non richiede, stando al suo tenore letterale, la spe‑
cificazione analitica di tutte le operazioni succedutesi sul
conto durante l’intero arco del rapporto, giacché trattasi di
norma improntata ad esigenze di semplificazione e agevola‑
zione probatoria che risultano soddisfatte dalla mera esposi‑
zione del saldo finale, pur sempre portato da un “estratto
conto”, per di più virtualmente ma efficacemente suffragata,
per effetto della certificazione del dirigente, da tutte le scrit‑
turazioni dell’istituto relative al rapporto.
b) Deve affermarsi la liceità della commissione massimo
scoperto, purché sia determinata o determinabile nel suo
2 0 1 3
43
metodo di calcolo e sia applicata allo scoperto senza anato‑
cismo.
c) A seguito delle note pronunce della Corte di Cassazio‑
ne in materia di anatocismo bancario (cfr. ex multis Cass.
n. 2374/99 e n. 12507/99), l’art. 120 T.U.B. (d.lgs. n. 385 del
1993), cosi come modificato dall’art. 25 del d.lgs. n. 342 del
1999, ha attribuito al C.I.C.R. il potere di stabilire le moda‑
lità ed i criteri per la produzione di interessi sugli interessi
maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’at‑
tività bancaria.
Trib. Napoli, Sez. III, sentenza 05 dicembre 2012.
Giud. A. Balzano.
Danni alla salute per reiterata omissione della raccolta dei rifiuti
urbani – Diritti fondamentali – Riserva esclusiva del giudice ordi‑
nario – Inesistenza.
Appartiene alla giurisdizione del g.a. la controversia che
investe il potere dell’Amministrazione relativo all’organizza‑
zione ed alle modalità di attuazione dello smaltimento dei
rifiuti urbani, che, per espressa previsione normativa (D.P.R.
10 settembre 1992, n. 915), costituisce “servizio pubblico”,
trovando al riguardo applicazione l’art. 33 D.Lgs. 31 marzo
1998, n. 80, (nel testo risultante dalle sentenze della Corte
Cost. n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006), il quale, nella ma‑
teria dei pubblici servizi, attribuisce al g.a. la giurisdizione
ove si sia in presenza dell’esercizio di potestà pubblicistiche;
tale giurisdizione si estende alle connesse domande risarcito‑
ne, eventualmente proposte in via autonoma, pur se con esse
si invochi la tutela di diritti fondamentali, come quello alla
salute, stante l’inesistenza nell’ordinamento di un principio
che riservi esclusivamente al g.o. la tutela dei diritti costitu‑
zionalmente protetti.
Trib. Napoli, Sez. X, sentenza 03 dicembre 2012.
Giud. M. Magliulo
civile
Gazzetta
44
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
In evidenza
Corte di Cassazione, Sez. civ. III, 19 febbraio 2013,
n. 4030
Responsabilità medica e consenso “disinformato” – Risarcibilità
dell’operazione sbagliata – Colpa lieve ed illecito civile ai sensi
della L. 189/2012 – Contatto sociale ed onere della prova ex art.
1218 c.c. – Diritto all’autodeterminazione e diritto alla salute.
Il paziente che abbia acconsentito a sottoporsi ad un in‑
tervento chirurgico sulla base di informazioni non corrette
fornite dal medico ha diritto ad essere risarcito per l’opera‑
zione sbagliata. Anche in caso di responsabilità del medico
per colpa lieve, recentemente depenalizzata dalla L. 189/2012,
lo stesso è tenuto a risarcire il paziente in sede civile. Grava
sul professionista l’onere di provare di avere acquisito un
consenso consapevole del paziente preceduto da una corret‑
ta informazione. La disciplina del consenso informato tutela
i diritti costituzionalmente garantiti di autodeterminazione
del paziente e del diritto alla salute [1].
Nota redazionale a cura di Fabrizia Sabbatini
(1) La sentenza in oggetto può essere inquadrata nell’ambito della proble‑
matica scaturente dal cosiddetto consenso “disinformato”, ovvero relativamen‑
te a quei casi in cui il paziente abbia assentito ad essere sottoposto ad un’ope‑
razione ma sulla base di informazioni non corrette del medico, da cui deriva
pertanto una risarcibilità dell’operazione sbagliata.
Nel caso in esame la Suprema Corte ha riconosciuto il diritto al risarcimento
dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti ad un intervento chirur‑
gico di laparoisterectomia effettuato a seguito di una errata diagnosi di cancro,
rivelatosi poi inesistente, che aveva provocato alla paziente un’invalidità per‑
manente. Tale intervento veniva effettuato pur non avendo la certezza di un
tumore conclamato e diffuso tale da rendere l’intervento necessario ed impro‑
rogabile, ed è per questo rilevabile nel caso di specie un contestuale errore di
informazione e di assenso all’atto chirurgico; avveniva infatti in tal caso un
incontro di volontà in relazione ad informazioni mediche del tutto carenti e
fuorvianti, quindi non efficace. Possiamo pertanto parlare in questo caso di
errore diagnostico derivante, non da colpa lieve, ma da gravissima negligenza,
e quindi neppure inquadrabile all’interno della disciplina dettata dalla L. 8
novembre 2012 n. 189 (Legge Balduzzi), la quale ha provveduto a depenaliz‑
zare la responsabilità del medico per colpa lieve. A tal riguardo la Suprema
Corte precisa che: “la prova della colpa lieve non esime dalla responsabilità
civile”; la suddetta legge infatti, come ricorda ancora la S.C.: “prevede che in
tali casi la esimente penale non elide l’illecito civile e che resta fermo l’obbligo
di cui all’art. 2043 c.c., che è clausola generale del neminem laedere, sia nel
diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute”.
La giurisprudenza ha inoltre ravvisato una responsabilità del medico, per
violazione del dovere di informazione, anche in caso di interventi perfettamen‑
te riusciti, e ciò a conferma dell’importanza assunta oggi dal consenso infor‑
mato. In argomento: “Nessuna rilevanza, ai fini dell’esclusione della respon‑
sabilità del professionista per violazione del consenso informato, può essere
attribuita alla circostanza che l’intervento sia stato eseguito correttamente.”
(ex plurimis App. Roma Sez. III, 20‑07‑2010; Cass. civ. Sez. III, 14‑03‑2006,
n. 5444).
Quanto invece all’importante dibattito circa l’onere della prova, con tale
sentenza la S.C. stabilisce che la stessa prova “incombe alla parte che assume
l’obbligo di garanzia della salute”, ovvero ai medici e alla struttura sanitaria,
che invece, nel caso di specie, “non hanno dato la prova esimente della com‑
plicanza non prevedibile o non prevenibile dell’intervento”. È peraltro pacifico
in giurisprudenza l’inquadramento della condotta medica all’interno della di‑
sciplina dettata dall’art. 1218 c.c., da cui deriva che il medico che agisca senza
aver preventivamente informato in maniera corretta il paziente e che abbia
ottenuto il suo consenso al trattamento medico sulla base di informazioni non
veritiere, risulta inadempiente ex art. 1218 c.c., in quanto l’intervento stesso
del medico, da luogo all’instaurazione di un rapporto contrattuale. L’onere di
provare di avere acquisito un consenso consapevole del paziente preceduto da
una corretta informazione grava quindi sul professionista, mentre, così come
affermato dalle Sezioni Unite del 2008 n. 577, il paziente danneggiato deve
limitarsi a provare l’esistenza del contratto ovvero del contatto sociale, l’insor‑
genza o l’aggravamento della patologia nonché un inadempimento del medico
astrattamente efficiente alla produzione del danno. In tema di risarcimento, le
Sezioni Unite del 2008 nn. 26972‑75 hanno affermato la risarcibilità del
danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale ove siano lesidiritti
inviolabili della persona, come quelli di cui si discute in tal sede, ovvero del
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
(Omissis)
Svolgimento del processo
1. (Omissis), con una prima citazione del maggio 1999
conveniva dinanzi al Tribunale di Parma la Azienda Ospeda‑
liera di Parma ed i chirurghi (omissis) e (omissis) e ne chiede‑
va la condanna in solido al pagamento dei danni biologici,
patrimoniali e non patrimoniali conseguenti ad interventi
chirurgici eseguiti il 25 novembre ed il successivo 21 dicembre
1993 dai chirurghi con esiti invalidanti permanenti. Si costi‑
tuivano la Azienda Ospedaliera che eccepiva il difetto di le‑
gittimazione passiva, mentre il (omissis) sosteneva di avere
svolto un ruolo secondario nel secondo intervento di laparoi‑
sterectomia, restava contumace il (omissis).
2. Una seconda citazione era proposta dalla (omissis), in
relazione all’intervento di laparoisterectomia nei confronti
della Regione Emilia Romagna e della AUSL di Parma, in
persona del direttore generale quale commissario liquidatore
sempre con richiesta di risarcimento da parte degli enti con‑
venuti. La Regione si costituiva deducendo difetto di legitti‑
diritto all’autodeterminazione del paziente e del diritto alla salute. Il mancato
consenso informato o le errate informazioni poste a base dello stesso vanno
infatti a ledere dei diritti costituzionalmente garantiti, e più precisamente
dall’art.13 Cost., il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale, prin‑
cipio che esige il rispetto delle decisioni sul proprio corpo; dall’art. 32 comma II
Cost., norma posta a presidio della libertà di scegliere sulla propria salute, per
la quale pone la riserva di legge, nonché unica fonte del trattamento sanitario
obbligatorio che, peraltro, non può mai oltrepassare il limite del rispetto della
persona umana; nonché dall’art. 33 della L. 833/1978, che esclude la possibi‑
lità di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado
di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ai sensi dell’art.
54 c.p. Non residua quindi alcun dubbio sulla qualifica del diritto all’autode‑
terminazione – inizialmente considerato come rientrante nel diritto alla salute,
e, quindi, tutelato dal mero art. 32 Cost. e successivamente riconosciuto in via
autonoma e conseguentemente tutelato dal combinato disposto degli artt. 2,
13 e 32, comma 2, Cost. – quale diritto inviolabile dell’uomo. È bene rilevare
che il consenso informato assume una rilevanza che oltrepassa i confini nazio‑
nali, basti pensare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la
quale, grazie all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, ha acqui‑
sito valenza di Trattato e sancisce al suo art. 3 che il consenso informato è
posto a tutela della dignità della persona, o all’art. 8 della CEDU, che sancisce
una protezione del diritto al consenso delle cure mediche, giungendo a legitti‑
mare anche un rifiuto della stesse.
La sentenza qui esaminata, quindi, seguendo un orientamento ormai pacifico
in giurisprudenza ed in dottrina, estende al caso di consenso “disinformato”,
ovvero di consenso fornito dal paziente sulla base di informazioni inveritiere
fornite dal medico (come nel caso di specie di errata diagnosi tumorale), la
disciplina della risarcibilità dei danni prevista a causa della violazione dell’ob‑
bligo di informare il paziente in caso di omesse o insufficienti informazioni. In
argomento: “Sussiste la responsabilità del medico per violazione dell’obbligo
contrattuale di porre il paziente nella condizione di poter esprimere un valido
ed effettivo consenso informato sia nell’ipotesi in cui le informazioni siano
assenti o insufficienti sia nell’ipotesi in cui siano state fornite rassicurazioni
errate in ordine all’assenza di rischi o di complicazioni derivanti da un dato
intervento, estendendosi il predetto inadempimento contrattuale anche alle
informazioni non veritiere.” (App. Roma Sez. III, 20‑07‑2010); ed anche: “La
responsabilità del medico per violazione dell’obbligo di informare il paziente
in ordine a tutti i possibili risvolti del trattamento cui vuole sottoporlo, onde
conseguire un valido consenso informato, è ravvisabile sia nell’ipotesi in cui le
informazioni stesse siano del tutto o parzialmente omesse sia nel caso in cui
risultino errate o inveritiere. Nessuna rilevanza, peraltro, ai fini dell’esclusione
della responsabilità del professionista per violazione del consenso informato,
può essere attribuita alla circostanza che l’intervento sia stato eseguito corret‑
tamente.” (App. Roma Sez. III, 20‑07‑2010); ancora: “La responsabilità del
medico per violazione dell’obbligo contrattuale di porre il paziente nella con‑
dizione di esprimere un valido ed effettivo consenso informato è ravvisabile
sia quando le informazioni siano assenti od insufficienti sia quando vengano
fornite assicurazioni errate in ordine all’assenza di rischi o complicazioni de‑
rivanti da un intervento chirurgico necessariamente da eseguire, estendendosi
l’inadempimento contrattuale anche alle informazioni non veritiere. (Rigetta,
App. Roma, 22 Giugno 2006)” (Cass. civ. Sez. III Sent., 28‑11‑2007,
n. 24742).
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
mazione e la prescrizione del credito, chiamava in manleva la
assicuratrice (omissis) e formulava eccezione di incostituzio‑
nalità dell’art. 6 della legge 724 del 1994; la AUSL di Parma
deduceva a sua volta difetto di legittimazione. La assicuratri‑
ce si costituiva ma chiedeva il rigetto della domanda di man‑
leva.
Le cause erano riunite ed istruite con consulenza medi‑
co‑legale che accertava una invalidità permanente delle dieci
per cento, ritenendo l’intervento routinario eseguito con dili‑
genza e prudenza.
3. Il tribunale di Parma con sentenza del 11 marzo 2004
rigettava le domande della (omissis) e la condannava alla ri‑
fusione delle spese di lite sostenute dal (omissis) e dalla AUSL
di Parma disponendo per il resto come in dispositivo.
4. Contro la decisione proponeva appello la parte lesa,
deducendo:
a. erronea declaratoria di estinzione del diritto di risarcimen‑
to per prescrizione;
b. erronea esclusione dell’accertamento del mancato consen‑
so informato;
c. erroneo operato dei sanitari, la erronea necessità dell’inter‑
vento a seguito della errata diagnosi di un carcinoma con
conseguente non necessità dell’intervento operatorio di
laparoisterectomia ed errata valutazione del danno, con
richiesta di rinnovo CTU;
d. mancata compensazione per giusti motivi delle spese di
lite. Resistevano tutte le controparti, chiedendo il rigetto
del gravame.
5. Con la sentenza del 26 agosto 2009 la corte di appello
di Bologna respingeva l’appello principale ed accoglieva l’ap‑
pello incidentale della regione condannando la (omissis) a
rifondere le spese sostenute in primo grado da (omissis) e
condannava (omissis) a rifondere le spese di secondo grado a
tutti gli appellati.
6. Contro la decisione ha proposto ricorso (omissis) dedu‑
cendo tre motivi di censura, illustrati da memoria; la Regione
Emilia‑Romagna ha resistito con controricorso e ricorso in‑
cidentale condizionato affidato ad unico motivo; la azienda
ospedaliera universitaria di Parma unitamente all’(omissis) ha
resistito con controricorso chiedendo il rigetto del gravame
della (omissis).
Motivi della decisione
7. Il ricorso principale merita accoglimento mentre inam‑
missibile risulta il ricorso incidentale. Per chiarezza espositiva
si offre una sintesi dei motivi di ricorso ed a seguire la confu‑
tazione in diritto.
7.1. Sintesi dei motivi del ricorso
Nel primo motivo si deduce error in procedendo per avere
la Corte di appello ritenuto nuova domanda in appello la
specificazione della causa pretendi non nella errata conduzio‑
ne dell’intervento chirurgico ma nella errata diagnosi compiu‑
ta dai sanitari circa la patologia da cui era affetta la paziente
e sulla cui sussistenza era stato reputato dai medici necessario
tale intervento.
Nel secondo motivo si deduce error in iudicando per vio‑
lazione dell’art. 1218 c.c. ed il vizio della motivazione in re‑
lazione all’accertamento di un peggioramento della patologia
della paziente quale conseguenza della conclusione dell’inter‑
vento. Si rileva in particolare che mentre la prova del peggio‑
2 0 1 3
45
ramento è medicalmente accertata, la Corte esclude che tale
esito sia di per sé imputabile a colpa medica, piuttosto che ad
una c.d. complicanza non prevedibile.
Nel terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 1218,
2697 c.c., 13 della Costituzione e 54 cod. penale, nonché il
vizio della motivazione in relazione alla prova del danno da
mancato consenso informato e del diritto del paziente ad es‑
sere informato. La tesi del ricorrente è che nella fattispecie in
esame il consenso fu disinformato o male informato. Infatti
la erroneità della diagnosi che accertava la presenza di un
tumore, peraltro inesistente, indusse il paziente a sopportare
un intervento chirurgico lesivo della sua integrità fisica anche
se per finalità salvifiche, ma l’errore diagnostico, accertato
dal consulente di ufficio sulla base di circostanze e riscontri
documentali medici, risulta aver vulnerato l’assenso all’inter‑
vento, che ebbe esiti in parte nefasti e peggiorative delle con‑
dizioni preesistenti, che pure esigevano cure, ma non invasive
o invalidanti.
7.2 Sintesi del ricorso della Regione Emilia‑Romagna
Deduce la Regione nell’unico motivo l’error in iudicando
in relazione agli artt. 2059 e 2697 cod. civile ed il vizio della
motivazione. La ricorrente incidentale chiede correggersi la
motivazione della sentenza di appello nel punto in cui ricono‑
sce la violazione del consenso informato, senza poi provvede‑
re alla quantificazione del danno. La correzione deriva dalla
evidenza della corretta esecuzione dell’intervento, con tutti gli
accorgimenti per la riduzione dal rischio delle complicanze.
8. Confutazione in diritto
8.1 Accoglimento dei tre motivi del ricorso principale
Il procuratore generale ha concluso per l’accoglimento
delle tre censure, con precisa e coerente argomentazione che
tiene conto degli arresti di questa Corte di cassazione sulla
complessa e delicata materia della responsabilità medica, che
ha indotto il legislatore abbia una recente novella depenaliz‑
zatrice della responsabilità penale del medico per il caso di
colpa lieve. Il riferimento è all’art. 3 comma primo del decre‑
to legge del 13 settembre 2012 n. 158 convertito nella legge 8
novembre 2012, che esclude la responsabilità medica in sede
penale, se l’esercente della attività sanitaria si attiene a linee
guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
Ma la stessa norma prevede che in tali casi, la esimente pena‑
le non elide l’illecito civile e che resta fermo l’obbligo di cui
all’art. 2043 del codice civile, che è clausola generale del ne‑
minem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai
diritti umani inviolabili quale è la salute. La novellazione, che
non riguarda la fattispecie in esame, ha destato non poche
perplessità anche di ordine costituzionale in relazione al com‑
ma secondo dell’art. 77 della Costituzione, in quanto il testo
originario del decreto legge non recava alcuna previsione di
carattere penale e neppure circoscriveva il novero delle azioni
risarcitorie esperibili da parte degli danneggiati.
La premessa che indica una particolare evoluzione del
diritto penale vivente, per agevolare l’utile esercizio dell’arte
medica, senza il pericolo di pretestuose azioni penali, rende
tuttavia evidente che la materia della responsabilità civile
segue le sue regole consolidate, e non solo per la responsabi‑
lità aquiliana del medico, ma anche per la responsabilità con‑
trattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto
sociale. Punto fermo, ai fini della filomachia, gli arresti delle
sentenze delle Sezioni Unite nel novembre 2008 e tra queste la
civile
Gazzetta
46
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
n. 26973, ed in particolare nel punto 4.3 del c.d. preambolo
sistematico, che attiene ai c.d. contratti di protezione conclusi
nel settore sanitario, ed agli incipit giurisprudenziali ivi richia‑
mati, eseguiti da decisioni di consolidamento.
Orbene, tenendo conto del diritto vigente, arricchito della
interpretazione del diritto vivente e dalla giurisprudenza no‑
mofilattica di questa Corte di legittimità, la prima censura
risulta fondata, fosco che la Corte di appello erroneamente
ritiene nuova la specifica censura svolta nell’atto di appello in
ordine alla deduzione dell’errore diagnostico sulla patologia
che determina i medici ad un atto chirurgico invasivo e inva‑
lidante, erroneamente assentito.
Sul punto è da osservare come il tema originario della
responsabilità medica sin dal due primi atti introduttivi,
avesse indicato unitariamente il medesimo fatto dannoso,
evidenziando l’errore diagnostico poi riscontrato in sede di
consulenza medica, di guisa che la causa petendi, riconduci‑
bile alla responsabilità aquiliana e alla responsabilità da
contatto sociale, si riferiva ad unico fatto costitutivo della
fattispecie circostanziata, da sussumere sotto la disciplina dei
principi di responsabilità professionale e della struttura sani‑
taria, ribaditi sistematicamente nelle Sezioni Unite citate e
successive conformi tra cui Cass. III Sez. civile 8 giugno 2012
n. 9290 su conformi conclusioni del PG e Cass. Sez. sesta ord.
13269 del 2012.
La specificazione dello error iudicando riferito alla seque‑
la dell’errore diagnostico e intervento chirurgico assentito
sulla base di errata informazione delle condizioni di salute,
non costituisce domanda nuova, ma è atto intrinseco alla
deduzione di una domanda diretta ad accertare la responsa‑
bilità civile secondo le circostanze note ed allegate.
Parimenti incongrua è la motivazione che da un lato ac‑
certa il peggioramento delle condizioni del paziente a seguito
dell’intervento chirurgico e d’altro lato esclude la imputabili‑
tà soggettiva in ordine alla mancata realizzazione della pre‑
stazione di garanzia, in un intervento detto routinario.
La prova della colpa lieve non esime dalla responsabilità
civile, che considera la colpa in una dimensione lata, inclusiva
del dolo e della diligenza professionale, e nel caso di specie i
medici e la struttura non hanno dato la prova esimente della
complicanza non prevedibile o non prevenibile, prova che incom‑
be alla parte che assume l’obbligo di garanzia della salute, e che
non è stata data, mentre, al contrario il paziente ed i consulenti
di ufficio e di parte attestano un aggravamento delle condizioni
di salute non altrimenti spiegabile se non per una difettosa con‑
duzione della prestazione sanitaria nella sua continuità.
Sussiste pertanto e la violazione della regola generale
dell’art. 1218 del codice civile in relazione ad una situazione
di inadempimento obbiettivamente grave, per la configurazio‑
ne della rapporto contrattuale di garanzia, e per la difettosa
motivazione che non considera il tema e l’onere della prova,
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
che il paziente fornisce come prova dell’aggravamento e della
sequenza naturale tra l’atto invasivo ed ablativo e la invalida‑
zione scientificamente non dovuta.
Parimenti fondato è il terzo motivo, che ha impegnato il
Procuratore generale in una accurata ricostruzione dello sta‑
to della giurisprudenza, a partire dalle SU 11 gennaio 2008
n. 576 richiamate dalle successive SU del novembre appena
citate, cui questa Corte aggiunge la recente sentenza del 27
novembre 2012 n. 20894, che ancora puntualizza le condizio‑
ni di manifestazione e di formazione del consenso informato,
che ha natura bilaterale ed esprime un incontro di volontà
libere e consapevoli, consenso che si configura quale diritto
inviolabile della persona e che trova precisi referenti negli artt.
2, 13 e 32 della Costituzione.
La fattispecie in esame si caratterizza da una contestuale
errore di informazione e di assenso all’atto chirurgico, ma
l’errore diagnostico non deriva da colpa lieve, ma da una
gravissima negligenza, l’avere operato prima di avere la cer‑
tezza di un tumore conclamato e diffuso tale da rendere im‑
prorogabile l’intervento. Mentre, si assume, che si trattava di
intervento routinario.
Non è dunque avvenuto un incontro di volontà efficace in
relazione ad un contenuto di informazione medica assoluta‑
mente carente e fuorviante.
Sulla base di queste considerazioni il ricorso principale
deve essere accolto e la cassazione è come il rinvio vincolante
quanto ai principi di diritto da osservare, pur nella valutazio‑
ne delle prove iuxta alligata ed probata ma pur sempre facen‑
do attenzione all’onus probandi.
8.2 Inammissibilità del ricorso della Regione Emilia‑Ro‑
magna
Il ricorso nell’unico motivo deduce un error in iudicando
per la violazione dell’art. 2059 e 2697 del codice civile, per
pervenire ad una correzione della motivazione nel punto in
cui la Corte di appello ammette in astratto l’an debeatur per
violazione del consenso informato. Ma sul punto questa Cor‑
te accoglie proprio la censura proposta dalla vittima di uno
consenso disinformato, e dunque il motivo, nella sua formu‑
lazione, difetta di specificità. Parimenti incomprensibile ap‑
pare il motivo dedotto come vizio motivazionale, con citazio‑
ne di un arresto giurisprudenziale di Cass. 9 febbraio 2007
numero 2847, che non appare pertinente al caso di specie.
Anche su questo punto la censura non attiene alla logica mo‑
tivazionale ma ad un error in iudicando che sostanzialmente
configura la ripetizione della prima censura.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi ed accoglie il ricorso principale e dichia‑
ra inammissibile il ricorso incidentale della Regione Emi‑
lia‑Romagna, cassa e rinvia anche per le spese del giudizio di
cassazione alla Corte di appello di Bologna in diversa com‑
posizione.
Diritto e procedura penale
Operazioni infragruppo e vantaggi compensativi: la disciplina dell’art. 2634 c.c.
si estende anche alla bancarotta fraudolenta?
49
Dora Tagliaferro
La tutela giurisdizionale dei diritti in tempi di crisi finanziaria.
Il “Decreto Crescitalia” ed il riesame delle pronunce giudiziali
59
Rosanna Fattibene
Dialogo tra la corte Edu e le corti nazionali sulla natura delle confische
Due interpretazioni diverse su casi simili
64
Vittorio Sabato Ambrosio
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
69
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
73
76
penale
Rassegna di legittimità [
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
●
Operazioni infragruppo
e vantaggi compensativi:
la disciplina dell’art. 2634
c.c. si estende anche alla
bancarotta fraudolenta?
● Dora Tagliafierro
Dottore di ricerca in sistema penale e processo
presso Università degli Studi di Napoli “Federico II”
2 0 1 3
49
Sommario: 1. Nozione e caratteri dei “vantaggi compen‑
sativi”. – 2. La natura giudica della clausola sui vantaggi
compensativi – 2.1 La tesi della mancanza della fattispecie
oggettiva per venir meno dell’illiceità della condotta. – 2.2
La tesi della mancanza della fattispecie oggettiva per venir
meno del danno. – 2.3 La tesi della mancanza della fattispe‑
cie soggettiva per venir meno del dolo specifico. – 2.4 La c.d.
lettura differenziata. – 2.5 La tesi della scriminante. – 3.
Cenni ai rapporti tra infedeltà patrimoniale e reati di banca‑
rotta. – 4. Applicabilità della disciplina prevista per il reato
di infedeltà alla bancarotta – 4.1. La tesi della inapplicabili‑
tà e le sue argomentazioni. – 4.2. Possibili aperture della
giurisprudenza e del legislatore
1. Nozione e caratteri dei “vantaggi compensativi”
La previsione normativa di una disciplina ad hoc per il
fenomeno dei gruppi societari costituisce una delle più inte‑
ressanti novità registrate in ambito societario, sia sotto il
profilo civilistico che penalistico. Basti pensare alla rilevanza
che esso assume nella determinazione del vantaggio compen‑
sativo nel reato di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634
c.c.
Con la introduzione di questa fattispecie incriminatrice di
nuovo conio, da larga parte della dottrina auspicata, il legi‑
slatore ha inteso garantire il patrimonio sociale da ogni forma
di abuso posto in essere dai titolari del potere gestorio, nonché
da tutti gli atti di gestione realizzati sui beni sociali in assen‑
za di formale delibera. In altri termini, può dirsi che si è in tal
modo inteso sanzionare quei comportamenti degli organi
sociali che, perseguendo un fine estraneo alla società, cagio‑
nano un danno alla medesima – e segnatamente ai soci della
stessa – o ai terzi che ad essa affidino i propri beni1.
Ai sensi del co. 3 del richiamato articolo, poi, si precisa
che “in ogni caso non è ingiusto il profitto della società col‑
legata o del gruppo, se compensato da vantaggi conseguiti o
fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o
dall’appartenenza al gruppo”.
Può preliminarmente osservarsi che, per lungo tempo, il
gruppo di società è stato considerato un fenomeno meramen‑
te economico, improduttivo di effetti sul piano giuridico.
Tuttavia, l’affermarsi di tale realtà in modo sempre più pre‑
ponderante nella vita socio‑economica e, di riflesso, in quella
giudiziaria, ha condotto nel corso del tempo il legislatore a
1In ciò può, innanzitutto, evidenziarsi una significativa differenza con il passato,
in quanto non si protegge più un interesse alla correttezza della gestione fine a
se stesso, bensì si intende reprimere l’abuso della posizione interna alla società
al fine di garantire l’integrità del patrimonio sociale, tutela completata dalla
introduzione, sulla scorta delle spinte comunitarie, della fattispecie di infedeltà
a seguito di dazione o promessa di utilità, nota altresì come corruzione privata).
Un tale mutamento di prospettiva ha coerentemente comportato una modifica
del ruolo svolto dal conflitto di interessi in cui versino i titolari del potere ge‑
storio, il quale, secondo accreditata dottrina, si trasforma da elemento centrale
della previsione in antefatto o presupposto della condotta, che deve sfociare in
atti dispositivi che comportino danno patrimoniale, con conseguente trasfor‑
mazione del delitto in reato di evento di danno. Ne risulta pertanto una riscrit‑
tura incisiva della struttura del reato, non solo in termini di elemento materia‑
le, ma anche in termini di elemento psicologico che si caratterizzerebbe per il
cosiddetto “doppio dolo”, il che lascerebbe trasparire l’intento del legislatore
di dettare un elemento soggettivo rafforzato nelle ipotesi più gravi previste
dalla riforma. Ciò, inoltre, ha portato molti Autori a dubitare che il rapporto
tra la fattispecie di infedeltà e la normativa previgente possa ricondursi ad una
ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, preferendo propendere per
l’ipotesi della abrogazione con successiva incriminazione.
penale
Gazzetta
50
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
prendere atto dell’importanza da essa assunta.
La nozione di gruppo, difatti, era stata già da tempo ela‑
borata nei diversi settori dell’ordinamento giuridico, unita‑
mente alla c.d. teoria del vantaggio compensativo2.
Al riguardo, appare innanzitutto opportuno precisare che,
pur restando invalsa l’espressione di “vantaggi compensativi”,
sembra preferibile l’opinione di quanti – aderendo alla tesi
dell’autonomia tra i diversi rami dell’ordinamento – sostengo‑
no che il legislatore non abbia inteso far propria alcuna delle
elaborazioni civilistiche in materia, muovendo, invece, da
esigenze prettamente penalistiche3.
Un’attenta disamina della giurisprudenza di Cassazione,
consente di individuare agevolmente sia i presupposti per la
configurabilità di vantaggi compensativi che i caratteri dei
medesimi. Quanto ai primi, essi sono da ravvisarsi, oltre che
nella già richiamata esistenza di un gruppo societario4, anche
nella presenza di una pluralità di interessi tra agente e società
in conflitto tra loro5. In altri termini, dunque, affinché ci si
2 Appare, infatti, doveroso ricordare che dottrina e giurisprudenza sono state per
lunghi anni impegnate ad indagare la natura del fenomeno dei gruppi societari.
E, solo ammessa la rilevanza giuridica di questi ultimi, si è poi giunti a chieder‑
si se le considerazioni eventualmente elaborate in ambito civilistico fossero
esportabili in rami diversi dell’ordinamento, quale quello penale.
3 Come è stato correttamente osservato, nel procedere alla individuazione dei
limiti della ricezione operata dal legislatore della teoria dei vantaggi compen‑
sativi elaborata in ambito civilistico e sui significati che essa assume in ambito
penale, “un primo approfondimento suggerisce di precisare a quale versione
della teoria dei vantaggi compensativi si sia rifatto il legislatore penale, data la
presenza di concezioni che divergono su aspetti centrali della teoria medesima”.
Così Masucci, Infedeltà patrimoniale e offesa al patrimonio nella disciplina
penale dei gruppi di società, Napoli, 2006, p. 67 e ss., il quale poco dopo pre‑
cisa che “l’iterstorico di formazione della legge presenta all’interprete elementi
chiarificatori a sostegno dell’ipotesi che una ricezione, semmai, sarebbe avve‑
nuta a favore di indicazioni formulate in sede penale nei progetti di riforma sul
punto. Precisare il collegamento che esiste sotto questo punto di vista è utile per
sviluppare l’interpretazione a partire dalle esigenze che la legge penale ha rite‑
nuto di dover soddisfare, evitando di lasciare penetrare nella valutazione una
particolare versione della teoria dei vantaggi compensativi, quasi che ad essa si
sia voluta dare una veste formale prima mancante. Viene così sgombrato il
campo circa il procedere di pari passo delle teorie civilistiche e della legislazio‑
ne penale, pur tenendo ferme le naturali esigenze di coordinamento”. Del resto,
un simile approccio appare coerente con i recenti esiti ermeneutici – sia dottri‑
nari che giurisprudenziali – in ordine ai rapporti trai diversi rami dell’ordina‑
mento. Teli esiti, infatti, disconoscendo sia la tesi pancivilista, che quella pan‑
penalista, propugnano per l’autonomia dei medesimi, in forza della quale cia‑
scun ramo dell’ordinamento va ricostruito alla luce dei propri principi, sia pur
nel rispetto delle istanze di coordinamento.
4La Suprema Corte ha, infatti, avuto modo di affermare che “Il vantaggio com‑
pensativo (…) presuppone l’esistenza di un gruppo societario. Il solo fatto che
una persona fisica si trovi in posizione di controllo rispetto ad una pluralità di
società (…) non implica automaticamente la configurazione di un gruppo so‑
cietario. Di gruppo societario si potrà parlare solo se il soggetto per il tramite
di detto controllo azionario svolge una vera e propria funzione imprenditoria‑
le di indirizzo e coordinamento delle società controllate (cosiddetta holding
pura), eventualmente accompagnata anche da attività ausiliaria o finanziaria
(cosiddetta holding operativa) dotatosi a tal fine di un’apposita organizzazione
con uffici e dipendenti a ciò destinati”. Così Cass. pen., Sez. V, 18 novembre
2004, n. 1763. In dottrina Bartolo, Bancarotta e infedeltà patrimoniale infra‑
gruppo. La distrazione seguita dal fallimento, Aracne, 2009, p. 191 e ss., al
riguardo sostiene che “sarebbe errato giungere sino a ritenere che un gruppo,
ai fini penali, si deve considerare come giuridicamente rilevante soltanto se
sono state rispettate tutte le regole fissate dal codice civile (…) dovendosi con‑
siderare rilevante anche quel gruppo il quale, pur non avendo rispettato le
formalità abbia di fatto reso edotti tutti gli interessati dell’esistenza di un orga‑
nismo ‘unitario’ composto da più società al cui vertice si colloca un ‘soggetto’,
il quale non solo potrebbe aver condizionato le scelte delle singole società, ma
potrebbe anche e soprattutto essere chiamato a rispondere del suo operato, ogni
qual volta l’attività di direzione e coordinamento si sia tradotta in una viola‑
zione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale della con‑
trollata”.
5 Cfr Cass. pen., sez V, 24 aprile 2003, n. 23241, ove si legge che “Il ‘vantaggio
compensativo’ nell’ipotesi del collegamento o del gruppo di società, ai sensi
p e n a l e
Gazzetta
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possa interrogare circa la ricorrenza di interessi compensativi,
è necessario che vi sia un soggetto che agisce per la società
(amministratore, direttore generale o liquidatore), che questi
sia portatore di un interesse, che tale interesse sia non solo
diverso ed ulteriore (di qui il requisito della pluralità di cui
sopra), ma anche confliggente con quello della società e che il
contesto dinamico nel quale gli interessi si collocano sia rap‑
presentato da un gruppo societario (nella forma della holding
pura, ovvero di quella operativa). Quanto ai caratteri propri
dei vantaggi, essi devono essere effettivi e basati su elementi
certi, cioè comprovati e non meramente ipotizzati.
2. La natura giudica della clausola sui vantaggi compensativi
La più affascinante delle questioni sollevate dalla clausola
di cui al comma 3 dell’art. 2634 c.c., e certamente la più di‑
battuto riguarda, per altro, la individuazione della sua natura
giuridica. Le argomentazioni e le conseguenze giuridiche,
naturalmente, mutano a seconda del ruolo che le si attribuisca
all’interno della fattispecie penale e, più in particolare, a se‑
conda che la si qualifichi come causa di esclusione del fatto
tipico o dell’antigiuridicità.
Assai articolato risulta il primo orientamento, all’interno
del quale, a ben vedere, è possibile enucleare diversi filoni.
Essi hanno tutti in comune il fatto di ritenere che il co. 3
possa contribuire ad individuare i limiti di liceità del fatto e,
per esso, i limiti di liceità delle operazioni infragruppo. Tut‑
tavia, diversi autori risolvono in modo peculiare il problema
relativo alla individuazione dei limiti medesimi. Muovendo
dal presupposto teorico dell’adesione alla concezione tripar‑
tita del reato e della sussistenza all’interno del fatto tipico di
una fattispecie soggettiva accanto a quella oggettiva, infatti,
sarebbe innanzitutto possibile chiedersi quale delle due com‑
ponenti venga elisa dalla ricorrenza di vantaggi compensativi.
Ritenendo, poi, che essa incida sulla fattispecie oggettiva, ci
si potrebbe ancora chiedere se essa sia idonea a rendere incon‑
figurabile la condotta (qualora il carattere “non ingiusto” si
intenda riferito al profitto), ovvero il danno derivante dalla
prima (qualora la qualifica di non ingiustizia si intenda indi‑
rettamente riferita al “danno”).
2.1 La tesi della mancanza della fattispecie oggettiva per
venir meno dell’illiceità della condotta
Un primo filone muove dal ritenere che la qualifica di non
ingiustizia attenga al profitto e non già al danno. Ciò posto
si rileva che “dalla qualifica di non ingiustizia si desume pie‑
namente che il profitto conseguito dalla società collegata o
dal gruppo di appartenenza, alle specifiche condizioni previ‑
ste, va ritenuto lecito”6. E ciò in quanto ad essere lecita è la
dell’art. 2634, co. 3 c.c., come riformulato dall’art. 1 del d.lgs.11 aprile 2002,
n. 61 (…), presuppone un conflitto di interessi tra il soggetto agente (ammini‑
stratore, direttore generale e liquidatore) che compie l’atto dispositivo e la so‑
cietà. Tale conflitto deve essere effettivo ed attuale e non può ritenersi insito in
ogni atto che vada a nocumento di una società ed a vantaggio di un’altra,
collegata o facente parte del gruppo”
6Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 230, il quale poco oltre individua
chiaramente i termini della questione precisando che “nell’interpretazione
della clausola sui gruppi, contenuta nell’art. 2634 c.c., la ‘non ingiustizia’ del
profitto (…) assume un’importanza centrale, trattandosi di precisare se essa
abbia un significato solo sul piano psicologico, in collegamento col dolo speci‑
fico, o anche oggettivo, nella definizione dei contenuti materiali del fatto”. Sul
punto si avrà modo di soffermarsi ulteriormente nel prosieguo.
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g e n n a i o • f e b b r a i o
condotta tenuta dall’agente. Per giungere ad una simile con‑
clusione si muove dall’analisi della fattispecie oggettiva del
fatto tipico rilevando che il cuore dell’infedeltà patrimoniale
è costituito dall’abuso del potere gestorio operato dall’ammi‑
nistratore infedele7, ovvero dallo sviamento del medesimo
dalle finalità per cui è attribuito. Come si è poc’anzi accenna‑
to, presupposto di tale condotta è da ravvisarsi nella presenza
di un conflitto di interessi, la cui esistenza deve essere accer‑
tata caso per caso in concreto8. Quindi, perché sia ravvisabi‑
le una condotta infedele è necessario che, in presenza di un
conflitto di interessi, l’abuso dell’amministratore si traduca in
un atto dannoso per la società. Ma la presenza di vantaggi
compensativi, rendendo l’atto potenzialmente vantaggioso per
la società, sia pur in presenza di un conflitto di interessi,
porta ad escludere l’asservimento dell’atto al perseguimento
di interessi propri o di terzi in luogo di quelli sociali. Il che,
in altri termini, significa che la presenza di un potenziale
vantaggio compensativo priva la condotta del carattere abu‑
sivo e, quindi, della sua penale rilevanza9.
7Trattandosi di un reato proprio la condotta può essere tenuta solo dai soggetti
indicati dalla norma e, quindi, oltre che dall’amministratore, dal direttore ge‑
nerale e dal liquidatore della società assoggettata a procedura concorsuale.
8 Quanto alla nozione di conflitto, essa è stata oggetto di elaborazione dottrina‑
le in ambito commercialistico. Riguardo al conflitto del socio, con argomenta‑
zione estensibile al conflitto di interessi dell’amministratore (ma anche del di‑
rettore generale e del liquidatore), è stato affermato che “C’è conflitto di inte‑
ressi tra socio e società quando il socio si trova nella condizione di essere por‑
tatore, di fronte ad una data deliberazione, di un interesse duplice: del suo in‑
teresse di socio e, inoltre, di un interesse esterno alla società; e questa duplicità
è tale per cui egli non può realizzare l’uno se non sacrificando l’altro interesse.
La semplice duplicità della posizione di interesse in capo ad un medesimo
soggetto di per sé sola non implica, però, situazione di conflitto in senso tecni‑
co. Le due posizioni di interesse possono essere tra loro solidali: il socio può
realizzare il proprio interesse senza pregiudicare l’interesse della società”.
Galgano F, Le nuove società di capitali e cooperative, in Galgano – Genghini,
Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. XXIX,
Il nuovo diritto societario, II ed., tomo I, cedam, 2004, p 239 e ss. Naturalmen‑
te, la stessa è stata oggetto di rielaborazione in ambito penalistico, di tal che del
conflitto di interessi è stata elaborata una versione statica ed una dinamica e di
entrambi astrattamente sarebbe accoglibile una versione formale o sostanziale.
Non apparendo questa la sede opportuna per ripercorrere le richiamate elabo‑
razioni, basti qui ricordare che a seguito della riforma del 2001, appare prefe‑
ribile l’opzione ermeneutica che propende per una lettura sostanziale del con‑
cetto dinamico di conflitto. Sorretta da un indubbio spirito di frammentarietà,
essa postula “non solo che il conflitto” venga “accertato caso per caso in rela‑
zione alle modalità e alle circostanze del fatto, ma anche la presenza di un
danno effettivo alla società”, di modo che, “con la riforma del diritto societario,
le petizioni interpretative si sono trasformate in modifiche della tipicità astrat‑
ta. Tutto questo agevola la lettura sostanzialista non solo per la presenza di un
evento materiale, il danno patrimoniale alla società, ma anche per l’introduzio‑
ne di un dolo specifico e di un dolo intenzionale”. Così Alagna, Note sul con‑
cetto penalistico del conflitto di interessi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 3 p.
743 e ss. Ciò posto appare opportuno, altresì, rimarcare che non appare allo
stato sufficiente una mera compresenza o coesistenza dell’interesse del soggetto
qualificato accanto a quello sociale – da ravvisarsi, ad avviso della teoria con‑
trattualistica, nell’interesse comune dei soci ‑, ma si rende necessario che il
soggetto attivo agisca in vista del conseguimento dell’interesse proprio in luogo
di quello sociale, sacrificando quest’ultimo. Di tal che, da un lato, “l’interesse
estraneo a quello della società deve risultare il fattore decisivo nella scelta
economica sottostante all’operazione dannosa (…) non solo in chiave psicolo‑
gica, ma alla stregua di parametri ‘obiettivi’, che restituiscano la ‘direzio‑
ne’dell’atto” e dall’altro “il profitto maturato da terzi non contraddice l’osser‑
vanza dei doveri di corretta gestione, né contraddistingue un abuso di poteri se
funzionale al conseguimento di vantaggi per la società”. Cfr. Masucci, Infedel‑
tà patrimoniale, cit., p. 241 e ss.
9In ciò sarebbe dato cogliere il sottile distinguo con la posizione di chi reputa
che l’assenza di illiceità del profitto elida il dolo dell’agente (per il cui esame si
rinvia a quanto si dirà infra). Sotto l’angolo prospettico preso attualmente in
esame, non ci si pone dal punto di vista soggettivo dell’agente al fine di pren‑
dere in considerazione l’interesse da questi perseguito, ma piuttosto si tende ad
accertare se l’interesse diverso da quello sociale sia in contrasto con quest’ulti‑
mo e se sia stato effettivamente coltivato. Si ritiene così che il legislatore avreb‑
2 0 1 3
51
2.2 La tesi della mancanza della fattispecie oggettiva per
venir meno del danno
Il secondo filone, invece, ritiene che il vantaggio compen‑
sativo vada ad elidere il danno. Un simile modo di pensare
prende le mosse dall’esigenza di coordinare la norma in esame
con quella di cui all’art. 2497, co. 1 c.c. che disciplina la re‑
sponsabilità civile degli amministratori della controllante nei
confronti delle controllate, per abuso del potere di direzione
del gruppo10. Ciò posto si ritiene che il pregiudizio di cui
all’art. 2634 co. 3 c.c., costituisca un chiarimento del pregiu‑
dizio patrimoniale richiesto dall’art 2497 co. 1 c.c. e si legge
la norma come se dicesse “non si considera ingiusto il profit‑
to della società collegata o del gruppo qualora il danno pati‑
to a seguito di tale operazione da altra società del gruppo sia
compensato da vantaggi, conseguiti o fondamentalmente
prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al
gruppo”11. In altri termini, dunque, il verificarsi di un vantag‑
gio compensativo, ai sensi del 2634 co. 3 c.c. elide il danno,
operando una sorta peculiare di “compensatio lucri cum
damni” la quale – a differenza di quanto richiesto dall’art.
2497 c.c. che richiede un bilanciamento “ragionieristico”12 tra
attività e passività – si caratterizzerebbe per la rinunzia ad un
accertamento di tipo matematico, escludendo il danno anche
in ipotesi in cui esso possa considerarsi maturato sul piano
civilistico. La compensazione “penalistica”, pertanto, avrebbe
un ambito di operatività più ampio di quella “civilistica”, di
tal che, pure in presenza di responsabilità civile, sarebbe
possibile andare esenti da responsabilità penale13. La ragion
d’essere dell’art. 2634 co. 3, dunque, potrebbe ritenersi ravvi‑
be posto “il principio secondo cui l’acquisizione dei vantaggi o la fondata
possibilità di conseguirli sia indice incontrovertibile di piena sintonia tra il
concreto esercizio del poterei gestione e l’affidamento sottostante” Masucci,
Infedeltà patrimoniale, cit., p. 248.
10Su significato e limiti della disposizione di cui all’art. 2497, cfr. Manes, Abuso
di direzione unitaria e responsabilità degli amministratori della controllante:
verso l’affermazione di un principio generale, in Contr. Impr., 2002, p. 1 ss.,
Galgano, I gruppi nella riforma delle società di capitali, in Contr. Impr., 2002,
p.1036 ss.; mentre per gli scritti di epoca precedente cfr. ad esempio dello
stesso autore, Responsabilità degli amministratori della società controllante, in
Fallimento, 1995, p. 556 e ss.; Gambino, Responsabilità delle holding nei
gruppi societari, ivi, p. 581; Jajer, “Direzione unitaria” di gruppo e responsa‑
bilità degli amministratori, in Riv. Soc., 1985, p. 817 e ss. In ogni caso, ed in
particolar modo qualora si proceda alla lettura in combinato disposto delle
diverse norme, giova ricordare che la riforma del diritto penale societario
(operata nel 2001) ha preceduto quella del diritto sostanziale (operato con il
d.lgs. 17/2003 in attuazione della legge delega 3/2001).
11 Abriani, Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi nella riforma del
diritto societario, in Una tavola rotonda sui vantaggi compensativi nei gruppi,
in Giur. Comm. 2002, I, pag. p. 618. Sul punto lo stesso Autore torna a riba‑
dire che la qualifica di ingiustizia deve considerarsi riferita al danno e non al
profitto, anche in Riflessi civilistici del nuovo diritto penale commerciale, in Il
fisco, 2003, p. 2128; Riforma societaria e nuovo diritto penale commerciale in
La riforma delle società. Profili della nuova disciplina, a cura di Ambrosiani,
Torino, 2003, p. 219 ss. In senso analogo cfr. pure Galgano, Diritto Commer‑
ciale. Le società, Bologna, 2003, p. 253 e ss., nonché Codazzi, Vantaggi com‑
pensativi e infedeltà patrimoniale (dalla compensazione “virtuale” alla com‑
pensazione “reale”): alcune riflessioni alla luce della riforma del diritto socie‑
tario, in Giur. Comm., 2003, II, p. 607.
12Per la tesi secondo cui il danno, ai sensi dell’art. 2947 co.1. c.c., mancherebbe
se “eliso in senso ragionieristico e sul piano quantitativo”, cfr Sacchi, Sulla
responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di ca‑
pitali, in Giur. Comm., 2003, p.673.
13 Cosa che, ad avviso di chi scrive, almeno prima facie, apparirebbe in ogni caso,
quantomeno, coerente con il principio di estrema ratio dell’intervento penale.
Tuttavia, al riguardo non si è mancato di osservare che “Il danno, mancando
dal punto di vista penalistico, difficilmente potrebbe essere affermato in sede
extrapenale, trattandosi sempre di verificare una diminuzione patrimoniale
oggettivamente verificabile” così Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit.
penale
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sabile proprio nella necessità di ampliare i margini di liceità
della condotta penale rispetto all’illecito civile. Al riguardo si
è, tuttavia, osservato che “la tesi, per altro, non spiega perché
la legge si sarebbe limitata ad escludere l’ingiustizia del danno,
anziché quest’ultimo, in sé e per sé”14.
Del resto, una simile posizione ermeneutica, corre il ri‑
schio di trasformarsi in una insidiosa interpretatio abrogans
della norma. Infatti, il verificarsi di una compensazione reale,
nell’elidere il danno, lungi dall’essere indifferente per il dirit‑
to, assume rilevanza ex se a prescindere da una espressa
previsione, in quanto incide su di un elemento strutturale del
reato – il danno, per l’appunto – in assenza del quale, in ogni
caso si assisterebbe al mancato perfezionamento della fatti‑
specie. In altri termini, avendo il legislatore strutturato la
fattispecie come reato di danno, una simile interpretazione
ridurrebbe il co. 3 ad una inutile ripetizione del co.1.
2.3 La tesi della mancanza della fattispecie soggettiva del
fatto tipico per venir meno del dolo specifico
Come pure si è accennato nelle pagine precedenti, una
ulteriore corrente interpretativa, pur muovendo dalla consi‑
derazione che la qualifica di ingiustizia vada riferita al profit‑
to e non al danno, segue un diverso iter argomentativo e
conclude per il venir meno, nei casi in esame, della fattispecie
soggettiva del fatto tipico. Infatti, ai fini dell’integrazione
dell’elemento psicologico del reato in parola, la norma richie‑
de la presenza di un c.d. doppio dolo. Ed invero, a rigore del
dato testuale, è necessario che il soggetto attivo abbia agito
“al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto od
altro vantaggio” ed abbia cagionato “intenzionalmente alla
società un danno patrimoniale”. Per quanto ai presenti fini
interessa, autorevole dottrina15 ha evidenziato che, dunque,
rispetto al profitto o altro vantaggio, il soggetto deve agire
con dolo specifico, cioè, al fine precipuo di conseguire gli
stessi, mentre con riferimento al danno patrimoniale deve
agire con dolo intenzionale, cioè deve avere quale obiettivo
principale della propria condotta il verificarsi del medesimo.
Chiarito quanto innanzi, evidentemente, ove si agisce al fine
di conseguire vantaggi effettivamente verificatisi o fondamen‑
talmente prevedibili, il profitto che si intende conseguire è
privo del carattere dell’ingiustizia, sicché l’agente, nel porre
in essere la propria condotta materiale, manca del descritto
elemento psicologico, richiesto quale essenziale per il perfe‑
zionamento della fattispecie. In altri termini, se il profitto che
mira a conseguire non è ingiusto, evidentemente, l’ammini‑
stratore (o altro soggetto qualificato, trattandosi di reato
proprio) che pone in essere l’operazione non si rappresenta e
non vuole, a fortiori, un profitto ingiusto quale conseguenza
della propria condotta e, quindi, non agisce col dolo specifico
di cui alla norma.
Parte della dottrina, tuttavia, ha ritenuto tale tesi critica‑
bile e ciò, principalmente, per le conseguenze che essa com‑
porta. Come si è osservato, “se il terzo comma si riferisse al
dolo specifico, o consentisse di ricondurre tale elemento alla
qualifica di ingiustizia, ne deriverebbero precise conclusioni,
quanto al contenuto rappresentativo del medesimo dolo spe‑
14Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 230.
15 Ci si riferisce a Musco, I nuovi reati societari, Milano 2004, p. 215.
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cifico. Il soggetto dovrebbe infatti conoscere con sufficiente
chiarezza le concrete circostanze che consentono il maturare
della compensazione. Non sarebbe sufficiente la persuasione
che alla condotta segua un profitto non ingiusto, (…) con il
risultato che per escludere il dolo specifico, si dovrebbe accer‑
tare nell’agente la rappresentazione preventiva delle specifiche
condizioni riscontrate in concreto dal giudice”16. Sicché, quan‑
do i vantaggi previsti dall’agente, ancorché decisivi nel for‑
marsi della decisione di costui, non si producano, realizzan‑
dosi, in luogo degli stessi, vantaggi di tipo diverso pur sempre
di carattere compensativo, dovrebbe affermarsi, nonostante
tutto, la indubbia sussistenza dell’elemento psicologico.
2.4 La c.d. lettura differenziata
Un’altra parte della dottrina e della giurisprudenza, poi,
ritiene che il vantaggio compensativo incida in alcuni casi
sulla fattispecie oggettiva (qualora si sia in presenza di una
compensazione integrale) ed in altri su quella soggettiva
(quando manchi tale compensazione): si tratta della c.d. let‑
tura differenziata.
Essa muove dal ritenere che la compensazione vada riferi‑
ta al danno, richiedendo quale ulteriore requisito che, almeno
in via implicita, il vantaggio equivalga al danno, sì da bilan‑
ciarlo integralmente sul piano economico. Ciò posto, si ren‑
derebbe necessario distinguere tra due ipotesi: quella in cui i
vantaggi siano stati conseguiti e quella in cui essi siano solo
fondatamente prevedibili. “L’ipotizzata interpretazione
dell’art. 2634, co. 3, c.c. avrebbe l’effetto di introdurre al suo
interno una netta cesura, data l’impossibilità di assimilare i
vantaggi ‘conseguiti’ e quelli che risultino, per contro, solo
prevedibili (nonché i vantaggi conseguiti e quelli semplicemen‑
te previsti, sia pure in termini di certezza). Solo i vantaggi
effettivamente acquisiti dalla società potrebbero effettivamen‑
te compensarne l’impoverimento. La compensazione sarebbe
invece esclusa quando il vantaggio non sia maturato, ancorché
possa prevedersi con certezza o con sufficiente fondamento.
In questi ultimi casi il danno sussisterebbe e le ragione della
non punibilità dovrebbero, perciò, essere individuate su di un
piano diverso, collegandosi all’assenza di dolo specifico, o al
difetto di altro valore costitutivo dell’illecito”17. In estrema
sintesi, dunque, se opera l’integrale compensazione si elide il
danno e viene meno la fattispecie oggettiva del fatto tipico; se
la compensazione non opera, ma vi sono vantaggi previsti e
non ancora realizzati, viene meno il dolo specifico e, quindi,
la fattispecie soggettiva del fatto tipico.
Altri autori, tuttavia, hanno posto in evidenza, in primo
luogo, che anche una simile lettura, si risolverebbe, almeno in
parte, in una interpretatio abrogans della norma18. In secon‑
16Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 236 e ss.
17Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 72.
18Per una critica della lettura ‘differenziata’ cfr. Masucci, Infedeltà patrimoniale,
cit., p. 73 e ss. ove, tra l’altro, si legge che essa porta ad una “duplicazione in‑
giustificata dei contenuti della legge” in quanto “è già la necessità di verificare
un danno al patrimonio, nella sua precisa entità, a imporre di tener conto di un
possibile riequilibrio dell’iniziale perdita; così che l’espressa precisazione del
terzo comma si rivelerebbe superflua. L’interprete, che una tale interpretazione
accogliesse, priverebbe perciò la norma di contenuti essenziali, senza poterne
dare giustificazione, dato che è innegabile che la medesima norma, può essere
diversamente interpretata, assumendo così, attraverso il suo ultimo comma, un
contenuto che arricchisce la portata di quanto si desumerebbe in sua assenza”.
Ad avviso di chi scrive, tuttavia, appare opportuno sottolineare che la prospet‑
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do luogo si è rilevato come essa finirebbe per accomunare due
ipotesi affatto diverse19.
2.5 La tesi della scriminante
Tutte le tesi innanzi esposte, come si è provveduto a met‑
tere in risalto fin da subito, hanno in comune di ritenere che
la presenza di vantaggi compensativi incida sul fatto tipico.
Radicalmente diversa è la posizione di chi invece ritiene trat‑
tarsi di una causa di esclusione dell’antigiuridicità, la quale,
evidentemente, da un lato, presuppone l’integrazione del fatto
tipico nella sua interezza – e, quindi, sia nelle componenti
oggettive che soggettive – e, dall’altro, implica una valutazio‑
ne di liceità condotta alla stregua dell’intero ordinamento
giuridico. È stato, infatti, sostenuto che la clausola di cui al
co. 3 dell’art. 2634 c.c., ha in sé “le stigmate della scriminan‑
te” ed in vero, qualificare “non ingiusto” il profitto, ogni qual
volta esso abbia i requisiti di cui al suddetto comma, significa
dire che esso non è contra ius. Ciò posto, “sarebbe difficile
negare ad un siffatto estremo di fattispecie, che qualifica ‘non
contra ius’ una determinata situazione, lo status di scriminan‑
te e, dunque, di circostanza che elide l’antigiuridicità del fatto
tipico”20.
3. Cenni ai rapporti tra infedeltà patrimoniale e reati di bancarotta
Come di qui a breve si vedrà, le linee di confine tra infe‑
deltà e bancarotta risultano essere molteplici e complesse.
Dalla lettura in combinato disposto degli artt. 216 e 223
l. fall., per quanto di interesse, emerge, in primis, la punibili‑
tà di fatti di bancarotta fraudolenta societaria per distrazione
commessi da amministratori, direttori generali, sindaci e li‑
quidatori. Il co. 2 n. 1 dell’art 223 l. fall., poi, prevede speci‑
fiche ipotesi di bancarotta fraudolenta “societaria specifica”
(ovvero commessa in ambito societario, mediante la integra‑
zione di un reato societario) che si verifica nel caso in cui i
soggetti suddetti abbiano cagionato, o concorso a cagionare,
il dissesto della società, commettendo taluno dei reati socie‑
tari indicati, tra cui il reato di infedeltà patrimoniale di cui
all’art. 2634 c.c. Il co. 2, n. 2, infine, prevede quale ulteriore
ipotesi criminosa il fatto di bancarotta dei soggetti suddetti
che abbiano cagionato con dolo o per effetto di operazioni
dolose il fallimento della società 21. Da ultimo, deve rilevarsi
tata interpretazione priverebbe di significato la norma solo in parte e, cioè,
solo per quanto attiene all’ipotesi in cui i vantaggi siano conseguiti, mentre,
evidentemente, le attribuirebbe significato autonomo per quanto riguarda
l’ipotesi in cui fa riferito all’ipotesi in cui i vantaggi prevedibili, configurando
in tal caso la specifica funzione di prevedere una scriminante.
19 Al riguardo si è, infatti, ulteriormente notato in senso critico che “il comma in
esame, così interpretato, avrebbe, in luogo di un effetto di chiarificazione,
quello di accrescere il dubbio, visto che non si comprende perché il legislatore,
nel perseguire l’obbiettivo della maggior chiarezza, abbia affiancato le diverse
e non confondibili ipotesi dell’assenza di danno, dovuta all’effettivo consegui‑
mento dei vantaggi compensativi, e del venir meno del dolo specifico di profit‑
to, o comunque di un disvalore riferibile alla condotta, nel caso dei vantaggi
semplicemente prevedibili” Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 75.
20Mucciarelli, Il ruolo dei vantaggi compensativi nell’economia del delitto di in‑
fedeltà patrimoniale degli amministratori, in Gruppi di società e criterio dei
vantaggi compensativi nella riforma del diritto societario, Una Tavola Rotonda
sui vantaggi compensativi nei gruppi, organizzata dalla Facoltà di Giurispru‑
denza dell’Università dell’Insubria, tenutasi a Como in data 11 maggio 2002,
in Giur. Comm., p. 633.
