Gazzetta Forense n. 1 del 2013
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Gazzetta Forense n. 1 del 2013
Gazzetta F O R E N S E Bimestrale Anno 7 – Gennaio‑Febbraio 2013 direttore responsabile Roberto Dante Cogliandro comitato di direzione Almerina bove Corrado d’ambrosio Alessandro jazzetti redazione capo redattore Mario de Bellis redazione gazzetta forense Valeria D’Antò, Melania DuratuRo, Anna Eliseo editore Denaro Libri Srl, presso la Mostra d'Oltremare, viale Kennedy, 54 – 80125 Napoli proprietario Associazione: Nemo plus iuris comitato di redazione Andrea Alberico Giuseppe amarelli Antonio ArdituRO Clelia Buccico Carlo Buonauro Raffaele Cantone Flora Caputo Sergio Carlino Matteo D’Auria Domenico De Carlo Mario de Bellis Andrea Dello Russo Clelia iasevoli Rita Lombardi Raffaele Manfrellotti Catello MARESCA Giuseppina MAROTTA Daniele Marrama Raffaele MICILLO Maria Pia Nastri Giuseppe Pedersoli Angelo Pignatelli Ermanno Restucci Francesco Romanelli Raffaele Rossi Angelo Scala Gaetano scuotto Mariano Valente comitato scientifico Fernando Bocchini Antonio Buonajuto Aurelio Cernigliaro Lorenzo Chieffi Giuseppe Ferraro Gennaro MARASCA Antonio Panico Giuseppe Riccio Giuseppe Tesauro Renato Vuosi n. registraz. tribunale N. 21 del 13/03/2007 finito di stampare da 360o ‑ Roma – nell'aprile del 2013 SOMMARIO Editoriale [ A cura di Giuseppe Riccio ] Diritto e procedura civile Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione dei danni in sede fallimentare 13 Pietro Paolo Ferraro Il punto sul licenziamento collettivo dopo le novità introdotte dalla riforma del lavoro 24 Maria Rosaria Palumbo Potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità contrattuale e principi della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato: il punto delle Sezioni unite 34 Roberta Catalano Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio] 40 Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 42 In evidenza Corte di Cassazione, Sez. civ. III, 19 febbraio 2013, n. 4030 [Nota redazionale a cura di Fabrizia Sabbatini] 44 Diritto e procedura penale Operazioni infragruppo e vantaggi compensativi: la disciplina dell’art. 2634 c.c. si estende anche alla bancarotta fraudolenta? 49 Dora Tagliaferro La tutela giurisdizionale dei diritti in tempi di crisi finanziaria. Il “Decreto Crescitalia” ed il riesame delle pronunce giudiziali 59 Rosanna Fattibene Dialogo tra la corte Edu e le corti nazionali sulla natura delle confische Due interpretazioni diverse su casi simili 64 Vittorio Sabato Ambrosio I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali 69 A cura di Angelo Pignatelli Rassegna di legittimità [ Rassegna di merito [ A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ] A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ] 73 76 Diritto amministrativo Il cottimo fiduciario. Principi comunitari e corollari applicativi nella più recente giurisprudenza 89 Maria d’Elia Giudizio di ottemperanza e connessa domanda di risarcimento del danno alla luce dell’Ad. Plen. n. 2 del 15 gennaio 2013 Francesco Foggia 94 Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 101 (d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) A cura di Almerina Bove Diritto tributario Riflessioni a margine di alcuni casi di deroga al principio di alternatività tra imposta sul valore aggiunto e imposta di registro 107 Maria Pia Nastri Diritto internazionale Rassegna di diritto internazionale 113 A cura di Francesco Romanelli Questioni [ A cura di Mariano Valente ] Nel caso in cui un’Amministrazione dello Stato sia parte nel processo esecutivo a chi e in che modo vanno notificati il titolo esecutivo, il precetto e l’atto di pignoramento presso terzi? / Marianna Falco Se la sospensione condizionale della pena sia estensibile alle pene accessorie, e se la decorrenza degli effetti delle pene accessorie sia riferibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza comminativa delle pene accessorie, o, a quello successivo, della loro concreta esecuzione, con particolare riguardo all’ipotesi della “sospensione-perdita del diritto elettorale”. / Myriam Di Domenico Il sub ingresso nella titolarità della concessione demaniale marittima attribuisce la qualità di nuovo cessionario o di concessionario ab origine? / Anna Laura Magliulo e Mary Musto 123 125 129 Recensioni L’esame incrociato tra legge e prassi, Vania Maffeo, Cedam, 2012 a cura di Giuseppe Riccio 131 Gazzetta F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o ● E per la Giustizia? ● Giuseppe Riccio Professore di Procedura Penale presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" 2 0 1 3 5 Un recente dibattito occasionato dalla presentazione di una felice scoperta in terra nevana di un “Tribunale di Campagna” ha riproposto all’attenzione degli studiosi, impegnati nella singolare vicenda, tre ordini di problemi che sembrano spazia‑ re in tempi lunghi ed in epoche profondamente distanti e che, invece, attestano una sconcertante continuità di comporta‑ menti politici in materia giuridica e giudiziaria nonostante la radicale innovazione – questa sì – del tipo di Stato, delle sue istituzioni e delle filosofie che lo aggregano dal Medioevo ad oggi. Ed appare singolare che, storicizzando l’analisi, si nota un dominio delle prassi, allora giustificate da ridotta sensibi‑ lità sui temi della Procedura penale ed oggi causati dalla in‑ differenza di chi è chiamato a regolare la democraticità istitu‑ zionale della Procedura e del Processo e la loro legalità: legi‑ slatori e giudici, ciascuno per la propria strada, lasciano cor‑ rere e attivano prassi spesso di durissima inquisitorietà, che propongono al cittadino contemporaneo problemi di storia negata, di democrazia negata e di libertà negata, su cui è ca‑ duto un sonoro silenzio nella passata campagna elettorale; non v’è stato un cenno, dico uno, in materia di giustizia che abbia impegnato questo o quel candidato, questo o quel giornalista, che, poi, si meraviglia del silenzio da esso stesso causato per mancanza di domande. Insomma nel nostro Paese il “problema Giustizia” non esiste. Perciò, dichiaro gratitudine a questa “rivista di nicchia” (con buona pace dei “tecnici” che hanno graduato la scienti‑ ficità delle riviste: che vergogna!); dichiaro gratitudine a que‑ sto contesto intellettuale, che, anche per mia indicazione, dovrebbe interessarsi di eventi giudiziari regionali e che invece ora ospita questo scritto. A loro si è offerta la combinazione tra osservazione storio‑ grafica ed attualità giudiziaria ricavata dai discorsi dei Presi‑ denti delle Corti di Appello per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario; che, insieme ai recenti percorsi culturali impostimi da un amico, denotano uno sconcertante quadro della situa‑ zione della Giustizia, rispetto alla quale nessuno é immune da responsabilità. Infatti, accomunando risalenti esperienze – ad esempio: del Tribunale di Campagna – ed i moderni problemi della giurisdi‑ zione si scopre che la rivoluzione dello stato moderno non ha dato frutti sul terreno dei principi del processo, ove si registra, oggi, una tendenza antigarantista sulla quale sarebbe indispen‑ sabile riflettere; ma la cosa riguarda nessuno, anzi, ciascuno rimbalza sull’altro la responsabilità del disimpegno, presentan‑ do il problema come tema di astratta ingegneria scientifica, facendo finta di ignorare, così, (o: ignorando; il che è gravissi‑ mo) che questo è delicatissimo problema politico, attingendo direttamente ai diritti ed alle dignità delle persone, oltreché alla crisi economica che attanaglia il Paese. Ma tanto è. E dunque, nell’ordine. La sintesi unificante delle riflessioni originate da eventi diversi si rintraccia nei comportamenti giudiziari dei protago‑ nisti delle distanti epoche storiche, che presentano una preoc‑ cupante cura delle prassi di cui bisogna scoprire cause ed ef‑ fetti. E suggerisce la necessità di penetrare la contraddizione tra Storia e Politica, nella quale l’intersecarsi dei problemi che qui interessano risultano indissolubilmente legati, appartenen‑ do essi ad una unità di essenza. Nell’ordine. 6 e d i t or i a l e Per dare soddisfazione ad un amico che presentava la storica scoperta di un sito giurisdizionale del tempo antico nella sua terra (Raffaele Chiacchio, Il Tribunale di Campa‑ gna, Grumo Nevano, Ed. Atellana, 2012), mi son dovuto sobbarcare l’affascinante ricerca di istituzioni e stili di evi tra loro molto distanti, ovviamente non con piglio storico – non lo ho; non ne sarei capace –, ma ricostruendo quelle vicende con l’aiuto della Scuola storica federiciana – curata con impa‑ reggiabile maestria da Lello Ajello –, particolarmente attenta agli eventi giuridici e giudiziari di viceré e vassalli delle domi‑ nazioni che hanno travagliato (ed oggi no?) questo splendido sud del Paese. L’intenzione era quella di un raffronto storicistico su epo‑ che e riti; quella di scoprire sinonimie istituzionali e differen‑ ze rituali attraverso l’osservazione di un giurista aduso alla comunicazione tra storia e politica (mi permetto di ricordare la travagliata opera con cui ho salutato la mia Facoltà è stata la Procedura penale. Tra Storia e Politica, Napoli, Ed sc. 2010); un giurista abituato, soprattutto, alla ricostruzione delle dinamiche tra Stato e diritto a cui l’intellettuale contem‑ poraneo dovrebbe interessarsi. Ed è stato così. Solo che sono inciampato in una “scoper‑ ta” inattesa: lo studio del passaggio dall’assolutismo alla de‑ mocrazia anche nelle istituzioni giudiziarie e giurisdizionali ha dato sconcertanti risposte nel confronto tra riti, inspiega‑ bilmente simili, nonostante la “rivoluzione culturale” che ha caratterizzato gli anni ‘48‑88’ del secolo passato. Certo, la sensibilità verso i diritti della persona è radical‑ mente mutata; l’elitaria cultura è diventata condiviso convin‑ cimento, talvolta addirittura abusato, quando, ad esempio, senti il condannato dire che è oggetto di complotto o vittima di una visione giustizialista del sistema; ed oggi lo dicono tutti, anche i criminali “incalliti”, come si usa dire. Ma a siffatto radicale mutamento non sembrano corri‑ spondere eguali comportamenti giudiziari, quelli, cioè, che fanno (rectius: che dovrebbero fare) la differenza. Ad esempio, seguendo gli accorti ricercatori che hanno documentato quei risalenti accadimenti e ragionando sul presente, esce fuori una indigesta perpetuità nel tempo di condotte che relegano sullo sfondo il sofferto approdo al processo democratico di fine millennio; sembra, anzi, che l’unico codice repubblicano e democratico di questo Paese non sia stato mai scritto, tanto é lontano dalla sua filosofa e dalle sue regole l’attuale esercizio della funzione giurisdizionale. Ti accorgi, insomma, che, seguendo la sottile tessitura della storia, l’evoluzione democratica dello e degli Stati di cui essa offre decisa traccia non ha eguale fortuna sul terreno del processo, i cui comportamenti rivelano continuità con epoche buie e con riti risalenti che neanche il diritto giurisprudenzia‑ le riesce a tenere sotto controllo. Certo; i significati storiografici delle diverse epoche tesso‑ no il progredire delle istituzioni; raccontano del profondo e drammatico mutamento dalla signoria dei potenti alla signo‑ ria della legge; ma dalla narrazione non si ricava la consequen‑ ziale altalena dei compiti della giurisdizione. Scopri, anzi, la stabilità di vizi culturali acquisiti in epoche “buie” e mai corretti nelle luminose epoche della democrazia. In questo “diverso” orizzonte comparativistico si esalta il dato esistenziale della storia. Esso è dato dal profondo cam‑ biamento, in epoca moderna, dei rapporti tra Stato e perso‑ Gazzetta F O R E N S E na – oggetto specifico della giurisdizione – ora condizionati dalla centralità costituzionale della persona, finalmente libe‑ rata dalle munifiche blandizie del principe, perché soggetto originario ed originale dei “diritti”. L’ operazione è molto recente; è noto. Si rintraccia nell’era contemporanea; nella quale quei di‑ ritti si sono costituiti come qualità della persona non come mere “concessioni”, come presupposti della dignità umana, non come privilegi; ma questi sicuri riconoscimenti non han‑ no comportato altrettante sicure realizzazioni per la mancata consapevolezza della circolarità dei diritti, della loro recipro‑ cità, della loro contestualità operativa. L’operazione comparativistica svela, anche, la centralità del giurista e le indissolubili relazioni tra originalità del pen‑ siero filosofico e realizzazioni giuridiche e giudiziarie indi‑ spensabili alla concreta esistenza dei diritti originari; situa‑ zioni intellettuali, queste, che nelle epoche “di mezzo” vede‑ vano il giurista discutere delle liberalità del principe, non dei diritti della persona. Allora, il principe affidava al giurista la ricerca dei modi per realizzare la sua politica, repressiva o raramente liberale, riconoscendogli, così, un sostanziale ruolo di legislatore; la cultura elitaria sui temi della “giustizia” spingeva, poi, le Accademie (esistevano, e come; soprattutto: con quale auto‑ rità) a valutare la legittimità degli strumenti con il quale il principe selezionava i modi per il suo incontrollato dominio (Scuola di Bologna; Scuola di Pavia; Scuola Federiciana; al‑ tre). Queste dinamiche sembrano oggi abbandonate: il giurista ha rinunziato alla funzione di “informatore preventivo” e di “operatore critico” di un principe che ha cambiato volto ed assetto istituzionale, non gli strumenti “repressivi” per la tutela della collettività; e, con tale incuria, ha delegato il giudice ad una reale opera di legittimazione dei prodotti legi‑ slativi del principe, a dispetto del fatto che questo si dimostra sempre più ignaro del compito che la giurisdizione svolge, appunto, in Democrazia, secondo l’originale dettato del se‑ condo comma dell’art 101 Cost. Riflettendo sulla comparazione storica e sugli umori po‑ litici delle diverse epoche, insomma, si scorge che oggi il tema della funzione del giurista e, quindi, il suo coinvolgimento nel tema politico è ancora offuscato dal clima illuministico che sembra averlo escluso da tutti gIi ambiti di intervento dei poteri pubblici. Nel tema politico, invece, si dovrebbero com‑ binare, indissolubilmente, principe (= potere) e accademia (= giurista), luogo della decisione e sede della riflessione, della preparazione, della ricerca, della critica, ancor più, della formazione delle leggi e della interpretazione/applicazione delle leggi. In questo clima di irresistibile ‘non cale’, il politico si af‑ fida alla improvvisazione o, peggio, alla utilità del singolo, ignorando gli effetti devastanti, nel sistema dei diritti, di ri‑ tocchi privilegianti; e ciò perché il politico non conosce la (o si disinteressa della) coralità della storia, appunto, ed accan‑ tona la necessaria (= democratica) generalità degli interventi politici in materia di diritto. Nello stesso clima l’atteggiamento neutrale del giurista fa perdere di vista la circolarità tra dottrina‑legislazione‑giuri‑ sprudenza‑dottrina: circuito virtuoso coltivato nell’epoca d’oro del diritto processuale penale, quello in cui il giurista si Gazzetta F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o occupava delle situazioni pregresse alla legge e della critica dei prodotti giurisprudenziali, indirizzando la prima e confe‑ rendo autorità ai secondi, quand’essi si fossero mossi secondo linee dogmatiche di valore sistematico. In sostanza, l’atteggiamento neutrale nasconde i risultati dell’ pera storiografica ed il dato di persistente continuità delle vicende del diritto; offusca la vocazione giurispruden‑ ziale dell’ordinamento che consegna la legge al suo esecutore come soggetto privilegiato della sua interlocuzione; mortifica la modernità del principio di supremazia della legge, che ne svela la funzione formale, non sempre la tenuta sostanziale. Infine, l’atteggiamento neutrale rende inspiegabilmente elitaria la convinzione dell’indissolubile intreccio tra Giustizia e Democrazia e la loro reciprocità esistenziale, su cui si impe‑ gna magistralmente da ultimo il “Nobel” Amartya Sen (L’idea di giustizia, Milano, 2010); si nasconde che l’una qualifica l’altra e questa quella, soprattutto in un settore dove la Storia e la Politica hanno vinto la barbara idea che il processo possa essere strumento di ordine pubblico e/o di difesa sociale. In questo clima assale il dubbio che la Storia sia trascorsa invano; che la successione degli eventi “rivoluzionari”, che essa descrive siano rimasti estranei alla intelligenza ed alla coscienza dei regnanti che pure li hanno prodotti, soprattutto, sul terreno del progressivo maturare dalle “ordinanze” asso‑ lutistiche, alle leggi, ai diritti; cose di cui si parla; cose che avresti mai sospettato oggetto di irresponsabile disinteresse. La Storia insegna che la Giustizia è problema di Democra‑ zia; che, in particolare, l’evoluzione del processo penale, in‑ dipendentemente dalle fonti, è il passaggio da strumenti op‑ pressivi a metodi di accertamento dialettico; che la Procedura penale è l’incedere delle garanzie, l’insinuarsi delle forme di tutela dell’individuo nel processo penale, il divenire soggetto della persona, prima oggetto del processo. Ma chi se ne ricorda più; chi ha voglia di ricordarlo. Sono queste le premesse su cui si é bloccato il diritto di illuministica impronta, per lasciare il posto ad un sistema nel quale la “legalità” ha perduto il dominio della e sulla legge, per assumere – almeno nel processo penale – il significato di premessa ordinante le discipline del processo, comunque af‑ fidate, per il diritto, alle interpretazioni giudiziarie e, per la loro realizzazione, alle prassi operanti nella giurisdizione, ai comportamenti delle parti, alle condotte del giudice. In questo senso “legalità” – nel suo ampio e complesso significato contemporaneo – é metodo non fine, é gestione dei rapporti tra legge e sua interpretazione, rectius: tra luogo della decisione politica e luogo della realizzazione giuridica dei diritti. In questa “sintesi”, poi, è determinante l’ambito della libertà intellettuale (altri la chiamerebbero: “discrezio‑ nalità”) che il legislatore lascia al giudice o del quale il giudi‑ ce si appropria, magari, per far fronte alla colpevole ed irre‑ sponsabile inerzia del legislatore; soprattutto quando la “ri‑ chiesta” attiene alla tutela dei diritti. Insomma, in tale diverso contesto, il termine non evoca più situazioni “gerarchiche” tra legge e giudice, se non per deter‑ minare la misura dell’intervento ermeneutico, che rende dutti‑ le la tutela giurisdizionale dei diritti; legalità è gestione delle regole per il potere di creare diritto, che stabilisce, in orizzon‑ tale, il rapporto tra legge e giudice, soprattutto quando il si‑ stema è a piani normativi verticali, sostanziali, valoriali. Con questi ignorati presupposti è chiaro che la lettura dei 2 0 1 3 7 discorsi d inaugurazione dell’Anno giudiziario ha perduto importanza ed interesse; anche perché i rappresentanti istitu‑ zionali hanno versato, reciprocamente, sugli altri la respon‑ sabilità dell’insopportabile crisi della Giustizia (e questa parte avremmo voluto fosse stata diffusa alla comunità; ma, si è detto, a chi giova? Al Paese? Beh … non giustifica spreco di inchiostro e carta). Anche quest’anno la parata delle toghe rosse non ha im‑ pressionato nessuno; ovviamente mi riferisco alle toghe delle Corti di appello, non alle “toghe rosse” degli anni ‘60 e ‘70, che facevano cultura in questo Paese. Allora, messa sotto da un appartato statale che stentava a incanalare in effettivi solchi democratici il processo penale, la magistratura rispon‑ deva con pregevoli dibattiti costituzionalmente orientati, di cui spesso trovavi eco nelle sentenze, nel sacro luogo del giu‑ dizio, lì dove, invece, avrebbe dovuto e dovrebbe imperare la neutralità del fatto e del suo rapporto con la legge. Spesso non era così; fortunatamente. Caparbiamente il giudice (= la ma‑ gistratura) dava senso democratico alle leggi fasciste; ed ogni giorno incuneava un tarlo liberale nella interpretazione delle norme: giorno dopo giorno egli (= essa) tesseva la tela del nuovo processo. Ed era un piacere leggere nelle sentenze il contrappunto tra rigore probatorio e ricostruzione garantista di norme obsolete, con cui, la magistratura reagiva alla ten‑ tazione “autoritaria” dei nostalgici inquisitori e alle pericolo‑ se fughe della legalità rivoluzionaria; esercizi, che le legittime esigenze di “carriera” (= allora si diceva “avanzamento”, per allontanare il senso clientelare del vocabolo) spingevano sul terreno della “sentenza dotta”, documenti con cui si afferma‑ va merito e capacità professionali necessari per raggiungere “più elevate” funzioni e più appagante “soldo”. Era affascinante partecipare a questa condivisa sensibilità democratica. Docenti ed avvocati, in sedi dialettiche o con la dialettica del processo, contribuivano al raggiungimento di questi risultati minimi, ma esaltanti data l’epoca, paghi della severità intellettuale del giudizio e della interpretazione “co‑ stituzionale” della legge che pure loro contribuivano a pro‑ durre. Allora il problema erano le leggi per il governo del proces‑ so; ma non erano nascosti quelli relativi ai limiti della funzio‑ ne e alla democrazia interna della magistratura; ed erano chiaramente palesati i desideri di umanizzazione del carcere, attraversati dalla non rinviabile riforma del diritto sanziona‑ torio. In questo clima cresceva il giovane professionista, magi‑ strato o avvocato, seguendo un coro autodidatta, fatto di contrapposizioni culturali e di desideri emulativi che confer‑ mavano l’autorità della giurisdizione e l’autorevolezza dell’Ac‑ cademia, della Magistratura, dell’Avvocatura. Già allora la politica era distratta; era lenta a capire; in‑ capace di intercettare gli umori intellettuali di quelle fortuna‑ te generazioni. Già allora si affacciavano spinte centrifughe, interne ai ceti, verso la semplificazione dell’ impegno giudi‑ ziale, sentimento crescente col crescere della debole attenzio‑ ne del Consiglio superiore della Magistratura: già allora esso puniva il magistrato indecoroso che aveva ballato in pantalo‑ ni corti su una spiaggia, essendo accorto ad evitare che più gravi offese al decoro della magistratura ne minassero l’alone guadagnato nella giurisdizione, non nei modi di progressione in carriera (e qui scompaiono le virgolette). 8 D i r i t t o e p r o c e d u r a E già allora i discorsi dei Procuratori generali (oggi dei Presidenti di Corte di appello) riempivano i saloni di rappre‑ sentanza con le ragioni della “crisi della giustizia”: e le colpe erano sempre, anno dopo anno, della legge e della politica, della incapacità di questa di affrontare i problemi di organiz‑ zazione giudiziaria e giudiziale e dell’eccessivo lassismo di quella. Ed avevano ragione. Ma, anche quando cambiavano le leggi di organizzazione strutturale e giudiziari la litania era uguale; ed i recitanti avevano ancora ragione. Solo che avreb‑ bero avuto ragione, certamente ed incontestabilmente, se, alla lamentela, avessero aggiunto la denuncia della “cattiva coscienza” del sistema penale, che scarica sull’esecuzione e sulla sorveglianza la democratizzazione dei diritti dei detenu‑ ti, dimenticando i doveri di solidarietà sociale che avrebbero imposto la rimozione dello stato carcerocentrico; avrebbero avuto ragione, certamente ed incontestabilmente, se avessero testimoniato il male dei provvedimenti di clemenza, demoli‑ tori dello stato e della democrazia, non di altro. Epperó come rinunziare a provvedimenti utili a “ridurre il lavoro”? E que‑ sto minimo beneficio personale poteva valere più dei bisogni della effettività della giurisdizione? Sta qui la radice dell’indegno stato delle carceri causato da questa dissennata politica, oltreché da problemi struttura‑ li del sistema e dei luoghi. La responsabilità è comunque della politica, perché i tecnici, interrogati, hanno offerto sempre soluzioni diverse da quelle clemenziali; ma eguale responsabilità ha chi, dovendo denunciare, ha taciuto: inutile pensare che questi soggetti possano tirarsi fuori. Eppure, a rileggere quei testi non si trova mai, dico: mai, un cenno di autocritica, dall’una o dall’altra parte; mai, un’as‑ sunzione di responsabilità sul piano delle prassi e delle debo‑ lezze probatorie dei provvedimenti, soprattutto di quelli cautelari, addirittura oggi in numero superiore a quelli assun‑ ti sotto la vigenza del Codice Rocco che non conosceva filo‑ sofia e regole cautelari; eppure anche questi provvedimenti alimentano il problema carcerario: e ciò vale per una parte; mai un’eguale assunzione di responsabilità dalla parte “av‑ versa” sulla povertà delle idee e sulla colpevole inerzia del legislatore. Insomma, per questi ceti le colpe sono, alternati‑ vamente, della legge (che, dice, “il magistrato è costretto ad applicare”) e delle “deboli maggioranze politiche” (che, dice, non consentivano e non consentono riforme “strutturali”). La falsità di questi detti è, forse, il vero conflitto tra ma‑ gistratura e politica e contestualmente la loro reciproca re‑ sponsabilità; certamente lo è la incapacità di capire che l’au‑ tocritica è indispensabile presupposto del dialogo e della so‑ luzione del problema. Mai che si fosse fatta severa critica sugli effetti di un abu‑ so delle misure cautelari, che contribuisce, ed in che modo, alla disumanizzazione della giurisdizione, prima ancora che del carcere, ed alla perdita di autorevolezza della magistratu‑ ra; che, ora, con le prassi gestisce il peggior processo inquisi‑ torio dell’era democratica; e non vale ricordare il senso di giustizia e/o l’ansia da prestazione che legittimamente la ani‑ mano in previsione di una sicura impunità causata dai folli tempi processuali. La conseguenza, ormai palese ed inarrestabile, è una gi‑ gantesca crisi di sistema che giorno dopo giorno mina gli ideali democratici dello stato di diritto; una crisi ‘sbattuta’ tra c i v i l e Gazzetta F O R E N S E tecnica e politica sul fallace presupposto della distinzione di cultura e di funzioni, che fornisce alibi a tecnici e politici, che fingono di ignorare, strumentalmente, che il tecnico è tale se ha cultura storiografica e visione politica dei problemi e che il politico lo é, se ha capacità di sintesi tra storia, scienza e politica. È storia d’oggi; e so che la critica sarà liquidata – come al solito – con l’accusa di utopismo (= degenerazione dell’ utopia) e di irrealismo (= degenerazione della realtà), quando non di qualunquismo e di incapacità di percepire la “difficoltà della politica”. È storia d’oggi; invasa da una cronaca giudiziaria che racconta delle cerimonie inauguranti e degli elenchi di do‑ glianze copiate da quelle dell’ anno precedente e dell’ anno prima e così di seguito di anno in anno. Nessuno si accorge che questa autoreferenzialità è divenuta anno dopo anno flebile ed inefficace; nessuno avverte che quella reciprocità di addebiti non porta da nessuna parte; nessuno denunzia il danno delle pericolose commistioni e dei dubbi di illegittime ingerenze, che creano quei pochi o tanti magistrati che si presentano in politica; ed è così, non perché il magistrato non abbia il diritto di “entrare in politica” (= entrare è sinonimo di luogo impenetrabile alla e dalla società), ma perché il ma‑ gistrato fa quel passo al coperto, se va male, con l’ombrello, se poi piove; comunque c’è il rientro in magistratura, pur avendo dichiarato la parzialità di appartenenza. Che avvili‑ mento; anche se, è vero, é così per gran parte di quelli che “praticano politica” (= connotato di mestiere) qualunque la‑ voro facciano; se va male ci sono gli incarichi esterni. È storia d’oggi, anche, la quotidiana delegittimazione della magistratura ad opera dei “nominati immuni”, protetti da uno status di marchio oligarchico ormai proiettato, in nome della crisi, su illecite sponde clemenziali per rinnovare, così, la perduta “verginità”. Del resto il disinteresse della politica per il “Pianeta‑Giustizia” è documentato dall’assor‑ dante silenzio in argomento; non potendo pensare che tutti abbiano da buttare la polvere sotto il tappeto. Dio santissimo. La Giustizia è addirittura un Pianeta; ma nessuno lo vede. Evidentemente gira intorno alla terra; é ir‑ raggiungibile; non appartiene agli umani; perciò meglio che resti lì, ammirato, non conquistato. Se no, come si fa? É così compromesso, sconosciuto, ine‑ splorato; appunto: è un pianeta; è cosa altra. Meglio attendere che esploda la sua dimensione patologi‑ ca, così acquista consistenza l’istanza della impunita, magari stupidamente non raggiunta durante il processo con la pre‑ scrizione. Tranquilli, pure qui vi sono gli ombrelli clemenzia‑ li; se non il condono, l’amnistia; o tutti e due. E, poi, tra dieci anni, o prima, di nuovo condono o amnistia; e via di seguito per rappacificare gli animi. Del resto, il pianeta é ir‑ raggiungibile; certamente per questa politica che in campagna elettorale ha avuto la dignità di tacere sul punto; se no,che dire? A chi giova la clemenza?; come essa può risolvere il problema del carcere?; come può riparare alla violazione della dignità di quanti sono ascritti nelle patrie galere, maga‑ ri in attesa di giudizio; di questi, in particolare, verso cui maggiore dovrebbe essere la sensibilità istituzionale, se non altro, per la presunzione di non colpevolezza; ma, ad essi, come applichi l’amnistia se non c’è tempo per il giudizio? È qui l’intreccio tra Storia negata‑Democrazia negata‑Li‑ F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o bertà negata, su cui il silenzio è totale: operatori (= quelli che dovrebbero provvedere) e controllori (= quelli che dovrebbe‑ ro denunciare) tacciono; meglio non scuotere il pantano: le acque chete puzzano ma non ti sporchi se ne stai alla larga. L’osservazione che più ti fa male è quella degli economisti, evidentemente non di quelli che sono stati finora al governo: la crisi della giustizia si intreccia a filo doppio con la crisi economica, anzi la genera, perché l’impunità dei corrotti e i tempi del processo – civile o penale che sia – tengono lontani investitori e risorse; è da lungo tempo così, con buona pace della globalizzazione e della crisi del mercato; è da tempo che il perverso intreccio è pacifico, dimostrato, incontestabilmen‑ te documentato; inutilmente dimostrato. Ma chi lo dice? Avete sentito mai rintuzzare il politico di turno che elenca le cose che “bisogna fare” con la frase “per‑ ché non le avete fatte se sapevate cosa fare?”. Non si può; come non si può chiedere all’interlocutore: “ma tu credi in quello che dici? E perché hai fatto il contrario?” Riflettete: queste cose valgono, soprattutto in tema di Giustizia: basta pensare allo scempio delle leggi individuali che hanno riempito il Parlamento per anni; come si fa a non sapere che la legge è generale ed astratta. Ma forse non è così; forse è pia illusione tendere alla uguaglianza; forse è farsesco auspicare l’“efficienza della giurisdizione”: questo è problema del Paese, non della politica. E, dunque. Dove sono gli accorti media che fanno odien‑ ce e shere; meglio commentare tasse e balzelli che nessuno ha mai voluto ma che tutti hanno messo addosso ai soliti paga‑ tori; ci sono sempre loro a salvare il Paese; e, se non basta, 2 0 1 3 9 tagliamo i posti di lavoro; andiamo all’estero: lì la manodo‑ pera costa meno; perché – per loro – lì i lavoratori hanno minore dignità. Fanno finta: sanno bene che è tutto un pro‑ blema di struttura e di costi dell’appartato. Ed ora tutto si ripeterà come prima, come sempre, visto il folle risultato elettorale. Tutti i riti e le litanie saranno ripetu‑ te con un asfissiante ritmo, con un insopportabile cadenza; certamente non ci sarà tempo per affrontare la crisi della giustizia e dell’uguaglianza; premeranno ancora o problemi economici; si farà ancora finta di non capire l’indissolubile connessione tra le due crisi, tra i due problemi. Tanto più che chi si lamenta? È la voce del singolo? Nes‑ suno si preoccupi; v’è rimedio: quando il singolo ha ragione, basta il frastuono di massa per coprirne la voce, per non co‑ glierne l’oggettivo fragore e la richiesta di efficace autocritica che essa chiede. Se no basta dire che si tratta di irrazionali utopie; chi li smentisce? E questo è successo in questi giorni in questo pa‑ ese (la minuscola qui è voluta!), Sarebbe stato sufficiente riconoscere che quei problemi esistono e che di essi bisogna farsi carico; prima, non poi. Ma questa è la Politica; quella che costa fatica ed impegno; quella praticata dai nostri Padri Costituenti che ora assistono impotenti al dissolvimento dello Stato democratico, che vol‑ lero anche a costo di botte da orbi; quelle, sì, valeva la pena di dare e ricevere; allora si giocavano gli ideali oggi buttati nel cestino senza alcun rimorso e senza alcuna riflessione sui drammatici effetti del gesto. Ma… tant’è. civile Gazzetta Diritto e procedura civile Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione dei danni in sede fallimentare 13 Pietro Paolo Ferraro Il punto sul licenziamento collettivo dopo le novità introdotte dalla riforma del lavoro 24 Maria Rosaria Palumbo Potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità contrattuale e principi della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato: il punto delle Sezioni unite 34 Roberta Catalano Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio] 40 Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 42 Corte di Cassazione, Sez. civ. III, 19 febbraio 2013, n. 4030 [Nota redazionale a cura di Fabrizia Sabbatini] 44 civile In evidenza F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o ● Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione dei danni in sede fallimentare* ● Pietro Paolo Ferraro * Professore Aggregato di Diritto Commerciale Seconda Università di Napoli L’articolo riproduce il testo della comunicazione elaborata per il Convegno ita‑ lo‑spagnolo sul tema “Crisis económica y responsabilidad en la empresa” tenu‑ to nei giorni 25 e 26 ottobre 2012 in Spagna presso l’Università di Valenza. 2 0 1 3 13 Sommario: 1. I termini della questione. – 2. Il criterio giurisprudenziale del c.d. deficit fallimentare. – 2.1. I rilievi critici della dottrina. – 2.2. L’inversione di tendenza della Corte di Cassazione. – 3. Il criterio dei netti patrimoniali di periodo. – 4. Verso una ricostruzione sistematica. – 4.1. L’esi‑ genza di distinguere tra le diverse situazioni. – 4.2. Il paradig‑ ma della liquidazione equitativa del danno. – 5. Conclusio‑ ni. 1. I termini della questione Le riflessioni contenute nel presente lavoro sono rivolte ad approfondire la questione, da tempo dibattuta nell’ordinamen‑ to italiano, che riguarda la quantificazione dei danni in rela‑ zione all’azione di responsabilità esercitata dal curatore falli‑ mentare (o dagli organi di altre procedure concorsuali) nei confronti dei soggetti deputati alla gestione (ed al controllo) di società di capitali fallite (o assoggettate ad altra procedura concorsuale)1. Il confronto tra studiosi spagnoli ed italiani in materia di crisi d’impresa mi sembra senz’altro un’ottima occasione non solo per dare testimonianza della singolare esperienza italiana, ma anche per stimolare una riflessione allargata su un aspetto centrale del rapporto tra la disciplina delle società e quella del fallimento, specie a seguito degli importanti interventi norma‑ tivi che nel nostro paese, in tempi relativamente recenti, hanno interessato entrambi i comparti del diritto commerciale, prima con la riforma organica del diritto societario, realizzata con il d.lgs., 17 gennaio 2003, n. 6, poi con la riforma della legge fallimentare ad opera del d.lgs., 9 gennaio 2006, n. 5 (modi‑ ficato ed integrato dal d.lgs., 12 settembre 2007, n. 169). Com’è noto, la complessa tematica della responsabilità degli esponenti degli organi sociali presenta maggiori elemen‑ ti di complicazione se considerata nell’ambito delle procedure concorsuali, allorché le norme in materia societaria, tenden‑ zialmente orientate dall’interesse sociale nelle sue varie decli‑ nazioni 2 , vengono ad interagire con la disciplina fallimentare, ispirata da un diverso assetto degli interessi in gioco, in base al quale acquista prioritaria importanza l’esigenza di tutelare le ragioni dei creditori. Tuttavia, mentre taluni aspetti proble‑ matici, sebbene in passato alquanto controversi3, in conseguen‑ za dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale, possono dirsi oramai superati o, quanto meno, notevolmente ridimen‑ sionati (ad esempio, per quanto concerne la natura delle diver‑ se azioni contemplate dalla legge ed i loro rapporti reciproci), ve ne sono altri che, nonostante i significativi risultati conse‑ guiti sul piano teorico‑pratico, conservano tuttora un elevato livello di criticità. Orbene, tra le questioni di vertice ancora aperte, si colloca in primo piano quella della liquidazione dei danni rispetto 1Più precisamente, il problema riguarda soprattutto la s.p.a. e la s.r.l., dal mo‑ mento che per la s.a.p.a., in cui gli accomandatari sono di diritto amministrato‑ ri (art. 2455, comma 2, c.c.). così come per le società di persone, nelle quali i soci sono naturali amministratori (artt. 2257, comma 1, e 2318, comma 2, c.c.), il fallimento della società implica automaticamente, ai sensi dell’art. 147 l. fall., il “fallimento in estensione” dei soci illimitatamente responsabili. 2Si veda, per tutti, l’ampia trattazione, ancora di grande attualità, di P.G. Jaeger, L’interesse sociale, Milano, 1964. 