21Pur non apparendo tale la sede appropriata per una disamina della questione,
non può fare a meno di segnalarsi che la principale problematica al riguardo
attiene ai rapporti sussistenti tra le tre ipotesi innanzi individuate, soprattutto
in considerazione delle modifiche innestate sul previgente testo normativo.
2 0 1 3
53
la mancanza nella disciplina dei reati fallimentari di una
specifica previsione in ordine al fenomeno dei gruppi di socie‑
tà; lacuna che, per altro, non desta alcuna perplessità e non
rende il legislatore passibile di alcun rimprovero ove calata nel
contesto storico dei primi anni ’40 dello scorso secolo, in cui
è stata emanata la legge fallimentare. Come si è correttamen‑
te osservato, infatti, “il fenomeno dei gruppi societari non
aveva all’epoca della sua redazione un peso specifico tale
nella realtà economico‑giuridica da indurre il legislatore a
regolamentarlo espressamente”22.
In presenza di operazioni infragruppo ci si può, quindi,
porre una pluralità di quesiti in relazione alle tre ipotesi cri‑
minose poc’anzi individuate. Segnatamente, innanzitutto, ci
si può chiedere se il trasferimento di risorse infragruppo pos‑
sa essere qualificato come distrazione ai sensi e per gli effetti
del comb. disp. degli art. 216 e 223 co 1 l. fall.; in secondo
luogo, ci si potrebbe domandare quid iuris se nella bancarot‑
ta societaria commessa a mezzo infedeltà si verifichi un
“vantaggio compensativo”; in terzo luogo, e più in generale,
ci si può interrogare circa l’applicabilità alle ipotesi di banca‑
rotta della norma prevista per l’infedeltà patrimoniale dall’art.
2634 co. 3 c.c. Tre, pertanto, risultano essere gli angoli pro‑
spettici dai quali i rapporti tra le fattispecie in esame possono
essere rimirati:
• rapporti tra distrazione e infedeltà patrimoniale (cioè tra
l’art. 216, co. 1, l. fall. e l’art. 2634 c.c.);
• rapporti tra reato societario presupposto e reato di ban‑
carotta nel reato di bancarotta impropria societaria (cioè
tra l’art. 216 co. 2, n. 2 l fall e l’art. 2634 c.c.);
• applicabilità alla bancarotta (rectius: alle diverse ipotesi
di bancarotta) della disciplina relativa i gruppi (rapporti,
cioè, tra il co. 3 dell’art. 2634 e l’art. 216 l. fall.).
Ciò posto, in tal sede si intende dar conto semplicemente
degli aspetti di maggior interesse connessi al terzo dei suddetti
Contorto risulta pure, evidentemente, il rapporto tra infedeltà patrimoniale (e
più in generale reati societari) e bancarotta. Per un’articolata disamina delle
problematiche richiamate cfr. Napoleoni, Le mariane qui a mal tournè: lo
strano caso dell’infedeltà patrimoniale e della bancarotta, in Cass. pen. 2009,
I, p. 294 e ss. L’Autore, nel descrivere le conseguenze dell’innesto dell’infedeltà
patrimoniale nella ridisegnata ipotesi di bancarotta da reato societario, ha
provveduto a sottolineare come “nel caso di reato societario – e di infedeltà
patrimoniale in specie – che provochi dissesto, si assiste (…) ad un fenomeno
con pochi precedenti storici nella pur ricca galleria delle ‘anomalie’ ordinamen‑
tali; convergono, cioè, sul medesimo fatto tre diverse figure criminose, tutte
punite con la medesima pena: bancarotta per distrazione, bancarotta da reato
societario e bancarotta per causazione dolosa del fallimento”. È lecito, tuttavia,
dubitare della sussistenza di un mero concorso apparente di norme e della
sussistenza di un rapporto di specialità unilaterale delle stesse che conduca
all’applicazione unicamente della seconda tra le richiamate fattispecie. Ad av‑
viso del Napoleoni, infatti, “a differenza delle ipotesi di contemplate dal com‑
ma 2 dell’art. 223 l. fall., la bancarotta fraudolenta patrimoniale prescinde (…)
dal collegamento causale condotta‑dissesto”, il che, per un verso rende irragio‑
nevole il livellamento delle cornici edittali e, per altro verso, pone all’interprete
il problema di comprendere cosa accada se la bancarotta non sia in nesso
causale con l’infedeltà. Se il legislatore ha richiesto per la punibilità delle ipote‑
si in questione ha richiesto la sussistenza di un nesso causale tra reato societario
e dissesto, ove quest’ultimo manchi apparirebbe contro la ratio dell’intervento
legislativo sostenere che, esclusa la bancarotta da reato societario, il fatto resti
o torni ad assumere penale rilevanza come bancarotta per distrazione. Ritene‑
re, infatti, che se sussiste nesso si rientra nella bancarotta da reato societario e
se non sussiste si rientra nella bancarotta per distrazione, punita con la mede‑
sima pena prevista per il reato precedente, equivarrebbe, di fatto, ad una inter‑
pretatio abrogans della norma di cui all’art. 223, co.2, n.1, l. fall.
22 Amarelli, La riforma dei reati fallimentari nel disegno di legge delega n. 1741‑C,
in Diritto penale fallimentare problemi attuali, a cura di N. Pisani, Torino, 2010,
201 ss.
penale
Gazzetta
54
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
profili enunciati. La prima delle richiamate problematiche, in‑
fatti, esula dalla presente trattazione, mentre la seconda potreb‑
be essere più agevolmente risolta riportandosi ai principi gene‑
rali dell’ordinamento e ricordando brevemente che, qualora si
verifichi un vantaggio compensativo in una ipotesi di bancarot‑
ta societaria da infedeltà patrimoniale, a prescindere dalla
qualificazione giuridica che intenda darsi alla clausola di cui al
co. 3 dell’art. 2634, il venir meno del reato presupposto dovreb‑
be impedire la configurabilità del reato presupponente.
Chiarito quanto innanzi, può affermarsi che tra le più
spinose e discusse questioni relative ai rapporti tra infedeltà
patrimoniale e reati di bancarotta, vi è senz’altro quella rela‑
tiva all’applicabilità della disciplina prevista per i vantaggi
compensativi alle ipotesi di bancarotta fraudolenta impro‑
pria 23. Particolarmente problematica si presenta, invero,
23 Riguardo alla definizione dell’ambito di operatività della problematica in esame,
appare utile il contributo in materia apportato da Bartolo, Bancarotta e infe‑
deltà patrimoniale infragruppo. La distrazione seguita dal fallimento, cit. p. 175
e ss. L’Autore, infatti, dopo un lungo excursus sull’evoluzione di dottrina e
giurisprudenza, rileva come l’insolvenza del gruppo vada tenuta ben distinta
dall’insolvenza della singola società ad esso appartenente, dovendosi, poi, in
quest’ultimo caso ulteriormente distinguere l’ipotesi di operazioni compensate
da quella di operazioni non compensate. Riguardo allo stato di insolvenza del
gruppo, invero, del tutto irrilevante apparirebbe sotto il profilo penale, la
presenza di operazioni infragruppo. A p. 190 e ss., infatti, è dato leggere “Un’in‑
terpretazione corretta delle norme penali che puniscono la bancarotta non può
non portare a distinguere il caso in cui la procedura concorsuale investe l’inte‑
ro gruppo (…) da tutti gli altri casi in cui il fallimento travolge una o più socie‑
tà, che vengono considerate de facto, come entità autonome e distinte” infatti
“nel caso in cui vi sia il fallimento di un gruppo di imprese (comunque orga‑
nizzate) le operazioni infragruppo (…) devono essere valutate come se avessero
determinato degli spostamenti di ricchezza che, essendo rimasta sempre all’in‑
terno del gruppo, non può neppure in astratto, configurare una distrazione
penalmente rilevante ai fini della bancarotta”. Ovvero “tutte le operazioni in‑
tervenute anche tra le ‘diverse’ società componenti il gruppo ammesso alla
procedura concorsuale possono essere considerate a tutti gli effetti e, quindi,
anche a quelli penali, alla stregua di meri ‘atti interni’ la cui valutazione non
può che essere effettuata equiparando, in buona sostanza, le operazioni infra‑
gruppo a degli atti di disposizione compiuti dallo stesso imprenditore, il quale
(…) è libero di spostare le singole componenti del suo patrimonio da un’impre‑
sa all’altra, tenuto conto che egli risponde con tutti i suoi beni nei confronti
anche dei creditori delle diverse imprese”. Immediatamente dopo si precisa che
“Tutto quanto sin qui detto in relazione allo stato di insolvenza del gruppo non
vale anche per il caso in cui ad essere fallito non è il gruppo, bensì la singola
società di cui esso fa parte”. Senza nulla voler anticipare circa le conclusioni
della presente riflessione, le speculazioni del l’Autore si fanno particolarmente
interessanti, quando si entra nel vivo della questione. In particolare, si accoglie
una nozione di gruppo più lata di quella civilistica e si aderisce alla tesi secondo
cui i vantaggi compensativi escludono il fatto tipico (in questo caso quello
della bancarotta e non già quello di infedeltà) per venir meno del danno patri‑
moniale richiesto dalla norma. A tale conclusione si giungerebbe, non attraver‑
so l’applicazione del co.3 dell’art 2634 c.c. e neppure ponendosi in un’ottica di
necessaria offensività, bensì, attraverso la rielaborazione del concetto di distra‑
zione. Al riguardo, si sostiene che, in presenza di un organismo unitario al cui
vertice sia collocato un soggetto societario di cui siano stati edotti tutti gli inte‑
ressati, pure in assenza delle formalità civilistiche, “ciò che rileva non è tanto
l’esistenza del gruppo di per sé, quanto piuttosto la natura infragruppo di
quelle operazioni che, proprio perché effettuate con società collegate potrebbe‑
ro risultare prive di rilevanza penale in virtù dell’ormai riconosciuto meccanismo
dei cc.dd. vantaggi compensativi, i quali adergono, nel caso di fallimento della
controllante o della controllata a, vero e proprio, requisito della fattispecie
(astratta). (…) In questi casi, invero, il concetto di distrazione penale che puni‑
sce la bancarotta dell’amministratore non può considerarsi eguale a quello già
enunciato in relazione alla bancarotta societaria, posto che la disciplina del
codice civile stabilisce espressamente che la controllata può anche agire nell’in‑
teresse della capofila o de gruppo, ogni qual volta il pregiudizio che le viene
causato dalla singola operazione risulti compensato da vantaggi che derivano
dall’appartenenza al gruppo. Anzi, è proprio il concetto di distrazione penal‑
mente rilevante che dovendosi modulare sulla disciplina dei vantaggi compen‑
sativi non può più ricomprendere operazioni di questo tipo, anche perché la
compensazione determina l’inesistenza di quel danno che costituisce un elemen‑
to caratterizzante il fatto tipico”. Quanto alla penale rilevanza delle operazioni
infragruppo non compensate, poi, dovrebbe da ultimo distinguersi le ipotesi in
cui esse danno luogo ad una vera e propria distrazione, da quelle in cui si de‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
l’applicabilità della fattispecie in esame ad ipotesi di reato
diverse da quella per cui la disciplina è stata posta.
4. Applicabilità della disciplina prevista per il reato di infedeltà
alla bancarotta
Al riguardo, appare doveroso avvertire da subito che la
trattazione meriterebbe ben altra attenzione e ben più appro‑
fondito studio che non è concesso svolgere in questa sede,
nella quale si intende unicamente rendere conto, per quanto
possibile, del dibattito sorto in dottrina e degli ultimi appro‑
di della giurisprudenza.
Giova, innanzitutto, rilevare che una corretta impostazio‑
ne della questione in parola presuppone chiarezza di idee in
ordine a tre aspetti e, precisamente: la definizione della no‑
zione di gruppo24, la corretta individuazione del bene giuridi‑
co tutelato nei reati di bancarotta 25, la soluzione della diatriba
relativa alla natura giuridica da attribuire alla disposizione
normativa in tema di infedeltà patrimoniale che si intende
applicare alle richiamate ipotesi di bancarotta 26.
Va da sé che, se si ritiene che se la disposizione di cui
all’art. 2634, co. 3 c.c. contribuisce a definire il precetto nor‑
mativo escludendo la tipicità di ipotesi di infedeltà in cui sia
ravvisabile la compensazione di vantaggi e svantaggi derivan‑
ti dall’operazione economica nel suo complesso, essa non
potrebbe trovare applicazione al di fuori del reato in esame.
Viceversa, attribuendo alla disposizione natura di scrimi‑
nante, per poter sciogliere l’esaminando nodo ermeneutico, si
renderebbe doveroso e necessario rispondere all’interrogativo
circa l’applicabilità in via analogica delle norme che prevedo‑
no cause di esclusione dell’antigiuridicità 27. In altri termini,
potrebbe ritenersi applicabile anche alla bancarotta la teoria
del vantaggio compensativo aderendo alla tesi che propende
per l’applicabilità analogica delle scriminanti.
termina “un affievolimento della responsabilità penale, potendo fatti che po‑
trebbero essere anche qualificati come delle distrazioni fraudolente se le opera‑
zioni riguardassero società non collegate tra loro, assumere i tratti tipici di una
bancarotta semplice”. Nell’orientamento prospettato sembrerebbe collocarsi
anche altra dottrina e segnatamente Codazzi, Bancarotta fraudolenta e vantag‑
gi compensativi: alcune riflessioni sul concetto di “distrazione” nei gruppi”, in
Giur. comm., 2008, 4, 764 ove nelle considerazioni conclusive si legge che “si
potrebbe ritenere che – indipendentemente dalla possibilità di una applicazione
in senso tecnico dell’art. 2634, 3° comma, c.c. ad altre fattispecie penali ‑, se
diversi indici normativi consentono di fondare un giudizio di non illegittimità
di principio della direzione unitaria da parte dell’ordinamento e se, di conse‑
guenza, la stessa valutazione della responsabilità in capo alla società control‑
lante e ai suoi organi sociali, per coerenza intrinseca al sistema, non può essere
disgiunta dall’esigenza di ricondurre il singolo ‘’atto’’ entro la prospettiva uni‑
taria presupposta dalla ‘’attività’’, parrebbe, allora, necessario indirizzare l’in‑
terprete verso una rivisitazione del concetto di ‘’distrazione’’ alla luce della lo‑
gica imposta dalle relazioni intragruppo”.
24Può in tal sede sottolinearsi ulteriormente la mancanza di una definizione
normativa di gruppo che ha originato i fenomeni di supplenza giudiziaria sfo‑
ciati nella già citata sentenza della V sezione della Corte di cassazione del
2004.
25Può sinteticamente ricordarsi che ad opinione della concezione patrimoniale
esso sarebbe ravvisabile nella tutela di interessi patrimoniali dei creditori e, più
precisamente, nella conservazione della garanzia patrimoniale offerta ai mede‑
simi
26 Disposizione che, ricordiamo, sarebbe ad avviso di molti da intendersi quale
norma di favore.
27Senza alcuna velleità di esaustività, può brevemente ricordarsi che la dottrina
non è concorde nel ritenere applicabili in via analogica le scriminanti. Sebbene,
infatti, una consistente parte della di essa reputa trattarsi di norme generali
dell’ordinamento e di favore, applicabili anche al di fuori dei casi espressamen‑
te previsti; coloro i quali ritengono che le stesse contribuiscano indirettamente
alla definizione del discrimen tra lecito ed illecito, consentendo l’individuazione
della materia del divieto, ne negano l’applicazione analogica.
Gazzetta
55
4.1. La tesi della inapplicabilità e le sue argomentazioni
La tesi originariamente dominante è apparsa salda nell’af‑
fermare l’inapplicabilità dell’art. 2634 co. 3 c.c. al di fuori
dell’ambito in cui è prevista e, quindi, nel negare la possibili‑
tà di estendere la disciplina dei vantaggi compensativi prevista
per il reato di infedeltà patrimoniale anche ai reati di banca‑
rotta, che, oltretutto, rappresentano un sottosistema di collo‑
cazione extracodicistica 28.
Le motivazioni di una simile posizione potrebbero essere
sostanzialmente affidate alle seguenti argomentazioni giuri‑
diche.
In primo luogo, i reati di infedeltà patrimoniale, da un
lato, e quelli di bancarotta, dall’altro, sono volti alla tutela di
una diversa oggettività giuridica e, rispettivamente, il primo
tende alla tutela del patrimonio sociale, mentre i secondi alla
tutela della garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c.
In secondo luogo, si evidenzia pure una diversa natura dei
medesimi, il primo reato di danno, gli altri reati che espongo‑
no a pericolo le ragioni creditorie.
In terzo luogo, si insiste molto pure sulla autonomia sog‑
gettiva delle imprese appartenenti al gruppo. Ciò comporte‑
rebbe che, mentre nel reato di infedeltà patrimoniale il van‑
taggio compensa il danno con riferimento al patrimonio
nella singola società sulla quale si andranno a rivalere i cre‑
ditori, in quanto essa riceve vantaggio dall’appartenenza al
gruppo; in presenza di una operazione criminosa che deter‑
mini la bancarotta della singola società appartenente al
gruppo, i creditori di quest’ultima comunque non potranno
che rivalersi sul patrimonio sociale della singola impresa
pregiudicata, non essendo aggredibile in alcun modo il patri‑
monio di altre imprese. Sicché, qualora si determini la banca‑
rotta, il pregiudizio resterebbe inevitabilmente in capo ai
creditori senza che essi possano rivalersi sul gruppo o su altre
imprese appartenenti al medesimo.
Da ultimo, il vantaggio compensativo, come si è detto,
presuppone necessariamente un conflitto di interessi, il quale
non può ritenersi in re ipsa in ogni atto a nocumento della
controllata e a vantaggio di altra o del gruppo29.
La Suprema Corte, prendendo posizione sulla questione,
all’indomani dell’entrata in vigore della legge si è attestata su
tesi restrittive, affermando che “Il vantaggio compensativo
non può, tuttavia, andare oltre la sfera dell’infedeltà patrimo‑
niale per la quale è previsto e non è, dunque, applicabile
all’ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria riguardante
una società collegata o appartenente al gruppo, in quanto il
fenomeno del collegamento societario non vulnera il principio
dell’autonomia soggettiva delle società interessate ed il falli‑
mento di una di esse prescinde dalla considerazione degli in‑
teressi del gruppo societario”30.
28Si è, infatti, da subito chiaramente affermato che “Il vantaggio compensativo
che, ai sensi dell’art. 2634, comma 3, c.c. esclude l’ingiustizia del profitto
nell’infedeltà patrimoniale, non opera oltre tale fattispecie, e men che meno
nella bancarotta fraudolenta, la quale prescinde dalla considerazione degli in‑
teressi del gruppo societario unitariamente considerato”. Così Cass. pen.,
Sez. IV, n. 641 del 24 aprile 2003.
29Sul punto si veda la più volte richiamata sentenza della V Sez. Cass pen., 24
aprile 2003, n. 23241, in materia di gruppi societari.
30 Così la già citata Cass. pen., Sez. V, 24 aprile 2003, n. 23241.
4.2. Possibili aperture della giurisprudenza
Negli anni successivi, in vero, il massimo organo nomofi‑
lattico è tornata ad occuparsi della questione in numerose
pronunzie31. Anch’esse, prima facie, appaiono negare la sussi‑
stenza nella fattispecie concreta della ipotesi dei vantaggi
compensativi; resta, però, da chiedersi quale sia la posizione
assunta dalla giurisprudenza rispetto alla astratta applicabilità
della norma in esame alle ipotesi di bancarotta fraudolenta32.
In altri termini, i recenti attestamenti giurisprudenziali eviden‑
zierebbero come la Corte – nell’escludere nel caso sottoposto
alla sua attenzione la ricorrenza degli estremi della compensa‑
zione – in modo più o meno esplicito presupponga l’applicabi‑
lità della clausola sui gruppi di società anche al di fuori dell’ipo‑
tesi criminosa per cui è prevista e, segnatamente, in materia di
reati fallimentari. E ciò, ancorché, mutatis mutandis, le valu‑
tazioni da compiere in ordine alla sussistenza di tali vantaggi
nei reati di bancarotta assumano profili peculiari, anche in
considerazione della diversità dei beni giuridici tutelati. Sicché,
anche in tale ambito potrebbe darsi rilevanza, entro certi limi‑
ti e nell’ottica dell’integrità dell’interesse creditorio, alla logica
del gruppo. La prima pronunzia esplicita al riguardo risale al
200633. In essa, al punto 6 della lettera C), intitolato per l’ap‑
punto “L’interesse di gruppo”, il Collegio precisa, in primo
luogo, che i c.d. vantaggi compensativi sono definibili quali
quei vantaggi di cui “un singola società sarebbe in grado di
fruire in conseguenza della sua appartenenza ad un più ampio
gruppo d’imprese: della possibilità, insomma, che da un’ope‑
razione orchestrata dalla controllante e intesi vantaggiosa per
il gruppo discenda per la controllata una indiretta utilità idonea
a neutralizzare l’apparente pregiudizio ad essa arrecato”. Chia‑
rito quanto innanzi, la Suprema Corte afferma expressis verbis
che “con riferimento ai fatti di disposizione patrimoniale con‑
testati come distrattivi o dissipativi, siffatta eventualità è da
ritenere in astratto ammissibile”. E ciò in quanto “non può non
riconoscersi (…) che la previsione dell’art. 2634 c.c., comma 3,
conferisce valenza ‘normativa’ a principi già desumibili dal
sistema, in punto di necessaria considerazione della reale of‑
fensività della condotta tanto gravemente sanzionata dalle
norme fallimentari. A conferma della necessità di inserire (co‑
me è stato rilevato dalla dottrina) il rapporto di gruppo ‘nella
lista delle circostanze da ponderare in sede di verifica della
sussistenza della condotta tipica della distrazione, non potendo
in materia l’analisi giuridica andare comunque distinta da
quella economica della vicenda”.
31Al riguardo, basti pensare a Cass. pen., Sez. V, 18 novembre 2004, n. 10688;
Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 2006, n. 36764; Cass. pen., Sez. V, 22 febbraio
2007; Cass. pen., Sez. V, 15 marzo 2007, n. 11019; Cass. pen., Sez. V, 4 dicem‑
bre 2007; Cass. pen., Sez. V, 15 febbraio 2008, n. 7326.
32Parte della dottrina ha, infatti, evidenziato come, nella maggior parte delle
pronunzie richiamate la Corte di Cassazione ribadisce “sia pur in termini assai
cauti (…) il proprio più recente indirizzo, circa la possibilità di ‘esportare’ la
teoria dei vantaggi compensativi in territorio penale fallimentare”, pur esclu‑
dendo che “vantaggi di tal genere fossero ipotizzabili nel caso di specie, giacché
i trasferimenti privi di contropartita erano stati effettuati da una società in
difficoltà economiche, a favore di società che versavano in analoghe difficoltà.
Situazione nella quale non si sarebbe potuta prefigurare alcuna ‘utilità di ritor‑
no’ futura, connessa all’appartenenza al medesimo gruppo, atta a compensare
il depauperamento patrimoniale imposto nell’immediato alla società sfavorita”
Napoleoni, Le mariane qui a mal tournè: lo strano caso dell’infedeltà patrimo‑
niale e della bancarotta “da reato societario”, nota alla già citata sentenza
della Cass. pen., 7326/2008, in Cass. Pen., 2009, I., p. 294 e ss.
33 Ci si riferisce alla già ricordata Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 2006, n. 36764.
penale
F O R E N S E
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
Ciò posto, la Corte individua l’oggetto dell’accertamento
relativo alla sussistenza in concreto dell’offensività precisando
che, al riguardo, risulta necessario verificare: 1) la sussistenza
di vantaggi compensativi; 2) la sussistenza di una effettiva
connessione tra gli ipotizzati benefici indiretti ed il vantaggio
complessivo del gruppo; 3) l’idoneità di tali benefici a com‑
pensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi
dell’operazione compiuta, privandola del carattere lesivo del
bene giuridico tutelato che, nel caso dei reati fallimentari, è
ravvisato negli interessi dei creditori34. In altri termini, dun‑
que, la sussistenza di vantaggi compensativi in tale ambito si
riverbera in una peculiarità dell’oggetto dell’accertamento
legata a sua volta allo specifico oggetto di tutela avuto di
mira dal legislatore con l’incriminazione della bancarotta.
La Corte, dunque, parrebbe prendere indirettamente posi‑
zione anche sulla natura della clausola sui vantaggi compensa‑
tivi, ritenendola espressione del più generale principio di offen‑
sività35 e, subito di seguito, parrebbe precisare che, movendosi
dal contesto dei reati contro il patrimonio a quello dei reati di
bancarotta, la valutazione circa l’idoneità offensiva andrebbe
condotta tenendo presente l’interesse dei creditori36.
La Corte, in conclusione, non esclude l’astratta rilevanza
anche per i reati di bancarotta della logica del gruppo, ma
precisa i limiti entro i quali può considerarsi rilevante l’inte‑
34Per ricordare le parole usate dalla Corte nella pronunzia in esame “proprio il
fatto che siffatta analisi ha lo scopo di verificare l’offensività in concreto della
condotta rende evidente che nono è sufficiente, al fine di escludere la ricondu‑
cibilità di un’ operazione diminuzione patrimoniale senza apparente corrispet‑
tivo ai fatti di distrazione o dissipazione incriminabili, la mera ipotesi della
sussistenza di vantaggi compensativi, ma occorre che gli ipotizzati benefici in‑
diretti della fallita risultassero non solo effettivamente connessi ad un vantaggio
compensativo del gruppo, ma altresì idonei a compensare efficacemente gli
effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta: in guisa tale da non
renderla capace d’incidere (perlomeno nella ragionevole previsione dell’agente)
sulle ragioni dei creditori della società”
35 Appare doveroso precisare, tuttavia, che in altre pronunzie successive, la Su‑
prema Corte, pur senza soffermarsi specificamente sulla questione relativa alla
natura della clausola in esame per dirimerla espressamente, qualifica quella dei
vantaggi compensativi come “scriminante”. Sul punto cfr, da ultimo, Cass.,
Sez. V, 5 novembre 2008, n. 41293, su cui si avrà modo di tornare di qui a
breve.
36Ponendosi in un ottica di offensività, tuttavia, non risulta limpidissimo il pas‑
saggio poc’anzi riportato per inciso in parte motiva e relativo alla “ragionevo‑
le previsione dell’agente”. Chiaro essendo che l’animus dell’agente non potreb‑
be elidere l’offensività della condotta, probabilmente la Corte intende dire che,
sia pure in presenza di una condotta offensiva, idonea a causare la bancarotta
dell’impresa, e sia pure in presenza di un nesso materiale tra reato societario e
bancarotta, la previsione di un vantaggio compensativo da parte dell’agente
dovrebbe ritenersi incompatibile con il dolo di bancarotta. Le strade che astrat‑
tamente potrebbero seguirsi al riguardo sono due. Innanzitutto, l’art. 216 l. fall.
richiede, per il reato di bancarotta, che il soggetto attivo abbia agito allo scopo
di recare pregiudizio alle ragioni dei creditori, sicché, ci si potrebbe chiedere se
un simile elemento psicologico sia richiesto pure nell’ipotesi di cui all’art. 223,
concludendo che, in caso di risposta positiva, in presenza di vantaggi compen‑
sativi dovrebbe escludersi il descritto dolo specifico. Diversamente si potrebbe
ragionare in termini di struttura del reato ricordando che attualmente è richie‑
sta la sussistenza di un nesso materiale tra reato societario e dissesto; ciò posto
ci si potrebbe chiedere se esso debba essere affiancato anche un nesso psichico.
A tale ultimo riguardo, senza voler in alcun modo ripercorrere in tal sede gli
esiti delle diverse opzioni ermeneutiche sorte prima delle modifiche legislative
in commento, la questione appare a chi scrive risolvibile alla luce dei principi
generali. Infatti, se è vero che l’elemento psicologico deve coprire tutti i tratti
essenziali della fattispecie oggettiva, non vi è dubbio che inserire tra gli elemen‑
ti di quest’ultima il descritto nesso causale, significhi richiedere che lo stesso sia
presente nella rappresentazione dell’agente, affinché possa ritenersi perfeziona‑
ta la fattispecie soggettiva del fatto tipico. Pertanto, affermare che l’agente si
sia rappresentato la presenza di vantaggi compensativi in nesso con la distra‑
zione, potrebbe equivalere a sostenere che egli non si sia rappresentato la sus‑
sistenza di un nesso tra la propria condotta e il dissesto, impedendo il perfezio‑
namento della fattispecie soggettiva del fatto tipico.
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resse del gruppo per i reati de quibus, in considerazione della
rilevanza da attribuire al bene giuridico da essi precipuamen‑
te tutelato37. La massima che, pertanto, si è tratta da tale
sentenza è quella secondo cui nei trasferimenti infragruppo il
reato di bancarotta fraudolenta per distrazione resta escluso
se, con valutazione ex ante, i benefici indiretti per la società
fallita si dimostrano idonei a compensare efficacemente gli
effetti immediatamente negativi, sì da rendere l’operazione
incapace di incidere sulle ragioni dei creditori della società.
Sulla stessa scia si pone anche altra successiva decisione del
2007, la quale nel rimarcare il limite posto dall’autonomia
soggettiva, va oltre nel ravvisare la disposizione di cui al co. 3
dell’art. 2634 un presidio posto anche a tutela dei creditori38.
La Suprema Corte torna ad occuparsi del tema dei trasfe‑
rimenti infragruppo nel 2008 assumendo una decisione a ben
vedere conforme al proprio orientamento39. In parte motiva è
dato leggere che “Sia secondo la prevalente giurisprudenza di
legittimità formatasi prima della riforma societaria, sia secon‑
do quella successiva alla introduzione delle nuove norme, che
concedono senz’altro qualche possibilità in più a siffatte ope‑
razioni, il trasferimento di risorse infragruppo, ovvero tra
società appartenenti allo stesso gruppo imprenditoriale, spe‑
cialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società
già in difficoltà economiche, non è consentito e deve essere
qualificato come vera e propria distrazione ai sensi e per gli
effetti della l. Fall. art. 226”. Tale affermazione, evidentemen‑
te, non può essere colta e compresa pienamente, se non alla
luce di tutto quanto si è sin qui argomentato circa l’astratta
rilevanza dell’interesse del gruppo. Infatti, la V sez., ad atten‑
to esame, non sembra rinnegare i propri esiti ermeneutici,
quanto, piuttosto, precisarne i contenuti. La Corte, dunque,
intende chiarire che nell’ipotesi in cui il trasferimento infra‑
gruppo sia operato a favore di una società in dissesto, non
appare verosimile con giudizio ex ante che l’amministratore
abbia posto in essere una operazione in concreto orientata al
perseguimento di vantaggi compensativi. In altri termini, se
il trasferimento è effettuato in presenza delle descritte circo‑
stanze (cioè a favore di una società in disseto), deve escluder‑
si la possibilità che nel caso concreto ricorrano vantaggi
compensativi. Non tutti i trasferimenti infragruppo, dunque,
sono di per sé vietati in quanto riconducibili al reato di ban‑
carotta fraudolenta per distrazione. Ma se si giunge ad una
valutazione concreta, coerentemente, si presuppone l’astratta
ammissibilità degli stessi40.
37Si tratta, in altri termini, di individuare i limiti entro cui può essere sacrificato
l’interesse della singola a favore dell’interesse del gruppo, operando un bilan‑
ciamento che tenga conto dell’autonomia soggettiva che caratterizza le società
ad esso appartenenti.
38 Ci si riferisce a Cass. pen., Sez. V, 15 marzo 2007, n. 11019 la quale espressa‑
mente afferma che “il panorama normativo è decisamente mutato (…) Né il
Collegio ritiene esistere assoluta incompatibilità tra le disposizioni codicistiche
e la fattispecie della bancarotta fraudolenta impropria. A quest’ultimo propo‑
sito, invero, la corte osserva che la tutela del patrimonio dispiegata dall’art.
2634 c.c., si traduce non soltanto nella (indiretta) protezione degli interessi dei
soci, ma anche dei creditori, che nell’asse attivo societario, rinvengono la ga‑
ranzia alla soddisfazione delle proprie pretese (art. 2740 c.c.) e che, inoltre,
l’evento di danno, previsto quale momento consumativo del delitto di infedeltà
patrimoniale, può agevolmente compararsi al dissesto (a cui consegue un’alta
probabilità di insoddisfazione nel recupero della pretesa), che analoga funzione
riveste in seno alla l. fall., art. 223, co.2, n.1”
39 Ci si riferisce a Cass. pen., Sez. V, 15 febbraio 2008, n. 7326.
40Una simile conclusione sembra avallata anche dal ragionamento esplicato
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Ciò in realtà non meraviglia più di tanto ove si ricordi che
assai di frequente in presenza di un mutamento di orienta‑
mento giurisprudenziale, anche al fine di mitigarne le conse‑
guenze, si comincia ad affermare l’astratta ammissibilità
della regola, pur negandone la ricorrenza nel caso concreto.
A conclusioni non dissimili conduce anche l’esame di altre
pronunce emanate dalla Suprema Corte nello stesso anno 41.
dalla Corte nel prosieguo. “È sufficiente ricordare, invero, che le società, pur
appartenendo allo stesso Gruppo, sono persone giuridiche diverse e, pertanto,
i creditori della società depauperata mai potrebbero rivalersi dei loro crediti
inseguendo i beni ceduti da una società ad una altra dotata, ovviamente di una
autonoma personalità giuridica. Insomma la garanzia dei creditori è data pro‑
prio dal patrimonio sociale, che viene depauperato allorché vengano effettuati
trasferimenti di beni ad altra società, con conseguente diminuzione della garan‑
zia. Si può obiettare che se la prognosi dell’operazione è fausta, nel senso che
ne potrebbero trarre benefici entrambe le società, con conseguente beneficio
anche per i creditori, non vi sono gli estremi, alla luce del nuovo diritto socie‑
tario, per considerare quella operazione come distrattiva. Può anche trattarsi
di un ragionamento di una certa consistenza, che, però, non può essere richia‑
mato quando il trasferimento di beni avvenga da una società già in difficoltà
economica ad altra società che versi in analoghe difficoltà. Invero in siffatte
situazioni nessuna prognosi positiva è possibile e, quindi, l’operazione di tra‑
sferimento di risorse non potrà che essere considerata distrattiva. Anche la più
recente giurisprudenza, infatti, ha rilevato che l’introduzione nel nostro ordi‑
namento dell’articolo 2634 c.c. comma 3 non permette di affermare che la
presenza di un gruppo societario legittimi per ciò solo qualsiasi condotta di
asservimento di una società all’interesse delle altre società del gruppo. Anche
dopo la riforma, infatti, l’autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddi‑
stingue ogni singola società impone all’amministratore di perseguire priorita‑
riamente l’interesse della specifica società a cui egli è preposto, non essendogli
consentito di sacrificare l’interesse in nome di un diverso interesse anche se ri‑
conducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo e che non procure‑
rebbe riflesso alcuno a favore dei terzi creditori dell’organismo impoverito
(vedi Cass. Civ., Sez. I, 24 agosto 2004 n. 16707; Cass., Sez. V penale 22 feb‑
braio 2007 – 15 marzo 2007, n. 11019, Pollice). Altra recente decisione ha
ricordato, inoltre, che nei trasferimenti infragruppo il reato di bancarotta
fraudolenta per distrazione resta escluso soltanto se, con valutazione ex ante, i
benefici indiretti per la società fallita si dimostrino idonei a acompensare effi‑
cacemente gli effetti immediatamente negativi, si da rendere l’operazione inca‑
pace di incidere sulle ragioni dei creditori della società (Cass., Sez. V penale, 24
maggio 2006 – 7 novembre 2006, n. 36764, Bevilacqua ed altri). A ben vedere
il concetto espresso con tale indirizzo non è dissimile da quello contenuto nella
decisione più volte richiamata dal ricorrente a sostegno della sua tesi. Infatti
anche la sentenza di Cass., Sez. V penale, 6 ottobre 1999, n. 12897 ha chiarito
che è possibile ritenere legittimo e non punibile quel trasferimento di capitali o
di altre attività da una società all’altra, allorché sia giustificato da un corretto
rapporto obbligatorio assistito da adeguata contropartita e da garanzie idonee
a salvaguardare gli interessi tutelati dalla norma contenuta nell’articolo 216 del
RD 16 marzo 1942, n. 267)”. Chiarito quanto innanzi in punto di diritto la
sentenza passa ad escludere la sussistenza di vantaggi compensativi in punto di
fatto, precisando che “Orbene, secondo quanto è lecito desumere dalle due
sentenze di merito, il trasferimento del bene in discussione è avvenuto senza
alcuna contropartita economica ed a vantaggio di una società in difficoltà
economiche; quindi non era assolutamente possibile operare, nel momento in
cui è stata disposta, una prognosi fausta della operazione”.
41 Ci si riferisce a Cass. pen., 22 ottobre 2008, n. 39546 e Cass. pen, Sez. V, 5
novembre 2008, n. 41293. La prima, in realtà, a ben vedere riproduce in ma‑
niera quasi pedissequa gli esiti della precedente Cass. 7326 del 2008. In parti‑
colare, nella massima che da essa è stata tratta è dato leggere proprio che “Il
trasferimento di risorse infragruppo, ovvero tra società appartenenti allo stesso
gruppo imprenditoriale, specialmente quando venga effettuato a vantaggio di
una società già in difficoltà economiche, non è consentito e deve essere qualifi‑
cato come vera e propria distrazione ai sensi e per gli effetti previsti dall’art.
216, comma 1, n.1, l. fall., giacché le società, pur appartenendo allo stesso
gruppo, sono persone giuridiche diverse e, pertanto, i creditori della società
depauperata mai potrebbero rivalersi dei loro crediti inseguendo i beni ceduti
da una società ad un’altra dotata di un’autonoma personalità giuridica, posto
che la garanzia dei creditori è data proprio dal patrimonio sociale, che viene
depauperato dal trasferimento di quei beni ad un’altra società, con conseguen‑
te diminuzione della garanzia patrimoniale”. Sicché, ancora una volta, una
prima lettura sembra fornire indicazioni circa l’inapplicabilità dei vantaggi
compensativi in ipotesi di bancarotta a condotte che restano qualificabili come
distrazione. Se non fosse per l’inciso “specialmente quando venga effettuato a
vantaggio di una società già in difficoltà economiche” che lascia trasparire, a
contrario la possibilità di attribuire penale rilevanza alla logica del gruppo,
anche per i reati in parola ove il trasferimento offra possibilità di valutare in
termini positivi la sussistenza di una adeguata contropartita all’operazione ef‑
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57
Nel 2009 la V Sezione torna, infatti, nuovamente sul
punto 42 affermando ancor più esplicitamente che “in tema di
bancarotta fraudolenta per distrazione, qualora il fatto si ri‑
ferisca a rapporti intercorsi tra società appartenenti a un
medesimo gruppo, l’interesse che esclude l’effettività della
distrazione e la configurabilità del reato non può ridursi alla
partecipazione al gruppo stesso né identificarsi nel vantaggio
della società controllante, in quanto il collegamento tra le
società e l’appartenenza a un gruppo imprenditoriale unitario
è solo la premessa per individuare uno specifico e concreto
vantaggio per la società che compie l’atto di disposizione
patrimoniale”43.
Essa pare, appunto, confermare le tesi sin qui esposte e
consentire di concludere circa la possibilità di valutare, sempre
meno timidamente, la sussistenza di vantaggi compensativi in
operazioni infragruppo anche al di fuori della ipotesi espres‑
samente prevista dal legislatore. Ciò, tuttavia, nella giurispru‑
denza sembra prescindere dall’assunzione di una posizione
dogmatica esplicita in ordine alla natura della clausola sui
gruppi di cui al comma 3 dell’art. 2624 e riposare in ragioni
di coerenza sistematica.
La Suprema Corte, nel 2010, poi, quasi a voler riassume‑
re i propri precedenti e compiere ancora un passo in avanti
propendendo per la natura di causa di giustificazione afferma
che “Costituisce (…) consolidato orientamento di questa
Corte (Sez. 5 n. 10688 del 18 novembre 2004 Rv 230565;
Sez. 5, n. 4410 del 4 dicembre 2007 Rv 238237; Sez. 5, n. 1137
del 17 dicembre 2008 Rv 242546; Sez. 5, n. 21251 del 10
febbraio 2010 Rv 247471) che non può ravvisarsi la scrimi‑
nante dei vantaggi compensativi quando il profitto venga
tratto dal trasferimento di somme di denaro, come nel caso
di specie, da una società già vertente in istato di decozione ad
altra che si trovi in analoga condizione patrimoniale, dovendo
in tal caso escludersi in radice che la società collegata o il
gruppo che entrambe le società costituiscono possano trarre
vantaggio alcuno da un’operazione che è e resta eminentemen‑
te distrattiva. Nel caso di specie il ricorrente ha ribadito i
motivi già proposti con l’appello, sostenendo che, pacifico in
punto di fatto lo stretto rapporto commerciale tra le due so‑
cietà, la Corte territoriale avrebbe dovuto a suo avviso pun‑
tualmente verificare se i trasferimenti patrimoniali non fosse‑
ro stati compensati da vantaggi conseguiti dalla società finan‑
ziatrice in virtù dell’interazione tra le attività delle due socie‑
tà, ma non ha inteso chiarire sulla base di quali elementi og‑
gettivi la prospettata situazione di vantaggio potesse ravvi‑
sarsi, non essendo sufficiente la mera prospettazione di un
rapporto, ancorché intenso, tra due società per conseguire per
ciò stesso l’elisione dell’ingiustizia dell’operazione distrattiva”
(così Cass. pen., Sez. V, sent., ud. 27 maggio 2010, 04 ottobre
2010, n. 35619).
fettuata. Quanto alla massima tratta dalla seconda delle richiamate pronunzie,
è dato leggere che “Integra il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione
l’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo, ancor‑
ché effettuata a favore di società del medesimo gruppo, qualora gli ipotizzati
benefici indiretti della fallita non risultino effettivamente connessi ad un van‑
taggio complessivo del gruppo e non siano idonei a compensare efficacemente
gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta”.
42 Cfr. Cass. pen., Sez. V, 13 gennaio 2009 n. 1137.
43 Quanto alla disamina dell’iter argomentativo logico‑giuridico seguito dalla
Corte, si rinvia in particolare al punto 9 della richiamata pronunzia.
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Non può, tuttavia, tacersi che, un diverso orientamento
ha fornito una lettura contrapposta delle pronunzie sin qui
richiamate, leggendo in esse un atteggiamento restrittivo e
negativo della Corte costituente quasi un revirement delle
aperture inizialmente prospettate sulla scorta, probabilmente,
dell’entusiasmo immediatamente successivo alla codificazione
del reato di infedeltà patrimoniale.
Il tema, appare di rilevanza tale da non lasciare indiffe‑
rente neppure il legislatore. Ci si riferisce al Disegno di legge
delega n. 1741‑C presentato il 2 ottobre 2008 (in www.nuovo.
camera.it), il quale, all’art. 2 rubricato “Delega al Governo
per la riforma della disciplina penale fallimentare” delegava
il Governo “con l’osservanza dei princìpi e criteri direttivi di
cui al comma 4, uno o più decreti legislativi recanti la riforma
organica della disciplina delle disposizioni penali in materia
di procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo
1942, n. 267”, meglio noto come Legge Fallimentare, preci‑
sando al summenzionato co. 4. che “Nell’attuazione della
delega di cui al comma 1, il Governo si attiene ai seguenti
princìpi e criteri direttivi: (…) p) prevedere che, agli effetti
della legge penale, non è ingiusto il vantaggio dell’impresa
collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, consegui‑
ti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o
dall’appartenenza al gruppo”. La delega avrebbe dovuto
trovare attuazione entro l’anno. Il progetto, successivamente
accantonato, è stato recentemente ripreso ed ancorché appaia
meritoria la decisione da parte del Parlamento di intervenire
a risolvere normativamente la questione, non possono che
riproporsi le doglianze da sempre avanzate dalla dottrina in
ordine all’utilizzo dello strumento prescelto quale fonte del
diritto penale44.
L’intenzione del legislatore delegante appare, dunque, di‑
retta ad uniformare la disciplina prevista in materia di reati
fallimentari a quella prevista per il delitto di infedeltà, nelle
ipotesi in cui il reato trovi il suo humus all’interno di holding.
Un simile intervento normativo, senz’altro auspicabile de jure
condendo, da un lato, sarebbe coerente con le scelte di sistema
effettuate …, dall’altro, attraverso l’introduzione di una disci‑
plina ad hoc, priverebbe di rilevanza pratica la disputa circa
la estensibilità della clausola di cui al co. 3 dell’art. 2634 c.c.
44Per un più analitica disamina delle problematiche più specificatamente attinen‑
ti alla delega contenuta nel disegno legge in esame si rinvia ad Amarelli, La ri‑
forma dei reati fallimentari, cit., p. 201 ss.
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●
Sommario: 1. Il “Decreto Crescitalia”: svilire la doppia
giurisdizione per sviluppare le imprese; 2. I limiti costituzio‑
nali al filtro in appello; 3. Sviluppare l’organizzazione per
non svilire le garanzie.
La tutela giurisdizionale
dei diritti in tempi di
crisi finanziaria.
Il “Decreto Crescitalia”
ed il riesame delle
pronunce giudiziali
1. Il “Decreto Crescitalia”: svilire la doppia giurisdizione per svi‑
luppare le imprese
«L’attuale sistema delle impugnazioni è un lusso che non
possiamo più permetterci»1. Sarebbero «lo stato disastroso
della nostra giustizia civile e le sue gravi ricadute
sull’economia»2 ad impedirci di poterne godere ancora, come
sostiene il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Ma‑
gistratura.
Gli fa eco il Sottosegretario alla Giustizia Salvatore Maz‑
zamuto, ricordando che «i lunghissimi tempi occorrenti per
il recupero dei crediti commerciali […] incidono negativamen‑
te sull’efficienza delle nostre imprese e rallentano gli investi‑
menti stranieri»3.
Per questo, l’art. 54 del Decreto Legge del 22 giugno 2012,
n. 83, recante «Misure urgenti per la crescita del Paese» (c.d.
“Decreto Crescitalia” o “Decreto Sviluppo”)4, apporta diverse
modifiche alla disciplina delle impugnazioni contenuta nel co‑
dice di procedura civile, in particolare attribuendo al giudice di
secondo grado la facoltà di dichiarare inammissibile l’appello,
qualora non abbia una ragionevole possibilità di essere accol‑
to.
La relazione illustrativa che ha accompagnato il d.d.l. di
conversione del decreto de quo si appella agli indici doing
business della Banca mondiale, i quali imputano al «sistema
delle impugnazioni l’elemento di maggiore inefficienza della
giustizia civile italiana e uno dei maggiori disincentivi allo
sviluppo degli investimenti nel nostro Paese». Si richiama
anche la relazione del Governatore della Banca d’Italia del 31
maggio 2011, nella quale «si stima in un punto percentuale
la “perdita annua di prodotto” attribuibile all’inefficienza di
questo sistema di gestione del contenzioso»5.
Questi, dunque, i motivi per i quali una modifica di na‑
tura strettamente processualistica è inserita in un provvedi‑
mento contenente misure per la crescita del Paese.
Il comunicato stampa, relativo alla riunione del Consiglio
dei Ministri nel quale è stato approvato il decreto, richiama
l’attenzione sugli «effetti positivi anche per il sistema econo‑
mico e per le imprese che operano in Italia» che conseguiran‑
no dalla «deflazione dei carichi di lavoro delle Corti d’appel‑
lo» e dalla «conseguente riduzione dei tempi dei giudizi».
Questi risultati saranno raggiunti grazie ai correttivi al pro‑
cesso contenuti nel decreto, da inscriversi in una serie di mi‑
sure perseguite, da tempo, dal Governo, onde evitare le riper‑
● Rosanna Fattibene
Ricercatore di Istituzioni di Diritto pubblico
presso la Facoltà di Scienze politiche
dell’Università degli Studi di Salerno
1 Come dichiara il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura M.
Vietti, Una riforma per snellire i processi. Così il sistema attuale va ripensato,
in Corriere della Sera, 25 luglio 2012.
2M. Vietti, Una riforma per snellire i processi. Così il sistema attuale va ripen‑
sato, cit.
3In un’intervista rilasciata a P. Maciocchi, Il filtro taglia del 30% le liti civili in
appello», in Il Sole 24 ore, 7 agosto 2012.
4Pubblicato in G.U. n. 147 del 26 giugno 2012, supplemento ordinario, e con‑
vertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (G.U. n. 187 dell’11
agosto 2012).
5 Relazione illustrativa del disegno di legge n. 5312, che prevede la conversione
in legge del decreto‑legge 22 giugno 2012, n. 83, recante misure urgenti per la
crescita del Paese, presentato il 26 giugno 2012, in http://nuovo.camera.it.
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cussioni della lentezza della giustizia civile sulla nostra econo‑
mia6.
Alla «resistenza culturale di alcuni giudici e avvocati
verso un cambiamento di mentalità», nonché all’«opposizione
di chi dalle attuali lungaggini delle cause trae benefici, lucran‑
do sui ritardi»7, viene imputata parte della difficoltà ad anda‑
re incontro al cambiamento, ai necessari aggiustamenti dei
meccanismi processuali8.
Al contrario, gli avvocati, che sono tra i principali attori
di questo processo, attraverso il loro organismo di rappresen‑
tanza istituzionale, il Consiglio Nazionale Forense, esprimo‑
no condivisione per le preoccupazioni del Governo circa le
ripercussioni della lentezza della giustizia sull’economia del
Paese ed, in particolare, sulla capacità attrattiva d’investimen‑
ti stranieri. Il CNF rileva, però, nel parere (negativo) espresso
in ordine alla conversione in legge dell’art. 54 del d.l.
n. 83/2012, che nessuna delle recenti riforme legislative, com‑
presa quella in parola, «ha anche solo minimamente a che
fare con gli interessi delle imprese»9.
Per garantire a queste un’azione giudiziaria che assecondi
la necessaria celerità delle loro attività vi è «bisogno», piutto‑
sto, «di giudici di primo grado che in tempi celeri decidano
sulle loro domande di condanna, sui decreti ingiuntivi e sulle
istanze di provvisoria esecutorietà, senza rinvii di 4‑5 mesi
della prima udienza nelle opposizioni a d.i., senza rinvii di
anni per l’udienza post memorie, senza che le sezioni di Tri‑
bunali e Corti d’appello vengano depauperate da distacchi
ministeriali con prospettive di rimpiazzo aleatorie quando non
effimere, senza tourbillon di magistrati da sede a sede e da
sezione a sezione con i relativi trasferimenti dei ruoli»10.
Secondo le previsioni dell’organismo nazionale dell’Avvo‑
catura, le misure azionate dal Governo allungheranno, anzi,
i tempi della giustizia ulteriormente, con la conseguenza di
penalizzare proprio quelle attività imprenditoriali a favore
delle quali le modifiche normative sono state varate.
Invero, questa predominante preoccupazione del legisla‑
tore per l’attività economica e commerciale, tanto da funzio‑
nalizzare gli interventi normativi sull’andamento del processo
ai benefici che le aziende ne ricaveranno, inficia la correttezza
del suo agire, fino alla mancata osservanza del principio di
uguaglianza.
Non vi è chi neghi che l’attività imprenditoriale sia un
nerbo fondamentale del Paese.
6Comunicato stampa relativo al Consiglio dei Ministri n. 35 del 15 giugno 2012,
in www.governo.it.
7M. Vietti, Una riforma per snellire i processi. Così il sistema attuale va ripen‑
sato, cit.
8 Con ironia, G. Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, in
www.judicium.it, commenta: «Da una serie di norme, tutte urgenti e ad effetto
immediato, proposte dal Governo dei tecnici ed approvate dal Parlamento, gli
studiosi del processo civile (che non sono né tecnici né esperti da tenere in
considerazione) hanno appreso non senza stupore come tra le cause determi‑
nanti dell’attuale e pesantissima crisi economica vi fossero le tariffe dei liberi
professionisti, specialmente quelle degli avvocati, ed il diritto di azione in virtù
del quale ognuno può rivolgersi al giudice civile per la tutela delle proprie ra‑
gioni. Quel diritto, cioè, che ingenuamente una norma costituzionale (in tempi
passati notoriamente floridi: 1948!) si preoccupò di garantire a tutti i cittadi‑
ni».
9Parere del Consiglio Nazionale Forense relativo alla conversione in legge dell’art.
54 del d.l. n. 83/2012, 22 giugno 2012, in www.consiglionazionaleforense.it.
10Parere del Consiglio Nazionale Forense del 4 luglio 2012, relativo alla conver‑
sione in legge dell’art. 54 del d. l. n. 83/2012, 22 giugno 2012, cit.
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Il processo, però, è la sede in cui si azionano i diritti,
tutti e di ogni natura, purché riconosciuti dall’ordinamento
giuridico e, pertanto, meritevoli del secondo livello di prote‑
zione11. È il luogo nel quale «tutti possono agire»12 per otte‑
nere tutela giudiziale, senza preferenze né priorità da rispet‑
tare. Alle norme processuali va il compito di regolarne l’an‑
damento in modo da assicurare la piena soddisfazione
dell’istanza di giustizia di tutti, senza distinzioni.
Non è infondato, pertanto, rilevare e temere che la valen‑
za di pienezza e di uguaglianza espressa dalla norma cardine
dell’agire giudiziario a livello costituzionale sia lesa da una
normazione – per giunta d’urgenza – “pensata” per una spe‑
cifica categoria (il mondo delle imprese e degli imprenditori),
che, per quanto fondamentale nell’economia nazionale, è pur
sempre portatrice di una visione parziale degli interessi.
La primazia della “celerità”, a discapito della garanzia di
(maggiore) correttezza della pronuncia giudiziale assicurata
dall’appello, è il segno della considerazione che, nell’innovare
la dinamica processuale, è stata rivolta ad uno solo degl’inte‑
ressi in campo.
Se il “fattore tempo”, nell’attività imprenditoriale, riveste
quella particolare importanza in grado di compensare il rischio
di un eventuale vulnus al pieno soddisfacimento dell’istanza
di giustizia, non lo è altrettanto per «tutti» gli altri possibili
soggetti del giudizio. Per questi, che non sono attori del mondo
economico‑finanziario o che sono coinvolti in vicende giudi‑
ziarie che non lo riguardano, il “tempo” non assume un valo‑
re altrettanto elevato da rendere accettabile lo svilimento del
sistema delle impugnazioni e delle sue garanzie.
Evidentemente, la logica ispiratrice delle misure per la
giustizia civile assunte dal d.l. n. 83/2012 è che le garanzie
(delle impugnazioni, in questo caso) sono un “lusso” che gli
Italiani non possono permettersi in tempi di crisi finanziaria:
i diritti come beni voluttuari.
2. I limiti costituzionali al filtro in appello
Tra le misure sulla giustizia civile assunte dal decreto
n. 83/2012, esamineremo l’istituto dell’inammissibilità dell’ap‑
pello, pur ricordando che il secondo grado di giudizio e tutto il
sistema delle impugnazioni sono variamente interessati da que‑
ste recenti disposizioni, così come lo è la legge sull’equa ripara‑
zione in caso di violazione del termine ragionevole del proces‑
so13.
Per la precisione, la dichiarazione d’inammissibilità può
intervenire solo dopo che le parti siano state sentite in merito,
in prima udienza14, per assumere la forma dell’ordinanza
succintamente motivata, anche mediante elementi di fatto
riportati in uno o più atti di causa ed il riferimento a prece‑
denti conformi. Nel caso d’inammissibilità, avverso il prov‑
vedimento di primo grado può essere proposto ricorso per
11La tutela giurisdizionale è il secondo livello di protezione delle posizioni giuri‑
diche riconosciute dall’ordinamento giuridico, che interviene solo dopo che
abbiano fallito, in quanto violate, le nome poste a loro riconoscimento e salva‑
guardia. Per questa ricostruzione, v. A. Police, Sub Art. 24, in a cura di R. Bi‑
fulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, I. Artt. 1‑54,
Torino, 2006, pp. 503, 504.
12Secondo l’amplissima formula adottata dall’art. 24 Cost.
13 Legge 24 marzo 2001, n. 89.
14 Quest’udienza‑filtro è stata introdotta con un emendamento approvato in fase
di discussione per la conversione in legge del decreto in parola.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
2 0 1 3
61
Cassazione15.
Molteplici critiche sono state mosse al c.d. filtro in appel‑
lo, talune di natura puramente processualistica, altre mag‑
giormente preoccupate dell’ulteriore limitazione alla tutela
giurisdizionale dei diritti che ne consegue.
Le censure del primo tipo colgono diversi aspetti della
novella, dalla confusione concettuale tra inammissibilità ed
infondatezza in cui incorre il legislatore16, alla complicata
convivenza dell’ordinanza filtro con la sentenza contestuale17,
alla motivazione dell’appello, che, nella nuova determinazione,
ripete, in realtà, quanto già acquisito dal diritto vivente18.
Riguardo alla dichiarazione d’inammissibilità, in partico‑
lare, si lamenta la mancata «distribuzione selettiva del potere
liminare di ricusare gli appelli manifestamente infondati»19,
nonché la discrezionalità del giudicante a cui essa è rimessa 20,
acuita dall’ambiguità della formula della «ragionevole proba‑
bilità» dell’accoglimento dell’istanza di appello21. Tale valuta‑
zione richiederà che il processo di appello si svolga in più
udienze, piuttosto che essere definito in un’udienza unica,
come pur sarebbe stato possibile prima della riforma 22.
Viene rilevata anche l’incogruità insita nella non ricorribi‑
lità in Cassazione di un’«ordinanza succintamente motivata di
inammissibilità dell’appello, che ha la sostanza decisoria di una
sentenza e che contiene anche la condanna alle spese ex art. 91
c.p.c.», rispetto alla ricorribilità della relativa sentenza di primo
grado, per quei motivi che, alla prima valutazione, non hanno
mostrato ragionevoli probabilità di accoglimento23.
Infine, in contraddizione con l’intento deflativo della ri‑
forma, si paventa l’aggravio del carico di lavoro della Corte
di cassazione, presumibilmente determinato dall’immediata
ricorribilità della sentenza di primo grado24.
Queste incoerenze e difficoltà di coordinamento trovano
il loro humus in una stratificazione di tentativi – talvolta ri‑
masti tali, talaltra riusciti ‑, sfuggenti ad un disegno unitario
e razionale.
Tra i provvedimenti che, negli ultimi anni, sono stati tesi
a velocizzare l’andamento processuale, vi si ritrova, costante‑
mente, un “attentato” all’appello, nel processo civile e, più
significativamente, in quello penale.
Dall’inappellabilità della sentenza di proscioglimento da
parte del P.M. 25 al c.d. processo breve26, dalla motivazione
sintetica della sentenza27 all’abbattimento dei tempi d’impu‑
gnabilità di quella di primo grado28 nel processo civile, dalla
dichiarazione d’impugnazione nel processo penale29 all’aggiun‑
ta di un nuovo comma all’art. 111 Cost. sull’inappellabilità
delle sentenze di proscioglimento30, il doppio grado di giudizio
è stato estenuato da continue ansie di rimodellamento.
Ne rimane coinvolto anche il livello costituzionale delle
garanzie.
Se il doppio grado di giudizio possa vantare o meno un
fondamento costituzionale è questione dalla soluzione né
immediata, né piana.
Si tratta di un tema che, a torto, non ha suscitato partico‑
lare interesse nella dottrina costituzionalistica ed in quella
processualistica. Il vivace confronto sulla possibilità ed oppor‑
tunità delle modifiche al codice di procedura civile disposte
dall’attuale governo ne comprova l’importanza e l’attualità.
Interrogarsi sul fondamento costituzionale della doppia
giurisdizione serve, infatti, a definire gli ambiti di garanzia
che devono essere rispettati dal legislatore ordinario nel rifor‑
mare le dinamiche processuali. La ricaduta pratica dell’irrile‑
vanza o, di contro, della rilevanza costituzionale del doppio
grado di merito sta, rispettivamente, nella possibilità o nel
divieto, per il legislatore ordinario, di restringere l’applicazio‑
ne del principio.
La natura costituzionale del doppio grado di giudizio
ammette una limitazione solamente in conseguenza di un’ope‑
razione di bilanciamento con altri beni o valori di pari rile‑
vanza.
Se lo si considerasse, invece, “solamente” garanzia di
giustizia, come pure è dovuto in base alla storia dell’istituto31,
non sarebbe comunque sopportabile qualsivoglia elisione del
principio: il sacrificio, se necessario, dovrà contenersi «entro
limiti tanto ristretti da essere avvertito come tollerabile»32.
Sebbene l’appello sia meccanismo processuale radicato in
tutti gli Stati moderni, va anche registrata una tendenza ad
esso sfavorevole, che si estrinseca nell’apportarvi deroghe ed
eccezioni. Vi è sottesa la preoccupazione che l’appello allunghi
ulteriormente i già insopportabili tempi processuali ed aggra‑
vi il già insostenibile carico di lavoro degli uffici giudizia‑
15L’inciso «nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto d’appello» è stato
soppresso dalla Camera con la legge di conversione del decreto. Sul punto, v.
A. Porracciolo, Filtro in appello, parti da sentire, in Il Sole 24 ore, 6 agosto
2012.
16 Denunciata, in particolare, dall’Unione Camere Civili. V. L’unione Camere
Civili boccia il filtro in appello, 31 luglio 2012, in www.leggioggi.it.
17 G. Tona, Il «filtro» vince sulla sentenza breve, in www.ilsole24ore.it.
18 G. Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, 10
settembre 2012, n. 3, in www.treccani.it.
19 F. Auletta, Filtro in appello senza ostacoli in Costituzione, 21 giugno 2012, in
www.ilsole24ore.it, per il quale soltanto «un collegio distrettuale avrebbe posto
senz’altro le condizioni per un’effettiva garanzia di congruità e uniformità di
tale giudizio».
20L. Viola, Il nuovo appello filtrato: riflessioni sulla ragionevole probabilità di
accoglimento, 20 agosto 2012, n. 2.1, in www.altalex.com.
21L. Viola, Il nuovo appello filtrato: riflessioni sulla ragionevole probabilità di
accoglimento, cit.
22 G. Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, cit.
23Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, cit.
24 R. Caponi, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni
parlamentari, n. 3, in www.judicium.it.
25L. 20 febbraio 2006, n. 46, recante «Modifiche al codice di procedura penale,
in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento». La Corte costi‑
tuzionale, con sent. n. 26/2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della
limitazione posta dalla norma all’appello del Pubblico Ministero.
26 D.d.l. AS n. 1880, recante «Misure per la tutela del cittadino contro la durata
indeterminata dei processi, in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione e
dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uo‑
mo e delle libertà fondamentali», comunicato alla presidenza del Senato il 12
novembre 2009.
27Voluta dalla legge di riforma del processo civile del 18 giugno 2009, n. 69. A
seguito di questa novella, la motivazione non ripercorre più pienamente il
percorso argomentativo seguito dal giudice, nonostante l’importanza che la sua
conoscenza assume nella decisione sull’opportunità di proporre appello.
28 Disposto anch’esso dalla l. n. 69/2009.
29Prevista dall’art. 8, comma 1, lett. b, del disegno di legge di riforma del proces‑
so penale, n. 1440/S.
30 Come prevedeva il d.d.l. cost. C. 4275 di «Riforma del Titolo IV della Parte II
della Costituzione», approvato dal Consiglio dei Ministri del 10 marzo 2011.
31E.F. Ricci, voce Doppio grado di giurisdizione (principio del). I) Diritto proces‑
suale civile, in Enc. giur., XII, Roma, 1989, p. 4.
32E.F. Ricci, voce Doppio grado di giurisdizione (principio del). I) Diritto proces‑
suale civile, op. loc. citt.
penale
Gazzetta
62
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
riAll’inverso, la dottrina più recente33 va persuadendosi del
fondamento costituzionale del doppio grado di giudizio, pur
timidamente e con argomentazioni parzialmente diverse.
La mancanza di una norma costituzionale – al di fuori
dell’ambito del processo amministrativo – che contempli
esplicitamente il doppio grado di giudizio non è preclusiva di
questo convincimento, potendosi ricercare un addentellato
costituzionale anche in norme che non prevedano affatto il
principio o il relativo istituto processuale.
In particolare, può sostenersi l’esistenza di un nesso di
stretta strumentalità tra la doppia giurisdizione ed il diritto
di difesa, nella misura in cui il primo “serve” alla piena ed
effettiva realizzazione del secondo, nell’ampiezza espressa
dall’incipit dell’art. 24 Cost.
Agendo o difendendosi in giudizio, la parte manifesta il
bisogno di tutela di un diritto o di un interesse legittimo leso,
che la funzione giurisdizionale, investita di tale richiesta, può
soddisfare con l’assunzione di una pronuncia pienamente
“adeguata”, formatasi attraverso un procedimento.
Questo carattere di “adeguatezza” che la sentenza deve
avere richiede che essa sia corretta nel merito e nella forma.
Essendo (umanamente) possibile che degli errori, in proceden‑
do ed in judicando, affliggano la prima pronuncia, il secondo
grado di giudizio costituisce una possibilità di riparazione;
anzi, “la” possibilità di riparazione. Vi si aggiunge – è vero – il
giudizio di cassazione, che, però, è giudizio a critica vincola‑
ta e di sola legittimità34.
Il metodo dell’appello è, infatti, quello proprio di ogni
disciplina scientifica, per il quale, attraverso l’indagine, si
raggiunge la maggiore conoscenza possibile dei fenomeni e
degli eventi.
Il secondo giudice può giovarsi appieno dell’«esperienza
del primo giudizio»35, in quanto «non parte dalla massa ag‑
grovigliata dei fatti, su cui verté la prima investigazione, ma
criticamente muove da quel primo risultato, in cui l’indagine
fu riassunta in sede di provvisoria elaborazione»36. Può essere
sostituita, pertanto, la seconda pronuncia alla prima, «non
tanto perché il primo giudice ha giudicato male, ma benché il
33Ex plurimis, G. Serges, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel si‑
stema costituzionale italiano, Milano, 1993, spec. p. 97 ss. e p. 273 ss.; M.
Menna, Il giudizio d’appello, Napoli, 1995, pp. 28‑49; G.L. Verrina, Doppio
grado di giurisdizione, convenzioni internazionali e Costituzione, in Av.Vv., Le
impugnazioni penali. Trattato diretto da A. Gaito, Torino, 1998, pp. 150‑152;
A. De Caro, «Doppio grado di giurisdizione» ed efficienza del processo penale,
in Studium Iuris, 1999, pp. 947‑951; A. Gaito (a cura di), La nuova disciplina
delle impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, Torino, 2006, p. 18 ss.; I. Nico‑
tra Guerrera, Doppio grado di giudizio, diritto di difesa e principio di certezza,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, pp. 134‑138, 141‑144; G. Tranchina, G. Di
Chiara, voce Appello (dir. proc. pen.), in Enc. dir., III Agg., Padova, 1999, p.
202 ss.; M. Pivetti, Per un processo civile giusto e ragionevole, in cura di M.G.
Civinini, C.M. Verardi, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto
processo civile, Milano, 2001, p. 65 ss.; T. Padovani, Il doppio grado di giuri‑
sdizione. Appello dell’imputato, appello del P.M., principio del contraddittorio,
in Cass. Pen., 2003, p. 4027; A. Masaracchia, Quando il doppio grado di
giurisdizione è imposto da «ineludibili principi costituzionali», in Giur. cost.,
2005, p. 639 ss.
34Per questa tesi, sia consentito rinviare a R. Fattibene, Il doppio grado di giudi‑
zio tra garanzia dei diritti e organizzazione giudiziaria. Profili di comparazione,
2010, Torino, spec. n. II.2.
35E.T. Liebman, Il giudizio di appello e la Costituzione, in Riv. dir. proc., 1980,
p. 404.
36E. Allorio, Interventi nella discussione su Il doppio grado di giurisdizione. Atti
del XII Convegno nazionale, Venezia, 14‑15 ottobre 1977, in Quaderni dell’As‑
sociazione fra gli Studiosi del processo civile, XXXVI, Milano, 1980, p. 248.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
giudice abbia giudicato male, l’errore essendo una tappa ver‑
so la verità»37.
A tacer d’altro, l’art. 24 Cost., nel suo secondo comma,
offre anche una base letterale alle speculazioni già consentite
dal primo. Le plurime istanze di giustizia espresse dalla for‑
mula in «ogni stato e grado del procedimento» sono da questa
concatenate l’una all’altra e tutte cospirano al fine unico del
conseguimento della migliore difesa possibile in giudizio.
La riparazione, infine, degli errori giudiziari, posta a ca‑
rico dello Stato dall’ultimo comma dell’art. 24 Cost., tende
anch’essa alla pronuncia di un provvedimento corretto38. Se
l’errore va riparato, esso dev’essere, innanzitutto, prevenuto39.
Serve, a tal fine, un sistema processuale – il sistema delle
impugnazioni, appunto ‑, che procede per incrementali mi‑
glioramenti, tali da garantire che l’atto ultimo del potere
giudiziario sulla singola controversia sia corretto.
Una restrizione eccessiva dell’appello significa lasciare
inevasa la stessa istanza di giustizia di cui lo Stato si fa carico
attraverso la previsione dell’art. 24 Cost., nonché gli assetti
processuale e giudiziario che ne sono al servizio. Soltanto
l’«impiego pretestuoso»40 dello strumento stesso può essere
perseguito, in quanto ne inficerebbe il funzionamento.
Alla luce di queste riflessioni, la deminutio dell’appello
operata dall’ultima riforma del processo civile appare ancora
più inaccettabile. Essa va ben oltre l’abbattimento degli im‑
pieghi cavillosi dello strumento, tanto da suscitare le lagnan‑
ze di chi ritiene costituzionalizzato il principio del doppio
grado41, ma anche di chi lo esclude42.
Soprattutto, il sistema elaborato in sede di decretazione
d’urgenza è chiaramente diretto ad impedire l’accesso al giu‑
dizio di secondo grado alle impugnazioni infondate e, proba‑
bilmente, puramente strumentali. Il rimedio, però, avrebbe
dovuto consentire il “comodo” passaggio, attraverso le maglie
del retino di controllo, di tutte quelle istanze di appello che
non sono infondate e che, soprattutto, non sono proposte in
maniera strumentale.
A quel trentadue per cento di sentenze di primo grado che,
fino ad oggi, sono state riformate nel secondo giudizio, si deve,
infatti, continuare a garantire l’accesso alla cognizione piena
di un altro giudice, appunto il giudice di secondo grado43.
37C. Ferri, voce Appello nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv. Sez. civ.,
XII, Appendice, Torino, 1995, p. 557.
38A. Police, Sub Art. 24, cit., p. 522.
39M. Pisani, Durata ragionevole del processo penale e appellabilità delle senten‑
ze, in Riv. dir. proc., 2006, p. 4.
40F. Peroni, Giusto processo e doppio grado di giurisdizione nel merito, in Riv.
dir. proc., 2001, p. 728.
41A. Greco, Il nuovo “Filtro in appello”, 2 ottobre 2012, in www.i‑dom.com,
per il quale la spending review applicata alla giustizia ha compromesso «anche
il principio cardine del nostro processo, quello del doppio grado di giudizio» e,
conseguentemente, il diritto costituzionale della difesa.
42F. Auletta, Filtro in appello senza ostacoli in Costituzione, cit., imputa alle
misure per la giustizia civile contenute nel “Decreto Sviluppo” di aver portato
«a conseguenze ulteriori la mancanza in Costituzione della garanzia del doppio
grado per i giudizi civili: se l’appello è una largizione graziosa, il legislatore può
disporne a piacimento fino a negarlo, e, dunque, senza che le modalità alle
quali rimanga comunque affidato il gravame possano esporsi a censure di co‑
stituzionalità, come “noli equi dentes inspicere donati”».
43Così, Ester Perifano, Segretario generale dell’Associazione Nazionale Forense,
in una dichiarazione riportata in Filtro per gli appelli civili. Le toghe: Giustizia
negata, 19 Giugno 2012, in www.associazionenazionaleforense.it, capovolge,
a favore del cittadino, i dati forniti dal Governo per giustificare il suo massiccio
intervento (vale a dire, il sessantotto per cento delle pronunce di primo grado
che non sono riformate in appello).
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
Eppure, l’ampiezza di decisione che il decreto‑legge rimet‑
te al giudice, in una con le precarie condizioni di lavoro in cui
egli versa e con lui tutta la macchina giudiziaria civile, rischia
realmente di negare l’istanza di giustizia (anche) a chi mag‑
giormente ne avrebbe diritto (istanze di appello fondate e non
pretestuose).
È probabile o, quantomeno, possibile, infatti, che il giudi‑
ce di seconde cure, astretto tra la discrezionale valutazione
che gli viene chiesta dalla norma44 ed il carico di lavoro che
gli “suggerisce” di sfuggire a quest’ulteriore incombenza45,
scelga il comportamento da tenere, di volta in volta, secondo
varie “opportunità” (e non nel pedissequo rispetto delle inno‑
vative prescrizioni)46.
3. Sviluppare l’organizzazione per non svilire le garanzie
Le soluzioni al malfunzionamento della giustizia – civile,
in particolar modo – vanno cercate sul piano dell’organizza‑
zione, nell’adeguamento di uomini e mezzi all’imponente ca‑
rico di lavoro giornaliero e nell’ammodernamento di struttu‑
re e funzioni, con ampio ricorso alle nuove tecnologie.
L’informatizzazione dei servizi giudiziari ed il processo
telematico, la riorganizzazione degli uffici e dei tempi di la‑
voro, il potenziamento del personale e delle risorse per l’inte‑
ro comparto della giustizia, la riforma della magistratura non
togata, un’esatta geografia giudiziaria, la regolamentazione
di una conciliazione volontaria47 e qualificata: sono questi i
rimedi da tempo proposti dagli operatori del diritto 48.
Eppure, i rimedi all’ingolfamento della giustizia che inci‑
dono sulle garanzie sono quelli ai quali è più facile e più im‑
mediato mettere mano, soprattutto in periodi di crisi econo‑
mica49, a discapito dei diritti.
44«Il parametro di giudizio che l’impugnazione non abbia una “ragionevole
probabilità di essere accolta” concede un margine di apprezzamento eccessivo
al giudice dell’impugnazione, poiché gli consente di dichiarare inammissibile
un’impugnazione che pur abbia una probabilità di essere accolta, sol che questa
probabilità sia a suo giudizio non “ragionevole”»: R. Caponi, La riforma
dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, cit., p. 4.
45«I giudici di appello, già sommersi di lavoro in conseguenza dell’inutile e dan‑
nosa introduzione generalizzata del giudice unico di primo grado, non trarran‑
no dalle nuove norme particolari benefici. Infatti, per potere decidere alla prima
udienza e preliminarmente alla trattazione se l’appello non ha una ragionevole
probabilità di essere accolto, dovranno studiarsi a fondo subito tutte le cause
perché solo così potranno delibare quella ragionevole possibilità e provvedere
in conseguenza. È facile, pertanto, prevedere che […] quei giudici non appli‑
cheranno mai la nuova norma e salteranno a piè pari l’ordinanza succintamen‑
te motivata continuando ragionevolmente a comportarsi come al solito»: G.
Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, cit., p. 2.
46La contrapposta previsione circa il comportamento che terranno i giudici di
appello in base alla nuova normativa, secondo la dottrina che, per prima, si è
pronunciata a riguardo, è messa in evidenza da L. Viola, Il nuovo appello fil‑
trato: riflessioni sulla ragionevole probabilità di accoglimento, cit., n. 2.1.
47La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso
di delega legislativa, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, nella parte in
cui ha previsto il carattere obbligatorio della mediazione, come da Comunicato dell’Ufficio Stampa della Consulta, del 24 ottobre 2012, nell’attesa del deposito della sentenza.
48Si tratta dei rimedi da lungo tempo invocati dall’Organismo Unitario dell’Av‑
vocatura Italiana (cfr., per tutti, Giustizia civile al collasso: le proposte degli
avvocati, 9 ottobre 2012, in http://denaro.it).
L’OUA ha anche proposto al Ministro della Giustizia di riformare l’appello
secondo un disegno di sua elaborazione. Questo prevede, essenzialmente, di
anticipare alla «“prima ed unica udienza di trattazione” la vera e propria deci‑
sione nel merito. Insomma, giudicare direttamente sulla fondatezza del ricorso
e non fornire soltanto una valutazione sulla probabilità di accoglimento (che,
del resto, altro non sarebbe se non “una manifesta infondatezza”)», come può
leggersi in Oua: contro il “filtro” via libera all’appello sprint, 9 ottobre 2012,
in www.diritto24.ilsole24ore.com.
49«In ogni caso, l’incalzare della crisi economica ha ulteriormente ridotto gli
2 0 1 3
63
Finanche l’Unione europea vi ha fatto ricorso, negando
del tutto la possibilità di un riesame di merito nel suo sistema
giudiziario, per salvaguardare la Corte di giustizia, già obe‑
rata da un eccessivo carico di lavoro, da altre probabili com‑
petenze. Non appare esagerato, qualificare come “deviante, e
francamente mortificante per la stessa istituzione”50 l’aver
cercato la soluzione di un problema puramente organizzatorio
in un ambito funzionale e competenziale, anziché in una re‑
visione dei metodi di lavoro.
L’attivazione di un’ulteriore fase processuale determina
sempre un allungamento della durata complessiva del proces‑
so. Ma la scelta di avanzare quell’ulteriore istanza corrispon‑
de all’esercizio di un diritto, tra i più risalenti e consolidati
della storia della giustizia dell’uomo: il fastidio per il dilatar‑
si dei tempi giudiziali non giustifica e non ammette la sostan‑
ziale ablazione di questo arcaico diritto51.
2 novembre 2012
penale
Gazzetta
spazi di manovra, cosicché invece di aumentare le risorse, si aspira a diminuire
il numero dei processi (in questo caso: d’appello)»: R. Caponi, La riforma
dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, cit., p. 12.
50A. Tizzano, Il ruolo della Corte di giustizia nella prospettiva dell’Unione euro‑
pea, in Riv. dir. internaz., 1994, p. 936.
51Per L’evoluzione storica del doppio grado di giudizio, dalla Roma antica ai
giorni nostri, v. R. Fattibene, Il doppio grado di giudizio tra garanzia dei dirit‑
ti e organizzazione giudiziaria. Profili di comparazione, cit., nn. I.1.a e I.1.b.
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D i r i t t o
●
p r o c e d u r a
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Gazzetta
F O R E N S E
I CONTRASTI TRA LA CORTE EDU
E LE CORTI NAZIONALI
Dialogo tra la corte Edu
e le corti nazionali
sulla natura
delle confische
Due interpretazioni diverse
su casi simili
● Vittorio Sabato Ambrosio
e
Avvocato
Corte EDU, 09/02/1995, Welch e. Regno Unito; Corte EDU,
30/08/2007, Sud Fondi srl c. Italia; Corte EDU, 20/01/2009,
sud Fondi c. Italia; Corte EDU, 17/12/2009, M. c. Germa‑
nia
La nozione convenzionale di confisca
la confisca, anche se di natura amministrativa secondo la
configurazione di diritto interno, ha la qualifica di pena ai
sensi dell’art. 7 CEDU, in quanto non tende alla riparazione
pecuniaria di un danno, ma ad impedire la reiterazione
dell’inosservanza di prescrizioni. Essa presenta caratteristiche
ad un tempo preventiva e repressiva, e quest’ultima è una
qualificazione che contraddistingue le sanzioni penali, per
cui tale misura è applicabile solo in presenza di un illecito
penale previsto dalla legge nel rispetto dei principi generali…
(omissis)…il principio di cui all’art. 7 CEDU si applica all’in‑
tera materia penale ricomprendendo in questa tutte le infra‑
zioni e sanzioni che, a prescindere dalla denominazione for‑
male utilizzata da ciascun Stato membro, risultano caratte‑
rizzate da un contenuto sostanzialmente punitivo e da una
dimensione intrinsecamente afflittiva.
Cass. pen., Sez. VI, 06 marzo 2009, n. 25096
La giurisprudenza nazionale si discosta dall’interpretazione
della Corte EDU sulle cd. confische allargate
La confisca prevista dall’art. 12 sexies d.l. 8 giugno 1992,
n. 306, convertito nella L. 7 agosto 1992, n. 356, così come
modificata dall’art. 1, comma 220, lett. a), della l. 27 dicem‑
bre 2006, n. 296, ha natura di misura di sicurezza patrimo‑
niale, ed è pertanto applicabile anche ai reati contro la P.A.
commessi nel tempo in cui tale ipotesi di confisca non era
prevista dalla legge, non operando il principio di irretroat‑
tività della legge penale, ma quello dell’applicazione della
legge vigente al momento della decisione fissato dall’art. 200
c.p.
Corte cost., 04 giugno 2010, n. 196
L’accoglimento nel diritto nazionale del concetto punitivo della
confisca
La confisca in esame, al di là della sua qualificazione
formale, ha natura essenzialmente sanzionatoria, e non di
misura di sicurezza in senso proprio: riveste una funzione
meramente repressiva e non preventiva. L’applicazione re‑
troattiva di una misura propriamente sanzionatoria viola il
principio di irretroattività della pena sancito dall’art. 7 del‑
la Cedu ed esteso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo
a tutte le misure di carattere punitivo‑afflittivo.
Cassazione penale, Sezioni unite, 19 gennaio 2012 ,
n. 14484
Un’ulteriore applicazione dei principi giurisprudenziali Corte
EDU nell’ordinamento nazionale
La Corte di Strasburgo ha riconosciuto alla confisca,
anche se di natura amministrativa secondo la configurazione
di diritto interno, la qualifica di pena ai sensi dell’art. 7
CEDU, in quanto non tende alla riparazione pecuniaria di
un danno, ma ad impedire la reiterazione dell’inosservanza
di prescrizioni. Essa presenta caratteristiche ad un tempo
g e n n a i o • f e b b r a i o
F O R E N S E
preventiva e repressiva, e quest’ultima è una qualificazione
che contraddistingue le sanzioni penali, per cui tale misura
è applicabile solo in presenza di un illecito penale previsto
dalla legge nel rispetto dei principi generali.
****
S ommario : Introduzione; 1. La disciplina nazionale:
premessa storica; 2. La confisca e la sua evoluzione; 3. La
natura giuridica della confisca per la Corte EDU; 4. La po‑
sizione della giurisprudenza nazionale; 5. Due diverse inter‑
pretazioni nostrane su casi simili; 6. Considerazioni conclu‑
sive
Introduzione
Il forte impatto che la Cedu ha nel nostro ordinamento ci
obbliga a ripensare ed a rileggere in chiave convenzionale
alcuni istituti fondamentali del nostro ordinamento onde
renderli compatibili con quanto affermato in sede giurispru‑
denziale dalla Corte di Strasburgo, che ha il compito dare
attuazione ai principi normati dalla convenzione.
Rappresenta oggetto di forte conflitto il tema, che ancora
una volta vede coinvolte Corte EDU e le corti interne, delle
confische previste dal diritto penale. Esso ci obbliga a rimedi‑
tare, a livello di teoria generale, sull’esatta qualificazione da
dare nel nostro ordinamento all’istituto delle misure di sicu‑
rezza. La questione si presenta oltremodo complessa per effet‑
to di una tendenza legislativa nazionale dell’ultimo decennio
che ha determinato un vistoso proliferare di confische norma‑
tivamente previste atte a svilirne la funzione primordiale di
misura di sicurezza per conferirle la sostanza di una pena.
La disciplina nazionale: premessa storica
Il codice rocco del 1930, al fine di completare il sistema
sanzionatorio, affiancò al sistema delle pene un istituto che
rispondesse a finalità diverse, orientato a debellare la perico‑
losità sociale del reo. In ossequio a tale concezione è stato
adottato nel nostro ordinamento il cd. sistema del doppio
binario, nell’ambito del quale, in primis, viene disciplinata la
pena avente finalità eminentemente punitiva–repressiva diret‑
ta a limitare la liberta personale del reoex art. 13 Cost. e,
contemporaneamente, a fungere da corrispettivo per il danno
sociale cagionato con l’azione penalmente rilevante posta in
essere; in secundis, la misura di sicurezza, intesa come san‑
zione teleologicamente orientata a neutralizzare pro futuro la
pericolosità sociale del soggetto attivo del reato onde preve‑
nire la possibilità che esso ponga in essere ulteriori azioni
potenzialmente pericolose per la società.
Da tale distinzione ne discende come logico corollario che
la pena e la misura di sicurezza sono sottoposte a criteri e
regole applicative differenti.
In particolare, con riferimento alla pena vige l’imperativi‑
tà del principio costituzionale di irretroattività ex art. 25 Cost
II comma, in base al quale nessuno può essere punito se non
in forza di una legge che sia entrata in vigore prima che del
fatto commesso.
Di converso, per le misure di sicurezza vige il principio
sancito dall’art. 199 che statuisce testualmente che “nessuno
può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano
espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge
2 0 1 3
65
stessa preveduti” (disposizione che invera il comma 3 dell’art.
25 della Costituzione in base al quale “nessuno può essere
sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla
legge”), nonché quello desumibile dall’art. 200 c.p. che, occu‑
pandosi del problema dell’applicabilità delle misure di sicu‑
rezza nel tempo, dispone che le misure di sicurezza sono re‑
golate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione.
Questa norma consolida il principio tempus regit actum, il
quale consente di applicare la misura di sicurezza anche a
fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore. Da
ciò si desumerebbe che non esiste nel nostro ordinamento il
principio che vieta l’applicazione retroattiva della misura di
sicurezza.
La confisca e la sua evoluzione
Poste queste premesse essenziali bisogna soffermarsi sulle
particolari forme di misure di sicurezzadi carattere patrimo‑
niale introdotte dal legislatore che hanno messo in crisi il si‑
stema del doppio binario in modo da alterare l’originaria
funzione delle misure di sicurezza onde avvicinarle maggior‑
mente al concetto di pena.
Tra le misure di sicurezza di carattere patrimoniale assume
particolare rilievo la confisca, strumento volto alla neutraliz‑
zazione della pericolosità non del reo ma delle cose che, per
la loro stretta pertinenza al reato, potrebbero mantener viva
nella psiche l’idea del reato rappresentando da stimolo alla
perpetrazione di ulteriori fattispecie criminose.
Tali confische – grazie anche ad una serie di novelle legi‑
slative di recente conio che ne hanno valorizzato l’intrinseca
elasticità connessa alla praticabilità sia in forma specifica che
per equivalente – hanno esteso di molto la loro sfera applica‑
tiva, diventando misure di sicurezza privilegiate in relazione
ad una vastissima gamma di fattispecie criminose sia codici‑
stiche che extra codicistiche (si pensi, a solo titolo esemplifi‑
cativo, alla confisca di armi di cui all’art. 6 l. 152/1975, di
sostanze stupefacenti di cui all’art. 87 d.P.R. 309/90, a quel‑
la prevista dal nuovo codice della strada, a quella di cui
all’art. 12 sexies d.l. 306/92, etc.).
A livello sistematico, il codice penale delinea la principale
forma di confisca nell’art. 240 c.p. Tale articolo disciplina in
generale l’istituto de quo, distinguendo tra confisca facoltati‑
va delle cose che servirono o furono destinate a commettere
il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto e
confisca obbligatoria delle cose che costituiscono il prezzo del
reato e delle cose la cui fabbricazione, il cui uso, porto, deten‑
zione e alienazione costituisce reato, anche se non è stata
pronunciata condanna.
La norma, non fornendo una chiara definizione delle
nozioni di prodotto, prezzo o profitto del reato, ha lasciato
all’interprete l’arduo compito di delineare i tratti distintivi dei
diversi elementi confiscabili. Operazione, quest’ultima, quan‑
to mai delicata, posto che a seconda della qualificazione in
termini di prodotto, prezzo o profitto, cambia radicalmente
il regime della confisca applicabile.
Secondo le coordinate tracciate dall’orientamento inter‑
pretativo nettamente maggioritario, il profitto consiste in
qualsiasi vantaggio di carattere patrimoniale rinveniente la
propria origine nella commissione dell’illecito.
Da questo di differenzia il prezzo che opera principalmen‑
te sul piano dei motivi che spingono il soggetto ad agire, in‑
penale
Gazzetta
66
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
corporando il corrispettivo dato o promesso in vista della
commissione del reato.
Il prodotto, invece, consiste nell’oggetto materiale in cui
l’illecito si è effettivamente concretizzato (tipico esempio è
quello dell’opera o della moneta adulterata, contraffatta,
falsamente riprodotta).
I principali problemi applicativi si sono posti con l’intro‑
duzione sistematica della confisca per equivalente che in ef‑
fetti ha snaturato la funzione e la ratio della tradizionale
misura di sicurezza disposta dall’art. 240 c.p.
Invero, la confisca per equivalente ex art. 322 ter si carat‑
terizza poiché non ha ad oggetto beni specificamente connes‑
si con il reato.
In particolare, la confisca per equivalente si applica in
tutte le ipotesi in cui non sia possibile confiscare quei beni
che costituiscono precipuamenteil prezzo o il prodotto o il
profitto del reato, ma sussiste comunque la possibilità di re‑
quisire dei beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore
corrispondente, a seconda dei casi, al prezzo o al profitto del
reato.
In altri e collimati termini, si ammette la possibilità di
confiscare determinati beni che non hanno alcun collegamen‑
to con il reato, poiché aggrediscono quote patrimoniali del
soggetto per equivalente monetario al prezzo, prodotto e
profitto del reato.
Da tale elementare definizione balza ictu oculi la rilevan‑
te differenza che si pone tra la confisca quale misura di sicu‑
rezza ex art. 240 c.p., e la confisca per equivalente.
Nella sostanza, la tradizionale concezione di confisca
come misura di sicurezza, mirante a prevenire una manifesta
pericolosità sociale – dove la minaccia per la commissione di
ulteriori reati vienerinvenuta nella permanente disponibilità
nelle mani del reo di un bene strettamente collegato al reato
idoneo a mantenere vivo uno spirito di reiterazione di condot‑
te socialmente riprovevoli – si distingue dalla peculiare ipote‑
si di confisca per equivalente laddove essa va a colpire beni
che non hanno alcun collegamento con il reato, con la conse‑
guenza che i beni espropriati certamente non possono realiz‑
zare una funzione preventiva della pericolosità sociale, giac‑
ché hanno ad oggetto cose espressione di mera ricchezza
personale.
La natura giuridica della confisca per la Corte EDU
Delineati in via generale i caratteri attribuiti alla confisca
dal sistema sanzionatorio italiano, è necessario porre in debi‑
to risalto i rilievi differenziali di quest’ultimo rispetto all’or‑
dinamento disposto dalla Convenzione EDU.
Il rapporto conflittuale tra Corte EDU e ordinamento
interno nasce in ragione del fatto che la Corte di Strasburgo
non conosce la distinzione tra pena e misura di sicurezza ma
si limita ad accogliere una nozione sostanziale di pena, ai fini
di una maggiore attuazione dei principi garantistici che la
stessa convenzione dedica alla pena, soprattutto con riferi‑
mento al principio di irretroattività e al principio di colpevo‑
lezza.
Non avendo alcun parametro di riferimento, la giurispru‑
denza EDU ha goduto di una certa autonomia in relazione
alla qualificazione giuridica da attribuire ad ipotesi partico‑
lari di confische che, seppur definite di natura amministrati‑
va, celavano evidenti effetti repressivi aggredendo beni che
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
non avevano alcuna pertinenza con i mezzi utilizzati per la
commissione del reato.
Sulla base di questa considerazioni la Corte EDU ha esa‑
minato le peculiari ipotesi di confische cd. allargate, previste
da alcuni ordinamenti degli stati aderenti, le quali colpivano
l’intero complesso di beni patrimoniali del reo presumendo
un’intrinseca provenienza illecita.
Nella celeberrima sentenza sul caso Welch, la Corte si
occupa della vicenda di una confisca, disposta ai sensi di una
normativa britannica, che prevedeva una ablazione molto
estesa di beni per chi fosse stato condannato per traffico di
stupefacenti (il Governo britannico sosteneva che quella
misura veniva disposta per prevenire la commissione di ulte‑
riori crimini connessi al traffico di stupefacenti e che la sua
natura intrinsecamente afflittiva poteva essere giustificata
dal permanere, in capo all’autore del reato di traffico illecito
di stupefacenti, di questa ampia disponibilità di beni).
Il filo conduttore del ragionamento ermeneutico condotto
dai giudici di Strasburgo si fonda sul fatto che, per rendere
efficace la tutela offerta dall’art. 7 CEDU, la Corte deve esse‑
re libera di andare oltre le apparenze e valutare se una deter‑
minata misura costituisca una «pena» ai sensi della predetta
disposizione (v., mutatis mutandis, le sentenze Van Droogen‑
broeck c. Belgio del 24 giugno 1982, serie A n. 50, par. 38, e
DuinhofetDuijf c. Paesi Bassi del 22 maggio 1984, serie A
n. 79, par. 34).
In particolare la Corte EDU, reinterpretato in ottica evo‑
lutiva il concetto di pena dell’art.7 convenzione EDU, afferma
che “il punto di partenza di ogni valutazione sull’esistenza di
una pena consiste nello stabilire se la misura in questione sia
stata irrogata in seguito ad una condanna per un «reato».
Altri elementi possono essere ritenuti pertinenti in proposito:
la natura e lo scopo della misura in contestazione; la sua
qualificazione in diritto interno; i procedimenti connessi alla
sua adozione ed esecuzione, nonché la sua severità”. (Corte
EDU, 09/02/1995, Welch e. Regno Unito).
Successivamente, la giurisprudenza EDU ha cominciato
ad entrare “a gamba tesa” sulle ipotesi di confische cd. allar‑
gate, debellando tutte quelle peculiari ipotesi di misure di
sicurezza che, nel colpire indiscriminatamente beni patrimo‑
niali del reo completamente sconnessi dal reato, celavano
all’evidenza il valore sostanziale di pena.
Nel caso Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, la Corte afferma
che “confligge con il principio “nulla poena sine lege”, non‑
ché con il diritto al rispetto dei propri beni, l’adozione di
misure sanzionatorie reali, ivi compresa anche la confisca, in
applicazione di disposizioni non sufficientemente chiare,
accessibili e prevedibili, a prescindere dalla natura penale o
amministrativa della sanzione” (Corte EDU, 20 gennaio
2009, n. 75909; cfr Corte EDU, 17 dicembre 2009, M. c.
Germania).
Inoltre, la corte di Strasburgo effettua un ulteriore sforzo
ricostruttivo per individuare gli indici sintomatici idonei a
qualificare una confisca come una pena, che possiamo sem‑
plificare, per scopi sistematici nei seguenti criteri:
la connessione con un illecito penale, quindi il fatto che
quella misura sia prevista in connessione con un illecito pe‑
nale (e queste sono misure che si applicano normalmente a
fronte di un illecito penale);
la natura e lo scopo della misura in questione (quando ha
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
uno scopo che risulta essere afflittivo si deve ritenere che,
nonostante la denominazione, sia una pena);
la sua qualificazione giuridica sotto il diritto nazionale;
tuttavia, la qualificazione giuridica in base al diritto nazio‑
nale è solo uno dei criteri, quindi anche “se in base al diritto
nazionale questa viene qualificata come misura di sicurezza,
ma risulta che è connessa ad un crimine, che ha natura e
scopo afflittivo, si deve ritenere che sia una pena e non una
misura avente diversa natura”;
la procedura attraverso la quale viene applicata, quindi
anche la circostanza che venga applicata dal giudice penale
può essere un indizio della natura punitivo/afflittiva;
e poi la sua severità (quindi il fatto che sia una misura
particolarmente incisiva, particolarmente severa, è un ulterio‑
re criterio che giustifica la qualificazione in termini di pena).
La posizione della giurisprudenza nazionale
La nuova impostazionedata dallaCorte EDU in termini di
equiparazione della confisca alla pena ha aperto nuovi scenari
all’interno del nostro ordinamento, in quanto sia il legislatore
che la giurisprudenza nazionale hanno dovuto fare i conti con
i risultati dell’ermeneutica sovranazionale e la sua vis persua‑
siva e vincolante: configurare come pena ciò che per il codice
penale è considerata misura di sicurezza comporterebbe un
drastico mutamento del diritto penale sanzionatorio.
È chiaro, ad esempio, che, se dovessimo qualificare come
pena una confisca, avremmo una evidente deroga del tempus
regit actum, con la conseguenza che essa non potrebbe essere
applicata retroattivamente ma dovrebbe soggiacere ai criteri
di successioni delle leggi penali ex art. 2 Cost.
Allo stesso modo, la natura di sanzione punitiva impliche‑
rebbe che la confisca non possa applicarsi laddove il soggetto
agente difetti dei coefficienti psicologici del dolo o della colpa
in relazione alla punibilità del reato base al quale vi si collega
l’ablazione accessoria, anche al fine di evitare un contrasto
con il principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 Cost.
Il problema nel nostro ordinamento si è posto con una
certa pregnanza in quanto il legislatore, nel corso degli ultimi
anni, ha predisposto ipotesi variegate di confische che si av‑
vicinano alla confisca per equivalente ex art 322 ter. Tale
frequente legiferare ha comportato un’eterogeneità del feno‑
meno delle confische non riconducile ad un nozione unitaria
uniforme. Ne è conseguito che l’interprete, di fronte alle con‑
fische di nuovo conio, si è dovuto interrogare sull’esatta na‑
tura e sul regime giuridico da applicare in termini di pena o
di misura di sicurezza.
Due diverse interpretazioni nostrane su casi simili
Per comprendere in pieno la problematica è necessario
riportare alcuni esempi di confische allargate predisposte di
recente dal legislatore e sulle risposte date volta per volta
dalla giurisprudenza nazionale.
L’art. 12 sexiesdella legge n.356/92 (misura di sicurezza
nata con riferimento ai delitti a stampo mafioso e ipotesi
delittuose con finalità di terrorismo, estesa, per effetto della
legge finanziaria del 2007, anche ai reati contro la pubblica
amministrazione) prevede che: «è sempre disposta la confisca
del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato
non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o
2 0 1 3
67
avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzio‑
nato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul
reddito, o alla propria attività economica».
La confisca de quo è stata esaminata da due importanti
arresti della Corte di Cassazione.
In particolare le Sezioni unite nel 2004 con sentenza
n. 920 hanno individuato i caratteri morfologici dell’istituto
sostenendo che “la confisca prevista dall’art. 12‑sexies della
l. n. 356 del 1992 non comporta l’accertamento di un rap‑
porto di pertinenzialità del bene da confiscare con uno dei
reati tassativamente indicati in tale disposizione e per i qua‑
li interviene condanna, né che i beni siano stati acquistati in
un periodo di tempo prossimo alla commissione del delitto
sorgente. È sufficiente che sia provata l’esistenza di una
sproporzione tra il valore dei beni nella disponibilità del
condannato e il reddito dichiarato o i proventi della sua at‑
tività economica, quali accertati con riferimento al momen‑
to dell’acquisto, e che non risulti una giustificazione credibi‑
le della loro lecita provenienza”.
Nonostante l’evidente vicinanza ad una pena, dato il ca‑
rattere eminentemente afflittivo e repressivo per il patrimonio
disponibile del reo, la recente giurisprudenza di legittimità,
almeno nel caso di specie, ha inteso discostarsi dai dicta del‑
la Corte EDU statuendo che “la confisca prevista dall’art. 12
sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella l. 7 agosto
1992, n. 356, così come modificata dall’art. 1, comma 220,
lett. a), della l. 27 dicembre 2006, n. 296, ha natura di misura di sicurezza patrimoniale, ed è pertanto applicabile
anche ai reati contro la P.A. commessi nel tempo in cui tale
ipotesi di confisca non era prevista dalla legge, non operando
il principio di irretroattività della legge penale, ma quello
dell’applicazione della legge vigente al momento della deci‑
sione fissato dall’art. 200 cod. pen.” (Cass. pen., Sez. VI, 06
marzo 2009, n. 25096).
Di recente, una diversa soluzione sull’esatta qualificazione
giuridica, in termini di pena o di misura di sicurezza, è stata
data in relazione alla confisca prevista dal Codice della Stra‑
da normata dall’art. 186 comma 2 lett. c). disciplinante la
fattispecie di reato di guida in stato di ebbrezza, il quale di‑
spone che “è sempre disposta la confisca del veicolo con il
quale è stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso
appartenga a persona estranea al reato”.
La problematicità di tale misura ablatoria si fondava sul
fatto che l’originaria versione della norma coniata dall’art. 1
comma 1 della legge 24 luglio del 2008 n. 125 prevedeva che
la confisca del veicolo era disposta ai sensi dell’art. 240 c.p.
Tale disposizione è stata scandagliata dall’opera interpre‑
tativa della Corte Costituzionale, la quale ha rilevato che il
riferimento all’art. 240 c.p. è fuorviante in quanto determina
l’applicazione retroattiva della confisca anche a fatti commes‑
si prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2008, secondo
il regime proprio delle misure di sicurezza che, ai sensi
dell’art.200 c.p., sono regolate dalla legge in vigore al tempo
della loro applicazione.
Sulla base di questa premessa, il giudice delle leggi dichia‑
ra l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui
annuncia il riferimento al 240 c.p.; soffermandosiin partico‑
lare sulla sua natura giuridica, afferma che “la confisca in
esame, al di là della sua qualificazione formale, ha natura
essenzialmente sanzionatoria, e non di misura di sicurezza in
penale
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
senso proprio, e riveste una funzione meramente repressiva
e non preventiva: infatti, potendo essere disposta anche
quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporane‑
amente inutilizzabile ed essendo, inoltre, inidonea ad impe‑
dire l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, essa non
si presenta in grado di neutralizzare la situazione di pericolo
per la cui prevenzione è stata concepita. L’applicazione re‑
troattiva di una misura propriamente sanzionatoria viola il
principio di irretroattività della pena sancito dall’art. 7 della
CEDU ed esteso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a
tutte le misure di carattere punitivo‑afflittivo. Del resto,
analogo principio è desumibile dall’art. 25, secondo comma,
Cost., il quale, data l’ampiezza della sua formulazione, può
essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionato‑
rio, non avente prevalentemente la funzione di prevenzione
criminale (e quindi non riconducibile alle misure di sicurezza
in senso stretto), è applicabile soltanto se la legge che lo pre‑
vede risulti già vigente al momento della commissione del
fatto sanzionato. Pertanto, per rendere l’impugnata discipli‑
na compatibile con la citata disposizione convenzionale – e
quindi con l’art. 117, primo comma, Cost. – si impone la
declaratoria di illegittimità costituzionale del novellato art.
186, comma 2, lett. c), cod. strada, sia pure limitatamente
alle parole “ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del
codice penale”, dalle quali soltanto deriva l’applicazione re‑
troattiva della misura. Tale esito è, infatti, sufficiente a reci‑
dere il legame che – in contrasto con le indicazioni ricavabili
dalla giurisprudenza tanto di questa Corte, quanto di quella
di Strasburgo – l’art. 4, comma 1, lett. b), del d.l. n. 92 del
2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125 del
2008, ha inteso stabilire tra detta ipotesi di confisca e la di‑
sciplina generale delle misure di sicurezza patrimoniali con‑
tenuta nel codice penale.
In tale approdo interpretativo è interessante notare come
la Corte Costituzionale approvi i principi giurisprudenziali
della Corte EDU valutando la sostanza repressiva della misu‑
ra di sicurezza sottoposta al suo vaglio.
Il carattere eminentemente sanzionatorio di tale confisca
è stato riconosciuto anche da un importante arresto della
Suprema Corte di Cassazione, con riferimento alla problema‑
tica della confiscabilità di un veicolo di proprietà di un sog‑
getto estraneo al reato di guida in stato di ebbrezza.
Nello specifico, i giudici del Supremo Organo della nomo‑
filachia, nell’avallare la giurisprudenza della Corte EDU in
relazione al concetto di pena, hanno evidenziato che ammet‑
tere la confisca del mezzo di proprietà del concedente estraneo
al reatocomporterebbe la palese violazione del disposto ex art.
1 del Protocollo n. 1 della Convenzione (Protezione della
proprietà) che consente una diminuzione patrimoniale del
soggetto solo nelle condizioni previste dalla legge, per cui
anche l’applicazione di una misura comportante un pregiudi‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
zio patrimoniale, al di fuori delle previsioni normative, con‑
figura un’illecita ingerenza nella sfera giuridica ed economica
del singolo.
Sulla base di tali coordinate le Sezioni unite, prescindendo
dalla formale denominazione amministrativa dell’ipotesi in
esame, ravvisano in tale confisca un contenuto sostanzialmen‑
te punitivo e una dimensione teleologicamente afflittiva e,
pertanto, sostengono che “non è confiscabile la vettura con‑
dotta in stato di ebbrezza dall’autore del reato, utilizzatore
del veicolo in relazione a contratto di “leasing”, se il conce‑
dente, proprietario del mezzo, sia estraneo al reato” (Cass.
pen., Sez. unite, 19 gennaio 2012, n. 14484).
Considerazioni conclusive
La complessa ed eterogena disciplina delle confische me‑
riterebbe sicuramente approfondimenti maggiori.
In tale breve relazione – senza alcuna pretesa di esaustivi‑
tà di un tema troppo complesso e variegato da essere compiu‑
tamente sciorinato – si è voluto evidenziare solo come, allo
stato, non possa considerarsi ancora raggiunta una totale
armonia tra l’evoluzione giurisprudenziale della Corte EDU
ed i principi interni, quali risultanti dagli interventi normati‑
vi e dalla giurisprudenza chiamata a darne continuamente
applicazione.
È evidente come tutto questo “filosofeggiare argomenta‑
tivo” tra le corti sovranazionali e nazionali vada solo a disca‑
pito dell’individuo che non è mai in grado di prevedere, so‑
prattutto in tema di repressione penale, a quale regime puni‑
tivo verrà sottoposto.
Tutto ciò comporta una lapalissiana violazione del prin‑
cipio di autodeterminazione e responsabilità delle proprio
scelte, poiché il reo non è in grado di calcolare preventivamen‑
te le conseguenze delle proprie azioni.
Tale esigenza di chiarezza e prevedibilità – intrinsecamen‑
te connaturata ad ogni tipo di previsione penale introdotta in
un ordinamento che possa compiutamente definirsi liberale –
è maggiormente avvertita in relazione a misure evidentemen‑
te ablatorie come le cd. confische allargate.
Si consideri altresì che l’espropriazione di un cespite patri‑
moniale slegato dal reato comporta delle irreversibili conse‑
guenze anche sul piano civilistico in quanto, seppur in manie‑
ra indiretta, ciò arrecherebbe un evidente vulnus al principio
di responsabilità patrimoniale illimitata sancito dall’art 2740
c.c., con ulteriori conseguenze sul piano della certezza dei
traffici economici.
Per queste ragioni sarebbe auspicabile una maggiore cer‑
tezza sull’esito applicativo delle sanzioni accessorie repressive,
quali appunto le confische allargate, che non hanno alcun
legame con le tradizionali misure di sicurezza disposte dal
nostro ordinamento in ossequio al sistema del cd. doppio
binario.
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CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza
08 febbraio 2013 (ud. 20 dicembre 2012), n. 6509
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite
penali
L'impugnazione della parte civile contro la sentenza assolutoria
è ammissibile anche quando non contenga espressi riferimenti
alle statuizioni concernenti gli effetti civili
Allorché la parte civile impugni una sentenza di proscio‑
glimento che non abbia accolto le sue conclusioni, chiedendo
la riforma di tale pronunzia, l’atto di impugnazione, ricorren‑
do le altre condizioni, è ammissibile anche quando non con‑
tenga l’indicazione che l’atto è proposto ai soli effetti civili,
discendendo tale effetto direttamente dall’art. 576 c.p.p.
●
A cura di Angelo Pignatelli
Avvocato
La questione di diritto devoluta alle Sezioni unite può
essere riassunta nei seguenti termini: “Se la parte civile, con
l’impugna- zione della sentenza di proscioglimento, debba
richiedere espressamente, a pena di inammissibilità, la rifor‑
ma della sentenza ai soli effetti civili”.
La risoluzione di tale questione, secondo la Suprema Cor‑
te, necessitava di una precisazione sulla disciplina dei poteri
di impugnazione della parte civile e segnatamente quello di
impugnazione delle sentenze di proscioglimento prendendo
spunto dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46 (inappellabilità delle
sentenze di prosciogli- mento).
Quest’ultima normativa, secondo i Giudici Ermellini, ha
influito sulla disciplina della facoltà di appello della parte ci‑
vile abrogando la disposizione dell’art. 577 c.p.p. che consen‑
tiva eccezionalmente alla parte civile di impugnare, “anche agli
effetti penali”, le sentenze di condanna e di proscioglimento
per i reati di ingiuria e di diffamazione ed eliminando, nell’art.
576 c.p.p., il riferimento all’appello del pubblico ministero e,
quindi, recidendo il preesistente vincolo tra l’impugnazione
della parte civile e le facoltà di impugnazione attribuite al
pubblico ministero quantomeno per i procedimenti che non
siano di competenza del giudice di pace per i quali residua la
previsione del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 38.
Secondo una parte della dottrina, tale eliminazione, coe‑
rente con la scelta del legislatore di privilegiare la separazione
della vicenda risarcitoria da quella strettamente penale al fine
di incentivare l’azione civile nella sua naturale sede, avrebbe
avuto, quale effetto, l’impossibilità per il danneggiato di im‑
pugnare la sentenza di primo grado.
Altro prevalente orientamento dottrinale non aveva con‑
diviso tale interpretazione restrittiva dell’art. 576 c.p.p., in
quanto l’ordinamento non potrebbe consentire l’ingresso
della parte civile nel processo penale per poi precluderle l’espe‑
rimento dei mezzi di impugnazione ammessi dalla legge. Era
stato posto in evidenza come, aderendo all’opposta tesi, sa‑
rebbero rimasti privi di efficacia all’art. 600 c.p.p., comma 1,
e art. 601 c.p.p., comma 1 che, al contrario, non erano stati
intaccati dalla riforma del 2006.
La sopravvivenza alla riforma di tali disposizioni, nella
parte in cui esse fanno riferimento, rispettivamente, al potere
di riproposizione della richiesta di provvisoria esecuzione
della parte civile al giudice di appello ed “all’appello proposto
per i soli fini civili”, avrebbe evidenziato come fosse rimasto
intatto il potere di impugnazione della parte civile avverso le
sentenze di proscioglimento pronunciate in primo grado.
penale
***
70
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
La giurisprudenza di legittimità (cfr. Sezioni unite senten‑
za 29 marzo 2007, n. 27614, Lista, Rv. 236539), ha condiviso
la più estensiva interpretazione della portata della disposizio‑
ne di cui all’art. 576 c.p.p., ritenendola aderente al dettato
letterale della norma e più adeguata ad una lettura costituzio‑
nale della stessa, affermando che, dopo la riforma del 2006,
il potere di impugnazione della parte civile era rimasto sostanzialmente immutato.
L’attuale assetto normativo, quindi, secondo la pronunzia
in esame, prevede che la parte civile non possa impugnare i
capi penali della sentenza di primo grado se non indirettamente, attraverso il potere di sollecitazione del pubblico mi‑
nistero previsto dall’art. 572 c.p.p. (anch’esso sopravvissuto
alla riforma della l. n. 46 del 2006) mentre le è riconosciuto
il potere di impugnazione contro i capi della sentenza di con‑
danna che riguardino l’azione civile, nonché, ai soli effetti
della responsabilità civile, contro le sentenze di prosciogli‑
mento pronunciate nel giudizio, così come espressamente
previsto dall’art. 576 c.p.p. Essa può proporre impugnazione
anche avverso le sentenze emesse a seguito di giudizio abbre‑
viato quando abbia consentito alla abbreviazione del rito.
Per quanto concerne i procedimenti dinanzi al Giudice di
pace, infine, la parte civile, in applicazione della regola gene‑
rale dettata dall’art. 576 c.p.p., riferibile anche a tali procedi‑
menti sulla base del richiamo del d.lgs. n. 274 del 2000, art.
2 è legittimata ad impugnare le sentenze di proscioglimento,
ai soli effetti civili, nonché, anche agli effetti penali, la sen‑
tenza di proscioglimento relativa a procedimento instaurato
con il ricorso immediato previsto dall’art. 21 del citato decre‑
to legislativo, così come disposto dall’art. 38 dello stesso.
Per quanto concerne le sentenze di proscioglimento, la
formula normativa “ai soli effetti della responsabilità civile”
di cui all’art. 576 c.p.p. è stata interpretata da parte della
dottrina nel senso che la sentenza del giudice della impugna‑
zione, favorevole alla parte civile impugnante, non può deci‑
dere sul merito, accordando o negando il risarcimento (perché
lo vieterebbe l’art. 538 c.p.p., comma 1), ma rimuove soltanto
l’effetto extrapenale, conseguente all’art. 652 c.p.p., della
sentenza di proscioglimento, aprendo in tal modo all’interes‑
sato la tutela in un giudizio civile.
Conseguenza di tale impostazione, espressa anche da al‑
cune decisioni di legittimità (sez. 3, sentenza 30 novembre
2001, n. 537, Bovicelli, Rv. 220669; sez. 1, sentenza 07 apri‑
le 1997, n. 4482, Giampaolo, Rv. 207589; sez. 4, sentenza 31
gennaio 1996, n. 4950, Mazza, Rv 205222; sez. 3, sentenza
08 giugno 1994, n. 10792, Armellini, Rv. 200381), è che
l’interesse ad impugnare della parte civile sussiste nei soli
casi in cui la pronuncia penale, una volta divenuta irrevoca‑
bile, avrebbe autorità di cosa giudicata anche nel giudizio
civile ed amministrativo avente ad oggetto il risarcimento del
danno derivante dal reato.
Secondo tale orientamento, l’interesse della parte civile ad
impugnare le sentenze di proscioglimento, sussiste solo ove la
sentenza penale precluda il perseguimento degli interessi ci‑
vili, anche in sede civile.
Altro orientamento, maggioritario, ritiene invece che la
parte civile abbia titolo ad ottenere una sentenza che conten‑
ga la condanna dell’imputato alle restituzioni ed al risarci‑
mento dei danni (sez. 4, sentenza 23 gennaio 2003, n. 13326,
Grecuccio, Rv. 226430; sez. 7, sentenza 15 gennaio 2002, n.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
4216, Sconcerti, Rv. 222052; sez. 5, sentenza 06 febbraio
2001, n. 12359, Maggio, Rv. 218905; sez. 4, sentenza 29
ottobre 1997, n. 10451, Marcelli, Rv. 209673; sez. 5, senten‑
za 31 ottobre 1996, n. 10990, Piccioni, Rv. 207064).
In particolare si è specificato che sarebbe ammissibile
l’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la senten‑
za di assoluzione quando preordinata a chiedere l’affermazio‑
ne di responsabilità dell’imputato, quale presupposto della
condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno, con la
conseguenza che detta richiesta non può condurre ad una
modifica della decisione penale, sulla quale si è formato il
giudicato, in mancanza dell’impugnazione del pubblico mini‑
stero, ma all’affermazione della responsabilità dell’Imputato
per un fatto previsto dalla legge come reato, che giustifica la
condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno. Da
ciò deriva che l’interesse della parte civile al gravame non è
commisurato, come nell’ambito del primo indirizzo, alla pre‑
clusività della formula di proscioglimento, con la conseguen‑
za che essa può proporre impugnazione, senza incorrere in
censure di carenza di interesse, anche contro la sentenza di
proscioglimento adottata con formula non preclusiva dell’eser‑
cizio della azione risarcitoria in sede civile.
Nell’ambito di tale ultimo più ampio contesto, secondo il
Supremo Consesso, si tratta, allora, di verificare quale sia
l’esito di una impugnazione della parte civile che, come quel‑
la del procedimento in oggetto, limiti, formalmente, il petitum
alla sola richiesta di carattere penale, ovvero alla pronuncia
di condanna, senza formulare richieste diretta -mente o indi‑
rettamente (in questo secondo caso per il tramite del riferi‑
mento alla clausola degli “effetti civili”) attinenti al risarci‑
mento dei danni.
Sulla questione al vaglio delle Sezioni unite si registrano
sostanzialmente nella giurisprudenza della Corte di Cassazio‑
ne due difformi approdi interpretativi.
Un primo orientamento minoritario fa conseguire, dalla
disposizione contenuta nell’art. 576 c.p.p., la facoltà della
parte civile di proporre impugnazione anche chiedendo l’af‑
fermazione della responsabilità penale dell’imputato sebbene
ai soli effetti civili ed escludendo la necessità di una espressa
richiesta, nell’atto di gravame, di riforma della sentenza ai
soli effetti civili. (veggasi: sez. 5, sentenza 22 febbraio 1999,
n. 958, Bavetta, Rv. 212934 nella quale si è affermato che
sussiste la legittimazione della parte civile a proporre impu‑
gnazione chiedendo l’affermazione della responsabilità
dell’imputato perché, a norma dell’art. 538 c.p.p. e, salvo
quanto previsto dall’art. 578 c.p.p., il giudice penale può de‑
cidere sulla domanda per le restituzioni e per il risarcimento
solo quando pronunci sentenza di condanna. All’esito del
giudizio il giudice della impugnazione, quindi, può legittimamente decidere sulle richieste risarcitorie e restitutorie la cui
specificazione non deve essere necessariamente contenuta
nell’atto di impugnazione, poiché, come si desume dagli artt.
78 e 82 c.p.p., essa può essere anche differita al momento
della formulazione delle conclusioni in dibattimento. I mede‑
simi principi di diritto sono stati recepiti dalla sentenza sez.
5, n. 31904 del 02 luglio 2009, Rubertà, Rv. 244499, secondo
la quale l’atto di appello non deve contenere necessaria- men‑
te la espressa specificazione della domanda risarcitoria e re‑
stitutoria in quanto questa può essere differita al momento
delle conclusioni in dibattimento, in base all’art. 523 c.p.p.,
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
applicabile anche nel giudizio di impugnazione. Infatti l’art.
82 c.p.p. prevede che la costituzione si intende revocata se la
parte civile non presenta le conclusioni a norma dell’art. 523
c.p.p., ovvero se promuove l’azione dinanzi al giudice civile.
Il combinato di tali disposizioni con l’art. 576 c.p.p. e con
gli artt. 581 e 591 c.p.p. rende evidente che la parte civile, la
quale abbia presentato le conclusioni a norma dell’art. 523
c.p.p. nel precedente grado di giudizio e non abbia revocato
la sua costituzione nel processo penale, è legittimata a pro‑
porre appello contro la sentenza di proscioglimento o assolu‑
zione dell’imputato, chiedendo la verifica della responsabilità
dello stesso per il reato, agli effetti civili. Il suo appello non
può, inoltre, ritenersi inammissibile per genericità dei motivi
(art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 591 c.p.p., comma 1,
lett. c)) agli effetti civili, in quanto la questione di responsa‑
bilità dell’imputato fa riferimento implicito alle conclusioni
non accolte nella sentenza di primo grado in conseguenza
della assoluzione del medesimo, potendo inoltre la parte spe‑
cificare la richiesta diretta al giudice d’appello in sede conclu‑
sionale, ai sensi dell’art. 523 c.p.p., comma 2. Nel solco
dell’orientamento estensivo riportato si collocano anche le
seguenti ulteriori pronunzie sez. 5, sentenza 08 giugno 2010,
n. 27629, Berton, Rv. 248317; sez. 5, sentenza 04 maggio
2010, n. 22716, Marengo, Rv 247967; sez. 5, sentenza 23
settembre 2009, n. 42411, Longo, Rv. 245392; sez. 5, senten‑
za 06 maggio 2003, n. 23412, Caratossidis, Rv. 224932; sez.
4, sentenza 12 luglio 2012, n. 41184.
Un secondo orientamento, più restrittivo (sez. 1, sentenza
04 marzo 1999, n. 7241, Pirani, Rv. 213698) ritiene l’inam‑
missibilità dell’atto di impugnazione della sentenza di proscio‑
gli- mento proposto dalla parte civile che non contenga
espresso e diretto riferimento agli effetti civili che si vogliono
conseguire, non potendosi neppure ritenere tale riferimento
implicito nella mera richiesta di verifica della responsabilità
dell’imputato negata dalla pronunzia impugnata. Tale pro‑
nuncia pone in evidenza come l’art. 576 c.p.p. legittimi la
parte civile a proporre impugnazione “contro i capi della
sentenza di proscioglimento ai soli effetti civili”. “I medesi‑
mi”, continua la sentenza, “sono quelli inerenti all’esercizio
dell’azione civile nel processo penale, la cui sede naturale
sarebbe il processo civile e ... ragioni di opportunità pratica e
di economia di giudizio ne consentono l’esperimento nel pro‑
cesso penale.