3Per approfondimenti, si consultino, fra i tanti, G. Minervini, Gli amministra‑ tori di società per azioni, Milano, 1956; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in G.E. Colombo, G.B. Portale (diretto da), Trattato delle socie‑ tà per azioni, 4, Torino, 1991. civile Gazzetta 14 D i r i t t o e p r o c e d u r a alle azioni di responsabilità promosse in sede fallimentare4, la quale ha visto a lungo contrapposte dottrina e giurispruden‑ za5, che conserva oggi grande interesse ed attualità, tenuto conto che, proprio con la “nuova” legge fallimentare, le azio‑ ni risarcitorie verso gestori e controllori hanno finito, di fatto, per sostituire le azioni revocatorie – notevolmente ridimen‑ sionate dalle recenti disposizioni – quali fonti di finanziamen‑ to della procedura fallimentare e di soddisfacimento delle pretese creditorie. La rilevanza della questione è tanto più evidente, poi, se si considera che il “campo elettivo” di esercizio delle azioni di responsabilità è costituto dalle procedure fallimentari 6 , nell’ambito delle quali, tuttavia, tali azioni, specie per come sono configurate dal “diritto pretorio”, assumono connota‑ zioni piuttosto singolari, divergendo in modo significativo dalle azioni di responsabilità “civilistiche”, ben più rare, che vengono esercitate qualora la società sia in bonis7. A questo proposito, infatti, si riscontra tuttora una certa tendenza dei giudici (di merito) che, in presenza del fallimen‑ to della società, sia pur mossi da apprezzabili esigenze di giustizia sostanziale, non esitano a superare alcune tradizio‑ nali regole ermeneutiche, adottando soluzioni che, talvolta, mal si conciliano con i principi che informano il nostro ordi‑ namento, probabilmente risentendo dell’assenza di un’unitaria visione d’insieme secondo un coerente quadro sistematico. In siffatto contesto, pertanto, assume fondamentale impor‑ tanza affermare – o meglio riaffermare – i principi e le regole generali operanti in materia di responsabilità civile anche con riguardo alla responsabilità dei soggetti preposti alla gover‑ nace di società (poi) fallite. E ciò vale, a maggior ragione, a seguito della riforma delle società di capitali realizzata nel 2003, la quale, a differenza del regime previgente, è andata nella direzione di assicurare una più precisa delimitazione di competenze e correlative responsabilità delle diverse “figure di produzione” dell’agire sociale, ponendo, in particolare, al centro della relativa disciplina il fondamentale principio di colpevolezza. 2. Il criterio giurisprudenziale del c.d. deficit fallimentare Innanzi alle notevoli difficoltà, che spesso si incontrano, soprattutto in caso di fallimento della società, nel determina‑ re con precisione l’ammontare dei danni arrecati da ammini‑ stratori e sindaci (o altri controllori) nei cui confronti il cura‑ tore fallimentare abbia esperito l’azione di responsabilità, in passato si è andato consolidando un orientamento dei giudici di merito, tendenzialmente condiviso dalla Corte di Cassazio‑ 4Per completezza espositiva, si ricorda che, ai sensi dell’art. 146, comma 2, l. fall. (come modificato dal d.lgs. n. 5/06), «sono esercitate dal curatore previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori: a) le azio‑ ni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori; b) l’azione di responsabilità contro i soci della società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall’art. 2476, comma settimo, del codice civile». 5Una recente sintesi del relativo dibattito è contenuta in A. Jorio, La determi‑ nazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, I, 149 ss. 6Lo ha ricordato, in apertura del presente convegno, N. Abriani, Governo so‑ cietario e prevenzione della crisi, dattiloscritto, 2012, 1. 7Lo evidenzia, tra gli altri, P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, in Giur. comm., 1988, I, 548 ss. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E ne, volto a quantificare, con una certa disinvoltura, il danno derivante dalla mala gestio in misura corrispondente alla differenza negativa tra l’attivo acquisito ed il passivo accerta‑ to nell’ambito della procedura concorsuale8. L’applicazione, pressoché automatica e generalizzata, di una simile tecnica di determinazione del danno risarcibile, conosciuta anche come criterio del deficit fallimentare, seb‑ bene motivata dall’esigenza indiscutibile di preservare le ra‑ gioni creditorie in presenza di una maggiore opacità delle vicende sociali e dei fatti di gestione in relazione all’accentuar‑ si della crisi d’impresa, mal si concilia con i principi del nostro ordinamento in materia di responsabilità. Evidente, infatti, la forzatura da parte dei giudici nel ricostruire il rapporto di causalità, in quanto, commisurando la responsabilità alla differenza negativa tra attivo e passivo fallimentare, si finisce di fatto per invertire l’onere probatorio, così costringendo gli amministratori a fornire la prova, spesso notevolmente diffi‑ coltosa, dell’inesistenza del nesso di causalità tra la loro condotta e l’evento dannoso9. Ciò nonostante, la distonia rispetto all’esercizio delle azio‑ ni di responsabilità esperibili sia da parte della società in bonis ai sensi dell’art. 2393 c.c., sia da parte dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., tendeva ad essere giustificata in base al diverso assetto di interessi determinato dal sopraggiungere del fallimento della società, secondo un’impostazione di fon‑ do che trova ampio riscontro anche nel sistema positivo vi‑ gente. Invero, mentre la disciplina delle azioni di responsabilità contenuta nel codice civile pone in primo piano il pregiudizio arrecato alla società, rispetto alla quale i creditori sociali assumono una posizione (tutto sommato) subordinata, una volta dichiarato il fallimento, l’esigenza di soddisfacimento dei creditori assume una rilevanza primaria (se non esclusiva), come conferma del resto l’unificazione delle due azioni, so‑ ciale e dei creditori, in un’unica azione, contemplata dall’art. 146 l. fall., che viene esercitata dal curatore nell’interesse della massa dei creditori10. In sostanza, procedendo in questa direzione, la giurispru‑ denza ha finito per costruire un’azione di responsabilità au‑ tonoma per le procedure concorsuali, la quale è concepita, nel “diritto vivente”, in un’ottica di (accentuata) specialità, sia se raffrontata con il sistema della responsabilità degli ammini‑ stratori di società in bonis, sia in relazione ai principi genera‑ li su cui si fonda la responsabilità civile11. 8Si vedano, tra le pronunce di merito, App. Bologna, 5 febbraio 1997, in Foro it., 1997, I, 2284; App. Milano, 11 marzo 1986, in Società, 1986, 1098; Trib. Catania, 30 agosto 1986, in Giur. comm., 1988, II, 228; Trib. Torino, 14 maggio 1991, in Fallimento, 1991, 867; tra le sentenze della Suprema Corte, Cass., 4 aprile 1977, n. 1281, in Giur. comm., 1977, II, 449; Cass., 23 giugno 1977, n. 2671, in Dir. fall., 1977, II, 620; Cass., 19 dicembre 1985, n. 6493, in Giur. comm., 1986, II, 813. 9 Cfr. P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, 550. 10Per una disamina degli aspetti problematici che si ponevano in passato, si veda, in luogo di molti, A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in G.E. Colombo, G.B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni, 9**, Torino, 1993, 370 ss.; con riguardo alla disciplina riformata, si consulti, fra gli altri, V. Caridi, Commento ad art. 146, in A. Nigro, M. Sandulli, V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, II, Torino, 2010, 1899 ss., anche per ulteriori riferimenti bibliografici. 11Il carattere di specialità che assume, nell’esperienza giurisprudenziale, l’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. è efficacemente rimarcato, ad esempio, da F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o In questo modo è stato a lungo affrontato il problema della quantificazione dei danni dei quali sono chiamati a ri‑ spondere amministratori e sindaci per la violazione dei dove‑ ri comportamentali posti a loro carico, specie allorché ricorra una situazione di crisi oppure una causa di scioglimento del‑ la società. 2.1. – I rilievi critici della dottrina. L’orientamento giurisprudenziale che, costruendo l’azione ex art. 146 l. fall. come una prerogativa sui generis del cura‑ tore fallimentare, individua l’ammontare dei danni da risar‑ cire nella differenza tra attivo e passivo fallimentare ha incon‑ trato, sin dall’inizio, le aspre critiche della dottrina pressoché unanime12 , che ha insistentemente evidenziato il vistoso con‑ trasto delle soluzioni adottate dai giudici con i principi gene‑ rali che regolano nel nostro ordinamento la responsabilità civile, segnatamente per quanto concerne l’onere della prova, la colpevolezza ed il nesso di causalità tra condotta illecita ed evento dannoso, con la conseguenza che la curatela attrice si viene spesso a trovare in una posizione processuale decisa‑ mente più vantaggiosa rispetto a quella degli amministratori (e dei sindaci) convenuti in giudizio, che non trova alcun fon‑ damento sul piano normativo, attraverso un’inversione dell’onere della prova, che, il più delle volte, diventa per i convenuti una vera e propria probatio diabolica. Ed infatti, amministratori e sindaci vengono gravati, in modo anomalo, della dimostrazione della mancanza del nesso di causalità tra la loro condotta ed il pregiudizio lamentato dal curatore fal‑ limentare13. Come si evince dalle più acute riflessioni sul tema, una simile soluzione rischia di avere un impatto decisamente di‑ rompente, da un punto di vista sistematico, non solo in quan‑ to configura una sorta di responsabilità oggettiva a carico di amministratori (e sindaci) di società di capitali, in controten‑ denza rispetto alle linee evolutive del nostro ordinamento, ma anche perché, nonostante la personalità giuridica dell’ente societario e la posizione di “mandatari” degli esponenti degli organi sociali, questi ultimi finiscono, di fatto, per essere assimilati ai soci illimitatamente responsabili di società per‑ sonali, attraverso una surrettizia traslazione sugli stessi del rischio d’impresa, o meglio del rischio di insolvenza, che ri‑ G. Guizzi, L’art. 146 l. fall. nel sistema delle azioni di responsabilità nei con‑ fronti degli amministratori di società. Un falso problema?, in Riv. dir. comm., 1999, 937 s. 12 Fra le voci più autorevoli, A. Bonsignori, Il fallimento delle società, in F. Galgano (diretto da), Trattato dir. comm. e dir. pubbl. econ., X, Padova, 1986, 262 s.; P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sin‑ daci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, 548 ss.; L. Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fallimento, 1989, 973 ss.; si vedano, altresì, più di recente, E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della so‑ cietà fallita, in Riv. dir. priv., 2004, 7 ss.; S. Ambrosini, in S. Ambrosini, G. Cavalli, A. Jorio (a cura di), Il fallimento, in G. Cottino (diretto da), Tratta‑ to di diritto commerciale, XI, Padova, 2009, 757 ss.; nonché, M. Spiotta, Luci e ombre sul fallimento della società e dei soci, in A. Jorio, M. Fabiani (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze normative a cinque anni dalla riforma, Bologna, 2010, 858; in termini meno critici, G. Guizzi, L’art. 146 l. fall. nel sistema delle azioni di responsabilità nei con‑ fronti degli amministratori di società. Un falso problema?, 944; N. Rondinone, La responsabilità per l’incauta gestione dell’impresa in crisi tra vecchio e nuovo diritto societario, in Fallimento, 2005, 59. 13 Così P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, 550. 2 0 1 3 15 corda la peculiare esperienza francese dell’action en comble‑ ment du passif social (art. 99, loi 13 juillet 1967, n. 563), la quale, peraltro, in Francia è stata col tempo notevolmente stemperata14. Approfondendo, poi, maggiormente il criterio adottato dalla giurisprudenza, emerge chiaramente che esso mal si concilia con i più elementari postulati della c.d. business judgement rule, che sancisce l’insindacabilità delle scelte im‑ prenditoriali degli amministratori15. Difatti, applicare una tecnica di determinazione automatica e approssimativa del danno risarcibile, come quella che considera complessivamen‑ te il deficit fallimentare, rischia di chiamare a rispondere i gestori anche per conseguenze negative derivanti da decisioni rientranti nella loro sfera di discrezionalità, le quali non pos‑ sono essere reputate fonte di responsabilità, né tanto meno di danno risarcibile. In termini più generali, poi, non sembra comunque corret‑ to accomunare indistintamente e ricomprendere in un’unica voce di danno tutte le conseguenze (negative) dell’intera ge‑ stione sociale, che possono anche scaturire da fattori del tutto estranei alla condotta commissiva od omissiva di gesto‑ ri e controllori. Da più parti, perciò, è stata rimarcata con forza l’inatten‑ dibilità del criterio dello sbilancio fallimentare, contestando‑ ne l’imprecisione non solo per eccesso, ma anche per difetto. In particolare, si è evidenziato che tale metodo di calcolo è impreciso per eccesso perché non sempre il deficit fallimenta‑ re è attribuibile per intero al comportamento colposo degli amministratori, potendo, ad esempio, dipendere da eventi di mercato; inoltre perché l’attivo risente della svalutazione dei beni soggetti alla liquidazione fallimentare, mentre il passivo tende ad incrementarsi per effetto delle sanzioni connesse ai debiti d’imposta e previdenziali che la società in esercizio potrebbe sovente evitare16; ed ancora in quanto il passivo può lievitare per il maturare di interessi su crediti esigibili, che non possono essere soddisfatti se non via via che le attività vengo‑ no liquidate17. È emersa con altrettanta chiarezza, poi, l’imprecisione per difetto del criterio dello sbilancio fallimentare se solo si con‑ sidera che, pur ricollegandosi tutte le perdite alla mala gestio degli amministratori, il differenziale negativo tra attivo e passivo può risultare inferiore al danno arrecato nella misura 14In particolare, si vedano le modifiche apportate all’art. 99, loi n. 563/67, da parte dell’art. 180, loi 25 janvier 1985, n. 98, successivamente trasfuso nell’art. L 651-2 code de commerce. 15 Al riguardo, si vedano, fra gli altri, C. Angelici, Diligentia quam in suis e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, 675 ss.; R. Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974, 186 ss. e 297 ss.; L. Enriques, Il nuovo diritto societario nelle mani dei giudici: una ri‑ cognizione empirica, in Stato e mercato, 2001, 75 ss.; Id., Do Corporate Law Judges Matter? Some Evidence from Milan, in European Business Organization L. Rev., 2002, 765 ss.; M. Libertini, Considerazioni introduttive, in U. Breccia, L. Bruscuglia, D. Busnelli (a cura di), Il diritto privato nel prisma dell’interesse legittimo, Torino, 2001, 147 ss. e 176 ss.; nonché, più di recente, C. Gamba, Diritto societario e ruolo del giudice, Padova, 2008. 16 Così L. Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, 973 ss.; G. Dongiacomo, Le azioni di responsabilità nel fallimento, in P. Celentano, E. Forgillo (a cura di), Fallimento e concordati, Torino, 2008, 898; Trib. Milano, 22 settem‑ bre 1998, in Dir. fall., 1989, II, 449; Trib. Napoli, 27 novembre 1993, in Fal‑ limento, 1994, 861. 17In questi termini Trib. Catania, 8 maggio 1998, in Dir. fall., 1998, II, 599; Trib. Milano, 30 ottobre 2003, in Fallimento, 2005, 45. civile Gazzetta 16 D i r i t t o e p r o c e d u r a in cui alcuni creditori rinunzino a proporre domanda di am‑ missione al passivo fallimentare18. A ciò si aggiunga, infine, che il metodo in questione finisce per addossare agli amministratori responsabili gli esiti della procedura concorsuale dipendenti dalla capacità (rectius in‑ capacità) gestionale del curatore fallimentare19 o da fatti successivi alla dichiarazione di fallimento e, comunque, a loro estranei 20. Di qui la diffusa diffidenza nei confronti della metodica del deficit fallimentare, che, secondo le più rigorose ricostru‑ zioni dottrinali, contrasta, almeno se impiegato in modo in‑ differenziato, con i principi che ispirano il sistema di respon‑ sabilità contemplato dagli artt. 1223 ss. c.c., in base al quale il danno deve essere effettivo, ossia legato da un rapporto di causalità materiale alla condotta illecita, non potendo ammet‑ tersi nel nostro ordinamento “danni punitivi” o equivalenti meccanismi sanzionatori 21. 2.2. – L’inversione di tendenza della Corte di Cassazio‑ ne. Dopo qualche timida deviazione dall’indirizzo dominante da parte di alcuni giudici di merito22 , la Corte di Cassazione ha progressivamente superato l’orientamento tradizionale e, ripudiando il metodo del deficit fallimentare, ha statuito che il danno cui deve essere condannato l’amministratore respon‑ sabile debba essere quantificato in relazione alle conseguenze dirette ed immediate delle singole violazioni riscontrate, e cioè individuato con riferimento al concreto pregiudizio che cia‑ scun atto di amministrazione ha comportato23. Col tempo, quindi, si assiste ad una decisiva inversione di rotta della giurisprudenza, che ha raggiunto il suo culmine con due note sentenze della Corte di Cassazione del 2005, le quali hanno fermamente riaffermato, anche in sede fallimen‑ tare, i principi civilistici in materia di responsabilità, specie per quanto concerne colpevolezza e nesso di causalità, ed 18 Cfr. L. Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, 973 ss.; N. Rondinone, La responsabilità per l’incauta gestione dell’impresa in crisi tra vecchio e nuovo diritto societario, 56; Trib. Genova, 24 novembre 1997, in Fallimento, 1998, 843. 19In questi termini M. Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, in F. Galgano (diretto da), Le società, Torino, 2002, 405 s. 20 Ad esempio, il dissesto potrebbe discendere dal fallimento di un importante cliente, che renda inesigibili i crediti verso il medesimo, come evidenziato da M. Franzoni, Le responsabilità civili degli amministratori di società di capitali, in F. Galgano (diretto da), Trattato dir. comm. e dir. pubbl. econ., XIX, Padova, 1994, 18. 21Si vedano, fra gli altri, R. Rordorf, Il risarcimento del danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, sindaci, liquidatori e direttori genera‑ li di società fallite, in Società, 1993, 617; S. Di Amato, L’azione di responsa‑ bilità ex art. 146 legge fallimentare alle soglie della riforma del diritto societario, in Dir. fall., 2003, I, 66 s.; nonché, E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, 29, il quale, peraltro, appare favorevole ad un’introduzione normativa dei “danni punitivi” in materia di gestione societaria. 22 Cfr. Trib. Genova, 6 aprile 1993, in Fallimento, 1993, 1263; Trib. Torino, 24 dicembre 1994, in Dir. fall., 1995, II, 361; Trib. Milano, 18 maggio 1995, in Società, 1995, 1597; App. Bologna, 5 febbraio 1997, in Foro it., 1997, I, 2284. 23 Fra le altre, Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, in Dir. fall., 1998, II, 878 (con nota di G. Ragusa Maggiore, Ancora su nuove operazioni e responsabilità degli organi sociali in sede fallimentare); Cass., 2 novembre 1998, n. 10937; Cass., 22 ottobre 1998, n. 10488, in Giust. civ., 1999, I, 75 (con nota di V. Salafia, Considerazioni in tema di responsabilità degli amministratori verso la società e verso i creditori sociali); Cass., 4 aprile 1998, n. 3483, in Dir. fall., II, 1999, 1032. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E hanno stabilito che il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare rimane utilizzabile, quale criterio presun‑ tivo, e salva la prova contraria del minor danno, solo nel caso in cui il curatore si trovi nell’assoluta impossibilità di proce‑ dere alla ricostruzione delle vicende societarie per la sostan‑ ziale mancanza delle scritture contabili, sempre che sia logi‑ camente plausibile che il comportamento illegittimo degli amministratori, in relazione alle circostanze del singolo caso, abbia potuto provocare un danno corrispondente all’intero sbilancio patrimoniale della società, quale accertato in sede concorsuale24. A queste sentenze si è successivamente uniformata, in linea di massima, la gran parte delle decisioni dei giudici di merito e della Suprema Corte, sia pur adottando soluzioni non sem‑ pre del tutto omogenee e talvolta sin’anche contraddittorie25. Si è andato, così, consolidando un nuovo indirizzo giuri‑ sprudenziale volto ad escludere la possibilità di impiegare in modo diffuso e generalizzato il criterio dello sbilancio falli‑ mentare, che può, invece, trovare applicazione soltanto nelle ipotesi più gravi, allorché non sia possibile addivenire alla prova effettiva del danno arrecato dai soggetti preposti alla gestione ed al controllo di società (poi) fallite. In questa pro‑ spettiva, si tende ad individuare come naturale ambito appli‑ cativo del suddetto criterio i casi in cui manchino le scritture contabili ed i bilanci, al punto da non consentire una precisa ricostruzione delle vicende societarie e dei fatti di gestione. In merito alla prova del danno, quindi, la giurisprudenza più recente, pur confermando la necessità in via generale di un rigoroso accertamento secondo i principi civilistici, con‑ sente di far ricorso al criterio che individua il danno nella differenza tra attivo e passivo risultanti in sede fallimentare soltanto quando la quantificazione dello stesso sia stata im‑ possibile per causa imputabile agli stessi amministratori, come appunto avviene, anzitutto, qualora abbiano omesso di tene‑ 24 Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, in Foro it., I, 2006, 1898; Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, in Giur. it., 2005, 1637: l’importanza di queste due sentenze – che vedono entrambe come illustre relatore Renato Rordorf – non è tanto nell’avere segnato l’inversione di rotta della giurisprudenza, già avvenuta pre‑ cedentemente, quanto piuttosto nell’aver messo ordine, da un punto di vista concettuale, tra il vecchio orientamento e le nuove posizioni dei giudici, inqua‑ drando il metodo del deficit fallimentare come regola meramente residuale, operante soltanto in ipotesi ben determinate, nelle quali sia impossibile quan‑ tificare il danno risarcibile. 25Seguendo un criterio un po’ eterodosso, ritengo sia utile considerare le senten‑ ze in materia nella loro successione cronologica, a prescindere da una distinzio‑ ne in base al grado di giudizio, poiché ciò consente di cogliere meglio il percor‑ so evolutivo della giurisprudenza su una tematica che, pur richiedendo l’affer‑ mazione di precisi principi di diritto, si sviluppa in tutta la sua complessità nell’ambito dei giudizi di merito, specie innanzi ai tribunali: così, ex multis, Trib. Napoli, 4 aprile 2000, in Società, 2000, 1243; Trib. Catania, 1 settembre 2000, in Fallimento, 2001, 1127; Trib. Milano, 10 maggio 2001, in Giur. it., 2001, I, 2, 1898; Trib. Como, 16 giugno 2001, ivi, 2002, I, 2, 568; Trib. Na‑ poli, 22 gennaio 2002, in Giur. napoletana, 2002, 191; Trib. Milano, 20 feb‑ braio 2003, in Fallimento, 2003, 268; Trib. Milano, 30 ottobre 2003, ivi, 2005, 45; App. Bologna, 12 gennaio 2004, ibidem, 37; Trib. Torino, 15 aprile 2005, in Giur. it., 2005, 1859; Trib. Marsala, 2 maggio 2005, in Fallimento, 2006, 461; Trib. Torino, 6 maggio 2005, in Giur. it., 2005, 1858; Trib. Milano, 29 marzo 2006, in Corr. merito, 2007, 1, 42; Trib. Salerno, 25 ottobre 2006, ibidem, 74; Trib. Milano, 14 novembre 2006, in Società, 2007, 864; Cass., 23 luglio 2007, n. 16211, ivi, 2008, 1364; Trib. Torino, 12 gennaio 2009, in Fallimento, 2010, 35; Cass., 22 aprile 2009, n. 9616; Trib. Milano, 27 aprile 2009, in Giur. it., 2009, 2466; Cass., 8 luglio 2009, n. 16050, in Società, 2010, 407; Trib. Milano, 14 ottobre 2009; Trib. Milano, 24 novembre 2009, in Giur. it., 2010, 1329; Trib. Milano, 10 marzo 2010, in Società, 2010, 774; Cass., 11 marzo, 2011, n. 5876; Cass., 4 aprile 2011, n. 7606. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o re un’adeguata contabilità 26. In questi termini, si può dire che si sia affermato un vero e proprio principio giurisprudenziale, secondo il quale la liqui‑ dazione del danno, nel giudizio di responsabilità ex art. 146 l. fall., deve avvenire facendo riferimento alle regole sul nesso di causalità materiale e cioè valutando, in concreto, quanta parte dell’attivo patrimoniale perduto sia eziologicamente imputabile alle singole condotte; tuttavia, la stessa giurispru‑ denza ha altresì precisato che là dove non sia materialmente possibile procedere alla quantificazione analitica del danno, per l’impossibilità di ricostruire la gestione sociale in modo da individuare le conseguenze dannose dei singoli atti illeciti, soccorre il criterio della determinazione del danno con riferi‑ mento alla differenza tra l’attivo ed il passivo fallimentare27. 2 0 1 3 17 3. Il criterio dei netti patrimoniali di periodo I successivi sviluppi che si registrano in dottrina e giuri‑ sprudenza sono indirizzati ad affinare maggiormente i criteri da impiegare per una più precisa quantificazione del danno derivante da mala gestio, allorché, sopraggiunto il fallimento della società, il curatore eserciti l’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. In questa prospettiva, è stato elaborato un nuovo metodo di determinazione del danno risarcibile, noto come il criterio dei netti patrimoniali di periodo28, a volte inteso come una mera specificazione del criterio del deficit fallimentare, altre volte considerato come una tecnica distinta ed alternativa rispetto a quest’ultimo. Un primo dato che è possibile evincere dalla prassi appli‑ cativa è che il criterio dei netti patrimoniali di periodo entra in gioco ogni qualvolta la condotta illecita degli amministra‑ tori rilevi, piuttosto che nella causazione diretta del fallimen‑ to, nell’aggravamento del dissesto della società 29. Qui, infatti, gli amministratori sono chiamati a rispondere per avere pro‑ seguito l’ordinario esercizio dell’attività produttiva, piuttosto che assumere tempestivamente le iniziative previste dalla legge nel momento in cui si verifichi una causa di scioglimen‑ to prevista dall’art. 2484 c.c., di solito rappresentata dalla perdita del capitale sociale rilevante ex artt. 2447 e 2482‑ter c.c., oppure in presenza dello stato di insolvenza della socie‑ tà30. In questi casi l’aggravamento della situazione di crisi è evidentemente ascrivibile all’ingiustificata ed illegittima iner‑ zia degli amministratori, i quali non hanno rispettato quanto prescritto dall’art. 2485 c.c. in merito alla pubblicità della causa di scioglimento oppure, in caso di insolvenza, non si sono attivati per tempo al fine di presentare istanza al tribu‑ nale per la dichiarazione di fallimento della società, determi‑ nando così un incremento delle perdite e l’aggravamento del dissesto31. Pertanto, in caso di inerzia colpevole dell’amministratore, il quale non si è limitato ad una gestione meramente conser‑ vativa del patrimonio sociale ai sensi dell’art. 2486 c.c.32 , e maggiormente, in presenza di una situazione di insolvenza, non si è attivato per richiedere il fallimento della società, il danno può essere quantificato nella misura differenziale tra il saldo del patrimonio netto risultante dal bilancio nel mo‑ mento in cui l’amministratore acquisisce o avrebbe dovuto acquisire consapevolezza del dissesto e quello all’atto della dichiarazione di fallimento, rettificando il primo in modo da fare emergere la perdita allora già maturata e tenendo conto della diminuzione di valore che il patrimonio, presumibilmen‑ te, avrebbe comunque subito qualora fossero stati assolti senza indugio gli obblighi di legge33. Il danno, quindi, viene determinato nella differenza che risulta dalla comparazione tra la situazione patrimoniale della società riferita alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento oppure l’insolvenza della società e la situazione patrimoniale riferita alla data della dichiarazione di fallimen‑ to34. Più precisamente, con il metodo in questione vengono presi in considerazione, da un lato, il patrimonio netto calco‑ lato alla data in cui gli amministratori (o i controllori) pren‑ dono, o avrebbero dovuto prendere, conoscenza della causa di scioglimento e/o dell’insolvenza, dall’altro, il patrimonio netto relativo al momento in cui gli amministratori (e/o i controllori) vengono sostituiti o sopraggiunge il fallimento della società. È evidente che, nei casi considerati, tale metodica consente di calcolare in modo più preciso i pregiudizi derivanti dalla condotta illecita degli amministratori, superando buona par‑ te dei rilievi critici mossi al criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare. In questo modo, infatti, il danno viene quantificato in base alla somma algebrica delle conseguenze economiche di vicende positive e negative che trova riscontro nei saldi di periodo, i quali indicano l’evoluzione in peius del patrimonio netto della società nell’arco di tempo considerato, il cui peggioramento deriva dall’illegittima prosecuzione 26 Cfr. Cass., 8 luglio 2009, n. 16050, cit.; Cass., 22 aprile 2009, n. 9616, cit.; Trib. Milano, 10 marzo 2010, cit.; Trib. Milano, 24 novembre 2009, cit.; Trib. Milano, 14 ottobre 2009, cit.; Trib. Milano, 27 aprile 2009, cit.; Trib. Torino, 12 gennaio 2009, cit. 27 Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, cit.; Cass., 23 luglio 2007, n. 16211, cit.; Cass., 8 luglio 2009, n. 16050, cit. 28Si vedano, ad esempio, Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, in Dir. e prat. socie‑ tà, 2005, 71; Trib. Milano, 3 febbraio 2010; Trib. Torino, 12 gennaio 2009, in Fallimento, 2010, 35; Trib. Padova, 24 giugno 2009, ibidem, 729; Trib. Marsala, 2 maggio 2005, in Fallimento, 2006, 461; in dottrina, fra gli altri, A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsa‑ bilità, 155 ss.; nonché, D. Galletti, Brevi note sull’uso del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità, in www.ilcaso. it, doc. n. 215/2010, 1 ss. 29In questi termini, A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azio‑ ni di responsabilità, 155 ss. 30Si tenga presente che spesso la situazione di insolvenza irreversibile si manifesta prima della perdita del capitale sociale rilevante ex artt. 2447 e 2482-ter c.c. 31Tale condotta assume rilevanza anche sul piano penale secondo il combinato disposto degli artt. 217, comma 1, e 224 l. fall. 32Si veda, fra i molti, G. Niccolini, Commento ad art. 2485, in G. Niccolini, A. Stagno d’Alcontres (a cura di), Società di capitali. Commentario, Napoli, 2004, 1728. 33 Condivide tale approccio ermeneutico A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, 156, il quale precisa altresì che, in caso di pluralità di amministratori, occorre distinguere le responsabilità di ciascuno di essi in relazione alla permanenza in carica e alla posizione ricoperta nella società da ognuno di loro. 34 Cfr. Trib. Marsala, 2 maggio 2005, cit., secondo cui, in ipotesi di azione di responsabilità fondata sulla mancata liquidazione e sul compimento di nuove operazioni, il danno risarcibile è dato dal minor valore del patrimonio sociale e complessivamente della garanzia patrimoniale dei creditori e può essere quantificato nella differenza di patrimonio netto della società tra il momento del verificarsi della causa di scioglimento e quello della data di fallimento; analogamente, Trib. Milano, 7 febbraio 2003, in Società, 1385; Trib. Catania, 29 settembre 2000, in Foro it., 2001, I, 1729. civile Gazzetta 18 D i r i t t o e p r o c e d u r a dell’attività d’impresa35. Ciò nonostante, non si è mancato di evidenziare un’inevi‑ tabile margine di imprecisione che presenta anche questo modus operandi. Innanzi tutto, come rilevato da autorevole dottrina, anche atti di per sé non direttamente lesivi possono avere inciso sull’aggravamento del dissesto, per il solo fatto di aver ritardato il fallimento36. D’altra parte, al verificarsi di una causa di scioglimento, non è agevole, e può risultare ol‑ tremodo artificioso, distinguere tra le operazioni che hanno una finalità conservativa e quelle che, invece, ne sono prive, dovendosi più correttamente considerare non già il singolo atto, ma la complessiva attività37, che nel suo insieme deve essere espressione di una gestione conservativa del patrimonio sociale in vista della sua liquidazione, secondo quanto dispo‑ sto dall’art. 2486 c.c., il quale – a seguito della riforma socie‑ taria del 2003 – ha sostituito il rigido divieto di nuove opera‑ zioni che era contenuto nel previgente art. 2449 c.c. 38. Nei casi indicati, pertanto, non viene contestato all’ammi‑ nistratore l’aver posto in essere singoli e determinati atti ge‑ stori pregiudizievoli, ma di avere proseguito l’attività impren‑ ditoriale pur in presenza di una causa di scioglimento della società, come ad esempio quella relativa alle perdite rilevanti ex artt. 2447 e 2482‑ter c.c., oppure nonostante la sussisten‑ za di uno stato di insolvenza, così da determinare un incre‑ mento dell’indebitamento e/o un deterioramento della situa‑ zione patrimoniale, aggravando quindi il dissesto della socie‑ tà, anzitutto a discapito dei creditori sociali. I più attenti osservatori, però, non hanno mancato di evi‑ denziare taluni aspetti problematici derivanti anche dall’im‑ piego della metodica dei netti patrimoniali di periodo39. Si è rilevato, in particolare, che l’attivo considerato è costituito da alcuni cespiti destinati, comunque, a subire inevitabili e signi‑ ficative svalutazioni una volta avviata la procedura liquida‑ toria o concorsuale (come avviene, ad esempio, per gli intan‑ gibile assets)40. Ed un discorso speculare vale anche per deter‑ 35Spunti in tal senso sono rinvenibili in L. Panzani, Responsabilità degli ammi‑ nistratori: rapporto di causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, 980; C. Proto, Responsabilità e danno nell’azione del curato‑ re contro amministratori e sindaci, in Fallimento, 1998, 678. 36 A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsa‑ bilità, 156 s. 37Sulla nozione giuridica di attività, come serie coordinata di atti legati da una funzione unitaria, si veda, per tutti, G. Auletta, voce Attività (diritto privato), in Enc. dir., III, Milano, 1958, 981 ss. La rilevanza che, nel diritto dell’impresa, riveste il concetto dinamico di attività, in contrapposizione ad una considera‑ zione atomistica del singolo atto, è autorevolmente rimarcata da P. FerroLuzzi, I contratti associativi, Milano, 1971, 188 ss.; C. Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova, 2006, 189 ss. 38Per approfondimenti in merito alla disciplina previgente, si rinvia, ex multis, a G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni, in G.E. Colombo, G.B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni, 7***, Torino, 1997, 247 ss. 39 Cfr. Cass., 23 maggio 2008, n. 17033, in Fallimento, 2009, 565, dove si legge che «nel caso in cui l’azione di responsabilità nei confronti degli am‑ ministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’art. 2447 c.c., non è giustificata, in mancanza di uno specifico accerta‑ mento in proposito, la liquidazione del danno in misura pari alla perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività, poiché non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell’attività medesima, potendo in parte comunque prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa». 40 Così Cass., 23 maggio 2008, n. 17033, cit.; App. Bologna, 21 marzo 2007, in c i v i l e Gazzetta F O R E N S E minate poste del passivo, che ben può incrementarsi a prescin‑ dere dalla condotta dei gestori (si pensi all’incidenza automa‑ tica di interessi ed altri oneri finanziari, come i canoni di le‑ asing), e quindi loro non imputabile. Nonostante simili rilievi puntuali, sembra, però, inconte‑ stabile che, in caso di aggravamento della crisi per non aver dato corso alla liquidazione o al fallimento, il deterioramento della situazione economica e finanziaria della società in dif‑ ficoltà, connessa all’esigenza di reperire fonti esterne di finan‑ ziamento per proseguire l’impresa, di solito più costose rispet‑ to a quelle reperibili in condizioni di fisiologico svolgimento dell’attività produttiva, determina un incremento degli oneri finanziari, che a rigore non può che essere imputato agli am‑ ministratori41. In fin dei conti, il criterio dei netti patrimoniali di periodo è senz’altro più attendibile di altre metodologie di calcolo, per lo meno in determinate situazioni, ma presenta inevitabilmen‑ te un certo margine di approssimatività, consistendo pur sempre in una comparazione virtuale, rispetto alla quale non è agevole stabilire quali debbano essere le modalità di indivi‑ duazione dei valori iniziali e finali di riferimento, tenuto conto che i bilanci sono redatti secondo criteri prudenziali, rispetto alle rappresentazioni in essi contenute vi sono valori inespressi e i loro contenuti variano a seconda se riferiti ad un’impresa in funzionamento, in liquidazione o fallita, specie per quanto concerne l’applicazione/disapplicazione del prin‑ cipio del going concern. 4. Verso una ricostruzione sistematica Come evidenziato nei precedenti paragrafi, quindi, con riguardo al quantum debeatur relativo alle azioni ex art. 146 l. fall., si registra una significativa evoluzione giurispruden‑ ziale: all’indirizzo secondo cui il danno può essere commisu‑ rato alla differenza fra l’attivo realizzato e il passivo accerta‑ to nella procedura concorsuale, variamente criticato dalla dottrina, si contrappone una più rigorosa impostazione, ora‑ mi affermatasi nella giurisprudenza più recente, fondata sulla necessità di determinare il danno in relazione alle conseguen‑ ze immediate e dirette delle violazioni contestate e dimostra‑ te, fatto salvo il ricorso a criteri presuntivi e/o equitativi lad‑ dove il concreto pregiudizio oggetto di prova sia di difficile quantificazione. All’esito del rapido excursus del dibattito relativo alla problematica in esame, tuttavia, si ha l’impressione che, pur dovendosi riconoscere il conseguimento di un alto grado di affinamento delle soluzioni proposte ed adottate, da accoglie‑ re senz’altro con favore, ciò nondimeno manchi ancora una coerente visione di insieme ed un preciso inquadramento si‑ stematico della questione in esame, sia pur considerata in tutta la sua complessità teorica ed applicativa, che emerge inequivocabilmente dalla casistica giurisprudenziale. www.giuremilia.it. 41Occorre, altresì, considerare che incidono sulla situazione in cui si trova la società le richieste di rientro delle banche, che diventano quasi inevitabili nel momento in cui queste ultime siano venute a conoscenza della situazione di difficoltà o addirittura di insolvenza della società. Certamente meno problema‑ tici sono, invece, i costi fissi relativi alla gestione del personale, ossia oneri re‑ tributivi e previdenziali, che in caso di cessazione dell’attività imprenditoriale della società non graverebbero sul patrimonio sociale, analogamente a quanto avviene per taluni oneri fiscali. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o Senza pretendere di dare, in questa sede, una soluzione al problema di vertice cui si è accennato, che richiederebbe ben altri approfondimenti, ci si sente tuttavia di affermare con una certa sicurezza che, fra le diverse metodologie elaborate nel corso del tempo per quantificare i danni da mala gestio in sede concorsuale, non vi sia necessariamente antitesi ed in‑ compatibilità, ma anzi – a ben vedere – possano (e debbano) essere tutte ricondotte ad unità secondo una coerente logica di sistema. Innanzi tutto, va premesso che, considerando la posizione processuale dell’amministratore convenuto in giudizio, il problema non mi pare vada posto tanto in termini di inver‑ sione dell’onere della prova – specie ora che sembra aver perso di intensità la questione relativa alla natura delle azioni di responsabilità42 , potendosi ricondurre anche l’azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. nell’ambito della più ampia responsabilità da inadempimento di preesistenti obblighi di legge43 – trattandosi piuttosto di un ragionevole aggravamen‑ to dell’onus probandi sulla base del principio di contiguità o vicinanza alla fonte della prova, ampiamente acquisito a livel‑ lo giurisprudenziale44. Pertanto, sarà l’amministratore conve‑ nuto in giudizio a dover dimostrare l’assenza di un rapporto di consequenzialità tra la sua condotta illegittima e l’evento dannoso, per cui, in presenza di una causa di scioglimento o dell’insolvenza della società, qualora non abbia rispettato quanto prescritto dall’art. 2485 c.c. oppure non abbia dato impulso alla dichiarazione di fallimento, dovrà fornire la prova, certo non facile, che la sua inottemperanza al compor‑ tamento doveroso non ha provocato alcun danno o che non tutta la perdita patrimoniale conseguente alla prosecuzione dell’attività è imputabile alla sua responsabilità, posto che è stata determinata da cause ad egli estranee e che, comunque, si sarebbe verificata qualora avesse adottato le iniziative ne‑ cessitate. Analogo discorso può farsi con riguardo all’impiego del criterio dello sbilancio fallimentare nel caso in cui le scritture contabili non siano state tenute o la loro irregolarità sia tale da non consentire la ricostruzione dei fatti di gestione45. Inve‑ 42Si tenga, peraltro, presente che la significativa diffusione dei concordati preven‑ tivi, a seguito dei più recenti interventi normativi, è destinata a porre maggior‑ mente al centro dell’attenzione l’azione sociale di responsabilità, dal momento che gli organi della liquidazione concordataria sono legittimati ad esperire soltanto l’azione di responsabilità nell’interesse della società, in mancanza di una norma che concentri nelle loro mani anche l’azione dei creditori sociali. 43 Così, fra gli altri, G. Guizzi, L’art. 146 l. fall. nel sistema delle azioni di respon‑ sabilità nei confronti degli amministratori di società. Un falso problema?, 942 s.; P.P. Ferraro, Sulla responsabilità degli amministratori di società a respon‑ sabilità limitata nei confronti dei creditori sociali, in Dir. fall., II, 2011, 122 s. 44 Fondamentale, a riguardo, quanto statuito da Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Giust. civ., 2002, I, 1934. A questa sentenza si è unifor‑ mata la giurisprudenza unanime della Suprema Corte: si vedano, in partico‑ lare, Cass., 28 gennaio 2002, n. 982, in Giust. civ., 2002, I, 978; Cass., 21 febbraio 2003, n. 2647; Cass., 1 aprile 2004, n. 6395, in Giust. civ., I, 448; Cass., 13 giugno 2006, n. 13674; Cass., 26 gennaio 2007, n. 1743, in Giust. civ., 2007, I, 2121; Cass., 11 novembre 2008, n. 26953; Cass., 3 luglio 2009, n. 15677; Cass., 20 gennaio 2010, n. 936, in Riv. dir. proc., 2011, I, 186; Cass., 15 luglio 2011, n. 15659. 45 Beninteso la violazione sia dell’obbligo di tenere regolarmente le scritture con‑ tabili, sia dell’obbligo di depositare tale documentazione presso la cancelleria del tribunale rileva in primo luogo sotto il profilo penale, configurando i reati fallimentari di cui agli artt. 216, comma 1, 2), 217, comma 2, e 220 l. fall. Occorre, tuttavia, precisare che, secondo la più attenta giurisprudenza, la mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili è un comportamento contrario ai doveri degli amministratori di società, ma di per sé non è fonte di danno, a meno che ciò non abbia prodotto una diminuzione patrimoniale, in 2 0 1 3 19 ro, proprio considerando il suddetto principio di prossimità della prova, gli amministratori, ma anche i sindaci (e gli altri controllori), per non rispondere dei danni nella misura pari al deficit fallimentare, devono fornire una convincete prova li‑ beratoria, in quanto loro soltanto, oltre ad avere piena cono‑ scenza (o conoscibilità) delle vicende sociali, dispongono dei relativi strumenti di rappresentazione prescritti dalla legge. Alcuni problemi specifici si pongono, poi, sul piano istrut‑ torio. In particolare, lì dove sia utilizzabile il criterio del de‑ ficit fallimentare, occorre valutare quale rilevanza possa avere in concreto il ricorso, da parte del giudice, ad una con‑ sulenza tecnica d’ufficio, la quale – a ben riflettere – potrebbe rivelarsi inutile in assenza di scritture contabili regolari ed aggiornate sulla base delle quali elaborare la stima; d’altra parte, nell’ipotesi considerata la quantificazione dei danni si risolve in una semplice sottrazione matematica tra due valori (attivo e passivo) acquisiti o comunque agevolmente identifi‑ cabili e verificabili senza alcun bisogno di un ausilio tecnico specialistico. Né, a tal proposito, può destare qualche perples‑ sità l’impiego, come mezzo di prova, dello stato passivo, sebbene lo stesso costituisca il risultato di un accertamento con rilevanza meramente endofallimentare46. 4.1. – L’esigenza di distinguere tra le diverse situazioni. Dall’esame della vasta casistica giurisprudenziale emerge con una certa evidenza che, nell’individuazione del criterio di determinazione dei danni da mala gestio, è da escludere un discorso generalizzato, dovendosi piuttosto distinguere tra le diverse situazioni in cui, in concreto, vengono a trovarsi gli amministratori, tenuto conto di una serie di variabili, tra cui il differente contesto societario nel quale operano. In questa prospettiva, occorre anzitutto distinguere a se‑ conda se la condotta illegittima dell’amministratore sia stata la causa del dissesto della società oppure abbia determinato l’aggravamento di una preesistente situazione di crisi, più o meno significativa47. In presenza di uno stato di crisi della società che sia già consolidato, qualora si configuri una causa di scioglimento ex art. 2484 c.c., gli amministratori, una volta che ne siano venuti (o avrebbero dovuto venirne) a conoscenza, devono attivarsi tempestivamente, secondo quanto disposto dall’art. via diretta o indiretta, ad esempio nell’ipotesi in cui abbia consentito di prose‑ guire l’attività in una situazione che avrebbe imposto l’adozione delle misure previste dall’art. 2447 c.c. o dall’art. 2482-ter c.c.: cfr. Cass., 20 giugno 2000, n. 8368, in Fallimento, 2001, 745; Cass., 8 marzo 2000, n. 2624, in Foro it., 2001, I, 627; Trib. Milano, 7 giugno 2001, in Giur. milanese, 2001, 63; Trib. Ivrea, 29 gennaio 2004, in Società, 2004, 1564. 46Sul punto si vedano Cass., 28 marzo 1990, n. 2545, in Dir. fall., 1990, II, 966; Cass., 23 giugno 1977, n. 2671, secondo le quali «il principio, in base al quale il decreto di approvazione dello stato passivo non ha efficacia di giudicato fuori del procedimento fallimentare, non osta a che il giudice del merito, in un diverso processo (nella specie, instaurato dal curatore del fallimento di una società con azione di responsabilità contro gli amministratori ed i sindaci), possa utilizzare le risultanze di quello stato passivo come dati obiettivi su cui fondare il proprio convincimento (nella specie, al fine di stimare il danno pro‑ dotto dagli illeciti commessi da detti organi sociali)». 47La giurisprudenza, invece, non sempre distingue: cfr., ad esempio, App. Bologna, 12 gennaio 2004, e Trib. Milano, 30 ottobre 2003, entrambe in Fallimento, 2005, 37 e 45, che richiamano il criterio del deficit fallimentare quando agli amministratori sia imputabile il dissesto della società o il suo aggravamento. Si vedano, altresì, App. Milano, 14 ottobre 1994, in Società, 1995, 390: App. Milano, 27 aprile 1982, ivi, 1983, 27; Trib. Genova, 20 gennaio 1992, ivi, 1992, 538; Trib. Torino, 14 maggio 1991, ivi, 1991, 867; Trib. Milano, 13 ottobre 1983, ivi, 1984, 545. civile Gazzetta 20 D i r i t t o e p r o c e d u r a 2485 c.c., per avviare il procedimento di liquidazione volto ad estinguere la società dopo aver definito i rapporti giuridici pendenti48. A questo proposito, l’ipotesi più rilevante ai fini del nostro discorso, anche per la sua maggiore ricorrenza, è senza dubbio quella contemplata dagli artt. 2447 e 2482‑ter c.c., in relazione al verificarsi di perdite superiori ad un terzo del capitale sociale, che lo abbiano portato al di sotto del minimo legale o addirittura azzerato 49. È evidente che, nei casi considerati, l’inerzia degli ammini‑ stratori nell’avviare la liquidazione della società e, maggior‑ mente, in caso di insolvenza, nel “portare i libri in tribunale” per chiederne il fallimento, può rilevare sotto il profilo della responsabilità. Tuttavia, occorre tenere presente che, nel sistema societario riformato nel 2003, venuto meno il rigido divieto di nuove operazione previsto dalla disciplina previgente, gli ammini‑ stratori devono limitarsi ad una “gestione conservativa” del patrimonio sociale, come stabilito dall’art. 2486 c.c., che non è escluso possa includere anche la prosecuzione temporanea dell’attività di impresa in funzione di una migliore liquidazio‑ ne50, cosicché eventuali profili di responsabilità devono essere verificati e valutati caso per caso. Ed allora, in caso di omessa liquidazione, pur in presenza di una causa di scioglimento, oppure in caso di mancato “autofallimento”, nonostante lo stato di insolvenza, sul piano della responsabilità gestionale, il criterio che appare più ap‑ propriato per la determinazione del danno risarcibile è senza dubbio quello dei netti patrimoniali di periodo e non, invece, quello che individua il danno nella differenza negativa tra attivo e passivo fallimentare51. Invero, ciò che, in queste ipotesi, viene contestato agli amministratori è il non avere tempestivamente arrestato l’at‑ tività produttiva, una volta venute meno le condizioni che ne consentano la prosecuzione in termini di continuità azienda‑ le (going concern), facendo valere lo scioglimento della socie‑ tà o il suo fallimento, allorché ne ricorrano i presupposti. Pertanto, al verificarsi di una causa di scioglimento, tenu‑ to conto che non necessariamente i danni e, in particolare, le perdite che hanno inciso sul capitale sociale sono ricollegabi‑ li con certezza e per intero ad una condotta illegittima degli amministratori, in base al principio di causalità materiale, occorre considerare solo gli effetti degli atti vietati compiuti 48Si veda, per tutti, G. Niccolini, Commento ad art. 2485, 1730 ss.; nonché, F. Brizzi, Responsabilità gestorie in prossimità dello stato di insolvenza e tutela dei creditori, in Riv. dir. comm., 2008, I, 1027 ss. 49 Cfr., fra gli altri, R. Rordorf, La responsabilità degli amministratori di s.p.a. per operazioni successive alla perdita del capitale sociale, in Società, 2009, 277 ss.; nonché, G.M. Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita del capitale, in Fallimento, 2009, 569 ss.; in giurisprudenza, Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, in Dir. e prat. società, 2005, 71. 50Si vedano, tra gli altri, G. Ferri jr, La gestione di società in liquidazione, in Riv. dir. comm., 2003, 423 ss.; A. Paciello, Scioglimento e liquidazione, in AA.VV., Diritto delle società, Milano, 2012, 470 s. 51Ovviamente vi sono casi in cui la determinazione dei danni da risarcire è deci‑ samente più semplice: si veda, ad esempio, la soluzione adottata da Trib. Na‑ poli, 24 gennaio 2007, in Fallimento, 2007, 946, secondo cui l’amministratore della società fallita che abbia distrutto, distratto, sottratto, dissipato, abbando‑ nato od occultato una cospicua parte dei beni materiali della società è tenuto al risarcimento, in favore del fallimento, nella misura pari alla differenza tra il valore delle immobilizzazioni materiali da lui iscritte in bilancio e quello delle immobilizzazioni materiali inventariate dal curatore; in termini analoghi Trib. Milano, 18 maggio 1995, in Società, 1995, 1597. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E dopo il verificarsi della causa di scioglimento: ad esempio, il compimento di operazioni non rientranti in una “gestione conservativa” dopo che, in conseguenza di perdite, il capitale sociale sia andato al di sotto del minimo legale, senza che si sia provveduto alla ricapitalizzazione o alla trasformazione della società ai sensi degli artt. 2447 o 2482‑ter c.c. 52. A tal fine, peraltro, occorre sottrarre dalle passività derivanti dalle operazioni illegittime le attività da queste prodotte53. In alter‑ nativa, volendo considerare la complessiva attività, si può pensare di detrarre dal passivo fallimentare sia le passività riconducibili alla gestione anteriore alla causa di scioglimen‑ to, sia le attività conseguite successivamente alla stessa54. Ovviamente, sul piano processuale, il curatore deve pro‑ vare il compimento di nuovi atti di impresa non rientranti in operazioni in corso, né dettati da finalità conservative, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento55. Resta il fatto, però, che, nell’ambito di una complessa at‑ tività d’impresa, non è certo agevole distinguere fra gli effetti di ciascun atto di gestione, per cui non può farsi a meno di ricorrere a criteri presuntivi, onerando l’amministratore con‑ venuto di fornire la prova contraria. Quando, invece, mancano o sono gravemente irregolari le scritture contabili ed i bilanci, al punto da non consentire agli organi della procedura concorsuale una ricostruzione atten‑ dibile dei fatti di gestione, si deve ritenere applicabile il crite‑ rio semplificativo del deficit fallimentare, che può essere ammesso soltanto nelle ipotesi più gravi, nelle quali non sia possibile determinare altrimenti i pregiudizi arrecati alla so‑ cietà56. Occorre, tuttavia, chiarire quale sia il livello di irregolari‑ tà tale da giustificare il ricorso al criterio dello sbilancio fal‑ limentare. Al riguardo, ritengo che, non potendosi dare una risposta in termini generali ed assoluti, si debba verificare caso per caso se la corretta rappresentazione dei fatti di ge‑ stione sia, nella sostanza, gravemente compromessa, così da rendere impossibile la ricostruzione delle vicende societarie. Più problematico è, poi, stabilire se vi siano altre ipotesi nelle quali possa essere ravvisato nel deficit fallimentare il danno risarcibile per mala gestio. L’attenzione si sofferma su quelle condotte illegittime degli amministratori che abbiano inciso in maniera significativa sulla causazione del dissesto e del conseguente fallimento della società. Si pensi, ad esempio, ad iniziative imprendito‑ riali estremamente rischiose o avventate, che abbiano com‑ portato notevoli perdite o un eccessivo indebitamento della società, oppure, qualora la società appartenga ad un gruppo di imprese, ad atti di esecuzione delle direttive della holding in contrasto con l’interesse della società controllata, che l’ab‑ 52 Aperture in tal senso sono rinvenibili in Trib. Genova, 2 marzo 1992, in Falli‑ mento, 1992, 1047. 53 Cfr. Trib. Milano, 20 febbraio 2003, in Fallimento, 2003, 268. 54 Cfr. Cass., 5 gennaio 1972, n. 21, in Giust. civ., 1972, I, 246. 55 Così N. Rondinone, La responsabilità per l’incauta gestione dell’impresa in crisi tra vecchio e nuovo diritto societario, 60. 56 Cfr. Cass., 8 luglio 2009, n. 16050, cit. Più rigoroso, ma non senza una certa ambiguità, Trib. Milano, 14 novembre 2006, cit., secondo cui l’assenza o l’inaffidabilità delle scritture contabili o altri inadempimenti di carattere «for‑ male» non implicano tout court l’esistenza di un danno risarcibile, reputando necessario che il curatore accerti il nesso di causalità tra i dedotti atti omissivi o commissivi e il danno patrimoniale lamentato; analogamente, Trib. Milano, 10 maggio 2001, cit. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o biano portata al dissesto. A questo proposito, non sono mancate talune sentenze, le quali, individuando la condotta illecita degli amministratori come causa determinante del dissesto, hanno quantificato il danno risarcibile proprio facendo riferimento all’ammontare del passivo fallimentare, dedotto l’attivo esistente e recupera‑ to nell’ambito della procedura concorsuale57. Scongiurando eccessive semplificazioni, non solo con ri‑ guardo al nesso causale, ma anche per ciò che concerne l’in‑ dividuazione della condotta illegittima e del danno conse‑ guente58, sarei propenso, in linea di massima, ad applicare il criterio del deficit fallimentare come misura del risarcimento quando risulta in modo inequivoco che il dissesto ed il conse‑ guente fallimento della società siano stati determinati dalla condotta illegittima e abusiva degli amministratori convenu‑ ti in giudizio. Invero, se il fallimento è diretta conseguenza di operazioni illegittime compiute dagli amministratori che ab‑ biano arrecato pregiudizio alla società ed ai creditori sociali, lo svilimento del patrimonio residuo provocato dalla vicenda fallimentare rappresenta una conseguenza collegata all’ope‑ rato degli amministratori ed alla loro responsabilità, in coe‑ renza con l’interpretazione elastica della giurisprudenza in merito ai danni mediati e indiretti59. Per procedere in questa direzione, però, occorre valutare attentamente ciascun caso concreto, tenuto conto delle carat‑ teristiche strutturali della società e dell’assetto dei poteri esistente al suo interno. Allorché, ad esempio, venga utilizza‑ to un tipo societario come la s.r.l., rispetto al quale manca una netta linea di separazione tra proprietà e gestione (diver‑ samente da quanto previsto per la s.p.a.), il socio (o la coali‑ zione) di maggioranza o comunque di controllo può gestire direttamente la società e dispone di un potere di direzione dell’impresa sociale che gli consente di incidere in maniera penetrante sull’operato degli amministratori in carica, con tutto ciò che ne consegue sul piano della responsabilità60. 57Si pronunciano in senso conforme, in dottrina, A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, 153 ss.; in giurisprudenza, Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, in Fallimento, 1998, 666, secondo cui «anche una rigorosa applicazione delle regole sul nesso di causalità materiale ben giustifica la quantificazione del danno (…) nella differenza tra attivo e passivo (…) se, per fatto imputabile agli organi sociali, si sia venuto a determi‑ nare il dissesto della società e la conseguente sua sottoposizione a procedura concorsuale. Se, infatti, tra i comportamenti di amministratori e sindaci ed il dissesto vi è nesso eziologico, anche la liquidazione fallimentare ne è conseguen‑ za immediata e diretta»; nei medesimi termini, più di recente, Trib. Milano, 10 marzo 2010, in Società, 2010, 774, ove si legge che «in linea di principio, il danno risarcibile dagli amministratori convenuti in giudizio e da coloro che hanno concorso nell’illecito è quello causalmente riconducibile, in via imme‑ diata e diretta, alla condotta dolosa ovvero colposa dell’agente. Tuttavia, anche una rigorosa applicazione delle regole sul nesso di causalità materiale può giustificare – in mancanza di prova del maggior pregiudizio – la quantificazio‑ ne del danno nella differenza tra attivo e passivo fallimentare se per fatto im‑ putabile agli organi sociali si sia venuto a determinare il dissesto della società». Spunti in tal senso sono rinvenibili anche in Cass., 6 dicembre 2000, n. 15487; Cass., 17 settembre 1997, n. 9252; Cass., 8 febbraio 2000, n. 1375; Trib. Ca‑ tania, 8 maggio 1998, in Giur. merito, 1999, I, 607; Trib. Messina, 12 novem‑ bre 1999, in Fallimento, 2000, 1279. 58Trib. Milano, 10 marzo 2010, cit., evidenzia che la quantificazione del danno impone la rilevazione dell’efficacia causale dell’atto posto in essere rispetto al pregiudizio; solo nel caso di impossibilità o estrema difficoltà di fornire ade‑ guata prova del pregiudizio patrimoniale prodottosi, la liquidazione del danno può essere rapportata alla differenza fra attivo e passivo fallimentare. 59Si vedano, per tutte, Cass., 28 gennaio 2000, n. 971, in Dir. prat. soc., 2000, 7; Cass., 6 marzo 1997, n. 2009. 60Sul punto, sia consentito rinviare a P.P. Ferraro, Le situazioni soggettive del socio di società a responsabilità limitata, Milano, 2012, 199 ss. 2 0 1 3 21 In questi casi ben può riscontrarsi la sussistenza di un nesso di causalità materiale fra la condotta illecita o abusiva perpetrata da chi detiene le “redini” dell’impresa sociale e i danni arrecati alla società, al punto da non escludere una loro identificazione con il fallimento della società, che può essere considerato come un danno in re ipsa, senza che sia invocabile, quale facile esimente, la business judgement ru‑ le. Una simile modalità di misurazione del risarcimento – che (detto per inciso) si giustifica soltanto in una logica equitati‑ va61 – non può non coinvolgere chi è al vertice della società ed esercita un potere di direzione strategica dell’impresa sociale, che – a seconda del tipo di società e della sua conformazione statutaria – non è necessariamente colui che è formalmente investito della funzione amministrativa, ma può essere anche il socio (o i soci) di comando, come spesso accade nella s.r.l.62. In questa prospettiva, possono venire in rilievo, sul piano risarcitorio, anche operazioni decise dai soci63, che coinvolgo‑ no solo marginalmente gli amministratori, come, ad esempio, il trasferimento della sede sociale all’estero con finalità so‑ stanzialmente estintiva della società, senza passare per il procedimento di liquidazione, così danneggiando i creditori sociali. Nei termini specificati, quindi, il criterio del deficit falli‑ mentare può trovare applicazione ogniqualvolta il dissesto della società sia direttamente imputabile ad una illegittima condotta degli amministratori64, ovvero quando l’addebito sia costituito dall’assenza delle scritture contabili o dalla loro inidoneità a permettere la ricostruzione delle vicende patri‑ moniali ed economiche della società fallita65. 4.2. – Il paradigma della liquidazione equitativa del dan‑ no. Procedendo nella direzione indicata, fatta un’analitica scom‑ 61Vedi infra § 4.3. 62Si tenga presente che, con specifico riguardo alla s.r.l., l’art. 2476, comma 7, c.c. prevede la responsabilità, in solido con gli amministratori, del socio che abbia intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. Questa particolare forma di corresponsabilità gestionale – che il curatore fallimentare può attivare ai sensi dell’art. 146, comma 2, lett. b), l. fall. – si distingue dalla responsabilità del socio che abbia esercitato le mansioni gestorie senza essere formalmente investito dei relativi poteri (c.d. “amministratore di fatto”), al quale si applica la stessa disciplina degli amministratori in carica. Per approfondimenti, si vedano, ex multis, G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, in Commenta‑ rio Schlesinger, Milano, 2010, II, 1122 ss.; V. Meli, La responsabilità dei soci nella s.r.l., in P. Abbadessa, G.B. Portale (a cura di), Il nuovo diritto delle società. Liber Amicorum Gianfranco Campobasso, 3, Torino, 2007, 517 ss.; da ultimo, U. Tombari, La responsabilità dei soci, in A.A. Dolmet‑ ta, G. Presti (a cura di), S.r.l./Commentario dedicato a G.B. Portale, Milano, 2011, 717 ss.; tra le prime pronunzie giurisprudenziali, Trib. Salerno, 9 marzo 2010, in Società, 2010, 1455, con nota di V. Meli; più recentemente, App. Milano, 18 gennaio 2012, ivi, 2012, 462. 63 A riguardo, interessanti riflessioni sono rinvenibili in F. Guerrera, La respon‑ sabilità “deliberativa” nelle società di capitali, Torino, 2004, passim. 64 Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, cit.; Trib. Torino, 6 maggio 2005, cit.; App. Bologna, 12 gennaio 2004, cit.; Trib. Milano, 30 ottobre 2003, cit. 65 Cass., luglio 2009, 16050, cit.; Cass., 23 luglio 2007, n. 16211, cit.; Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, cit.; Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, cit.; Cass., 4 aprile 1998, n. 3483, cit.; App. Bologna, 12 gennaio 2004, cit.; App. Bo‑ logna, 5 febbraio 1997, cit.; Trib. Milano, 27 aprile 2009, cit.; Trib. Milano, 14 novembre 2006, cit.; Trib. Milano, 29 marzo 2006, cit.; Trib. Marsala, 2 maggio 2005, cit.; Trib. Milano, 30 ottobre 2003, cit.; Trib. Catania, 1 settembre 2000, cit. civile Gazzetta 22 D i r i t t o e p r o c e d u r a posizione delle diverse situazioni che, in sede fallimentare, possono venire in considerazione sul piano della responsabilità gestionale, occorre tentare di ricondurre ad unità di sistema i differenti metodi applicati dai giudici al fine della liquidazione dei danni risarcibili. Volendo, allora, proporre un unitario inquadramento delle soluzioni giurisprudenziali, talvolta contrastanti, mi sembra si possa senza dubbio affermare che i diversi criteri di quantifica‑ zione dei danni, a cominciare da quello più sbrigativo dello sbilancio fallimentare, nelle sue varie applicazioni, fino ad ar‑ rivare al più mirato criterio dei netti patrimoniali di periodo, vadano tutti ricondotti nell’ambito della tecnica di determina‑ zione equitativa del danno66, che pure è richiamata in talune sentenze che si sono occupate della questione in esame67. Pertanto, inquadrando, o meglio ricollocando, in una logica sistematica l’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., acquista importanza centrale la disposizione contenuta nell’art. 1226 c.c., che – sotto il profilo del quantum debeatur – stabilisce che, «se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa». In tal senso, tenuto conto che – in conformità alle regole generali operanti in materia di onus probandi – colui che pro‑ muove un’azione risarcitoria deve provare non solo la sussisten‑ za del danno, ma anche il suo esatto ammontare, eventualmen‑ te avvalendosi di presunzioni (artt. 2727 e 2729 c.c.), la liqui‑ dazione equitativa sopperisce soltanto al difetto di prova che riguarda la misura precisa del pregiudizio, ma presuppone co‑ munque la dimostrazione, da parte del danneggiato, dell’even‑ to lesivo68. Ciò vale, evidentemente, anche per il giudizio avente ad oggetto l’azione di responsabilità nei confronti dei gestori (e dei controllori) della società fallita69, nel quale è possibile il ricorso al criterio equitativo per la liquidazione del danno, ma questo presuppone che il pregiudizio economico del quale il curatore fallimentare reclama il risarcimento sia certo nella sua esisten‑ za ed è consentito al giudice soltanto in presenza di impossibi‑ 66Su posizioni analoghe E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, 26 ss. In senso contrario, invece, è orientato N. Rondinone, La responsabilità per l’incauta gestione dell’impresa in crisi tra vecchio e nuovo diritto societario, 57, il quale considera la quantificazione del danno secondo equità alternativa al criterio del deficit fallimentare. 67Si vedano, tra le decisioni della Corte di Cassazione, Cass., 4 luglio 2012, n. 11155; Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, cit.; Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, cit.; tra le sentenze di merito, App. Roma, 14 marzo 2000, in Gius., 2000, 1879; Trib. Bologna, 22 maggio 2007, in Guida al diritto, 2007, 82; Trib. Milano, 29 marzo 2006, cit.; Trib. Milano, 30 ottobre 2003, cit.; Trib. Catania, 29 settem‑ bre 2000, cit.; Trib. Genova, 24 novembre 1997, cit.; Trib. Roma, 10 febbraio 1987, in Dir. fall., 1988, II, 338. 68In questi termini, il danneggiato non è esonerato dall’onere di fornire gli ele‑ menti probatori e di comunicare i dati di fatto in suo possesso, al fine della determinazione, il più possibile precisa, del danno: così Cass., 26 febbraio 2003, n. 2874, in Giur. it., 2003, 2020; Cass., 7 marzo 2002, n. 3327, ivi, 2002, 2262; analogamente, Cass., 17 marzo 2006, n. 6067, secondo cui, la valutazione equitativa del danno è consentita soltanto qualora, sulla base del materiale probatorio acquisito al processo, sia possibile una quantificazione che non si discosti in misura notevole dalla sua reale entità, fermo l’obbligo del giudice di indicare, almeno sommariamente, i criteri seguiti nella propria determinazione. Più di recente, affermano la necessità della certezza dell’esistenza ontologica del danno, Cass., 30 aprile 2010, n. 10607; Cass., 15 febbraio 2008, n. 3794; Cass., 2 settembre 2008, n. 22061; in dottrina, fra gli altri, G. Visintini, Risarcimen‑ to del danno, in P. Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, 2ed, IX, Torino, 1999, 278. 69 Così G. Guizzi, L’art. 146 l. fall. nel sistema delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società. Un falso problema?, 944. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E lità ovvero oggettiva difficoltà per la curatela interessata di provare il suo esatto ammontare70. D’altra parte, è acquisito a livello giurisprudenziale che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. (così come in base all’art. 2056 c.c.), espressione del più ampio potere di cui all’art. 115 c.p.c. (relativo alla disponibilità delle prove), dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto, caratte‑ rizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva o integrativa71. Si spiega, così, perché l’attore può richiedere in via giudizia‑ le la liquidazione equitativa del danno, ma l’esercizio di tale facoltà è concesso al giudice dall’art. 1226 c.c. anche a prescin‑ dere da un’iniziativa di parte, allorché la prova dell’ammontare del danno risulti impossibile o difficoltosa, secondo quanto prospettato dall’attore72. Al tempo stesso occorre evidenziare che la determinazione del danno in via equitativa deve mantenersi entro il sistema codicistico di risarcimento espresso dagli artt. 1218 e 1223 c.c., onde non è ammissibile il ricorso a criteri del tutto personali o arbitrari di misurazione del pregiudizio, ma è possibile utiliz‑ zare soltanto metodiche oggettive e, soprattutto, verificabili nel 70In tal senso, si veda, fra le decisioni più recenti, Cass., 19 dicembre 2011, n. 27447, secondo cui «l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l’esistenza dei danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossi‑ bile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare»; analogamente, Cass., 30 aprile 2010, n. 10607. 71 Così è orientata la giurisprudenza della Suprema Corte: cfr., Cass., 18 no‑ vembre 2002, n. 16202, in Giur. it., 2003, 1342, dove si legge che «l’eserci‑ zio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che ri‑ sulti obbiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare, come desumibile dalle citate norme sostanziali, dall’altro non ricomprende anche l’accerta‑ mento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare sia la sussistenza sia l’entità mate‑ riale del danno, né esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprez‑ zamento equitativo sia per quanto possibile ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equi‑ valente pecuniario del danno stesso. La necessità della prova di un concreto pregiudizio economico sussiste anche nelle ipotesi di danno in re ipsa, in cui la presunzione si riferisce solo all’an debeatur, e non anche alla entità del danno ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione dello stesso per equivalente pecuniario»; nei medesimi termini, Cass., 18 giugno 2002, n. 8827, in Giust. civ., 2003, I, 1306, ove si aggiunge che «nell’ope‑ rare la valutazione equitativa il giudice non è tenuto a fornire una dimostra‑ zione minuziosa e particolareggiata della corrispondenza tra ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processua‑ le globalmente considerata»; in linea con dette sentenze anche Cass., 18 agosto 2005, n. 16992, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 632; Cass., 7 giugno 2007, n. 13288. 72Si veda, Cass., 12 ottobre 2011, n. 20990, secondo cui «il potere di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., co‑ stituisce espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.c. ed il suo esercizio rientra nella discrezionalità del giudice di merito, senza necessità della richiesta di parte, dando luogo ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva od integrativa, con l’unico limite di non potere surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debito‑ re o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza, do‑ vendosi, peraltro, intendere l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno in senso relativo e ritenendosi sufficiente anche una difficoltà solo di un certo rilievo. In tali casi, non è, invero, consentita al giudice del merito una decisione di non liquet, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente accertato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità della relativa richiesta risarcitoria»; così anche Cass., 11 gennaio 2002, n. 315. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o loro processo logico‑giuridico, del quale il giudice deve dare conto, almeno sommariamente, nella motivazione della senten‑ za. Nei termini indicati, quindi, è rimesso al giudice il delicato compito di individuare, di volta in volta, in relazione alla fatti‑ specie in concreto considerata, quale sia il parametro più ade‑ guato che consenta di stabilire, sia pur solo in via presuntiva, il quantum del danno da risarcire. A ben vedere, la ricostruzione proposta in questa sede con specifico riferimento alla quantificazione dei danni in sede fallimentare è pienamente in linea con le più recenti posizioni assunte, in merito alle azioni di responsabilità, dalla Corte di Cassazione, allorché riconosce espressamente che è ammissibi‑ le la liquidazione equitativa nell’eventuale impossibilità o estrema difficoltà di offrire la prova degli elementi di giudizio sufficienti a identificare gli effetti dei comportamenti illegittimi degli amministratori73. Pertanto, solo in questi casi e nei termini indicati si giusti‑ ficano criteri di calcolo dell’ammontare del danno inevitabil‑ mente connotati da un grado, più o meno elevato, di appros‑ simatività, che ciò nondimeno trovano il loro paradigma nella regola fondamentale di cui all’art. 1226 c.c., che concor‑ re a definire, nel nostro ordinamento, il sistema positivo delle prove operante in materia di responsabilità. 5. Conclusioni Presa piena consapevolezza della necessità, anche con riguar‑ do all’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., di individuare con precisione e valutare rigorosamente, nel rispetto del princi‑ pio di colpevolezza, il rapporto di consequenzialità tra mala gestio ed evento dannoso, non può che essere apprezzato l’ab‑ bandono, da parte della giurisprudenza, del ricorso generaliz‑ zato al criterio che considera il deficit fallimentare come misu‑ ra del risarcimento, il quale, per la notevole approssimazione che lo caratterizza, rischia di assumere una valenza – per così dire – sanzionatoria, cosicché può essere utilizzato soltanto eccezionalmente ed in via meramente residuale, qualora manchi o sia inutilizzabile la contabilità sociale oppure in caso di ope‑ razioni illegittime che siano la causa diretta del dissesto e, quindi, del fallimento della società. Senz’altro più affidabile e preciso è, invece, il criterio dei netti patrimoniali di periodo, che si riferisce ad un arco tempo‑ rale più circoscritto e ben definito, consentendo di dare rilievo, sotto il profilo del rapporto di causalità materiale, alla specifi‑ ca condotta illegittima, commissiva od omissiva, che è imputa‑ bile al gestore e presumibilmente (ma con alta probabilità) ha determinato l’evento dannoso o, comunque, ha concorso in maniera significativa a determinarlo. In ogni caso, entrambi i criteri (o, se si preferisce, entrambe le varianti di un medesimo criterio) di cui può avvalersi il giu‑ dice, per un verso, hanno una specifica ed autonoma rilevanza, rivendicando ciascuno un distinto spazio operativo, per altro verso, si ascrivono a pieno titolo nella logica della liquidazione equitativa contemplata dall’art. 1226 c.c. In questa prospettiva, allora, non sembra si possa del tutto condividere quanto sostenuto da autorevole dottrina, che – se ben si comprende – considera il criterio dei netti patrimoniali 73Cfr. Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, cit. 2 0 1 3 23 di periodo come l’unico oggettivamente applicabile «a qualsia‑ si tipologia di impresa e di insolvenza»74. In realtà, invece, ponendosi nell’ottica della liquidazione equitativa del danno, è agevole replicare che possono essere utilizzati, di volta in volta e tenuto conto della fattispecie og‑ getto di esame, diversi parametri per determinare, in sede fal‑ limentare, il pregiudizio derivante da mala gestio, il quale, quindi, a seconda del caso, può essere commisurato alla sem‑ plice riduzione della massa attiva disponibile e distribuibile, oppure può essere quantificato in relazione al passivo maturato in ciascun esercizio in conseguenza della continuazione della gestione sociale pur in presenza di una causa di scioglimento della società, o ancora sulla base della comparazione dei netti patrimoniali individuati nei diversi momenti dell’attività socia‑ le vietata, ed infine, come extrema ratio, considerando l’intero sbilancio fallimentare. Si tratta, tuttavia, di metodiche che comunque devono essere attentamente ponderate e motivate dal giudicante, dal momento che, ponendo il curatore fallimentare in una posi‑ zione processuale di forte vantaggio, se non correttamente utilizzate, rischiano di determinare effetti perversi e, conse‑ guentemente, di disincentivare l’assunzione delle cariche so‑ ciali, nonché di incrementarne i costi, a cominciare da quelli connessi alla copertura assicurativa dei soggetti investiti del‑ le funzioni di amministrazione e controllo. Soltanto nei termini indicati, quindi, le diverse soluzioni prospettate possono essere accolte e considerate compatibili con il sistema positivo e con i principi che lo ispirano, sebbe‑ ne presentino inevitabilmente un certo margine di approssi‑ matività, che peraltro può e deve essere stemperato dal giudi‑ ce, considerando le specifiche variabili incidenti sul caso concreto, tenuto conto che, in generale, tutte le tecniche di stima del danno, nella loro applicazione, richiedono l’adozio‑ ne di correttivi e adattamenti necessari a depurare il risultato da possibili “anomalie”. civile Gazzetta 74 A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, 158; nei medesimi termini, D. Galletti, Brevi note sull’uso del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità, 23. 24 D i r i t t o ● Il punto sul licenziamento collettivo dopo le novità introdotte dalla riforma del lavoro ● Maria Rosaria Palumbo Magistrato presso la sezione Lavoro del Tribunale di Torre Annunziata e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E S om m ar io : 1. Premessa – 2. Ambito di applicazione dell’istituto – 3. Il licenziamento collettivo per i datori di la‑ voro imprenditori – 4. Il licenziamento collettivo per riduzio‑ ne di personale – 4.1 Destinatari – 5. Il licenziamento collet‑ tivo per messa in mobilità – 5.1 Presupposti – 5.2 La proce‑ dura di mobilità – 5.2.1 L’obbligo di comunicazione: destina‑ tari – 5.2.2 La forma ed il contenuto della comunicazio‑ ne – 5.2.2.1 Allegazione del versamento all’inps – 5.2.2.2. Direzione provinciale del lavoro – 5.3. La fase sindacale – 5.4. La fase amministrativa – 5.4.1. I termini delle due fasi – 6. L’individuazione dei lavoratori da licenziare e l’intimazione del licenziamento – 6.1 I criteri di scelta del lavoratori – 6.2 Il licenziamento – 6.3 Il sistema sanzionatorio – 7. Il licen‑ ziamento collettivo per i datori di lavoro non imprendito‑ ri. – 8. Licenziamento collettivo e licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo. – 9. Cenni sulla trattazione del licenziamento collettivo. 1. Premessa Il licenziamento collettivo, forma di risoluzione del rappor‑ to di lavoro diversa dal licenziamento individuale, risulta di‑ sciplinato dalla legge 23.07.1991 n. 223. Un ruolo fortemente propulsivo nell’emanazione di tale legge é stato svolto dal diritto comunitario (al riguardo, si ri‑ chiama la direttiva 20.07.1998 n. 59, nella quale é confluita la precedente direttiva 17.02.1975 n. 129, modificata dalla direttiva 24.06 1992 n. 56). In precedenza, la complessità del fenomeno e la consapevo‑ lezza delle difficoltà di apprestare un’idonea tutela a tutti gli interessati coinvolti in un licenziamento collettivo aveva in‑ dotto il legislatore italiano ad un voluto astensionismo in materia. Di tal che, i licenziamenti collettivi erano regolati da due accordi interconfederali (20.12.1950, recepito nel d.p.r. 14.07.1960 n. 1019 e 05.05.1965). Le uniche disposizioni legislative, relative alla materia, era‑ no quelle dell’art. 11, comma 2, legge n. 604 del 1966, e dell’art. 6 della legge n. 108 del 1990, entrambe statuenti l’esclusione dei licenziamenti collettivi dall’ambito di applicazione delle leggi predette, relative ai licenziamenti individuali. La scelta astensionistica risultava compensata, in via pre‑ ventiva, da (un abusato) ricorso agli istituti della cig e della mobilità. 2. Ambito di applicazione dell’istituto L’istituto del licenziamento collettivo, applicabile, in origi‑ ne, solo ai datori di lavoro imprenditori, a seguito del decreto legislativo 08.04.2004 n. 110, riguarda ora, sia pure con si‑ gnificative differenze, anche i datori di lavoro non imprendi‑ tori (vedi articolo 24 legge n. 223 del 1991, come modificato, e successivo paragrafo 8). 3. Il licenziamento collettivo per i datori di lavoro imprenditori (art. 24) In relazione alla disciplina dettata per i datori di lavoro imprenditori, va tenuto conto della connessione dell’istituto in esame con quello della cig, nel senso che, in linea generale, a quest’ultima si ricorre nell’ipotesi di crisi considerata reversi‑ bile, al primo, invece, nel caso di ritenuta irreversibilità della crisi predetta. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o I due istituti possono, però, essere anche succedanei, nel senso che si può procedere al licenziamento di lavoratori posti in cassa integrazione anche, allorquando, nel corso della cig, un’eccedenza di personale, da reversibile, si trasformi in irre‑ versibile. Fatto salvo il necessario approfondimento, in questa prima analisi, va rimarcato che il delicato equilibrio tra i due istitu‑ ti é sottoposto ad un triplice controllo: sindacale, amministra‑ tivo, giudiziario. La legge prevede due tipi di licenziamento collettivo: quel‑ lo per riduzione di personale (art. 24) e quello per messa in mobilità (art. 4), ciascuno sottoposto a specifiche causali e requisiti numerici. 4. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale. Come si è anticipato tale tipo di licenziamento risulta re‑ golato dall’articolo 24, anche attraverso il richiamo a parte delle disposizioni dettate dall’articolo 4. Va subito evidenziato che le disposizioni dell’art. 4 non richiamate espressamente dall’art. 24 (e cioè commi 1 e 12‑15bis) non possono essere applicate analogicamente, a causa del carattere eccezionale della regolamentazione del licenziamento “per messa in mobilità”, il quale rende neces‑ saria l’utilizzazione di criteri analoghi a quelli adottati per l’interpretazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. 1 Sotto il profilo dei dati numerici un licenziamento collet‑ tivo per riduzione di personale richiede che il datore di lavoro imprenditore abbia più di quindici dipendenti e che intenda procedere al licenziamento di almeno cinque dipendenti nella provincia nell’arco di centoventi giorni. Sintetim: 16 dipendenti occupati, almeno 5 dipendenti destinatari di licenziamento nella provincia 2 , arco temporale 120 giorni. Sotto il profilo della causale del licenziamento, va osserva‑ to che essa deve essere unitaria e deve dipendere da una ridu‑ zione o da una trasformazione del lavoro o dell’attività di impresa (da intendersi come il complesso delle energie lavora‑ tive e del sostrato produttivo inteso a realizzare gli scopi aziendali). La formula é di ampia portata e tale da ricomprendere anche casi in cui la riduzione di personale non sia necessaria‑ mente determinata dalla ricorrenza di una crisi aziendale o da una contrazione delle strutture o dell’attività3, ma risulti giustificata pure solo dall’adozione di innovazioni o ammo‑ dernamenti tecnologi, che si riflet‑tano negativamente sull’or‑ ganico aziendale, oppure dalla programmazione di una diver‑ 1 Cass. Sez. lav. 08/02/2010 n. 2734. 2 Ai fini della sussistenza di un licenziamento collettivo e della applicabilità della relativa disciplina, il termine licenziamento va inteso in senso tecnico, non potendo ad esso parificarsi qualunque altro tipo di cessazione del rapporto determinata (anche o soltanto) da una scelta del lavoratore, come nelle ipotesi di dimissioni, risoluzioni concordate, o prepensionamenti, anche ove tali forme di cessazione del rapporto siano riconducibili alla medesima operazione di ri‑ duzione delle eccedenze della forza lavoro che giustifica il ricorso ai licenzia‑ menti Cass. Sez. lav. 29/03/2010 n. 7519. 3La fattispecie di riduzione del personale regolata dalla legge n. 223 del 1991 non presuppone necessariamente una crisi aziendale, e neppure il ridimensio‑ namento strutturale dell’attività produttiva, potendo il requisito della riduzione o trasformazione di attività o di lavoro ravvisarsi nella decisione di modificare l’organizzazione produttiva anche soltanto con la contrazione della forza lavo‑ ro, con incidenza sul solo elemento personale dell’azienda (Cass. Sez. lav. 07.01.2009 n. 82 ed ancora 24.02.09 n. 4411 e 17.03.09 n. 6446). 2 0 1 3 25 sa organizzazione aziendale finalizzata a ridurre i costi e che, come nella prima ipotesi, incida, in modo non transeunte sulla forza lavoro occupata. 4 Il sindacato giudiziale non può estendersi al “merito” del‑ le scelte aziendali, ma deve limitarsi a verificare la: A) La ricorrenza della causale posta a base del licenzia‑ mento, senza alcun sindacato di merito sulla legittimità (ra‑ gionevolezza) della scelta;5 B) La ricorrenza del nesso eziologico tra la causale predetta ed i provvedimenti di licenziamento; In tema di licenziamenti collettivi impugnati giudizialmen‑ te, il giudice, investito della valutazione di legittimità dei re‑ cessi, se non può sindacare le scelte imprenditoriali nel dimen‑ sionare il livello occupazionale in riferimento alla program‑ mata ristrutturazione, riorganizzazione o conversione azien‑ dale (sicché non vi è valutazione di merito sulla giustificatez‑ za del recesso datoriale come nella fattispecie del licenziamen‑ to per giustificato motivo oggettivo), deve comunque accerta‑ re la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il pro‑ gettato ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di re‑ cesso. Cass. Sez. lav. 18.09.2007 n. 19347 e 19.04.2003 n. 6385. C) La correttezza della procedura dettata dagli articoli 4 e 5; Oltre alle sentenze richiamate nelle note, si riportano le successive massime: In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di per‑ sonale, la legge 23 luglio 1991, n. 223, nel prevedere agli artt. 4In tema di ridimensionamento dell’attività imprenditoriale che legittima il ri‑ corso alla procedura di mobilità ex art. 24 della legge n. 223 del 1991, condot‑ te datoriali, quali la richiesta di svolgimento di lavoro straordinario, l’assunzio‑ ne di nuovi lavoratori o la devoluzione all’esterno dell’impresa di parte della produzione, successive al licenziamento collettivo, non sono suscettibili di inci‑ dere sulla validità del licenziamento stesso, una volta che la procedura di mo‑ bilità si sia svolta nel rispetto dei vari adempimenti previsti dagli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991, ove non risulti la necessità di colmare vuoti di or‑ ganico originati ingiustificatamente dal processo di ristrutturazione, e ove non si sia in presenza di un ampliamento dell’attività economica dell’impresa, non giustificata sulla base delle ragioni che hanno portato alla riduzione del perso‑ nale. Ne consegue che non è sufficiente dedurre che vi sia stata l’assunzione di nuovi lavoratori per escludere “sic et simpliciter” la legittimità del ricorso alla procedura di mobilità. (Cass. Sez. lav. 20.01.2011 n. 1253) 5 Cass. Sez. lav. 17.03.2009 n. 6446 (allegata, alla fine, nella sua integralità) se‑ condo la quale” …….nel disegno legislativo, la fattispecie di licenziamento collettivo per riduzione di personale è assoggettato a forme di controllo ex ante della decisione imprenditoriale, controllo di tipo sindacale e pubblico, ri‑ tenute maggiormente adeguate alla rilevanza sociale del fenomeno rispetto alle tecniche di controllo giudiziale ex post ed a dimensione individuale, restando escluso che la legittimità del recesso possa dipendere dai motivi della riduzione di personale, non sindacabili, infatti, dal giudice (tanto è vero che la riduzione di personale “ingiustificata” non è prevista dalla legge tra i motivi di annulla‑ mento dei singolo licenziamento). Secondo precedente orientamento, poi superato, “dopo l’entrata in vigore della legge n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo, che si distingue radicalmente dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa (più di quindici dipendenti), al numero dei licenzia‑ menti (almeno 5) e all’arco temporale (120 giorni) entro cui sono effettuati i licenziamenti ed è strettamente collegato al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento della struttura aziendale. Nell’ambito di questa disciplina é ultronea ogni indagine circa l’esi‑ stenza o meno di un programma di ristrutturazione aziendale e assume rilievo il mancato espletamento dell’iter procedurale delineato dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991, che comporta l’inefficacia del licenziamento e l’applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, mentre non è proponibile l’ipotesi di una “conversione” del licenziamento collettivo in licenziamento individuale. Cass. Sez. lav. 06/07/2000 n. 9045 civile Gazzetta 26 D i r i t t o e p r o c e d u r a 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizza‑ zione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensiona‑ mento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devo‑ luti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quin‑ di, gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progetta‑ to ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza contesta‑ re specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle pro‑ cedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i la‑ voratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzio‑ ne o trasformazione dell’attività produttiva. (Nel caso speci‑ fico, in cui si è affermata la legittimità del recesso, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte territoriale aveva esercitato il necessario controllo nei limiti devolutile dalla legge, accertando che, come già esposto nell’istorico di lite, la parte datoriale aveva rispettato gli obblighi procedimen‑ tali a suo carico, era stato provato che aveva dato corso alla procedura collettiva per far fronte alla antieconomicità dell’unico reparto produttivo, aveva licenziato tutti gli ad‑ detti ai Reparti Abbigliamento, Borse e Calzature e aveva effettivamente chiuso l’unico stabilimento produttivo di Napoli. Cass. Sez. lav. 03/03/2009 n. 5089. Di analogo tenore la massima che segue: In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di per‑ sonale, la legge n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel prece‑ dente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’im‑ presa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, desti‑ natarie di incisivi poteri di informazione e consultazione se‑ condo una metodica già collaudata in materia di trasferimen‑ ti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingres‑ so in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i c i v i l e Gazzetta F O R E N S E lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzio‑ ne o trasformazione dell’attività produttiva. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell’enunciato complessivo principio, ha confermato la sentenza impugnata con la cui congrua e logi‑ ca motivazione era stata adeguatamente rilevata la sussisten‑ za delle condizioni procedimentali per far luogo alla proce‑ dura di licenziamento collettivo in dipendenza dell’emergen‑ za delle esigenze oggettive, richieste dalla legge, di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, il cui accertamento di fatto sfuggiva alle censure del ricorrente fondate essenzial‑ mente sul rilievo della divergenza tra la situazione rilevata con la comunicazione iniziale di apertura della procedura di mobilità e quella di fatto sussistente al momento conclusivo, in cui furono adottati i provvedimenti di recesso). Cass. Sez. lav. 06/10/2006 n. 21541 L’onere della prova della prova della ricorrenza di un licen‑ ziamento collettivo grava su chi ne deduce l’esistenza. 6 Una volta provata, però, la natura collettiva del licenzia‑ mento l’onere della prova delle varie circostanze rilevanti ai fini della legittimità del recesso si ripartisce secondo i princi‑ pi generali (art. 2697) 7 4.1 Destinatari Le disposizioni dell’articolo 24 non trovano applicazione nel caso di scadenza di contratti di lavoro a termine, di fine lavoro nelle costruzioni edili 8 e nei casi di attività stagionali e saltuarie (art. 24, comma 3) Contrapponendosi a precedente orientamento giurispru‑ denziale, l’articolo 24, comma 2, stabilisce espressamente che la normativa sui licenziamenti collettivi (art. 4, commi 2‑12 e 15bis, art. 5, commi 1‑5) si applica anche alla fattispecie della cessazione di attività da parte delle imprese9. 6In materia di licenziamento collettivo, l’onere della prova della sussistenza dei requisiti prescritti dall’art. 24 della legge n. 223 del 1991 incombe sulla parte (datore di lavoro o lavoratore) che sostenga che il licenziamento pre‑ senti i requisiti indicati dalla norma, senza che rilevi la diversa ripartizione dell’onere probatorio prevista dall’art. 5 della legge n. 604 del 1966, in tema di prova della giusta causa o del giustificato motivo, attesa l’inapplicabilità della predetta normativa ai licenziamenti per riduzione di personale (art. 11 della legge n. 604 cit.). (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva escluso l’applicabilità della disciplina sulle riduzioni del personale per non aver il lavoratore assolto l’onere della prova del recesso di almeno cinque dipendenti nell’arco di centoventi giorni). Cass. Sez. lav. 22.03.2010 n. 6849. 7 Grava sul datore di lavoro che adduca la natura collettiva dei licenziamenti intimati l’onere di provare l’effettività e definitività del diminuito fabbisogno di forza‑lavoro, attraverso la prova della mancata sostituzione dei lavorato‑ ri licenziati o dell’assenza di successive assunzioni. Cass. Sez. lav. 27.11.1997 n. 1194. 8L’esclusione non opera quando la risoluzione sia determinata da una situazione di crisi per riduzione di attività e dal fisiologico completamento dei lavori che avevano giustificato l’assunzione. Cass. Sez. lav. 26.09.1998 n. 9657 9In materia di licenziamenti collettivi per cessazione di attività, l’ambito della trattativa tra imprese e sindacati, cui l’art. 24, secondo comma, della legge n. 223 del 1991 (nel testo antecedente alle modifiche di cui al d.lgs. n. 110 del 2004) estende l’applicabilità delle disposizioni del comma 1, è condizionata dalle peculiarità della fattispecie, rispetto a quella del ridimensionamento aziendale, dal fatto che si tratti di una società per azioni e di rilevanti dimen‑ sioni e dalle regole e principi, anche di rilievo costituzionale, che tale fattispecie disciplinano. Ne deriva che non è illegittima la procedura di mobilità attivata dopo diversi mesi dalla deliberazione di scioglimento e messa in liquidazione della società, costituendo la delibera assembleare l’espressione della sola “in‑ tenzione” di cessare l’attività, ed essendo compatibile la rilevante durata della procedura di liquidazione, con impiego di scaglioni di lavoratori via via decre‑ scenti, con la possibilità, per i sindacati, di intervenire nella procedura di mo‑ bilità, in funzione di controllo e di trattativa, anche in vista di un possibile F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 27 Le disposizioni dell’art. 4, commi 3, ultimo periodo, e 10, dell’art. 5, commi 4 e 5, si applicano solo alle imprese richia‑ mate dal comma 1 dell’articolo 16 (articolo 24 comma 3) Sul piano soggettivo la normativa non si applica ai dirigen‑ ti10, mentre trova applicazione nei confronti dei soci delle cooperative di produzione e lavoro. zione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. La comunicazione alle associazioni di categoria può essere effettuata per il tramite dell’associazione dei datori di lavoro alla quale l’impresa aderisce o conferisce mandato. 5. Il licenziamento collettivo per messa in mobilità (art. 4) 5.1 Presupposti La materia della procedura per la dichiarazione di mobili‑ tà é disciplinata dalla legge 23 luglio 1991 n. 223 (artt. 4 e 5), come modificata dalla legge n. 92 del 2012. L’articolo 1, commi 44‑46, di tale ultima legge si limita ad operare alcune modifiche, di seguito elencate. Giova evidenziare che i commi 44 e 45 incidono sull’art. 4 della legge n. 223 del 1991, che disciplina la procedura per la dichiarazione di mobilità. Il comma 46 incide, invece, sull’articolo 5, relativo ai cri‑ teri di scelta. La procedura di mobilità può essere avviata dall’impresa (con più di quindici dipendenti) ammessa al trattamento stra‑ ordinario di integrazione salariale, qualora, nel corso di at‑ tuazione del programma di cui all’articolo 1, ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative (com‑ ma 1). Il licenziamento collettivo a seguito di mobilità presuppo‑ ne, quindi, la preventiva ammissione alla cassa integrazione guadagni straordinaria e la sopravvenuta irreversibilità della crisi, nel corso o al termine del programma di cui all’art. 1, tale da impedire il reimpiego dei lavoratori sospesi e la possi‑ bilità di ricorrere a misure alternative. La scelta tra il ricorso alla cig ed il ricorso immediato al licenziamento collettivo per riduzione di personale resta affi‑ data alla valutazione del datore di lavoro. Nonostante il richiamo anche alla necessità dell’impossi‑ bilità di ricorrere a misure alternative (introdotto dal decreto legislativo n. 151 del 1997), resta incerto se tanto si traduca in una mera sollecitazione o comporti un vero e proprio ob‑ bligo di repechage. 5.2.2 La forma ed il contenuto della comunicazione La comunicazione deve essere scritta (comma 2) e deve essere specifica (seria ed analitica), nel senso che deve presen‑ tare il contenuto indicato dal comma 3. E cioè: motivi che determinano la situazione di eccedenza; motivi tecnici, organizzativi e produttivi, per i quali si ri‑ tiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare in tutto o in parte, la di‑ chiarazione di mobilità; numero, collocazione aziendale e profili professionali del personale eccedente 11; tempi di attuazione del programma di mobilità; eventuali misure programmate per fronteggiare la conse‑ guenza sul piano sociale della attuazione del programma medesimo. metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali di‑ verse da quelle già previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva 5.2. La procedura di mobilità Verificatisi i suindicati presupposti, la materiale espulsione del lavoratore dall’azienda è subordinata all’espletamento della procedura di mobilità disciplinata dall’art. 4, commi 2‑9, e dall’art. 5. 5.2.1 L’obbligo di comunicazione: destinatari L’impresa che decide di avviare la procedura di mobilità è tenuta ad adempiere ad un preventivo obbligo di comunica‑ zione della scelta operata, da assolversi nei confronti delle rappresentanze sindacali aziendali costituite a norma dell’ar‑ ticolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, (ora r.s.u.), nonché delle rispettive associazioni di categoria. In mancanza delle predette rappresentanze la comunica‑ collocamento del personale eccedente in altre società del gruppo. Cass. Sez. lav. 28/01/2009 n. 2161 10 Corte cost. 18.07.1997 n. 258 5.2.2.1 Allegazione del versamento all’Inps Alla comunicazione va allegata copia dalla ricevuta del 11In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, la comunicazio‑ ne di avvio della procedura di mobilità, ai sensi dell’art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, deve specificare i “profili professionali del personale eccedente” e non può limitarsi all’indicazione generica delle categorie di perso‑ nale in esubero (operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti), non essendo tale generica indicazione sufficiente a concretizzare il piano di ristrutturazione aziendale, mentre la successiva conclusione di un accordo sindacale, nell’ambi‑ to della procedura di consultazione non sana il menzionato difetto della comu‑ nicazione iniziale se anche l’accordo non contiene la specificazione dei profili professionali dei lavoratori destinatari del licenziamento (Cass. Sez. lav. 22/06/2012 n. 10424). In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti col‑ lettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunica‑ zione preventiva di cui all’art. 4, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che re‑ stano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicché, ove il progetto imprendi‑ toriale sia diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indica‑ zione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con ecceden‑ za, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della proce‑ dura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licen‑ ziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione. Cass. Sez. lav. 26/02/2009 n. 4653 In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali dettate per i licenziamen‑ ti collettivi per riduzione di personale dalla legge n. 223 del 1991, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all’art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, sottratti al controllo giurisdizionale, cosicché, nel caso di progetto imprenditoriale diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professiona‑ li contemplati dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza (coincidendo la collocazione dei dipendenti da licenziare con l’intero complesso aziendale) ovvero l’indicazione delle concrete posizioni lavorative o delle mansioni svolte. Cass. Sez. lav. 07/01/2009 n. 84 civile Gazzetta 28 D i r i t t o e p r o c e d u r a versamento dell’Inps, a titolo di anticipazione sulla somma di cui all’articolo 5, comma 4, di una somma pari al trattamen‑ to massimo mensile di integrazione salariale moltiplicato per il numero dei lavoratori ritenuti eccedenti. 5.2.2.2. Direzione provinciale del lavoro Copia della comunicazione e della ricevuta di pagamento vanno inviate anche alla direzione provinciale del lavoro. 5.3. La fase sindacale Trattasi di fase preliminare ed eventuale (commi 5 e 6). Entro sette giorni dalla data di ricevimento della comuni‑ cazione, il sindacato (r.s.u. e rispettive associazioni), può ri‑ chiedere al datore di lavoro un esame congiunto della questio‑ ne, al fine di esaminare le cause che hanno determinato la necessità di riduzione del personale, allo scopo di ricercare un accordo che risolva in tutto o anche solo in parte la proble‑ matica. In tale fase, grava sul datore l’onere di trattare con buona fede, la cui violazione, ove immotivata, può costituire com‑ portamento antisindacale ex art. 28 ed essere anche causa di inefficacia dei recessi. Tale fase, in cui il sindacato può farsi assistere da esperti, deve concludersi nel termine di quarantacinque giorni dalla ricezione della comunicazione inviata dall’impresa. La legge prevede incentivi vari (ad esempio, possibilità di demansionamento in deroga all’art. 2103 c.c. ed altri) per favorire la conclusione dell’accordo, anche se le parti conser‑ vano piena libertà sia di promozione dell’incontro (sindacato), sia di conclusione dell’accordo (entrambe). La giurisprudenza si è evoluta nel senso di riconoscere all’accordo eventualmente raggiunto, e sia pure a determina‑ te condizioni, un effetto sanante di eventuali vizi inerenti la comunicazione di cui al comma 3 12 L’esito negativo della trattativa ed i motivi di tale esito vanno comunicata alla Direzione Provinciale del Lavoro (le‑ gittimazione spetta ad entrambe le parti). 5.4. La fase amministrativa (comma 7) Tale fase è subordinata al mancato raggiungimento dell’ac‑ cordo. Legittimata a promuoverla è la Direzione Provinciale del lavoro, la quale può percorrere anche strade diverse per favo‑ rire la conciliazione. Essa deve concludersi entro trenta giorni dalla ricezione della comunicazione dell’impresa. 12In tema di collocamento in mobilità e licenziamento collettivo, la comunicazio‑ ne di avvio della procedura ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991 rappresenta una cadenza essenziale per la proficua partecipazione alla cogestio‑ ne della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisiona‑ le del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore è legittimato a far valere l’incompletezza della comunicazione quale vizio del licenziamento e che il successivo raggiungimento di un accordo sindacale, pur essendo rilevante ai fini del giudizio retrospettivo sull’adeguatezza della comunicazione, non sana “ex se” il “deficit” informativo, atteso che il giudice di merito può accertare che il sindacato partecipò alla trattativa, sfociata nell’intesa, senza piena con‑ sapevolezza dei dati di fatto. (Cass. Sez. lav. 06/04/2012 n. 5582). c i v i l e Gazzetta F O R E N S E 5.4.1. I termini delle due fasi 13 Riepilogando: I termini della fase sindacale sono rispettivamente di sette e quarantacinque giorni. Il termine della fase amministrativa è di trenta giorni. Quando i licenziamenti sono in numero inferiore a dieci tutti i predetti termini vengono dimezzati (comma 8). 6. L’individuazione dei lavoratori da licenziare e l’intimazione del licenziamento Solo a conclusione della procedura di mobilità, come disci‑ plinata dai commi da 2 a 8, qualora permanga, in tutto o anche solo in parte, la necessità di provvedere a riduzione del persona‑ le il datore di lavoro può procedere all’individuazione dei lavo‑ ratori da collocare in mobilità ed all’intimazione del recesso. 6.1 I criteri di scelta del lavoratori (art. 5) Dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità si occupa l’art. 5, comma 1, il quale privilegia, in relazione alle esigenze tecnico produttive dell’impresa ed alle esigenze aziendali, l’applicazione dei criteri concordati dai contratti collettivi stipulati dai sindacati indicati dall’art. 4 comma 2. In via di gradata, e per la sola ipotesi in cui la contratta‑ zione collettiva non abbia provveduto, trovano applicazione, in concorso tra loro, i criteri legali dettati dallo stesso artico‑ lo 5, costituiti dai carichi di famiglia, dall’anzianità lavorati‑ va, dalle esigenze tecnico‑produttive ed organizzative.14 La giurisprudenza di legittimità15 ha chiarito che il doppio richiamo operato dall’art. 5, comma 1, legge n. 223 del 1991 alle esigenze tecnico produttive ed organizzative del comples‑ so aziendale, assolve alla funzione, quanto alla previsione contenuta nella prima parte della norma, di delimitare, in ragione dei motivi posti a fondamento della riduzione di per‑ sonale, l’ambito entro il quale dovrà essere operata la scelta dei lavoratori e, quindi, in riferimento ai posti soppressi, mentre il secondo – contenuto nei concreti criteri di scel‑ ta – opera, una volta determinato il suddetto ambito, con ri‑ guardo alla individuazione dei singoli posti di lavoro rimasti dopo la soppressione. 13In tema di licenziamenti collettivi, il mancato rispetto dei termini previsti dall’art. 4 dalla legge n. 223 del 1991 per l’espletamento delle varie fasi della relativa procedura non ne comporta l’illegittimità e l’inopponibilità, ai singoli lavoratori interessati, dei provvedimenti conclusivi, atteso che tale effetto non è previsto da alcuna disposizione legislativa, i termini non sono posti a tutela dei lavoratori (il cui rapporto di lavoro resta in corso per tutta la durata della procedura senza che il licenziamento possa retroagire), bensì a tutela del dato‑ re di lavoro, a garanzia che la procedura non sia procrastinata oltre il tempo ritenuto dal legislatore congruo per la ricerca di ogni possibile superamento della situazione determinante la necessità di riduzione di personale, e, infine, non può essere posto a titolo di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro il superamento, da parte di terzi (quali gli organi pubblici o le associa‑ zioni sindacali), di termini connotati, oltre ogni previsione legislativa, da effet‑ ti decadenziali. Cass. Sez. lav. 10/02/2009 n. 3261. In tema di licenziamenti collettivi, il mancato rispetto dei termini previsti dalla legge n. 223 del 1991 per l’espletamento delle varie fasi della relativa procedu‑ ra, laddove si sia resa necessaria, dopo la cessazione dell’attività di impresa, una lunga procedura di liquidazione con impiego per anni di scaglioni di lavorato‑ ri via via decrescenti, non comporta l’illegittimità della stessa e, quindi, l’inop‑ ponibilità ai singoli lavoratori interessati dei provvedimenti conclusivi di essa, tanto più se la medesima lunga durata del suo espletamento abbia dato ai sin‑ dacati il tempo necessario per condurre agevolmente le trattative sulla mobilità. Cass. Sez. lav. 19/12/2008 n. 29831 14 Trattasi degli stessi criteri previsti dall’accordo interconfederale del 1965. 15 Cass. Sez. lav. 27/01/2011 n. 1938 F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o Ne consegue che, ove, in sede di accordo sindacale, le parti sociali abbiano concordato la sostituzione dei criteri legali con quelli della prossimità alla pensione tenendo conto delle esigenze tecnico produttive ed organizzative dell’azienda, i nuovi criteri debbono ritenersi alternativi e di integrale ap‑ plicazione, dovendosi ritenere arbitraria la qualificazione delle esigenze tecnico produttive ed organizzative solo come mera riconduzione alla previsione di cui alla prima parte dell’art. 5, comma 1, legge n. 223 del 1991. Anche i criteri dettati dalla contrattazione collettiva In materia di licenziamento collettivo, ove non siano predeter‑ minati secondo uno specifico ordine previsto dai contratti collettivi, vanno applicati con valutazione globale da parte del datore di lavoro. 16 Tali criteri non possono essere vaghi e generici 17, ma deb‑ bono essere generali ed astratti, obiettivi e predeterminati. 18 Una volta concordato, il criterio/i non può/possono essere successivamente disapplicato/i o modificato/i, travalicando gli ambiti originariamente previsti, non essendo consentito che in tale spazio temporale l’individuazione dei singoli desti‑ natari dei provvedimenti datoriali venga lasciata all’iniziativa ed al mero potere discrezionale dell’imprenditore, in quanto ciò pregiudicherebbe l’interesse dei lavoratori ad una gestione trasparente ed affidabile della mobilità e della riduzione del personale. 19 Particolarmente utilizzato dalla contrattazione collettiva, in contrapposizione al criterio legale dell’anzianità lavorativa, è il criterio dell’anzianità di servizio e del possesso dei requi‑ siti pensionistici, nell’ottica di salvaguardare il posto di lavo‑ ro dei dipendenti più giovani. Il criterio adottato dalla parti sociali può essere anche unico ma, per la sua legittimità, occorre che esso permetta l’esauriente e univoca selezione dei lavoratori destinatari del licenziamento e, quindi, risulti applicabile senza margini di discrezionalità da parte del datore di lavoro. 20 16 Cass. Sez. lav. 23/12/2009 n. 27165 17 Cass. Sez. lav. 23/12/2009 n. 27675 18 Con gli accordi che concludono la procedura di mobilità, i sindacati e il datore di lavoro possono concordare sull’individuazione di criteri di scelta, ma non indicare concretamente i singoli lavoratori da porre in mobilità, giacché i sud‑ detti accordi sono direttamente efficaci nei confronti dei datori di lavoro e soltanto indirettamente possono incidere, attraverso l’applicazione dei criteri di scelta concordati, sui singoli rapporti di lavoro. (divieto dei cd. criteri foto‑ grafici) Cass. Sez. lav. 24.04.1999 n. 4097 19 Cass. Sez. lav. 22/03/2010 n. 6841 Cfr. poi Cass. Sez. lav. 07/01/2009 n. 81 secondo cui “In sede di messa in mo‑ bilità dei lavoratori a seguito di ristrutturazioni o riconversioni aziendali, do‑ vendo la riduzione del personale seguire un “iter” procedimentale, non è con‑ sentito determinare un mutamento dei criteri di scelta del personale da sospen‑ dere, con l’abbandono dei criteri inizialmente previsti nel programma e la contestuale adozione di altri criteri diversi che lascino più ampi spazi di discre‑ zionalità all’imprenditore, e che per di più siano suscettibili di determinare per il loro contenuto il pericolo di diversità di trattamento o illegittime forme di discriminazione tra i lavoratori, potendosi operare un mutamento dei criteri selettivi solo a seguito di ulteriore decreto di proroga (che accerti la compatibi‑ lità del cambiamento con il programma già autorizzato) o distinta domanda di integrazione salariale che contempli i diversi criteri. Ne consegue che è illegit‑ timo il licenziamento, intimato nell’ambito della procedura in applicazione dei nuovi criteri, in difetto delle indicate condizioni. 