Pertanto la richiesta della parte civile impugnante, a pena
di inammissibilità del gravame ai sensi del combinato disposto
dell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. b) e art. 591 c.p.p., comma
1, lett. c), deve fare riferimento specifico e diretto agli effetti
di carattere civile che si intendono conseguire con la proposta
di impugnazione. Ne consegue che una richiesta rivolta dalla
parte civile impugnante al giudice del gravame riguardante
esclusivamente la affermazione della penale responsabilità
dell’imputato, prosciolto nel precedente grado di giudizio,
rende inammissibile il gravame, in quanto richiede al giudice
adito di delibare soltanto in merito ad un effetto penale e non
civile, esulante da quanto prescritto dal legislatore nel rico‑
noscere a tale parte processuale la legittimazione all’impugna‑
zione”. Secondo sez. 6, n. 9072 del 22 ottobre 2009, Bianco,
Rv. 246168, si tratta di “limiti strutturali della impugnazione
di una decisione penale per i soli effetti civili”, sicché l’atto di
impugnazione della parte civile deve contenere riferimenti
2 0 1 3
71
specifici ed immediati agli effetti di natura civile, segnatamen‑
te risarcitoti, che indichino “latitudine ed entità del danno
risarcibile causato da condotte dell’imputato prosciolto”, in
assenza dei quali il gravame sarà inammissibile per aspecifi‑
cità della impugnazione giacché si tradurrebbe in una “impro‑
pria richiesta di delibazione su effetti penali estranei alle fa‑
coltà conferite dalla legge alla parte civile” (in questo senso
anche sez. 2, sentenza 20 maggio 2008, n. 25525, Gattuso,
Rv. 240646; sez. 3, sentenza 23 maggio 2007, n. 35224, Gue‑
rini, Rv. 237399; sez. 2, sentenza 31 gennaio 2006, n. 5072,
Pensa, Rv. 233273; sez. 5, sentenza 30 novembre 2005, n.
9374, dep. 2006, Princiotta, Rv. 233888; sez. 2, sentenza 24
ottobre 2003, n. 897, dep. 2004, Cantamessa, Rv. 227966;
sez. 2, sentenza 30gennaio 2003, n. 11863, Bernardi, Rv.
225023); né potrebbe sopperire alle funzionali lacune esposi‑
tive dell’atto di appello il principio della devolutività limitata
dell’Impugnazione a fini civili in sede penale (sez. 6, sentenza
22 ottobre 2009, n. 9072, Bianco, cit.). L’orientamento “restrittivo” è stato seguito dalla Corte sino a tempi recenti: sez.
4, n. 23155 del 03 maggio 2012, Di Curzio, Rv. 252763.
Le Sezioni unite nel dirimere il contrasto giurisprudenzia‑
le hanno aderito all’orienta- mento meno restrittivo conside‑
rando che la sezione Terza del Capo Secondo del Titolo Terzo
del Libro Settimo del Codice di procedura penale, nel disci‑
plinare la decisione sulle questioni civili, contiene l’art. 538,
il quale statuisce che, salva l’ipotesi di estinzione del reato per
amnistia o per prescrizione di cui all’art. 578 c.p.p., il giudice
penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e per il
risarcimento solo quando pronunci sentenza di condanna.
La giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema
di impugnazioni, in presenza di specifica richiesta della parte
civile, la pronuncia sulle domande di restituzione o di risar‑
cimento del danno non può essere omessa per il solo fatto che
la sentenza assolutoria dell’imputato non sia stata impugnata
dal pubblico ministero, dovendo, in tal caso, il giudice effet‑
tuare, in via incidentale e ai soli fini civilistici, il giudizio di
responsabilità; ma la pronuncia su tali domande non può che
restare legata (e subordinata) all’accertamento (incidentale)
della responsabilità penale. (sez. 1, sentenza 12 marzo 2004,
Maggio, n. 19538, Rv.227971).
Come si è detto, ribadiscono i Supremi Giudici, la parte
civile, nonostante la modifica dell’art. 576 c.p.p. ad opera
della legge n. 46 del 2006, conserva il potere di impugnare le
sentenze di proscioglimento ed il giudice dell’impugnazione
ha, nei limiti del devoluto ed agli effetti della devoluzione, il
potere di affermare la responsabilità dell’imputato agli effet‑
ti civili e di condannarlo al risarcimento o alle restituzioni.
(sez. 6, sentenza 25 ottobre 2011, n. 41479, V., Rv. 251061).
Ne consegue che, la disposizione di cui all’art. 576 c.p.p.,
secondo la quale la parte civile può proporre impugnazione
contro le sentenze di proscioglimento pronunziate nel giudi‑
zio, ai soli effetti della responsabilità civile, deve essere intesa
nel senso che la parte civile può impugnare al fine di ottenere
che il giudice effettui, in via incidentale e ai soli fini civilistici,
il giudizio di responsabilità.
Ovviamente (come precisato dalla richiamata sentenza
sez. 1, n. 19538 del 12 marzo 2004, Maggio, Rv. 227971) la
pronuncia su tali domande non può che restare legata (e su‑
bordinata) all’accertamento (incidentale) della responsabilità
penale.
penale
Gazzetta
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e
p r o c e d u r a
Tale effetto devolutivo tuttavia non dipende dalle richieste
della parte civile contenute nell’atto di impugnazione, ma
dalle richiamate disposizioni di cui agli artt. 538 e 576 c.p.p.
La non necessità della formale enunciazione della finaliz‑
zazione dell’atto di gravame agli effetti civili si fonda perciò
sulla superfluità di un tale elemento dal momento che è lo
stesso art. 576 c.p.p. a circoscrivere in tal modo l’impugna‑
zione svolta dalla parte civile.
Ciò in considerazione del fatto che, una volta presenti nel
gravame le richieste, indipendentemente dal loro contenuto,
la precisazione dell’art. 576 c.p.p. non richiede ulteriori requi‑
siti di forma del ricorso accanto a quelli previsti dall’art. 591
c.p.p., bensì contiene un criterio rivolto al giudice la cui decisione non potrebbe oltrepassare il limite degli interessi civili.
Lo sbarramento normativo non sarebbe violato da una richie‑
sta di affermazione della responsabilità penale, inevitabilmen‑
te implicante, per le ragioni sopra viste, anche la richiesta di
condanna al risarcimento dei danni; senza considerare che
un’interpretazione restrittiva finirebbe per fare invece della
indicazione in oggetto un requisito, appunto, di formale reda‑
zione del ricorso in apparente contrasto con la tassativa elen‑
cazione del combinato disposto degli artt. 581 e 591 c.p.p.
Non può, quindi, essere qualificato generico l’atto di im‑
pugnazione che, sul presupposto del mancato accoglimento
delle conclusioni rassegnate dalla parte civile nel precedente
grado di giudizio, chieda la riforma della decisione impugna‑
ta, sempre che svolga adeguata critica alla pronunzia stessa.
Conclusivamente, Le Sezioni unite hanno affermato il
seguente principio di diritto:
«Allorché la parte civile impugni una sentenza di proscio‑
glimento che non abbia accolto le sue conclusioni, chiedendo
la riforma di tale pronunzia, l’atto di impugnazione, ricor‑
rendo le altre condizioni, è ammissibile anche quando non
contenga l’indicazione che l’atto è proposto ai soli effetti ci‑
vili, discendendo tale effetto direttamente dall’art. 576
c.p.p.».
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite 28 febbraio 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 28 febbraio 2013, le
Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione: «se, in
tema di reato continuato, l’individuazione della violazione
più grave ai fini di computo della pena debba essere effettuata
in concreto oppure con riguardo alla valutazione compiuta in
astratto dal legislatore». Secondo l’informazione provvisoria
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
diffusa, al quesito è stata data la seguente soluzione: «seconda
alternativa». La sentenza sarà massimata nel prossimo numero
appena sarà depositata la motivazione.
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite 28 febbraio 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 28 febbraio 2013, le
Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione: «se, nel
caso in cui venga dedotta l’incompetenza determinata da
connessione, l’operatività di quest’ultima quale criterio attributivo della competenza sia subordinata alla pendenza dei
procedimenti connessi nello stesso stato e grado».
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata
data la soluzione: « negativa ».
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà
depositata la motivazione.
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite 31 gennaio 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 31 gennaio 2013, le
Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione: «se, a
seguito della novella introdotta dalla legge n. 49 del 2006, il
consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia o meno penalmente rilevante, nella duplice ipotesi di mandato all’acquisto o dell’acquisto comune».
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è
stata data la soluzione: «Penalmente irrilevante in entrambe
le ipotesi».
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena
sarà depositata la motivazione.
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite 31 gennaio 2013
All’esito della Camera di consiglio del 31 gennaio 2013,
le Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione :«se
la circostanza aggravante ad effetto speciale della cosiddetta
transnazionalità, prevista dall’art. 4 della l. 16 marzo 2006.
n. 146, sia o meno compatibile con il reato di associazione
per delinquere o sia applicabile ai soli reati fine».
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è
stata data la seguente soluzione: «è compatibile con il reato di
associazione per delinquere, sempreché il gruppo criminale
transnazionale non coincida con l’associazione stessa».
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena
sarà depositata la motivazione.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
●
Rassegna di legittimità
●
A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e
Andrea Alberico
Dottore di Ricerca in Diritto Penale
Avvocato
2 0 1 3
73
Impugnazioni – Interessi civili – Impugnazione per i soli interessi
civili – Appello introdotto dalla sola impugnazione della parte
civile – Partecipazione e conclusioni del rappresentante della
pubblica accusa – Necessità
L’appello che sia stato introdotto, ai sensi del comma pri‑
mo dell’art. 576 c.p.p., dall’impugnazione della sola parte
civile va trattato, sulla scorta di quanto disposto dall’art. 573
c.p.p., con le forme ordinarie del processo penale, per cui è
necessaria la partecipazione e le conclusioni del rappresen‑
tante della pubblica accusa.
Cass., sez. 6, sentenza 19 dicembre 2012, n. 1514
(dep. 11 gennaio 2013) Rv. 253939
Pres. Agro’, Est. Citterio, Imp. Crispi, P.M. D’Angelo (Diff.)
(Annulla senza rinvio, App. Campobasso, 10 novembre
2011)
Impugnazioni – Interessi civili – Impugnazione per i soli interessi
civili – Assoluzione dell’imputato in primo grado – Riforma in
grado di appello ai soli fini civili – Diversa e non maggiormente
plausibile valutazione delle medesime prove – Illegittimità
È illegittima la sentenza d’appello che in riforma di quel‑
la assolutoria affermi la responsabilità dell’imputato, sia
pure ai soli fini civili, sulla base di una alternativa e non mag‑
giormente persuasiva interpretazione del medesimo compen‑
dio probatorio utilizzato nel primo grado di giudizio.
Cass., sez. 6, sentenza 19 dicembre 2012, n. 1514
(dep. 11 gennaio 2013) Rv. 253940
Pres. Agro’, Est. Citterio, Imp. Crispi, P.M. D’Angelo (Diff.)
(Annulla senza rinvio, App. Campobasso, 10 novembre
2011)
Persona giuridica – Società – Reati societari – False comunicazioni
sociali – Nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 61 del 2002 – Esclu‑
sione della punibilità – Cause
In tema di false comunicazioni sociali, a seguito delle
modifiche introdotte dal d.lgs. n. 61 del 2002 la punibilità è
esclusa se la condotta incriminata non altera in modo sensi‑
bile la rappresentazione della situazione economica, patrimo‑
niale o finanziaria della società, ovvero, in via alternativa,
non determina una variazione del risultato economico di
esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al cinque per
cento o una variazione del patrimonio netto non superiore
all’uno per cento, ferma restando ai fini della configurabilità
del reato l’irrilevanza di valutazioni estimative che singolar‑
mente considerate non differiscano in misura non superiore
al dieci per cento rispetto a quella corretta.
Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229
(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253929
Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Volpe
(Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici Uffi‑
ciali – Concussione – In genere – Modifiche previste dalla legge n. 190
del 2012 – Condotta di costrizione – Integrazione – Violenza mora‑
le – Necessità – Violenza fisica – Rilevanza – Esclusione – Ragioni
In tema di concussione, la costrizione, che costituisce
l’elemento oggettivo della fattispecie, così come modificata
dall’art. 1, comma 75, legge 6 novembre 2012, n. 190, impli‑
ca l’impiego da parte del pubblico ufficiale della sola violenza
penale
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morale, che consiste in una minaccia, esplicita o implicita, di
un male ingiusto, recante alla vittima una lesione patrimo‑
niale o non patrimoniale. (In motivazione la Corte ha preci‑
sato che il concetto di costrizione non ricomprende l’utilizzo
della violenza fisica, incompatibile con l’abuso di qualità o
di funzioni).
Cass., sez. 6, sentenza 3 dicembre 2012, n. 3251
(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253936
Pres. Agro’, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. Roscia,P.M. Viola
(Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Roma 17 giugno 2011)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici
Ufficiali – Concussione – In genere – Modifiche previste dalla
legge n. 190 del 2012 – Ipotesi delittuose ex artt. 317 e 319 quater
c.p. – Continuità normativa con il precedente testo dell’art. 317
c.p. – Configurabilità
Sussiste continuità normativa fra l’incriminazione previ‑
sta dall’art. 317, c.p., nel testo vigente prima delle modifiche
apportate dall’art. 1 comma 75 della legge 6 novembre 2012
n. 190, e quelle contenute nel medesimo art. 317 e nella
nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater, comma primo,
c.p., come introdotte dalla legge citata.
Cass., sez. 6, sentenza 3 dicembre 2012, n. 3251
(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253935
Pres. Agro’, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. Roscia,P.M. Viola
(Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Roma 17 giugno 2011)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici
Ufficiali – Corruzione – Istigazione alla corruzione – Distinzione
dalla fattispecie di induzione di cui all’art. 319 quater – Rapporto
paritario fra le parti – Necessità
Sussiste il delitto di istigazione alla corruzione, previsto
dall’art. 322 c.p., e non di induzione punita dall’art. 319
quater c.p., ove fra le parti si instauri un rapporto paritario
diretto al mercimonio dei poteri.
Cass., sez. 6, sentenza 3 dicembre 2012, n. 3251
(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253937
Pres. Agro’, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. Roscia,P.M. Viola
(Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Roma 17 giugno 2011)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici
Ufficiali – In genere – Reato di cui all’art. 319 quater c.p. – Elemento
oggettivo – Attività di induzione – Significato
L’induzione, che costituisce l’elemento oggettivo della
fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., così come introdotta
dall’art. 1, comma 75, legge 6 novembre 2012, n. 190, sussi‑
ste quando, in assenza di qualsivoglia minaccia, vengano
prospettate, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato
di pubblico servizio, conseguenze sfavorevoli derivanti
dall’applicazione della legge, per ottenere il pagamento o la
promessa indebita di denaro o altra utilità. (In motivazione,
la Corte ha evidenziato come l’esclusione dal concetto di
induzione di qualsiasi tipo di minaccia giustifichi sia il minor
grave trattamento sanzionatorio rispetto alla concussione,
sia la punizione di chi aderisce alla violazione della legge,
ricevendone un suo tornaconto).
Cass., sez. 6, sentenza 3 dicembre 2012, n. 3251
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(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253938
Pres. Agro’, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. Roscia,P.M. Viola
(Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Roma 17 giugno 2011)
Reati fallimentari – Bancarotta fraudolenta – In genere – Banca‑
rotta per distrazione – Dolo – Oggetto – Stato d’insolvenza – Esclu‑
sione – Scopo di recare pregiudizio ai creditori – Necessità – Esclu‑
sione
Il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è rea‑
to di pericolo a dolo generico per la cui sussistenza, pertanto,
non è necessario che l’agente abbia consapevolezza dello
stato di insolvenza dell’impresa, né che abbia agito allo scopo
di recare pregiudizio ai creditori.
Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229
(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253932
Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑
pe (Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011)
Reati fallimentari – Bancarotta fraudolenta – In genere – Banca‑
rotta per distrazione – Reato di pericolo – Conseguenze
Il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato
di pericolo e non è dunque necessario, per la sua sussistenza,
la prova che la condotta abbia causato un effettivo pregiudi‑
zio ai creditori, il quale rileva esclusivamente ai fini della
eventuale configurabilità dell’aggravante prevista dall’art.
219 legge fallimentare.
Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229
(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253933
Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑
pe (Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011)
Reati fallimentari – In genere – Impresa soggetta a liquidazione
coatta amministrativa – Applicabilità – Accertamento giudiziale
dello stato d’insolvenza – Eseguito prima dell’entrata in vigore
del d.lgs. n. 270 del 1999 – Irrilevanza
L’accertamento giudiziale dello stato d’insolvenza dell’im‑
presa soggetta alla procedura di liquidazione coatta ammini‑
strativa è presupposto necessario e sufficiente per l’applica‑
bilità delle norme incriminatrici in materia di bancarotta
ancorché effettuato in epoca antecedente alla modifica degli
artt. 203 e 237 legge fall. ad opera del d.lgs. 8 luglio 1999,
n. 270.
Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229
(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253931
Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑
pe (Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011)
Reati fallimentari – In genere – Impresa sottoposta a liquidazione
coatta amministrativa – Accertamento giudiziale dello stato
d’insolvenza – Sindacabilità da parte del giudice penale – Esclu‑
sione
L’applicabilità delle norme incriminatrici in materia di
bancarotta nel caso di impresa soggetta alla procedura di
liquidazione coatta amministrativa presuppone l’accertamen‑
to giudiziale del suo stato d’insolvenza, equiparato, ai sensi
dell’art. 237 legge fall., alla sentenza dichiarativa di fallimen‑
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to e, come quest’ultima, insindacabile in sede penale anche
qualora sottoposto a gravame.
Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229
(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253930
Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑
pe (Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011)
Reati fallimentari – In genere – Società cooperative – Liquidazione
coatta amministrativa – Reati fallimentari – Configurabilità – Rin‑
vio in tal senso operato dalla l. n. 400 del 1975 alla legge fallimen‑
tare – Natura del rinvio – Individuazione della norma di rinvio a
seguito delle modifiche apportate dalla d.lgs. n. 270 del 1999
In tema di società cooperative, il rinvio operato dall’art.
1 l. 17 luglio 1975, n. 400 alle norme contenute nel titolo
quinto della legge fallimentare e dunque anche all’originaria
formulazione dell’art. 203 della stessa legge, che prevedeva
l’applicabilità delle norme penali fallimentari all’imprendito‑
re soggetto alla procedura di liquidazione coatta amministra‑
tiva, deve ritenersi di tipo “mobile” e pertanto in tale pro‑
spettiva tuttora operante sebbene riferibile, dopo le modifiche
apportate dal d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, alla disposizione
contenuta nell’art. 237 legge fall.
Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229
(dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253934
Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑
pe (Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011)
Stupefacenti – In genere – Art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990 – Art. 84
d.P.R. n. 309 del 1990 – Rapporti – Fattispecie
La condotta di chi si limiti a rendere nota al pubblico
l’esistenza di una sostanza stupefacente, veicolando un mes‑
saggio non persuasivo e privo dello scopo immediato di de‑
terminare all’uso di sostanze stupefacenti, integra l’illecito
amministrativo di propaganda pubblicitaria di sostanze stu‑
pefacenti (art. 84 d.P.R. n. 309 del 1990), e non il reato di
istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti (art. 82
d.P.R. n. 309 del 1990).
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Cass., sez. un., sentenza 18 ottobre 2012, n. 47604
(dep. 07 dicembre 2012) Rv. 253551
Pres. Lupo, Est. Squassoni, Imp. P.M. in proc. Bargelli e altro,
P.M. Fedeli M. (Conf.)
(Annulla con rinvio, Gip Trib. Firenze, 01 giugno 2011)
Stupefacenti – In genere – Offerta in vendita di semi di pianta
dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti – Rilevanza
penale – Esclusione – Ragioni
La mera offerta in vendita di semi di pianta dalla quale
siano ricavabili sostanze stupefacenti non è penalmente rile‑
vante, configurandosi come atto preparatorio non punibile
perché non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di
un determinato reato, non potendosi dedurne l’effettiva de‑
stinazione dei semi.
Cass., sez. un., sentenza 18 ottobre 2012, n. 47604
(dep. 07 dicembre 2012) Rv. 253552
Pres. Lupo, Est. Squassoni, Imp. P.M. in proc. Bargelli e altro,
P.M. Fedeli M. (Conf.)
(Annulla con rinvio, Gip Trib. Firenze, 01 giugno 2011)
Stupefacenti – In genere – Vendita di semi di piante di piante
idonee a produrre sostanze stupefacenti con indicazione di mo‑
dalità di coltivazione e resa – Rilevanza penale Istigazione al
consumo di sostanze stupefacenti – Esclusione – Istigazione a
delinquere – Configurabilità
L’offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricava‑
bile una sostanza drogante, accompagnata da precise indica‑
zioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il
reato di cui all’art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990. (La S.C. ha
precisato che la predetta condotta può integrare, ricorrendo‑
ne i presupposti, il reato di istigazione alla coltivazione di
sostanze stupefacenti, ex art. 414 c.p.).
Cass., sez. un., sentenza 18 ottobre 2012, n. 47604
(dep. 07 dicembre 2012) Rv. 253550
Pres. Lupo, Est. Squassoni, Imp. P.M. in proc. Bargelli e altro,
P.M. Fedeli M. (Conf.)
(Annulla con rinvio, Gip Trib. Firenze, 01 giugno 2011).
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DIRITTO PENALE
Rassegna di merito
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A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e
Giuseppina Marotta
Avvocato
Associazione per delinquere di stampo mafioso: partecipazio‑
ne – Condotta dell’imprenditore – Criterio distintivo tra impren‑
ditore vittima ed imprenditore colluso
(art. 416 bis c.p.)
Il criterio distintivo tra imprenditore vittima ed imprendi‑
tore colluso va individuato, come sostenuto da pacifica giuri‑
sprudenza sul punto, nel. fatto che il secondo, a differenza del
primo, rivolge consapevolmente e volontariamente a proprio
vantaggio l’essere venuto in relazione con il sodalizio camorri‑
stico entrando così in un sistema illecito di esercizio dell’ impre‑
sa contraddistinto da agevolazioni (appalti, commesse, appoggi
politici, aperture di linee di credito ecc. ottenuti grazie all’inter‑
mediazione del clan) così trasformando l’originario danno in‑
giusto subito derivante dalla imposizione della tangente estor‑
siva – in un consistente ingiusto vantaggio o beneficio ravvisa‑
bile nella possibilità di consolidare una posizione dominante a
scapito della concorrenza, potendo fruire, dunque, di una sorte
di posizione di monopolio. Cosi la Suprema Corte (cfr. tra le
altre sent. n. 46552/05) ha affermato che è ragionevole ritenere
imprenditore colluso colui che sia entrato in un “rapporto si‑
nallagmatico” con il sodalizio tale da produrre vantaggi ‑ingiu‑
sti perché garantiti dall’apparato strumentale mafioso – per
entrambi i contraenti e tale da consentire all’imprenditore di
imporsi sul territorio in posizione dominante proprio grazie
all’ausilio del sodalizio che in cambio ne riceve risorse, servizi
o comunque utilità. Una volta provato il suddetto “sinallagma
criminoso”, prosegue la Suprema Corte, la condotta dell’im‑
prenditore colluso sarà configurabile come partecipazione alla
associazione per delinquere ex art. 416 bis c.p – allorquando
l’imprenditore risulti stabilmente inserito nella struttura orga‑
nizzativa dell’associazione con un ruolo specifico e funzionale
al raggiungimento dei fini del sodalizio – o sarà configurabile
come concorso eventuale ‑allorquando l’ imprenditore, non
intraneo alla struttura organizzativa, agisca dall’esterno con la
consapevolezza e volontà di fornire un contributo causale alla
conservazione, rafforzamento o realizzazione, anche parziale
del programma della associazione. È e rimane imprenditore
vittima colui che non viene a patti con il sodalizio per volgere a
proprio vantaggio la condizione di assoggettamento, ma anche
di omertà, in cui si trova per la forza della intimidazione espres‑
sa dal sodalizio cedendo alla imposizione mafiosa e magari
trovando un’intesa con il sodalizio al fine di limitare il danno
ingiusto (ad esempio pagamento preventivo ed accettato della
tangente estorsiva per evitare danneggiamenti, atti di intimida‑
zione, blocchi di cantieri ecc.).
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno
sentenza 2 dicembre 2011, n. 3026
Calunnia: elemento oggettivo – Caratteristiche
(art. 368 c.p.)
Secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale, il
delitto di calunnia sussiste anche, quando l’incolpazione
venga formulata attraverso la simulazione a carico di una
persona, non indicata, ma identificabile, delle tracce di un
indeterminato reato, purché la falsa incolpazione contenga in
sé gli elementi necessari e sufficienti all’ inizio dell’azione
penale nei confronti di soggetto univocamente e agevolmente
identificabile. Ed invero in base a tale il principio la Cassa‑
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zione ha, più volte, ritenuto sussistente l’elemento materiale
del reato previsto dall’art.368 c.p. nella denuncia di smarri‑
mento di un assegno preordinata a far convergere su una
persona identificabile l’accusa del reato di furto o di ricetta‑
zione (cfr., tra le altre, Cass. 02 aprile 92 n.3784, Arduini).
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno
sentenza 10 gennaio 2013, n. 43
Circostanze aggravanti: minorata difesa – Presupposti e limiti
(art. 61 n. 5 c.p.)
Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante
della minorata difesa (art. 61 comma primo, n. 5 c.p.). se il
tempo di notte, di per sé solo, non realizza automaticamente
tale aggravante, con esso possono concorrere altre condizio‑
ni che consentono, attraverso una complessiva valutazione,
di ritenere in concreto realizzai, una diminuita capacità di
difesa sia pubblica che privata, non essendo necessario che
tale difesa si presenti impossibile ed essendo sufficiente che
essa sia stata soltanto ostacolata (in tal senso Cass. sei. 2.
Sentenza n. 3598 del 18/01/2011).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164
Pres. Napoletano, Est. De Majo
Circostanza aggravante: minorata difesa – Valutazione delle
condizioni soggettive e della sua attendibilità – Necessità
(art. 61 n. 5 c.p.)
Il dato concernente le peculiari condizioni della vitti‑
ma – costituisce il substrato di una circostanza che viene
posta a base della stessa ricostruzione storico – fattuale della
vicenda, per cui ne deriva che detta circostanza deve rilevare
nel contesto processuale in tutte le sue diverse implicazioni:
essa, cioè, non solo deve essere oggetto di prova, come ogni
altro elemento costitutivo del reato ma deve rilevare ed inci‑
dere anche ai fini della valutazione della prova testimoniale,
non potendosi non attribuire un rilievo specifico alle predet‑
te condizioni soggettive della vittima anche al fine di consi‑
derarne la concreta possibilità di incidenza, determinante ai
fini della complessiva attendibilità della vittima, soprattutto
laddove, dal dibattimento emergano una serie di indici di‑
mostrativi di labilità e lacunosità del ricordo da parte della
vittima e di incongruenze nelle sue capacità descrittive, con‑
dizionate evidentemente, come più volte detto, da fattori
stressanti e da comunemente noti fenomeni di rimozione
reattiva, oltre che dall’età.
Corte Appello Napoli, Sez. III
sentenza 15 novembre 2012, n. 5096
Pres. Est. Catena
Circostanza attenuante del risarcimento del danno: natura sog‑
gettiva – Riequilibrio del pregiudizio patrimoniale – Necessità
(art. 70 c.p.)
La circostanza attenuante in argomento, di natura sog‑
gettiva quanto agli effetti di cui all’art. 70 c.p., deve qualifi‑
carsi “oggettiva” in ordine al suo contenuto. Il risarcimento
deve essere integrale e deve essere posto in essere dal sogget‑
to agente nei cui confronti il giudice deve essere preliminar‑
mente in grado di esprimere una valutazione positiva della
sua resipiscenza e, dunque, della sua minore pericolosità
sociale. È evidente allora che la circostanza attenuante in
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argomento non si perfeziona tanto nel caso in cui la ripara‑
zione non sia integrale, quanto in quello in cui essa sia inte‑
grale ma non espressione della attenuata capacità a delinque‑
re del reo (cfr. da ultimo, Cass., Sez. II, sentenza n. 21014 del
13 maggio 2010 ud. (dep. 04 giugno 2010) Rv. 247121 così
massimata: ‘la circostanza attenuante del risarcimento del
danno ha natura soggettiva solo relativamente agli effetti
mentre quanto al contenuto qualificabile come essenzialmen‑
te oggettiva, giacché, ai fini della sua configurabililtà è ne‑
cessario che il pregiudizio patrimoniale subito dalla persona
offesa sia pienamente riequilibrato, non essendo sufficiente
il solo ravvedimento del reo).
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferri
sentenza 20 dicembre 2012, n. 2975
Circostanza attenuante della riparazione del danno: denaro pro‑
veniente da terzi e/o familiari – Esclusione dell’attenuante
(art. 70 c.p.)
L’assenza di un assegno impedisce di valutare se all’offer‑
ta gli imputali abbiano provveduto con denaro proprio d in
tal caso di verificare quale sia la provenienza. Invero, i giu‑
dici della Suprema Corte hanno chiarito che “l’attenuante
della riparazione del danno non può trovare applicazione nel
caso in cui il risarcimento, in tutto o in parte, venga operato
da terzi e non dall’imputato. (Fattispecie in cui al risarcimen‑
to del danno sofferto dalla vittima del reato avevano prov‑
veduto i familiari dell’imputato), (Cass., Sez. 6, n. 12621 del
25 marzo 2010) ud (dep., 31 marzo 2010) Rv. 246742
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferri,
sentenza 20 dicembre 2012, n. 2975
Confisca: trasporto di TLE – Proprietà di terzo estraneo – Onere
della prova dell’assenza di colpa e difetto di vigilanza – Assen‑
za – Confiscabilità
(art.240 c.p. – d.P.R. 43/73)
L’art 301 del d.P.R. 43/1973 prevede la possibilità di
procedere alla confisca del mezzo utilizzato per il trasporto
della merce di proprietà del terzo qualora lo stesso non di‑
mostri: di non averne potuto prevedere l’illecito impiego
anche occasionale e di non essere incorsa in un difetto di vi‑
gilanza. Con tale disposizione il legislatore ha sostanzialmen‑
te posto a carico del terzo estraneo ai fatti e proprietario del
veicolo l’onere di dimostrare la sua assoluta buona fede e
quindi di ignorare che l’utilizzo del suo veicolo avvenisse per
attività di contrabbando. Ed infatti “in tema di contrabban‑
do doganale, nel caso in cui venga utilizzato per il trasporto
della merce un mezzo di proprietà di un terzo estraneo al
reato, quest’ultimo ha l’onere di provare, al fine di evitare la
confisca obbligatoria, ed ottenerne la restituzione, di non
averne potuto prevedere, nemmeno a titolo di colpa, l’illeci‑
to impiego, anche occasionale da parte dei terzi e di non es‑
serne incorso in un difetto di vigilanza”. (Cass. pen., Sez. III
14 novembre 2007, n. 41876).
Tribunale Napoli, G.u.p. Piccirillo
sentenza 21 maggio 2013, n. 1116
Estorsione: minaccia finalizzata ad ottenere interessi usura‑
ri – Esclusione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ra‑
gioni – Configurabilità del tentativo di estorsione
(art. 629 c.p.)
penale
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Nell’ipotesi in cui un soggetto ponga in essere una minac‑
cia per ottenere il pagamento di interessi usurari, è configu‑
rabile il delitto di estorsione (nella specie tentata, in mancan‑
za di successive erogazioni) e non quello di esercizio arbitra‑
rio delle proprie ragioni, poiché l’agente è consapevole di
esercitare la minaccia per ottenere il soddisfacimento dell’in‑
giusto profitto derivante da una pretesa “contra ius”; egli non
può avere, infatti, la ragionevole opinione di far valere un
diritto tutelabile con l’azione giudiziaria che gli è negata in
considerazione dell’illiceità della pretesa.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 18 luglio 2012, n. 1972
Pres. Aschettino, Est. de Majo
Estorsione: pluralità di atti intimidatori – Configurabilità di azio‑
ne unica o meno – Requisiti e presupposti
(art. 629 c.p. – 81 c.p.)
Per stabilire se (nel caso di tentata estorsione posta in
essere attraverso più atti intimidatori) ci si trovi in presenza
di un’azione unica o meno occorrerà analizzare la pluralità
di condotte poste in essere alla luce di un duplice criterio:
finalistico e temporale. Ed invero, ‘azione unica non equiva‑
le ad atto unico, ben potendo la stessa essere composta da
una molteplicità di atti che, in quanto diretti al conseguimen‑
to di un unico risultato, altro non sono che un frammento
dell’ azione. una modalità esecutiva della condotta delittuo‑
sa. L’unicità del fine a sua volta non basta per imprimere
all’azione un carattere unitario. essendo necessaria la cosid‑
detta contestualità, vale a dire l’immediato succedersi dei
singoli atti, sì da rendere l’azione unica. Ne consegue che in
caso di estorsione tentata, i diversi contatti posti in essere per
procurarsi l’ ingiusto profitto costituiscono autonomi tenta‑
tivi di reato, unificabili con il vincolo della continuazione
quando, singolarmente considerati in relazione alle circostan‑
ze del caso concreto e, in particolare, alle modalità di realiz‑
zazione e soprattutto all’elemento temporale, appaiono do‑
tati di una propria completa individualità. Mentre si ha un
solo tentativo di estorsione, pur in presenza di molteplici
atti di minaccia, allorché gli stessi, alla stregua dei criteri
sopra enunciati, costituiscono singoli momenti di un ‘azione
unica’. (Cass., Sez. VI, 10 novembre 1994 ‑28 febbraio 1995,
fI. 2070, CP 96 n 17)
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferri
sentenza 20 dicembre 2012, n. 2975
Estorsione: tentativo – Espressioni intimidatorie “se non paghi ti
uccido” – Configurabilità
(art. 56 — 629 c.p.)
Ai fini della configurabilità del delitto di tentata estorsio‑
ne è sufficiente che la minaccia o violenza, che è elemento
costitutivo, sia tale da incutere potenzialmente una coerci‑
zione dell’altrui volontà e a nulla rileva che il soggetto passi‑
vo in effetti non si sia intimidito, né rileva la misura dell’in‑
tensità del proposito dell’agente riguardo alla realizzazione
del male minacciato (cfr. Cass., Sez. E, n. 3824 del 17 maggio
1986 e Cass., Sez. VI, n. 10229 del 27 agosto 1999). Ed è
evidente come una tale potenzialità di coazione psìchicafos‑
se connaturata nelle espressioni intimidatorie utilizzate
dall’imputato – “Se non paghi ti uccido”‑ al fine di ottenere
l’ingiusto profitto richiesto.
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Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 18 luglio 2012, n. 1972
Pres. Aschettino, Est. de Majo
Favoreggiamento personale: aggravante di cui all’art. 7 – Agevo‑
lazione della latitanza di un soggetto apicale – Insufficien‑
za – Esclusione della circostanza – Necessaria prova di voler aiu‑
tare l’associazione
(art. 378 c.p.)
Non è sufficiente per l’operatività dell’aggravante il solo
fatto che il soggetto favorito sia un membro apicale dell’as‑
sociazione criminale, ma sarebbe necessario un quid pluris
consistente in un concreto aiuto al sodalizio (Cass., Sez. VI,
28 febbraio 2008, n. 13457 in Riv. Polizia, 2009, 7, 491, in
una fattispecie relativa all’agevolazione della latitanza di un
capo camorrista, per averne reso possibile un incontro con il
figlio, accompagnato dal padre a bordo di un’autovettura;
Cass., Sez. VI, 11 febbraio 2008, n. 19300, in CED Casso
rv. relativa alla condotta di una persona che, per favorire i
contatti tra un latitante e i suoi congiunti, aveva predisposto
autoveicoli idonei ad eludere le ricerche delle forze di polizia;
Cass., Sez. VI, 10 dicembre 2007, n. 6571).Sul piano dell’im‑
putazione soggettiva dell’aggravante, infatti, deve rilevarsi
che, allorché risulta un aiuto al capomafia, deve pure ravvi‑
sarsi necessariamente l’intenzione del favoreggiatore di favo‑
rire anche l’associazione (Cass., Sez. II, 26 maggio 2011,
n. 26589 in CED Casso 2011, rv. 251000) Il legame di pa‑
rentela esistente tra gli imputati e la specifica condotta posta
in essere non permettono di ravvisare, con la necessaria cer‑
tezza, detto elemento soggettivo. Deve pertanto escludersi la
contestata aggravante.
Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano
sentenza 9 gennaio 2013, n. 143
Favoreggiamento personale: aggravante di cui al comma 2 – Com‑
patibilità con l’aggravante di cui all’art. 7 l. 203/91
(art. 378 c.p. – l. 203/91)
L’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 378 cod.
peno è compatibile con quella prevista dall’art. 7 d.l. 13
maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991,
n. 203, quando il favoreggiamento sia stato compiuto in re‑
lazione a persona che abbia fatto parte di associazione di
stampo mafioso e contemporaneamente l’azione sia diretta
ad agevolare l’attività del sodalizio criminoso (Cass. pen.,
Sez. VI, 10 giugno 2005, n. 35680). Non sussiste, infatti,
alcuna sovrapposizione con l’aggravante ex art. 378 c.p. che
è legata esclusivamente al dato oggettivo del favoreggiamen‑
to di colui che sia indagato per associazione mafiosa, mentre
la fattispecie in esame è caratterizzata dalla finalizzazione
della condotta all’agevolazione del sodalizio criminale.
Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano
sentenza 9 gennaio 2013, n. 143
Favoreggiamento personale: aggravante di cui al comma 2 – Na‑
tura e presupposti
(art. 378 c. 2 c.p.)
La circostanza aggravante di cui all’art. 378, co. 2, c.p.
ha natura oggettiva, poiché attiene alla maggiore entità del
danno subito dall’amministrazione della giustizia per effetto
della lesione dell’interesse alla repressione del reato di cui
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
all’art. 416‑bis cod. peno (oggetto del favoreggiamento),
considerato di particolare gravità; conseguentemente, essa
sussiste per il solo fatto che il soggetto “favorito” abbia fatto
parte dell’organizzazione criminosa di stampo mafioso, non
occorrendo la prova che l’attività di favoreggiamento sia
diretta ad agevolare l’attività del sodalizio (Cass. pen., Sez. II,
13 giugno 2007, n. 35266).
Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano
sentenza 9 gennaio 2013, n. 143
Favoreggiamento personale: aggravante di cui al comma 2
dell’art. 378 c.p. – Natura e presupposti
(art. 378 co. 2 c.p.)
L’aggravante di cui al comma,2 dell’art. 378 c.p. ha na‑
tura oggettiva e trova fondamento nella “maggiore entità del
danno subito dall’amministrazione della giustizia per effetto
della lesione dell’interesse alla repressione del reato di cui
all’art. 416 bis c.p. (oggetto del favoreggiamento), conside‑
rato di particolare gravità; conseguentemente, essa sussiste
per il solo fatto che il soggetto ‘’favorito’’ abbia fatto parte
dell’organizzazione criminosa di stampo mafioso, non occor‑
rendo la prova che l’attività di favoreggiamento sia diretta ad
agevolare l’attività del sodalizio. Non può, invece, ritenersi
provata l’aggravante, di natura soggettiva e fondata “sulla
maggiore pericolosità sodale dimostrata dall’agente attraver‑
so l’intento di perseguire il vantaggio che necessita, pertanto,
di specifica prova (cfr. sentenza sopra richiamata), di cui
all’art. 7 L. 203/291 in mancanza di elementi positivi che
facciano ritenere che l’agente fosse a conoscenza dello spes‑
sore criminale del favorito e che, aiutando il latitante, abbia
voluto favorire o agevolare l’attività del clan.
Tribunale Napoli, G.u.p. Rovida
sentenza 20 dicembre 2012, n. 2991
Favoreggiamento personale: elemento soggettivo – Presupposti
(art. 378 c.p.)
Per la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di
favoreggiamento personale è sufficiente il dolo generico, che
deve consistere nella cosciente e volontaria determinazione
delle condotte nella consapevolezza della loro natura elusiva
delle investigazioni e delle ricerche dell’autorità e della fina‑
lizzazione delle stesse a favorire colui che sia sottoposto a
tali investigazioni o ricerche (Cass. pen., Sez. VI, 24 maggio
2011)
Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano
sentenza 9 gennaio 2013, n. 143
Favoreggiamento personale: nozione di aiuto – Condotta mate‑
riale
(art. 378 c.p.)
L’aver sostenuto un latitante, anche con azioni volte ad
evitargli incontri in zone pubbliche, è comportamento idoneo
ad integrare il delitto di favoreggiamento personale, perché
determina a carico della polizia giudiziaria procedente un
maggiore impegno nello svolgimento delle indagini finaliz‑
zate alla ricerca del latitante medesimo. Il delitto di favoreg‑
giamento, infatti, consiste in un reato di pericolo a forma
libera, che rimane integrato da qualsiasi comportamento
idoneo, sia pure solo in astratto, a intralciare il corso della
giustizia. Ai fini della configurabilità dell’illecito, pertanto,
2 0 1 3
79
non è necessaria la dimostrazione dell’effettivo vantaggio
conseguito dal soggetto favorito, occorrendo solo la prova
della oggettiva idoneità della condotta favoreggiatrice ad
intralciare il corso della giustizia (Cass. pen., Sez. VI, 07
novembre 2011, n. 3523). La nozione di aiuto contemplata
dalla fattispecie, dunque, è individuabile in qualsiasi com‑
portamento tenuto da chi collabori attivamente con un lati‑
tante nella cura dei suoi affari ed interessi, offrendogli il
modo e la copertura per attendere a ciò senza esporsi all’at‑
tenzione dell’autorità di polizia.
Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano
sentenza 9 gennaio 2013, n. 143
Favoreggiamento personale: scriminante – Nozione di prossimo
congiunto – Cugino imputato – Esclusione
(art. 384 c.p.)
La nozione di prossimo congiunto è delineata dall’art.
307, co. 4, c.p. secondo il quale s’intendono per i prossimi
congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le
sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti. Le ipo‑
tesi che la norma ricomprende nel concetto di “prossimo
congiunto” sono tassative; pertanto non è tale il “cugino”
dell’imputato.
Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano
sentenza 9 gennaio 2013, n. 143
Favoreggiamento personale: scriminante – Requisiti
(art. 384 c.p.)
L’art. 384 c.p. scrimina o comunque manda esente da
responsabilità penale colui che commetta un fatto di favoreg‑
giamento personale allorché questi agisca per tutelare un
proprio individuale interesse di libertà o di onore ovvero
quello di un prossimo congiunto. La ratio sottesa a tale nor‑
ma risiede nella volontà del legislatore di privilegiare l’inte‑
resse privato rispetto a quello di prevenire il pericolo di
sviamento dell’ordinato e corretto svolgersi dell’amministra‑
zione della giustizia (Cass. pen., Sez. VI, 16 giugno 2011,
n. 37398).
Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano
sentenza 9 gennaio 2013, n. 143
Minaccia: fatto commesso contro un p.u. – Circostanza aggravan‑
te di cui all’art. 339 c.p. – Esclusione – Perseguibilità a querela
(art. 339 c.p. – 61 n. 10 c.p.)
Tra le aggravanti di cui all’art.339 c.p. non vi rientra
quella di cui all’art.61 n.10 c.p. – l’aver commesso il fatto
contro un pubblico ufficiale – per cui in assenza della quere‑
la, s’impone la pronuncia di non doversi procedere per difet‑
to della necessaria condizione di procedibilità.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 28 gennaio 2013, n.1698
Oltraggio: offesa rivolta a p.u. – Luogo pubblico o aperto al pub‑
blico – Fatto avvenuto in istituto penitenziario – Esclusione del
reato
(art. 336 c.p.)
Non integrano il reato di minaccia a pubblico ufficiale (art.
336 c.p.) le espressioni di minaccia rivolte nei confronti di un
pubblico ufficiale come reazione alla pregressa attività dello
stesso, in quanto difetta la finalità di costringere la persona
penale
Gazzetta
80
D i r i t t o
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p r o c e d u r a
offesa a compiere un atto contrario ai propri doveri o ad omet‑
tere un atto dell’ufficio ovvero quella di influire comunque su
di esso, potendosi, piuttosto, configurare il reato di minaccia
aggravata ex art. 612 e 61, n. 10, c.p. (Nella specie, il reato di
cui all’articolo 336 c.p. era stato ravvisato a carico degli impu‑
tati, detenuti in un carcere, i quali, come reazione alla condot‑
ta di un agente della polizia penitenziaria che, in precedenza,
aveva redatto rapporto a carico di uno dei due e testimoniato
nei confronti del medesimo in relazione ad un altro illecito ex
articolo 336 c.p., lo avevano minacciato, profferendo, tra le
altre, le seguenti espressioni: “prega solo Dio che non mi con‑
dannino e che tutto vada bene, se no poi vedrai”; la Corte,
proprio sulla base delle argomentazioni di cui in massima, ha
ritenuto che il fatto dovesse essere configurato come minaccia
contro un pubblico ufficiale perseguibile a querela).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698
Oltraggio a p.u.: elementi costitutivi – Successione di leggi
(art. 341 bis c.p.)
Il reato di cui all’art.341 bis c.p. (fattispecie reintrodotta,
con modifiche, dalla Legge 15.7.2009 n. 94) sanziona la con‑
dotta di colui che in luogo pubblico o in presenza di più per‑
sone offenda l’onore o il decoro del pubblico ufficiale mentre
compie un atto istituzionale ovvero è nell’esercizio delle sue
funzioni. La legge 94/2009 ha espunto dal tessuto normativo
ogni riferimento alla violenza, con la conseguenza che l’uso
della violenza è compatibile con tale delitto soltanto nei ri‑
strettissimi limiti della cosiddetta ingiuria reale, configurabi‑
le quando le percosse costituiscano una violenza di inavver‑
tibile entità, che, senza voler cagionare alcuna sofferenza alla
parte offesa, evidenzi il proposito di arrecare alla vittima of‑
fesa morale, avvilendola con un gesto di disprezzo (cfr. Cass.,
Sez. 6, sentenza n. 24630 del 15 maggio 2012 Imputato:
Fiorillo e altro). Tuttavia, la nuova fattispecie dell’art.341 bis
c.p. come reintrodotta dalla Legge 2009/94, prevede, rispetto
alla pregressa fattispecie di cui all’art.34 c.p., un diverso ed
ulteriore elemento costitutivo del reato ovverossia che l’offesa
avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico cosicchéessa
abbia attitudine ad essere recepita da un numero indetermi‑
nato di persone, ovvero che l’offesa avvenga in presenza di più
persone che abbiano effettivamente percepito l’espressione
ingiuriosa posto che la ratio della punibilità di tale condotta
è quella di tutelare l’immagine del pubblico ufficiale e della
istituzione che rappresenta.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698
Recidiva: aumento di pena – Facoltatività – Obbligatorietà solo
per i delitti di cui all’art. 407 co. 2 lett.a)
(art. 99 c.p.)
Quanto all’entità pena deve premettersi che il giudicante
non ritiene di applicare l’aumento di pena previsto dalla re‑
cidiva attesa la facoltatività dello stesso e la lontananza nel
tempo dei precedenti, che induce a ritenere l’attuale ricaduta
nel reato non significativa sotto il profilo della pericolosità e
comunque non rilevante per la tutela sociale. Vale la pena
aggiungere che la natura facoltativa dell’aumento di pena ex
art 99 c.p., chiaramente desumibile dal suo previgente testo,
non è mutata pur a seguito delle innovazioni in tema di reci‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
diva dettate con la legge 251 del 2005, come può desumersi
dall’ interpretazione letterale della norma. Infatti, quelle
disposizioni di legge non hanno cambiato il primo com‑
ma dell’articolo in parola, che, pertanto (in proposito cfr.
Corte Cost. sentenza n. 192/07 del 14 giugno 2007) continua
a statuire il carattere opzionale della maggiorazione di pena,
prevedendo esplicitamente, invece, un solo caso di aumento
di pena obbligatorio per l delitti indicati nell’art 407 comma 2
lett. a) c.p.p., confermandosi, così, anche “a contrario”, la
regola della facoltatività dell’aumento per tutti gli altri casi.
Tribunale Napoli, G.u.p. De Gregori
sentenza 28 maggio 2012, n. 1638
Resistenza a p.u.: elemento psicologico – Presupposti
(art. 337 c.p.)
Quanto al profilo psicologico, la fattispecie richiede la
coscienza e volontà di usare violenza o minaccia per opporsi
al compimento dell’atto e la consapevolezza di trovarsi di
fronte ad un rappresentante dell’autorità che sta adempiendo
ad un dovere del proprio ufficio (cfr. Cass. pen., Sez. 6° 16
aprile 2004, n. 17701 imp. Fontana). L’elemento psicologico
è costituito dall’azione dell’imputato diretta a sfuggire co‑
munque all’operato del pubblico ufficiale, e cioè nella co‑
scienza e volontà di precludergli, con la propria condotta
minacciosa e violenta, l’atto di ufficio ritenuto pregiudizie‑
vole ai propri interessi (Sez. 6, Sentenza n. 12554 del
30/10/1985), mentre del tutto estranei sono lo scopo media‑
to ed i motivi di fatto avuti di mira dall’agente (cfr. Sez. 6,
sentenza n. 9119 del 01 giugno 1995).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698
Resistenza a p.u.: minaccia e/o ingiuria rivolta al p.u. dopo il com‑
pimento dell’atto di ufficio – Mancanza della finalità di ostacola‑
re l’operato del p.u. – Insussistenza del reato – Configurabilità
dell’eventuale reato di minaccia a p.u. perseguibile a querela
(art. 337 c.p.)
Il reato di cui all’art.337 c.p. si configura laddove il sog‑
getto ponga in essere una condotta aggressiva, violenta o
minacciosa tale da coartare la libertà del pubblico ufficiale
mentre compie un atto del proprio ufficio o che sia idoneo
ad ostacolare l’esplicazione della propria funzione. Infatti, la
norma salvaguarda la libertà di azione del pubblico ufficiale
ed è posta a tutela della pubblica amministrazione. La con‑
dotta criminosa sanzionata è specificamente diretta ad osta‑
colare il compimento dell’attività doverosa e legittima del
pubblico ufficiale sicché la violenza o minaccia è usata du‑
rante il compimento dell’atto d’ufficio al fine di impedirlo e
di opporsi ad esso senza restare nell’ambito della mera mani‑
festazione offensiva quale espressione di un semplice disprez‑
zo verso il pubblico ufficiale. Rientra nell’ambito delle con‑
dotte penalmente rilevanti e sanzionabili, ogni comporta‑
mento idoneo ad opporsi all’atto che il pubblico ufficiale sta
doverosamente compiendo che costituisca oggettivamente
minaccia e ponga in pericolo la pubblica e privata incolumi‑
tà quali, la guida spericolata inseguiti dagli agenti, il divin‑
colarsi o lo strattonare, esulando tali condotte dalla mera
resistenza passiva.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 28 gennaio 2013, n.1698
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Resistenza a p.u.: minacce o ingiurie che non rivelano alcuna vo‑
lontà di opporsi allo svolgimento dell’atto di ufficio – Insussisten‑
za del reato
(art. 337 c.p.)
Non integrano il delitto di resistenza a pubblico ufficiale
le espressioni di minaccia rivolte nei suoi confronti, quando
le stesse non rivelino alcuna volontà di opporsi allo svolgi‑
mento dell’atto d’ufficio, ma rappresentino piuttosto una
forma di contestazione della pregressa attività svolta dal
pubblico ufficiale, da inquadrare nell’ambito della diversa
ipotesi delittuosa di cui all’art. 612, comma secondo, c.p.
(Fattispecie in cui un detenuto, reagendo ad un rimprovero
rivoltogli da una guardia penitenziaria, inveiva nei suoi con‑
fronti minacciandola di “spaccarle la testa” cfr. Cass. pen.,
Sez. 6, sentenza n. 22453 del 29 gennaio 2009 Imputato:
Lombardi. Conforme Cass., Sez. 6, sentenza n. 8340 del 18
novembre 2010 Imputato: Chiodo Khalil e altro). Allo stesso
modo, qualora la condotta ingiuriosa posta in essere nei
confronti di un pubblico ufficiale non riveli alcuna volontà di
opporsi allo svolgimento dell’atto d’ufficio e risulti priva del
nesso di causalità psicologica tra l’offesa arrecata e le funzio‑
ni esercitate, ma rappresenti piuttosto l’espressione di uno
sfogo di sentimenti ostili e di disprezzo, non può ritenersi
configurabile il delitto di resistenza dovendosi inquadrare la
condotta nell’ipotesi dell’oltraggio (cfr. Cass., Sez. 6, senten‑
za n. 44976 del 13 novembre 2008 Imputato: Luccisano).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698
equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia
la capacità. sulla base di una valutazione “ex ante” e in rela‑
zione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato
prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto” (cfr.
Cass., sez II, sentenza n. 41649 del 5 novembre 2010, Cass.,
Sez. 5, sentenza n. 43255 del 24 settembre 2009).
Tribunale Napoli, G.u.p. Capozzi
sentenza 14 gennaio 2013, n. 139
Resistenza a p.u.: violenza impropria – Sussistenza del reato
(art. 337 c.p.)
La materialità del delitto di resistenza al pubblico uffi‑
ciale è integrata, infatti, anche dalla violenza cosiddetta
impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il
suddetto soggetto, si riverbera negativamente nell’esplicazio‑
ne della relativa funzione pubblica, impedendola o semplice‑
mente ostacolandola. Solo la resistenza passiva, in quanto
negazione di qualunque forma di violenza o di minaccia, ri‑
mane al di fuori della previsione legislativa di cui all’art. 337
c.p. (cfr. Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 7061 del 25 maggio
1996 Imputato: Solfrizzi).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698
Usura: aggravante co. V n. 4 – Presupposti
(art. 644 co. 5 n. 4)
La circostanza aggravante speciale di cui all’art. 644
comma quinto, n. 4, c.p. è configurabile per il solo fatto che
la persona offesa eserciti una delle attività protette, a nulla
rilevando che il finanziamento corrisposto dietro la promes‑
sa o dazione di interessi usurari non abbia alcuna attinenza
con le predette attività, (cfr. Cassazione Sez. n. 22.3.2011
n. 25328: Fattispecie nella quale il soggetto passivo esercita‑
va attività d’impresa, ma il finanziamento ricevuto era stato
impiegato per l’acquisto di un immobile non direttamente
impiegato nella predetta attività) dal che non può dubitarsi
in alcun modo in ordine alla sussistenza della aggravante.
Tribunale Nola, coll. A)
Pres. Aschettino, Est. Majo
Sentenza 18 luglio 2012, n. 1972
Sottrazione beni sottoposti a sequestro: rapporto con la sanzione
amministrativa – Specialità della seconda
(art 334 – 213 c.d.s.)
La sanzione penale di cui all’art. 334 c.p. e quella ammi‑
nistrativa di cui all’art, 213 comma 4 cod. strada si pongano
in rapporto di specialità che, come tale, dando luogo ad un
concorso apparente di norme, non può che essere risolto con
la sola applicazione della norma speciale (art. 9 1. n. 689/1981),
nel caso di specie, la seconda.
Tribunale Napoli, G.u.p. Pilla
sentenza 9 gennaio 2013, n. 79
Tentativo: atto preparatorio – Requisiti – Criteri di valutazione
(art. 56 c.p.)
Anche un atto preparatorio può integrare gli estremi del
tentativo punibile. quando sia idoneo e diretto in modo non
Tentativo: desistenza – Condotta rilevante – Requisiti
(art. 56 c.p.)
L’esimente della desistenza nel tentativo richiede che la
determinazione del soggetto agente di non proseguire
nell’azione criminosa si concreti indipendentemente da cau‑
se esterne che impediscano comunque la prosecuzione
dell’azione o la rendano vana” (Cfr. Cass, Sez. 2, sentenza
n. 41484 del 29 settembre 2009). “La desistenza dal tenta‑
tivo, per integrare la causa di non punibilità prevista dall’art
56 comma terzo c.p., pur non essendo necessario che sia
spontanea (cioè dettata da motivi interiori di resipiscenza o
di pentimento), deve tuttavia essere volontaria, cioè non
determinata da intervenuti fattori esterni e indipendenti
dalla volontà dell’agente. Non è volontaria la desistenza
determinata dalla percezione di un fatto esterno che possa
far ritenere il pericolo dell’intervento della polizia” (Cfr.
Cass., Sez. 2, sentenza n. 1833 del 16 maggio 1973).
Tribunale Napoli, G.u.p. Capozzi
sentenza 14 gennaio 2013, n. 139
Usura: condotta materiale – Presupposti
(art. 644 c.p.)
Il delitto di usura, avente la struttura dei delitti ed. a con‑
dotta frazionata o a consumazione prolungata, si delinea come
un reato a schema duplice, costituito da due fattispecie, desti‑
nate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione
della pattuizione usuraria, aventi in comune l’induzione del
soggetto passivo alla pattuizione di interessi o altri vantaggi
usurari in corrispettivo di una prestazione dì denaro o di altra
cosa mobile, delle quali l’una è caratterizzata dal conseguimen‑
to del profitto illecito e l’altra dalla sola accettazione del sinal‑
lagma ad esso preordinato. Nella prima fattispecie, il verificar‑
si dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteggia non già ad
effetto del reato, più o meno esteso nel tempo in relazione
penale
Gazzetta
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all’eventuale rateizzazione del debito, bensì ad elemento costi‑
tutivo dell’illecito il quale, nel caso di integrale pagamento
dell’obbligazione usuraria, si consuma con il pagamento del
debito, mentre nella seconda, che si verifica quando la promes‑
sa del corrispettivo, in tutto o in parte, non viene mantenuta,
il reato si perfeziona con la sola accettazione dell’obbligazione
rimasta inadempiuta (Cass. pen., 01 ottobre 2008, n. 38812;
Cass. Sez. En. 11837 del 1 marzo 2004).
Tribunale Nola, coll. A)
Pres. Aschettino, Est. de Majo
sentenza 18 luglio 2012, n. 1972
Usura: sproporzione tra le prestazione ed approfittamento dello
stato di bisogno – Necessità – Esclusione
(art. 644 c.p.)
All’esito della riforma di cui alla l. 108/96, per la confi‑
gurabilità dell’illecito non è più richiesta una generica spro‑
porzione tra le prestazioni con approfittamento da parte
dell’agente dello stato di bisogno della vittima, essendo suf‑
ficiente che il vantaggio o l’interesse pattuito nell’ambito
dell’operazione negoziale sottoposta ad esame ecceda un li‑
mite di legge (ed. tasso soglia) superato il quale si realizza
sempre e comunque la fattispecie ex art. 644 c.p.
Tribunale Nola, coll. A)
Pres. Aschettino, Est. de Majo
sentenza 18 luglio 2012, n. 1972
Usura – Estorsione: concorso di reati – Presupposti
(art. 644 – 629 c.p.)
II reato di usura e quello di estorsione concorrono tra
loro allorquando la violenza o la minaccia, assenti al momen‑
to della stipulazione del patto usurario, siano impiegate in
un momento successivo, al fine di ottenere la realizzazione
dei pattuiti “interessi o altri vantaggi usurari” che il soggetto
passivo non possa o non voglia più corrispondere, sussisten‑
do invece il solo reato di estorsione ove la violenza o la mi‑
naccia siano impiegate “ab inìtio”, al fine di ottenere la da‑
zione o la promessa dei suddetti interessi o 23 vantaggi
(Cassazione penale, 14 gennaio 2009, n. 5231 Cassazione
penale, Sez. II, 29 settembre 2009, n. 41481).
Tribunale Nola, coll. A)
Pres. Aschettino, Est. de Majo
sentenza 18 luglio 2012, n. 1972
Usura: nesso teleologico – Sussistenza – Natura del reato istanta‑
neo con effetti permanenti
(art. 644 c.p.)
Ricorre l’aggravante del nesso teleologìco, laddove le
violenze e minacce siano chiaramente finalizzate alla ulterio‑
re consumazione del reato, cioè la riscossione dei proventi
usurari. Invero, in tema di usura, la riscossione degli interes‑
si dopo l’illecita pattuizione integra il momento di consuma‑
zione del reato e non costituisce un posi factum penalmente
irrilevante. Ciò deve desumersi dalla speciale regola prevista
in tema di decorrenza della prescrizione dall’art. 644 ter c.p.,
laddove si stabilisce che “la prescrizione del reato di usura
decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi
che del capitale”. Ne deriva che l’usura non è più qualifica‑
bile, come in passato, come reato istantaneo con effetti
permanenti, bensì come reato a consumazione prolungala,
p e n a l e
Gazzetta
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la cui consumazione perdura sino a che non cessano le dazio‑
ni degli interessi: la consegna effettiva degli interessi usurari
convenuti, infatti, segna il momento consumativo “sostan‑
ziale” del reato, senza che in proposito vi sia motivo di di‑
stinguere, atteso il termine “riscossione”utilizzato dal legi‑
slatore, tra riscossione volontaria e spontanea e riscossione
coattiva mediante procedura esecutiva (Cassazione penale,
sez., 19 giugno 2009, n. 42322; Cassazione penale, Sez. H,
10 luglio 2008, n. 34910; Cassazione penale, Sez. E, 12
giugno 2007,n. 26553).
Tribunale Nola, coll. A)
Pres. Aschettino, Est. de Majo
sentenza 18 luglio 2012, n. 1972
Violenza sessuale: attenuante del fatto di minore entità – Criteri
di applicazione
(art. 609 bis c.p.)
Ai fini della confìgurabilità della circostanza attenuante
del fatto di minore gravita nel reato di violenza sessuale, ri‑
levano i soli elementi indicati dal comma primo dell’art. 133
c.p., e non anche quelli di cui al comma secondo, utilizzabili
solo per la commisurazione complessiva della pena. (Sez. 3,
sentenza n. 45692 del 26 ottobre 2011)
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164
Pres. Napoletano, Est. De Majo
Violenza sessuale: esimente del consenso dell’avente dirit‑
to – Esclusione
(art.609 bis c.p.)
L’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non
è configurarle nel delitto di violenza sessuale, in quanto la
mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della
fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia pertanto in un
errore inescusabile sulla legge penale.(in tal senso Cass. pen.,
Sez. 3, sentenza n. 7210 del 10 marzo 2011).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164
Pres. Napoletano, Est. De Majo
Violenza sessuale: finalità – Intrusione nella sfera sessuale al‑
trui – Elemento soggettivo – Dolo generico
(art. 609 bis c.p.)
Le finalità dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del
proprio piacere sessuale non assumono un rilievo decisivo ai
lini del perfezionamento del reato, che è caratterizzato dal
dolo generico e richiede semplicemente la coscienza e volon‑
tà di compiere atti pervasivi della sfera sessuale altrui. Ne
deriva che nel caso di specie il fatto di pretendere ed ottenere
un rapporto sessuale completo contro la volontà della donna
non necessita di alcuna specificazione in quanto l’intrusione
nella sfera sessuale della vittima appare macroscopica.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164
Pres. Napoletano, Est. De Majo
Violenza sessuale: finalità dell’agente – Irrilevanza
(art. 609 bis c.p.)
L’elemento soggettivo del reato consiste nella coscienza e
volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
sessuale della persona non consenziente, restando pertanto
irrilevante l’eventuale fine ulteriore, sia esso di concupiscen‑
za, ludico o d’umiliazione, propostosi dal soggetto agente.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164
Pres. Napoletano, Est. De Majo
Violenza sessuale: iniziale consenso della vittima – Ripensamen‑
to – Sussistenza del reato
(art. 609 bis c.p.)
Integra il reato di violenza sessuale la condotta di colui
che prosegua un rapporto sessuale quando il consenso della
vittima, ordinariamente prestato, viene poi meno a causa di
un ripensamento ovvero della non condivisone delle forme o
delle modalità di consumazione del rapporto, ciò in quanto
il consenso della vittima deve perdurare nel corso dell’intero
rapporto senza soluzione di continuità” (in tal senso Cass.,
Sez. 3, n. 4532 del 11 dicembre 2007).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164
Pres. Napoletano, Est. De Majo
Violenza sessuale: nozione, contenuto e limiti di atti sessuali
(art. 609 bis c.p.)
Il reato di violenza sessuale, si riconnette alla definizione
della nozione, del contenuto e dei limiti della locuzione «at‑
ti sessuali», di cui alla 1. n. 66 del 1996. in quanto l’art.
609‑bis c.p. (introdotto dalla predetta legge) ha concentrato
in una fattispecie unitaria le previgenti ipotesi criminose
previste dagli arti. 529 e 521 c.p. individuando quale unica
condotta composita, idonea a ledere il bene giuridico della
libertà sessuale, in luogo della «congiunzione carnale» e
degli «atti di libidine violenti», il fatto di chi con violenza o
minaccia o mediante abuso di autorità «costringe» taluno a
compiere o a subire «atti sessuali». Punto focale è la dispo‑
nibilità della sfera sessuale da parte della persona che ne è
titolare. La condotta vietata dall’art. 609‑bis c.p. ricompren‑
de se connotata da costrizione (violenza, minaccia o abuso
di autorità) sostituzione ingannevole di persona ovvero abu‑
so di condizioni di inferiorità fisica o psichica oltre ad ogni
forma, di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolven‑
dosi in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto
passivo, ancorché fugace ed estemporaneo, o comunque
coinvolgendo la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia fina‑
lizzato e normalmente idoneo a porre in pericolo la libertà
di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera
sessuale.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164
Pres. Napoletano, Est. De Majo
2 0 1 3
83
PROCEDURA PENALE
Appello: rinnovazione – Acquisizione documentazione allegati a
memoria difensiva – Ammissibilità
(art. 603 c.p.p.)
Non vi è alcun dubbio che i documenti allegati alla me‑
moria difensiva possano essere acquisiti in fase di appello
attraverso il meccanismo di cui all’art. 603 c.p.p. primo
comma, dovendosi considerare “prove nuove” anche le ri‑
chieste inerenti ad elementi di prova suscettibili di introdu‑
zione nel precedente giudizio, ma non acquisite dal primo
giudice perché ritenute irrilevanti.
Corte Appello Napoli, Sez. III
sentenza 15 novembre 2012, n. 5096
Pres. Est. Catena
Appello: rinnovazione dibattimento – Funzione ricostruttiva del
fatto del giudice di appello – Previsione
(art. 603 c.p.p.)
La funzione del giudice di appello non può assolutamen‑
te limitarsi ad un esame critico e non anche ricostruttivo,
laddove la funzione del giudice di appello non si limita affat‑
to a quella di mero controllo, consistendo invece anche in
una più pregnante funzione di ricostruzione del fatto, come
si evince da un’attenta lettura della normativa sulla rinnova‑
zione dell’istruttoria dibattimentale, secondo le varie ipotesi
di cui all’art. 603 c.p.p.‑ in concreto i tempi estremamente
dilatati del processo spesso precludono la possibilità al giu‑
dice dell’appello di poter esercitare in maniera proficua quei
poteri che le norme processuali gli attribuiscono.
Corte Appello Napoli, Sez. III
sentenza 15 novembre 2012, n. 5096
Pres. Est. Catena
Dibattimento: richiesta difensiva di integrazione probatoria – Uti‑
lità per rafforzamento percorso logico argomentativo della sen‑
tenza
L’atteggiamento mentale del giudice, non può escludere
la possibilità concreta che anche nelle fasi finali dell’istrutto‑
ria dibattimentale possano emergere elementi in grado di
chiarire circostanze sino a quel momento non considerate né
valutate, soprattutto quando le richieste difensive non appa‑
iano manifestamente infondate o dilatorie ma specificamen‑
te argomentate. Sotto altro aspetto, nella scansione proces‑
suale ciascun giudice dovrebbe sempre considerare l’ulterio‑
re sviluppo del processo e considerare, quindi, che ciò che
non trova accoglimento in primo grado può costituire un
elemento di intrinseca debolezza della motivazione della
sentenza, laddove l’accoglimento di una richiesta difensiva
può, al contrario, costituire un rafforzamento ed un arricchi‑
mento del percorso logico – argomentativo della sentenza
stessa; e ciò proprio nella misura in cui, alla luce dell’esito
rappresentato dall’acquisizione probatoria ulteriore prove‑
niente dalla Difesa in termini di impulso processuale, si
possa confermare o smentire la tesi accusatoria, ovvero in‑
trodurre un ragionevole dubbio circa la concreta possibilità
di una alternativa ricostruzione del fatto specifico. Corte
Appello Napoli, Sez. III
sentenza 15 novembre 2012, n. 5096
Pres. Est. Catena
penale
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Nuove contestazioni: contestazione di un reato per il quale è
prevista udienza preliminare – Limiti e presupposti
(art. 516 e ss. c.p.p.)
La possibilità di retrocessione degli atti al Pubblico Mi‑
nistero, a fronte di nuove contestazioni formulate dal titola‑
re dell’esercizio dell’azione penale nel corso dell’istruzione
dibattimentale (modifica imputazione o reato concorrente o
reato circostanziato per il quale è prevista l’udienza prelimi‑
nare), è circoscritta alle ipotesi in cui i reati originariamente
contestati per i quali si procede in dibattimento “non preve‑
dono” l’udienza preliminare che, quindi, non è stata tenuta
e non “doveva” essere tenuta, ovverossia per i reati per i
quali si procede con citazione diretta ex art.550 c.p.p. Di
contro, la regressione del procedimento, in assenza, peraltro,
di espressa disposizione normativa contraria non rinvenibile
dalla letturatestuale degli artt.516 e ss.c.p.p., non è giustifi‑
cata in dibattimento se si procede per reati originariamente
contestati per i quali “è prevista” dal legislatore l’udienza
preliminare e questa è stata celebrata ovvero ‑situazione
equiparabile – non è stata tenuta per la scelta, consentita dal
legislatore, di procedere con il giudizio immediato in presen‑
za di determinati presupposti normativi.
Tribunale Napoli, Sez. I
ordinanza 17 gennaio 2013
Pres. Pellecchia, Est. Bottillo
Proscioglimento anticipato: deposito della richiesta di emissione
del decreto penale di condanna – Emissione della sentenza di
proscioglimento – Prevedibilità
(art. 129 c.p.p.)
L’art, 129 c.p.p. conferisce al Giudice uno strumento
deflattivo di notevole portata, che come ribadito dalla Supre‑
ma Corte può avere luogo, cosi come richiesto dalla lettera
della norma “in ogni stato e grado del processo” cioè solo nel
vero e proprio processo, e non anche nell’intero procedimen‑
to. Non vi è dubbio che con il deposito della richiesta di
emissione di decreto penale di condanna, ha avuto termine
la fase procedimentale e pertanto il Giudice se ritiene sussi‑
stenti una della cause di cui all’art. 129 c.p.p. può dare luogo
alla sentenza di non luogo a procedere provvedendo di ufficio,
essendo evidente che il legislatore ha inteso con tale mezzo
fornire il Giudice, di un potere selettivo atto ad evitare inuti‑
li dispendi processuali purché l’esercizio dello stesso avvenga
in una fase processuale in modo da potere essere efficacemen‑
te controllato con i mezzi di impugnazione.
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno
sentenza 8 gennaio 2013, n. 16
Rito abbreviato: atti di indagine – Inutilizzabilità – Limite della
cd. inutilizzabilità patologica
(art. 438 e ss. c.p.p.)
La richiesta di definizione del giudizio nelle forme del
rito abbreviato allo stato degli atti, comporta la piena utiliz‑
zabilità di tutti gli atti di indagine confluiti nei fascicolo del
PM: ed invero, in tale procedimento, cd. a prova contratta,
deve attribuirsi rilevanza esclusivamente alla categoria san‑
zionatoria della cd. inutilizzabilità patologica, inerente, cioè,
ad atti di indagine acquisiti contra legem, la cui utilizzabilità
è vietata in modo assoluto non solo in sede dibattimentale
ma in ogni fase del procedimento.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno
sentenza 21 dicembre 2012, n. 3008
Rito Abbreviato: questione di indeterminatezza dell’imputazio‑
ne – Esclusione
(art. 438 c.p.p.)
Nel caso in cui l’imputato chiede di essere giudicato con
rito abbreviato, la questione dell’indeterminatezza o generi‑
cità dell’imputazione non può essere presa in esame. La
configurazione della richiesta di giudizio abbreviato incon‑
dizionato come diritto potestativo dell’imputato, infatti,
comporta non solo la scelta di essere giudicato sulla base
degli atti, ma anche l’accettazione necessaria dell’imputazio‑
ne formulata dall’accusa”. La richiesta ex art. 438 c.p.p. non
può che riguardare l’imputazione formulata dal pubblico
ministero. Non a caso, nei limitati casi in cui è possibile da
parte del pubblico ministero l’esercizio dei poteri di cui all’art.
423 c.p.p., l’imputato ha diritto di ripensare alla scelta di
essere giudicato con il rito abbreviato.
Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano
sentenza 9 gennaio 2013, n. 143
Sentenza: sentenza di condanna – Colpevolezza al di là di ogni
ragionevole dubbio – Significato e presupposti
(art. 533 c.p.p.)
La formulazione dell’art. 533 c.p.p. – secondo cui alla
pronuncia di una sentenza di condanna deve pervenirsi se la
colpevolezza dell’imputato risulta al di là di ogni ragionevo‑
le dubbio – non significa affatto che il giudice debba prende‑
re in considerazione tutte le molteplici ipotetiche ed astratte
ricostruzioni alternative della singola vicenda sottoposta al
suo vaglio, al di là, quindi, delle emergenze processuali e
delle risultanze probatorie, ma significa, altrettanto sicura‑
mente, che in base alla completa valutazione di ogni elemen‑
to, che in concreto abbia o possa avere legittimo ingresso nel
dibattimento, il giudice debba procedere alla ricostruzione
delle concrete e verosimili ricostruzioni alternative in relazio‑
ne alla specificità del caso; specificità che non può che risul‑
tare sempre più peculiare e caratterizzata per effetto degli
apporti forniti dalle parti nel corso dell’istruttoria dibatti‑
mentale. La caratteristica ontologica della terzietà, quella
più rilevante sul piano pratico, quindi, consiste proprio nel
prendere sempre in considerazione le richieste delle parti in
un’ottica non solo scevra da precostituiti convincimenti, ma
soprattutto volta a considerare serenamente la complessità
delle vicende umane, spesso al di là di ogni logica apparenza,
ed essendo, conseguentemente, disponibili non solo a muta‑
re il proprio convincimento a fronte di fattori univoci, ma
soprattutto ad analizzare la concreta e plausibile rilevanza di
ogni ulteriore acquisizione probatoria che, per le più svaria‑
te ragioni, non abbia potuto trovare la propria naturale sede
di sviluppo nella fase delle indagini preliminari.
Corte Appello Napoli, Sez. III
sentenza 15 novembre 2012, n. 5096
Pres. Est. Catena
Valutazione della prova: attendibilità e credibilità – Differenze
(art. 192 c.p.p.)
In tutti i casi in cui si verta in materia di ricordo visivo
debba essere sempre effettuato un vaglio critico saldamente
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
ancorato ad una approfondita analisi di tutti quei fattori
che possano, anche inconsapevolmente, incidere sui proces‑
si di formazione e di riproduzione del ricordo, condizionan‑
doli per ragioni derivanti da fattori emozionali e di stress,
nonché da fattori anagrafici e culturali, che spesso agiscono
indipendentemente dalla consapevolezza del soggetto chia‑
mato a fornire descrizioni e riconoscimenti, non potendo la
valutazione del giudice limitarsi al profilo di genuinità del‑
la deposizione e della buona fede del teste che non è, di per
sé, automaticamente dimostrativa della attendibilità del
ricordo.
Corte Appello Napoli, Sez. III
sentenza 15 novembre 2012, n. 5096
Pres. Est. Catena
Valutazione della prova: chiamata in correità – Valutazione fra‑
zionata delle dichiarazioni – Criterio applicativo
(art. 192 c.p.p.)
Come chiarito in giurisprudenza, è del tutto lecita la
valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie prove‑
nienti da un chiamante in correità, per cui l’attendibilità del
medesimo, anche se denegata per una parte del suo racconto,
non ne coinvolge necessariamente tutte le altre che reggono
alla veridicità giudiziale del riscontro; per un altro verso, la
credibilità ammessa per una parte dell’accusa, non può signi‑
ficare attendibilità per l’intera narrazione in modo automa‑
tico (va sul punto precisato che la frazionabilità della chia‑
mata in tanto è ammissibile in quanto in quanto non sussista
un’interferenza logica e fattuale tra le parti del narrato diver‑
samente valutate, quando cioè non vi sia un rapporto di
causalità necessaria o un imprescindibile rapporto di antece‑
denza logica tra le predette parti del narrato). Perdipiù in
tema di cd riscontri esterni, che completano il percorso logi‑
co di verifica cui il Giudice è tenuto nella valutazione della
chiamata di correità, non occorre che gli stessi abbiano la
consistenza di una prova autosufficiente di colpevolezza,
poiché se così fosse la chiamata diverrebbe priva di rilevanza,
per cui gli stessi possono essere, in via generale, di qualsiasi
tipo e natura, potendo concretarsi sia in elementi di prova
rappresentativa, sia in elementi di prova logica, potendo,
altresì, consistere, nel pieno rispetto del.principio del libero
convincimento del giudice, anche in altre chiamate in correi‑
tà (cd. dichiarazioni incrociate) sempre che le stesse siano
state valutate nel la loro credibilità intrinseca e siano real‑
mente autonome.
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno
sentenza 2 dicembre 2011, n. 3026
Valutazione della prova: condizioni di minorata difesa della vitti‑
ma – Incidenza sulla attendibilità della stessa
(art. 192 c.p.p.)
Laddove il giudice deve valutare delle specifiche situazio‑
ni che emergono come oggettivamente acquisite – ad es. le
condizioni di minorata difesa della persona offesa – dette
specifiche situazioni devono necessariamente essere valutate
in tutte le sue implicazioni e, quindi, non solo a carico dell’im‑
putato – ponendole, cioè, a base della circostanza aggravan‑
te contestata – ma anche a favore dell’imputato – ossia tenen‑
do ben presenti dette condizioni nella valutazione di atten‑
dibilità complessiva della testimonianza della vittima, una
2 0 1 3
85
volta risolto in senso positivo la questione concernente la
buona fede della teste.
Corte Appello Napoli, Sez. III
sentenza 15 novembre 2012, n. 5096
Pres. Est. Catena
Valutazione della prova: deposizione della persona offesa – Cre‑
dibilità – Vaglio – Criteri
(art. 192 c.p.p.)
Il legislatore ha riconosciuto alle dichiarazioni rese dalla
persona offesa di un reato un ruolo probatorio in nulla dif‑
ferente da quello attribuito alla persona estranea agli interes‑
si dedotti in giudizio, trovando in tal caso applicazione la
norma generale espressa dal comma 1° dell’art. 192 c.p.p.,
che è quella del libero convincimento del giudice. Tuttavia,
considerando che l’alto tasso di attendibilità che il legislato‑
re affida al testimone è connaturato alla presunzione che egli
è assolutamente estraneo agli interessi in gioco nel processo
e che, quindi, normalmente, a meno che non sussista un
movente (paura, compiacenza, ostilità, ecc.) egli in genere
dica la verità, è evidente che dinanzi ad una persona offesa
si impone una maggiore cautela nella valutazione delle rela‑
tive propalazioni, atteso che la stessa, contrariamente al te‑
stimone, è in linea di massima interessata ad un determinato
esito del processo, tanto più quando, come nel caso che ci
occupa, avanzi pretesi risarcitorie con riferimento ai fatti su
cui depone (costituzione di parte civile). Nondimeno è suffi‑
ciente in tale caso, secondo un orientamento consolidato
della giurisprudenza di legittimità, che il giudice verifichi la
credibilità del dichiarante valutando con particolare rigore il
contenuto delle sue dichiarazioni anche in relazione agli ul‑
teriori elementi emergenti dalle risultanze processuali. Va in
particolare precisato che la deposizione della parte lesa, an‑
che se rappresenta l’unica prova del fatto da accertare e
manchino riscontri esterni, ben potrebbe essere posta a base
del convincimento del giudice, non applicandosi le regole di
cui ai commi 3° e 4° del Part 192 c.p.p. (cfr. explurimis Cass.
pen., Sez. V, del 01 giugno 1999, n. 6910; Cass. pen., Sez. III,
03 dicembre 2001, n. 43303).
Tribunale Nola, coll. A)
Pres. Aschettino, Est. Majo
sentenza 18 luglio 2012, n. 1972
LEGGI PENALI SPECIALI
Misure di prevenzione patrimoniale: attribuzione fittizia di cespi‑
ti patrimoniali – Natura del reato – Presupposti oggettivi e sog‑
gettivi – Criteri di accertamento
(art. 12 quinquies d.l. 306/929)
Il reato di cui all’art. 12 quinquies d.l. 306/92 conv. in l.
356/92 si connota come fattispecie a dolo specifico, consi‑
stente nella volontà di eludere gli effetti di una misura di
prevenzione patrimoniale senza che con ciò si presupponga
che la misura di prevenzione sia stata disposta; il reato si
configura come reato istantaneo ad effetti permanenti, nella
impostazione adottata ormai da orientamento consolidato
in giurisprudenza cui questo giudice aderisce, a condotta
libera che si consuma nel momento in cui viene realizzata
l’attribuzione fittizia, rimanendo privo di rilevanza penale il
penale
Gazzetta
86
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
permanere della situazione giuridica susseguente alla consu‑
mazione della condotta delittuosa. È dunque l’utilizzo di
meccanismi interpositori in grado di determinare una diffor‑
mità tra titolarità formale, apparente, e titolarità effettiva
dei beni e, dunque, l’effetto traslativo o il conferimento di
un potere di fatto sul bene, che consente di realizzare quella
formale intestazione elusiva delle disposizioni di legge in
materia di misure di prevenzione o di contrabbando o age‑
volatrice della commissione dei reati indicati dalla citata
disposizione. Pertanto, anche in ragione della epoca di en‑
trata in vigore della normativa introduttiva di tale fattispecie
penale, è necessario accertare la data in cui si realizza il fit‑
tizio conferimento di un potere di disponibilità sul bene ‑si
concretizzi esso nella attribuzione della titolarità del bene,
intesa come situazione giuridica. o nella attribuzione della
disponibilità del bene, quale situazione di fatto giuridica‑
mente rilevante o anche, senza adozione di alcun atto giuri‑
dico idoneo a creare la situazione simulata. attraverso una
gestione quale socio occulto o di fatto delle attività econo‑
miche imprenditoriali formalmente riconducibili ad altro
soggetto.
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno
sentenza 2 dicembre 2011, n. 3026
Sorveglianza speciale: violazione obblighi e prescrizioni – Asso‑
ciarsi abitualmente a persone condanne – Presupposti
(art. 75 c.2 d.lgs. 159/11)
La fattispecie normativa prescrivendo il divieto di asso‑
ciarsi abitualmente con soggetti che hanno riportato condan‑
ne o sono sottoposte a misure di sicurezza, intende inteso
riferirsi ‑‑come ormai pacificamente ritenuto dalla stessa
giurisprudenza della Suprema Corte – ai contatti con pregiu‑
dicati che non si limitino ad un isolato accompagnarsi, che
concernono rapporti con detti individui che, siano ripetuti e
plurimi, pur se discontinui non necessitando, certamente, la
sussistenza di un vincolo stabile cementato da un comune
fine criminoso (in tal senso Cass. pen., Sez. I sentenza
n. 14606 del 24 novembre 1999).
Tribunale Napoli, G.M. Sorrentino
sentenza 24 aprile 2012, n. 5817
Stupefacenti: aggravante della ingente quantità – Criteri di indi‑
viduazione – Quantitativo inferiore a 2.000 volte il valore massi‑
mo in milligrammi – Esclusione della circostanza aggravante
(d.P.R. 309/90 art. 80)
Come’è noto la ratio dell’art. 80 co.2 d.P.R. 309/90 è da
ravvisare nell’incremento del pericolo per la salute pubblica,
e ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
imputazione,“pur non raggiungendo valori massimi, sia tale
da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguar‑
di di un rilevante numero di tossicodipendenti “secondo
l’apprezzamento del giudice di merito. Anche alla stregua
della più recente giurisprudenza “l’aggravante della ingente
quantità, di cui all’art. 80 co. 2 d.P.R. 309/90 non è di norma
ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il
valore massimo, in milligrammi (valore‑soglia), determinan‑
do per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11/4/2006,
ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di
merito, quando tale quantità sia superata.” (cfr. Cass., sez.
un., n. 36258 del 24 maggio 2012)
Ne consegue che nella condotta accertata non sono rile‑
vabili le condizioni perché possa ritenersi configurata in
concreto la circostanza aggravante della ingente quantità,
tenuto conto della percentuale di principio attivo puro pre‑
sente nel quantitativo caduto in sequestro (pari a 7,6%) e del
contenuto di Delta9‑tetraidrocannabinolo (pari a 250,241
grammi) accertato nella sostanza.
Corte Appello Napoli, Sez. I
sentenza 10 gennaio 2013, n. 85
Pres. Marotta, Est. Santaniello
Stupefacenti: attenuante di cui al co. 5 art. 73 d.P.R. 309/90 – Cri‑
teri di individuazione
(art. 73 co. 5 d.P.R. 309/90)
La S.C., in genere ha sempre affermato la riconoscibilità
dell’attenuante in parola quando il fatto ha il carattere della
minima o trascurabile offensivitàdel bene giuridico tutelato.
In particolare secondo una recente pronunzia, che riprende
un criterio ermeneutico consolidato1:” Il giudice è tenuto a
valutare tutti gli elementi della norma, quelli concernenti
l’azione (mezzi, modalità e circostanze) e quelli concernenti
l’oggetto materiale del reato (quantità e qualità dello stupe‑
facente), dovendo in conseguenza negare l’attenuante quan‑
do anche uno solo di tali elementi porti ad escludere che la
lesione del bene giuridico protetto sia di lieve entità “ Cass.,
Sez. IV sent. 38879 del 2005. Nella fattispecie era stata rite‑
nuta correttamente negata l’attenuante in caso di detenzione
e vendita di diverse tipologie di stupefacenti, tali da dimo‑
strare che lo spaccio era diretto ad un cospicuo e variegato
numero di consumatori. Altro principio interpretativo è
quello secondo il quale l’attenuante deve escludersi quando
il quantitativo ceduto non sia modico e le modalità dell’azio‑
ne denotino professionalità, organizzazione di mezzi anche
rudimentale o continuità nella condotta.
Tribunale Napoli, G.u.p. De Gregorio
sentenza 23 novembre 2012, n. 3021
Diritto amministrativo
Il cottimo fiduciario. Principi comunitari e corollari applicativi
nella più recente giurisprudenza
89
Maria d’Elia
Giudizio di ottemperanza e connessa domanda di risarcimento del danno
alla luce dell’Ad. Plen. n. 2 del 15 gennaio 2013
Francesco Foggia
94
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 101
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
amministrativo
A cura di Almerina Bove
Gazzetta
F O R E N S E
●
2 0 1 3
89
● Maria d’Elia
Avvocato - Coordinatrice
dell’Avvocatura della Regione Campania
1. Il cottimo fiduciario
L’articolo 125 del Codice dei Contratti pubblici (d.lgs.
163/2006) disciplina delle procedure di acquisizione in eco‑
nomia, ovvero quei particolari strumenti di scelta del contra‑
ente di natura semplificata, correlati ad importi di modesta
entità, che possono essere effettuate attraverso i modelli
dell’amministrazione diretta e del cottimo fiduciario.
L’amministrazione diretta è caratterizzata, come noto,
dalla mancanza di qualsiasi vincolo contrattuale, in quanto
la stazione appaltante opera direttamente attraverso il proprio
responsabile del procedimento, il quale agisce in nome
dell’amministrazione medesima ma con la propria e persona‑
le responsabilità. Tale modello prevede l’utilizzo di personale
interno all’Ente, di materiali e mezzi, appartenenti all’ammi‑
nistrazione o specificamente noleggiati. La stazione appaltan‑
te, attraverso il proprio responsabile, assume direttamente
tutti i rischi, legati all’esecuzione delle prestazioni dedotte in
contratto, diversamente da quanto avviene nell’appalto, ove i
rischi ricadono sull’impresa appaltatrice1.
Il cottimo fiduciario costituisce, invece, un vero modello
di scelta del contraente, assimilabile alla trattativa privata
ovvero alle procedure negoziate.
La disciplina dettata dal Codice in tema di cottimo fidu‑
ciario può essere così sintetizzata:
1) Limite generale di € 200.000,00;
2) Ogni stazione appaltante deve individuare i lavori ese‑
guibili in economia nell’ambito delle seguenti categorie gene‑
rali:
a) manutenzione o riparazione di opere od impianti, quan‑
do l’esigenza è rapportata ad eventi imprevedibili e non sia
possibile realizzarle con le forme e le procedure ordinarie;
b) manutenzione di opere o di impianti;
c) interventi non programmabili in materia di sicurezza;
d) lavori che non possono essere differiti, dopo l’infrut‑
tuoso esperimento delle procedure di gara;
e) lavori necessari per la compilazione di progetti;
f) completamento di opere o impianti a seguito della riso‑
luzione del contratto o in danno dell’appaltatore inadempien‑
te, quando vi è necessità e urgenza di completare i lavori.
Per il comma 12 dell’art. 125, “l’affidatario di lavori,
servizi, forniture in economia deve essere in possesso dei re‑
quisiti di idoneità morale, capacità tecnico-professionale ed
economico-finanziaria prescritta per prestazioni di pari im‑
porto affidate con le procedure ordinarie di scelta del contra‑
ente. Agli elenchi di operatori economici tenuti dalle stazioni
appaltanti possono essere iscritti i soggetti che ne facciano
richiesta, che siano in possesso dei requisiti di cui al periodo
1Per le tematiche inerenti all’acquisizione in economia e al rapporto con
l’opposto principio dell’esternalizzazione, cfr. Napolitano G., “La pubbli‑
ca amministrazione e le regole di esternalizzazione”, in Dir. econ., 2006,
Dauno F., Trebastoni G. (2006), “Servizi e forniture in economia nel co‑
dice dei contratti”, in www.giustizia-amministrativa.it, sez. Studi e contribu‑
ti; ultima consultazione: 23 ottobre 2010 e Greco M., “Acquisti in econo‑
mia: può mancare anche la determina a contrattare”, 27 novembre 2006, in
www.appaltiecontratti.it.
amministrativo
Sommario: 1. Il cottimo fiduciario; 2. Il ruolo della giurispru‑
denza nell’esplicazione dei principi applicabili al cottimo fi‑
duciario.
Il cottimo fiduciario.
Principi comunitari
e corollari applicativi
nella più recente
giurisprudenza
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precedente. Gli elenchi sono soggetti ad aggiornamento con
cadenza almeno annuale”.
Al fine di evitare usi distorti ed elusivi delle procedure in
esame, il comma 13 vieta l’artificioso frazionamento delle
prestazioni di beni, servizi, lavori 2.
La ratio concreta dell’istituto consiste nell’assicurare pro‑
cedure più snelle e semplificate per acquisire lavori, opere,
servizi o forniture di importo non elevato, nei casi in cui il
ricorso alle ordinarie procedure di gara potrebbe comportare
un rallentamento dell’azione amministrativa, oltre ad un no‑
tevole dispendio di tempi e risorse.
Sulla base di tale procedura, viene stipulato un contratto
tra la stazione appaltante ed un operatore economico qualifi‑
cato, avente ad oggetto i lavori, servizi e forniture, previamen‑
te individuati dall’amministrazione nel proprio provvedimen‑
to generale di disciplina dell’at tività contrat tuale. Il cottimo fiduciario è dunque una procedura negoziata di
acquisto in economia di lavori beni o servizi di entità econo‑
mica non elevata, ammissibile solo nelle ipotesi tassativamen‑
te previste dall’ordinamento e previa individuazione da parte
della stazione appaltante dei lavori beni o servizi acquisibili
in economia.
Giova chiarire immediatamente che in origine, essendo il
ricorso al cottimo caratterizzato dall’affidamento fiduciario
di lavori pubblici, in presenza di condizioni di urgenza o di
estrema urgenza, era ritenuto del tutto normale che si potesse
prescindere da qualsiasi procedimento concorsuale, sia pure
a carattere informale. Progressivamente, però, le regole sono
state enucleate e può quindi convenirsi che il c.d. «cottimo
fiduciario» non possa in alcun modo ricondursi ad una sem‑
plice attività negoziale di diritto privato priva di rilevanza
pubblicistica. Difatti le regole procedurali, anche minime, che
l’amministrazione si dà per concludere il relativo contratto3
implicano il rispetto dei principi generali di imparzialità,
correttezza, buona fede, logicità e coerenza della motivazio‑
ne4, in riferimento ai quali la giurisprudenza ha individuato
specifici corollari applicativi. Di seguito si riporta una breve
rassegna dei principali precipitati che la giurisprudenza am‑
ministrativa ha individuato, in alcuni arresti5 in ossequio ad
un approccio formalistico, non sufficientemente attento alle
esigenze di celerità e snellezza dell’azione amministrativa.
2. Il ruolo della giurisprudenza nell’esplicazione dei principi ap‑
plicabili al cottimo fiduciario
Ai sensi del comma 14°, dell’articolo 125 del Codice, “i
procedimenti di acquisizione di prestazioni in economia sono
disciplinati, nel rispetto del presente articolo, nonché dei
principi in tema di procedure di affidamento e di esecuzione
del contratto desumibili dal presente codice, dal regolamen‑
to”. Dunque, il cottimo fiduciario, quale procedura negoziata
in economia, risulta disciplinato dalle disposizioni normative
contenute nell’articolo 125 medesimo e dai principi regolanti
2 Al riguardo cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1681.
3 Contratto che comunque deve riportare i medesimi contenuti della lettera di
invito.
4 Consiglio di Stato sez. VI, 6 luglio 2006, n. 4295; Consiglio di Stato sez. IV, 19
ottobre 2007, n. 5473.
5 elativi, in particolare, all’obbligo di motivazione del ricorso al cottimo.
Gazzetta
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l’affidamento e l’esecuzione del contratto6, ovvero:
- principio di economicità, principio di efficacia, principio
di tempestività, principio di correttezza, principio di libera
concorrenza, principio di parità di trattamento, principio di
non discriminazione, principio di trasparenza, principio di
proporzionalità, principio di pubblicità.
La genericità del comma 14 pone peraltro problemi appli‑
cativi in relazione ad ogni disposizione normativa del Codice
in sede di cottimo fiduciario, dovendosi di volta in volta pro‑
cedere all’analisi delle singole norme per verificarne la consa‑
crazione applicativa dei principi sopra citati.
Occorre altresì osservare che il titolo II°, della Parte II^,
dedicato ai contratti sotto soglia comunitaria, comprende
anche l’articolo 1257, cioè gli “affidamenti in economia di
lavori, servizi, forniture sotto soglia”. Quindi, si potrebbe
pensare che anche gli affidamenti in economia, compreso il
cottimo fiduciario, rientrino nella disciplina del titolo II°.
Tuttavia, una tale interpretazione non sembra corretta, in
quanto trascura il già illustrato comma 14 dell’articolo 125,
che appare introdurre una disciplina speciale. In buona so‑
stanza, i rapporti fra le due disposizioni normative in questio‑
ne (comma 1 dell’articolo 121 e comma 14 dell’articolo 125)
sembra che possano essere letti nel senso che le acquisizioni
in economia, fra cui il cottimo fiduciario, costituiscono fatti‑
specie speciale della generale categoria degli affidamenti
sotto soglia, per cui sono assoggettati alla speciale e peculia‑
re disciplina desumibile dai principi sopra illustrati..
Come è agevole intuire, il compito di individuare la disci‑
plina applicabile al cottimo fiduciario è rimesso all’opera
della giurisprudenza, che si è soffermata in particolare su
alcuni principi.
Deve premettersi che nella procedura in economia non può
esigersi un integrale rispetto delle singole previsioni normati‑
ve dettate per le gare ordinarie. Il cottimo fiduciario di cui
all’art. 125 del d.lgs. n. 163 del 2006, è “procedura negozia‑
ta in cui le acquisizioni avvengono mediante affidamenti a
terzi” (comma 4) e la cui disciplina normativa è data dal
“rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di
trattamento, previa consultazione di almeno cinque opera‑
tori economici” (comma 11). Si è quindi in presenza di una
procedura negoziata la quale, pur procedimentalizzata, non
richiede il necessario rispetto dello specifico assetto discipli‑
nare predisposto dal Codice dei contratti pubblici per le
procedure aperte e ristrette, com’è peraltro reso evidente dal
richiamo al rispetto dei “principi”, cioè dei contenuti valori‑
stici sostanziali della trasparenza, parità di trattamento ecc.
senza tuttavia il necessario ossequio di tutti i passaggi proce‑
durali in cui tali principi si inverano nelle procedure concor‑
suali ordinarie8.
Sulla base di tale impostazione generale, si è ritenuto che
non trovino applicazione, in sede di cottimo fiduciario né
l’articolo 83, comma 4, a norma del quale il bando di gara e
la lettera di invito, per ciascun criterio di valutazione prescel‑
to, devono prestabilire, ove necessario, i sub-criteri e i sub-
6 Articolo 2 del Codice.
7Precisamente: dall’articolo 121 all’articolo 125. 3.
8In tal senso, Tar Firenze, sez. I, 11 Settembre 2008, n. 1989; Tar Toscana, sez.
I, pronuncia del 22 dicembre 2009, n. 3988.
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pesi o i sub-punteggi nè l’articolo 84, comma 10, il quale
stabilisce che la nomina della commissione deve essere dispo‑
sta dopo la scadenza del termine previsto per la presentazione
delle offerte9.
In tema di offerte anomale, la giurisprudenza ha statuito
che “l’articolo 86, comma 5°, del Codice dei contratti pub‑
blici, in via ordinaria, non si applica alle procedure in econo‑
mia di cui all’articolo 125 del Codice stesso. Ciò in conside‑
razione delle esigenze proprie di semplificazione e di celerità
che sono logicamente connesse con procedure di lieve rilievo
economico”10.
Il principio di rotazione
In merito al principio di rotazione dei soggetti da invitare
nelle procedure negoziate, giova richiamare la giurisprudenza
del Consiglio di Stato, per la quale tale principio è funziona‑
le ad assicurare un certo avvicendamento delle imprese affi‑
datarie dei servizi con il sistema selettivo del cottimo fiducia‑
rio, ma - in quanto tale – “lo stesso non ha, per le stazioni
appaltanti, una valenza precettiva assoluta, con la conse‑
guenza che la sua episodica mancata applicazione non vale ex
se ad inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta che
questa si sia conclusa con l’aggiudicazione in favore di un
soggetto già in precedenza invitato a simili selezioni (ovvero
già affidatario del servizio)” 11.
Il principio di pubblicità
Si discute se il principio in questione imponga la pubblici‑
tà delle sedute di gara di cottimo fiduciario, al pari delle altre
procedure di scelta del contraente.
Secondo un primo orientamento, le sedute di cottimo
possono svolgersi anche in modo riservato: si è, ad esempio,
affermato che “Il principio di pubblicità delle gare non si
estende alla procedura avente ad oggetto l’acquisizione di
forniture in economia ed in cottimo fiduciario, non essendo
l’osservanza di tale principio previsto per essa dall’articolo
125, del codice dei contratti pubblici”12 e che “versandosi in
tema di cottimo fiduciario, l’invocato principio di pubblicità
delle gare non si estende alla procedura avente ad oggetto
l’acquisizione di forniture in economia, non essendo l’osser‑
vanza di tale principio previsto dall’art. 125 del d.lgs. 12
aprile 2006 n. 163”13.
Ad avviso di tale orientamento, assume importanza il
fatto che l’articolo 125, che disciplina le procedure in econo‑
mia ed il cottimo fiduciario, non contempla il principio di
pubblicità. In tal modo, peraltro, si sottovaluta completamen‑
te il rinvio che lo stesso comma 14 dell’articolo 125 compie ai
“principi desumibili dal codice e dal regolamento”. Una let‑
tura indubbiamente restrittiva, che appare preoccupata solo
di valorizzare al massimo le caratteristiche di semplificazione
del cottimo, dimenticando, in modo non convincente, il rinvio
ai principi.
Viceversa, secondo altre pronunce, proprio l’assetto dei
principi generali, cui anche le procedure in economia debbo‑
no ispirarsi, implica la doverosa pubblicità delle sedute di
9 Così anche Tar Veneto, sez. I, 27 gennaio 2010, n. 168.
10Tar Lazio, sez. I, 6 novembre 2009, n. 10880.
11 Consiglio di Stato, sez. VI, 28 dicembre 2011, n. 6906.
12Tar Piemonte, sez. II, 3 settembre 2009, n. 2243.
13Tar Friuli Venezia Giulia, n. 716/2010.
2 0 1 3
91
gara: il riferimento tocca la fase di apertura dei plichi, conte‑
nenti la documentazione amministrativa e la verifica della
medesima, nonché quella di apertura delle buste con le offer‑
te economiche, che devono sempre avvenire in seduta pubbli‑
ca così da assicurare a tutti i partecipanti la possibilità di
assistere alle relative operazioni, a tutela del corretto svolgi‑
mento della procedura14. L’obbligo di pubblicità delle sedute
è stata statuita anche dal Consiglio di Stato15, il quale ha rile‑
vato come “le procedure per l’aggiudicazione di contratti con
la p.a., compresa la trattativa privata, debbono rispettare i
principi di trasparenza e di adeguata pubblicità”.
L’adesione al secondo orientamento si rinviene, in parti‑
colare, motivata sulla base del seguente percorso argomenta‑
tivo16:
a. il cottimo fiduciario, ai sensi della richiamata normati‑
va, ha natura di procedura negoziata;
b. il d.P.R. 384/2001 (regolamento di semplificazione dei
procedimenti di spese in economia), cui aveva fatto riferimen‑
to la difesa dell’impresa del ricorrente, nulla dispone in ordi‑
ne alle modalità di svolgimento delle sedute di gara, per cui
non è idoneo a sorreggere un’interpretazione restrittiva della
portata applicativa del principio di pubblicità;
c. diversamente opinando, peraltro, il regolamento sareb‑
be da disapplicare, in quanto contrastante con un principio
operante a livello di norma primaria (art. 2, codice);
d. contrariamente a quanto sostenuto dalla stazione ap‑
paltante, nessun rilievo può essere attribuito al fatto che
l’allegato IX-A al Codice dei contratti pubblici individui le
persone ammesse ad assistere all’apertura delle offerte solo
con riguardo alle procedure aperte.
Se ne deduce che il principio di pubblicità esplica una va‑
lenza generale ed opera, anche in quanto diretto a garantire la
trasparenza, indipendentemente dal fatto che il bando lo pre‑
veda, in tutte le ipotesi in cui all’aggiudicazione si pervenga
attraverso un’attività di tipo procedimentale, ancorché sempli‑
ficata e, quindi, anche in relazione ai cottimi fiduciari.
In favore di tale condivisibile indirizzo milita, peraltro,
oltre alle ragioni ora illustrate, anche un’ulteriore considera‑
zione, concernente il carattere generale del principio di pub‑
blicità delle sedute di gara, applicabile non a caso anche nei
settori speciali (gas, energia termica, elettricità, acqua, tra‑
sporti, servizi postali, sfruttamento di area geografica), la cu
disciplina è contrassegnata da rilevanti peculiarità.
Recentemente, a seguito del decreto legge n.52 del 2012,
convertito in legge 6 luglio 2012, n. 94, l’art. 120 del d.p.r.
207/2010 chiarisce sul tema che: “La commissione, anche per
le gare in corso, ove i plichi contenenti le offerte tecniche non
siano stati ancora aperti alla data del 9 maggio 2012, apre in
seduta pubblica i plichi contenenti le offerte tecniche al fine
di procedere alla verifica della presenza dei documenti pro‑
dotti. In una o più sedute riservate, la commissione valuta le
offerte tecniche e procede alla assegnazione dei relativi pun‑
teggi applicando, i criteri e le formule indicati nel bando o
nella lettera di invito secondo quanto previsto nell’allegato
G. Successivamente, in seduta pubblica, la commissione da’
14Tar Veneto, sez. I, 10 dicembre 2007, n. 3926.
15 Consiglio di Stato sez. V, 10 novembre 2010, n. 8006.
16 Cfr. Tar Sardegna, sez. I, 28 gennaio 2011, n. 85.
amministrativo
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lettura dei punteggi attribuiti alle singole offerte tecniche,
procede alla apertura delle buste contenenti le offerte econo‑
miche e, data lettura dei ribassi espressi in lettere e delle ri‑
duzioni di ciascuna di esse, procede secondo quanto previsto
dall’articolo 121“.
Deve segnalarsi, infine, quanto statuito recentemente dal
Consiglio di Stato per cui “i principi di pubblicità e traspa‑
renza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in
materia di appalti pubblici comportano che, qualora all’ag‑
giudicazione debba procedersi col criterio dell’offerta econo‑
micamente più vantaggiosa, l’apertura delle buste contenen‑
ti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti va‑
dano effettuate in seduta pubblica anche laddove si tratti di
procedure negoziate, con o senza previa predisposizione di
bando di gara, e di affidamenti in economia nella forma del
cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai
settori speciali di rilevanza comunitaria” 17.
Gli obblighi informativi
Gli obblighi informativi sono previsti dall’articolo 79 del
Codice dei contratti pubblici (D.Lgs n. 163/2006). Tali obbli‑
ghi e la clausola di standstill, prevista dall’articolo 11 comma
10 del Codice, sono considerati dalla giurisprudenza applica‑
bili anche al cottimo fiduciario.
In tal senso, il Tar Toscana18ha precisato che la stazione
appaltante, ai sensi del riformulato articolo 79, comma 5 del
Codice, deve comunicare, fra l’altro, l’aggiudicazione defini‑
tiva tempestivamente e, comunque, entro un termine non su‑
periore a cinque giorni, ai soggetti partecipanti alla gara19.
Ad avviso dei giudici amministrativi toscani, le due illu‑
strate disposizioni normative del Codice trovano applicazione,
in quanto costituiscono applicazione di principi generali e, in
particolare:
- l’articolo 79, comma 5 (obblighi informativi) rappresenta
la consacrazione dei principi di trasparenza e pubblicità;
- ’articolo 11, comma 10 (termine dilatorio) concretizza i
principi di efficacia e tempestività del diritto di difesa nel
settore dei contratti pubblici.
Concorda il Tar Lazio, che in un recente arresto giurispru‑
denziale conferma la sottoposizione del cottimo fiduciario agli
obblighi di comunicazione, di cui all’articolo 79, comma 5del
Codice, sulla base del richiamo al diritto di difesa di cui
all’art. 24 Cost. 20.
L’obbligo di motivazione
Il ricorso al cottimo, in quanto costituisce esercizio di una
facoltà discrezionale, deve essere motivato.
Nella Deliberazione dell’Autorità di Vigilanza dei Con‑
tratti pubblici n. 4 del 2009 si precisa, in particolare, che “il
ricorso alla procedura negoziata del cottimo fiduciario deve
essere opportunamente limitato e motivato; la previsione,
pertanto, di lavori da affidarsi in economia nell’ambito di un
17 Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 31 luglio 201, n. 31.
18Tar Toscana, sez. I, sentenza del 10 novembre 2010, n. 6570.
19Precisamente: all’aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a
tutti i candidati che hanno presentato un’offerta ammessa in gara, a coloro la
cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione
avverso l’esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni,
nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se dette
impugnazioni non siano state ancora respinte con pronuncia giurisdizionale
definitiva.
20Tar Lazio, sez. III, 11 aprile 2011, n. 3169.
Gazzetta
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appalto, ove non adeguatamente motivata, costituisce un’in‑
giustificata sottrazione di questi alle ordinarie procedure
concorsuali”.
Al riguardo il Consiglio di Stato precisa che in caso di
cottimo fiduciario nei confronti dei funzionari si applicano
“le regole generali di motivazione degli atti amministrativi”
in considerazione del fatto che “il cottimo fiduciario non può
ricondursi ad una semplice attività negoziale di diritto priva‑
to priva di rilevanza pubblicistica”. Si conclude, quindi, che
“le regole procedurali anche minime che l’amministrazione si
dia per concludere il cottimo fiduciario implicano il rispetto
dei principi generali di imparzialità, correttezza, buona fede,
logicità e coerenza della motivazione”21.
Pur prendendo atto dell’indirizzo giurisprudenziale sopra
riportato, non ci si può esimere dall’elaborazione di taluni
spunti di riflessione.
In primo luogo deve premettersi che il comma 6 dell’art
125 predefinisce le categorie generali nell’ambito delle quali
l’amministrazione individua i lavori eseguibili in economia 22 ,
ovvero quelli che ad un tempo rientrano anche nella soglia
richiesta dal comma 523 e, in ordine all’acquisizione di beni e
servizi in economia l’art 125, comma 10 condiziona l’esperi‑
bilità della procedura a circostanze eccezionali e pertanto
tassative24.
La disciplina ex art. 125 si presenta, dunque, attenta
nella definizione degli stretti parametri di azionabilità del
cottimo, dettando non soltanto le soglie massime d’importo,
bensì anche le situazioni oggettive nelle quali il cottimo può
essere adottato.
Ciò posto, il legislatore, ricorrendo le descritte condizioni,
21 Consiglio di Stato, sez. VI, 6 luglio 2006, n. 4295.
22La norma dispone che: “I lavori eseguibili in economia sono individuati da
ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie specifiche competenze
e nell’ambito delle seguenti categorie generali:
a) manutenzione o riparazione di opere od impianti quando l’esigenza è rap‑
portata ad eventi imprevedibili e non sia possibile realizzarle con le forme e le
procedure previste agli articoli 55, 121, 122;
b) manutenzione di opere o di impianti [di importo non superiore a 100.000
euro] (1);
c) interventi non programmabili in materia di sicurezza;
d) lavori che non possono essere differiti, dopo l’infruttuoso esperimento delle
procedure di gara;
e) lavori necessari per la compilazione di progetti;
f) completamento di opere o impianti a seguito della risoluzione del contratto
o in danno dell’appaltatore inadempiente, quando vi è necessità e urgenza di
completare i lavori”.
23 “I lavori in economia sono ammessi per importi non superiori a 200.000. I
lavori assunti in amministrazione diretta non possono comportare una spesa
complessiva superiore a 50.000 euro”.
24 Comma 10: “L’acquisizione in economia di beni e servizi è ammessa in rela‑
zione all’oggetto e ai limiti di importo delle singole voci di spesa, preventi‑
vamente individuate con provvedimento di ciascuna stazione appaltante, con
riguardo alle proprie specifiche esigenze.
Il ricorso all’acquisizione in economia è altresì consentito nelle seguenti
ipotesi:
a) risoluzione di un precedente rapporto contrattuale, o in danno del con‑
traente inadempiente, quando ciò sia ritenuto necessario o conveniente per
conseguire la prestazione nel termine previsto dal contratto;
b) necessità di completare le prestazioni di un contratto in corso, ivi non
previste, se non sia possibile imporne l’esecuzione nell’ambito del contratto
medesimo;
c) prestazioni periodiche di servizi, forniture, a seguito della scadenza dei
relativi contratti, nelle more dello svolgimento delle ordinarie procedure di
scelta del contraente, nella misura strettamente necessaria;
d) urgenza, determinata da eventi oggettivamente imprevedibili, al fine di scon‑
giurare situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero per l’igiene e
salute pubblica, ovvero per il patrimonio storico, artistico, culturale”.
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attribuisce la facoltà alla PA di procedere tramite acquisizio‑
ni in economia 25 e la giurisprudenza che si è espressa in ordi‑
ne all’obbligo di motivazione, movendosi sulla base principio
di concorrenza e di quello di trasparenza, espressamente ri‑
chiamato dal comma 11, ha ritenuto che occorra una puntua‑
le giustificazione del ricorso al cottimo nella delibera a con‑
trarre26 .
La facoltà rimessa alla PA fa ritenere, in altri termini,
necessaria una motivazione in ordine alla scelta di procedere
all’acquisizione in economia di beni, servizi e forniture.
Sul punto può, però, rilevarsi come l’obbligo motivazio‑
nale sia particolarmente sentito laddove vi sia l’esigenza che
la PA esplichi la ratio di una propria scelta o attività. Laddo‑
ve, invece, la pubblica amministrazione non abbia un margi‑
ne d’autonomia rilevante, l’obbligo motivazionale, lungi dal
garantire la trasparenza dell’agere amministrativo che è in
sostanza predefinito ed assorbito dalle previsioni normative,
rischia di tradursi in un aggravamento irragionevole e spro‑
porzionato dell’azione amministrativa.
L’obbligo motivazionale, difatti, non può ritenersi esteso
automaticamente ad ogni atto della PA, e in ogni caso non
può ritenersi sempre prescritto con la stessa ampiezza. Sulla
giurisprudenza incombe il delicato compito di individuare i
casi in cui l’obbligo di motivazione assicuri l’esigenza ad esso
sottesa, nonché i casi in cui, essendo assente tale necessità,
esso possa ritenersi assolto a prescindere da specifiche e cir‑
costanziate allegazioni, pena un irragionevole e sproporzio‑
nale aggravamento dell’azione amministrativa. Il necessario
contemperamento che deve operarsi laddove vi sia una mol‑
teplicità di principi applicabili richiede un continuo ed atten‑
to bilanciamento degli stessi nel caso concreto, alla luce del
principio di proporzionalità.
L’ampiezza dell’obbligo di motivazione quindi, invero,
assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa, a pena
peraltro di appesantire quest’ultima laddove sia estesa irra‑
gionevolmente.
Nell’ipotesi del cottimo fiduciario, i requisiti in termini di
soglia massima consentita e di circostanze obiettive richieste
non sembrano lasciare spazio ad un’azione amministrativa
tanto ampia da richiedere un ulteriore e specifico obbligo moti‑
vazionale, con la conseguenza che, risultando il principio della
concorrenza già assicurato attraverso la previsione di requisiti
stringenti, l’Amministrazione non dovrebbe ritenersi tenuta ad
esplicitare la presenza di ulteriori motivi di utilità o convenien‑
za del ricorso a detta procedura, né a fortiori la sussistenza di
specifici elementi ostativi al ricorso alla gara aperta.
25 Comma 1: “Le acquisizioni in economia di beni, servizi, lavori, possono essere
effettuate […]”.
26 Cfr., di recente, Tar Campania, Napoli, sez.I, ord. n. 1667 del 5.12.2012
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●
Giudizio di ottemperanza
e connessa domanda
di risarcimento del danno
alla luce dell’Ad. Plen.
n. 2 del 15 gennaio 2013
● Francesco Foggia
Avvocato del foro di Napoli
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Gazzetta
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Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2
“Il giudice dell’ottemperanza è il giudice naturale della
conformazione dell’attività amministrativa successiva al
giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discen‑
dono o che in esso trovano il proprio presupposto”.
“Il giudizio di ottemperanza presenta un contenuto com‑
posito, entro il quale convergono azioni diverse, talune ri‑
conducibili alla ottemperanza come tradizionalmente confi‑
gurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna
pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione;
altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio
ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale,
trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente,
e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di
giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non
ha copertura costituzionale)”
“La disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la
medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle senten‑
ze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta
profili affatto diversi, non solo quanto al «presupposto» (cioè
in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice
disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto
stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:
a) l’«attuazione» delle sentenze o altri provvedimenti ad
esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice
diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte
dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez.
VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o,
più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal
giudice amministrativo «per i quali sia previsto il rimedio
dell’ottemperanza» (art. 112, comma 2). E già in questa ipo‑
tesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impe‑
disce – come è noto - di ricondurre la natura dell’azione a
quella di una mera azione di esecuzione;
b) la condanna «a pagamento di somme a titolo di riva‑
lutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato
della sentenza» art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azio‑
ne è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza,
poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’ammi‑
nistrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie
di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronun‑
ciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato);
c) il «risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o
comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale
o parziale, del giudicato» (art. 112, comma 3). In questo caso
l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non
è rivolta all’ «attuazione» di una precedente sentenza o prov‑
vedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presup‑
posto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperi‑
bile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata,
e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti
ragioni di economia processuale e quindi di effettività della
tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio
grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza;
d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in
violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò
sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal
provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza
passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei dan‑
ni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato
g e n n a i o • f e b b r a i o
F O R E N S E
(art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che pos‑
sono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per
avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento
nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimen‑
to, una volta verificatone l’effetto causativo di danno.
e) a tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma
5, proposto al fine di «ottenere chiarimenti in ordine alle
modalità dell’ottemperanza»: anche questo non presenta ca‑
ratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanzia‑
le, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzi‑
tutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale
- lungi dall’affermare che è l’ «azione di ottemperanza» ad
essere utilizzabile in questi casi - afferma che è «il ricorso»
introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto proces‑
suale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro
dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperan‑
za, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel
giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equipa‑
rabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla
parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Ammini‑
strazione soccombente nel precedente giudizio)”.
“Qualora in sede di esecuzione sia stato emesso un ulteriore
provvedimento sfavorevole per chi sia vincitore in un preceden‑
te giudizio di annullamento, l’interessato può contestare l’atto
sopravvenuto con un unico ricorso, proposto entro il termine di
decadenza previsto dall’art. 41 del codice del processo ammini‑
strativo, e può formulare sia censure di legittimità che censure
che ne lamentano la nullità per elusione del giudicato, spettando
al giudice amministrativo la qualificazione dell’attività ammini‑
strativa in rapporto al precedente giudicato”.
***
Il commento
Sommario: 1. Funzione del giudizio di ottemperanza alla
luce della recente giurisprudenza amministrativa; 2. La pro‑
ponibilità della domanda risarcitoria nel giudizio di ottem‑
peranza nella giurisprudenza precodicistica; 3. Il cumulo di
domande nel nuovo codice di procedura amministrativa; 4.
Il danno risarcibile in sede di ottemperanza; 5. Proponibilità
della domanda risarcitoria innanzi al Consiglio di Stato, in
funzione di giudice dell’ottemperanza.
1. Funzione del giudizio di ottemperanza alla luce della recente
giurisprudenza amministrativa
L’attenzione dedicata al giudizio di ottemperanza dalla più
recente giurisprudenza amministrativa dimostra l’interesse
per tale tipologia di giudizio, il quale, a ben vedere, rappre‑
senta proprio il luogo finalizzato a dare effettività ad una
precedente pronuncia e attribuire concretezza a quella giusti‑
zia che, con la sua pronuncia, il giudice ha tentato di portare
nel rapporto tra privato e amministrazione. La pronuncia
dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013 riprende
tale visione del giudizio di ottemperanza, il quale non può
essere ridotto ad uno strumento di mera esecuzione di una
decisione già resa da un giudice, ma costituisce forse il luogo
privilegiato per dare attuazione al principio sancito all’art.
100 della Carta costituzionale, che vede nel giudice ammini‑
strativo l’organo deputato a tutelare la giustizia nell’ammini‑
strazione, nonché all’art. 1 del Codice del processo ammini‑
2 0 1 3
95
strativo che individua il compito del giudice amministrativo
in quello di assicurare una tutela piena ed effettiva secondo
i principi della Costituzione e del diritto europeo: proprio in
questo senso, il recente consesso della Plenaria ha definito il
giudizio di ottemperanza in base alla molteplicità delle istan‑
ze che in esso il privato può farvi confluire, definendolo come
un giudizio composito, in cui possono essere riversate non
solo esigenze marcatamente esecutive del dictum giudiziale,
ma anche domande di condanna e domande di accertamento
della nullità dei provvedimenti emessi dalla p.a. in elusione
del giudicato (art. 114 co. 4 c.p.a.) ovvero circa le modalità di
corretta esecuzione dello stesso (art. 112 co. 5 c.p.a.).
La polisemicità, in questo senso propria del giudizio di
ottemperanza (così come definita dalla sentenza in commen‑
to), trova dunque organicità alla luce del suo presupposto, che
è la sentenza passata in giudicato, nonché alla luce del suo
fine, che è quello di dare effettività al giudicato, riportando
l’azione amministrativa sui binari della legalità, in funzione
dell’interesse collettivo (ovvero, chiaramente, del diritto del
singolo, nel caso in cui il giudicato abbia ad oggetto diritti
soggettivi): riprendendo l’espressione utilizzata, quasi a chio‑
sa, dall’Adunanza Plenaria, il giudice dell’ottemperanza è
dunque il giudice naturale della conformazione dell’attività
amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni
che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il
proprio presupposto. Non può non vedersi, allora, tratteggia‑
to con evidenza proprio in tale forma di giudizio, la peculia‑
rità del giudizio amministrativo, da molti intesa come rivolto
al futuro, cioè come diretta a provocare la continuazione
dell’azione amministrativa alla luce dei principi di giustizia
espressi nel giudicato, piuttosto che finalizzata a giudicare su
una situazione già esaurita.