20 Cass. Sez. lav. 22.06.2012 n. 10424. Su legittimità unico criterio di scelta vedi pure Cass. Sez. lav. 27/01/2011 n.1738, secondo cui “in materia di collocamento in mobilità e di licenziamenti colletti‑ vi, il criterio di scelta adottato nell’accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali può anche essere unico e consistere nella vicinanza al pensionamento, in quanto esso permette di formare una graduatoria rigida e può essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da 2 0 1 3 29 Sotto il profilo degli oneri allegatori e probatori, deve rile‑ varsi che grava sul datore di lavoro l’onere di allegazione dei criteri di scelta e la prova della loro piena applicazione nei confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazio‑ ne a ciascuno di questi ultimi, dello stato familiare, dell’an‑ zianità e delle mansioni; incombe, invece, al lavoratore dimo‑ strare l’illegittimità della scelta, con indicazione dei lavorato‑ ri in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o illegittimamente realizzata. Discende da ciò che, ove il datore di lavoro si sia limitato a comunicare dei criteri assolutamente vaghi, inidonei a con‑ sentire al lavoratore di contestare le scelte operate e di com‑ parare la propria posizione con quella degli altri dipendenti che hanno conservato il posto di lavoro, nessun onere è rav‑ visabile in capo al lavoratore. (Cass. Sez. lav. 23/12/2009 n. 27675). La comparazione va operata, in linea generale, tra tutti i lavoratori dell’impresa 21. parte del datore di lavoro. Tuttavia, ove quello della vicinanza al pensionamen‑ to sia l’unico criterio prescelto e lo stesso, applicato nella realtà, si riveli insuf‑ ficiente a individuare i dipendenti da licenziare, esso diviene automaticamente illegittimo se non combinato con un altro criterio di selezione interna”. (Nella specie, in sede di accordo sindacale le parti sociali avevano stabilito la sostitu‑ zione dei criteri legali con quelli della prossimità al pensionamento in unione alle esigenze tecniche e produttive dell’azienda; il datore di lavoro aveva, inve‑ ce, ritenuto doversi procedere solo in base al criterio dell’anzianità anagrafica e contributiva, sull’assunto della oggettività del criterio; la S.C., nel ritenere l’illegittimità della scelta datoriale, ha affermato il principio di cui alla massi‑ ma). 21In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale la platea dei la‑ voratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore ove ricorrano, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, oggettive esigenze tecnico‑produttive, restando onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata. Ne consegue che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto lavorativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative. Cass. Sez. lav. 02/12/2009 n. 25353 in Notiziario Giurisprudenza del Lavoro, 2010, 1, 93 (con nota re‑ dazionale). In tema di licenziamento collettivo, il doppio richiamo operato dall’art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991 alle esigenze tecnico produttive ed orga‑ nizzative del complesso aziendale comporta che la riduzione del personale deve, in linea generale, investire l’intero ambito aziendale entro il quale operano i criteri di scelta, potendo l’intervento essere limitato a specifici rami aziendali soltanto se caratterizzati da autonomia e specificità delle professionalità utiliz‑ zate. Ne consegue che il riferimento al “personale abitualmente impiegato”, aggiunto all’originario testo dell’art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991 dal d.lgs. n. 151 del 1997, comporta che i profili professionali da prendere in considerazione sono quelli propri di tutti i dipendenti potenzialmente interes‑ sati alla mobilità, tra i quali, all’esito della procedura, il datore di lavoro potrà operare – con l’osservanza dei criteri legali di selezione del personale in concor‑ so tra loro, salva la possibilità di accordare prevalenza alle esigenze tecniche e produttive ove tale indicazione trovi giustificazione in fattori obbiettivi e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie – la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità. Cass. Sez. lav. 28/10/2009 n. 22824. In tema di licenziamento collettivo, il doppio richiamo operato dall’art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991 alle esigenze tecnico‑produttive ed orga‑ nizzative del complesso aziendale, comporta che la riduzione del personale deve, in linea generale, investire l’intero ambito aziendale, potendo essere limi‑ tato a specifici rami d’azienda soltanto se caratterizzati da autonomia e speci‑ ficità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre. Ne consegue che il riferimento al “personale abitualmente impiegato”, aggiunto all’origina‑ rio testo dell’art. 4, comma 3, della legge n. 223, dal d.lgs. n. 151 del 1997, comporta che i profili professionali da prendere in considerazione sono quelli propri di tutti i dipendenti potenzialmente interessati (in negativo) alla mobili‑ tà, tra i quali potrà, all’esito della procedura, operarsi la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità. La dimostrazione della ricorrenza delle specifiche professionalità o comunque delle situazioni oggettive che rendano impraticabi‑ le qualunque comparazione, costituisce onere probatorio a carico del datore di lavoro (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della Corte territoriale che aveva riconosciuto fondate le domande dei lavoratori per avere il datore di civile Gazzetta 30 D i r i t t o e p r o c e d u r a Se, però, l’azienda è organizzata in singole unità produtti‑ ve si ammette, a determinate condizioni, che la comparazione possa avvenire nell’ambito delle singoli unità produttive inte‑ ressate al ridimensionamento22. 6.2 Il licenziamento (comma 9) All’esito, il datore di lavoro può intimare il recesso nei confronti del prescelto con comunicazione scritta e nel rispet‑ to del termine di preavviso. Sembra necessaria specifica motivazione. 23 lavoro ingiustificatamente limitato la scelta del personale da porre in mobilità ad un solo cantiere edile indicando, nella comunicazione di avvio della proce‑ dura, la causa della messa in mobilità nella riduzione del proprio ambito ope‑ rativo conseguente all’ avvenuta comunicazione, da parte della Prefettura, ad alcuni committenti della società, del diniego del nulla osta prefettizio per asse‑ rite infiltrazioni mafiose, circoscrivendo l’ambito della scelta dei dipendenti da licenziare unicamente a quelli del cantiere di committenza pubblica, e non provando le ragioni oggettive per cui la chiusura dei cantieri avesse comporta‑ to la limitazione della scelta ai dipendenti ivi addetti). Cass. Sez. lav. 28/10/2009 n. 22825 in Notiziario Giurisprudenza del Lavoro 2009, 765. Vedi, altresì, nota 15 ed ulteriore giurisprudenza ivi richiamata. 22In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il pro‑ getto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un’unità produttiva o a un settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità, può essere limitata agli addetti dell’unità o del settore da ristrutturare, in quanto ciò non sia l’effetto dell’uni‑ laterale determinazione del datore di lavoro, ma sia obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione di personale; i motivi di re‑ strizione della platea dei lavoratori da comparare devono essere adeguatamen‑ te esposti nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, onde consentire alle organizzazioni sindacali di verificare il nesso tra le ragioni che determinano l’esubero di personale e le unità lavorative che l’azienda inten‑ de concretamente espellere, ma l’eventuale incompletezza di tale comunicazio‑ ne deve essere appositamente censurata da chi impugna il licenziamento. (Nella specie, relativa a licenziamento per riduzione di personale circoscritto ad un centro operativo territoriale, la S.C., pur ritenendo generica la motivazione comunicata dal datore di lavoro circa gli “alti costi” di quell’articolazione aziendale, ha cassato la decisione di merito che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per il vizio di informazione, non dedotto nella pertinente impu‑ gnativa). Cass. Sez. lav. 20/02/2012 n. 2429. In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, ove la contro‑ versia riguardi l’accertamento della natura di unità produttiva della struttura organizzativa dell’impresa nel cui ambito sia stata attuata la comparazione dei dipendenti per individuare quelli da avviare alla mobilità, non assume rilievo il mancato assolvimento, da parte dei lavoratori, dell’onere di allegare il risultato vantaggioso conseguibile all’esito del corretto procedimento di selezione, né il coinvolgimento dei dipendenti rimasti estranei alla procedura in concreto espletata, venendo in discussione la correttezza del procedimento adottato e la legittimità di tale estraneità (Nella specie, relativa ad una procedura di riduzio‑ ne del personale operata da un Istituto di Vigilanza tra i dipendenti addetti all’attività di sorveglianza presso la centrale nucleare di Montalto di Castro, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha corretto la motivazione della sentenza impugna‑ ta, rilevando che l’erronea identificazione della platea dei lavoratori interessati dalla procedura comporta l’inefficacia dei licenziamenti e non l’annullabilità, prevista per il caso di violazione dei criteri di scelta). Cass. Sez. lav. 03/11/2008 n. 26376. In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, qualora il pro‑ getto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavora‑ tori al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità non deve necessaria‑ mente interessare l’intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico – pro‑ duttive, nell’ambito della singola unità produttiva ovvero del settore interessa‑ to alla ristrutturazione, in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale. All’interno, poi, dell’unità o settore suddetti, assume rilievo non la categoria di inquadramen‑ to – la quale constando di più profili è scarsamente significativa della reale organizzazione del lavoro – ma il profilo professionale, come si deduce dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991, dove la categoria è menzionata solo tra i dati da comunicare una volta che la procedura è esaurita (comma nono) e non tra quelli finalizzati a limitare il novero dei lavoratori oggetto della scelta (com‑ ma terzo). Cass. Sez. lav. 19/05/2005 n. 10590. Cass. Sez. lav. n. 12879 del 1998 e n. 1335 del 1999 (non trovate). 23In tema di procedura di mobilità, la previsione, di cui all’art. 4, nono comma, c i v i l e Gazzetta F O R E N S E L’atto di recesso comporta l’inserimento del lavoratore nelle liste di mobilità. Come dispone la legge, il datore di lavoro deve, inoltre, assolvere agli oneri informativi nei confronti dell’Ufficio re‑ gionale del lavoro, della commissione regionale del lavoro, delle associazioni di categorie di cui al comma 2. Entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi (e non più contestualmente) 24, il datore di lavoro deve, invero, tra‑ smettere, alle predette parti, l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità con l’indicazione per ciascun soggetto del nomi‑ nativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento dell’età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati legge n. 223 del 1991, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione preventiva con la quale dà inizio alla procedura, deve dare una “puntuale indi‑ cazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specificare nella detta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavora‑ tore di percepire perché lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato l’illegittimità della procedura sulla base del mero rilievo formale che la comunicazione conteneva l’elenco dei soli lavoratori destinatari del provvedimento espulsivo e non di tutti i dipendenti fra i quali era stata operata la scelta, senza considerare che la comunicazione indicava specificamente il criterio di scelta, individuato in sede di accordo sindacale, del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità o vecchiaia, la cui natura oggettiva rendeva superflua la comparazio‑ ne con i lavoratori privi del requisito stesso). Cass. Sez. lav. 06/06/2011 n. 12196. Nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, la comunicazione di cui all’art 4, comma nono, che fa obbligo di indicare “pun‑ tualmente” le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttez‑ za dell’operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti. A tal fine non è sufficiente la trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e la comunicazio‑ ne dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, nè la predi‑ sposizione di un meccanismo di applicazione in via successiva dei vari criteri, poiché vi è necessità di controllare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per l’individuazione dei dipendenti da licenziare. Cass. Sez. lav. 16/02/2010 n. 3603. In tema licenziamento collettivo, la specificità degli oneri di comunicazione in sede di apertura e chiusura della procedura di mobilità, previsti dagli artt. 4, commi 3 e 9, della legge n. 223 del 1991, fonda la possibilità di controllo sin‑ dacale e individuale dell’operazione, altrimenti insindacabile in sede giudiziaria, trovando conferma l’importanza di tali adempimenti nella previsione della sanzione dell’inefficacia dei licenziamenti, anche nel caso di comunicazione iniziale o finale incompleta o infedele. Ne consegue che, con riguardo alle modalità di applicazione dei criteri di scelta, la comunicazione ex art. 4, com‑ ma 9, della legge n. 223 del 1991, deve essere specifica e dare pienamente conto dei criteri effettivamente e concretamente seguiti. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha rilevato che correttamente la Corte territoriale aveva accolto le domande dei lavoratori poiché il datore di lavoro, nell’individuare la causa della messa in mobilità nel diniego da parte della Prefettura ad alcuni committenti del nulla osta per asserite infiltrazioni mafiose, aveva ingiustifica‑ tamente circoscritto l’ambito della scelta dei dipendenti da licenziare unicamen‑ te a quelli del cantiere di committenza pubblica, senza chiarire le ragioni ogget‑ tive del nesso tra chiusura dei cantieri e limitazione della scelta, salvo poi pre‑ cisare – al di fuori di ogni comunicazione – di aver limitato il licenziamento alla manovalanza generica). Cass. Sez. lav. 28/10/2009 n. 22825 24In tema di licenziamenti collettivi, il requisito della contestualità della comuni‑ cazione del recesso al lavoratore e alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro, richiesto a pena d’inefficacia del licenziamento medesimo, non può che essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido ed analitico, e con termini molto ristretti, nel senso di una necessaria ed ineliminabile contemporaneità delle due comunicazioni la cui mancanza, solo se sostenuta da giustificati motivi di natura oggettiva, da comprovare dal dato‑ re di lavoro, può non determinarne l’inefficacia. Cass. Sez. lav. 31/03/2011 n. 7490 e Cass. Sez. lav. 23/01/2009 n. 1722 F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o applicati i criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1. La comunicazione assolve ad una finalità informativa nei confronti della parte pubblica e di garanzia circa la correttez‑ za e trasparenza della procedura nei confronti della parte privata, fornendole ogni elemento di utile valutazione. A conferma, giova richiamare la seguente massima: Nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 lu‑ glio 1991, n. 223, la comunicazione di cui all’art 4, com‑ ma nono, che fa obbligo di indicare “puntualmente” le mo‑ dalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavorato‑ ri interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi am‑ ministrativi di controllare la correttezza dell’operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti. A tal fine non è sufficien‑ te la trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e la co‑ municazione dei criteri di scelta concordati con le organizza‑ zioni sindacali, nè la predisposizione di un meccanismo di applicazione in via successiva dei vari criteri, poiché vi è ne‑ cessità di controllare se tutti i dipendenti in possesso dei re‑ quisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutina‑ re e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per l’individuazione dei dipendenti da licenziare. (Cass. Sez. lav. 16/02/2010 n. 3603). 6.3. Il sistema sanzionatorio La riforma del lavoro ha influito sul sistema sanzionato‑ rio. Al riguardo, é bene evidenziare che: A) L’art. 4, comma 12, si limitava a stabilire (fino al 17.07.2012) che le comunicazioni previste dal comma 9 (ai lavoratori ed ai soggetti pubblici e privati ivi indicati) sono viziate (inefficaci) nel caso di inosservanza delle forme pre‑ scritte e della procedura. L’art. 1, comma 45, incide sul comma 12 dell’art. 4 legge n. 223 del 1991 stabilendo, in via aggiuntiva, che: “Gli even‑ tuali vizi della comunicazione di cui al comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo». Per effetto della modifica l’art. 4 comma 12, dal 18.07.2012, è ora il seguente: “Le comunicazioni di cui al comma 9 sono prive di efficacia ove siano state effettuate senza l’osservanza della forma scritta e delle procedure previste dal presente articolo. Gli eventuali vizi della comunicazione di cui al comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo”. Per comprendere l’esatta portata dell’intervento non può prescindersi dalla lettura di quanto previsto dal comma 2 dello stesso articolo 4. Il comma 2 disciplina le comunicazioni cui è tenuta l’im‑ presa che voglia avviare una procedura di mobilità e dispone che: 2. Le imprese che intendano esercitare la facoltà di cui al comma 1 sono tenute a darne comunicazione preventiva per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali costituite a norma dell’articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nonché alle rispettive associazioni di categoria. in mancanza 2 0 1 3 31 delle predette rappresentanze la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confede‑ razioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. la comunicazione alle associazioni di categoria può essere effet‑ tuata tra il tramite dell’associazione dei datori di lavoro alla quale l’impresa aderisce o conferisce mandato. Nell’ambito dei vizi procedurali riconducibili alla procedura di mobilità complessivamente considerata, risulta, quindi, in‑ trodotta, una possibilità di sanatoria dei soli vizi della comuni‑ cazione di cui all’articolo 2, (sanatoria) precedentemente inesi‑ stente. Ciò posto, va, poi, rilevato che: B) Il regime delle sanzioni per il licenziamento collettivo viziato è fondato sul comma 3 dell’articolo 5, modificato dalla legge di riforma n. 92 del 2012. Per comodità di lettura si riporta il testo vigente fino al 18.07.2012. 3. Il recesso di cui all’articolo 4, comma 9, è inefficace qualora sia intimato senza l’osservanza della forma scritta o in violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, com‑ ma 12, ed è annullabile in caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1 del presente articolo. Salvo il caso di mancata comunicazione per iscritto, il recesso può essere impugnato entro sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione con qualsiasi atto scritto, anche extragiudi‑ ziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento delle organizzazioni sindacali. al re‑ cesso di cui all’articolo 4, comma 9, del quale sia stata dichia‑ rata l’inefficacia o l’invalidità si applica l’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni. Fino al 17.07.2012, la norma prevedeva l’inefficacia del recesso intimato senza l’osservanza della forma scritta o in violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, com‑ ma 12, e la sua annullabilità in caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1 In tutti i casi predetti, il lavoratore poteva far valere le sue ragioni impugnando il licenziamento con l’osservanza delle forme e nel termine di decadenza previste dall’articolo 6 della legge n. 604 del 1966 per il licenziamento individuale. Il riconoscimento del vizio comportava l’inefficacia o l’annullamento del licenziamento con applicazione delle con‑ seguenze previste dall’articolo 18 della legge n. 300 del 1970. Limitatamente al vizio determinato dalla violazione dei criteri di scelta, la legge mitigava il rigore sanzionatorio con‑ sentendo al datore di lavoro di sostituire, con altro, il lavora‑ tore mal licenziato, facendo corretto uso dei poteri di scelta ma senza necessità di ricorrere all’espletamento di una nuova procedura. Unico onere aggiuntivo era costituito da una preventiva comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali. La legge non poneva limiti quantitativi o temporali alla facoltà di sostituzione. Il nuovo comma terzo stabilisce che: 3. Qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservan‑ za della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. In caso di violazione del‑ le procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del pre‑ civile Gazzetta 32 D i r i t t o e p r o c e d u r a detto articolo 18. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18. Ai fini dell’impugnazione del licenziamento si applicano le disposizioni di cui all’arti‑ colo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modi‑ ficazioni». Il nuovo regime previsto dalla legge a partire dal 18.07.2012 è naturale conseguenza della diversificazione di tutele previ‑ ste dal nuovo articolo 18. Sintetim: 1. Innanzitutto, il nuovo terzo comma stabilisce che, ai fini dell’impugnazione del licenziamento, si applicano le di‑ sposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Si applica cioè quanto previsto per i licenziamenti indivi‑ duali, dopo l’entrata in vigore della legge 4.11.2010 n. 183. 2. Il licenziamento intimato senza l’osservanza della forma scritta gode della tutela prevista dall’art. 18 comma 25. 3. Il licenziamento intimato in violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, gode della tutela prevista dall’articolo 18, comma 7, terzo periodo. 4. Il licenziamento intimato in violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, gode della tutela previsto dall’ar‑ ticolo 18 comma 4. L’esame comparativo delle due norme rende di immediata evidenza: • la previsione, anche per il recesso intimato nell’ambito di un licenziamento collettivo, della necessità di impugnativa del recesso 26 secondo il più rigoroso meccanismo predispo‑ sto dal collegato lavoro per il licenziamento individuale. • la conferma delle conseguenze derivanti dalla varie viola‑ zioni possibili, con diversificazione, in base alle specifiche violazioni, delle tutele accordate, secondo la nuova filoso‑ fia che sovrintende alla modifica dell’articolo 18. 7. Il licenziamento collettivo per i datori di lavoro non imprenditori Il decreto legislativo 8 aprile 2004 n. 110 ha ampliato l’operatività del licen‑ziamento collettivo anche ai datori di 25In tema di licenziamento collettivo, la chiusura dello stabilimento aziendale cui sono addetti i lavoratori licenziati non esclude, in linea di principio, la possibi‑ lità di reintegrarli nel posto di lavoro, eventualmente trasferendoli ad altre unità produttive, ove il datore di lavoro non abbia specificato, nella comunica‑ zione di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991, le ragioni per cui i lavoratori, in relazione alla loro professionalità, non possano essere utilizzati in altri repar‑ ti dell’azienda. Cass. Sez. lav. 14/02/2011 n. 3597 La reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro può essere disposta anche nei confronti di una società posta in liquidazione, allorché non risulti avvenuta la cessazione definitiva dell’attività sociale e l’azzeramento effettivo dell’orga‑ nico del personale. Cass. Sez. lav. 07/02/2011 n. 2983 26In tema di decadenza, si richiama Cass. Sez. lav. 04/05/2009 n. 10235, secondo cui: “La decadenza dall’impugnativa del licenziamento, individuale o collettivo, preclude l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e la tutela risar‑ citoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto, sia sul piano contrattuale, in quanto l’inadempimento del datore di lavoro consista nel recesso illegittimo in base alla disciplina speciale, sia sul piano extracontrattua‑ le, ove il comportamento illecito dello stesso datore consista, in sostanza, proprio e soltanto nell’illegittimità del recesso. (Principio affermato in contro‑ versia in cui il lavoratore, pur non invocando l’applicazione, in suo favore, dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, aveva esperito unicamente azione risarcitoria per ritenuta illegittimità del comportamento datoriale, rav‑ visata nel mancato rispetto dei criteri dettati dalla legge 23 luglio 1991, n. 223 per l’ individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, senza tuttavia al‑ legare un diverso fatto ingiusto accompagnatosi al licenziamento). c i v i l e Gazzetta F O R E N S E lavoro non imprenditori, estendendo a questi, ma solo in parte, le disposizioni della legge n. 223 del 1991. Tanto in applicazione della condanna emessa dalla CGUE per l’affermata violazione della direttiva n. 59/98 La nozione ed il campo di applicazione del licenziamento collettivo per riduzione di personale sono identici. In caso di licenziamento illegittimo comminato da datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, oppure di religione o di culto (art. 4, comma 1 legge n. 108 del 1990) la tutela spettante non è quella reale prevista dall’ar‑ ticolo 18. Inoltre, il lavoratore licenziato può iscriversi nelle liste di mobilità, ma senza beneficiare degli ammortizzatori sociali (in particolare, indennità di mobilità), né delle agevolazioni contributive per il nuovo datore di lavoro in caso di loro as‑ sunzione. 8. Licenziamento collettivo e licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo Dopo l’entrata in vigore della L. n. 223 del 1991, secondo l’orientamento giurisprudenziale largamente maggioritario, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo, che si distingue radicalmente dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, anche plurimo, poiché se pur fondato sulle stesse ragioni oggettive, risulta caratterizzato dalla rilevanza sociale del fenomeno, rappresentata dalle di‑ mensioni occupazionali dell’impresa (più di quindici dipen‑ denti), dal numero dei licenziamenti (almeno 5), dall’arco temporale (120 giorni) entro cui sono effettuati i licenziamen‑ ti ed essendo strettamente collegato al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridi‑ mensionamento della struttura aziendale. Ne consegue che: • il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche se plurimo, qualora non raggiunga i requisiti richiesti per la ricorrenza del licenziamento collettivo resta sottoposto alla disciplina del licenziamento individuale prevista dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966 27; • attesa la diversità dei presupposti di licenziamento collet‑ tivo rispetto a quelli propri del licenziamento individuale, non è ammissibile l’ipotesi di una “conversione” del licen‑ ziamento collettivo in licenziamento individuale (vedi, tra le numerose decisioni, Cass. 23 marzo 2004, n. 5794), né sarebbe consentito al giudice, adito dal lavoratore per l’annullamento o l’accertamento di inefficacia di un licen‑ ziamento collettivo, ravvisare, in difetto di domanda ricon‑ venzionale del datore di lavoro, la diversa fattispecie del licenziamento individuale per giustificato motivo oggetti‑ vo, incorrendo altrimenti in violazione dell’art. 112 c.p.c. (vedi Cass. 20 dicembre 2004, n. 23611)28. 27 Cass. Sez. lav. 02/01/2001 n. 5, in Notiziario Giurisprudenza del Lavoro, 2001, 4, 480 con nota redazionale. 28 Cass. Sez. lav. 29/10/2010 n. 22167, Cass. Sez. lav. 02/12/2009 n. 25353, Cass. Sez. Lav. 23/03/2004 n. 5794, in Notiziario Giurisprudenza del Lavoro, 2004, 676, con nota redazionale, Cass. S.U. 11/05/2000 n. 302; In senso contrario, ma prima dell’entrata in vigore della legge n. 223 del 1991, si riteneva che “nel caso in cui, in riferimento a licenziamenti che il datore di lavoro abbia intimato richiamando la disciplina sui licenziamenti collettivi per riduzione di personale, risulti giudizialmente la mancanza dei relativi presup‑ Gazzetta F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 33 posti, formali e sostanziali, il giudice deve fare applicazione della disciplina generale, qualificando i licenziamenti stessi come individuali (senza che venga in considerazione l’istituto della conversione in senso tecnico di cui all’art. 1424 cod. civ.) e verificandone di conseguenza la legittimità dal punto di vista forma‑ le e sostanziale. Quindi, anche in tali circostanze, perché si possa ritenere il potere di recesso legittimamente esercitato per l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo (art. 3, seconda parte, legge n. 604 del 1966), il datore di lavoro ha l’onere di provare, per ciascun lavoratore – in relazione alla sua po‑ sizione lavorativa ‑, le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazio‑ ne del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, compresa l’impossibilità di adibirlo ad altre posizioni lavorative.” civile 9. Cenni sulla trattazione del licenziamento collettivo è sufficiente, in questa sede, rilevare che i ricorsi depositati a partire dal 18.07.2012, anche se relativi a licenziamenti in‑ timati precedentemente, vanno trattati con la procedura spe‑ ciale previsti dall’art.1, commi 47‑68, della legge 28.06.2012 n. 92. è bene evidenziare che tale procedura, secondo l’espressa previsione del comma 67, trova applicazione limitatamente alle controversie instaurate successivamente alla data di en‑ trata in vigore della legge. Tanto premesso, deve poi rilevarsi che la riforma riguarda come espressamente dispone il comma 47, “le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa di licenziamenti soggetti alla disciplina dettata dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, e successive modificazioni, anche quando devono essere ri‑ solte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro”. La procedura speciale riguarda solo le cause aventi ad oggetto: Le ipotesi di licenziamenti sottoposti alla disciplina det‑ tata dall’articolo 18 legge 20.5.1970 e successive modifiche (occorre considerare quindi la versione attuale dell’articolo introdotta dalla stessa legge, vedi precedente comma 42), con l’aggiunta, di non semplice interpretazione, che tanto vale “anche se devono essere risolte questioni attinenti alla qua‑ lifica del rapporto”. Resta pertanto ininfluente (sotto il profilo processuale) la data del licenziamento, il cui rilievo rimane circoscritto alla disciplina sostanziale applicabile alla fatti‑specie (“tempus regit actum”). Più particolarmente, avuto riguardo al nuovo articolo 18, il rito speciale certa‑mente si applica, tra l’altro, nel caso di licenziamenti collettivi. è, invero, decisivo il richiamo all’applicabilità del regime sanzionatorio previsto dall’articolo 18 operato dal terzo comma dell’art. 5 legge n. 223 del 1991, come modificato dall’art. 1, comma 46 legge n. 92/2012. Per le problematiche processuali si rinvia alla legge 28 giugno 2012 n. 92, art. 1, commi 47‑68. 34 D i r i t t o e ● Potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità contrattuale e principi della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato: il punto delle Sezioni unite ● Roberta Catalano Ricercatore in Diritto civile p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Nullità contrattuale – Rilevabilità d’ufficio – Potere del giudi‑ ce – Principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Il giudice di merito ha il potere di rilevare, dai fatti alle‑ gati e provati o emergenti ex actis, ogni forma di nullità non soggetta a regime speciale e, provocato il contraddicono sul‑ la questione, deve rigettare la domanda di risoluzione, volta ad invocare la forza del contratto. Pronuncerà con efficacia idonea al giudicato sulla questione di nullità ove, anche a seguito di rimessione in termini, sia stata proposta la relativa domanda. Nell’uno e nell’altro caso dovrà disporre, se richie‑ sto, le restituzioni. Cass. Civ., Sez. Un., 04 settembre 2012, n. 14828 Pres. P. Vittoria, Rel. P. D’Ascola (Omissis) Motivi della decisione 2) Secondo l’orientamento dominante in giurisprudenza, “il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto ex art. 1421 c.c. va coordinato col principio della domanda fissato dagli art. 99 e 112 c.p.c., sicché solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del giudi‑ zio, l’eventuale nullità dell’atto, indipendentemente dall’attivi‑ tà assertiva delle parti. Al contrario, qualora la domanda sia diretta a fare dichiarare la invalidità del contratto o la risolu‑ zione per inadempimento, la deduzione (nella prima ipotesi) di una causa di nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda e (nella seconda ipotesi) di una qualsiasi causa di nullità o di un fatto costitutivo diverso dall’inadempimento, sono inammissibili: né tali questioni possono essere rilevate d’ufficio, ostandovi il divieto di pronunciare ultra petita” (tra le tante v. Cass. 2398/88; 6899/87). Cass. n. 1127/70 sostenne con chiarezza che la rilevabilità ex officio della nullità del contratto, sancita dall’art. 1421 c.c., opera, anche in sede di impugnazione, quando si chieda in giudizio l’applicazione del contratto, perché in tal caso “la legge stessa respinge con la forza dei suoi principi imperativi gli effetti che promanano da un negozio affetto da nullità assoluta”. Aggiunse che quando in giudizio non si chiede l’applicazione del contratto, ma la risoluzione di esso, il giudice non può dichiarare ex officio la nullità, perché il divieto di decidere su domande non proposte si concreta in un preclusione all’esercizio della giurisdizione, la cui violazione “da luogo a vizio di extrapetizione”. Questo insegnamento si è tramandato con continuità di accenti (cfr. Cass. 14/71; 661/71; 3443/73; 243/77; 5295/78; 5766/79), sebbene significativamente resistito dalla coeva Cass. n.578/70, la quale aveva, proprio in ipotesi di domanda di risoluzione di contratto preliminare relativo a compravendita nulla perché simulata, semplicemente osservato che la Corte di appello avrebbe dovuto senz’altro rilevare la nullità, “dal momento che la nullità può essere rilevata dal giudice anche d’ufficio” (v. anche Cass. 550/86). 2.1) Negli anni successivi, accanto a pronunce conformi all’orientamento tradizionale (indicativamente cfr. Cass. 4817/99; 1378/99; 4607/95; 4064/95; 1340/94; 141/93), co‑ stanti nel ribadire che la nullità del contratto è rilevabile d’uf‑ ficio, sempre che risultino acquisiti al processo gli elementi che la evidenziano, solo nella controversia promossa per far valere F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o diritti presupponenti la validità del contratto stesso, non anche nella diversa ipotesi in cui la domanda prescinda dalla suddet‑ ta validità, come quando la domanda sia diretta a far dichia‑ rare l’invalidità del contratto o a farne pronunciare la risolu‑ zione per inadempimento, mette conto segnalare, in senso opposto, qualche significativa presa di posizione del giudice di legittimità. Trattasi di Cass. n. 2858/97 (e anche Cass. 6710/94), che ha ritenuto che “la nullità di un contratto del quale sia stato chiesto l’annullamento (ovvero la risoluzione o la rescissione) può essere rilevata d’ufficio dal giudice, in via incidentale, senza incorrere in vizio di ultrapetizione, atteso che in ognuna di tali domande è implicitamente postulata l’assenza di ragioni che determinino la nullità del contratto; pertanto il rilievo di quest’ultima da parte del giudice da luogo a pronunzia che non eccede il principio dell’art. 112 c.p.c.”. 2.2) Fino all’anno 2005, nel corso del quale il contrasto si è radicato con maggior vigore, si censiscono numerose sen‑ tenze ispirate all’orientamento tradizionale (v. Cass. n. 123/00; 12644/00; 13628/01; 435/03; 2637/03). Cass. 3 sez civ. 22.3.2005 n. 6170 ha vistosamente infranto questo fronte giurisprudenziale, affermando, in accordo con la dottrina quasi unanime, che le domande di risoluzione e di annulla‑ mento presuppongono la validità del contratto, dunque “im‑ plicano, e fanno valere, un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal contratto in discussione, non meno del diritto all’adempimento”. La Corte ha in quell’occasione evidenziato che la domanda di risoluzione contrattuale è animata da sostanziale identità di presupposti con la doman‑ da di adempimento, secondo quanto riconosciuto da Cass. Sez. Un. 13533/01. L’accertamento sulla nullità del contratto ha, secondo Cass. 6170/05, natura di pronuncia incidentale su una pregiudiziale in senso logico, con la conseguenza che: a) il giudice deve dichiarare d’ufficio la nullità negoziale in ogni caso; e b) l’accertamento d’ufficio ex art. 1421 c.c., ha effetto anche in successivi giudizi imperniati sul contratto dichiarato nullo, non perché si verta in ipotesi di cui all’art. 34 c.p.c., ma “perché l’efficacia della decisione di detta nulli‑ tà, pregiudiziale alla statuizione di rigetto della domanda, costituisce giudicato implicito”. 2.3) L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite da conto del successivo radicalizzarsi delle due posizioni. 3) Da un lato l’ulteriore frazionarsi del quadro giurispru‑ denziale; dall’altro le gravi incertezze derivanti dalla radica‑ lizzazione delle conseguenze delle due tesi impongono la composizione del contrasto. Occorre partire dai rilievi che da gran tempo la dottrina ha formulato con riguardo al rappor‑ to tra azione di risoluzione e nullità del contratto. Si è osser‑ vato che la domanda di risoluzione comporta l’esistenza di un atto valido, perché mira a eliminarne gli effetti. Domanda di adempimento e domanda di risoluzione implicano quindi allo stesso modo la richiesta di applicazione del contratto, presup‑ ponendo che esso sia valido. La funzione dell’art. 1421 cc, è di impedire che il contratto nullo, sul quale l’ordinamento esprime un giudizio di disvalore, possa spiegare i suoi effetti. Il compito di far valere la nullità è in via di azione affidato a chiunque abbia interesse, ma al giudice, al quale si chiede di giudicare secundum ius, spetta di rilevare se un atto è nullo e quindi di evidenziare in giudizio la mancanza di fondamento di una domanda che presupponga la sussistenza dei requisiti di validità del contratto. 