Concentrare l’attenzione sul tipo di danno risarcibile nel
giudizio di ottemperanza può avere la sua importanza, allora,
anche al fine di saggiare i confini di tale giudizio quanto alla
possibilità di contenere domande ultronee rispetto a quella clas‑
sica di esecuzione di una sentenza passata in cosa giudicata.
2. La proponibilità della domanda risarcitoria nel giudizio di ot‑
temperanza nella giurisprudenza precodicistica
Una breve premessa storica può costituire, al fine del
nostro esame, un valido ausilio a verificare la genesi dell’at‑
tuale conformazione del giudizio di ottemperanza e della sua
attuale duttilità.
Come noto, la possibilità di disporre il risarcimento del
danno ingiusto nell’ambito del processo amministrativo, è
un’introduzione pretoria che affonda le sue radici, nella me‑
morabile sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 500
del 1999, la quale decretò la risarcibilità del danno derivante
dalla lesione degli interessi legittimi, senza la necessità della
cd. pregiudiziale amministrativa; tale espansione della sfera
cognitoria del giudice amministrativo ricevette consacrazione
legislativa di lì a poco, con l’art. 7 della Legge n. 205/2000,
norma processuale che attribuiva direttamente al giudice
amministrativo la tutela risarcitoria per i danni prodotti al
privato dalla p.a., non solo nelle materie di giurisdizione
esclusiva, ma anche negli ordinari giudizi di legittimità1.
1
Sul punto si rinvia a Lieto G. M., La giurisdizione in tema di responsabilità
amministrativo
Gazzetta
96
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Tale acquisizione da parte del giudice amministrativo ha
dovuto confrontarsi ed armonizzarsi, in termini di domanda
accessoria, con i riti previsti dalla procedura amministrativa,
determinando, talvolta, difficili convivenze: una delle inter‑
ferenze di cui si è fatto menzione, si è avuta proprio con il
giudizio di ottemperanza 2. In questo senso, dunque, si poneva
il problema dell’ammissibilità dell’inserimento della domanda
tesa al risarcimento dei danni cagionati dalla pubblica ammi‑
nistrazione, specie nel porre in essere atti in elusione o con‑
trari al giudicato, all’interno del rito per l’esecuzione al giu‑
dicato stesso.
Dall’analisi delle pronunce emesse dai tribunali ammini‑
strativi, si possono individuare due orientamenti: uno, mag‑
gioritario, in base al quale si riteneva inammissibile, in sede
di ottemperanza, la proposizione della domanda risarcitoria,
fondato sulla convinzione che in sede di esecuzione del giudi‑
cato non possono essere proposte domande che non siano
state già proposte e decise dalla sentenza da eseguire, in quan‑
to solo il decisum è oggetto di esecuzione3; l’altro, minoritario,
che ammetteva la proposizione, in sede di ottemperanza,
della domanda risarcitoria dei danni discendenti dall’ illegit‑
timo esercizio della funzione pubblica, a condizione, inter
alios, che venisse introdotta davanti al Tar, al fine di evitare
la violazione del principio del doppio grado di giudizio4.
A ben vedere la ragione di tale disparità di opinioni può
rinvenirsi nella diversa concezione dei poteri che si riconosce‑
vano al giudice dell’ottemperanza e all’idea stessa di tale
giudizio: vale a dire in merito all’ampiezza dei poteri cognito‑
ri riconosciuti al giudice dell’ottemperanza. Non sono man‑
cati, infatti, specie nel passato, orientamenti soprattutto
giurisprudenziali che hanno inteso la natura del giudizio di
ottemperanza come un processo meramente di esecuzione5: in
questo senso è chiaro che il thema decidendum su cui il giu‑
dice è chiamato a pronunciarsi non potrà essere più ampio
delle statuizioni adottate dal giudicante nella sentenza di cui
si domanda l’esecuzione, senza che possa residuare spazio
alcuno per l’analisi di altre questioni, come appunto quelle
sottese ad una richiesta risarcitoria. Viceversa, allorché si
intendeva la natura del giudizio di ottemperanza come mista
di esecuzione e cognizione6, non vi erano difficoltà ad acco‑
gliere nel giudizio domande risarcitorie, benché queste fosse‑
ro intimamente connessa a quella più propriamente esecutiva:
non sfuggiva, infatti, che il giudice che indaghi sul comporta‑
mento tenuto dalla p.a. in relazione alla fase esecutiva della
aquiliana della P. A. per lesione di interessi legittimi e la c. d. “pregiudiziale
amministrativa”. Considerazioni, in Dir. & Giust., 2002, XI, pag. 202.
2Sul punto, Virga G., Sull’ammissibilità o meno dell’azione di risarcimento dei
danni proposta con ricorso per ottemperanza, in www. lexitalia.it, 2006, n.ri
7, 8.
3 Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 aprile 2006, n. 2374; Sez. IV, 21 ottobre 2004, n.
6914; Sez. IV, 1 febbraio 2002, n. 396
4 Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2006, n. 861; Sez. VI, 8 marzo 2004, n.
1080
5 Cfr. tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. VI, 18 giugno 2002, n.
3332; Sez. VI, 14 novembre 2003 n. 7292
6 Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 agosto 2009, n. 5013, nella quale si attribuisce al
giudizio di ottemperanza “natura mista, di esecuzione e di cognizione”. In
dottrina si richiama sul punto l’opinione di Caianiello V., Diritto processua‑
le amministrativo, Torino 2003, 852, il quale attribuisce al giudizio di ottem‑
peranza funzione “necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cogni‑
zione”; conforme Ferrara L., Dal giudizio di ottemperanza al processo di
esecuzione, Milano 2003, 76 ss..
Gazzetta
F O R E N S E
decisione, al fine di verificare se la stessa abbia posto in esse‑
re atti in contrasto con il giudicato, esercita chiari poteri co‑
gnitori, che possono finanche sfociare in condanne al risarci‑
mento del danno, compatibili con la pronuncia inerente pro‑
priamente all’ottemperanza.
Altra ragione che indubbiamente frenava l’ammissibilità
del cumulo della domanda risarcitoria all’interno del proces‑
so di ottemperanza era, senz’altro, da individuare nella nor‑
mativa all’epoca vigente. Il giudizio di ottemperanza era stato
storicamente inteso dal legislatore come un processo che mi‑
rava unicamente all’esecuzione delle sentenza pronunciate dai
Tribunali civili (prima) e da quelli amministrativi (successiva‑
mente), senza alcuna specificazione circa l’ipotesi che nello
stesso giudizio potessero trovare ingresso ulteriori e diverse
domande7, se non quella cautelare.
Quanto al tipo di danno ingiusto, oggetto della connessa
domanda risarcitoria, si riteneva che esso potesse riguardare
non tutti i comportamenti tenuti dalla p.a. forieri di danno
per il privato, bensì unicamente quelli successivi alla forma‑
zione del giudicato, derivanti da un’attività della p.a. esatta‑
mente connessa al ritardo o all’omissione o all’inesatta esecu‑
zione della sentenza da eseguire8.
A ben vedere, dunque, il rapporto tra giudizio di ottem‑
peranza e domanda risarcitoria era abbastanza tormentato e
affidato alle concezioni personali dei giudici investiti della
cognizione della domanda di ottemperanza. Non può non
riconoscersi la chiarezza che, almeno sul punto, ha portato il
nuovo codice del processo amministrativo9.
3. Il cumulo di domande nel nuovo codice di procedura ammini‑
strativa
Il D.Lgs. n. 104/2011, in omaggio ai principi sul giusto
processo di cui all’art. 111 Costituzione, nonché, in partico‑
lare, al principio di concentrazione e di economia processua‑
le, ha previsto la possibilità del cumulo tra diverse domande,
proposte con unico ricorso, benché assoggettate a riti diversi.
L’art. 32 c.p.a. dispone, infatti, l’ammissibilità del cumulo di
domande connesse, proposte in via principale o in via inci‑
dentale, prevedendo che nel caso in cui le diverse domande
debbano trattarsi secondo riti diversi, si faccia applicazione
per tutte del rito ordinario, salvo diverse specifiche disposi‑
zioni10, e salvo che la materia oggetto del ricorso non ricada
tra quelle che necessitano di trattazione secondo le disposi‑
zioni del rito abbreviato, che prevalgono sugli altri riti11.
La possibilità del cumulo di domande, purché ovviamen‑
te connesse, ha reso oggi certamente ammissibile la proposi‑
7 Cfr. artt. 90 e 91 R. D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 27 r.d. 26 giugno 1924 n.
1054, art. 21 c. 14 e 15, Legge 6 dicembre 1971, n. 1034.
8In tal senso, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 4 marzo 2008, n. 849; 21 giugno 2006, n.
3690.
9Nello stesso senso anche Chieppa R., Il Codice del processo amministrativo,
Milano, 2010, 488.
10 Cfr. ad esempio l’art. 117 c.p.a. che, in tema di cumulo della domanda risarci‑
toria con il ricorso avverso il silenzio rifiuto, dispone che il giudice ha la facol‑
tà di trattare con il rito speciale la domanda contro il silenzio, rinviando la
pronuncia della domanda risarcitoria, da trattarsi secondo le forme del rito
ordinario.
11In tal senso, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 marzo 2011, n. 1739; Tar Campania
– Napoli, Sez. IV, 17 novembre 2010 n. 12666. Vd. anche Di Paola N. S.,
Guida al nuovo codice del processo amministrativo, San’Arcangelo di Roma‑
gna, 2010, 92 ss.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
zione della domanda risarcitoria unitamente alla domanda
volta all’introduzione del giudizio di ottemperanza. La cumu‑
labilità di tali domande è, peraltro, espressamente prevista e
disciplinata dall’art. 112 c.p.a., non lasciando più margini di
dubbio in merito a tale ipotesi di cumulo. Quanto ai riflessi
sul rito da seguire, stando alla lettera del Codice, la domanda
di risarcimento, rivestendo natura accessoria, sarà attratta
dalla forma prevista per il giudizio di ottemperanza e, dunque,
ai sensi dell’art. 87 c.p.a., si svolgerà in camera di consiglio,
secondo il rito delineato per l’ottemperanza12.
Da segnalare che, nel sistema delineato dall’originaria
formulazione dell’art. 112 c.p.a., che prevedeva, al comma 4
(abrogato per effetto dell’art. 1 D.Lgs. 195/2011), la possibili‑
tà della proposizione della domanda risarcitoria ex art. 30 co.
5 c.p.a. nel contesto del giudizio di ottemperanza, il giudizio
doveva svolgersi, nel caso di tale forma di connessione, ecce‑
zionalmente, nei modi e nei termini del processo ordinario.
4. Il danno risarcibile in sede di ottemperanza
Sullo scenario delineato è allora da considerare la pronun‑
cia dell’Adunanza Plenaria n. 2/2013, la quale, più che vere e
proprie innovazioni, ha apportato una importante e chiara
ricostruzione dell’istituto così come delineato dal codice del
processo amministrativo, definendo il ruolo e la fisionomia
del giudizio di ottemperanza.
È necessario esaminare, a questo punto della trattazione,
quali siano le ipotesi di risarcimento previste dal Codice del
processo amministrativo, cumulabili con la domanda di ot‑
temperanza, come in effetti riconosciute anche nella autore‑
vole pronuncia in commento.
Al proposito, è possibile individuare due tipi di domande
risarcitorie proponibili unitamente al giudizio di ottempe‑
ranza:
a) azione di condanna al pagamento di somme a titolo di
rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudi‑
cato della sentenza (art. 112 co. 3, prima parte);
b) azione di condanna al risarcimento dei danni derivanti
dalla impossibilità o comunque dalla mancata esecuzione in
forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua
violazione o elusione (art. 112 co. 3, seconda parte).
L’originaria formulazione dell’art. 112 c.p.a. prevedeva,
poi, al comma 4, la possibilità di un’ulteriore domanda risar‑
citoria proponibile in connessione con quella diretta all’ot‑
temperanza del giudicato, consistente nella condanna ai sensi
dell’art. 30, comma 5, diretta cioè al risarcimento del danno
derivante dall’emanazione o esecuzione del provvedimento
amministrativo illegittimo: si trattava di una vera e propria
innovazione del codice del processo, che assecondava la tesi
minoritaria espressa dalla giurisprudenza precodicistica,
tuttavia abrogata dopo poco più di un anno di vigenza.
Passando all’analisi, dunque, delle domande risarcitorie
che possono presentarsi in connessione con la domanda tesa
12 Per approfondimenti sulle norme processuali inerenti il giudizio di ottempe‑
ranza, si rinvia a Tarullo S., Il giudizio di ottemperanza alla luce del codice
del processo amministrativo, in Scoca F.G., Giustizia Amministrativa, Torino,
2011; Fiasconaro V., I riti camerali nel codice del processo amministrativo,
in www.giustizia-amministrativa.it. Per approfondimenti in tema di procedura
del rito dell’ottemperanza, si rinvia per tutti a Leone G., Elementi di diritto
processuale amministrativo, Padova, 2011, 309 – 319.
2 0 1 3
97
all’ottemperanza, può rilevarsi che la prima delle domande
risarcitorie si iscrive perfettamente nel contesto del carattere
propriamente esecutivo del giudizio in oggetto, avendo lo
stesso ad oggetto particolarmente l’esecuzione di sentenze che
possano prevedere anche il riconoscimento del diritto ad una
somma di danaro, il cui importo, chiaramente, deve essere
attualizzato rispetto al momento della concreta soddisfazione
del creditore e rispetto al quale le somme ulteriori richieste
dal creditore hanno natura di obbligazioni accessorie.
Con riferimento alla domanda risarcitoria indicata sub b),
invece, il legislatore ha previsto la possibilità di cumulo della
domanda di ottemperanza con la domanda di risarcimento
dei danni derivanti proprio dalla inattuata (e inattuabile) ri‑
tardata o inesatta esecuzione della sentenza che prevedeva una
condanna della soccombente in forma specifica13: la connes‑
sione, nel caso di specie, è molto forte, e particolarmente
meritevole appare la previsione del Codice di proporre le
azioni con la medesima domanda. In effetti, come rilevato
dalla stessa Adunanza Plenaria n. 2/2013, la connessione
opera nel senso che la domanda risarcitoria in questione, se
non si pone in esecuzione del giudicato, trova in esso tuttavia
il suo presupposto. In effetti, già parte della giurisprudenza
ancien régime, come accennato, prevedeva che in sede di ot‑
temperanza fosse domandabile il risarcimento per detti danni;
la previsione legislativa, sottrae, dunque, alle incerte interpre‑
tazioni giurisprudenziali il giudizio di ammissibilità di tali
domande nel corpo del medesimo ricorso14.
Vengono peraltro in rilievo in questa tipologia di azione di
condanna, ad esempio, alcune tipiche figure di danno aventi
genesi pretoria, derivanti da un’attività illegittima e/o omissiva
da parte della p.a., quali il danno da ritardo e da disturbo, il
primo dei quali ha ricevuto una vera e propria consacrazione
legislativa con l’introduzione nel corpo della Legge n. 241/90
dell’art. 2-bis ad opera della Legge n. 69/0915. Tali figure di
danno si riferiscono alla tradizionale divisione degli interessi
legittimi tra pretensivi ed oppositivi, il primo dei quali si rife‑
risce all’interesse del privato ad ottenere una situazione di
vantaggio che incida in modo favorevole su una propria situa‑
zione soggettiva, mentre il secondo ad un interesse di segno
13Una recente pronuncia del Consiglio di Stato (sent. n. 259 del 16.01.2013),
individua con precisione i possibili comportamenti dell’amministrazione che
possono dar luogo a risarcimento, nel caso di mancata attuazione del giudica‑
to, individuando l’effetto del danno: a) nella oggettiva impossibilità di esecu‑
zione, dipendente da cause diverse ed (eventualmente) estranee al giudizio, in
particolare non riconducibili al comportamento della P.A.; b) nel comporta‑
mento attivo dell’amministrazione, in quanto essa con diverso esercizio del
potere – non strettamente afferente all’esecuzione del giudicato – rende impos‑
sibile l’esecuzione; c) nel comportamento omissivo dell’amministrazione, che,
non eseguendo il giudicato, rende – per il tramite della sua inerzia – non più
eseguibile lo stesso. Altresì, la stessa pronuncia individua che fonte del danno
risarcibile può essere un comportamento assunto dall’amministrazione in elu‑
sione del giudicato amministrativo, i cui atti, in questo senso, saranno da di‑
chiarare nulli, ex art. 21-septies Legge n. 241/90.
14Tanto da portare ad affermare che “in sede di ottemperanza si è sempre ritenu‑
to possibile formulare richiesta di risarcimento solo per i danni verificatisi in
seguito alla formazione del giudicato e proprio a causa del ritardo nella esecu‑
zione della pronuncia” (Cons. Stato, Sezione V, 23 novembre 2010, n. 8142).
15Su tali figure di danno, cfr. ex pluribus, Cons. Stato, Sez. V - sentenza 21 mar‑
zo 2011 n. 1739; 2 marzo 2009 n. 1162. In dottrina: Giovagnoli R., “Il ri‑
sarcimento del danno da provvedimento illegittimo”, Milano 2010; Zerman
P.M., Il risarcimento del danno da ritardo: l’art. 2 bis della legge 241/1990
introdotto dalla legge 69/2009, in www.giustizia-amministrativa.it. Già prima
dell’introduzione dell’art. 2-bis Legge n. 241/90, si vedano Cons. Stato, Ad.
Plen., 03 dicembre 2008, n. 13; Sez. V, 31 gennaio 2006, n. 321.
amministrativo
Gazzetta
98
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
contrario a quello dell’amministrazione, teso a paralizzarne
l’esercizio di un potere16. La possibilità in concreto di ottenere,
all’esito del giudizio per l’ottemperanza, tali forme di risarci‑
mento, dipende dalla dimostrazione puntuale degli elementi
che attestano il verificarsi di una situazione dannosa oggetti‑
vamente riconoscibile in capo al privato, poiché la giurispru‑
denza prevalente tende a non riconoscere il danno in re ipsa
nella tardiva o inesatta attuazione dei poteri amministrativi,
specie con riferimento al danno da ritardo17. In effetti, a ben
vedere, la pertinenza di tali voci di danno con l’azione risarci‑
toria disciplinata dall’art. 112 co. 3 ult. parte, sembra avallata
dalla stessa pronuncia in commento resa dall’Adunanza Ple‑
naria, allorché la stessa si occupa della possibilità di far rien‑
trare nell’azione di ottemperanza, anche la domanda tendente
all’accertamento della nullità di atti emessi dall’amministra‑
zione in elusione del giudicato: a tal proposito, il Consiglio di
Stato rileva come l’accertamento della nullità può risultare
funzionale all’individuazione dei danni derivanti sia dalla ri‑
tardata attuazione del giudicato (per avere l’amministrazione
emanato un provvedimento nullo)18 .
Recente giurisprudenza amministrativa, non ha poi man‑
cato di osservare che il termine di decadenza per la proposi‑
zione dell’actio iudicati è stato fissato dal Codice del processo
amministrativo in dieci anni proprio in ragione della natura
della situazione soggettiva che si assume lesa dalla parte che
agisce per l’ottemperanza, che è una posizione riconducibile a
diritto soggettivo, per la cui lesione, derivante da un rapporto
contrattuale “da contatto”, il codice civile prevede proprio un
analogo termine di decadenza: tale termine si sposa bene anche
con la natura della pretesa risarcitoria, avanzabile ex art. 112
comma 3 c.p.a., che deriva proprio dalla lesione di tale enun‑
ciata situazione giuridica soggettiva19.
16Sulla distinzione di tali figure di danno, si rinvia a Cons. Stato, Sez. VI, 12
marzo 2004, n. 1261.
17La decisione n. 7 del 15 settembre 2005 dell’Adunanza Plenaria ha infatti
stroncato quel timido orientamento che riconosceva il presupposto del danno
da ritardo nel mero mancato rispetto della certezza dei tempi dell’azione am‑
ministrativa, che assumeva valore sub specie di responsabilità precontrattuale,
risarcibile ex art. 2043 c.c. (Cons. Stato, Sez. IV, ord. 7 marzo 2005, n. 875).
Con riferimento al danno da disturbo, invece, l’orientamento prevalente è nel
senso che la lesione dell’interesse implica ex se la lesione del bene della vita
preesistente al provvedimento affetto da vizi di illegittimità, sicché l’accerta‑
mento della circostanza che la p.a. ha agito non iure di per se stesso implica la
consolidazione di un danno ingiusto nella sfera giuridica del privato; sul punto
cfr. Cons. Stato, Sez. V, 30 giugno 2009, n. 4237.
18Sul punto, la pronuncia dell’Adunanza Plenaria in commento si mostra netta
nel ritenere ammissibile la proposizione della domanda di accertamento della
nullità nel corpo del giudizio di ottemperanza, piuttosto che in un separato
giudizio di cognizione, in funzione di una maggiore effettività della tutela e
della concentrazione dei rimedi giurisdizionali. La pronuncia è, in tal punto, di
sicura importanza, dal momento che risolve in senso positivo una costante in‑
certezza che si avvertiva nella prassi circa il cumulo tra tali due domande. Il
principio, peraltro, a ben vedere, è anche in questo caso di natura ricognitiva,
più che innovativa, dal momento che è lo stesso codice del processo ammini‑
strativo a prevedere, all’art. 114 co. 4 lett. b), il potere del giudice dell’ottem‑
peranza di dichiarare nulli gli atti emessi dall’amministrazione in elusione del
giudicato. Da segnalare che, a brevissima distanza dalla pronuncia della Plena‑
ria, appena due giorni dopo, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha
espresso e confermato l’ammissibilità del cumulo della domanda di accertamen‑
to della nullità nel corpo del giudizio di ottemperanza (Cons. Stato, Sez. IV, 17
gennaio 2013, n. 273), rilevando che lo stesso giudice può spingersi -laddove
riscontri la sussistenza della nullità dell’atto – fino ad indicare all’amministra‑
zione puntuali criteri per dare attuazione al giudicato, ponendo così limiti al
riesercizio del potere, senza che ciò possa essere considerato invasivo del “me‑
rito” amministrativo; e ciò anche nel caso in cui ad essere rimessi in discussio‑
ne non sono i “fatti” (rimasti immutati), ma la “valutazione” dei medesimi.
19Il riferimento è a Cons. Stato, Sez. IV, 16 gennaio 2013, n. 259.
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F O R E N S E
È da precisare, inoltre, che l’attuale formulazione del
comma 3 dell’art. 112 c.p.a. è il frutto di una rivisitazione
operata dal legislatore nel 2011, in sede di revisione del codi‑
ce del processo amministrativo, ad un anno dalla sua entrata
in vigore: la modifica legislativa ha precisato che la domanda
risarcitoria indicata più sopra sub lettera b), riguarda il caso
in cui la parte soccombente nel giudizio principale20 era stata
onerata, in sentenza, di dare esecuzione in forma specifica
alla pronuncia. In effetti, dunque, il legislatore del 2011 ha
sentito di puntualizzare che tale forma di risarcimento si at‑
teggia come una domanda di conversione della condanna in
forma specifica disposta con il primo giudizio, in una forma
risarcitoria per equivalente nell’ambito del giudizio di esecu‑
zione, fondata sulla mancata esecuzione, totale o parziale, del
giudicato, nel caso, evidentemente, in cui il ritardo nell’esecu‑
zione hanno reso impossibile ovvero non più interessante,
l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo risarcitorio.
Peraltro, la stessa operazione di restyling dell’art. 112
c.p.a., ha portato a prevedere che la domanda risarcitoria sia
ammissibile anche nel caso risulti l’impossibilità della parte
soccombente di dare esecuzione al giudicato: in tal senso,
l’impossibilità non si atteggia come una causa non prevedibi‑
le che esime da responsabilità la parte onerata ad una deter‑
minata prestazione di fare, ma come un evento che è produt‑
tivo di danno risarcibile.
L’azione di risarcimento per il danno derivante da atti o
attività illegittima della pubblica amministrazione, a seguito
dell’abrogazione del comma 4 dell’art. 112 c.p.a., è proponi‑
bile unicamente in via ancillare nel corso di un giudizio di
annullamento (o in via autonoma nelle materie di giurisdizio‑
ne esclusiva), ai sensi dell’art. 30 comma 5 c.p.a. e non più in
connessione con la domanda di esecuzione del giudicato21.
Quanto alla categoria di danni risarcibili, sembra utile un
veloce cenno ad una tendenza recente dei Tribunali ammini‑
strativi, nel senso di riconoscere titolo al risarcimento anche
in presenza di lesioni di diritti che trovano dimora nelle di‑
sposizioni della Carta costituzionale, riferendo il sintagma del
danno ingiusto, di cui all’art. 2043 c.c., anche a norme di
rango costituzionale22. Il danno risarcibile ai sensi dell’art.
112, commi 3 c.p.a. deve, dunque, ritenersi comprensivo an‑
che dell’eventuale pregiudizio non patrimoniale patito da chi
20Sembra opportuno parlare genericamente di parte soccombente piuttosto che
di amministrazione soccombente, atteso che l’interpretazione ermeneutica che
va formandosi alla luce del nuovo codice tende a riconoscere la proponibilità
del giudizio di ottemperanza anche contro la parte privata, qualora la stessa sia
stata destinataria in sentenza di un obbligo di fare, derivante dalla soccomben‑
za (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 marzo 2012, n. 1570; Tar Sicilia – Catania, 24
maggio 2012, n. 1312).
21Nel breve periodo di vigenza del comma 4 art. 112 c.p.a., era stato più volte
sottolineato la novità del codice sul punto ed il suo carattere di rottura rispetto
al passato. Cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 novembre 2010, n. 8142, che ha rilevato
come “Dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, appro‑
vato con d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, deve ritenersi non più applicabile il princi‑
pio giurisprudenziale per il quale in sede di ottemperanza era possibile formu‑
lare richiesta di risarcimento, ma solo per i danni verificatisi in seguito alla
formazione del giudicato e a causa del ritardo nella esecuzione della pronuncia,
mentre il risarcimento dei danni riferibili al periodo precedente al giudicato
doveva essere richiesto con un giudizio cognitorio da proporsi davanti al giudi‑
ce di primo grado, atteso che ai sensi dell’art. 112, comma 4, di detto codice è
ora ammessa la proposizione, nel giudizio di ottemperanza, di una azione risar‑
citoria anche per i danni riguardanti periodi precedenti al giudicato”.
22Vd., già prima dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo,
Cons. Stato, Sez. V, 28 maggio 2010, n. 3397.
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g e n n a i o • f e b b r a i o
subisce l’inerzia della P.A., a fronte di una decisione favore‑
vole, posto che non sussistono ostacoli di carattere testuale o
sistematico ad immaginare una siffatta domanda giudiziale
proposta nel corso del processo di ottemperanza 23: possono
venire in considerazione, ad esempio, sotto tale profilo il di‑
ritto al lavoro (art. 4 Cost.) o alla reputazione ed alla imma‑
gine (riconducibili, questi ultimi, entro l’alveo dei diritti in‑
violabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.), i quali potrebbero
offrire seri spunti per avanzare richieste risarcitorie connesse
alla domanda di ottemperanza 24.
Da ultimo si intende segnalare un’innovazione del Codice
di procedura amministrativo che dovrebbe essere maggior‑
mente conosciuta e utilizzata, in quanto può consentire alla
parte vittoriosa una certa soddisfazione in termini recupera‑
tori del diritto all’immagine e alla reputazione rovinata o
compromessa: la richiesta, formulata dalla parte ricorrente,
di condannare la parte soccombente alla pubblicazione della
sentenza, prevista dall’art. 90 c.p.a.
Nei casi in cui tale strumento possa contribuire alla ripa‑
razione del danno, potrebbe certo formare oggetto di una
domanda connessa a quella di ottemperanza, formulata ex
art. 112 c. 3 c.p.a.
5. Proponibilità della domanda risarcitoria innanzi al Consiglio di
Stato, in funzione di giudice dell’ottemperanza
La pronuncia dell’Adunanza Plenaria lascia in ombra un
aspetto di certo interesse, che riguarda la ammissibilità della
domanda risarcitoria proposta dinanzi al Consiglio di Stato,
in funzione del giudice dell’ottemperanza, per la prima volta.
In merito alla individuazione del giudice competente per l’ot‑
temperanza, è da premettere che il Codice del processo am‑
ministrativo ha lasciato pressoché inalterata la competenza
per l’ottemperanza delle sentenze pronunciate dal Giudice
amministrativo, mentre ha innovato quanto all’individuazio‑
ne del giudice competente a dare esecuzione alle sentenza dei
Tribunali ordinari: nel primo caso, sarà, infatti, competente
lo stesso Giudice che ha pronunciato la sentenza della cui
ottemperanza si tratti, fermo restando la competenza del Tar
anche per l’ottemperanza di quelle sentenze che non siano
state sostanzialmente modificate a seguito di appello25; nel
secondo caso, invece, deciderà il Tar nella cui circoscrizione
23In questi termini la recente sentenza Tar Puglia-Bari, sez. II, sentenza 10 genna‑
io 2011 n. 19.
24 È noto come la Cassazione abbia già da tempo aderito ad un approccio erme‑
neutico che legge in senso elastico la tipicità del danno non patrimoniale risar‑
cibile, consentendo il ristoro del danno in caso di lesione di valori costituziona‑
li primari, oltretutto non confinabili ad un numerus clausus in quanto ricava‑
bili, in forza della clausola aperta di cui all’art. 2 della Costituzione, in base ad
un criterio dinamico che consente di apprezzare l’emersione, nella realtà socia‑
le, di nuovi interessi aventi rango costituzionale in quanto attinenti a posizioni
inviolabili della persona; sul punto cfr. Cass. Civ., sez. III, 31 maggio 2003, n.
8827 e 8828; Cass. SS. UU., 11 novembre 2008, n. 26972; 19 agosto 2009, n.
18356.
25 Già l’art. 37 Legge Tar prevedeva un simile riparto di competenza: sono anco‑
ra attuali, dunque, i contributi di dottrina e giurisprudenza tesi a chiarire
quale valore attribuire esattamente a tale disposizione quando parla di “deci‑
sione del tribunale amministrativo confermata dal Consiglio di Stato”. In
particolare si ricorda Cons. Stato, Ad. Plen. 11 gennaio 2011, n. 4, che ha
sancito la competenza del Consiglio di Stato, allorché la sentenza di appello
“abbia confermato la decisione di primo grado ma con integrazioni o modifiche
alla relativa motivazione che abbiano apportato un autonomo contenuto pre‑
cettivo in ordine al quid e al modus dell’ottemperanza”. Si rinvia sul punto a
Saitta F., Il giudice dell’ottemperanza, Milano, 1991.
2 0 1 3
99
ha sede il Tribunale che ha pronunciato il provvedimento di
cui si domanda l’ottemperanza.
Come si può notare, il legislatore favorisce la competenza
sul giudizio di ottemperanza in capo al Tar, certamente sia
con fini deflattivi dei ruoli già oberati del Consiglio di Stato,
sia per ragioni di effettività della tutela, riconoscendo nel
giudice che ha pronunciato la sentenza presupposta, il più
idoneo a darvi esecuzione. Nel sistema così delineato, dunque,
il Consiglio di Stato è competente quale giudice dell’ottempe‑
ranza solo nel caso di domanda avente ad oggetto una senten‑
za su cui si è pronunciato lo stesso Consiglio di Stato, modi‑
ficando in senso sostanziale l’opinione già espressa dal Tar
investito del giudizio in primo grado.
Tuttavia, proprio in tale limitata, benché niente affatto
remota, ipotesi, resta il problema di stabilire l’ammissibilità
della domanda risarcitoria proposta unitamente al ricorso per
l’ottemperanza: resta, infatti, chiaro che la domanda risarci‑
toria proposta unitamente alla domanda di ottemperanza, per
competenza funzionale, innanzi al Consiglio di Stato, verreb‑
be da quest’ultima decisa senza lasciare possibilità alcuna di
appello. In tal senso, dunque, la domanda risarcitoria incon‑
trerebbe quello stesso limite delle sentenze di ottemperanza
decise in grado unico dal Consiglio di Stato e ne condivide‑
rebbe la sorte26. Ebbene, sul punto, può ritenersi che la parte
ricorrente possa rinunciare alla garanzia del doppio grado di
giudizio, ma appare certo inaccettabile che debba subire tale
compressione anche l’amministrazione convenuta. Il Codice
non si pronuncia sulla problematica, lasciando all’interprete
il compito di stabilire la soluzione.
Ad opinione di chi scrive, sembra che il problema non
debba porsi per le domande risarcitorie riguardate dall’art.
112 c. 3 (ossia, “il pagamento di somme a titolo di rivaluta‑
zione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato
della sentenza” ovvero “l’azione di risarcimento dei danni
connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzio‑
ne in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla
sua violazione o elusione”): le stesse seguono, infatti, la stes‑
sa sorte del giudizio di ottemperanza, stante anche la forte
connessione che hanno con lo stesso. Un argomento testuale
a sostegno dell’opinione fornita era ricavabile anche dall’ori‑
ginario testo dell’art. 112 c.p.a. e, in particolare, dal confron‑
to con quanto prescritto ai commi 3 e 4: il comma terzo, in‑
fatti, non prevede alcuna precisazione di carattere simile a
quella espressamente contenuta all’ormai abrogato comma
successivo e che si riferisce, invece, alle domande risarcitorie
proposte ai sensi dell’art. 30, comma 5: per tale tipo di do‑
26 Quanto all’appellabilità delle sentenze emesse all’esito di un giudizio di ottem‑
peranza, va detto che il Codice del processo amministrativo ha perso l’occasio‑
ne di portare chiarezza sul punto. In particolare non va dimenticata la regola,
di genesi pretoria, della non appellabilità delle pronunce prive di contenuto
decisorio, con conseguente necessità di distinguere, ai fini dell’ammissibilità
dell’appello delle sentenze di ottemperanza, tra le sentenze che contengano
mere misure attuative del giudicato – le quali sono ritenute non appellabili
salvo che non dettino statuizioni aberranti e comunque estranee all’ambito ed
alla funzione propria del giudizio di ottemperanza (ex plurimis, Cons. Stato,
Sez. V, 9 giugno 2008, n. 2854) – e quelle che risolvano o omettano di risolve‑
re questioni di rito o attinenti alle condizioni dell’azione ovvero alla fondatezza
del ricorso – le quali sono, invece, ritenute appellabili (ex pluribus, Cons.
Stato, Sez. IV, 6 novembre 2007, n. 5739 e 10 marzo 2004, n. 1167). Si rinvia
sul punto a Saitta F., Art. 100. Appellabilità delle sentenze dei tribunali ammi‑
nistrativi regionali, in Quaranta A. – Lopilato V. (a cura di), Il processo
amministrativo, Milano, 2011.
amministrativo
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mande, il comma 4 dell’art. 112, espressamente stabiliva che
“il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e
nei termini del processo ordinario”27. Ebbene, deve intender‑
si che tale clausola, disponendo che il giudizio dovesse segui‑
re le forme del giudizio ordinario, intende anche che lo stesso
si svolga con le garanzie del giudizio ordinario, tra le quali
senz’altro figura il doppio grado di giudizio: si può, dunque,
ritenere che solamente la domanda risarcitoria ex art. 112,
comma 4 non fosse proponibile in grado unico innanzi al
Consiglio di Stato, non potendosi sottrarre alla garanzia
della sua appellabilità.
Malgrado la sopravvenuta abrogazione del comma in
questione, sembra ancor utile rifarsi allo stesso per rinvenire
l’intenzione storica o autentica del legislatore del codice del
processo amministrativo, evidentemente intenzionato a con‑
sentire la connessione della domanda risarcitoria a quella di
ottemperanza, anche quando la cognizione di quest’ultima sia
affidata in grado unico al Consiglio di Stato.
Peraltro, la stessa pronuncia in commento soccorre nel
portare chiarezza su tale apparente fonte di dubbio: la stessa,
infatti, nel corso della argomentazione, ha evidenziato come
la funzione del giudizio di ottemperanza, nel senso di dare
effettività al giudicato prevalga sulla garanzia del doppio
grado di giudizio: ed infatti, mentre l’esigenza di concentra‑
zione e di effettività della tutela trova copertura costituziona‑
le nell’art. 100 della Costituzione, nonché nei principi espres‑
si nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo28, la garan‑
zia del doppio grado di giudizio, come noto, non ha alcuna
copertura costituzionale.
27Per una simile riflessione su tale inciso, si rinvia a Tarullo S., Il giudizio di
ottemperanza, cit.. Cfr. in giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. V, 1 aprile 2011, n.
2011; Sez. III, 5 maggio 2011, n. 2693.
28 Cfr. CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia.
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F O R E N S E
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●
Rassegna
di giurisprudenza
sul Codice
dei contratti pubblici
di lavori, servizi
e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006,
n. 163 e ss. mm.)
●
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato
presso l’Avvocatura Regionale della Campania
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Affidamento dell’attività di gestione degli spazi pubblicitari sugli
impianti di proprietà dell’ente - Costituisce una concessione di
servizio pubblico locale, con conseguente applicabilità dell’art.
30 del Codice dei contratti pubblici.
L’affidamento dell’attività di gestione degli spazi pubbli‑
citari sugli impianti di proprietà dell’ente comporta l’instau‑
razione di un rapporto trilaterale tra Amministrazione con‑
cedente, concessionario e utenti, nel quale il concessionario
agisce in luogo dell’Ente pubblico, cedendo gli spazi a terzi
dietro compenso e corrispondendo un canone all’Ammini‑
strazione, a cui si aggiungono il servizio di manutenzione ed
altre eventuali prestazioni accessorie. L’indicato affidamento,
pertanto, non si configura come appalto di servizi, ma come
concessione di servizio pubblico locale, con conseguente
applicazione dell’art. 30 del Codice dei contratti pubblici.
T.A.R. Campania- Napoli, Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 313
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo
A.T.I. – Mancata specificazione della quota di partecipazione dei
singoli partecipanti- Costituisce causa di esclusione dalla gara, ai
sensi dell’art.46, comma 1 bis del Codice dei contratti pubblici.
La misura espulsiva da una gara d’appalto del R.T.I. che
non abbia dichiarato in fase di ammissione alla gara le quote
di partecipazione di ciascuna impresa al raggruppamento e
le quote di ripartizione delle prestazioni oggetto dell’appalto,
discendendo direttamente dall’art. 37del Codice dei contrat‑
ti pubblici risulta conforme al principio di tassatività delle
cause di esclusione - di recente codificato dall’art. 4 comma
2, lett. d), d.l. 13 maggio 2011 n. 70, con l’inserimento del
comma 1 bis al citato art. 46 del Codice dei contratti pubbli‑
ci - atteso che la misura espulsiva dalla gara può esser dispo‑
sta “oltre che nei casi in cui le disposizioni del codice o del
regolamento la prevedano espressamente, anche nei casi in
cui dette disposizioni impongano adempimenti doverosi ai
concorrenti o candidati, o dettino norme di divieto, pur
senza prevedere una espressa sanzione di esclusione”.
T.A.R. Campania- Napoli, Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 312
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo
A.T.I. - Necessità, al fine dell’ammissione alla gara, della specifi‑
cazione della quota di partecipazione dei singoli partecipanti e
della corrispondenza tra detta quota e quella dei lavori, servizi o
forniture da svolgere da ciascuno - Ratio.
Il comma 13 dell’art. 37 del Codice dei contratti pubblici
- secondo cui “i concorrenti riuniti in raggruppamento tem‑
poraneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamen‑
to”- prescrive una perfetta corrispondenza tra quota dei la‑
vori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o
della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e
quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, ed im‑
pone che sia l’una che l’altra siano specificate dai componen‑
ti del raggruppamento all’atto della partecipazione alla gara,
come requisito di ammissione alla procedura. Detto obbligo
di specificazione trova la sua ratio nella necessità di assicura‑
re la conoscenza preventiva del soggetto che in concreto
eseguirà le prestazioni, al fine di ogni previa verifica sullo
stesso, e di evitare che le imprese si avvalgano del raggruppa‑
mento non per unire le rispettive disponibilità tecniche e fi‑
nanziarie, ma per aggirare le norme di ammissione alle gare.
amministrativo
Gazzetta
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a m m i n i s t r at i v o
T.A.R. Campania- Napoli, Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 312
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo
Informative c.d. atipiche – Discrezionalità della stazione appal‑
tante in ordine alla instaurazione o meno del rapporto contrat‑
tuale - Necessità di idonea motivazione in ordine alla ritenuta ri‑
levanza della segnalazione.
A differenza dell’informativa cd. tipica - la quale ha ca‑
rattere vincolante per le stazioni appaltanti ed automatica
efficacia interdittiva in ordine alla capacità della pubblica
amministrazione a negoziare con il soggetto interessato – nel
caso dell’informativa c.d. supplementare o atipica l’ammini‑
strazione destinataria conserva la potestà discrezionale di
valutare autonomamente le informazioni ricevute, verifican‑
do l’idoneità morale del partecipante alla gara, ai fini dell’av‑
vio o del prosieguo del rapporto contrattuale. Le informati‑
ve del genere rappresentano, infatti, atti endoprocedimenta‑
li, non dotati di efficacia immediatamente lesiva, prive di
carattere interdittivo, ma consentono l’attivazione degli or‑
dinari strumenti di discrezionalità nel valutare l’avvio o il
prosieguo dei rapporti contrattuali. Siffatta segnalazione,
esclusa ogni sorta di automatismo, necessita in ogni caso di
un adeguato vaglio critico da estrinsecare attraverso una
congrua motivazione, mentre la determinazione automatica
ad avviare o proseguire un rapporto contrattuale non può che
derivare da fattispecie puntualmente definite dal legislatore,
ipotesi che, in quanto tali, consentono di ritenere (con ragio‑
nevolezza) vincolata l’attività dell’amministrazione.
T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 14 febbraio 2013, n. 900
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo
Lex specialis – Ammissibilità del ricorso proposto da chi abbia
partecipato alla gara.
La presentazione della domanda di partecipazione ad una
procedura selettiva non implica acquiescenza alle clausole
della relativa lex specialis, le quali possono essere impugnate
solo dopo avere concretamente dimostrato non solo la volontà
di prendere parte alla selezione, ma anche la lesione attuale e
concreta dell’interesse legittimo azionato, considerato, d’altro
canto, che la presentazione della domanda è un atto normal‑
mente necessario proprio per radicare l’interesse al ricorso.
T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 20 febbraio 2013, n. 933
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio
Offerta economica – Necessità di indicare in maniera chiara e
determinata l’ammontare degli oneri destinati alla sicurezza, a
pena di esclusione dalla procedura – Irrilevanza di mancata pre‑
visione di tale obbligo nella lex specialis.
La lettura combinata degli articoli 86 e 87 del codice dei
contratti impone ai partecipanti alle procedure di evidenza
pubblica di indicare nell’offerta economica, in maniera chia‑
ra e determinata, l’ammontare degli oneri destinati alla sicu‑
rezza, al fine di permettere alla stazione appaltante l’accer‑
tamento della congruità e dell’attendibilità dell’offerta in
relazione a tale voce, a prescindere dall’attivazione degli or‑
dinari strumenti di verifica dell’anomalia. Più precisamente,
le imprese concorrenti sono tenute a segnalare gli oneri eco‑
nomici finalizzati all’esatto adempimento degli obblighi di
sicurezza sul lavoro, al duplice scopo di assicurare la consa‑
pevole formulazione dell’offerta con riguardo ad un aspetto
Gazzetta
F O R E N S E
nevralgico e di consentire alla stazione appaltante la valuta‑
zione preventiva della congruità dell’importo posto a coper‑
tura dei costi per la sicurezza; né la quantificazione dei pre‑
detti oneri può tradursi nell’inclusione in voci di costo ampie
e generiche. La mancanza di una apposita previsione in seno
alla lex specialis non toglie che la disciplina del codice dei
contratti in materia sia immediatamente precettiva ed idonea
ad eterointegrare le regole procedurali, imponendo agli offe‑
renti di indicare separatamente gli oneri per la sicurezza.
T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 20 febbraio 2013, n. 934
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio
Operazioni di gara - Mancata contestazione della illegittimà della
lex specialis nelle more della gara - Non si configura quale acquie‑
scenza.
La condotta silenziosa assunta nel procedimento di gara
da una partecipante non è di per sé indicativa della volontà
di aderire all’operato della commissione giudicatrice; né tale
volontà può essere inferita dalla semplice sottoscrizione del
verbale di verifica della documentazione amministrativa, dal
momento che è evidente che la sottoscrizione in parola non
può avere altra funzione che quella di mera presa d’atto di
quanto deliberato dal seggio di gara.Infatti, sussiste acquie‑
scenza ad un provvedimento amministrativo solo nel caso in
cui ci si trovi in presenza di atti o comportamenti univoci
posti liberamente in essere dal destinatario dell’atto, che di‑
mostrino la chiara ed irrefutabile volontà dello stesso di ac‑
cettarne gli effetti e l’operatività.
T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 6 febbraio 2013, n. 766
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio
Requisiti generali di partecipazione alla gara – Sussiste l’obbligo
di dichiarazione ex art. 38 anche da parte di chi, nonostante non
sia amministratore, abbia il potere di impegnare sostanzialmente
all’esterno l’ente.
L’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, nella parte in cui elenca
le dichiarazioni di sussistenza dei requisiti di moralità profes‑
sionale richiesti ai fini della partecipazione alle procedure di
gara, assume come destinatari tutti coloro che, in quanto
titolari della rappresentanza dell’impresa, siano in grado di
trasmettere al soggetto rappresentato, con il proprio compor‑
tamento, la riprovazione dell’ordinamento nei riguardi della
loro personale condotta. Deve, pertanto, ritenersi sussisten‑
te l’obbligo di dichiarazione non soltanto da parte di chi ri‑
vesta formalmente la carica di amministratore, ma anche da
parte di colui che, in qualità di procuratore ad negotia, abbia
ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella rappre‑
sentanza della società e nel compimento di atti decisionali
incidenti sulla gestione complessiva dell’impresa. L’identifi‑
cazione dei soggetti che cadono nel raggio di operatività
della norma deve essere effettuata non solo in base alle qua‑
lifiche formali rivestite, ma anche alla stregua dei poteri so‑
stanziali attribuiti che inducano a qualificare detti soggetti
come amministratori di fatto.
T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 6 febbraio 2013, n. 766
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio
Requisiti di moralità - L’omissione o l’incompletezza della dichia‑
razione è insanabile, senza che possa invocarsi la categoria del
“falso innocuo”.
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g e n n a i o • f e b b r a i o
La dichiarazione in ordine alla sussistenza dei requisiti di
moralità è richiesta per una finalità che non si traduce solo
nella garanzia sull’assenza di ostacoli di natura etica all’ag‑
giudicazione, ma anche nella predisposizione dello strumen‑
to atto a consentire l’ordinaria verifica sull’affidabilità dei
soggetti partecipanti. La completezza delle dichiarazioni è
già di per sé un valore da perseguire perché consente - anche
in ossequio al principio di buon andamento dell’amministra‑
zione e di proporzionalità - la celere decisione in ordine
all’ammissione dell’operatore economico alla gara. Conse‑
guentemente una dichiarazione inaffidabile, perché falsa o
incompleta, è già di per se stessa lesiva degli interessi consi‑
derati dalla norma, a prescindere dal fatto che l’impresa
meriti “sostanzialmente” di partecipare alla gara, senza pos‑
sibilià di essere “sanata” ricorrendo alla categoria del falso
innocuo.
T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 6 febbraio 2013, n. 766
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio
2 0 1 3
103
Subappalto - Erronea o incompleta dichiarazione - Comporta
l’esclusione dalla gara soltanto ove il partecipante risulti sfornito
in proprio delle qualificazioni per le lavorazioni da subappaltare.
L’incompleta o erronea dichiarazione del concorrente re‑
lativa all’esercizio della facoltà di subappalto è suscettibile di
comportare l’esclusione dello stesso dalla gara nel solo caso in
cui esso risulti sfornito in proprio della qualificazione per le
lavorazioni che ha dichiarato di voler subappaltare, determi‑
nando negli altri casi effetti unicamente in fase esecutiva, sotto
il profilo dell’impossibilità di ricorrere al subappalto. Tale so‑
luzione appare in linea col principio di tassatività delle cause
di esclusione - ai sensi dell’art. 46 comma 1 bis, del Codice dei
contratti pubblici, modificato dall’art. 4 comma 2, lett. d), d.l.
13 maggio 2011 n. 70 - dal quale discende anche che, qualora
manchi nella lex specialis una chiara prescrizione che imponga
in modo esplicito l’obbligo dell’ esclusione, vale il principio
della più ampia partecipazione alla gara.
T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 1 febbraio 2013, n. 696
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo
amministrativo
Gazzetta
Diritto tributario
Riflessioni a margine di alcuni casi di deroga al principio di alternatività tra imposta
sul valore aggiunto e imposta di registro
107
tributario
Maria Pia Nastri
Gazzetta
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
●
107
● Maria Pia Nastri
Ricercatrice di diritto tributario Università degli Studi Suor
Orsola Benincasa - Napoli
1. Le possibili ragioni poste alla base delle deroghe all’alternatività.
Nel vigente sistema legislativo tributario risulta complessa
la ricostruzione del quadro sistematico delle deroghe al nor‑
male regime di alternatività e la ricostruzione della ratio legi‑
slativa sottesa1.
Il principio di alternatività contenuto, come noto, in una
legge ordinaria (art. 40 del d.P.R. n. 131/86), avente carattere
precettivo è stato “rivisitato” con i vari interventi normativi
successivi, introdotti con norme di pari rango.
Le modifiche introdotte con il più volte citato d.l. n.
223/2006, ed i successivi decreti d.l. n.1/2012 e d.l. n. 83/2012,
sebbene non abbiano modificato il principio di alternatività
contenuto nell’art. 40 del d.P.R. n. 131/86, hanno dapprima
ampliato l’ambito delle deroghe e poi quello delle opzioni,è
quindi necessario verificare se detto principio trovi ancora la
sua forza precettiva o sia stato ridimensionato a mera norma
programmatica.
Un’attenta ricostruzione della ratio della disposizione
contenuta nell’art. 40 comma 1, conduce sia al divieto di dop‑
pia imposizione contenuto nell’art. 53 Cost., ed anche all’art.
401 della direttiva 2006/212/CE che vieta l’introduzione di
ulteriori imposizioni che siano assimilabili all’Iva; detta inda‑
gine consente di verificare le ragioni poste alla base delle de‑
roghe, al fine di poter eventualmente giustificare detti inter‑
venti, oppure evidenziarne il contrasto con i principi interni e
comunitari.
Le numerose deroghe e opzioni introdotte dal legislatore
possono infatti determinare un’interferenza tra le due imposte
causando un ostacolo all’applicazione dell’Iva con possibili
effetti distorsivi della concorrenza, ma anche fenomeni di
duplicazione d’imposta.
L’intervento del legislatore, come osservato dalla più atten‑
ta dottrina, può essere suddiviso in due tipi di operazioni:
ampliamento delle deroghe già previste dal legislatore attra‑
verso l’estensione dell’ambito di applicazione delle operazioni
esenti Iva ed allo stesso tempo soggette ad imposta di registro
proporzionale e ulteriore superamento della deroga (deroga
della deroga) per operazioni che scontano l’imposta di registro
all’1% anche se rientranti nel campo di applicazione dell’Iva,
si tratta in particolare delle locazioni di beni immobili stru‑
mentali 2.
Le deroghe nel settore immobiliare consentono delle brevi
riflessioni sotto il profilo sistematico: fin dalla riforma Bersa‑
ni-Visco il legislatore si è soffermato sul presupposto sogget‑
tivo e su quello oggettivo sulla base della considerazione che
la cessione e la locazione degli immobili è posta in essere sia
dalle imprese, sia dai privati. Il requisito soggettivo è risultato
di particolare rilievo nel caso di cessioni di fabbricati effettua‑
1 Cfr. M. P. Nastri, Il principio di alternatività tra imposta sul valore aggiunto e
imposta di registro, Torino, 2012.
2 Cfr. M. Basilavecchia, Problematiche concernenti il nuovo sistema di alterna‑
tività tra Iva e imposte sui trasferimenti della ricchezza, in Novità e problemi
nell’imposizione tributaria relativa agli immobili, cit. p. 101 ss.
tributario
Sommario: 1. Le possibili ragioni poste alla base delle
deroghe all’alternatività. – 2. La rilevanza del presupposto
soggettivo. – 3. Regimi derogatori nel settore immobiliare:
casi applicativi. – 4. Deroga al principio di alternatività ed
interferenza con le norme comunitarie.
Riflessioni a margine
di alcuni casi di deroga
al principio di alternatività
tra imposta sul valore
aggiunto e imposta
di registro
2 0 1 3
108
d i r i t t o
te dopo il decorso di cinque anni dalla ultimazione dei lavori,
ipotesi in cui, secondo il legislatore, emerge una finalità an‑
tielusiva, in quanto spesso le società immobiliari scarsamente
attive sul piano della produttività nell’ambito dell’impresa
svolgono un’attività di gestione degli immobili con connota‑
zione prevalentemente patrimoniale.
Tuttavia con il decreto sviluppo, come meglio verrà chia‑
rito in seguito, il legislatore ha riconsiderato la tassazione di
tali cessioni decorso il quinquennio, considerando detti im‑
mobili come invenduti e consentendo la possibilità per l’im‑
presa cedente, a seguito di opzione, di detrarre l’Iva sugli
acquisti effettuati e fruire del regime di neutralità peculiare
dell’Iva.
2. La rilevanza del presupposto soggettivo.
Le operazioni sono nella generalità dei casi caratterizzate
attraverso l’individuazione del presupposto soggettivo e con‑
seguentemente sottoposte ad Iva le cessioni oggetto di attività
commerciali e industriali e ad imposta di registro quelle non
rientranti nella sfera imprenditoriale, ma privata.
L’alternatività deve evitare non solo eventuali fenomeni di
duplicazione d’imposta, ma anche interferenze dell’imposta
di registro con la fiscalità delle imprese e delle professioni e
nella maggior parte dei casi il presupposto soggettivo costitu‑
isce l’elemento centrale ai fini della qualificazione degli atti.
Il principio di alternatività non viene però sempre rispet‑
tato e sebbene in taluni casi le deroghe siano previste esplici‑
tamente dal legislatore come ad esempio per i contratti di
permuta, casi in cui è prevista una tassazione “sdoppiata” (in
cui formalmente l’alternatività viene rispettata) non si può
negare che il pagamento dell’imposta di registro per un’impre‑
sa che acquista da un soggetto non Iva, inciderà sul meccani‑
smo del tributo creando un’interferenza tra le due imposte.
L’individuazione del presupposto soggettivo quale stru‑
mento interpretativo consente un’applicazione coerente e al‑
ternativa di entrambe le imposte.
Il profilo soggettivo del cedente è stato “rivisitato” dal le‑
gislatore con l’introduzione del decreto sviluppo (d.l. 83/12
conv. in l. 134/12): i soggetti passivi Iva (imprese e professioni‑
sti) potranno beneficiare del regime opzionale scegliendo
l’imponibilità Iva (anziché il penalizzante regime di esenzione
Iva con applicazione dell’imposta di registro): le modifiche in‑
trodotte consentono ad esempio alle imprese costruttrici, che
non sempre riescono a vendere nei cinque anni dalla fine dei
lavori gli immobili abitativi realizzati, di optare per l’applica‑
zione dell’Iva sulle cessioni degli immobili medesimi e di evita‑
re, in tal modo, l’indetraibilità dell’Iva assolta sugli acquisti.
3. Regimi derogatori nel settore immobiliare: casi applicativi.
In caso di trasferimenti di fabbricati realizzati da privati
a favore d’imprese aventi per oggetto, esclusivo o principale,
la rivendita di beni immobili, che dichiarino nell’atto di ac‑
quisto l’intenzione di rivenderli entro i tre anni successivi,
l’imposta di registro non è dovuta nella misura agevolata
dell’1%3.
È questo l’orientamento della Suprema Corte che, diver‑
samente da quanto deciso nelle sentenze di merito, ha accolto
3 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 23 giugno 2011, n. 13847, in banca dati Fisconline.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
il ricorso dell’Agenzia dell’Entrate, ritenendo non applicabile
l’aliquota dell’1% dell’imposta di registro e le imposte ipote‑
caria e catastale in misura fissa, in caso di trasferimento di
un bene immobile posto in essere nei confronti di una società
di rivendita immobiliare da parte di un privato. Infatti, affin‑
chè si possa ravvisare il beneficio, è necessario che ricorra il
presupposto soggettivo e che quindi il cedente ponga in atto
il trasferimento nell’ambito dell’esercizio dell’attività di im‑
presa, arte o professione.
Infatti, l’art. 35 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito
con l.4 agosto 2006, n. 248, ha riformulato il testo dell’art.
10, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, recante la
disciplina delle esenzioni dall’imposta sul valore aggiunto,
sostituendo integralmente i nn.8 e 8-bis ed aggiungendo il n.
8-ter4.
L’art. 10, comma 1, n. 8-bis, prevedeva per le cessioni di
“fabbricati o di porzioni di fabbricato diversi da quelli di cui
al n. 8-ter)” l’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto5,
fatta eccezione per le cessioni effettuate, entro cinque anni
dalla data di ultimazione della costruzione o dell’intervento,
dalle imprese costruttrici degli stessi fabbricati o dalle impre‑
se che vi hanno eseguito, anche tramite imprese appaltatrici,
gli interventi di recupero del patrimonio edilizio di cui all’art.
31, lettere c), d), e) della l. 5 agosto 1978, n. 457 e per le ces‑
sioni effettuate dai medesimi soggetti, anche successivamente
ai cinque anni dalla data di ultimazione della costruzione o
dell’intervento, a condizione che i fabbricati siano stati locati,
entro il predetto termine, per un periodo non inferiore a
quattro anni, in attuazione di programmi di edilizia residen‑
ziale convenzionata. È infatti prevista l’applicazione dell’im‑
posta di registro nella misura dell’1% “se il trasferimento
avente per oggetto fabbricati o porzioni di fabbricato è esente
dall’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’art. 10, co. 1, n.
8-bis del d.P.R. n. 633/72 ed ha effettuato nei confronti di
imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’at‑
tività esercitata la rivendita di beni immobili, a condizione
che nell’atto l’acquirente dichiari che intende trasferirli entro
tre anni”, ai sensi dell’art. 1 della Tariffa, Parte Prima, alle‑
gata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 che a seguito della de‑
creto Bersani-Visco non ha subito alcuna modifica.
Nei casi di cessioni, ex art. 10, comma 1, n. 8-bis, del
d.P.R. n. 633/1972 e quindi di operazioni esenti Iva6, troverà
4 Cfr. Relazione governativa di accompagnamento al d.l. 4 luglio 2006, n. 223,
dalla quale si evince che la ratio del legislatore era essenzialmente quello di
circoscrivere l’ambito di applicazione dell’Iva alle sole operazioni di prima
immissione sul mercato dei fabbricati di cui trattasi, con la conseguenza che, in
ogni altra ipotesi, diversa da quelle normativamente considerate, la cessione di
tali fabbricati è soggetta all’imposta di registro.
5Numero aggiunto dall’art. 10 del d.l. n. 323/1996, poi sostituito dal comma 8
dell’art. 35 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, come modificato dalla relativa legge
di conversione e infine modificato dal comma 330 dell’art. 1 della l. 27 dicem‑
bre 2006, n. 296 e dal comma 86 dell’art. l. della l. 13 dicembre 2010, n. 220
a decorrere dal 1° gennaio 2011. Si tratta, quindi d’immobili diversi dai fabbri‑
cati o porzioni di fabbricati strumentali che, per le loro caratteristiche, non
sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni.
6La classificazione tra operazioni imponibili, non imponibili, esenti ed escluse ai
fini Iva deriva da interpretazioni derivate dalla lettura combinata di numerosi
articoli dell’Iva, non essendovi alcuna disposizione legislativa che la preveda.
Affinché possano assumere la qualifica di esenti, come richiesto dal citato art.
10, le operazioni devono avere tutti i requisiti di soggettività, oggettività e ter‑
ritorialità propri delle operazioni imponibili e per ciò che concerne gli adempi‑
menti formali e sostanziali, esse devono essere comunque assoggettate ai dove‑
ri e agli obblighi stabiliti per queste ultime, salvo le eccezioni normativamente
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g e n n a i o • f e b b r a i o
applicazione l’imposta di registro in misura proporzionale
pari all’1%, in deroga al principio di alternatività ai sensi
dell’art. 40 del d.P.R. n. 131/1986. La Corte di Cassazione ha
pertanto effettuato la verifica della sussistenza dei presuppo‑
sti per l’applicazione di tale disposizione con particolare rife‑
rimento al rinvio di cui all’art. 10, comma 1, n. 8-bis, del
d.P.R. n. 633/1972 al trasferimento esente da Iva7. Ai fini
dell’applicazione dell’aliquota dell’1% dell’imposta di registro,
il trasferimento deve essere soggetto ad Iva, ex art. 2 del d.P.R.
n. 633/1972, ed effettuato nel territorio dello Stato e deve
essere realizzato nell’esercizio di attività di impresa, ex art. 4
del decreto Iva8: l’aliquota applicabile sarà, tuttavia, non
quella ordinariamente stabilita, ma quella dell’1% solo se ri‑
corrono anche le ulteriori due condizioni richieste dal quinto
periodo dell’art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al Tur,
cioè che la cessione sia posta in essere in favore di imprese
aventi per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercita‑
ta la rivendita di beni immobili e che nell’atto l’acquirente
dichiari di voler trasferire quanto acquistato entro tre anni.
Nel caso in cui, tuttavia il cedente non sia uno dei sogget‑
ti di cui al citato n. 8-bis, la cessione si renderà assoggettabi‑
le ad imposta di registro con aliquota ordinaria ai sensi
dell’art. 40 del d.P.R. n. 131/1986. Inoltre, la cessione dovrà
essere realizzata dalle imprese che “hanno per oggetto esclu‑
sivo o principale dell’attività esercitata la rivendita dei predet‑
ti fabbricati o delle predette porzioni”, e cioè i fabbricati o le
porzioni di fabbricato a destinazione abitativa (soggetto ce‑
dente) mentre il cessionario dovrà essere: “imprese che hanno
per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata la
rivendita di beni immobili”: ne consegue che, sempre con ri‑
ferimento ai requisiti soggettivi, la categoria di imprese am‑
messe all’acquisto di case di abitazione con l’imposta di regi‑
stro all’aliquota dell’1% è più ampia rispetto alla categoria
individuata dalla disposizione contenuta nel d.P.R. n.
633/1972.
Ai fini dell’individuazione delle “imprese che hanno per
oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata” la riven‑
dita di fabbricati o di porzioni di fabbricato a destinazione
abitativa ovvero di immobili, è necessario precisare alcuni
elementi distintivi, rientrano nel presupposto soggettivo le
imprese che, costituite in forma societaria, prevedano, nello
statuto o nei patti sociali, quale oggetto sociale prevalente o
principale l’attività innanzi definita e le imprese che svolgono
effettivamente, in via esclusiva o principale, tale attività, con
riferimento sia al volume d’affari nel caso di impresa già ope‑
rante, sia al codice attività attribuito ai fini Iva9.
previste allo scopo di limitare l’effetto tipico che caratterizza le operazioni
esenti, e cioè l’indetraibilità dell’imposta (art. 19 del d.P.R. n. 633/1972).
7 Cfr. S. Di gregorio Natoli, Iva: operazioni imponibili, non imponibili, esen‑
ti ed escluse, in Fisco, 42, 2000, p.12509 ss. rappresentano un’eccezione al
meccanismo di applicazione dell’Iva, in quanto interrompono il processo di
traslazione in avanti che consente di trasferire, ad ogni passaggio di beni, l’im‑
posta dai produttori ai consumatori mediante l’istituto della rivalsa, ex art. 18
del d.P.R. n.633/72.
8Tale conclusione, è condivisa anche dall’Amministrazione con la Ris. min.,10
giugno 1999 n. 93/E-III-7-75104 che, occupandosi della cessione di fabbricati
da parte di un Ente regionale di sviluppo agricolo, ha rilevato come nel caso di
specie difettasse, in capo al cedente, il presupposto soggettivo di cui all’art. 4
del d.P.R. n. 633/72, ritenendo inapplicabile alla fattispecie considerata la di‑
sciplina di cui all’art.10, co. 1, n. 8-bis, dello stesso d.P.R. n. 633/72.
9 Cfr. Circ. min., 11 luglio 1996, n. 182, in banca dati Fisconline.
2 0 1 3
109
Secondo la Suprema Corte l’applicazione dell’aliquota
agevolata in oggetto presuppone la realizzazione di un’opera‑
zione esente ai fini Iva, ai sensi dell’art. 10 n. 8-bis, del d.P.R.
n. 633/1972 e anche se il testo della norma di cui all’art. 1
della Tariffa, parte prima, allegata al d.p.r. n. 131/1986 è ri‑
masto immutato, il relativo ambito di applicazione è certa‑
mente più ampio poiché ai sensi dell’art. 10 comma 1, n. 8-bis,
la previsione delle fattispecie esenti dall’Iva è anch’essa più
ampia.
La Corte di Cassazione ritiene vigente la previsione di cui
all’art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n.
131/1986, il cui ambito applicativo è determinato mediante il
rinvio all’art. 10, comma 1, n. 8-bis, del d.P.R. n. 633/1972,
a condizione che la cessione sia posta in essere in favore di
imprese aventi per oggetto, esclusivo o principale, dell’attività
esercitata la rivendita di beni immobili e che nell’atto l’acqui‑
rente dichiari di voler trasferire quanto acquistato entro tre
anni10.
È opportuno evidenziare che la recente ordinanza ha però
ribadito che, affinché l’operazione in oggetto possa essere
considerata esente da Iva, è indispensabile che sussistano
tutti i requisiti, soggettivo, oggettivo e territoriale, per l’appli‑
cazione dell’Iva stessa e quindi naturalmente, che il cedente
sia qualificabile come soggetto passivo agli effetti dell’imposta
sul valore aggiunto, ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n.
633/197211.
È esclusa invece l’applicazione dell’aliquota di registro
dell’1%, nel caso in cui il trasferimento nei confronti di una
società immobiliare sia effettuato da parte di un soggetto
privato che non operi nell’esercizio di attività di impresa, in
quanto tale operazione si configura come fuori dal campo di
applicazione dell’imposta sul valore aggiunto e non esente12.
Infatti come esplicitamente chiarito dal Ministero delle
Finanze, nella risposta all’interrogazione parlamentare 17
giugno 2009 n. 5-01457, l’aliquota dell’1% non può trovare
applicazione nel caso in cui il cedente sia un soggetto non Iva,
poichè in tal caso, la cessione sarebbe fuori campo Iva e non
rientrerebbe nell’ambito di applicazione della disposizione di
cui all’art. 10 co. 1 n. 8-bis del d.P.R. 633/7213.
10Per completezza si ricorda che ai sensi della nota II-ter all’art. 1 della Tariffa,
parte I, allegata al d.P.R. n. 131/86, il mancato trasferimento degli immobili
oggetto dell’agevolazione nell’arco dei tre anni dalla data del loro acquisto
comporta quale conseguenza: il pagamento delle imposte di registro, ipotecaria
e catastale nella misura ordinaria, l’irrogazione di una sanzione pari al 30%
della minor imposta versata per effetto dell’applicazione dell’aliquota ridotta,
nonché il computo e l’addebito degli interessi di mora ex art. 55 co. 4 del d.P.R.
n. 131/86.
11Il beneficio, secondo l’interpretazione fornita dalla Comm. trib.reg. di Torino
nella sentenza del 22 marzo 2012 n.18/34/12, in banca dati Fisconline, si ap‑
plica anche nell’ipotesi di rivendita soltanto parziale di detti immobili, in
quanto la norma non prevede espressamente che la cessione debba essere inte‑
grale.
12 Cfr. “Risposta a quesito n. 14-2006/T”, Applicazione dell’aliquota di registro
nell’1 per cento in caso di trasferimento a favore di società che svolge attività
di rivendita, di A.Lomonaco. Così Agenzia delle Entrate, circ. n. 12 /E del 1°
marzo 2007, in banca dati Fisconline; cfr. A. Lomonaco, Cessioni e locazioni
di fabbricati dopo la manovra Visco-Bersani: le attese risposte dell’Agenzia
delle entrate sulle problematiche aperte, in Consiglio nazionale notariato - No‑
tizie del 14 marzo 2007.
13 Interr. e Risp. Parl. n. 5-01457 del 17 giugno 2009 (Risposta del Sottosegreta‑
rio on. Daniele Molgora all’interrogazione presentata dagli onorevoli Antonio
Pepe e Manlio Contento) Applicazione in misura ridotta delle imposte di regi‑
stro, ipotecarie e catastale ai trasferimenti da soggetti privati a società immobi‑
liari di immobili.“omissis…Con l’interrogazione in esame è stato chiesto, in
tributario
Gazzetta
110
d i r i t t o
Sembrerebbe quindi che il legislatore abbia voluto limitare
ai soli operatori economici detta agevolazione, per evitare un
ulteriore aggravio economico alle imprese del settore immo‑
biliare per le quali l’imposta di registro costituisce un costo.
4. Deroga al principio di alternatività ed interferenza con le norme
comunitarie.
Un altro caso di particolare interesse, in merito all’appli‑
cazione del regime derogatorio è stato esaminato dalla Com‑
missione tributaria provinciale della Lombardia14 e successi‑
vamente ha trovato conferma in una recente sentenza della
Commissione tributaria Regionale della Lombardia15.
Il contribuente di fronte alla pretesa dell’Amministrazione
finanziaria di applicare l’imposta di registro proporzionale in
misura dell’1% su un contratto di locazione avente ad ogget‑
to un bene strumentale e, quindi, soggetto ad Iva, ai sensi
dell’art. 10, co. 1, n. 8, del d.P.R. n. 633/1972, ha sollevato la
domanda di annullamento, invocando il principio contenuto
particolare, «in base a quali considerazioni e in quali situazioni il trasferi‑
mento fiscale agevolato (ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catasta‑
le), sia ovvero non sia applicabile al caso in cui il trasferimento immobiliare
risulti effettuato da un soggetto privato ad una società che abbia per oggetto
esclusivo o principale dell’attività esercitata la rivendita di beni immobili,
pur in presenza dell’espressa dichiarazione, nell’atto, che l’acquirente inten‑
de trasferirli entro tre anni». Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate ha rappre‑
sentato che l’articolo 1 della Tariffa, Parte I, allegata al decreto del Presiden‑
te della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, prevede che ai fini dell’imposta
di registro si applica l’aliquota agevolata nella misura dell’1%. «Se il trasfe‑
rimento avente per oggetto fabbricati o porzioni di fabbricato è esente
dall’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’articolo 10, primo comma,
numero 8-bis), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972,
n. 633, ed è effettuato nei confronti di imprese che hanno per oggetto esclu‑
sivo o principale dell’attività esercitata la rivendita di beni immobili, a con‑
dizione che nell’atto l’acquirente dichiari che intende trasferirli entro tre
anni». Per ciò che concerne le imposte ipotecaria e catastale, l’articolo 1del‑
la Tariffa allegata al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347, prevede che,
nel caso di specie, queste si applicano nella misura fissa di euro 168. In
proposito, la nota II-ter dell’articolo 1 della Tariffa, Parte I, allegata al cita‑
to decreto n. 131 del 1986, stabilisce che, «Ove non si realizzi la condizione,
alla quale è subordinata l’applicazione dell’aliquota dell’1% del ritrasferi‑
mento entro il triennio, le imposte di registro, ipotecaria e catastale sono
dovute nella misura ordinaria e si rende applicabile una soprattassa del 30
per cento oltre agli interessi di mora di cui al comma 4 dell’articolo 55 del
presente testo unico. Dalla scadenza del triennio decorre il termine per il
recupero delle imposte ordinarie da parte dell’amministrazione finanziaria».
Ciò premesso, l’Agenzia delle Entrate ha rilevato che la disciplina normativa
in materia non prevede la tassazione in misura agevolata qualora: il trasfe‑
rimento non abbia per oggetto fabbricati o porzioni di fabbricato; il trasfe‑
rimento non sia esente dall’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’articolo
10, primo comma, numero 8-bis), del decreto del Presidente della Repubbli‑
ca n. 633 del 1972; il trasferimento non sia effettuato nei confronti di im‑
prese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata la
rivendita di beni immobili”.
14Si riporta il testo di questa brevissima sentenza di particolare rilievo, Comm.
trib. prov. Milano, sent. 28 febbraio 2011, n. 272, in banca dati Fisconline:“…
omissis… svolgimento del processo- Trattasi, ai fini dell’imposta di registro, di
un avviso di liquidazione di imposta relativo al contratto di locazione di immo‑
bili strumentali soggetto ad imposizione Iva. L’Ufficio sostiene che in caso di
locazione di immobili strumentali il cui canone è soggetto ad imposizione Iva
si debba anche applicare l’imposta di registro proporzionale, art. 5 numero 1
lettera a-bis della tariffa, nella misura dell’1% del canone di locazione. Il ricor‑
rente sostiene che trattasi di una violazione della direttiva europea, art. 401
Direttiva 2006/112/CE del 28.11.2006, che vieta l’introduzione di imposte che
abbiano la natura di imposte sul giro di affari. -Motivi della decisione- Il ricor‑
so è fondato. La Commissione ritiene che la proporzionalità dell’imposta di
registro, nella misura dell’uno per cento, sul canone di locazione di beni stru‑
mentali soggetto ad IVA sia in contrasto con la richiamata direttiva CE n.
2006/112/CE, art. 401, in quanto ha natura di imposta sul giro di affari. P.Q.M
La Commissione Tributaria Provinciale di Milano accoglie il ricorso. Spese di
giudizio compensate”.
15 Cfr. Comm. trib. reg. Lombardia 30 ottobre 2012, n. 138 in Fisco 2012,
p.7257.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
nell’art. 401 della direttiva 2006/112/CE contenente il divieto
d’introduzione di ulteriori imposizioni che siano assimilabili
all’Iva. La norma richiama il principio di alternatività tra l’Iva
e l’imposta di registro prevista per gli immobili strumentali,
sia per la vendita (n. 8-ter) che per la locazione (n. 8), intro‑
ducendo un’ulteriore deroga al regime di esenzione general‑
mente previsto, laddove l’operazione sia rivolta nei confronti
di cessionari soggetti passivi d’imposta che svolgono in via
esclusiva o prevalente attività che conferiscono il diritto alla
detrazione d’imposta in percentuale pari o inferiore al 25%
(lett. b del n. 8-ter); ovvero nei confronti di cessionari che non
agiscono nell’esercizio di impresa, arti o professioni (lett. c);
con l’esclusione dell’ultima ipotesi (lett. d del n. 8-ter) ove,
limitatamente alla cessione del bene strumentale, era prevista
l’applicazione dell’Iva, cioè, se nel relativo atto il cedente
avesse espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione.
Detto contrasto è stato rilevato dai giudici di primo grado ed
applicato, quale primo giudice comunitario, ai fini dell’acco‑
glimento del ricorso e l’annullamento della pretesa azionata
dall’Amministrazione finanziaria.
In tal senso anche la Commissione tributaria regionale
della Lombardia secondo la quale l’art. 5 comma 1 lettera a)
bis della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131/86,
contrasta con le norme comunitarie nei casi in cui applica
l’imposta di registro dell’1% alle locazioni di immobili stru‑
mentali imponibili ad Iva ai sensi dell’art. 10 comma 1 n.8 del
d.P.R. n. 633/7216. L’applicazione dell’imposta di registro
dell’1% oltre all’Iva, secondo i giudici di secondo grado con‑
figurerebbe un’imposta sul valore aggiunto in contrasto con
il dettato dell’art. 401 della dir. n. 2006/112/CE. La commis‑
sione tributaria regionale disapplica quindi la norma contra‑
stante con il diritto europeo e non applica l’imposta di registro
dell’1%. Con la sentenza della Commissione regionale si apre
un interessante indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’ap‑
plicazione dell’imposta di registro proporzionale si pone in
contrasto con uno dei principi sanciti dalla direttiva comuni‑
taria in materia di Iva e va quindi disapplicata. Questo recen‑
te orientamento sebbene attualmente limitato alla sola giuri‑
sprudenza di merito evidenzia l’interferenza tra le due imposte
ed apre la strada ad eventuali istanze di rimborso per l’impo‑
sta di registro pagata.
16 Articolo modificato dall’art. 9 del d.l. 83/2012 conv. con mod. con la l.
134/2012.
Diritto internazionale
[ A cura di Francesco Romanelli ]
Rassegna di diritto internazionale 113
internazionale
A cura di Francesco Romanelli
F O R E N S E
●
Rassegna di diritto
internazionale
●
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e Specialista
di diritto ed economia delle Comunità europee
g e n n a i o • f e b b r a i o
2 0 1 3
113
Diritto penale dell’Unione Indiana – Giurisdizione – Incidente di
navigazione – Sparatoria – Personale militare straniero - Compe‑
tenza.
In caso di incidente di navigazione e sparatoria avvenuti
all’interno della Zona contigua alle acque territoriali indiane,
risulta competente il Tribunale indiano atteso che a tale zona
il diritto interno ha esteso l’efficacia del codice penale e del
codice di procedura penale indiano.
Corte Suprema dell’India, Giur. civile, ricorso civ. n. 135/2012,
Istanza di rilascio n. 20370/2012, Pres. Altamas Kabir
Corte Suprema dell’India, Giurisdizione civile
Ricorso civile n. 135 del 20121
Repubblica Italiana e altri (ricorrenti) c/ Unione Indiana e
altri (resistenti)
Istanza di rilascio n. 20370 del 2012
Massimiliano Latorre e altri (ricorrenti) c/Unione Indiana e
altri (resistenti)
Sentenza Presidente della Corte Altamas Kabir
1. Lo scorso decennio è stato testimone di un deciso aumento
degli atti di pirateria in mare aperto al largo delle coste della
1 La sentenza che si riproduce tradotta in italiano è quella emessa dalla Corte
Suprema dell’Unione indiana a definizione del ricorso per carenza di giurisdi‑
zione proposto dalla Repubblica italiana e dai sottufficiali della Marina Milita‑
re Latorre e Girone. La questione può essere così riassunta: i due militari sono
stati arrestati da un Tribunale dello Stato del Kerala, uno degli Stati che com‑
pongono l’Unione indiana, essendo stati accusati di aver provocato la morte di
due pescatori indiani durante una sparatoria avvenuta al largo delle coste india‑
ne ed esattamente a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala. Il Tribunale si
è ritenuto competente, essendo l’incidente avvenuto all’interno della Zona
contigua alle acque territoriali indiane, sulla quale il diritto interno ha esteso
l’efficacia del codice penale e del codice di procedura penale indiano. Il Governo
italiano ha riproposto le proprie eccezioni innanzi alla Corte Suprema, affer‑
mando che l’incidente è avvenuto in acque internazionali, non potendo essere
considerata la Zona contigua territorio nazionale indiano; che i militari godono
dell’immunità avendo agito nell’ambito di provvedimenti emessi dalla Repub‑
blica italiana, nell’ambito della lotta internazionale alla pirateria in mare.
La Corte ha preliminarmente dichiarato insussistente la giurisdizione del Tribu‑
nale dello Stato del Kerala, appartenendo essa all’Unione indiana quale sogget‑
to di diritto internazionale. Ha quindi affermato che, allo stato, vi sia una giu‑
risdizione concorrente tra i Tribunali italiani e quelli indiani, almeno fino a
quando non verrà provato in dibattimento l’esistenza delle esimenti rilevate
dalla difesa dei militari italiani. Ha infine disposto che il Governo centrale in‑
diano nomini un Tribunale speciale per giudicare sulla vicenda.
Alcune osservazioni sono necessariamente da fare. Il ragionamento seguito
dalla Corte Suprema indiana mostra in qualche punto delle debolezze e delle
contraddizioni che ne evidenziano la natura politica e non strettamente giuridi‑
ca, come peraltro è naturale che avvenga al livello di giurisdizioni supreme e
costituzionali. Si afferma infatti che la giurisdizione non appartenga ai giudici
dello Stato del Kerala ma ciò contrasta con l’ordinamento interno indiano che
non prevede un sistema giudiziario federale a parte la Corte Suprema. Tale
contraddizione ha comportato la necessità per i giudici di New Delhi di chiede‑
re la costituzione di un Tribunale speciale.
Ancora, si osserva che la Corte Suprema indiana, pur riconoscendo l’applicabi‑
lità al caso oggetto del suo giudizio della Convenzione delle Nazioni Unite sul
diritto del mare che assicura la giurisdizione allo Stato di bandiera per le colli‑
sioni e gli incidenti in mare, afferma che la sparatoria in cui trovarono la morte
due pescatori indiani non può considerarsi un incidente di navigazione.
Infine, in ordine alla costituzione di un Tribunale speciale, deve rilevarsi che
esso viola i diritti fondamentali assicurati dalla Costituzione italiana e dalla
Convenzione europea sui diritti dell’Uomo (art. 6), le quali richiedono che il
giudice sia predeterminato per legge, ma non la Convenzione universale delle
Nazioni Unite, proclamata nel 1948, la quale richiede solo che il Tribunale sia
indipendente ed imparziale (art. 10).
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 prevede che
in caso di controversie tra Stati contraenti che non sia risolto bonariamente tra
loro possa esservi un tentativo di conciliazione e, in mancanza, che la questione
possa essere sottoposta all’esame o del Tribunale Internazionale sul diritto del
mare o della Corte internazionale di Giustizia (art. 287).
internazionale
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114
D i r i t t o
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Somalia ed anche in prossimità delle isole Minicoy costituen‑
ti una parte dell’archipelago di Lakshadweep. Nello sforzo di
contrastare la pirateria e di assicurare la libertà di navigazio‑
ne del naviglio mercantile e per la protezione delle navi bat‑
tenti bandiera italiana in navigazione in acque internazionali,
la Repubblica italiana approvò il decreto legge 107/2011,
convertito in legge dal Parlamento con il n. 130/11 del 2 ago‑
sto di quell’anno per proteggere le navi italiane dalla pirateria
in acque internazionali. L’art. 5 di tale normativa autorizza il
dispiegamento di contingenti della Marina Militare italiana
sul naviglio battente bandiera italiana per contrastare la cre‑
scente minaccia della pirateria sui mari. In applicazione di
tale normativa, un protocollo di intesa fu sottoscritto in data
11.10.2011 tra il Ministero della Difesa – Marina e la Confe‑
derazione Italiana degli Armatori (Confitarma). In applica‑
zione di tale protocollo i ricorrenti nn. 2 e 3, che sono anche
i ricorrenti nn. 1 e 2 nell’istanza di rilascio, furono dispiegati
insieme ad altri quattro, come “Team Latorre”, a bordo del
M/V Enrica Lexie il 6.2.2012, per proteggere la nave e quin‑
di imbarcati l’11.2.2012 da Galle in Sri Lanka. L’ordine di
dispiegamento fu inviato dallo Stato Maggiore della Marina
ai competenti Addetti militari a New Delhi, India, e Muscat,
Oman. Un cambiamento nei piani di sbarco, poiché il porto
programmato di sbarco fu spostato da Muscat a Gibuti, fu
inoltre comunicato ai competenti Addetti militari.
2. Mentre la nave soprannominata, con il distaccamento
militare di protezione a bordo, faceva rotta verso Gibuti il
15.2.2012, incrociò il battello da pesca indiano St. Anthony,
che si dichiara essere stato scambiato per un’imbarcazione
pirata, ad una distanza di circa 20,5 miglia nautiche al largo
delle coste dello Stato del Kerala. A seguito del fuoco prove‑
niente dalla nave italiana, due persone sul battello da pesca
due persone furono uccise. Dopo detto incidente, la nave
italiana proseguì la sua rotta prevista verso Gibuti. Quando
la nave aveva percorso circa 38 miglia nautiche in acque in‑
ternazionali verso Gibuti, ricevé un messaggio telefonico,
così come una e.mail, dal Centro di Coordinamento di Salva‑
taggio Marittimo di Mumbai, con la richiesta di ritorno al
Porto di Cochin per fornire assistenza all’inchiesta sull’inci‑
dente. Rispondendo al messaggio, la M/V Enrica Lexie mo‑
dificò la propria rotta e attraccò al Porto di Cochin il 16
febbraio 2012. Sul molo, il comandante della nave fu infor‑
mato che il FIR (First Information Report)2 n. 2 era stato
depositato presso il Circle Inspector di Neendakara, provin‑
cia di Kollam, Stato del Kerala, ai sensi del combinato dispo‑
sto degli art. 302 e 34 del Codice penale indiano in relazione
alla sparatoria che aveva portato alla morte di due pescatori
indiani. Il 19.2.12, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone,
ricorrenti nn. 2 e 3 nel ricorso principale, furono arrestate dal
Circle Inspector of Police, Stazione di Polizia Costiera di
Neendakara, provincia di Kollam, e sono in stato di custodia
giudiziaria da allora.
3. Il 20.2.12, i ricorrenti nn. 2 e 3 furono condotti dinan‑
zi al Chief Judicial Magistrate dal Circle Inspector che chiese
di trattenere gli accusati in custodia giudiziale.
4. I ricorrenti depositarono quindi il ricorso n. 4542 del
2012 dinanzi alla Kerala High Court, ai sensi dell’art. 226
della Costituzione, impugnando la giurisdizione dello Stato
del Kerala e del Circle Inspector of Police a registrare il FIR
e condurre l’investigazione e quindi di arrestare i ricorrenti e
di condurli dinanzi al Magistrato. I ricorrenti fecero istanza
di annullamento del FIR n. 2/2012 nel fascicolo del Circle
Ispector of Police di Neendakara, provincia di Kollam, poi‑
ché il medesimo era evidentemente privo di giurisdizione,
contrario alla legge, nullo ed invalido. I ricorrenti fecero
inoltre istanza perché fosse dichiarato che il loro arresto e la
loro detenzione e tutte le procedure intraprese contro di loro
fossero prive di giurisdizione, contrarie alla legge e quindi
invalidi. Un’ulteriore istanza fu fatta per il rilascio dei ricor‑
renti nn. 2 e 3.
5. Tra il 22 ed il 26.2.2012 alcuni parenti dei defunti in‑
tervennero nel giudizio e furono considerati come intervento‑
ri resistenti nn. 4, 5 e 6.
6. Durante la pendenza del ricorso, l’Ufficiale giudiziario
addetto al Tribunale di Roma, notificò al Ministro della Di‑
fesa italiano che il 24.2.2012 il procedimento n. 9463/12 era
iniziato a carico dei ricorrenti nn. 2 e 3 in Italia. Fu comuni‑
cato che la condanna per il reato di omicidio ai sensi dell’art.
575 del codice penale italiano è quella della reclusione per
almeno 21 anni.
7. Dopo la loro costituzione, l’Unione indiana e la sua
Agenzia Investigativa depositarono una dichiarazione con‑
giunta il 28.2.2012, per conto dell’Unione indiana e la Guar‑
dia Costiera, insieme al rapporto degli ufficiali saliti a bordo.
Il 5.3.12, il Console Generale depositò un ulteriore affidavit3
per conto della Repubblica Italiana depositando ulteriori
documenti a supporto della tesi che gli accusati avessero agi‑
to nelle loro funzioni di servizio. Nell’affidavit, il Console
Generale riaffermò che l’Italia avesse giurisdizione esclusiva
sui ricorrenti ed invocò l’immunità sovrana e funzionale.
8. La Kerala High Court ascoltò la questione e autorizzò
i ricorrenti a depositare ulteriori memorie scritte, le quali
furono regolarmente depositate il 2.4.2012, e quindi la High
Court riservò la sua decisione. Comunque, nel frattempo,
poiché la decisione sul ricorso non procedeva, i ricorrenti
depositarono un nuovo ricorso ai sensi dell’art. 32 della Co‑
stituzione indiana il 19.4.2012, fra l’altro, per sentir così
provvedere: i) dichiarare che ogni azione di tutti i resistenti in
relazione all’incidente de quo, ai sensi del codice di procedu‑
ra penale o di ogni altra legge indiana, siano illegali e ultra
vires e violativi degli artt. 14 e 21 della Costituzione indiana
e, ii) dichiarare che la detenzione continuata dei ricorrenti nn.
2 e 3 dallo Stato del Kerala è illegale ed ultra vires essendo
violativa dei principi di immunità sovrana e anche violativa
degli artt. 14 e 21 della Costituzione indiana e, iii) emettere
mandato e/o ogni altro possibile decreto, ordine o istruzione
ai sensi dell’art. 32 nel senso che l’Unione Indiana adotti
tutte le misure che possano essere necessarie per assicurare la
custodia dei ricorrenti nn. 2 e 3 e trasmettere la loro custodia
al ricorrente n. 1 (il Governo Italiano).
9. Durante la pendenza di tale ricorso dinanzi a questa
Corte, la Polizia di Stato del Kerala depositò l’atto di accusa
2Primo rapporto informativo – equiparabile alla denuncia delle forze di polizia
in Italia
3 Dichiarazione giurata
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g e n n a i o • f e b b r a i o
contro i ricorrenti nn. 2 e 3 il 18.5.2012 ai sensi degli artt.
302, 307 e 427, nonché dell’art. 34 del codice penale indiano
e dell’art. 3 della legge per la soppressione delle attività illeci‑
te contro la sicurezza della navigazione marittima e degli
impianti sulla piattaforma continentale del SUA Act 2002. Il
29.5.12, il dotto giudice monocratico della Kerala High Court
rigettò il ricorso n. 4542/12 per due motivi. Il dotto giudice
monocratico ha ritenuto che, ai sensi della notificazione n. SO
67/E del 27.8.1981, l’applicabilità dell’intero codice penale
indiano sia stata estesa alla Zona Economica Esclusiva e che
la giurisdizione territoriale dello Stato del Kerala non fosse
limitata alle sole 12 miglia nautiche. Il dotto giudice mono‑
cratico ha ritenuto inoltre che, ai sensi del SUA Act, lo Stato
del Kerala ha giurisdizione fino a 200 miglia nautiche dalle
coste indiane, ricadenti nella Zona Economica Esclusiva
dell’India.
10. Dolendosi di tale decisione della Kerala High Court,
i ricorrenti depositarono l’istanza di rilascio n. 20370/12,
impugnando il provvedimento di rigetto del ricorso dinanzi
alla Kerala High Court.
11. Come sarà evidente da quanto è stato narrato sopra,
le questioni e le istanze proposte dal ricorso dinanzi alla Ke‑
rala High Court n. 4542/12, l’istanza di rilascio n. 20370/12
sono le medesime di quelle sollevate nel ricorso n. 135/12.
2 0 1 3
115
ni di detto codice nonché del codice di procedura penale,
siano state estese anche alla Zona Contigua con l’ulteriore
conseguenza che la Polizia del Kerala sia stata investita della
giurisdizione per investigare sull’incidente ai sensi di dette
disposizioni, non sono condivisibili5. Lo Stato del Kerala non
ha giurisdizione sulla Zona Contigua ed anche se le disposi‑
zioni del codice penale indiano fossero estese alla Zona Con‑
tigua, ciò non investirebbe lo Stato del Kerala dei poteri di
investigazione e, quindi, di persecuzione del reato. Cosa, in
effetti, è il risultato di detta estensione è che l’Unione indiana
estende l’applicazione del codice penale indiano e del codice
di procedura penale alla Zona Contigua, che autorizza l’Unio‑
ne indiana a prendere cognizione, investigare e perseguire le
persone che commettono qualunque infrazione alle leggi do‑
mestiche all’interno della Zona Contigua. In ogni caso, di
tale potere non è investito lo Stato del Kerala.
85. Le difese formulate nell’interesse dell’Unione indiana,
così come dello Stato del Kerala, che poiché il battello da
pesca, il St. Antony, è salpato per la sua spedizione di pesca
da Neendakara nella Provincia di Kollam e qui ha fatto ritor‑
no dopo l’incidente di fuoco, lo Stato di Kerala avesse titolo
per investigare sull’incidente, è parimenti insostenibile, poiché
la causa dell’azione per la registrazione del FIR accadde fuori
della giurisdizione della Polizia del Kerala, ai sensi dell’art.
154 del codice di procedura penale6. Il FIR avrebbe potuto
82. Due questioni, entrambe relative alla giurisdizione,
sono decisive per questo caso. Mentre la prima questione ri‑
guarda la giurisdizione della Polizia di Stato del Kerala nell’in‑
vestigazione sull’incidente di fuoco sui due pescatori indiani
a bordo del loro battello di pesca, la seconda questione, di
importanza maggiore, nell’ambito del diritto internazionale
pubblico, riguarda la questione se i Tribunali della Repubbli‑
ca Italiana ovvero i Tribunali indiani abbiano la giurisdizione
per perseguire gli accusati.
83. Proponiamo di esaminare la giurisdizione della Polizia
di Stato del Kerala di investigare la materia prima di affron‑
tare la seconda e più importante questione, la cui decisione
dipende da numerosi fattori. Uno di tali fattori è la localizza‑
zione dell’incidente.
84. E’ pacifico che l’incidente avvenne ad una distanza di
circa 20,5 miglia nautiche dalla costa dello Stato del Kerala,
membro dell’Unione indiana. L’incidente, quindi, avvenne non
nelle acque territoriali prospicienti lo Stato del Kerala, ma
all’interno della Zona Contigua, sulla quale la Polizia di Sta‑
to dello Stato del Kerala non ha ordinariamente giurisdizione.
Le difese svolte per conto dell’Unione indiana e dello Stato del
Kerala secondo cui con l’estensione dell’art. 188 A del codice
penale indiano alla Zona Economica Esclusiva4, le disposizio‑
4 Le Zone Economiche Esclusive sono così definite dall’art. 55 della Convenzio‑
ne delle Nazioni Unite sulla Legge del Mare (UNCLOS 1982): Article 55 Spe‑
cific legal regime of the exclusive economic zone The exclusive economic zone
is an area beyond and adjacent to the territorial sea, subject to the specific legal
regime established in this Part, under which the rights and jurisdiction of the
coastal State and the rights and freedoms of other States are governed by the
relevant provisions of this Convention. Article 56 Rights, jurisdiction and duties
of the coastal State in the exclusive economic zone 1. In the exclusive eco‑
nomic zone, the coastal State has: (a) sovereign rights for the purpose of explor‑
ing and exploiting, conserving and managing the natural resources, whether
living or non-living, of the waters superjacent to the seabed and of the seabed
and its subsoil, and with regard to other activities for the economic exploitation
and exploration of the zone, such as the production of energy from the water,
currents and winds;
(b) jurisdiction as provided for in the relevant provisions of this Convention with
regard to: (i) the establishment and use of artificial islands, installations and
structures; (ii) marine scientific research; (iii) the protection and preservation of
the marine environment; (c) other rights and duties provided for in this Conven‑
tion. 2. In exercising its rights and performing its duties under this Convention
in the exclusive economic zone, the coastal State shall have due regard to the
rights and duties of other States and shall act in a manner compatible with the
provisions of this Convention. 3. The rights set out in this article with respect to
the seabed and subsoil shall be exercised in accordance with Part VI.
5 L’art. 73 UNCLOS 1982 delimitano chiaramente i poteri degli Stati costieri:
Article 73 Enforcement of laws and regulations of the coastal State 1. The
coastal State may, in the exercise of its sovereign rights to explore, exploit,
conserve and manage the living resources in the exclusive economic zone, take
such measures, including boarding, inspection, arrest and judicial proceedings,
as may be necessary to ensure compliance with the laws and regulations ad‑
opted by it in conformity with this Convention. 2. Arrested vessels and their
crews shall be promptly released upon the posting of reasonable bond or other
security. 3. Coastal State penalties for violations of fisheries laws and regulations
in the exclusive economic zone may not include imprisonment, in the absence
of agreements to the contrary by the States concerned, or any other form of
corporal punishment. 4. In cases of arrest or detention of foreign vessels the
coastal State shall promptly notify the flag State, through appropriate channels,
of the action taken and of any penalties subsequently imposed.
6 Codice di procedura penale indiano 1973, art. 154. Information in cognizable
cases. (1) Every information relating to the commission of a cognizable offence,
if given orally to an officer in charge of a police station, shall be reduced to
writing by him or under his direction, and be read over to the informant; and
every such information, whether given in writing or reduced to writing as
aforesaid, shall be signed by the person giving it, and the substance thereof shall
be entered in a book to be kept by such officer in such form as the State Govern‑
ment may prescribe in this behalf. (2) A copy of the information as recorded
under sub-section (1) shall be given forthwith, free of cost, to the informant.
(3) Any person, aggrieved by a refusal on the part of an officer in charge of a
police station to record the information referred to in sub-section (1) may send
the substance of such information, in writing and by post, to the Superintendent
of Police concerned who, if satisfied that such information discloses the com‑
mission of a cognizable offence, shall either investigate the case himself or direct
an investigation to be made by any police officer Subordinate to him, in the
manner provided by this Code, and such officer shall have all the powers of an
officer in charge of the police station in relation to that offence.
internazionale
... omissis...
116
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
essere depositato presso la Stazione di Polizia di Neendakara,
ma ciò non investiva la Polizia del Kerala della giurisdizione
per investigare. E’ l’Unione indiana che ha titolo per legge di
iniziare l’investigazione e di portarla avanti.
86. Inoltre, in questo caso, deve tenersi in conto un altro
aspetto che riguarda il diritto internazionale pubblico, poiché
i due accusati nel caso sono fanti di marina appartenenti alla
“Royal Italian Navy” (la Corte ha compiuto un evidente la‑
spus calami), imbarcati sulla M/V Enrica Lexie e, si afferma,
in esecuzione di un atto legislativo e di un accordo intercorso
tra la Repubblica italiana da un lato e la Confederazione
degli Armatori italiani (Confitarma) dall’altro. Ciò porta la
controversia ad un diverso livello nel quale sono coinvolti i
Governi dei due Paesi. La Repubblica italiana ha infatti, sin
dall’immediatezza, asserito il proprio diritto di perseguire i
due fanti di marina e ha già iniziato il procedimento contro
di loro in Italia ai sensi delle disposizioni penali vigenti che
possono portare ad una condanna a 21 anni di reclusione se
gli accusati fossero ritenuti colpevoli. In tale scenario, lo Sta‑
to del Kerala, come unità di uno Stato federale, non avrebbe
alcuna autorità di perseguire gli accusati che sono al di là
della giurisdizione della unità statale. Come ricordato più
sopra, l’estensione dell’art. 188 A CPP indiano alla Zona
Marittima Esclusiva, della quale la Zona Contigua è parte,
non estende l’autorità della Polizia di Stato del Kerala oltre le
acque territoriali, che è il limite della sua operatività.
87. Cosa allora rende differente questo caso da ogni altro
che possa riguardare casi simili, così da meritare l’esclusione
dall’applicabilità della Sezione 2 del codice penale indiano?
Per l’opportunità della citazione, si riporta la Sezione 2 del
codice penale indiano: “2. Punizione dei crimini commessi
all’interno dell’India. Ogni persona potrà essere punita ai
sensi di questo codice soltanto per ogni atto o omissione
contraria alle previsioni di esso di cui si sarà reso colpevole
all’interno dell’India.
88. La risposta alla questione posta è l’intervento dell’UN‑
CLOS 1982 che stabilisce la cornice legale applicabile per la
lotta alla pirateria ed agli assalti armati in mare, così come
per altre attività in mare. Detta convenzione che fu sottoscrit‑
ta dall’India nel 1982 e ratificata il 29 giugno 1995, ingloba
il diritto marittimo ed è rafforzata da numerose susseguenti
risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite.
89. Prima che UNCLOS venisse in esistenza, il diritto
marittimo vigente in India, è stato la Legge sulle acque terri‑
toriali, la piattaforma continentale, la zona economica esclu‑
siva e altre zone marittime del 1976, che affermava la giuri‑
sdizione del Governo Centrale sulle acque territoriali, le zone
contigue e la zona economica esclusiva.
90. Oltre a ciò deve considerarsi l’art. 11 della convenzio‑
ne di Ginevra sul diritto marittimo del 1958, e l’interpretazio‑
ne dell’espressione “incidente di navigazione” usata in tale
trattato, nella sua applicazione alla sparatoria cui fanno ricor‑
so i ricorrenti nn. 2 e 3 da bordo della M/V Enrica Lexie.
91. E’ altresì di qualche rilevanza nei fatti di questa causa,
la risoluzione 1897 del 2009, adottata dal Consiglio di Sicu‑
rezza della Nazioni Unite del 30 novembre 2009, laddove,
riconoscendo la minaccia della pirateria, particolarmente al
largo delle coste della Somalia, le Nazioni Unite rinnovarono
il loro appello agli Stati ed alle organizzazioni regionali che
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F O R E N S E
ne avessero la capacità di farlo, di prendere parte alla lotta
contro la pirateria e gli assalti armati al largo delle coste del‑
la Somalia in particolare.
92. Le norme della Legge sulle zone marittime del 1976
tengono conto delle acque territoriali, della zona contigua,
della piattaforma continentale e della zona economica esclu‑
siva. La sezione 7 di tali disposizioni regola la zona economi‑
ca esclusiva indiana e prevede che la medesima sia un’area
oltre ed adiacente alle acque territoriali che si estende fino a
200 miglia nautiche dal punto più vicino della costa del Ke‑
rala. E’ chiarissimo quindi che la Zona Contigua sia all’inter‑
no della Zona economica esclusiva indiana e che le leggi che
governano la Zona economica esclusiva governino l’incidente
che si verifichi all’interno della Zona Contigua, come defini‑
ta dalla sezione 57 della citata legge. Le previsioni dell’UN‑
CLOS sono in armonia e non in conflitto con le previsioni
della legge sul diritto marittimo del 1976, a tal proposito.
L’art. 33 della Convenzione riconosce e descrive la Zona
Contigua di una nazione estendendola fino a 24 miglia nau‑
tiche dalla linea dalla quale l’ampiezza delle acque territoria‑
li è misurata8. Ciò è in piena armonia con le previsioni della
legge del 1976. Similarmente, gli articoli 56 e 57 descrivono
i diritti, la giurisdizione ed i doveri dello Stato costiero nella
zona economica esclusiva e l’ampiezza della sua estensione a
20 (rectius 200) miglia nautiche dalla linea dalla quale l’am‑
piezza delle acque territoriali è misurata. Questa previsione è
anche consonante con la legge del 1976. L’area di differenza
tra le previsioni della legge sulle zone marittime del 1976 e la
convenzione sta nell’art. 97 della convenzione che è relativa
alla giurisdizione penale in materia di collisione o di ogni
altro incidente di navigazione.
93. Il caso che ci occupa non riguarda alcuna collisione
tra il vascello italiano ed il battello da pesca indiano. Comun‑
7 The Territorial Waters, Continental Shelf, Exclusive Economic Zone and
Other Maritime Zones Act, 1976, Section 5. Contiguous zone of India. (1) The
contiguous zone of India (hereinafter referred to as the contiguous zone) is an
area beyond and adjacent to the territorial waters and the limit of the contigu‑
ous zone is the line every point of which is at a distance of twenty-four nautical
miles from the nearest point of the baseline referred to in sub-section (20 of
section 3. (2) Notwithstanding anything contained in sub-section (1), the Cen‑
tral Government may, whenever it considers necessary so to do having regard
to International Law and State practice, alter, by notification in the Official
Gazette, the limit of the contiguous zone. (3) No notification shall be issued
under sub-section (2) unless resolutions approving the issue of such notification
are passed by both Houses of Parliament. (4) The Central Government may
exercise such powers and take such measures in or in relation to the contiguous
zone as it may consider necessary with respect to,- (a) The security of India, and
(b) Immigration, sanitation, customs and other fiscal matters. (5) The Central
Government may, by notification in the Official Gazette,- (a) Extend with such
restrictions and modifications as it thinks fit, any enactment, relating to any
matter referred to in clause (a) or clause (b) of sub-section (4), for the time
being in force in India or any part thereof, to the contiguous zone, and (b) Make
such provisions as it may consider necessary in such notification for facilitating
the enforcement of such enactment. And any enactment so extended shall have
effect as if the contiguous zone is a part of the territory of India.
8 Il testo dell’art. 33 così dispone: Article 33Contiguous zone 1. In a zone
contiguous to its territorial sea, described as the contiguous zone, the
coastal State may exercise the control necessary to: (a) prevent infringement
of its customs, fiscal, immigration or sanitary laws and regulations within
its territory or territorial sea; (b) punish infringement of the above laws and
regulations committed within its territory or territorial sea. 2. The contiguous
zone may not extend beyond 24 nautical miles from the baselines from which
the breadth of the territorial sea is measured.Appare dunque evidente che lo
Stato costiero possa esercitare solo i controlli per perseguire le violazioni
alle norme doganali, fiscali, di immigrazione o sanitarie commesse all’inter‑
no delle proprie acque territoriali.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
que, deve verificarsi se una sparatoria possa rientrare nella
definizione di “incidente di navigazione”. Inoltre, nel caso di
specie, come sostenuto dai ricorrenti, l’incidente rientrerebbe
nell’art. 100 della Convenzione che dispone che tutti gli Stati
coopereranno al massimo per la repressione della pirateria in
alto mare o in ogni altro luogo all’esterno della giurisdizione
di ogni Stato. Se l’art. 97 della convenzione si applica ai fatti
di questo caso, allora, nessun procedimento penale o discipli‑
nare può aversi contro il comandante o altro personale in
servizio sulla nave, tranne che dinanzi alle autorità ammini‑
strative o giudiziarie sia dello Stato di bandiera9 sia dello
Stato di cui tale personale sia cittadino. L’art. 97.3 prevede in
termini chiari che nessun arresto o detenzione della nave,
anche come misura necessaria per le indagini, potrà essere
ordinata da alcuna autorità diversa da quelle dello Stato di
bandiera. In questo caso , la nave italiana, M/V Enrica Lexie
batteva bandiera italiana. Deve ricordarsi che il St. Anthony
non batteva una bandiera indiana quando l’incidente ebbe
luogo. A mio parere, tale circostanza non è rilevante in questo
momento e potrebbe esserlo se le disposizioni dell’art. 100
dell’UNCLOS 1982 fossero invocate.
94. La successiva questione che si pone è se l’incidente di
fuoco possa essere definito un incidente di navigazione. Il
contesto nel quale l’espressione è stata usata nell’art. 97 della
Convenzione10 sembra indicare che lo stesso si riferisca ad un
incidente che avvenga nel corso della navigazione, fra i quali
la collisione fra due navi è il principale incidente. Un inciden‑
te di navigazione come inteso nel citato articolo, non può, a
mio parere, riguardare un atto criminale in qualsiasi circo‑
stanza. Ma in quali circostanze l’incidente abbia avuto luogo
potrà essere una difesa in un procedimento penale che possa
aver luogo, in cui tale posizione giuridica sia accettata da
entrambi i paesi che abbiano iniziato in procedimento penale
contro i due fanti di marina. Anche la previsione dell’art. 100
UNCLOS11 potrà essere usata al medesimo scopo. Se gli ac‑
cusati abbiano agito sull’erroneo presupposto che il battello
da pesca indiano fosse una nave pirata e ciò abbia provocato
la sparatoria, ebbene questa è una questione di merito che
9 L’art. 92 UNCLOS 1982 stabilisce che la giurisdizione appartiene alla Stato
sotto la cui bandiera navighi la nave: Article 92 Status of ships 1. Ships shall
sail under the flag of one State only and, save in exceptional cases expressly
provided for in international treaties or in this Convention, shall be subject to
its exclusive jurisdiction on the high seas. A ship may not change its flag during
a voyage or while in a port of call, save in the case of a real transfer of owner‑
ship or change of registry. 2. A ship which sails under the flags of two or more
States, using them according to convenience, may not claim any of the nation‑
alities in question with respect to any other State, and may be assimilated to a
ship without nationality.
10 L’art. 97 UNCLOS 1982 così recita: Article 97 Penal jurisdiction in matters of
collision or any other incident of navigation 1. In the event of a collision or any
other incident of navigation concerning a ship on the high seas, involving the
penal or disciplinary responsibility of the master or of any other person in the
service of the ship, no penal or disciplinary proceedings may be instituted against
such person except before the judicial or administrative authorities either of the
flag State or of the State of which such person is a national. 2. In disciplinary
matters, the State which has issued a master’s certificate or a certificate of
competence or licence shall alone be competent, after due legal process, to
pronounce the withdrawal of such certificates, even if the holder is not a na‑
tional of the State which issued them. 3. No arrest or detention of the ship, even
as a measure of investigation, shall be ordered by any authorities other than
those of the flag State.
11 L’art. 100 UNCLOS 1982: Article 100 Duty to cooperate in the repression
of piracy All States shall cooperate to the fullest possible extent in the repres‑
sion of piracy on the high seas or in any other place outside the jurisdiction
of any State.
2 0 1 3
117
potrà essere stabilita durante il dibattimento. Se la difesa
formulata dai ricorrenti nn. 2 e 3 fosse accolta, allora solo la
previsione dell’art. 100 della Convenzione diverrebbe appli‑
cabile ai fatti di causa.
95. La decisione nel caso Lotus su cui si appoggiava il
dotto procuratore generale aggiunto potrebbe essere utilizza‑
ta se le previsioni di cui all’art. 97 della Convenzione rientras‑
sero nei fatti di questo caso. Come già indicato prima, l’espres‑
sione “incidente di navigazione” nell’art. 97 non può essere
estesa agli atti criminosi, quali l’uccisione di due pescatori
indiani a bordo di un battello indiano da pesca, sebbene, esso
non battesse bandiera indiana. Quindi, l’art. 100 della Con‑
venzione potrebbe essere applicato, se e quando la versione
della difesa di timore di un attacco privato sia accolto dal
giudice del dibattimento. Nel caso Lotus la questione relativa
all’estensione della giurisdizione penale di uno Stato fu por‑
tato innanzi alla Corte Internazionale Permanente di Giustizia
nel 1927, In tale caso, relativo alla collisione tra la nave a
vapore francese “Lotus” e la nave a vapore turca “Boz-Kourt”
a causa della quale quest’ultima affondò provocando la mor‑
te di otto cittadini turchi. Una volta giunta a Costantinopoli,
il Governo turco iniziò un procedimento penale sia contro il
comandante della nave turca sia contro l’ufficiale di guardia
a bordo della Lotus. Essendo stati entrambi condannati ad
una pena detentiva, il Governo francese chiese il giudizio
della Corte internazionale sulla base della carenza di giuri‑
sdizione della Turchia sugli atti commessi in mare aperto da
uno straniero a bordo di una nave straniera, la cui bandiera
dava alla Francia la giurisdizione esclusiva sulla questione.
Essendo stata la questione devoluta al giudizio della Corte
Internazionale Permanente di Giustizia, fu deciso che la Tur‑
chia non avesse agito in maniera contraria al diritto interna‑
zionale poiché l’atto commesso a bordo della Lotus produsse
i suoi effetti sulla Boz-Kourt battente bandiera turca. Nella
nona edizione de Il Diritto internazionale di Oppenheim,
nella quale è stato riportato il giudizio in questione, la que‑
stione della nazionalità delle navi in mare aperto è stata ri‑
portata al paragrafo 287, dove è stato osservato dal dotto
autore che l’ordinamento giuridico delle acque internazionali
è basato primariamente sulle regole del diritto internazionale
che richiede che ogni nave che navighi in mare aperto possie‑
da la nazionalità e batta la bandiera di uno Stato, alla cui
legge la nave e le persone a bordo di essa sono assoggettate ed
in generale, titolare della giurisdizione esclusiva su di loro.
Nel paragrafo 291 del citato testo, l’autore definisce il fine
della giurisdizione della bandiera come il mezzo attraverso
cui la giurisdizione in acque internazionali dipenda dalla
bandiera marittima sotto cui il naviglio navighi, poiché nes‑
suno Stato può estendere la propria giurisdizione territoriale
in acque internazionali. Naturalmente, il sopramenzionato
principio trova limitazione nel diritto di inseguimento12 , che
12 L’art. 111 UNCLOS 1982 assicura il Right of hot pursuit: secondo il Diziona‑
rio dei termini militari ed associati edito dal Dipartimento della Difesa degli
Stati Uniti (Dictionary of Military and Associated Terms. US Department of
Defense, 2005), l’inseguimento cominciato all’interno del territorio nazionale,
delle acque territoriali, delle acque di arcipelaghi o nello spazio aereo naziona‑
le può proseguire senza interruzione oltre il limite del territorio, delle acque
territoriali o dello spazio aereo. Lo Hot pursuit sussiste inoltre se l’inseguimen‑
to comincia all’interno delle zone contigue od economica esclusiva o sulla
piattaforma continentale dello Stato inseguitore, prosegua senza interruzione,
internazionale
Gazzetta
118
q u e s t i o n i
è un’eccezione alla esclusività della giurisdizione dello Stato
della bandiera sulle navi in acque internazionali, nei casi ri‑
conosciuti.
96. Queste considerazioni ci portano ad esaminare un
diverso profilo riguardante il concetto di sovranità nazionale
nell’ambito del Diritto Internazionale Pubblico. L’esercizio
della sovranità somma l’esercizio di tutti i diritti che un so‑
vrano esercita sui suoi sudditi e sui suoi territori, fra i quali
l’esercizio della giurisdizione penale nell’ambito del diritto
penale costituisce parte essenziale. In un’area nella quale un
Paese esercita la propria giurisdizione le sue leggi prevarranno
su altre norme in caso di conflitto fra due (differenti giurisdi‑
zioni ndt). D’altro canto, uno Stato può avere diritti sovrani
su un’area che cessano di fronte ad una sovranità non piena,
come nel caso presente, dove per le previsioni sia della Legge
sulle Zone marittime del 1976 sia dell’UNCLOS 1982, la
Zona Economica Esclusiva è estesa fino a 200 miglia nautiche
dalla linea di misurazione delle acque territoriali. Sebbene le
disposizioni della sezione 188 A IPC13 siano state estese alla
Zona Economica Esclusiva, le stesse sono estese alle aree in‑
dicate come “aree designate” dalla Legge che si limitano alle
installazioni ed alle isole artificiali, create allo scopo di esplo‑
rare e sfruttare le risorse naturali marine e sottomarine fino
al limite delle 200 miglia nautiche, area comprendente la
piattaforma continentale di un paese. Comunque, la Zona
Economica Esclusiva continua ad essere parte delle acque
internazionali sulla quale non può essere esercitata da alcuna
nazione la propria sovranità.
97. E’ mia opinione che, poiché l’India è una delle firma‑
tarie, essa sia obbligata al rispetto delle disposizioni di UN‑
CLOS 1982, ed alla sua applicazione se non vi sia conflitto
con il diritto interno. In tale contesto, entrambi i Paesi posso‑
no dover sottostare alle disposizioni dell’art. 94 della Conven‑
zione che regola i doveri dello Stato di bandiera e, in partico‑
lare, del comma 7 che dispone che ogni Stato dovrà aprire
un’inchiesta su ogni evento in mare o incidente di navigazio‑
ne in acque internazionali che abbia coinvolto una nave bat‑
tente la propria bandiera ed abbia provocato la perdita di
vite o lesioni gravi a cittadini di un altro Stato. E’ anche pre‑
visto che lo Stato di bandiera e l’altro Stato cooperino nella
condotta di ogni indagine condotta dall’altro Stato in tali
eventi o incidenti di navigazione.
98. I principi enunciati nel caso LOTUS (supra) sono sta‑
ti in qualche modo resi meno cogenti dall’art. 97 di UNCLOS
1982. Inoltre, come osservato nel volume International Law
di Starke, al quale si è riferito Mr. Salve14, la giurisdizione
territoriale penale si fonda su vari principi i quali stabiliscono
e sia stato intrapreso sulla base della violazione dei diritti per la cui protezione
la zona sia stata delimitate. Il diritto di inseguimento cessa non appena la nave
o la forza ostile inseguita entra nel territorio, nelle acque territoriali del proprio
Stato o di uno Stato terzo. Il diritto di inseguimento come definito, non implica
di per sé l’uso della forza.
13 Codice indiano di procedura penale, art. 188: Offence committed outside India.
When an offence is committed outside India- (a) By a citizen of India, whether
on the high seas or elsewhere; or (b) By a person, not being such citizen, on any
ship or aircraft registered in India. He may be dealt with in respect of such
offence as if it had been committed at any place within India at which he may
be found. Provided that, notwithstanding anything in any of the preceding
sections of this Chapter, no such offence shall be inquired into or tried in India
except with the previous sanction of the Central Government.
14 Difensore dei ricorrenti italiani
Gazzetta
F O R E N S E
che, per questioni di opportunità, i reati devono essere perse‑
guiti dagli Stati il cui ordine sociale sia stato più da vicino
colpito. Comunque, è stato anche osservato che alcune navi
di Stato e le forze armate di Stati stranieri possono godere di
un grado di immunità dalla giurisdizione territoriale di una
nazione.
99. Ciò mi porta alla questione della applicabilità delle
disposizioni del Codice penale indiano al caso in esame, alla
luce delle sezioni 2 e 4 di esso. Naturalmente, l’applicabilità
della sezione 4 non è più in discussione in questo caso sulla
base della concessione formulata per conto dello Stato del
Kerala nel procedimenti sommari innanzi alla Kerala High
Court. Comunque, la sezione 2 del Codice penale indiano
come sopra citata dispone altrimenti. Senza dubbio, l’inciden‑
te ebbe luogo all’interno della Zona Contigua sulla quale, sia
per le disposizioni della Legge sulle Zone Marittime del 1976
e per UNCLOS 1982, l’India ha titolo per esercitare i propri
diritti di sovranità. Comunque, come deciso da questa Corte
nel caso Aban Loyd Chiles Offshore Ltd15, citato da Mr.Salve,
il comma 4 della sezione 7 dispone che l’Unione Indiana abbia
solo diritti sovrani limitati all’esplorazione, sfruttamento,
conservazione e gestione delle risorse naturali, sia viventi che
non viventi così come per la produzione di energia dalle maree,
venti e correnti, che non possono essere equiparati con i dirit‑
ti di sovranità sulle dette aree nella Zona Economica Esclusi‑
va. Esso assicura, inoltre, all’Unione Indiana l’esercizio di
altri diritti ancillari che soltanto vestono l’Unione Indiana di
diritti sovrani ma non diritti di sovranità sulla Zona Econo‑
mica Esclusiva. Detta posizione è rinforzata dalle sezioni 6 e
7 della Legge sulle Zone marittime del 1976, che dispone che
la sovranità dell’India si estende alle sue acque territoriali
mentre la posizione è differente rispetto alla Zona Economica
Esclusiva. Non posso accettare la difesa di Mr. Banerji16 che
al contrario afferma che l’effetto dell’art. 59 della Convenzio‑
ne permette agli Stati di rivendicare la propria giurisdizione
oltre le aree specificamente indicate dalla Convenzione.
100. Ciò, quindi, che si comprende dalla precedente di‑
scussione è che mentre l’India è titolata sia per il diritto inter‑
no che per il diritto internazionale pubblico ad esercitare la
propria sovranità fino a 24 miglia nautiche dalla linea di
costa sulla quale è calcolata l’estensione delle acque territo‑
riali, essa può esercitare diritti sovrani all’interno della Zona
Economica Esclusiva solo entro certi fini. Essendosi verifica‑
to l’incidente di fuoco dalla nave italiana sul battello indiano
all’interno della Zona Economica Esclusiva, l’Unione indiana
ha titolo per perseguire i due fanti di marina italiani ai sensi
del sistema giudiziario penale prevalente nel Paese. Comun‑
que, lo stesso è soggetto alle disposizioni dell’art. 100 UN‑
CLOS 1982. Concordo con Mr. Salve che la “Dichiarazione
sui Principi di Diritto Internazionale relativi alle relazioni
familiari e alla cooperazione fra gli Stati in accordo con la
Carta delle Nazioni Unite” sia solo a livello del Governo
centrale o federale e non possa essere oggetto di un procedi‑
mento iniziato da un governo provinciale o statale.