2 0 1 3 35 3.1) L’aver insistentemente negato che l’azione di risolu‑ zione presupponga, dal punto di vista logico, la validità del contratto e che dunque sia possibile la risoluzione del contrat‑ to nullo è tesi invisa alla maggioranza della dottrina civilisti‑ ca. La spiegazione dell’atteggiamento giurisprudenziale ostile al rilievo officioso della nullità riposa sulla doppia natura della norma, che è all’incrocio tra diritto sostanziale e diritto processuale. Se si rammentano le ragioni della giurisprudenza maggioritaria sopra riassunte, si nota che la ritrosia delle Corti rispetto al rilievo della nullità del contratto nasce da timori di natura processuale, quali la violazione del principio di terzietà e dell’obbligo di corrispondenza tra chiesto e pro‑ nunciato. Ciò ha portato a una riduttiva lettura dell’art. 1421 c.c., ipotizzando che solo l’azione di adempimento richieda la verifica dell’esistenza dei requisiti di validità ed efficacia del negozio da cui è sorta l’obbligazione, questione su cui vi è invece da interrogarsi per ogni azione contrattuale. Si è quin‑ di verificata una inversione logica, prontamente segnalata in dottrina: per il timore dell’extrapetizione e quindi di amplia‑ re indebitamente la formazione del giudicato, anziché ragio‑ nare sulla portata della decisione conseguente al rilievo offi‑ cioso della nullità, si è preferito restringere l’area in cui detta questione è rilevabile, limitandola (oltre che all’azione di nullità espressamente proposta) all’azione di adempimento. Questa linea interpretativa non è più sostenibile. 3.2) Essa in primo luogo svilisce la categoria della nullità, l’essenza della quale, pur con i molti distinguo dottrinali su cui non è il caso di soffermarsi, risiede nella tutela di interessi ge‑ nerali, di valori fondamentali o che comunque trascendono quelli del singolo. La qualificazione negativa che l’ordinamento da del contratto viene elusa dall’orientamento fin qui dominan‑ te, il che è incoerente con l’insegnamento professato in ipotesi di domanda di esecuzione del contratto. Si è infatti affermato (S.U. 21095/04) che la nullità può essere rilevata d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del giudizio, indipendentemente dall’at‑ tività assertiva delle parti, quindi anche per una ragione diver‑ sa da quella espressamente dedotta, nel caso in cui sia in con‑ testazione l’applicazione o l’esecuzione del contratto, la cui validità rappresenta quindi un elemento costitutivo della do‑ manda; con la conseguenza che la contestazione della validità dell’atto non costituisce domanda giudiziale, bensì mera difesa, che non condiziona l’esercizio del potere di dichiarare d’ufficio la nullità per vizi diversi da quelli eccepiti. 3.3) In secondo luogo viene depotenziato il ruolo che l’ordinamento affida all’istituto della nullità, per esprimere il disvalore di un assetto di interessi negoziale. Non può negar‑ si che, nonostante talune critiche degli operatori del diritto, esso è stato negli ultimi decenni ampliato, introducendo con la legislazione speciale nuovi casi di nullità contrattuale. Questo ruolo trae forza anche dalla previsione della rilevabi‑ lità di ufficio, che, salvi i casi di espressa deroga, contribuisce a definire il carattere indisponibile delle norme in tema di nullità. Infatti, al di là delle distinzioni tra le stesse ipotesi di nullità previste nel codice, che anche in giurisprudenza sono state in proposito tentate, l’unica differenza che rilevi ai fini del disposto normativo in esame è quella ravvisabile con le nullità per le quali sia dettato un regime speciale, come nel caso delle c.d. nullità di protezione, in cui il rilievo del vizio genetico è espressamente rimesso alla volontà della parte. 3.4) Con riferimento al regime delle nullità, occorre por‑ civile Gazzetta 36 D i r i t t o e p r o c e d u r a tare l’attenzione su quanto è stato stabilito dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Sez. 4, 4 giugno 2009, causa 0243/08 ha stabilito che il giudice deve esaminare d’uf‑ ficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e, in quanto nulla, non applicarla, tranne nel caso in cui il consu‑ matore vi si opponga. L’uso in questa sentenza del termine obbligo, anziché di quello facoltà, in precedenza comune, è stato inteso come acquisita consapevolezza del concetto di dovere dell’ufficio di rilevare la nullità ogniqualvolta il con‑ tratto sia elemento costitutivo della domanda. Dunque non di facoltà propriamente trattasi, ma di obbligo, così come il verbo “può” usato nell’art. 1421 c.c., è da intendersi “deve”, laddove la domanda proposta implichi la questione da rileva‑ re e non si ponga quindi un problema di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Di sicura importanza è poi la sentenza Asturcom (6 settembre 2009 in procedimento C‑ 40/08), in forza della quale il giudice è tenuto, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, a valutare d’ufficio il carattere abusivo della clausola contenuta in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, qualora, secondo le norme procedurali nazio‑ nali, egli possa procedere a tale valutazione nell’ambito di ricorsi analoghi di natura interna. In tal caso, incombe a detto giudice di trarre tutte le conseguenze che ne derivano secondo il diritto nazionale, affinché il consumatore di cui trattasi non sia vincolato da detta clausola. Dalla considera‑ zione che la giurisprudenza comunitaria attribuisce al pote‑ re‑dovere di rilievo d’ufficio della nullità, risulta ancor più appropriato parlare di disagio del civilista in caso di mancato uso dei poteri officiosi. 4) Si torna per questa via ai profili processuali, dai quali ha tratto spunto l’orientamento restrittivo. Muovendo dal rilievo, sopra argomentato, che l’azione di risoluzione per inadempimento è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, va detto che la nullità del contratto è un evento impe‑ ditivo che si pone prioritariamente rispetto alla vicenda estintiva della risoluzione. Il giudice chiamato a pronunciarsi sulla risoluzione di un contratto, di cui emerga la nullità dai fatti allegati e provati e comunque ex actis, non può sottrarsi all’obbligo del rilievo e ciò non conduce ad una sostituzione dell’azione proposta con altra. Soltanto fa emergere una ecce‑ zione rilevabile d’ufficio, che può condurre a variabili svilup‑ pi processuali, ma con cui viene qualificata una ineliminabile realtà del rapporto controverso, senza squilibrare i rapporti tra le parti, né introdurre una materia del contendere che non faccia già parte dell’oggetto del giudizio. In quel giudizio, che mira a riconoscere vigore ai contratto, viene eccepito, anche d’ufficio, come d’obbligo, un impedimento costituito da un motivo di nullità, con la conseguenza, salvo quanto si dirà nel paragrafo seguente, del rigetto della domanda di risoluzione per una ragione che impedisce di accertare quale delle due parti sia inadempiente. Opera così l’innegabile funzione op‑ positiva del potere‑dovere di cui all’art. 1421, sicuramente individuata dall’orientamento restrittivo, ma da esso non ben coniugata con la regola di cui all’art. 112 c.p.c., giacché la decisione, in questi limiti, resta sicuramente nell’ambito del petitum. La stessa funzione, si badi, non è con altrettanto nitore ravvisabile nel caso di azione di annullamento, il che peraltro rafforza il convincimento che si viene esprimendo in tema di azione di risoluzione. Invero alcuni autori, nell’inda‑ c i v i l e Gazzetta F O R E N S E gare la tematica che ci occupa e più in generale la funzione dell’azione di nullità, hanno evidenziato che la rilevazione incidentale della nullità è doverosa nel casi di azione per l’ese‑ cuzione o la risoluzione del contratto, ma non nel caso in cui siano allegati altri vizi genetici, come avviene nell’azione di annullamento. La relativa domanda non postula la validità del contratto, sicché, sebbene la tradizione giurisprudenziale e dottrinale dell’orientamento favorevole al rilievo d’ufficio apparenti le ipotesi di risoluzione, annullamento e rescissione, andrà a suo tempo verificato se sussistano i presupposti per questa equiparazione. 4.1) Gli orientamenti giurisprudenziali sin qui manifesta‑ tisi hanno trascurato gli esiti processuali che pure la dottrina aveva intuito da molto tempo e che ha ora delineato con pre‑ cisione anche grazie, da ultimo, alle modifiche degli artt. 101 e 153 c.p.c.. Sin dalla versione originaria del codice di rito, il secondo comma dell’art. 183 prevedeva il dovere del giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio, – tra le quali senza dubbio rientra la nullità del contratto – con la possibilità di armonizzare il principio di cui all’art. 1421 c.c. con quelli del contraddittorio, della domanda e della corri‑ spondenza tra chiesto e pronunciato. A seguito della riforma di cui alla legge 353/90, l’introduzione del regime delle pre‑ clusioni ha reso ancor più stringente, per effetto delle scansio‑ ni temporali, questo obbligo del giudice (trasfuso prima nel terzo e ora nel quarto comma del medesimo articolo), indi‑ spensabilmente connesso alla conoscenza dei fatti di causa anche tramite la richiesta di chiarimenti, eventualmente in sede di libero interrogatorio. È questo il manifestarsi del principio di collaborazione tra giudice e parti, e non un inna‑ turale esercizio dei poteri processuali, come pure ha temuto parte della dottrina che ha sorretto l’orientamento restrittivo. A seguito del rilievo officioso, le parti hanno possibilità di formulare domanda che ne sia conseguenza (arg. ex art. 183 comma IV, ora comma V) e quindi anche la eventuale doman‑ da di risoluzione potrà essere convertita in (o cumulata con) azione di nullità. A favorire questo sviluppo processuale, che, è da credere, avrà corso nella maggior parte dei casi, confi‑ nando ad ipotesi residuali la insistenza esclusivamente nell’ini‑ ziale domanda di risoluzione, sono anche le recenti modifiche sopra indicate. Il nuovo comma secondo dell’art. 101 c.p.c. (aggiunto dall’art. 45 L. 69/09, ma già v. art. 384 c.p.c.) im‑ pone anche al giudice che sia in fase di riserva della decisione, se ritiene di porre a fondamento di quest’ultima una questio‑ ne rilevata d’ufficio, di assegnare alle parti un termine per memorie contenenti osservazioni sulla questione. L’art. 153 ha ampliato la facoltà di essere rimessa in termini della parte che sia incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabi‑ le, come accade quando il rilievo officioso giunga tardivamen‑ te. In tal caso il giudice dovrà, nei limiti schiusi dal rilievo stesso, consentire la formulazione di ogni conseguente dedu‑ zione. Giova osservare che già la problematica era stata mes‑ sa a fuoco in relazione alla nullità della sentenza c.d. della terza via (si veda Cass. 14637/01). Con pienezza di argomen‑ ti, Cass. 21108/05 ha successivamente precisato che il giudice che ritenga, dopo l’udienza di trattazione, di sollevare una questione rilevabile d’ufficio e non considerata dalle parti, deve sottoporla ad esse al fine di provocare il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle opportune difese, dando spazio alle consequenziali attività. La mancata segnalazione F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o da parte del giudice comporta la violazione del dovere di collaborazione e determina nullità della sentenza per viola‑ zione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio, con le connesse facoltà di modificare doman‑ de ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione so‑ litaria. Qualora la violazione, nei termini suindicati, si sia verificata nel giudizio di primo grado, la sua denuncia in appello, accompagnata dalla indicazione delle attività proces‑ suali che la parte avrebbe potuto porre in essere, cagiona, se fondata, non già la regressione al primo giudice, ma, in forza del disposto dell’art. 354 comma quarto cod. proc. civ., la rimessione in termini per lo svolgimento nel processo d’appel‑ lo delle attività il cui esercizio non è stato possibile. È questa dunque la via da percorrere, che pone nel nulla tutte le per‑ plessità in tema di extrapetizione, poteri del giudice e “sog‑ gettivismo giudiziario” a suo tempo fatte proprie dalla giuri‑ sprudenza maggioritaria riassunta sub 2.2. 4.1.1) Altro esito del rilievo d’ufficio della nullità e del relativo accertamento è l’accoglimento di ogni richiesta for‑ mulata unitamente alla domanda di risoluzione e compatibi‑ le con la diversa ragione rappresentata dalla nullità, come avviene nel caso di domanda restitutoria. Questa conseguen‑ za si verifica senz’altro in ipotesi di modifica della domanda con richiesta di declaratoria della nullità. Altrettanto avverrà però in ipotesi di rigetto – fondato sulla nullità contrattuale rilevata d’ufficio – della domanda di risoluzione, alla quale sia associata, anche originariamente, la richiesta di condanna alle restituzioni. Il rilievo della nullità fa venir meno la “cau‑ sa adquirendi” e la richiesta di restituzione del bene conse‑ gnato in esecuzione del contratto, che era già stata formulata con la pretesa iniziale, sarà accolta sulla base di questo pre‑ supposto, senza bisogno di espressa dichiarazione della nul‑ lità. Va infatti confermato che qualora venga acclarata la mancanza di una “causa adquirendi” – tanto nel caso di nul‑ lità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno il vincolo originariamente esistente – l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecu‑ zione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo; ne consegue che, ove sia proposta una domanda di risoluzione del contratto per inadempimento e il giudice rile‑ vi, d’ufficio, la nudità del medesimo, l’accoglimento della ri‑ chiesta restitutoria conseguente alla declaratoria di nullità, non mutando la causa petendi, non viola il principio di corri‑ spondenza tra chiesto e pronunciato (v. Cass. 2956/11 cit.) inoltre cfr. Cass. 9052/10; 1252/00; e anche 21096/05; 5624/09). 4.2) La mancata segnalazione da parte del giudice com‑ porta la violazione del dovere di collaborazione e determina nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio, con le connes‑ se facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria. Qualora la violazione, nei termini suindicati, si sia verificata nel giudizio di primo grado, la sua denuncia in appello, accompagnata dalla indicazione delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in essere, cagiona, se fondata, non già la regressione al primo giudice, ma, in forza del disposto dell’art. 354 comma quarto 2 0 1 3 37 cod. proc. civ., la rimessione in termini per lo svolgimento nel processo d’appello delle attività il cui esercizio non è stato possibile. È questa dunque la via da percorrere, che pone nel nulla tutte le perplessità in tema di extrapetizione, poteri del giudice e “soggettivismo giudiziario” a suo tempo fatte pro‑ prie dalla giurisprudenza maggioritaria riassunta sub 2.2 5) Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso nei limiti suddetti, con enunciazione del seguente principio: Il giudice di merito ha il potere di rilevare, dai fatti allegati e provati o emergenti ex actis, ogni forma di nullità non sog‑ getta a regime speciale e, provocato il contraddicono sulla questione, deve rigettare la domanda di risoluzione, volta ad invocare la forza del contratto. Pronuncerà con efficacia ido‑ nea al giudicato sulla questione di nullità ove, anche a segui‑ to di rimessione in termini, sia stata proposta la relativa do‑ manda. Nell’uno e nell’altro caso dovrà disporre, se richiesto, le restituzioni. La sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata per nuovo esame ad altra sezione della Corte di ap‑ pello di Venezia, che provvedere anche in ordine alle spese di questo grado di giudizio. • • • Nota a sentenza 1. Con la decisione in epigrafe le Sezioni unite intervengo‑ no a comporre un contrasto sorto tra le Sezioni semplici in ordine ai limiti entro i quali il giudice può rilevare d’ufficio la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1421 c.c.1. Questi, in estrema sintesi, i due orientamenti da cui ha tratto origine il contrasto. Secondo l’opinione più tradizionale, la nullità è rilevabile d’ufficio solo quando la domanda abbia ad oggetto l’adempi‑ mento del contratto e non anche quando il giudizio sia inizia‑ to con una azione di annullamento, rescissione o risoluzione. Si osserva, infatti, che l’assenza di cause di nullità del contrat‑ to è presupposta dall’azione di adempimento ma non anche dalle azioni di rescissione, risoluzione e annullamento, che si fondano sull’accertamento di elementi e circostanze specifi‑ che, affatto diverse da quelle poste a base della nullità; sicché la nullità può essere rilevata di ufficio nel primo caso, ma non anche quando il petitum riguardi l’annullamento, la rescissio‑ ne ovvero la risoluzione del contratto stanti i limiti imposti dai principi della domanda (art. 99 c.p.c.) e della corrispon‑ denza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 c.p.c.)2. Secondo un diverso e più recente orientamento, invece, la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice, in via inciden‑ tale, senza incorrere nel vizio di ultrapetizione, anche se la richiesta miri ad ottenere l’annullamento, la rescissione o la risoluzione del contratto; e ciò in quanto – si afferma – ognu‑ na di tali domande implicitamente postula l’assenza di ragio‑ 1Nel quadro della più recente dottrina che ha esaminato le questioni sorte circa i limiti entro i quali il giudice può rilevare ex officio la nullità ai sensi dell’art. 1421 c.c. v., ex multis, Nardi, Nullità del contratto e potere‑dovere del giudice, in Riv. dir. civ., 2012, 155 e ss.; Pagliantini, Struttura e funzione dell’azione di nullità contrattuale, ivi, 2011, 751 e ss.; Pirovano, Rilevabilità d’ufficio della nullità e domanda di risoluzione, in Contratti, 2011, 681 e ss.; Corsini, Rileva‑ bilità d’ufficio della nullità contrattuale, principio della domanda e poteri del giudice, in Riv. dir. civ., 2004, 667 e ss. 2Tra le numerose altre v. Cass. 6 ottobre 2006, n. 21632, ivi, 2007, I, 430 e ss.; Cass. 18 maggio 1999, n. 4817, ivi, 1999, I, 2542 e ss.; Cass. 9 febbraio 1994, n. 1340, ivi, 1995, I, 611 e ss. civile Gazzetta 38 D i r i t t o e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E ni che determinano l’inefficacia del contratto e, quindi, con‑ sente il rilievo ex officio della nullità senza eccedere i limiti di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c.3. La controversia in ordine alla quale sono chiamate a pro‑ nunciarsi le Sezioni Unite concerne, appunto, la richiesta di risoluzione di un contratto preliminare di permuta del quale una delle parti eccepisce, però solo in secondo grado, la nul‑ lità. Tale eccezione viene dichiarata inammissibile perché volta ad introdurre in appello una questione nuova e di ciò si duole la parte soccombente con ricorso in Cassazione. I Su‑ premi giudici, censurando la pronuncia di appello e distac‑ candosi dall’orientamento giurisprudenziale più tradizionale, ammettono la rilevabilità d’ufficio della nullità anche in sede di gravame e nonostante che il giudizio pendente tragga ori‑ gine da una azione di risoluzione. Le Sezioni Unite affermano che “l’azione di risoluzione per inadempimento è coerente solo con l’esistenza di un con‑ tratto valido”, poiché “la nullità del contratto è un evento impeditivo che si pone prioritariamente rispetto alla vicenda estintiva della risoluzione”. Pertanto, “il giudice chiamato a pronunciarsi sulla risoluzione di un contratto, di cui emerga la nullità dai fatti allegati e provati e comunque ex actis, non può sottrarsi all’obbligo del rilievo e ciò non conduce ad una sostituzione dell’azione proposta con altra”. E ciò seppure della nullità il giudicante si accorga solo in secondo grado; infatti, il secondo comma dell’art. 183 prevede “il dovere del giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d’uffi‑ cio, – tra le quali senza dubbio rientra la nullità del contrat‑ to – con la possibilità di armonizzare il principio di cui all’art. 1421 c.c. con quelli del contraddittorio, della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato”. I Supremi giudici chiariscono infatti che la mancata segna‑ lazione alle parti delle eccezioni rilevabili d’ufficio comporta “la violazione del dovere di collaborazione e determina nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio, con le connesse facol‑ tà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria”. Dunque, “qualora la violazione, nei termini suindicati, si sia verificata nel giudizio di primo grado, la sua denuncia in appello, accompagnata dalla indicazione delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in essere, cagiona, se fondata, non già la regressione al primo giudice, ma, in forza del disposto dell’art. 354 comma quarto cod. proc. civ., la rimessione in termini per lo svolgimento nel processo d’appello delle attività il cui esercizio non è stato possibile. È questa dunque la via da percorrere, che pone nel nulla tutte le perplessità in tema di extrapetizione”. 2. La sentenza in epigrafe si segnala perché, con argomen‑ tazioni condivisibili, supera un orientamento giurispruden‑ ziale risalente e radicato in una tradizione di pensiero assai autorevole. E precisamente, negli studi dedicati da Giuseppe Chiovenda alla categoria delle eccezioni processuali. Fu Chiovenda infatti, sulle orme di alcuni pandettisti te‑ deschi, a proporre la ripartizione delle eccezioni in tre gruppi ed a comprendere nel primo gruppo “qualunque mezzo di cui il convenuto si serva per giustificare la domanda di rigetto e quindi anche la semplice negazione del fondamento della domanda attrice”; nel secondo gruppo solo le difese di merito non consistenti nella “semplice negazione del fatto costitutivo del fatto affermato dall’attore, ma nella contrapposizione di un fatto impeditivo o estintivo che escluda gli effetti giuridici del fatto costitutivo affermato dall’attore e quindi dell’azione (esempi, eccezioni di simulazione, di pagamento, di novazio‑ ne); e nel terzo gruppo, denominato delle eccezioni in senso stretto, le difese che costituiscono la proiezione processuale difensiva di azioni esercitabili in via autonoma che, in quanto tali, non sono rilevabili d’ufficio dal giudice. Fu Chiovenda, quindi, a proporre l’inclusione della nullità nel novero delle eccezioni in senso stretto non rilevabili d’ufficio 4. Queste autorevoli conclusioni ebbero grande seguito tra gli interpreti perché proponevano una sistemazione convin‑ cente di un materiale normativo, quello post‑unitario, ancora assai caotico e disordinato. Inoltre, l’inclusione dell’eccezione di nullità tra quelle in senso stretto appariva assai plausibile perché il codice civile del 1865 – vigente all’epoca dei citati scritti di Chiovenda – non conteneva alcuna norma che dispo‑ nesse espressamente la rilevabilità d’ufficio della nullità con‑ trattuale5. Si formò così una tradizione di pensiero che è stata poi tenacemente rispettata dalla giurisprudenza fino ai nostri giorni nonostante, nel frattempo, sia entrato in vigore il codi‑ ce civile del 1942 il quale, all’art. 1421 c.c., prevede espressa‑ mente la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto 6. Al riguardo, infatti, i giudici fedeli alla tradizione osservano che il potere di cui all’art. 1421 c.c. è comunque sottoposto ai li‑ miti di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c., cosicché può essere eser‑ citato solo quando l’efficacia del contratto sia elemento costi‑ tutivo dell’azione – come nel caso della domanda di adempi‑ mento – e non nelle altre ipotesi. Questa opinione, non convince per una molteplicità di motivi da ultimo accolti dalla decisione in commento. 3. La lettera dell’art. 1421 c.c. non conforta affatto l’orien‑ tamento giurisprudenziale tradizionale, che si palesa viepiù insoddisfacente ove solo si consideri che il legislatore, quando ha voluto limitare la rilevabilità ex officio di un fatto ai soli giudizi di adempimento, lo ha fatto espressamente. Come, ad esempio, nell’art. 1442, ult. co., c.c., alla cui stregua l’ecce‑ zione imprescrittibile di annullamento può “essere opposta dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto”. 3Tra le altre v. Cass. 22 marzo 2005, n. 6170, in Corr. Giur., 2005, 957 e ss.; Cass. 2 aprile 1997, n. 2858, in Giust. civ., 1997, I, 2459 e ss. Sulla rilevabilità d’ufficio della nullità di protezione prevista dalla dir. 93/13/Ce in materia di clausole abusive v. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 4 giugno 2009, causa 0243/08, in Racc. Giur. Corte Giust., 2009, I‑04713; ed anche in Contratti, 2009, 1115 e ss., con nota di Monticelli, La rilevabilità d’ufficio condizionata della nullità di protezione: il nuovo ‘atto’ della Corte di Giustizia. V. anche, da ultimo, G. Bilo’, Rilevabilità d’ufficio e potere di conva‑ lida nelle nullità di protezione del consumatore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 484 e ss. 4Le frasi tra virgolette sono tratte da Chiovenda, Istituzioni di diritto processua‑ le civile, Napoli, 1944, 304‑305; sulle eccezioni in senso stretto v. anche Id., Principi di diritto processuale, Napoli, 1928, 273. 5Sulla disorganicità del tessuto normativo post‑unitario, specie in relazione alle norme del codice civile del 1865 concernenti l’invalidità contrattuale, v. Sacco, Nullità e annullabilità (dir. civ.), Noviss. Dig. it., XI, Torino, 1965, 464 e ss. 6 Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli, 1983, 108 in nota. Si ispira chiaramente alle tesi di Chiovenda, nonostante che all’epoca fosse già entrato in vigore l’art. 1421 del codice civile del 1942, Cass. 13 aprile 1959, 1086, in Giust. civ., 1959, I, 1, 1010. Gazzetta F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 39 7Irti, Risoluzione di un contratto nullo?, in Foro pad., 1971, 743. Ma v. anche Amato, Risoluzione, rescissione o annullamento di un contratto nullo, in Giur. it., 1971, I, 1, 445‑6. 8Mariconda, Bonfilio, L’azione di nullità, in I contratti in generale, a cura di Alpa e Bessone, in Giur. sist. giur. civ. e comm., Torino, 1991, 467 e ss. In giurisprudenza cfr. con le sentenze già indicate nella nota 3. 9 Cfr. per tutte l’analisi di Massetani, Ingiustificate limitazioni alla rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, in Foro it., 1989, I, 1943 e ss. 10 Amato, Risoluzione, rescissione o annullamento di un contratto nullo, cit., 446; Massetani, Ingiustificate limitazioni alla rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, cit., 1944. 11Tra i primi ad indicare l’art. 183 c.p.c. come una possibile soluzione al proble‑ ma della rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale Protopisani, Nota a Cass. 18 aprile 1970, n. 1127, in Foro it., 1970, I, 1908 e ss.; ID., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1994, 106 e ss. Al riguardo v. anche Bonfilio, Mari‑ conda, L’azione di nullità, cit., 501. civile Non convince, poi, l’affermazione che solo l’azione di adempimento – e non anche quelle di risoluzione, rescissione ed annullamento – include tra i propri elementi costitutivi l’assenza di cause di nullità del contratto. Infatti, al riguardo è facile constatare che quando il contratto è inefficace in ra‑ gione della sua nullità, non può sussistere, evidentemente, alcun rapporto contrattuale da rescindere perché squilibrato, o da risolvere per l’inadempimento, l’eccessiva onerosità o l’impossibilità sopravvenuta; allo stesso modo l’annullamento, mirando ad eliminare retroattivamente gli effetti contrattua‑ li, comunque presuppone che quegli effetti il contratto li abbia prodotti7. Inoltre, a rafforzare queste considerazioni intervengono gli artt. 793, co. 3 e 4, e 1453 c.c. che, riferendosi all’azione di adempimento e di risoluzione come a risposte alternative all’identica fattispecie dell’inadempimento, dimostrano l’iden‑ tità di presupposti di queste azioni8. Identità di presupposti che risulta confermata persino dalla giurisprudenza la qua‑ le – dimentica di quanto sinora caparbiamente sostenuto circa la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto – ormai pacificamente riconosce la continenza (art. 39 c.p.c.) nei giu‑ dizi di adempimento sia delle cause di risoluzione sia delle cause di annullamento; così come quando riconosce la conti‑ nenza delle causa di annullamento nei giudizi di risoluzio‑ ne9. Insomma, se l’azione di adempimento presuppone l’effica‑ cia del contratto lo stesso vale anche per la risoluzione, la rescissione e l’annullamento; e quindi nei giudizi relativi a tutte queste azioni l’efficacia del contratto integra gli estremi della questione pregiudiziale sulla quale il giudice, anche in assenza di eccezione di parte, può decidere in via incidentale ai sensi degli artt. 1421 c.c. e 34 c.p.c.10. L’accertamento incidentale però, seppur consente al giu‑ dice di rilevare d’ufficio la nullità senza violare i limiti dispo‑ sti dagli artt. 99 e 112 c.p.c., presenta il grave inconveniente di non eliminare dal traffico giuridico il contratto invalido. Ed è appunto in considerazione di ciò che le Sezioni Unite, raccogliendo il suggerimento di alcuni studiosi, chiariscono che gli artt. 101, 153 e 183 c.p.c. impongono al giudice di stimolare il contraddittorio sulla nullità rilevata d’uffi‑ cio – all’uopo rimettendo le parti in termini – sì da consentire alla parte interessata di adeguare le proprie difese alla nuova questione eventualmente chiedendo una decisione sul merito con efficacia di giudicato11. 40 D i r i t t o ● Rassegna di legittimità ● A cura di e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Accessione invertita – Modo di acquisto della proprietà del bene da parte della P.A. – Legittimità – Esclusione. Alla luce della costante giurisprudenza della Corte euro‑ pea dei diritti dell’uomo, nonché dell’art. 42‑bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, la realizzazione di un’opera pubblica su di un fondo oggetto di legittima occupazione in via di urgen‑ za, non seguita dal perfezionamento della procedura espro‑ priativa, costituisce un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, ed è, come tale, inidonea, da sé sola, a determinare il trasferimento della proprietà in favore della P.A. Cassazione civ., Sez. II, sentenza 14 gennaio 2013 n. 705 Pres. Felicetti, Est. Giusti Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli Disciplinare magistrati – Obbligo di astensione – Interesse proprio o di un prossimo congiunto – Sussistenza dell’obbligo – Mera facol‑ tà di astensione ex art. 51 cod. proc. civ. – Abrogazione – Limiti Le Sezioni Unite hanno stabilito che l’obbligo di astensio‑ ne del magistrato, rilevante in sede disciplinare, sussiste, per effetto dell’art. 323 cod. pen., in tutti i casi nei quali ricorra un interesse, anche di natura non patrimoniale, proprio del magistrato o di un suo prossimo congiunto, e che, pertanto, in tal caso, con riferimento al giudice civile, la facoltà di astenersi per gravi ragioni di convenienza ex art. 51 cod. proc. civ. deve ritenersi abrogata per incompatibilità e sostituita dal corrispondente obbligo. Cassazione civ., Sez. un., sentenza 13 novembre 2012, n. 19704 Pres. Preden, Est. Segreto Esecuzione forzata – Espropriazione mobiliare presso il debito‑ re – Ufficiale giudiziario – Potere di valutazione dei titoli di appar‑ tenenza dei beni rinvenuti nell’abitazione del debitore – Sussi‑ stenza – Esclusione In tema di espropriazione mobiliare presso il debitore, l’art. 513 cod. proc. civ. pone una presunzione di appartenen‑ za al debitore dei beni che si trovano nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti. Pertanto, poiché l’attivi‑ tà svolta dall’ufficiale giudiziario in sede di pignoramento mobiliare è meramente esecutiva, deve ritenersi preclusa al medesimo qualsiasi valutazione giuridica dei titoli di appar‑ tenenza dei beni da sottoporre al pignoramento, rimanendo a disposizione degli eventuali terzi proprietari lo strumento processuale dell’opposizione di terzo all’esecuzione. Cassazione civ., Sez. III, sentenza 20 dicembre 2012, n. 23625 Pres. Trifone, Est. Cirillo Fallimento e procedure concorsuali – Concordato preventi‑ vo – Controllo di legittimità del giudice sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato – Ammissibilità – Contenuto Risolvendo una questione di particolare importanza, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dall’attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti; il controllo di legittimità del giudice si realizza facendo applicazione di F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammis‑ sibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedu‑ ra di concordato preventivo; il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato; quest’ultima, da intendere come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento, finalizzato al superamento della situa‑ zione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro”. Cassazione civ., Sez. un.., sentenza 23 gennaio 2013 n. 1521 Pres. Preden, Est. Piccininni Fallimento e procedure concorsuali – Concordato preventivo con cessione dei beni o ad esso assimilabile – Nomina del liquidato‑ re – Medesimo soggetto già incaricato come commissario giudi‑ ziale – Conflitto di interessi – Configurabilità – Ragioni In tema di concordato preventivo con cessione dei beni, o ad esso assimilabile, la nomina a liquidatore della persona già in carica come commissario giudiziale collide con il re‑ quisito – di cui al combinato disposto degli art. 182, secondo comma, e 28, secondo comma, l. fall., nei rispettivi testi applicabili “ratione temporis”, risultanti dalle modifiche ad essi apportate dal d.lgs. 12 settembre 2009, n. 167 – che il liquidatore sia immune da conflitto di interessi, anche poten‑ ziale, ipotesi, invece, configurabile laddove nella sua persona si cumulino la funzione gestoria con quella di sorveglianza dell’adempimento del concordato, di cui all’art. 185, primo comma, della legge fallimentare. Cassazione civ., Sez. I, sentenza 18 gennaio 2013 n. 1237 Pres. Plenteda, Est. Di Palma Giurisdizione – Ricorso straordinario al Presidente della Repub‑ blica – Decreto presidenziale conforme al parere del Consiglio di Stato – Natura – Conseguenze Il decreto del Presidente della Repubblica che decide sul ricorso straordinario in conformità al parere del Consiglio di Stato è un atto giurisdizionale in senso sostanziale, come tale impugnabile in cassazione per motivi attinenti alla giu‑ risdizione. Cassazione civ., Sez. un, sentenza 19 dicembre 2012, n. 23464 Pres. Preden,. Amoroso Procedimento d’ingiunzione – Opposizione – Forma – Controver‑ sie in materia di locazione – Opposizione a decreto ingiunti‑ vo – Proposizione con citazione in luogo di ricorso – Effetti In ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo in materia di locazione proposta erroneamente con citazione, e non con ricorso, ferma la sua ammissibilità se iscritta a ruolo e depo‑ sitata entro il termine di cui all’art. 641 cod. proc. civ., non è necessario che l’opponente richieda l’emanazione del decre‑ to di fissazione dell’udienza di discussione da notificare all’opposto, dovendo il giudice d’ufficio disporre il passaggio dal rito ordinario al rito speciale, con ordinanza da notifica‑ re alla parte contumace. Cassazione civ., Sez. III, sentenza 15 gennaio 2013 n. 797 Pres. Trifone, Est. Frasca 2 0 1 3 41 Professioni e professionisti – Indennità di maternità – Adozione di minori d’età – Estensione del godimento al padre – Principio di alternatività e fungibilità tra i genitori adottivi – Qualità di libero professionista di uno solo dei genitori – Irrilevanza In materia di indennità di maternità dovuta alle libere professioniste, l’interesse all’inserimento della prole adottiva è adeguatamente tutelato mediante l’attribuzione del benefi‑ cio ad uno soltanto dei genitori, sicché, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 385 del 2005, che ne ha esteso il godimento al padre, vige un principio di alterna‑ tività e fungibilità tra i genitori adottivi, nel senso che la percezione dell’indennità da parte dell’uno esclude il diritto dell’altro, ancorché uno dei genitori sia libero professionista e l’altro lavoratore dipendente. Cassazione civ., Sez. lav., sentenza 15 gennaio 2013 n. 809 Pres. Lamorgese, Est. D’Antonio Responsabilità civile – Danno ambientale – Decreto‑legge n. 135 del 2009 – Adeguamento all’ordinamento comunitario – Doman‑ da di risarcimento del danno – Comprensione nella medesima della domanda di riduzione in pristino – Criteri Con riferimento al danno ambientale, alla luce del princi‑ pio secondo cui vanno evitate tutte le distonie tra l’ordinamen‑ to comunitario e quello nazionale, la possibilità di chiedere la riduzione in pristino dello stato dei luoghi – alla luce del nuo‑ vo testo dell’art. 303 del t.u. n. 152 del 2006, applicabile anche alle domande proposte in precedenza – deve ritenersi compre‑ sa, sebbene non espressamente formulata, nella generica do‑ manda di risarcimento del danno medesimo. Cassazione civ., Sez. III, sentenza 10 dicembre 2012, n. 22382 Pres. Massera, Est. Amendola Risarcimento danni – Consenso informato – Requisiti – Onere della prova – Criteri In materia di consenso informato, la S.C. ha precisato i seguenti princìpi: 1) non può esservi un consenso tacito per facta concludentia; 2) la qualità personale del soggetto da informare (nella specie, medico) non fa venire meno l’obbligo di informazione; 3) l’onere della prova con riguardo all’av‑ venuta illustrazione delle possibili conseguenze dannose della terapia spetta al medico, una volta dedotto dal pazien‑ te il relativo inadempimento. Cassazione civ., Sez. III, sentenza 27 novembre 2012, n. 20984 Pres. Petti, Est. Vivaldi Spese giudiziali civili – spese di giudizio – liquidazione – attività processuale svolta e conclusa nella vigenza del D.M. n. 127 del 2004 – Applicazione odierna della tabella allora vigente – criteri Quando il giudice debba procedere alla liquidazione delle spese “ora per allora” – in riferimento ad un’attività processuale conclusa nella vigenza del d.m. n. 127 del 2004 e prima dell’entrata in vigore del d.m. n. 140 del 2012 – la liquidazione va compiuta alla luce delle vecchie tariffe, senza che sia possibile applicare i nuovi parametri (principio enun‑ ciato in un caso di cassazione con decisione nel merito). Cassazione civ., Sez. III, sentenza 18 dicembre 2012, n. 23318 Pres. Petti, Est. Barreca civile Gazzetta 42 D i r i t t o ● Rassegna di merito ● A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa Avvocati e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Azione di reintegra nel possesso – Mancanza possesso esclusi‑ vo – Tutela del mero compossessore. a) Non si ha mutamento di domanda, ne vizio di ultrape‑ tizione quando, chiestasi la reintegrazione nel possesso esclu‑ sivo di un immobile, la reintegra venga poi chiesta o accorda‑ ta all’attore per essere egli, anziché possessore esclusivo, semplicemente compossessore, in quanto il fatto costitutivo dell’azione resta in ogni caso il possesso, mutando solo il profilo giuridico dell’azione, ed in quanto non può ritenersi inibito al giudice, chiamato ad emettere l’interdetto posses‑ sorio, di scorgere, nel sovrano apprezzamento delle prove, anziché una situazione di possesso solitario, una convergenza di poteri di fatto che si traducano in un compossesso. b) Provata l’esistenza di una situazione di compossesso sul bene in oggetto, qualora uno dei compossessori impedisca agli altri di partecipare al godimento di un cespite, tale compor‑ tamento – che manifesta una pretesa possessoria esclusiva sul bene – va considerato atto di spoglio sanzionabile con l’azio‑ ne di reintegrazione. Trib. Napol i , S ez . VIII , sentenza 04 dicembre 2012 Giud. M. Amura Azione revocatoria – Credito eventuale‑litigioso – Sospensione ne‑ cessaria ex art. 295 c.p.c. – Conflitto tra giudicati – Impossibilità. Poiché ai fini dell’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria da parte del creditore avverso un atto di disposizio‑ ne patrimoniale compiuto dal debitore è sufficiente l’esisten‑ za di una ragione di credito, ancorché non accertata giudizial‑ mente, la definizione dell’eventuale controversia sull’accerta‑ mento del credito non costituisce l’antecedente logico – giu‑ ridico indispensabile della pronunzia sulla domanda revoca‑ toria, sicché il giudizio relativo a tale domanda non è sogget‑ to a sospensione necessaria, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. Il conflitto pratico tra giudicati che tale norma mira ad evitare mediante la sospensione della causa pregiudicata è reso d’altronde impossibile dal fatto che la sentenza dichiara‑ tiva dell’inefficacia dell’atto dispositivo nei confronti del creditore, a seguito dell’accoglimento della domanda revoca‑ toria, non costituisce titolo sufficiente per procedere ad ese‑ cuzione nei confronti del terzo acquirente, essendo a tal fine necessario che il creditore disponga anche di un titolo sull’esi‑ stenza del credito, che può procurarsi soltanto nella causa relativa al credito e non anche in quella concernente esclusi‑ vamente la domanda revocatoria, nella quale la cognizione del giudice sul credito e meramente incidentale. Trib. Napoli, Sez. III, sentenza 05 dicembre 2012. Giud. E. Pastore Alinante Contratto di viaggio – Impossibilità parziale – Definizione – Sussi‑ stenza del diritto di recesso – Impossibilità di godere bellezze naturali – Nullità del contratto per mancanza di causa concreta. a) L’impossibilità totale della prestazione consiste in un impedimento assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo, della prestazione che determina l’automatica estinzione dell’obbligazione e la risoluzione contratto che ne costituisce la fonte ai sensi degli artt. 1463 e 1256 c.c., in ragione del venir meno della relazione di interdipendenza funzionale in cui la medesima si trova con la prestazione della controparte. L’impossibilità parziale consiste, invece, nel deterioramento della cosa dovuta, o più generalmente nella riduzione mate‑ F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o riale della prestazione che dà luogo ad una corrispondente riduzione della controprestazione o al diritto al recesso per la parte che non abbia un apprezzabile interesse al manteni‑ mento del contratto, laddove la prestazione residua venga a risultare incompatibile con la causa concreta del contratto. b) L’impossibilità di godere delle bellezze naturali a causa di un incendio distruttivo della pineta e della vegetazione circostante l’albergo, come pure il venir meno della possibili‑ tà di consumare i pasti nel ristorante sito direttamente sulla spiaggia, determina il venir meno dell’interesse degli attori alla prestazione complessivamente considerata e la caduca‑ zione, per un evento non imputabile alle parti, della causa concreta del contratto concluso con la struttura alberghiera, intesa come lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare. Trib. Napoli, Sez. X, sentenza 03 dicembre 2012. Giud. C. Sorrentini Credito bancario – Onere probatorio – Commissione massimo scoperto – Liceità – Capitalizzazione trimestrale degli interes‑ si – Liceità. a) In tema di prova del credito azionato da una banca mediante ricorso per decreto ingiuntivo, l’art. 50 d.lgs. n. 385 del 1993 non richiede, stando al suo tenore letterale, la spe‑ cificazione analitica di tutte le operazioni succedutesi sul conto durante l’intero arco del rapporto, giacché trattasi di norma improntata ad esigenze di semplificazione e agevola‑ zione probatoria che risultano soddisfatte dalla mera esposi‑ zione del saldo finale, pur sempre portato da un “estratto conto”, per di più virtualmente ma efficacemente suffragata, per effetto della certificazione del dirigente, da tutte le scrit‑ turazioni dell’istituto relative al rapporto. b) Deve affermarsi la liceità della commissione massimo scoperto, purché sia determinata o determinabile nel suo 2 0 1 3 43 metodo di calcolo e sia applicata allo scoperto senza anato‑ cismo. c) A seguito delle note pronunce della Corte di Cassazio‑ ne in materia di anatocismo bancario (cfr. ex multis Cass. n. 2374/99 e n. 12507/99), l’art. 120 T.U.B. (d.lgs. n. 385 del 1993), cosi come modificato dall’art. 25 del d.lgs. n. 342 del 1999, ha attribuito al C.I.C.R. il potere di stabilire le moda‑ lità ed i criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’at‑ tività bancaria. Trib. Napoli, Sez. III, sentenza 05 dicembre 2012. Giud. A. Balzano. Danni alla salute per reiterata omissione della raccolta dei rifiuti urbani – Diritti fondamentali – Riserva esclusiva del giudice ordi‑ nario – Inesistenza. Appartiene alla giurisdizione del g.a. la controversia che investe il potere dell’Amministrazione relativo all’organizza‑ zione ed alle modalità di attuazione dello smaltimento dei rifiuti urbani, che, per espressa previsione normativa (D.P.R. 10 settembre 1992, n. 915), costituisce “servizio pubblico”, trovando al riguardo applicazione l’art. 33 D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, (nel testo risultante dalle sentenze della Corte Cost. n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006), il quale, nella ma‑ teria dei pubblici servizi, attribuisce al g.a. la giurisdizione ove si sia in presenza dell’esercizio di potestà pubblicistiche; tale giurisdizione si estende alle connesse domande risarcito‑ ne, eventualmente proposte in via autonoma, pur se con esse si invochi la tutela di diritti fondamentali, come quello alla salute, stante l’inesistenza nell’ordinamento di un principio che riservi esclusivamente al g.o. la tutela dei diritti costitu‑ zionalmente protetti. Trib. Napoli, Sez. X, sentenza 03 dicembre 2012. Giud. M. Magliulo civile Gazzetta 44 D i r i t t o e p r o c e d u r a In evidenza Corte di Cassazione, Sez. civ. III, 19 febbraio 2013, n. 4030 Responsabilità medica e consenso “disinformato” – Risarcibilità dell’operazione sbagliata – Colpa lieve ed illecito civile ai sensi della L. 189/2012 – Contatto sociale ed onere della prova ex art. 1218 c.c. – Diritto all’autodeterminazione e diritto alla salute. Il paziente che abbia acconsentito a sottoporsi ad un in‑ tervento chirurgico sulla base di informazioni non corrette fornite dal medico ha diritto ad essere risarcito per l’opera‑ zione sbagliata. Anche in caso di responsabilità del medico per colpa lieve, recentemente depenalizzata dalla L. 189/2012, lo stesso è tenuto a risarcire il paziente in sede civile. Grava sul professionista l’onere di provare di avere acquisito un consenso consapevole del paziente preceduto da una corret‑ ta informazione. La disciplina del consenso informato tutela i diritti costituzionalmente garantiti di autodeterminazione del paziente e del diritto alla salute [1]. Nota redazionale a cura di Fabrizia Sabbatini (1) La sentenza in oggetto può essere inquadrata nell’ambito della proble‑ matica scaturente dal cosiddetto consenso “disinformato”, ovvero relativamen‑ te a quei casi in cui il paziente abbia assentito ad essere sottoposto ad un’ope‑ razione ma sulla base di informazioni non corrette del medico, da cui deriva pertanto una risarcibilità dell’operazione sbagliata. Nel caso in esame la Suprema Corte ha riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti ad un intervento chirur‑ gico di laparoisterectomia effettuato a seguito di una errata diagnosi di cancro, rivelatosi poi inesistente, che aveva provocato alla paziente un’invalidità per‑ manente. Tale intervento veniva effettuato pur non avendo la certezza di un tumore conclamato e diffuso tale da rendere l’intervento necessario ed impro‑ rogabile, ed è per questo rilevabile nel caso di specie un contestuale errore di informazione e di assenso all’atto chirurgico; avveniva infatti in tal caso un incontro di volontà in relazione ad informazioni mediche del tutto carenti e fuorvianti, quindi non efficace. Possiamo pertanto parlare in questo caso di errore diagnostico derivante, non da colpa lieve, ma da gravissima negligenza, e quindi neppure inquadrabile all’interno della disciplina dettata dalla L. 8 novembre 2012 n. 189 (Legge Balduzzi), la quale ha provveduto a depenaliz‑ zare la responsabilità del medico per colpa lieve. A tal riguardo la Suprema Corte precisa che: “la prova della colpa lieve non esime dalla responsabilità civile”; la suddetta legge infatti, come ricorda ancora la S.C.: “prevede che in tali casi la esimente penale non elide l’illecito civile e che resta fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c., che è clausola generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute”. La giurisprudenza ha inoltre ravvisato una responsabilità del medico, per violazione del dovere di informazione, anche in caso di interventi perfettamen‑ te riusciti, e ciò a conferma dell’importanza assunta oggi dal consenso infor‑ mato. In argomento: “Nessuna rilevanza, ai fini dell’esclusione della respon‑ sabilità del professionista per violazione del consenso informato, può essere attribuita alla circostanza che l’intervento sia stato eseguito correttamente.” (ex plurimis App. Roma Sez. III, 20‑07‑2010; Cass. civ. Sez. III, 14‑03‑2006, n. 5444). Quanto invece all’importante dibattito circa l’onere della prova, con tale sentenza la S.C. stabilisce che la stessa prova “incombe alla parte che assume l’obbligo di garanzia della salute”, ovvero ai medici e alla struttura sanitaria, che invece, nel caso di specie, “non hanno dato la prova esimente della com‑ plicanza non prevedibile o non prevenibile dell’intervento”. È peraltro pacifico in giurisprudenza l’inquadramento della condotta medica all’interno della di‑ sciplina dettata dall’art. 1218 c.c., da cui deriva che il medico che agisca senza aver preventivamente informato in maniera corretta il paziente e che abbia ottenuto il suo consenso al trattamento medico sulla base di informazioni non veritiere, risulta inadempiente ex art. 1218 c.c., in quanto l’intervento stesso del medico, da luogo all’instaurazione di un rapporto contrattuale. L’onere di provare di avere acquisito un consenso consapevole del paziente preceduto da una corretta informazione grava quindi sul professionista, mentre, così come affermato dalle Sezioni Unite del 2008 n. 577, il paziente danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto ovvero del contatto sociale, l’insor‑ genza o l’aggravamento della patologia nonché un inadempimento del medico astrattamente efficiente alla produzione del danno. In tema di risarcimento, le Sezioni Unite del 2008 nn. 26972‑75 hanno affermato la risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale ove siano lesidiritti inviolabili della persona, come quelli di cui si discute in tal sede, ovvero del c i v i l e Gazzetta F O R E N S E (Omissis) Svolgimento del processo 1. (Omissis), con una prima citazione del maggio 1999 conveniva dinanzi al Tribunale di Parma la Azienda Ospeda‑ liera di Parma ed i chirurghi (omissis) e (omissis) e ne chiede‑ va la condanna in solido al pagamento dei danni biologici, patrimoniali e non patrimoniali conseguenti ad interventi chirurgici eseguiti il 25 novembre ed il successivo 21 dicembre 1993 dai chirurghi con esiti invalidanti permanenti. Si costi‑ tuivano la Azienda Ospedaliera che eccepiva il difetto di le‑ gittimazione passiva, mentre il (omissis) sosteneva di avere svolto un ruolo secondario nel secondo intervento di laparoi‑ sterectomia, restava contumace il (omissis). 2. Una seconda citazione era proposta dalla (omissis), in relazione all’intervento di laparoisterectomia nei confronti della Regione Emilia Romagna e della AUSL di Parma, in persona del direttore generale quale commissario liquidatore sempre con richiesta di risarcimento da parte degli enti con‑ venuti. La Regione si costituiva deducendo difetto di legitti‑ diritto all’autodeterminazione del paziente e del diritto alla salute. Il mancato consenso informato o le errate informazioni poste a base dello stesso vanno infatti a ledere dei diritti costituzionalmente garantiti, e più precisamente dall’art.13 Cost., il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale, prin‑ cipio che esige il rispetto delle decisioni sul proprio corpo; dall’art. 32 comma II Cost., norma posta a presidio della libertà di scegliere sulla propria salute, per la quale pone la riserva di legge, nonché unica fonte del trattamento sanitario obbligatorio che, peraltro, non può mai oltrepassare il limite del rispetto della persona umana; nonché dall’art. 33 della L. 833/1978, che esclude la possibi‑ lità di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ai sensi dell’art. 54 c.p. Non residua quindi alcun dubbio sulla qualifica del diritto all’autode‑ terminazione – inizialmente considerato come rientrante nel diritto alla salute, e, quindi, tutelato dal mero art. 32 Cost. e successivamente riconosciuto in via autonoma e conseguentemente tutelato dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost. – quale diritto inviolabile dell’uomo. È bene rilevare che il consenso informato assume una rilevanza che oltrepassa i confini nazio‑ nali, basti pensare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale, grazie all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, ha acqui‑ sito valenza di Trattato e sancisce al suo art. 3 che il consenso informato è posto a tutela della dignità della persona, o all’art. 8 della CEDU, che sancisce una protezione del diritto al consenso delle cure mediche, giungendo a legitti‑ mare anche un rifiuto della stesse. La sentenza qui esaminata, quindi, seguendo un orientamento ormai pacifico in giurisprudenza ed in dottrina, estende al caso di consenso “disinformato”, ovvero di consenso fornito dal paziente sulla base di informazioni inveritiere fornite dal medico (come nel caso di specie di errata diagnosi tumorale), la disciplina della risarcibilità dei danni prevista a causa della violazione dell’ob‑ bligo di informare il paziente in caso di omesse o insufficienti informazioni. In argomento: “Sussiste la responsabilità del medico per violazione dell’obbligo contrattuale di porre il paziente nella condizione di poter esprimere un valido ed effettivo consenso informato sia nell’ipotesi in cui le informazioni siano assenti o insufficienti sia nell’ipotesi in cui siano state fornite rassicurazioni errate in ordine all’assenza di rischi o di complicazioni derivanti da un dato intervento, estendendosi il predetto inadempimento contrattuale anche alle informazioni non veritiere.” (App. Roma Sez. III, 20‑07‑2010); ed anche: “La responsabilità del medico per violazione dell’obbligo di informare il paziente in ordine a tutti i possibili risvolti del trattamento cui vuole sottoporlo, onde conseguire un valido consenso informato, è ravvisabile sia nell’ipotesi in cui le informazioni stesse siano del tutto o parzialmente omesse sia nel caso in cui risultino errate o inveritiere. Nessuna rilevanza, peraltro, ai fini dell’esclusione della responsabilità del professionista per violazione del consenso informato, può essere attribuita alla circostanza che l’intervento sia stato eseguito corret‑ tamente.” (App. Roma Sez. III, 20‑07‑2010); ancora: “La responsabilità del medico per violazione dell’obbligo contrattuale di porre il paziente nella con‑ dizione di esprimere un valido ed effettivo consenso informato è ravvisabile sia quando le informazioni siano assenti od insufficienti sia quando vengano fornite assicurazioni errate in ordine all’assenza di rischi o complicazioni de‑ rivanti da un intervento chirurgico necessariamente da eseguire, estendendosi l’inadempimento contrattuale anche alle informazioni non veritiere. (Rigetta, App. Roma, 22 Giugno 2006)” (Cass. civ. Sez. III Sent., 28‑11‑2007, n. 24742). F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o mazione e la prescrizione del credito, chiamava in manleva la assicuratrice (omissis) e formulava eccezione di incostituzio‑ nalità dell’art. 6 della legge 724 del 1994; la AUSL di Parma deduceva a sua volta difetto di legittimazione. La assicuratri‑ ce si costituiva ma chiedeva il rigetto della domanda di man‑ leva. Le cause erano riunite ed istruite con consulenza medi‑ co‑legale che accertava una invalidità permanente delle dieci per cento, ritenendo l’intervento routinario eseguito con dili‑ genza e prudenza. 3. Il tribunale di Parma con sentenza del 11 marzo 2004 rigettava le domande della (omissis) e la condannava alla ri‑ fusione delle spese di lite sostenute dal (omissis) e dalla AUSL di Parma disponendo per il resto come in dispositivo. 4. Contro la decisione proponeva appello la parte lesa, deducendo: a. erronea declaratoria di estinzione del diritto di risarcimen‑ to per prescrizione; b. erronea esclusione dell’accertamento del mancato consen‑ so informato; c. erroneo operato dei sanitari, la erronea necessità dell’inter‑ vento a seguito della errata diagnosi di un carcinoma con conseguente non necessità dell’intervento operatorio di laparoisterectomia ed errata valutazione del danno, con richiesta di rinnovo CTU; d. mancata compensazione per giusti motivi delle spese di lite. Resistevano tutte le controparti, chiedendo il rigetto del gravame. 5. Con la sentenza del 26 agosto 2009 la corte di appello di Bologna respingeva l’appello principale ed accoglieva l’ap‑ pello incidentale della regione condannando la (omissis) a rifondere le spese sostenute in primo grado da (omissis) e condannava (omissis) a rifondere le spese di secondo grado a tutti gli appellati. 6. Contro la decisione ha proposto ricorso (omissis) dedu‑ cendo tre motivi di censura, illustrati da memoria; la Regione Emilia‑Romagna ha resistito con controricorso e ricorso in‑ cidentale condizionato affidato ad unico motivo; la azienda ospedaliera universitaria di Parma unitamente all’(omissis) ha resistito con controricorso chiedendo il rigetto del gravame della (omissis). Motivi della decisione 7. Il ricorso principale merita accoglimento mentre inam‑ missibile risulta il ricorso incidentale. Per chiarezza espositiva si offre una sintesi dei motivi di ricorso ed a seguire la confu‑ tazione in diritto. 7.1. Sintesi dei motivi del ricorso Nel primo motivo si deduce error in procedendo per avere la Corte di appello ritenuto nuova domanda in appello la specificazione della causa pretendi non nella errata conduzio‑ ne dell’intervento chirurgico ma nella errata diagnosi compiu‑ ta dai sanitari circa la patologia da cui era affetta la paziente e sulla cui sussistenza era stato reputato dai medici necessario tale intervento. Nel secondo motivo si deduce error in iudicando per vio‑ lazione dell’art. 1218 c.c. ed il vizio della motivazione in re‑ lazione all’accertamento di un peggioramento della patologia della paziente quale conseguenza della conclusione dell’inter‑ vento. Si rileva in particolare che mentre la prova del peggio‑ 2 0 1 3 45 ramento è medicalmente accertata, la Corte esclude che tale esito sia di per sé imputabile a colpa medica, piuttosto che ad una c.d. complicanza non prevedibile. Nel terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 1218, 2697 c.c., 13 della Costituzione e 54 cod. penale, nonché il vizio della motivazione in relazione alla prova del danno da mancato consenso informato e del diritto del paziente ad es‑ sere informato. La tesi del ricorrente è che nella fattispecie in esame il consenso fu disinformato o male informato. Infatti la erroneità della diagnosi che accertava la presenza di un tumore, peraltro inesistente, indusse il paziente a sopportare un intervento chirurgico lesivo della sua integrità fisica anche se per finalità salvifiche, ma l’errore diagnostico, accertato dal consulente di ufficio sulla base di circostanze e riscontri documentali medici, risulta aver vulnerato l’assenso all’inter‑ vento, che ebbe esiti in parte nefasti e peggiorative delle con‑ dizioni preesistenti, che pure esigevano cure, ma non invasive o invalidanti. 7.2 Sintesi del ricorso della Regione Emilia‑Romagna Deduce la Regione nell’unico motivo l’error in iudicando in relazione agli artt. 2059 e 2697 cod. civile ed il vizio della motivazione. La ricorrente incidentale chiede correggersi la motivazione della sentenza di appello nel punto in cui ricono‑ sce la violazione del consenso informato, senza poi provvede‑ re alla quantificazione del danno. La correzione deriva dalla evidenza della corretta esecuzione dell’intervento, con tutti gli accorgimenti per la riduzione dal rischio delle complicanze. 8. Confutazione in diritto 8.1 Accoglimento dei tre motivi del ricorso principale Il procuratore generale ha concluso per l’accoglimento delle tre censure, con precisa e coerente argomentazione che tiene conto degli arresti di questa Corte di cassazione sulla complessa e delicata materia della responsabilità medica, che ha indotto il legislatore abbia una recente novella depenaliz‑ zatrice della responsabilità penale del medico per il caso di colpa lieve. Il riferimento è all’art. 3 comma primo del decre‑ to legge del 13 settembre 2012 n. 158 convertito nella legge 8 novembre 2012, che esclude la responsabilità medica in sede penale, se l’esercente della attività sanitaria si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Ma la stessa norma prevede che in tali casi, la esimente pena‑ le non elide l’illecito civile e che resta fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile, che è clausola generale del ne‑ minem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute. La novellazione, che non riguarda la fattispecie in esame, ha destato non poche perplessità anche di ordine costituzionale in relazione al com‑ ma secondo dell’art. 77 della Costituzione, in quanto il testo originario del decreto legge non recava alcuna previsione di carattere penale e neppure circoscriveva il novero delle azioni risarcitorie esperibili da parte degli danneggiati. La premessa che indica una particolare evoluzione del diritto penale vivente, per agevolare l’utile esercizio dell’arte medica, senza il pericolo di pretestuose azioni penali, rende tuttavia evidente che la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate, e non solo per la responsabi‑ lità aquiliana del medico, ma anche per la responsabilità con‑ trattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale. Punto fermo, ai fini della filomachia, gli arresti delle sentenze delle Sezioni Unite nel novembre 2008 e tra queste la civile Gazzetta 46 D i r i t t o e p r o c e d u r a n. 26973, ed in particolare nel punto 4.3 del c.d. preambolo sistematico, che attiene ai c.d. contratti di protezione conclusi nel settore sanitario, ed agli incipit giurisprudenziali ivi richia‑ mati, eseguiti da decisioni di consolidamento. Orbene, tenendo conto del diritto vigente, arricchito della interpretazione del diritto vivente e dalla giurisprudenza no‑ mofilattica di questa Corte di legittimità, la prima censura risulta fondata, fosco che la Corte di appello erroneamente ritiene nuova la specifica censura svolta nell’atto di appello in ordine alla deduzione dell’errore diagnostico sulla patologia che determina i medici ad un atto chirurgico invasivo e inva‑ lidante, erroneamente assentito. Sul punto è da osservare come il tema originario della responsabilità medica sin dal due primi atti introduttivi, avesse indicato unitariamente il medesimo fatto dannoso, evidenziando l’errore diagnostico poi riscontrato in sede di consulenza medica, di guisa che la causa petendi, riconduci‑ bile alla responsabilità aquiliana e alla responsabilità da contatto sociale, si riferiva ad unico fatto costitutivo della fattispecie circostanziata, da sussumere sotto la disciplina dei principi di responsabilità professionale e della struttura sani‑ taria, ribaditi sistematicamente nelle Sezioni Unite citate e successive conformi tra cui Cass. III Sez. civile 8 giugno 2012 n. 9290 su conformi conclusioni del PG e Cass. Sez. sesta ord. 13269 del 2012. La specificazione dello error iudicando riferito alla seque‑ la dell’errore diagnostico e intervento chirurgico assentito sulla base di errata informazione delle condizioni di salute, non costituisce domanda nuova, ma è atto intrinseco alla deduzione di una domanda diretta ad accertare la responsa‑ bilità civile secondo le circostanze note ed allegate. Parimenti incongrua è la motivazione che da un lato ac‑ certa il peggioramento delle condizioni del paziente a seguito dell’intervento chirurgico e d’altro lato esclude la imputabili‑ tà soggettiva in ordine alla mancata realizzazione della pre‑ stazione di garanzia, in un intervento detto routinario. La prova della colpa lieve non esime dalla responsabilità civile, che considera la colpa in una dimensione lata, inclusiva del dolo e della diligenza professionale, e nel caso di specie i medici e la struttura non hanno dato la prova esimente della complicanza non prevedibile o non prevenibile, prova che incom‑ be alla parte che assume l’obbligo di garanzia della salute, e che non è stata data, mentre, al contrario il paziente ed i consulenti di ufficio e di parte attestano un aggravamento delle condizioni di salute non altrimenti spiegabile se non per una difettosa con‑ duzione della prestazione sanitaria nella sua continuità. Sussiste pertanto e la violazione della regola generale dell’art. 1218 del codice civile in relazione ad una situazione di inadempimento obbiettivamente grave, per la configurazio‑ ne della rapporto contrattuale di garanzia, e per la difettosa motivazione che non considera il tema e l’onere della prova, c i v i l e Gazzetta F O R E N S E che il paziente fornisce come prova dell’aggravamento e della sequenza naturale tra l’atto invasivo ed ablativo e la invalida‑ zione scientificamente non dovuta. Parimenti fondato è il terzo motivo, che ha impegnato il Procuratore generale in una accurata ricostruzione dello sta‑ to della giurisprudenza, a partire dalle SU 11 gennaio 2008 n. 576 richiamate dalle successive SU del novembre appena citate, cui questa Corte aggiunge la recente sentenza del 27 novembre 2012 n. 20894, che ancora puntualizza le condizio‑ ni di manifestazione e di formazione del consenso informato, che ha natura bilaterale ed esprime un incontro di volontà libere e consapevoli, consenso che si configura quale diritto inviolabile della persona e che trova precisi referenti negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione. La fattispecie in esame si caratterizza da una contestuale errore di informazione e di assenso all’atto chirurgico, ma l’errore diagnostico non deriva da colpa lieve, ma da una gravissima negligenza, l’avere operato prima di avere la cer‑ tezza di un tumore conclamato e diffuso tale da rendere im‑ prorogabile l’intervento. Mentre, si assume, che si trattava di intervento routinario. Non è dunque avvenuto un incontro di volontà efficace in relazione ad un contenuto di informazione medica assoluta‑ mente carente e fuorviante. Sulla base di queste considerazioni il ricorso principale deve essere accolto e la cassazione è come il rinvio vincolante quanto ai principi di diritto da osservare, pur nella valutazio‑ ne delle prove iuxta alligata ed probata ma pur sempre facen‑ do attenzione all’onus probandi. 8.2 Inammissibilità del ricorso della Regione Emilia‑Ro‑ magna Il ricorso nell’unico motivo deduce un error in iudicando per la violazione dell’art. 2059 e 2697 del codice civile, per pervenire ad una correzione della motivazione nel punto in cui la Corte di appello ammette in astratto l’an debeatur per violazione del consenso informato. Ma sul punto questa Cor‑ te accoglie proprio la censura proposta dalla vittima di uno consenso disinformato, e dunque il motivo, nella sua formu‑ lazione, difetta di specificità. Parimenti incomprensibile ap‑ pare il motivo dedotto come vizio motivazionale, con citazio‑ ne di un arresto giurisprudenziale di Cass. 9 febbraio 2007 numero 2847, che non appare pertinente al caso di specie. Anche su questo punto la censura non attiene alla logica mo‑ tivazionale ma ad un error in iudicando che sostanzialmente configura la ripetizione della prima censura. P.Q.M. Riunisce i ricorsi ed accoglie il ricorso principale e dichia‑ ra inammissibile il ricorso incidentale della Regione Emi‑ lia‑Romagna, cassa e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Bologna in diversa com‑ posizione. Diritto e procedura penale Operazioni infragruppo e vantaggi compensativi: la disciplina dell’art. 2634 c.c. si estende anche alla bancarotta fraudolenta? 49 Dora Tagliaferro La tutela giurisdizionale dei diritti in tempi di crisi finanziaria. Il “Decreto Crescitalia” ed il riesame delle pronunce giudiziali 59 Rosanna Fattibene Dialogo tra la corte Edu e le corti nazionali sulla natura delle confische Due interpretazioni diverse su casi simili 64 Vittorio Sabato Ambrosio I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali 69 A cura di Angelo Pignatelli Rassegna di merito [ A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ] A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ] 73 76 penale Rassegna di legittimità [ F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o ● Operazioni infragruppo e vantaggi compensativi: la disciplina dell’art. 2634 c.c. si estende anche alla bancarotta fraudolenta? ● Dora Tagliafierro Dottore di ricerca in sistema penale e processo presso Università degli Studi di Napoli “Federico II” 2 0 1 3 49 Sommario: 1. Nozione e caratteri dei “vantaggi compen‑ sativi”. – 2. La natura giudica della clausola sui vantaggi compensativi – 2.1 La tesi della mancanza della fattispecie oggettiva per venir meno dell’illiceità della condotta. – 2.2 La tesi della mancanza della fattispecie oggettiva per venir meno del danno. – 2.3 La tesi della mancanza della fattispe‑ cie soggettiva per venir meno del dolo specifico. – 2.4 La c.d. lettura differenziata. – 2.5 La tesi della scriminante. – 3. Cenni ai rapporti tra infedeltà patrimoniale e reati di banca‑ rotta. – 4. Applicabilità della disciplina prevista per il reato di infedeltà alla bancarotta – 4.1. La tesi della inapplicabili‑ tà e le sue argomentazioni. – 4.2. Possibili aperture della giurisprudenza e del legislatore 1. Nozione e caratteri dei “vantaggi compensativi” La previsione normativa di una disciplina ad hoc per il fenomeno dei gruppi societari costituisce una delle più inte‑ ressanti novità registrate in ambito societario, sia sotto il profilo civilistico che penalistico. Basti pensare alla rilevanza che esso assume nella determinazione del vantaggio compen‑ sativo nel reato di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 c.c. Con la introduzione di questa fattispecie incriminatrice di nuovo conio, da larga parte della dottrina auspicata, il legi‑ slatore ha inteso garantire il patrimonio sociale da ogni forma di abuso posto in essere dai titolari del potere gestorio, nonché da tutti gli atti di gestione realizzati sui beni sociali in assen‑ za di formale delibera. In altri termini, può dirsi che si è in tal modo inteso sanzionare quei comportamenti degli organi sociali che, perseguendo un fine estraneo alla società, cagio‑ nano un danno alla medesima – e segnatamente ai soci della stessa – o ai terzi che ad essa affidino i propri beni1. Ai sensi del co. 3 del richiamato articolo, poi, si precisa che “in ogni caso non è ingiusto il profitto della società col‑ legata o del gruppo, se compensato da vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”. Può preliminarmente osservarsi che, per lungo tempo, il gruppo di società è stato considerato un fenomeno meramen‑ te economico, improduttivo di effetti sul piano giuridico. Tuttavia, l’affermarsi di tale realtà in modo sempre più pre‑ ponderante nella vita socio‑economica e, di riflesso, in quella giudiziaria, ha condotto nel corso del tempo il legislatore a 1In ciò può, innanzitutto, evidenziarsi una significativa differenza con il passato, in quanto non si protegge più un interesse alla correttezza della gestione fine a se stesso, bensì si intende reprimere l’abuso della posizione interna alla società al fine di garantire l’integrità del patrimonio sociale, tutela completata dalla introduzione, sulla scorta delle spinte comunitarie, della fattispecie di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità, nota altresì come corruzione privata). Un tale mutamento di prospettiva ha coerentemente comportato una modifica del ruolo svolto dal conflitto di interessi in cui versino i titolari del potere ge‑ storio, il quale, secondo accreditata dottrina, si trasforma da elemento centrale della previsione in antefatto o presupposto della condotta, che deve sfociare in atti dispositivi che comportino danno patrimoniale, con conseguente trasfor‑ mazione del delitto in reato di evento di danno. Ne risulta pertanto una riscrit‑ tura incisiva della struttura del reato, non solo in termini di elemento materia‑ le, ma anche in termini di elemento psicologico che si caratterizzerebbe per il cosiddetto “doppio dolo”, il che lascerebbe trasparire l’intento del legislatore di dettare un elemento soggettivo rafforzato nelle ipotesi più gravi previste dalla riforma. Ciò, inoltre, ha portato molti Autori a dubitare che il rapporto tra la fattispecie di infedeltà e la normativa previgente possa ricondursi ad una ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, preferendo propendere per l’ipotesi della abrogazione con successiva incriminazione. penale Gazzetta 50 D i r i t t o e p r o c e d u r a prendere atto dell’importanza da essa assunta. La nozione di gruppo, difatti, era stata già da tempo ela‑ borata nei diversi settori dell’ordinamento giuridico, unita‑ mente alla c.d. teoria del vantaggio compensativo2. Al riguardo, appare innanzitutto opportuno precisare che, pur restando invalsa l’espressione di “vantaggi compensativi”, sembra preferibile l’opinione di quanti – aderendo alla tesi dell’autonomia tra i diversi rami dell’ordinamento – sostengo‑ no che il legislatore non abbia inteso far propria alcuna delle elaborazioni civilistiche in materia, muovendo, invece, da esigenze prettamente penalistiche3. Un’attenta disamina della giurisprudenza di Cassazione, consente di individuare agevolmente sia i presupposti per la configurabilità di vantaggi compensativi che i caratteri dei medesimi. Quanto ai primi, essi sono da ravvisarsi, oltre che nella già richiamata esistenza di un gruppo societario4, anche nella presenza di una pluralità di interessi tra agente e società in conflitto tra loro5. In altri termini, dunque, affinché ci si 2 Appare, infatti, doveroso ricordare che dottrina e giurisprudenza sono state per lunghi anni impegnate ad indagare la natura del fenomeno dei gruppi societari. E, solo ammessa la rilevanza giuridica di questi ultimi, si è poi giunti a chieder‑ si se le considerazioni eventualmente elaborate in ambito civilistico fossero esportabili in rami diversi dell’ordinamento, quale quello penale. 