15 Aban Loyd Chiles Offshore Limited vs. Union of India & Anr. [(2008) 11 SCC
439]
16 Additional Solicitor General: Procuratore generale aggiunto, che compare,
ovviamente, per l’Unione indiana
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F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
2 0 1 3
119
17 Article 27 Criminal jurisdiction on board a foreign ship 1. The criminal juris‑
diction of the coastal State should not be exercised on board a foreign ship
passing through the territorial sea to arrest any person or to conduct any inves‑
tigation in connection with any crime committed on board the ship during its
passage, save only in the following cases: (a) if the consequences of the crime
extend to the coastal State; (b) if the crime is of a kind to disturb the peace of
the country or the good order of the territorial sea; (c) if the assistance of the
local authorities has been requested by the master of the ship or by a diplo‑
matic agent or consular officer of the flag State; or (d) if such measures are
necessary for the suppression of illicit traffic in narcotic drugs or psychotropic
substances. 2. The above provisions do not affect the right of the coastal State
to take any steps authorized by its laws for the purpose of an arrest or investi‑
gation on board a foreign ship passing through the territorial sea after leaving
internal waters. 3. In the cases provided for in paragraphs 1 and 2, the coastal
State shall, if the master so requests, notify a diplomatic agent or consular of‑
ficer of the flag State before taking any steps, and shall facilitate contact between
such agent or officer and the ship’s crew. In cases of emergency this notification
may be communicated while the measures are being taken. 4. In considering
whether or in what manner an arrest should be made, the local authorities shall
have due regard to the interests of navigation. 5. Except as provided in Part XII
or with respect to violations of laws and regulations adopted in accordance
with Part V, the coastal State may not take any steps on board a foreign ship
passing through the territorial sea to arrest any person or to conduct any inves‑
tigation in connection with any crime committed before the ship entered the
territorial sea, if the ship, proceeding from a foreign port, is only passing through
the territorial sea without entering internal waters.
internazionale
101. Mentre, quindi, ritenendo che lo Stato del Kerala non
abbia giurisdizione per investigare sull’incidente, sono anche
del parere che fino al momento che sarà provato che le dispo‑
sizioni dell’art. 100 dell’UNCLOS 1982 si applichino alla
fattispecie in esame, è l’Unione Indiana che ha giurisdizione
a procedere con l’investigazione ed il processo dei ricorrenti
nn. 2 e 3. L’Unione indiana è quindi autorizzata, previa con‑
sultazione con il Presidente della Corte Suprema dell’India, a
costituire una Corte speciale per processare questo caso e per
disporre sullo stesso secondo la Legge sulle Zone marittime
del 1976, il codice penale indiano, il codice di procedura
penale e, soprattutto, UNCLOS 1982, laddove non ci sia
conflitto tra il diritto interno e UNCLOS 1982. Il procedi‑
mento pendente innanzi al Chief Judicial Magistrate di Kol‑
lam, sarà riassunto presso la Corte speciale da costituirsi nei
termini di questa sentenza e ci si aspetta che ciò avvenga
sollecitamente. Ciò non impedirà ai ricorrenti di invocare le
disposizioni di cui all’art. 100 UNCLOS 1982, fornendo
prove in supporto di ciò, laddove la questione della giurisdi‑
zione dell’Unione indiana di investigare l’incidente e per i
Tribunali in India di perseguire gli accusati possa essere ri‑
considerata. Se si trovasse che sia la Repubblica italiana che
la Repubblica indiana avessero giurisdizione concorrente
sulla questione, allora le istruzioni qui date continuerebbero
ad essere efficaci.
102. Deve essere chiaro che le osservazioni formulate in
questa sentenza si riferiscono solo alla questione della giurisdi‑
zione prima della produzione di prove e una volta che le prove
siano state prodotte, ciò aprirà ai ricorrenti la possibilità di
risollevare la questione della giurisdizione innanzi al giudice
del dibattimento che avrà la libertà di riconsiderare la questio‑
ne alla luce delle prove che potranno essere prodotte dalle
parti e secondo diritto. Deve essere anche chiaro che niente
nella presente pronuncia debba essere utilizzato come prece‑
dente in detto riesame, se tale richiesta fosse formulata17.
Questioni
[ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ]
Se la sospensione condizionale della pena sia estensibile alle pene accessorie,
e se la decorrenza degli effetti delle pene accessorie sia riferibile al momento
del passaggio in giudicato della sentenza comminativa delle pene accessorie,
o, a quello successivo, della loro concreta esecuzione, con particolare
riguardo all’ipotesi della “sospensione-perdita del diritto elettorale”. / Myriam Di Domenico
Il sub ingresso nella titolarità della concessione demaniale marittima
attribuisce la qualità di nuovo cessionario
o di concessionario ab origine? / Anna Laura Magliulo e Mary Musto 123
125
127
questioni
Nel caso in cui un’Amministrazione dello Stato sia parte nel processo esecutivo
a chi e in che modo vanno notificati il titolo esecutivo,
il precetto e l’atto di pignoramento presso terzi? / Marianna Falco
F O R E N S E
●
DIRITTO CIVILE La notifica del titolo esecutivo, del
precetto e dell’atto di pignoramento
nei confronti di un’Amministrazione
dello Stato
Nel caso in cui
un’Amministrazione dello
Stato sia parte nel processo
esecutivo a chi e in che
modo vanno notificati il titolo
esecutivo, il precetto e l’atto di
pignoramento presso terzi?
● Marianna Falco
Dottoressa in Giurisprudenza
Per affrontare la problematica che
qui ci occupa, giova richiamare in linee
generali la nozione e i presupposti della
fase dell’esecuzione.
Com’è noto, il processo di esecuzio‑
ne è finalizzato alla emissione di misure
esecutive dirette a soddisfare la pretesa
del creditore.
Accade sovente, infatti, che il titola‑
re di un diritto di credito, sebbene in
possesso di una sentenza favorevole,
ottenuta a seguito di un ordinario pro‑
cesso di cognizione, non veda soddisfat‑
to il suo diritto se il debitore non vi dia
spontanea esecuzione.
In tali casi, il creditore, per ottenere
la soddisfazione del suo diritto, sebbene
coattivamente, deve esperire l’azione
esecutiva.
Mediante il processo esecutivo, il
creditore può realizzare il suo credito
procedendo ad esecuzione forzata sui
beni del debitore. Difatti, come previsto
dall’art. 2740 c.c. “il debitore risponde
dell’adempimento delle obbligazioni
assunte con tutti i suoi beni, presenti e
futuri”.
Una peculiare caratteristica del pro‑
cesso di esecuzione è rappresentata
dalla presenza di alcuni atti che, pur
potendosi sempre qualificare come atti
esecutivi, devono, tuttavia, essere com‑
piuti prima dell’inizio del processo
stesso in quanto atti preliminari o pre‑
paratori.
g e n n a i o • f e b b r a i o
2 0 1 3
Tali atti, con maggior impegno
esplicativo, hanno la funzione di prean‑
nunciare al debitore il proposito del
creditore di procedere ad esecuzione
forzata, consentendogli in tal modo da
un lato, di adempiere la propria obbli‑
gazione, evitando l’esecuzione e le rela‑
tive spese, dall’altro, la possibilità di
conoscere gli elementi dell’esecuzione
preannunciata e di contestarne, even‑
tualmente, la legittimità.
Questi atti preliminari sono previsti
dall’art. 479 c.p.c., il quale al 1° comma
sancisce “se la legge non dispone altri‑
menti, l’esecuzione forzata deve essere
preceduta dalla notificazione del titolo
in forma esecutiva e del precetto”.
I successivi due commi del medesi‑
mo articolo stabiliscono che la notifica
di tali atti deve essere fatta alla parte
personalmente.
Quando parte, invece, è una Ammi‑
nistrazione dello Stato, in linea genera‑
le, l’art. 144 c.p.c, nel richiamare le di‑
sposizioni di leggi speciali, prescrive che
la notificazione debba essere effettuata
presso gli uffici dell’Avvocatura dello
Stato; il secondo comma dello stesso
articolo, stabilisce che “fuori dei casi
previsti nel comma precedente, le noti‑
ficazioni si fanno direttamente presso
l’amministrazione destinataria, a chi li
rappresenta nel luogo in cui risiede il
giudice innanzi al quale si procede ”.
Orbene, occorre capire nello speci‑
fico, in un processo di esecuzione, a chi
notificare titolo esecutivo e precetto
quando parte sia una Amministrazione
dello Stato; aliis verbis, occorre com‑
prendere se la notifica debba pervenire
presso gli uffici dell’Avvocatura dello
Stato o piuttosto presso la stessa Am‑
ministrazione statale.
Il capo III del r.d. n. 1611 del 1933
all’art. 11 stabilisce “tutte le citazioni,
i ricorsi e qualsiasi altro atto di oppo‑
sizione giudiziale, nonché le opposizio‑
ni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di
giudizi che si svolgono innanzi alle
giurisdizioni amministrative o speciali,
od innanzi agli arbitri, devono essere
notificati alle Amministrazioni dello
Stato presso l’ufficio dell’Avvocatura
dello Stato nel cui distretto ha sede
l’Autorità giudiziaria innanzi alla qua‑
le è portata la causa, nella persona del
Ministro competente”.
Come chiaramente si evince dal
sopra citato art. 11 T.U., la notifica
presso l’Avvocatura, riguarda gli atti
123
introduttivi di giudizi ed i successivi
atti del processo. In ambo i casi, quindi,
trattasi di atti che vedono lo Stato come
parte del giudizio.
Ne consegue che gli atti che pur es‑
sendo collegati ad un processo, non han‑
no quella natura, vanno notificati diret‑
tamente presso le Amministrazioni.
Si può quindi ritenere che ciò valga
anzitutto per gli atti esterni al processo
anche se ad esso finalizzati, quali ap‑
punto il titolo esecutivo ed il precetto in
quanto atti preparatori del processo
esecutivo, ma non atti del processo
esecutivo.
Più nel particolare, la notifica della
sentenza quale titolo esecutivo al fine di
avviare l’esecuzione forzata va effettua‑
ta nei confronti dell’Amministrazione
debitrice, come peraltro si desume, oltre
che dai principi generali, dall’art. 14, 1°
comma, del d.l. 31/12/96, n. 669, con‑
vertito in l. 28/02/97 n. 30.
Si può ritenere che la notifica presso
l’Avvocatura ha un senso piuttosto per
il decorso del termine breve per l’impu‑
gnazione, mentre invece, la sentenza in
quanto titolo esecutivo parificato anche
a titoli esecutivi non giudiziali e notifi‑
cata quale atto prodromico all’esecuzio‑
ne, vede più ragionevolmente come di‑
retto destinatario l’Ufficio debitore, e
ciò tanto più quando si tratti di senten‑
za passata in giudicato.
Alla stessa conclusione è pervenuto,
tra gli altri, il Tribunale di Napoli Se‑
zione V bis con sentenza emessa in data
22/12/2012, nella quale si legge che la
notificazione del titolo esecutivo, pro‑
pedeutica all’esecuzione forzata, deve
essere effettuata direttamente presso
l’Amministrazione destinataria, giusto
il combinato disposto degli art. 479, 2°
comma, e 144 2° comma del codice di
rito, argomentando che “la notifica di
tale atto non dà immediatamente luogo
ad un processo nel quale l’Amministra‑
zione possa o debba costituirsi a mezzo
dell’Avvocatura”(ex multis, Cass.
05/01/2000 n. 53 e Cass. 06/03/2000,
n. 2501).
Quanto alla notifica dell’atto di
precetto, la conclusione per la quale,
trattandosi di atto meramente prepara‑
torio, non giudiziale del processo esecu‑
tivo, di natura stragiudiziale va notifi‑
cato all’Amministrazione e non all’Av‑
vocatura dello Stato, ha ricevuto l’aval‑
lo della Suprema Corte, la quale con
sentenza n. 19512 del 19/12/2003 ha
questioni
Gazzetta
124
affermato il principio per cui il creditore
dell’amministrazione pubblica, fornito
di titolo esecutivo, ha l’onere di notifica‑
re il precetto, atto di natura non proces‑
suale, direttamente all’ufficio ammini‑
strativo debitore, ai sensi degli art. 480,
ultimo comma, e 144 c.p.c., e non pres‑
so l’Avvocatura dello Stato, ex art. 11
r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611, norma
inapplicabile in quanto attinente esclu‑
sivamente agli atti giudiziali (nè l’invali‑
dità della notificazione può ritenersi
sanabile ex art. 156 c.p.c., concernente
soltanto gli atti del processo). Ne conse‑
gue che il precetto notificato presso
l’Avvocatura dello Stato, cioè a soggetto
diverso dal suo destinatario, deve rite‑
nersi del tutto inefficace - in quanto non
conoscibile da quest’ultimo - e, quindi,
inidoneo anche al fine dell’interruzione
della prescrizione ex art. 2943 c.c.
Tornando alla normativa generale
in materia di esecuzione, gli art. 481 e
482 del c.p.c., stabiliscono che non
prima di dieci giorni e non oltre novan‑
ta giorni dalla notificazione del precet‑
to, deve essere effettuato il pignoramen‑
to, con il quale si dà inizio all’espropria‑
zione forzata (art. 491 c.p.c).
Il pignoramento, com’è noto, può
avere ad oggetto beni determinati o
appartenenti a terzi. Con riferimento a
quest’ultimo tipo, l’art. 543 c.p.c. stabi‑
lisce che il pignoramento si esegue me‑
diante atto notificato personalmente al
terzo e al debitore.
Anche in tal caso, punctum dolens
è stabilire, nelle controversie che vedono
lo Stato come terzo, a chi notificare
l’atto di pignoramento, se presso la
singola Amministrazione interessata o
piuttosto presso gli uffici dell’Avvoca‑
tura dello Stato.
Come spesso accade in questioni
interpretative di questa portata, si ri‑
scontrano in giurisprudenza orienta‑
menti diametralmente opposti tra lo‑
ro.
Invero, in un primo momento, la
giurisprudenza maggioritaria era orien‑
tata a ritenere che tale atto dovesse es‑
sere notificato all’Amministrazione,
fondando tale convincimento sulla cir‑
costanza che la citazione del terzo non
desse luogo ad un procedimento di na‑
tura contenziosa, ritenendo il terzo
mero “testimone” del giudizio, il quale
avrebbe assunto la qualità di parte solo
a seguito di mancata dichiarazione o di
sua contestazione.
q u e s t i o n i
In tal senso, Cass. n. 798 del
19/02/1981 “Nel caso di pignoramento
di somma depositata dal debitore pres‑
so un ufficio postale, poiché l’ammini‑
strazione in questione non assume la
qualità di soggetto del processo esecu‑
tivo, non è richiesta una sua rappresen‑
tanza processuale per mezzo dell’Avvo‑
catura dello Stato e deve essere chiama‑
to a rendere la dichiarazione di cui
all’art. 543 c.p.c. il dirigente dell’ufficio
stesso e non il ministro delle poste pres‑
so il competente ufficio dell’Avvocatu‑
ra dello Stato. Diversamente, la rappre‑
sentanza processuale dell’Avvocatura
dello Stato si rende necessaria allorché
- a seguito di mancata dichiarazione o
di contestazione della stessa - s’instau‑
ra “su istanza di parte” un processo di
cognizione (art. 548 c.p.c.) e l’ammini‑
strazione - terzo pignorato - ne assume
la qualità di parte.” (di pari contenuto,
tra le altre, Cass. civ. n. 983 del
01/02/91).
Attualmente il contrasto giurispru‑
denziale, che vedeva prevalere la solu‑
zione poc’anzi menzionata, appare es‑
sersi risolto capovolgendo il precedente
orientamento.
È opportuno riportare il principio
di diritto enunciato dalla Suprema Cor‑
te nella recente sentenza n. 17349 del
2011, nella quale si legge “In tema di
espropriazione presso terzi, quando
esecutata sia un’Amministrazione dello
Stato, l’atto di pignoramento va notifi‑
cato presso gli uffici dell’Avvocatura
dello Stato nel cui distretto ha sede
l’autorità giudiziaria dinnanzi alla qua‑
le è portata la causa. E’ nulla la notifi‑
ca effettuata presso gli uffici dell’Am‑
ministrazione. ”
Si è quindi ritenuto che sebbene
l’atto di pignoramento presso terzi non
dia vita ad un giudizio di cognizione, il
quale, più precisamente, si apre in caso
di mancata dichiarazione o contestazio‑
ne del debito ex art. 548 c.p.c., esso
vada notificato presso l’Avvocatura
dello Stato (dovendosi considerare atto
giudiziale). Il giudizio di cognizione che
si apre ricorrendo i presupposti dell’art.
548 c.p.c, infatti, si conclude con una
sentenza idonea al giudicato (in tal
senso, Cass. civ. n. 25037 del 2008).
Pertanto, essendo l’atto di pignora‑
mento atto idoneo, in astratto, a dare
inizio ad un processo ordinario, esso va
notificato con l’osservanza del disposto
dell’art. 11 del r.d. n. 1611/1933.
Gazzetta
F O R E N S E
Infine, per completezza, va precisa‑
to che la nullità di cui sopra, non riguar‑
da l’atto di pignoramento, ma solo la
sua notificazione.
Quest’ultima è in primo luogo rin‑
novabile previa assegnazione di un ter‑
mine da parte del giudice dell’esecuzio‑
ne, inoltre, la relativa nullità è soggetta
alla sanatoria di cui agli artt. 156-160
c.p.c.
F O R E N S E
●
DIRITTO penale
Pene accessorie e sospensione condi‑
zionale della pena
Se la sospensione condizionale
della pena sia estensibile
alle pene accessorie, e se
la decorrenza degli effetti
delle pene accessorie sia
riferibile al momento del
passaggio in giudicato della
sentenza comminativa delle
pene accessorie, o, a quello
successivo, della loro concreta
esecuzione, con particolare
riguardo all’ipotesi della
“sospensione-perdita del diritto
elettorale”.
● Myriam Di Domenico
Dottoressa in Giurisprudenza
La questione in oggetto trae spunto
da una recentissima sentenza della Corte
d’Appello di Napoli, I Sezione civile, n.
99/2013.
La sospensione condizionale della
pena è un istituto giuridico disciplinato
nel nostro ordinamento dagli artt. 163168 del codice penale, nell’ambito delle
cause di estinzione del reato.
Consiste nell’ordine dato dal giudice
con la sentenza di condanna, che l’esecu‑
zione della pena inflitta, qualora la con‑
danna non superi i due anni di reclusione,
resti sospesa per cinque anni (in caso di
delitti) o per due anni (in caso di contrav‑
venzioni). L’effetto estintivo del reato,
atto a spiegarne la collocazione normati‑
va, si verifica alla fine del periodo di so‑
spensione se non sopravvengono cause di
revoca della sospensione stessa, che com‑
portano l’esecuzione della pena “sospe‑
sa”.
Quanto alla sorte delle pene accesso‑
rie, l’art 166, comma 1, c.p. dispone che
“la sospensione condizionale della pena
si estende alle pene accessorie”.
Tuttavia ciò non vale per tutte le pene
accessorie, in particolare l’art. 166 c.p.
g e n n a i o • f e b b r a i o
2 0 1 3
non trova applicazione per la sospensio‑
ne-perdita del diritto elettorale.
In realtà la bontà di tale affermazione
dipende dal tipo di qualificazione attri‑
buita alla sospensione-perdita del diritto
elettorale.
In particolare occorre distinguere il
caso in cui quest’ultima venga qualifica‑
ta come effetto extrapenale della condan‑
na, da quello in cui venga qualificata
come conseguenza dell’interdizione dai
pubblici uffici, e quindi pena accesso‑
ria.
La non applicabilità della disciplina
prevista dall’art.166 c.p., e valevole in
generale per tutte le pene accessorie, ri‑
sulterà esclusa in forza di disposizioni
normative differenti.
L’art. 113 D.P.R. 361/67 stabilisce
che “Le condanne per reati elettorali,
ove venga dal Giudice applicata la pena
della reclusione, producono sempre la
sospensione dal diritto elettorale e l’in‑
terdizione dai pubblici uffici. Se la con‑
danna colpisce il candidato, la privazio‑
ne dal diritto elettorale e di eleggibilità è
pronunziata per un tempo non minore
di cinque anni e non superiore a dieci”.
Pertanto, la sospensione-perdita del
diritto elettorale, così come prevista
dall’art 113 D.P.R 361/67, deve essere
giustamente qualificata non come pena
accessoria, bensì come effetto extrapena‑
le della condanna.
Si può quindi affermare che il legisla‑
tore, nel contemplare quale conseguenza
autonoma della condanna la sospensio‑
ne-perdita del diritto elettorale, ha inteso
prevedere un effetto extrapenale della
condanna che mantenesse la propria ef‑
ficacia indipendentemente dalla sorte
della pena accessoria dell’interdizione dai
pubblici uffici. Tale sospensione, quindi,
continuerebbe a sussistere anche quando
l’interdizione dai pubblici uffici dovesse
cessare per una causa ad essa esclusiva.
E’ chiara allora l’irrilevanza rispetto
alla sospensione-perdita del diritto elet‑
torale dei principi afferenti le pene acces‑
sorie (Tribunale di Napoli, III sezione
penale, ordinanza del 26.10.2012).
Se invece consideriamo la privazione
del diritto elettorale come conseguente
all’interdizione dai pubblici uffici, non vi
è dubbio che si tratti di una pena acces‑
soria.
A questo punto, l’estensibilità della
sospensione condizionale della pena alla
conseguente pena accessoria, astratta‑
mente possibile ex art.166 c.p., così come
125
modificato dalla legge 7.2.1990 n. 19
che, come visto, dispone che “la sospen‑
sione condizionale della pena si estende
alle pene accessorie”, risulta invece esclu‑
sa dalla deroga prevista dall’art. 2, 2°
comma, D.P.R. 223/67 come sostituito
dall’art.1 L. 16/92.
Tale norma prevede che sono privati
del diritto elettorale, tra gli altri, “i con‑
dannati a pena che importa l’interdizio‑
ne dai pubblici uffici” e “coloro che sono
sottoposti all’interdizione temporanea
dai pubblici uffici per tutto il tempo
della sua durata” prevedendo infine che
“la sospensione condizionale della pena
non ha effetto ai fini della privazione del
diritto di elettorato”.
Si può quindi affermare che tale legge
indica esplicitamente che si tratta di una
disposizione che pone un’eccezione al
principio generale secondo il quale la
sospensione condizionale della pena si
estende anche alle pene accessorie (Tri‑
bunale di Napoli VII sezione penale,
provvedimento del 31.12.2010).
Una volta risolta in senso positivo la
questione di cui sopra, possiamo affron‑
tare la seconda delle questioni che ci
siamo posti; cioè quale sia il momento da
cui cominciano a decorrere gli effetti
delle pene accessorie, sempre avendo ri‑
guardo, in particolare, all’ipotesi della
sospensione del diritto elettorale.
Ci troviamo di fronte a due possibili‑
tà. La prima, sarebbe quella di ancorare
la decorrenza degli effetti delle pene ac‑
cessorie al passaggio in giudicato della
sentenza comminativa delle pene stesse.
La seconda, quella di far riferimento, ai
fini della decorrenza degli effetti delle
pene accessorie, alla loro concreta attua‑
zione.
La questione ha avuto origine dalla
differenza tra esecutività della sentenza,
intesa come astratta possibilità di porre
in essere le attività materiali che danno
esecuzione alla sentenza, (che si ha nel
momento del passaggio in giudicato), ed
effettiva esecuzione della stessa, intesa
come concreta applicazione del provve‑
dimento stesso.
Rappresenta principio pacifico in
giurisprudenza che gli effetti della pena
accessoria della sospensione-perdita del
diritto elettorale sono automatici ed im‑
mediati a decorrere dalla data del passag‑
gio in giudicato della sentenza che la
commina (Corte di appello di Roma sent.
n. 329/11 e Corte di appello di Napoli
sent. n. 3799/11).
questioni
Gazzetta
126
Quanto affermato, si evince chiara‑
mente dalla lettura dell’art. 2 comma 2,
del D.P.R. 223 del 1967, come sostituito
dall’art. 1 della L. 16/1/1992 n. 15, per
il quale “le condanne penali producono
la perdita elettorale solo quando sono
passate in giudicato. La sospensione
condizionale della pena non ha effetto
ai fini della privazione del diritto
dell’elettorato” .
Si può quindi ritenere che gli effetti
della cessazione o della sospensione del
diritto elettorale cominciano a decorrere
sin dal momento del passaggio in giudi‑
cato della sentenza, a nulla rilevando
altri momenti quali, ad esempio, quelli
concernenti attività di competenza del
P.M.
E’ vero, infatti, secondo il dettato
dell’art. 662 comma 1, c.p.p., che il Pub‑
blico Ministero, ai fini dell’esecuzione
delle pene accessorie, deve trasmettere
l’estratto della sentenza di condanna agli
organi competenti a provvedere agli
adempimenti esecutivi conseguenti, indi‑
cando le pene accessorie che devono es‑
sere eseguite, ma è altrettanto vero che
l’inottemperanza di questa attività da
parte del P.M., non impedisce agli orga‑
ni competenti di provvedere agli adem‑
pimenti esecutivi delle pene accessorie
loro spettanti.
Applicando ciò alla sospensioneperdita del diritto elettorale, viene da sè
che se il P.M è tenuto a trasmettere
l’estratto della sentenza comminativa di
detta pena accessoria alla commissione
elettorale circondariale nel cui ambito
territoriale rientra il Comune nell’ana‑
grafe della cui popolazione il condanna‑
to è iscritto, è altrettanto vero che in
mancanza di tale adempimento del P.M.,
la commissione elettorale circondariale
“può”e “deve”cancellare dalle liste elet‑
torali il soggetto a cui è stata applicata
tale pena accessoria.
Ciò è confermato dallo stesso art.
662 comma 1, c.p.p. laddove dispone che
ai fini dell’esecuzione delle pene accesso‑
rie il P.M. deve trasmettere l’estratto
della sentenza di condanna “indicando”
le pene accessorie che devono essere ese‑
guite, non già “ordinarne” l’esecuzione.
Ciò induce a ritenere che gli adempi‑
menti ex art. 662 c.p.p., sono sì doverosi
per il P.M., ma non necessari ai fini
dell’esecuzione delle pene accessorie co‑
me la sospensione del diritto elettorale.
Pertanto, tale pena accessoria non
solo diventa esecutiva e quindi può esse‑
q u e s t i o n i
re eseguita, ma comincia ad essere ese‑
guita il giorno stesso a partire dal quale
la sentenza che l’ha inflitta è divenuta
irrevocabile.
In tal senso si è recentemente espres‑
sa la suindicata sentenza della Corte
d’Appello di Napoli, I Sezione civile n.
99/2013.
Tutto ciò risulta già in precedenza
affermato dalla Corte di cassazione con
ordinanza della seconda sezione penale
7 febbraio/24 giugno 1966 n. 391.
Si tratta di un lontano ma ancora
attuale precedente riguardante la pena
accessoria dell’interdizione dai pubblici
uffici ma pacificamente estensibile a
quella della sospensione del diritto elet‑
torale. Seconda la massima ufficiale (in
CED Cass., arch. penale, rv.101877): “la
pena accessoria dell’interdizione dai
pubblici uffici si attua per effetto del
giudicato, e quindi con decorrenza dal
giorno in cui la sentenza di condanna
diviene irrevocabile, un’attività propria‑
mente esecutiva della relativa pronuncia
non è concepibile, perché nessun atto
ulteriore potrebbe togliere o comunque
modificare quella capacità che il con‑
dannato ha già perduto per effetto della
sentenza. Per conseguenza, la sospensio‑
ne dell’esecuzione delle pene accessorie,
disposta dal giudice dell’esecuzione in
sede di incidente, deve considerarsi nul‑
la siccome abnorme, e di un simile
provvedimento non può tenersi conto
nel computare la durata della pena ac‑
cessoria, dovendosi in tale computo
comprendere anche il periodo durante il
quale l’esecuzione è stata in apparenza
sospesa”.
Tuttavia, non si possono non men‑
zionare avvisi contrari.
Nel suindicato provvedimento del
Tribunale di Napoli, Terza sezione pena‑
le, del 26.10.2012, si giunge alla conclu‑
sione opposta, sempre partendo dal det‑
tato dell’art. 662 c.p.p. Il principio che se
ne desume è il seguente: “Occorre distin‑
guere tra esecutività della sanzione, la
quale si ha nel momento del passaggio
in giudicato della sentenza, ed effettiva
esecuzione della stessa, soltanto a far
data dalla quale può essere computato il
termine di durata della sanzione acces‑
soria […] D’altra parte, appare del tutto
ragionevole ritenere che intanto possa
dirsi in esecuzione la sanzione accessoria
in quanto la sentenza (irrevocabile) ven‑
ga portata a conoscenza delle autorità e
degli organi amministrativi interessati al
Gazzetta
F O R E N S E
fine dell’adozione dei provvedimenti
consequenziali idonei a rendere effettivi
gli effetti della condanna”.
Si tratta, però, di una giurisprudenza
fortemente minoritaria.
Può osservarsi che aderire a tale ulti‑
ma posizione potrebbe costituire un pe‑
ricolo per alcuni principi di rango costi‑
tuzionale, primo tra tutti l’art. 51 comma
1 della Costituzione, il quale riconosce e
garantisce ad ogni cittadino il libero
accesso alle cariche elettive in condizioni
di uguaglianza secondo requisiti stabiliti
dalla legge.
A tale proposito, una consolidata
giurisprudenza della Corte Costituzio‑
nale ha affermato che le norme contenen‑
ti cause di ineleggibilità, derogando al
principio costituzionale della generalità
del diritto di elettorato passivo, “sono di
stretta interpretazione e devono comun‑
que rigorosamente contenersi entro i
limiti di quanto sia ragionevolmente
indispensabile per garantire la soddisfa‑
zione delle esigenze di pubblico interesse
cui sono preordinate. Per l’art. 51 della
Costituzione, l’eleggibilità è la regola,
l’ineleggibilità l’eccezione” (sent. n.
46/1969 e da ultimo, sentt. nn. 344/1993,
141/1996, 306/2003).
Pertanto, il diritto di elettorato pas‑
sivo va inquadrato nella sfera dei diritti
inviolabili sanciti dall’art. 2 della Costi‑
tuzione, con la conseguenza che “restri‑
zioni del contenuto di un diritto invio‑
labile sono ammissibili solo nei limiti
indispensabili alla tutela di altri interes‑
si di rango costituzionale, e ciò in base
alla regola della necessità e della ragio‑
nevole proporzionalità di tale limitazio‑
ne” (sent. n. 141/1996 e giurisprudenza
ivi richiamata).
Possiamo concludere affermando che
appare principio pacifico che gli effetti
della pena accessoria della sospensioneperdita del diritto elettorale sono auto‑
matici ed immediati a decorrere dalla
data del passaggio in giudicato della
sentenza che la commina. Ciò perché il
diritto di elettorato è costituzionalmente
garantito e può subire limitazioni nei
ristretti limiti previsti dalla legge.
Di conseguenza, affidare la decor‑
renza degli effetti della pena accessoria
ai provvedimenti amministrativi e alla
data della loro eventuale adozione costi‑
tuirebbe una violazione del principio
dell’affidamento e della certezza della
pena, comprimendo oltremodo il diritto
di elettorato.
F O R E N S E
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Il subingresso nella concessione
demaniale marittima
Il sub ingresso nella titolarità
della concessione demaniale
marittima attribuisce la qualità
di nuovo cessionario o di
concessionario ab origine?
Anna Laura Magliulo e Mary Musto
Dottoresse in Giurisprudenza
La questione trae spunto da una
recente pronuncia del Tar Campania –
Napoli, sez. VII, che con ordinanza n.
17 79 / 2 01 2 , d e p o s it at a i n d at a
21.12.2012, ha respinto il ricorso pro‑
posto da una società contro l’Autorità
Portuale di Napoli per l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia esecu‑
tiva, del provvedimento con cui si di‑
sponeva la decadenza di una licenza di
concessione del 2012 costituente voltu‑
ra di una precedente licenza del 2009, a
firma del Presidente dell’Autorità di
Porto di Napoli.
La questione sottoposta al vaglio del
Giudice amministrativo ha riguardato
l’acquisizione da parte della Società, che
chiameremo X, di un ramo d’azienda di
altra Società, che chiameremo Y, consi‑
stente nel complesso di beni organizza‑
ti per l’esercizio di attività di ormeggio
natanti da diporto, per la cui attività era
stata rilasciata la suindicata licenza.
Nel contratto di cessione si conveni‑
va, altresì, il subentro della Società
cessionaria anche nel rapporto di affi‑
damento della gestione dei pontili, in‑
tercorso tra la cedente ed una terza so‑
cietà, che chiameremo Z.
A tal fine l’Autorità Portuale, effet‑
tuata l’attività istruttoria, rilasciava
apposita autorizzazione al subingresso.
Successivamente la Capitaneria di
Porto di Napoli provvedeva al sequestro
di “n. 1 (uno) pontile adibito all’ormeg‑
gio di unità di diporto”, oggetto della
summenzionata concessione, in quanto
riteneva che la Società Z, applicando
g e n n a i o • f e b b r a i o
2 0 1 3
arbitrariamente quanto disposto dall’art.
45 bis del Codice della Navigazione,
avesse stipulato un contratto di locazio‑
ne con terzi avente ad oggetto attività
primarie (anziché secondarie, come ri‑
chiesto dal menzionato articolo).
A seguito della violazione dell’art.
45 bis, l’Autorità Portuale di Napoli
dichiarava la decadenza della ricorrente
dalle concessioni del 2012 e del 2009,
ai sensi dell’art. 47, lett. e), f), del Codi‑
ce della Navigazione “per l’abusiva so‑
stituzione di altri nel godimento del
bene demaniale”.
Sulla base di tale provvedimento, la
Società X ricorreva dinanzi al Tar, lamen‑
tando l’infondatezza del medesimo, in
quanto l’illegittimo godimento del bene
da parte dei terzi non poteva, in alcun
modo, a sé imputarsi, ma unicamente
alla Società cedente e alla Società Z.
Per meglio comprendere la questio‑
ne in oggetto occorre, in primis, esami‑
nare il procedimento concessorio d’uso
dei beni demaniali.
Quest’ultimo si articola essenzial‑
mente in quattro fasi: la fase introdut‑
tiva, la fase istruttoria, la fase di pub‑
blicità e la fase di decisione.
La prima si sostanzia nella presenta‑
zione delle domande da parte degli aspi‑
ranti alla concessione ed ha, dunque,
carattere propulsivo o di iniziativa.
La fase istruttoria si caratterizza,
invece, in una serie di atti finalizzati
all’oggettiva rilevazione di quei fatti
materiali, in concorso dei quali il prov‑
vedimento di concessione può valida‑
mente venire in essere.
La fase di pubblicità riguarda, esclu‑
sivamente, le concessioni di particolare
importanza “per entità o per scopo” e
si realizza mediante affissione nell’albo
del Comune dove è situato il bene e
nella Gazzetta Ufficiale.
Infine, la fase della decisione che
consistente nel rilascio o meno della
concessione.
La concessione d’uso del bene dema‑
niale dà luogo di regola alla costituzio‑
ne di diritti reali, in quanto il potere
attribuito al concessionario si estrinseca
direttamente sulla cosa che ne forma
l’oggetto, e può essere fatto valere erga
omnes, sia pure nei limiti imposti dalla
natura e dalla funzione del bene.
Se quindi nei confronti degli altri
privati la posizione del concessionario è
configurabile come diritto soggettivo
perfetto, nei confronti della P.A. essa si
127
concreta sempre in un diritto condizio‑
nato.
L’Amministrazione, infatti, non è
mai vincolata a mantenere in vita la
concessione, nemmeno per il tempo pre‑
visto, proprio perché, perseguendo essa
finalità di pubblico interesse, le esigenze
sopravvenute possono rendere necessario
l’esercizio del potere di decadenza o re‑
voca della concessione stessa.
“Tale esercizio costituisce attività
essenzialmente discrezionale, impor‑
tando valutazioni e apprezzamento di
pubblici interessi, ed ha per conseguen‑
za l’affievolimento ad interesse legitti‑
mo del diritto del concessionario”
(Cass. sez. III, 18.08.1988, n. 4969).
Il titolo concede le potestà previste
dalla legge a favore dell’Amministrazio‑
ne cui è correlato, di guisa che le facoltà
disciplinate permangono nella discre‑
z i o n a l it à d e l l’a m m i n i s t r a z io n e .
Infatti, anche quando si intenda affida‑
re a terzi l’intero compendio dei beni
demaniali concessi, come nel caso di
specie, il legislatore prevede più che mai
la necessità del previo assenso della
Amministrazione concedente.
Al riguardo deve essere premesso
che la concessione di beni demaniali
marittimi, in quanto rilasciata intuitu
personae deve essere, di regola, eserci‑
tata personalmente dal concessionario
(art. 30, comma 1, regol. nav. maritt.) e
detto esercizio deve riferirsi alla totalità
degli usi, opere e facoltà, che ne forma‑
no oggetto (art. 24, comma 1, regol.) nei
limiti di spazio e tempo risultanti
dall’atto.
Costituiscono delle deroghe ai prin‑
cipi finora enunciati sia l’istituto del
subingresso, oggetto della fattispecie al
vaglio dei Giudici amministrativi, sia
l’ipotesi prevista dall’articolo 45 bis del
codice della navigazione che consente al
concessionario di affidare a terzi l’inte‑
ro compendio dei beni demaniali con‑
cessi, sempre con la previa autorizzazio‑
ne dell’autorità concedente, finalizzata
a verificare se il soggetto terzo possegga
le qualità specifiche che lo rendono
idoneo a tale esercizio.
Prima della modifica apportata dal‑
la legge n.88/2001, a differenza dell’ipo‑
tesi del sub ingresso, la sostituzione
prevista dall’articolo 45 bis cod. nav.
non poteva avvenire ad libitum, ogni
qual volta il concessionario lo desideras‑
se ed il concedente lo autorizzasse, ma
soltanto in casi eccezionali. Inoltre era
questioni
Gazzetta
128
prevista un’ulteriore limitazione: la ge‑
stione del terzo non poteva protrarsi,
anche qui al contrario di quanto avviene
nel subingresso, per l’intero arco tempo‑
rale di validità della concessione, ma
solo per periodi di tempo determinati.
Il secondo periodo della norma esa‑
minata prevede una ulteriore ipotesi di
affidamento, da parte del concessiona‑
rio, dell’esercizio della concessione al
terzo, condizionata anch’essa all’auto‑
rizzazione del concedente ma non sog‑
getta alle limitazioni del caso eccezio‑
nale e del limite temporale.
In questo secondo caso, infatti, il
limite è diverso e di carattere contenu‑
tistico: non possono essere affidati alla
gestione del terzo tutti i beni e le utilità,
che derivano dal provvedimento conces‑
sorio, ma soltanto “le attività seconda‑
rie nell’ambito della concessione” stes‑
sa (T.A.R. Friuli-Venezia Giulia,
26.02.2000, n.151).
Attualmente le due possibili ipotesi
previste dall’articolo 45 bis cod.nav.
non divergono più così tanto rispetto al
passato, né si differenziano eccessiva‑
mente dalla fattispecie del subingresso.
Ciò che emerge è senz’altro il rilievo in
base al quale, l’autorizzazione del con‑
cedente costituisce, in tutti i casi, la
condizione necessaria ed indispensabile
per la sussistenza di quel complesso di
situazioni giuridiche correlate all’uso
del demanio marittimo (Cass., sez. I,
04.05.1998, n.4402).
La peculiare posizione giuridica
del concessionario del bene demaniale
marittimo, inevitabilmente correlata
alle singolari caratteristiche giuridiche
di quest’ultimo, si palesa ulteriormen‑
te nell’ipotesi oggetto della presente
disamina, sottoposta al vaglio della
q u e s t i o n i
sez. VII del Tar Campania – Napoli.
Il Giudice di prime cure, esaminata
la questione, ha ritenuto non fondato il
ricorso, affermando che il subingresso
da parte della Società ricorrente nella
concessione del 2009 (a seguito dell’ac‑
quisto del ramo di azienda del comples‑
so di beni della Società Y) ha integrato
un fenomeno di successione particolare
nella posizione del concessionario, con
conseguente assunzione di tutte le ob‑
bligazioni di quest’ultimo.
La statuizione assunta dal Giudi‑
cante si conforma ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, in base
al quale “il subingresso nella concessio‑
ne di area demaniale marittima, di cui
all’art. 46, Codice della Navigazione,
costituisce un fenomeno di successione
particolare nella posizione giuridica del
concessionario, con la permanenza del
primitivo rapporto amministrativo,
malgrado la liberazione del concessio‑
nario cedente dalle obbligazioni na‑
scenti a suo carico dal provvedimento
concessorio; e non dà, quindi, luogo ad
una novazione soggettiva del rapporto
concessorio” (ex multis, Cass. sez. II,
18.11.1974, n. 3684).
Come noto, il subingresso nella ti‑
tolarità della concessione attribuisce la
qualità non già di “nuovo concessiona‑
rio”, bensì quella di primigenio conces‑
sionario o concessionario ab origine.
Pertanto, lo stesso non produce un
effetto purgativo degli eventuali debiti e/o
inadempimenti commessi dal primo con‑
cessionario, ma determina un’automatica
imputazione degli stessi al subentrante
che, dunque, sarà responsabile anche dei
fatti e/o delle omissioni verificatesi ante‑
riormente al rilascio dell’autorizzazione
dell’amministrazione concedente.
Gazzetta
F O R E N S E
D’altronde, ragionando altrimenti
si perverrebbe ad un irrimediabile pre‑
giudizio dell’interesse pubblico sotteso
alla corretta utilizzazione del bene
demaniale.
Va rilevato, infatti, che qualora si
ritenesse archiviato il complesso di ob‑
blighi o di inadempimenti posti in esse‑
re dal concessionario cedente in virtù
del subingresso nella titolarità di una
concessione, si perverrebbe da un lato
ad un’assenza sostanziale di responsa‑
bilità in capo al soggetto cedente, e
dall’altro all’acquisto della medesima
da parte del soggetto cessionario, ma
solo a partire dal momento del suben‑
tro. Ciò si tradurrebbe nel paradosso in
base al quale l’insieme di situazioni
giuridiche sorte in una fase precedente
il momento del subingresso verrebbero
del tutto svuotate di tutela.
Pertanto, qualora si ritenesse possi‑
bile porre nel nulla gli eventuali debiti
e inadempimenti imputabili al soggetto
concessionario per il solo fatto della
cessione di un ramo d’azienda, accom‑
pagnata dal subingresso nella titolarità
della concessione, si giungerebbe all’ine‑
vitabile proliferarsi del ricorso allo
strumento della cessione/concessione
come espediente per realizzare un tota‑
le svincolo da responsabilità sorte in
capo al soggetto cedente, di cui lo stes‑
so intende liberarsi.
Ovviamente è da ritenersi che tale
interpretazione non privi il sub conces‑
sionario della tutela civilistica che il
nostro ordinamento riconosce ai terzi
in buona fede: questi potrebbe agire nei
riguardi del proprio dante causa ai fini
risarcitori nell’ipotesi in cui gli illeciti
pregressi gli siano stati dal medesimo
sottaciuti.
Recensioni
L’esame incrociato tra legge e prassi, Vania Maffeo, Cedam, 2012 131
recensioni
A cura di Giuseppe Riccio
F O R E N S E
●
L’esame incrociato
tra legge e prassi, Vania
Maffeo, Cedam, 2012
● A cura di Giuseppe Riccio
Professore di Procedura Penale
presso l'Università degli Studi
di Napoli "Federico II"
Non capita sovente una lettura del
genere; solitamente il tema che Vania
Maffeo affronta in modo originale ap‑
partiene alla letteratura di common
low, dove è consuetudine impegnarsi
sulle tecniche dell’ interrogatorio perché
opera dei giuristi pratici, quelli che ali‑
mentano giurisprudenza e diritto in un
sistema nel quale la legge, quando esi‑
ste, detta principi non discipline la cui
regolazione é affidata al giudice; e lì la
legalità assume questo colore giudiziale
ben diverso dal nostro; almeno storica‑
mente è così.
Non capita sovente avvertire il biso‑
gno di entrare nella tecnicità del diritto
– meglio: della giurisdizione – in un
Paese dove la dottrina sembra esclusiva‑
mente interessata a dogmi e leggi – e a
giurisprudenza, ovviamente – mai alle
prassi, al punto che il giurista è ancora
considerato personalità che si interessa
di cose astratte, definizione che qualifi‑
ca impropriamente la teoria, la dogma‑
tica, che é struttura intellettuale essen‑
ziale per la creazione del diritto, ovun‑
que ciò avvenga.
Non capita sovente, poi, che l’Auto‑
re prenda le distanze proprio dall’im‑
pronta anglosassone del tema, delinean‑
do con opportuna semantica sistemi e
diritto e rivelando la necessità delle
premesse dogmatiche quando il primo
(= il sistema) è legale ed il secondo (= il
diritto) è dettato da regolazioni puntua‑
li che dovrebbero guidare comporta‑
menti ed interpretazioni dei protagoni‑
sti dell’evento.
Alla fine scopri che l’originalità sta
già nel titolo, perchè il rifiuto dell’am‑
g e n n a i o • f e b b r a i o
2 0 1 3
miccante “cross examination” è scelta
sistemica precisa, delineata dalla diffe‑
renza funzionale e dalle diversità strut‑
turali tra cross ed esame incrociato.
Qui si apre la porta della ricerca; che
affonda le radici nelle prassi, senza
trascurare cause ed effetti della crisi del
momento topico di qualificazione del
sistema adversary, a cui strizzava l’oc‑
chio il legislatore di fine anni ‘80, dibat‑
tuto tra esigenze di garanzia e resistenti
arretratezze inquisitorie, frutto di stasi
culturali mai sufficientemente denun‑
ziate.
E col tempo si svela che la crisi sta
qui; e che forse è tardi per porvi rime‑
dio.
Qui, da noi, il cammino dell’esame
incrociato – è questo l’oggetto del nuovo
impegno monografico della Maffeo –
non poteva non dare ascolto alle esigen‑
ze dogmatiche e garantiste dell’impe‑
gnativo istituto ed alle cause che gli
hanno fatto perdere la centralità ideale
su cui faceva affidamento quell’innova‑
tore.
Bisognava chiarire subito che l’op‑
zione per siffatto strumento – vedremo
che è tale, non di più –, avendo esso
quella origine estera, comportava la
scelta di evitare una disciplina di detta‑
glio, forse per la incapacità di prevedere
tutte le esigenze tecniche connesse al
complesso progetto – esame, controesa‑
me, riesame: che lo distingue dalla cross
examination –, forse per consegnare
alla dialettica processuale, alle sue in‑
terpretazioni ed alle sue prassi un avve‑
nimento dialogante capace di fornire al
giudice la gestione della indispensabile
lealtà processuale che quel confronto
presuppone e, contestualmente, la liber‑
tà dei segni che i dichiaranti manifesta‑
no, utili ausilio per il libero convinci‑
mento nella ricostruzione della prova
sia sotto il profilo della genuinità del
detto, sia sotto l’aspetto della attendibi‑
lità della fonte.
Bisognava chiarire, poi, che questa
“delega” al giudice non è – come spesso
si crede – appannaggio esclusivo dei si‑
stemi di common, giacché anche nella
nostra tradizione giuridica, per quanto
possa essere minuziosa la regolazione
delle attività del processo, il loro svol‑
gimento non può mai essere descritto in
maniera così rigorosa da vincolare in
strette camicie l’iniziativa ed i liberi
comportamenti di parti e giudice: e se
lo dice Calamandrei bisogna credergli;
131
anche perché molte sono le possibili
esemplificazioni, fino alla geniale in‑
venzione del mezzo di prova “atipico”
che tante questioni, imbarazzi e proble‑
mi applicativi sta creando, quanti cer‑
tamente quel perplesso legislatore non
poteva prevedere, né previde si potesse‑
ro realizzare in concreto.
Bisognava chiarire che per queste
ragioni il legislatore del secolo scorso
affidava a poche disposizioni regolanti
il simbolo del nuovo sistema, tranquillo
che ... le cose sarebbero andate per il
meglio, perchè affidava a quello stru‑
mento l’accertamento di un processo
snello, tendenzialmente monosoggetti‑
vo, condotto con maestria da giudici
togati in un dibattimento concentrato;
tant’è che tutte le precedenti dichiara‑
zioni procedimentali si avvalgono di
diverso strumento non dialogante.
È qui l’errore di prospettiva; non
politico né sistemico; è qui l’eccessiva
fiducia nella accettazione delle radicali
novità da parte di ceti che si sono mo‑
strati invece impreparati a recepire ed a
mettere in atto così sofisticate strutture
processuali; è qui l’errore di credito
dato in bianco ad una cultura ancorata
a vizi inquisitori, se nel ‘92 perfino la
Corte costituzionale – che pure imboni‑
va i giudici sulle nuove categorie accu‑
satorie – potè realizzare una “caduta”
di quel genere; anche se, alla fine, essa
è risultata benefica, essendo riuscita a
smuovere l’inerte legislatore ed a fargli
approvare le nuove regole per la giuri‑
sdizione.
Bisognava chiarire, ancora, l’altra
verità; quella che cala quell’errore, ag‑
gravandolo, in un contesto legislativo
quasi immediatamente modificato per
far fronte all’“assalto” della criminalità
organizzata, che ha indotto radicali
modifiche della struttura del processo:
ricostruita per eliminare i processi cu‑
mulativi e, quindi, per realizzare accu‑
satorietà-cross-concentrazione-imme‑
diatezza, la giurisdizione si é trovata
impegolata, senza soluzione di continu‑
ità, in ingestibili maxiprocessi a cui la
legislazione ha dovuto adeguarsi con la
creazione di organizzazioni giudiziarie
complesse ed articolate e di procedure
gigantesche, soprattutto quando si rea‑
lizza il coordinamento tra più procure
se non tra più distretti. Si sono sottratti
così funzione e compiti all’esame incro‑
ciato; che ha perduto il ruolo di strumen‑
to centrale per il libero convincimento,
recensioni
Gazzetta
132
essendo venuta meno la concentrazione
del dibattimento servente alla duttile ed
aspra dialettica dei contendenti.
Bisognava chiarire, infine – ed ap‑
punto –, che esso è strumento non
mezzo e che riguarda solo le prove di‑
chiarative, confermando, così, che quel
legislatore aveva anticipato ruolo ed
ambito del contraddittorio secondo una
tradizione giuridica che travalica i con‑
fini del Paese, e che qui da noi assume
significato costituzionale originario;
esso cioè era già scritto nel tessuto sta‑
tutario del ‘48 (= del 1948) con quei
compiti e per quell’ambito.
Si entra così nei delicati meandri
delle scarse ed incerte definizioni legi‑
slative e se ne coglie la singolare speci‑
ficità, quella della regolazione – solo –
dei divieti, impotente, il legislatore, a
descrivere attività libere di interrogato‑
rio e tipologie “inquisitorie” imprevedi‑
bili; egli, cioè, non poteva scrivere modi
e forme delle domande ma solo allerta‑
re il giudice sui quesiti chiaramente ri‑
volti ad alterare il ricordo, a bloccare
dichiarazioni pregiudizievoli, a mettere
in difficoltà il dichiarante, ad “alterare”
la verità, fornendogli il potere di inter‑
venire direttamente sulla scorta dei
“capitoli” di prova opportunamente
chiesti come premessa indispensabile
per la ammissibilità del mezzo, ma,
contemporaneamente, come necessaria
comunicazione delle conoscenze della
fonte all’altra parte e come “guida” per
l’eventuale intromissione del giudice.
È questo il risultato dello studio
della Maffeo; che si arricchisce di spe‑
cificità operative quando si cala nelle
reali vicende dei diversi soggetti dichia‑
ranti e nelle infinite semplificazioni che
le prassi offrono, seguendo le delicate
questioni sulla scia della giurisprudenza
e, quando è intervenuta, sulle linee del‑
la legislazione – anche “giurispruden‑
ziale” (leggi: ... delle additive della
Corte costituzionale) – che hanno inver‑
tito il rapporto tra esame incrociato e
interrogatorio presidenziale per la tute‑
la di soggetti deboli e per dare loro co‑
perture rasserenanti, unico “sistema”
r e c e n s i o n i
per assicurare credibilità alla dichiara‑
zione ed attendibilità alla fonte.
È questo il risultato dello studio
della Maffeo; che si insinua nelle diver‑
se tipologie dei dichiaranti, cercando di
dissolvere il dubbio sulla utilità del
contesto dialettico, proponendo di ri‑
volgere più significativa attenzione
all’esame dei “tecnici”, periti o consu‑
lenti che si voglia, lì dove, per una verso,
il confronto è più complesso e proble‑
matico, perché essi non ricostruiscono
fatti – talvolta anche questi –; essi soli‑
tamente forniscono conoscenze scienti‑
fiche su cui la dialettica acquista più
pregnante valore per il giudice.
L’Autrice scopre qui carenze che
fanno male e su cui la giurisprudenza
nicchia.
Per questi dichiaranti ella propone
una nuova centralità dell’esame incro‑
ciato; raccomanda alla dottrina di assu‑
mere la linea garantista del dialogo tra
esperti, unico strumento veramente si‑
gnificativo per il convincimento del
giudice in materia di prova scientifica;
auspica che la giurisprudenza, più volte
compulsata, si convinca della bontà
della soluzione, ancor più della indi‑
spensabilità della reale tutela delle par‑
ti e della difesa in particolare.
È questo il risultato dello studio; che
segue i mille rivoli con cui si realizza il
duttile strumento e che contestualmen‑
te scoprono i mille e ricorrenti problemi
che la scarna disciplina pone all’ inter‑
prete, in un ambito dialettico origina‑
riamente problematico ed “irresponsa‑
bile”: è questo il dato più sconcertante,
che offre all’Autrice l’occasione per
tornare alla dogmatica e per porsi il
vero problema della complessa patolo‑
gia di cui si interessa.
La questione di fondo parte dalla
osservazione che, certo, la disciplina
regolante è limitata e se ne sono com‑
prese le ragioni; ma il maggiore diso‑
rientamento per chi si intriga di questi
temi è la considerazione che tutte le
patologie che si verificano nel corso dell’
esame incrociato non hanno “copertu‑
ra” sanzionatoria.
Gazzetta
F O R E N S E
E dunque: quid juris, come avrebbe
chiesto Vannini, se l’irregolarità è inte‑
sa come assurda indifferenza di un vizio
dell’atto; se essa non soddisfa i bisogni
di legalità della prova in quel modo
acquisita e se per quelle “lacune” non
v’è ricorso alla nullità né alla inutilizza‑
bilità; quid juris, non per le ragioni già
manifestate dalla giurisprudenza, bensì
per le più severe argomentazioni su cui
fa leva l’ Autrice a cui si rinvia; quid
juris se appare complicato far ricadere
la deviazione nei vizi di motivazione
della sentenza.
Il tema è complesso; e Vania Maffeo
ne è profondamente consapevole; ma
val la pena di seguire la sua “ardita”
rappresentazione di una aggiornata
lettura problematica della irregolarità,
che affida alla discrezionalità del giudi‑
ce la valutazione della rilevanza del vi‑
zio, correggendo l’incomprensibile con‑
vinzione secondo cui il “difetto” di un
atto probatorio possa essere indifferen‑
te per l’ordinamento e, di riflesso, per il
giudice.
Il tema è complesso, soprattutto
perché si intromette nel concetto e nella
specie della invalidità degli atti e lambi‑
sce legalità ed uguaglianza; ma la mo‑
dernità del diritto ha già fornito colori
più tenui e duttilità alla prima e mag‑
giore responsabilità al giudice per la
tutela della seconda, resa sicura da un
maggior senso di lealtà chiesto delle
parti e da più penetranti assicurazioni
deontologiche; e poi – è questa l’inten‑
zione della Nostra – dibattere sulla
questione è certamente opera benefica
per il diritto e per i diritti.
Tutto qui, se è poco; tutto qui, se
l’itinerario, sinteticamente rappresenta‑
to in questa sede ma compiutamente
argomentato nel lavoro di Vania Maf‑
feo, non attraversasse, con l’alibi delle
prassi, i principi fondamentali della
Procedura penale; tutto qui, se l’intro‑
missione nella dogmatica, nell’ermeneu‑
tica e nei comportamenti processuali di
cui ella si intriga, con metodo nuovo e
con originali approdi argomentativi, è
da considerarsi “poca cosa”.
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. civ., sez. III, 19.02. 2013, n. 4030 (con nota di Sabbatini)
Cass. civ., sez. un., 23.01.2013 n. 1521 s.m.
Cass. civ., sez. I, 18.01.2013 n. 1237 s.m.
Cass. civ., sez. lav., 15.01.2013 n. 809 s.m.
Cass. civ., sez. III, 15.01.2013 n. 797 s.m.
Cass. civ., sez. II, 14.01.2013 n. 705 s.m.
Cass. civ., sez. III, 20.12.2012, n. 23625 s.m.
Cass. civ., sez. un, 19.12.2012, n. 23464 s.m.
Cass. civ., sez. III, 18.12.2012, n. 23318 s.m.
Cass. civ., sez. III, 10.12.2012, n. 22382 s.m.
Cass. civ., sez. III, 27.11.2012, n. 20984 s.m.
Cass. civ., sez. un.,13.11.2012, n. 19704 s.m.
Cass. civ., sez. Un., 04.09.2012, n. 14828 (con nota di Catalano)
TRIBUNALE
Trib. Napoli, sez. III,05.12.2012, Giud. A. Balzano s.m.
Trib. Napoli, sez. III,05.12.2012, Giud. E. Pastore Alinante s.m.
Trib. Napoli, sez. VIII, 04.12.2012, Giud. M. Amura s.m.
Trib. Napoli, sez. X, 03.12.2012, Giud. M. Magliulo s.m.
Trib. Napoli, sez. X,03.12.2012, Giud. C. Sorrentini s.m.
Diritto e procedura penale
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. pen, sez. Un., 28.02.2013 s.m.
Cass. pen, sez. Un., 31.01.2013 s.m.
Cass. pen, sez. Un., 20.12.2012, n. 6509 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen, sez. VI, 19.12.2012, n. 1514 s.m.
Cass. pen, sez. V, 14.12.2012, n. 3229 s.m.
Cass. pen, sez. VI, 03.12.2012, n. 3251 s.m.
Cass. pen, sez. Un.,18.10.2012, n. 47604 s.m.
CORTE DI APPELLO
App. Napoli, sez. I, 10.01.2013, n. 85 s.m.
App. Napoli, sez. III, 15.11.2012, n. 5096 s.m.
TRIBUNALE
Trib. Napoli, G.M., 28.01.2013, n. 1698 s.m.
Trib. Napoli, sez. I, ord. 17.01.2013 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p., 14.01.2013, n. 139 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p., 10.01.2013, n. 43 s.m.
Trib. Napoli G.u.p., 09.01.2013, n. 143 s.m.
Trib. Napoli G.u.p., 09.01.2013, n. 79 s.m.
Trib. Napoli G.u.p., 08.01.2013, n. 16 s.m.
Trib. Napoli G.u.p. 21.12.2012, n. 3008 s.m.
Trib. Napoli G.u.p., 20.12.2012, n. 2991 s.m.
Trib. Napoli G.u.p., 20.12.2012, n. 2975 s.m.
Trib. Napoli G.u.p., 23.11.2012, n. 3021s.m.
Trib. Nola, coll. B), 11.10.2012, n. 2164 s.m.
Trib. Nola, coll. A), 18.7.2012, n. 1972 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p., 28.5.2012, n. 1638 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p., 21.5.2012, n. 1116 s.m.
Trib. Napoli, G.M., 24.4.2012 n. 5817 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p., 02.12.2011, n. 3026 s.m.
Diritto amministrativo
CONSIGLIO DI STATO
Cons. Stato, Ad. Plen., 15.01.2013, n. 2 (con nota a cura di Foggia)
T.A.R.
T.a.r. Campania-Napoli, sez. I, 20.02.2013, n. 934 s.m.
T.a.r.Campania-Napoli, sez. I, 20.02. 2013, n. 933 s.m.
T.a.r.Campania-Napoli, sez. I, 14.02.2013, n. 900 s.m.
T.a.r.Campania-Napoli, sez. I, 06.02.2013, n. 766 s.m.
T.a.r.Campania-Napoli, sez. I, 01.02. 2013, n. 696 s.m.
T.a.r.Campania- Napoli, sez. I, 15.01.2013, n. 313 s.m.
T.a.r.Campania- Napoli, sez. I, 15.01.2013, n. 312 s.m.
Diritto internazionale
Corte Suprema dell’India
Corte Suprema dell’India, Giur. civile, ricorso civ. n. 135/201, Istanza di
rilascio n. 20370/2012, Pres. Altamas Kabir (con nota di Romanelli)