3 Come è stato correttamente osservato, nel procedere alla individuazione dei limiti della ricezione operata dal legislatore della teoria dei vantaggi compen‑ sativi elaborata in ambito civilistico e sui significati che essa assume in ambito penale, “un primo approfondimento suggerisce di precisare a quale versione della teoria dei vantaggi compensativi si sia rifatto il legislatore penale, data la presenza di concezioni che divergono su aspetti centrali della teoria medesima”. Così Masucci, Infedeltà patrimoniale e offesa al patrimonio nella disciplina penale dei gruppi di società, Napoli, 2006, p. 67 e ss., il quale poco dopo pre‑ cisa che “l’iterstorico di formazione della legge presenta all’interprete elementi chiarificatori a sostegno dell’ipotesi che una ricezione, semmai, sarebbe avve‑ nuta a favore di indicazioni formulate in sede penale nei progetti di riforma sul punto. Precisare il collegamento che esiste sotto questo punto di vista è utile per sviluppare l’interpretazione a partire dalle esigenze che la legge penale ha rite‑ nuto di dover soddisfare, evitando di lasciare penetrare nella valutazione una particolare versione della teoria dei vantaggi compensativi, quasi che ad essa si sia voluta dare una veste formale prima mancante. Viene così sgombrato il campo circa il procedere di pari passo delle teorie civilistiche e della legislazio‑ ne penale, pur tenendo ferme le naturali esigenze di coordinamento”. Del resto, un simile approccio appare coerente con i recenti esiti ermeneutici – sia dottri‑ nari che giurisprudenziali – in ordine ai rapporti trai diversi rami dell’ordina‑ mento. Teli esiti, infatti, disconoscendo sia la tesi pancivilista, che quella pan‑ penalista, propugnano per l’autonomia dei medesimi, in forza della quale cia‑ scun ramo dell’ordinamento va ricostruito alla luce dei propri principi, sia pur nel rispetto delle istanze di coordinamento. 4La Suprema Corte ha, infatti, avuto modo di affermare che “Il vantaggio com‑ pensativo (…) presuppone l’esistenza di un gruppo societario. Il solo fatto che una persona fisica si trovi in posizione di controllo rispetto ad una pluralità di società (…) non implica automaticamente la configurazione di un gruppo so‑ cietario. Di gruppo societario si potrà parlare solo se il soggetto per il tramite di detto controllo azionario svolge una vera e propria funzione imprenditoria‑ le di indirizzo e coordinamento delle società controllate (cosiddetta holding pura), eventualmente accompagnata anche da attività ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa) dotatosi a tal fine di un’apposita organizzazione con uffici e dipendenti a ciò destinati”. Così Cass. pen., Sez. V, 18 novembre 2004, n. 1763. In dottrina Bartolo, Bancarotta e infedeltà patrimoniale infra‑ gruppo. La distrazione seguita dal fallimento, Aracne, 2009, p. 191 e ss., al riguardo sostiene che “sarebbe errato giungere sino a ritenere che un gruppo, ai fini penali, si deve considerare come giuridicamente rilevante soltanto se sono state rispettate tutte le regole fissate dal codice civile (…) dovendosi con‑ siderare rilevante anche quel gruppo il quale, pur non avendo rispettato le formalità abbia di fatto reso edotti tutti gli interessati dell’esistenza di un orga‑ nismo ‘unitario’ composto da più società al cui vertice si colloca un ‘soggetto’, il quale non solo potrebbe aver condizionato le scelte delle singole società, ma potrebbe anche e soprattutto essere chiamato a rispondere del suo operato, ogni qual volta l’attività di direzione e coordinamento si sia tradotta in una viola‑ zione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale della con‑ trollata”. 5 Cfr Cass. pen., sez V, 24 aprile 2003, n. 23241, ove si legge che “Il ‘vantaggio compensativo’ nell’ipotesi del collegamento o del gruppo di società, ai sensi p e n a l e Gazzetta F O R E N S E possa interrogare circa la ricorrenza di interessi compensativi, è necessario che vi sia un soggetto che agisce per la società (amministratore, direttore generale o liquidatore), che questi sia portatore di un interesse, che tale interesse sia non solo diverso ed ulteriore (di qui il requisito della pluralità di cui sopra), ma anche confliggente con quello della società e che il contesto dinamico nel quale gli interessi si collocano sia rap‑ presentato da un gruppo societario (nella forma della holding pura, ovvero di quella operativa). Quanto ai caratteri propri dei vantaggi, essi devono essere effettivi e basati su elementi certi, cioè comprovati e non meramente ipotizzati. 2. La natura giudica della clausola sui vantaggi compensativi La più affascinante delle questioni sollevate dalla clausola di cui al comma 3 dell’art. 2634 c.c., e certamente la più di‑ battuto riguarda, per altro, la individuazione della sua natura giuridica. Le argomentazioni e le conseguenze giuridiche, naturalmente, mutano a seconda del ruolo che le si attribuisca all’interno della fattispecie penale e, più in particolare, a se‑ conda che la si qualifichi come causa di esclusione del fatto tipico o dell’antigiuridicità. Assai articolato risulta il primo orientamento, all’interno del quale, a ben vedere, è possibile enucleare diversi filoni. Essi hanno tutti in comune il fatto di ritenere che il co. 3 possa contribuire ad individuare i limiti di liceità del fatto e, per esso, i limiti di liceità delle operazioni infragruppo. Tut‑ tavia, diversi autori risolvono in modo peculiare il problema relativo alla individuazione dei limiti medesimi. Muovendo dal presupposto teorico dell’adesione alla concezione tripar‑ tita del reato e della sussistenza all’interno del fatto tipico di una fattispecie soggettiva accanto a quella oggettiva, infatti, sarebbe innanzitutto possibile chiedersi quale delle due com‑ ponenti venga elisa dalla ricorrenza di vantaggi compensativi. Ritenendo, poi, che essa incida sulla fattispecie oggettiva, ci si potrebbe ancora chiedere se essa sia idonea a rendere incon‑ figurabile la condotta (qualora il carattere “non ingiusto” si intenda riferito al profitto), ovvero il danno derivante dalla prima (qualora la qualifica di non ingiustizia si intenda indi‑ rettamente riferita al “danno”). 2.1 La tesi della mancanza della fattispecie oggettiva per venir meno dell’illiceità della condotta Un primo filone muove dal ritenere che la qualifica di non ingiustizia attenga al profitto e non già al danno. Ciò posto si rileva che “dalla qualifica di non ingiustizia si desume pie‑ namente che il profitto conseguito dalla società collegata o dal gruppo di appartenenza, alle specifiche condizioni previ‑ ste, va ritenuto lecito”6. E ciò in quanto ad essere lecita è la dell’art. 2634, co. 3 c.c., come riformulato dall’art. 1 del d.lgs.11 aprile 2002, n. 61 (…), presuppone un conflitto di interessi tra il soggetto agente (ammini‑ stratore, direttore generale e liquidatore) che compie l’atto dispositivo e la so‑ cietà. Tale conflitto deve essere effettivo ed attuale e non può ritenersi insito in ogni atto che vada a nocumento di una società ed a vantaggio di un’altra, collegata o facente parte del gruppo” 6Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 230, il quale poco oltre individua chiaramente i termini della questione precisando che “nell’interpretazione della clausola sui gruppi, contenuta nell’art. 2634 c.c., la ‘non ingiustizia’ del profitto (…) assume un’importanza centrale, trattandosi di precisare se essa abbia un significato solo sul piano psicologico, in collegamento col dolo speci‑ fico, o anche oggettivo, nella definizione dei contenuti materiali del fatto”. Sul punto si avrà modo di soffermarsi ulteriormente nel prosieguo. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o condotta tenuta dall’agente. Per giungere ad una simile con‑ clusione si muove dall’analisi della fattispecie oggettiva del fatto tipico rilevando che il cuore dell’infedeltà patrimoniale è costituito dall’abuso del potere gestorio operato dall’ammi‑ nistratore infedele7, ovvero dallo sviamento del medesimo dalle finalità per cui è attribuito. Come si è poc’anzi accenna‑ to, presupposto di tale condotta è da ravvisarsi nella presenza di un conflitto di interessi, la cui esistenza deve essere accer‑ tata caso per caso in concreto8. Quindi, perché sia ravvisabi‑ le una condotta infedele è necessario che, in presenza di un conflitto di interessi, l’abuso dell’amministratore si traduca in un atto dannoso per la società. Ma la presenza di vantaggi compensativi, rendendo l’atto potenzialmente vantaggioso per la società, sia pur in presenza di un conflitto di interessi, porta ad escludere l’asservimento dell’atto al perseguimento di interessi propri o di terzi in luogo di quelli sociali. Il che, in altri termini, significa che la presenza di un potenziale vantaggio compensativo priva la condotta del carattere abu‑ sivo e, quindi, della sua penale rilevanza9. 7Trattandosi di un reato proprio la condotta può essere tenuta solo dai soggetti indicati dalla norma e, quindi, oltre che dall’amministratore, dal direttore ge‑ nerale e dal liquidatore della società assoggettata a procedura concorsuale. 8 Quanto alla nozione di conflitto, essa è stata oggetto di elaborazione dottrina‑ le in ambito commercialistico. Riguardo al conflitto del socio, con argomenta‑ zione estensibile al conflitto di interessi dell’amministratore (ma anche del di‑ rettore generale e del liquidatore), è stato affermato che “C’è conflitto di inte‑ ressi tra socio e società quando il socio si trova nella condizione di essere por‑ tatore, di fronte ad una data deliberazione, di un interesse duplice: del suo in‑ teresse di socio e, inoltre, di un interesse esterno alla società; e questa duplicità è tale per cui egli non può realizzare l’uno se non sacrificando l’altro interesse. La semplice duplicità della posizione di interesse in capo ad un medesimo soggetto di per sé sola non implica, però, situazione di conflitto in senso tecni‑ co. Le due posizioni di interesse possono essere tra loro solidali: il socio può realizzare il proprio interesse senza pregiudicare l’interesse della società”. Galgano F, Le nuove società di capitali e cooperative, in Galgano – Genghini, Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. XXIX, Il nuovo diritto societario, II ed., tomo I, cedam, 2004, p 239 e ss. Naturalmen‑ te, la stessa è stata oggetto di rielaborazione in ambito penalistico, di tal che del conflitto di interessi è stata elaborata una versione statica ed una dinamica e di entrambi astrattamente sarebbe accoglibile una versione formale o sostanziale. Non apparendo questa la sede opportuna per ripercorrere le richiamate elabo‑ razioni, basti qui ricordare che a seguito della riforma del 2001, appare prefe‑ ribile l’opzione ermeneutica che propende per una lettura sostanziale del con‑ cetto dinamico di conflitto. Sorretta da un indubbio spirito di frammentarietà, essa postula “non solo che il conflitto” venga “accertato caso per caso in rela‑ zione alle modalità e alle circostanze del fatto, ma anche la presenza di un danno effettivo alla società”, di modo che, “con la riforma del diritto societario, le petizioni interpretative si sono trasformate in modifiche della tipicità astrat‑ ta. Tutto questo agevola la lettura sostanzialista non solo per la presenza di un evento materiale, il danno patrimoniale alla società, ma anche per l’introduzio‑ ne di un dolo specifico e di un dolo intenzionale”. Così Alagna, Note sul con‑ cetto penalistico del conflitto di interessi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 3 p. 743 e ss. Ciò posto appare opportuno, altresì, rimarcare che non appare allo stato sufficiente una mera compresenza o coesistenza dell’interesse del soggetto qualificato accanto a quello sociale – da ravvisarsi, ad avviso della teoria con‑ trattualistica, nell’interesse comune dei soci ‑, ma si rende necessario che il soggetto attivo agisca in vista del conseguimento dell’interesse proprio in luogo di quello sociale, sacrificando quest’ultimo. Di tal che, da un lato, “l’interesse estraneo a quello della società deve risultare il fattore decisivo nella scelta economica sottostante all’operazione dannosa (…) non solo in chiave psicolo‑ gica, ma alla stregua di parametri ‘obiettivi’, che restituiscano la ‘direzio‑ ne’dell’atto” e dall’altro “il profitto maturato da terzi non contraddice l’osser‑ vanza dei doveri di corretta gestione, né contraddistingue un abuso di poteri se funzionale al conseguimento di vantaggi per la società”. Cfr. Masucci, Infedel‑ tà patrimoniale, cit., p. 241 e ss. 9In ciò sarebbe dato cogliere il sottile distinguo con la posizione di chi reputa che l’assenza di illiceità del profitto elida il dolo dell’agente (per il cui esame si rinvia a quanto si dirà infra). Sotto l’angolo prospettico preso attualmente in esame, non ci si pone dal punto di vista soggettivo dell’agente al fine di pren‑ dere in considerazione l’interesse da questi perseguito, ma piuttosto si tende ad accertare se l’interesse diverso da quello sociale sia in contrasto con quest’ulti‑ mo e se sia stato effettivamente coltivato. Si ritiene così che il legislatore avreb‑ 2 0 1 3 51 2.2 La tesi della mancanza della fattispecie oggettiva per venir meno del danno Il secondo filone, invece, ritiene che il vantaggio compen‑ sativo vada ad elidere il danno. Un simile modo di pensare prende le mosse dall’esigenza di coordinare la norma in esame con quella di cui all’art. 2497, co. 1 c.c. che disciplina la re‑ sponsabilità civile degli amministratori della controllante nei confronti delle controllate, per abuso del potere di direzione del gruppo10. Ciò posto si ritiene che il pregiudizio di cui all’art. 2634 co. 3 c.c., costituisca un chiarimento del pregiu‑ dizio patrimoniale richiesto dall’art 2497 co. 1 c.c. e si legge la norma come se dicesse “non si considera ingiusto il profit‑ to della società collegata o del gruppo qualora il danno pati‑ to a seguito di tale operazione da altra società del gruppo sia compensato da vantaggi, conseguiti o fondamentalmente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”11. In altri termini, dunque, il verificarsi di un vantag‑ gio compensativo, ai sensi del 2634 co. 3 c.c. elide il danno, operando una sorta peculiare di “compensatio lucri cum damni” la quale – a differenza di quanto richiesto dall’art. 2497 c.c. che richiede un bilanciamento “ragionieristico”12 tra attività e passività – si caratterizzerebbe per la rinunzia ad un accertamento di tipo matematico, escludendo il danno anche in ipotesi in cui esso possa considerarsi maturato sul piano civilistico. La compensazione “penalistica”, pertanto, avrebbe un ambito di operatività più ampio di quella “civilistica”, di tal che, pure in presenza di responsabilità civile, sarebbe possibile andare esenti da responsabilità penale13. La ragion d’essere dell’art. 2634 co. 3, dunque, potrebbe ritenersi ravvi‑ be posto “il principio secondo cui l’acquisizione dei vantaggi o la fondata possibilità di conseguirli sia indice incontrovertibile di piena sintonia tra il concreto esercizio del poterei gestione e l’affidamento sottostante” Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 248. 10Su significato e limiti della disposizione di cui all’art. 2497, cfr. Manes, Abuso di direzione unitaria e responsabilità degli amministratori della controllante: verso l’affermazione di un principio generale, in Contr. Impr., 2002, p. 1 ss., Galgano, I gruppi nella riforma delle società di capitali, in Contr. Impr., 2002, p.1036 ss.; mentre per gli scritti di epoca precedente cfr. ad esempio dello stesso autore, Responsabilità degli amministratori della società controllante, in Fallimento, 1995, p. 556 e ss.; Gambino, Responsabilità delle holding nei gruppi societari, ivi, p. 581; Jajer, “Direzione unitaria” di gruppo e responsa‑ bilità degli amministratori, in Riv. Soc., 1985, p. 817 e ss. In ogni caso, ed in particolar modo qualora si proceda alla lettura in combinato disposto delle diverse norme, giova ricordare che la riforma del diritto penale societario (operata nel 2001) ha preceduto quella del diritto sostanziale (operato con il d.lgs. 17/2003 in attuazione della legge delega 3/2001). 11 Abriani, Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi nella riforma del diritto societario, in Una tavola rotonda sui vantaggi compensativi nei gruppi, in Giur. Comm. 2002, I, pag. p. 618. Sul punto lo stesso Autore torna a riba‑ dire che la qualifica di ingiustizia deve considerarsi riferita al danno e non al profitto, anche in Riflessi civilistici del nuovo diritto penale commerciale, in Il fisco, 2003, p. 2128; Riforma societaria e nuovo diritto penale commerciale in La riforma delle società. Profili della nuova disciplina, a cura di Ambrosiani, Torino, 2003, p. 219 ss. In senso analogo cfr. pure Galgano, Diritto Commer‑ ciale. Le società, Bologna, 2003, p. 253 e ss., nonché Codazzi, Vantaggi com‑ pensativi e infedeltà patrimoniale (dalla compensazione “virtuale” alla com‑ pensazione “reale”): alcune riflessioni alla luce della riforma del diritto socie‑ tario, in Giur. Comm., 2003, II, p. 607. 12Per la tesi secondo cui il danno, ai sensi dell’art. 2947 co.1. c.c., mancherebbe se “eliso in senso ragionieristico e sul piano quantitativo”, cfr Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di ca‑ pitali, in Giur. Comm., 2003, p.673. 13 Cosa che, ad avviso di chi scrive, almeno prima facie, apparirebbe in ogni caso, quantomeno, coerente con il principio di estrema ratio dell’intervento penale. Tuttavia, al riguardo non si è mancato di osservare che “Il danno, mancando dal punto di vista penalistico, difficilmente potrebbe essere affermato in sede extrapenale, trattandosi sempre di verificare una diminuzione patrimoniale oggettivamente verificabile” così Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit. penale Gazzetta 52 D i r i t t o e p r o c e d u r a sabile proprio nella necessità di ampliare i margini di liceità della condotta penale rispetto all’illecito civile. Al riguardo si è, tuttavia, osservato che “la tesi, per altro, non spiega perché la legge si sarebbe limitata ad escludere l’ingiustizia del danno, anziché quest’ultimo, in sé e per sé”14. Del resto, una simile posizione ermeneutica, corre il ri‑ schio di trasformarsi in una insidiosa interpretatio abrogans della norma. Infatti, il verificarsi di una compensazione reale, nell’elidere il danno, lungi dall’essere indifferente per il dirit‑ to, assume rilevanza ex se a prescindere da una espressa previsione, in quanto incide su di un elemento strutturale del reato – il danno, per l’appunto – in assenza del quale, in ogni caso si assisterebbe al mancato perfezionamento della fatti‑ specie. In altri termini, avendo il legislatore strutturato la fattispecie come reato di danno, una simile interpretazione ridurrebbe il co. 3 ad una inutile ripetizione del co.1. 2.3 La tesi della mancanza della fattispecie soggettiva del fatto tipico per venir meno del dolo specifico Come pure si è accennato nelle pagine precedenti, una ulteriore corrente interpretativa, pur muovendo dalla consi‑ derazione che la qualifica di ingiustizia vada riferita al profit‑ to e non al danno, segue un diverso iter argomentativo e conclude per il venir meno, nei casi in esame, della fattispecie soggettiva del fatto tipico. Infatti, ai fini dell’integrazione dell’elemento psicologico del reato in parola, la norma richie‑ de la presenza di un c.d. doppio dolo. Ed invero, a rigore del dato testuale, è necessario che il soggetto attivo abbia agito “al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto od altro vantaggio” ed abbia cagionato “intenzionalmente alla società un danno patrimoniale”. Per quanto ai presenti fini interessa, autorevole dottrina15 ha evidenziato che, dunque, rispetto al profitto o altro vantaggio, il soggetto deve agire con dolo specifico, cioè, al fine precipuo di conseguire gli stessi, mentre con riferimento al danno patrimoniale deve agire con dolo intenzionale, cioè deve avere quale obiettivo principale della propria condotta il verificarsi del medesimo. Chiarito quanto innanzi, evidentemente, ove si agisce al fine di conseguire vantaggi effettivamente verificatisi o fondamen‑ talmente prevedibili, il profitto che si intende conseguire è privo del carattere dell’ingiustizia, sicché l’agente, nel porre in essere la propria condotta materiale, manca del descritto elemento psicologico, richiesto quale essenziale per il perfe‑ zionamento della fattispecie. In altri termini, se il profitto che mira a conseguire non è ingiusto, evidentemente, l’ammini‑ stratore (o altro soggetto qualificato, trattandosi di reato proprio) che pone in essere l’operazione non si rappresenta e non vuole, a fortiori, un profitto ingiusto quale conseguenza della propria condotta e, quindi, non agisce col dolo specifico di cui alla norma. Parte della dottrina, tuttavia, ha ritenuto tale tesi critica‑ bile e ciò, principalmente, per le conseguenze che essa com‑ porta. Come si è osservato, “se il terzo comma si riferisse al dolo specifico, o consentisse di ricondurre tale elemento alla qualifica di ingiustizia, ne deriverebbero precise conclusioni, quanto al contenuto rappresentativo del medesimo dolo spe‑ 14Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 230. 15 Ci si riferisce a Musco, I nuovi reati societari, Milano 2004, p. 215. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E cifico. Il soggetto dovrebbe infatti conoscere con sufficiente chiarezza le concrete circostanze che consentono il maturare della compensazione. Non sarebbe sufficiente la persuasione che alla condotta segua un profitto non ingiusto, (…) con il risultato che per escludere il dolo specifico, si dovrebbe accer‑ tare nell’agente la rappresentazione preventiva delle specifiche condizioni riscontrate in concreto dal giudice”16. Sicché, quan‑ do i vantaggi previsti dall’agente, ancorché decisivi nel for‑ marsi della decisione di costui, non si producano, realizzan‑ dosi, in luogo degli stessi, vantaggi di tipo diverso pur sempre di carattere compensativo, dovrebbe affermarsi, nonostante tutto, la indubbia sussistenza dell’elemento psicologico. 2.4 La c.d. lettura differenziata Un’altra parte della dottrina e della giurisprudenza, poi, ritiene che il vantaggio compensativo incida in alcuni casi sulla fattispecie oggettiva (qualora si sia in presenza di una compensazione integrale) ed in altri su quella soggettiva (quando manchi tale compensazione): si tratta della c.d. let‑ tura differenziata. Essa muove dal ritenere che la compensazione vada riferi‑ ta al danno, richiedendo quale ulteriore requisito che, almeno in via implicita, il vantaggio equivalga al danno, sì da bilan‑ ciarlo integralmente sul piano economico. Ciò posto, si ren‑ derebbe necessario distinguere tra due ipotesi: quella in cui i vantaggi siano stati conseguiti e quella in cui essi siano solo fondatamente prevedibili. “L’ipotizzata interpretazione dell’art. 2634, co. 3, c.c. avrebbe l’effetto di introdurre al suo interno una netta cesura, data l’impossibilità di assimilare i vantaggi ‘conseguiti’ e quelli che risultino, per contro, solo prevedibili (nonché i vantaggi conseguiti e quelli semplicemen‑ te previsti, sia pure in termini di certezza). Solo i vantaggi effettivamente acquisiti dalla società potrebbero effettivamen‑ te compensarne l’impoverimento. La compensazione sarebbe invece esclusa quando il vantaggio non sia maturato, ancorché possa prevedersi con certezza o con sufficiente fondamento. In questi ultimi casi il danno sussisterebbe e le ragione della non punibilità dovrebbero, perciò, essere individuate su di un piano diverso, collegandosi all’assenza di dolo specifico, o al difetto di altro valore costitutivo dell’illecito”17. In estrema sintesi, dunque, se opera l’integrale compensazione si elide il danno e viene meno la fattispecie oggettiva del fatto tipico; se la compensazione non opera, ma vi sono vantaggi previsti e non ancora realizzati, viene meno il dolo specifico e, quindi, la fattispecie soggettiva del fatto tipico. Altri autori, tuttavia, hanno posto in evidenza, in primo luogo, che anche una simile lettura, si risolverebbe, almeno in parte, in una interpretatio abrogans della norma18. In secon‑ 16Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 236 e ss. 17Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 72. 18Per una critica della lettura ‘differenziata’ cfr. Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 73 e ss. ove, tra l’altro, si legge che essa porta ad una “duplicazione in‑ giustificata dei contenuti della legge” in quanto “è già la necessità di verificare un danno al patrimonio, nella sua precisa entità, a imporre di tener conto di un possibile riequilibrio dell’iniziale perdita; così che l’espressa precisazione del terzo comma si rivelerebbe superflua. L’interprete, che una tale interpretazione accogliesse, priverebbe perciò la norma di contenuti essenziali, senza poterne dare giustificazione, dato che è innegabile che la medesima norma, può essere diversamente interpretata, assumendo così, attraverso il suo ultimo comma, un contenuto che arricchisce la portata di quanto si desumerebbe in sua assenza”. Ad avviso di chi scrive, tuttavia, appare opportuno sottolineare che la prospet‑ F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o do luogo si è rilevato come essa finirebbe per accomunare due ipotesi affatto diverse19. 2.5 La tesi della scriminante Tutte le tesi innanzi esposte, come si è provveduto a met‑ tere in risalto fin da subito, hanno in comune di ritenere che la presenza di vantaggi compensativi incida sul fatto tipico. Radicalmente diversa è la posizione di chi invece ritiene trat‑ tarsi di una causa di esclusione dell’antigiuridicità, la quale, evidentemente, da un lato, presuppone l’integrazione del fatto tipico nella sua interezza – e, quindi, sia nelle componenti oggettive che soggettive – e, dall’altro, implica una valutazio‑ ne di liceità condotta alla stregua dell’intero ordinamento giuridico. È stato, infatti, sostenuto che la clausola di cui al co. 3 dell’art. 2634 c.c., ha in sé “le stigmate della scriminan‑ te” ed in vero, qualificare “non ingiusto” il profitto, ogni qual volta esso abbia i requisiti di cui al suddetto comma, significa dire che esso non è contra ius. Ciò posto, “sarebbe difficile negare ad un siffatto estremo di fattispecie, che qualifica ‘non contra ius’ una determinata situazione, lo status di scriminan‑ te e, dunque, di circostanza che elide l’antigiuridicità del fatto tipico”20. 3. Cenni ai rapporti tra infedeltà patrimoniale e reati di bancarotta Come di qui a breve si vedrà, le linee di confine tra infe‑ deltà e bancarotta risultano essere molteplici e complesse. Dalla lettura in combinato disposto degli artt. 216 e 223 l. fall., per quanto di interesse, emerge, in primis, la punibili‑ tà di fatti di bancarotta fraudolenta societaria per distrazione commessi da amministratori, direttori generali, sindaci e li‑ quidatori. Il co. 2 n. 1 dell’art 223 l. fall., poi, prevede speci‑ fiche ipotesi di bancarotta fraudolenta “societaria specifica” (ovvero commessa in ambito societario, mediante la integra‑ zione di un reato societario) che si verifica nel caso in cui i soggetti suddetti abbiano cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo taluno dei reati socie‑ tari indicati, tra cui il reato di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 c.c. Il co. 2, n. 2, infine, prevede quale ulteriore ipotesi criminosa il fatto di bancarotta dei soggetti suddetti che abbiano cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società 21. Da ultimo, deve rilevarsi tata interpretazione priverebbe di significato la norma solo in parte e, cioè, solo per quanto attiene all’ipotesi in cui i vantaggi siano conseguiti, mentre, evidentemente, le attribuirebbe significato autonomo per quanto riguarda l’ipotesi in cui fa riferito all’ipotesi in cui i vantaggi prevedibili, configurando in tal caso la specifica funzione di prevedere una scriminante. 19 Al riguardo si è, infatti, ulteriormente notato in senso critico che “il comma in esame, così interpretato, avrebbe, in luogo di un effetto di chiarificazione, quello di accrescere il dubbio, visto che non si comprende perché il legislatore, nel perseguire l’obbiettivo della maggior chiarezza, abbia affiancato le diverse e non confondibili ipotesi dell’assenza di danno, dovuta all’effettivo consegui‑ mento dei vantaggi compensativi, e del venir meno del dolo specifico di profit‑ to, o comunque di un disvalore riferibile alla condotta, nel caso dei vantaggi semplicemente prevedibili” Masucci, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 75. 20Mucciarelli, Il ruolo dei vantaggi compensativi nell’economia del delitto di in‑ fedeltà patrimoniale degli amministratori, in Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi nella riforma del diritto societario, Una Tavola Rotonda sui vantaggi compensativi nei gruppi, organizzata dalla Facoltà di Giurispru‑ denza dell’Università dell’Insubria, tenutasi a Como in data 11 maggio 2002, in Giur. Comm., p. 633. 21Pur non apparendo tale la sede appropriata per una disamina della questione, non può fare a meno di segnalarsi che la principale problematica al riguardo attiene ai rapporti sussistenti tra le tre ipotesi innanzi individuate, soprattutto in considerazione delle modifiche innestate sul previgente testo normativo. 2 0 1 3 53 la mancanza nella disciplina dei reati fallimentari di una specifica previsione in ordine al fenomeno dei gruppi di socie‑ tà; lacuna che, per altro, non desta alcuna perplessità e non rende il legislatore passibile di alcun rimprovero ove calata nel contesto storico dei primi anni ’40 dello scorso secolo, in cui è stata emanata la legge fallimentare. Come si è correttamen‑ te osservato, infatti, “il fenomeno dei gruppi societari non aveva all’epoca della sua redazione un peso specifico tale nella realtà economico‑giuridica da indurre il legislatore a regolamentarlo espressamente”22. In presenza di operazioni infragruppo ci si può, quindi, porre una pluralità di quesiti in relazione alle tre ipotesi cri‑ minose poc’anzi individuate. Segnatamente, innanzitutto, ci si può chiedere se il trasferimento di risorse infragruppo pos‑ sa essere qualificato come distrazione ai sensi e per gli effetti del comb. disp. degli art. 216 e 223 co 1 l. fall.; in secondo luogo, ci si potrebbe domandare quid iuris se nella bancarot‑ ta societaria commessa a mezzo infedeltà si verifichi un “vantaggio compensativo”; in terzo luogo, e più in generale, ci si può interrogare circa l’applicabilità alle ipotesi di banca‑ rotta della norma prevista per l’infedeltà patrimoniale dall’art. 2634 co. 3 c.c. Tre, pertanto, risultano essere gli angoli pro‑ spettici dai quali i rapporti tra le fattispecie in esame possono essere rimirati: • rapporti tra distrazione e infedeltà patrimoniale (cioè tra l’art. 216, co. 1, l. fall. e l’art. 2634 c.c.); • rapporti tra reato societario presupposto e reato di ban‑ carotta nel reato di bancarotta impropria societaria (cioè tra l’art. 216 co. 2, n. 2 l fall e l’art. 2634 c.c.); • applicabilità alla bancarotta (rectius: alle diverse ipotesi di bancarotta) della disciplina relativa i gruppi (rapporti, cioè, tra il co. 3 dell’art. 2634 e l’art. 216 l. fall.). Ciò posto, in tal sede si intende dar conto semplicemente degli aspetti di maggior interesse connessi al terzo dei suddetti Contorto risulta pure, evidentemente, il rapporto tra infedeltà patrimoniale (e più in generale reati societari) e bancarotta. Per un’articolata disamina delle problematiche richiamate cfr. Napoleoni, Le mariane qui a mal tournè: lo strano caso dell’infedeltà patrimoniale e della bancarotta, in Cass. pen. 2009, I, p. 294 e ss. L’Autore, nel descrivere le conseguenze dell’innesto dell’infedeltà patrimoniale nella ridisegnata ipotesi di bancarotta da reato societario, ha provveduto a sottolineare come “nel caso di reato societario – e di infedeltà patrimoniale in specie – che provochi dissesto, si assiste (…) ad un fenomeno con pochi precedenti storici nella pur ricca galleria delle ‘anomalie’ ordinamen‑ tali; convergono, cioè, sul medesimo fatto tre diverse figure criminose, tutte punite con la medesima pena: bancarotta per distrazione, bancarotta da reato societario e bancarotta per causazione dolosa del fallimento”. È lecito, tuttavia, dubitare della sussistenza di un mero concorso apparente di norme e della sussistenza di un rapporto di specialità unilaterale delle stesse che conduca all’applicazione unicamente della seconda tra le richiamate fattispecie. Ad av‑ viso del Napoleoni, infatti, “a differenza delle ipotesi di contemplate dal com‑ ma 2 dell’art. 223 l. fall., la bancarotta fraudolenta patrimoniale prescinde (…) dal collegamento causale condotta‑dissesto”, il che, per un verso rende irragio‑ nevole il livellamento delle cornici edittali e, per altro verso, pone all’interprete il problema di comprendere cosa accada se la bancarotta non sia in nesso causale con l’infedeltà. Se il legislatore ha richiesto per la punibilità delle ipote‑ si in questione ha richiesto la sussistenza di un nesso causale tra reato societario e dissesto, ove quest’ultimo manchi apparirebbe contro la ratio dell’intervento legislativo sostenere che, esclusa la bancarotta da reato societario, il fatto resti o torni ad assumere penale rilevanza come bancarotta per distrazione. Ritene‑ re, infatti, che se sussiste nesso si rientra nella bancarotta da reato societario e se non sussiste si rientra nella bancarotta per distrazione, punita con la mede‑ sima pena prevista per il reato precedente, equivarrebbe, di fatto, ad una inter‑ pretatio abrogans della norma di cui all’art. 223, co.2, n.1, l. fall. 22 Amarelli, La riforma dei reati fallimentari nel disegno di legge delega n. 1741‑C, in Diritto penale fallimentare problemi attuali, a cura di N. Pisani, Torino, 2010, 201 ss. penale Gazzetta 54 D i r i t t o e p r o c e d u r a profili enunciati. La prima delle richiamate problematiche, in‑ fatti, esula dalla presente trattazione, mentre la seconda potreb‑ be essere più agevolmente risolta riportandosi ai principi gene‑ rali dell’ordinamento e ricordando brevemente che, qualora si verifichi un vantaggio compensativo in una ipotesi di bancarot‑ ta societaria da infedeltà patrimoniale, a prescindere dalla qualificazione giuridica che intenda darsi alla clausola di cui al co. 3 dell’art. 2634, il venir meno del reato presupposto dovreb‑ be impedire la configurabilità del reato presupponente. Chiarito quanto innanzi, può affermarsi che tra le più spinose e discusse questioni relative ai rapporti tra infedeltà patrimoniale e reati di bancarotta, vi è senz’altro quella rela‑ tiva all’applicabilità della disciplina prevista per i vantaggi compensativi alle ipotesi di bancarotta fraudolenta impro‑ pria 23. Particolarmente problematica si presenta, invero, 23 Riguardo alla definizione dell’ambito di operatività della problematica in esame, appare utile il contributo in materia apportato da Bartolo, Bancarotta e infe‑ deltà patrimoniale infragruppo. La distrazione seguita dal fallimento, cit. p. 175 e ss. L’Autore, infatti, dopo un lungo excursus sull’evoluzione di dottrina e giurisprudenza, rileva come l’insolvenza del gruppo vada tenuta ben distinta dall’insolvenza della singola società ad esso appartenente, dovendosi, poi, in quest’ultimo caso ulteriormente distinguere l’ipotesi di operazioni compensate da quella di operazioni non compensate. Riguardo allo stato di insolvenza del gruppo, invero, del tutto irrilevante apparirebbe sotto il profilo penale, la presenza di operazioni infragruppo. A p. 190 e ss., infatti, è dato leggere “Un’in‑ terpretazione corretta delle norme penali che puniscono la bancarotta non può non portare a distinguere il caso in cui la procedura concorsuale investe l’inte‑ ro gruppo (…) da tutti gli altri casi in cui il fallimento travolge una o più socie‑ tà, che vengono considerate de facto, come entità autonome e distinte” infatti “nel caso in cui vi sia il fallimento di un gruppo di imprese (comunque orga‑ nizzate) le operazioni infragruppo (…) devono essere valutate come se avessero determinato degli spostamenti di ricchezza che, essendo rimasta sempre all’in‑ terno del gruppo, non può neppure in astratto, configurare una distrazione penalmente rilevante ai fini della bancarotta”. Ovvero “tutte le operazioni in‑ tervenute anche tra le ‘diverse’ società componenti il gruppo ammesso alla procedura concorsuale possono essere considerate a tutti gli effetti e, quindi, anche a quelli penali, alla stregua di meri ‘atti interni’ la cui valutazione non può che essere effettuata equiparando, in buona sostanza, le operazioni infra‑ gruppo a degli atti di disposizione compiuti dallo stesso imprenditore, il quale (…) è libero di spostare le singole componenti del suo patrimonio da un’impre‑ sa all’altra, tenuto conto che egli risponde con tutti i suoi beni nei confronti anche dei creditori delle diverse imprese”. Immediatamente dopo si precisa che “Tutto quanto sin qui detto in relazione allo stato di insolvenza del gruppo non vale anche per il caso in cui ad essere fallito non è il gruppo, bensì la singola società di cui esso fa parte”. Senza nulla voler anticipare circa le conclusioni della presente riflessione, le speculazioni del l’Autore si fanno particolarmente interessanti, quando si entra nel vivo della questione. In particolare, si accoglie una nozione di gruppo più lata di quella civilistica e si aderisce alla tesi secondo cui i vantaggi compensativi escludono il fatto tipico (in questo caso quello della bancarotta e non già quello di infedeltà) per venir meno del danno patri‑ moniale richiesto dalla norma. A tale conclusione si giungerebbe, non attraver‑ so l’applicazione del co.3 dell’art 2634 c.c. e neppure ponendosi in un’ottica di necessaria offensività, bensì, attraverso la rielaborazione del concetto di distra‑ zione. Al riguardo, si sostiene che, in presenza di un organismo unitario al cui vertice sia collocato un soggetto societario di cui siano stati edotti tutti gli inte‑ ressati, pure in assenza delle formalità civilistiche, “ciò che rileva non è tanto l’esistenza del gruppo di per sé, quanto piuttosto la natura infragruppo di quelle operazioni che, proprio perché effettuate con società collegate potrebbe‑ ro risultare prive di rilevanza penale in virtù dell’ormai riconosciuto meccanismo dei cc.dd. vantaggi compensativi, i quali adergono, nel caso di fallimento della controllante o della controllata a, vero e proprio, requisito della fattispecie (astratta). (…) In questi casi, invero, il concetto di distrazione penale che puni‑ sce la bancarotta dell’amministratore non può considerarsi eguale a quello già enunciato in relazione alla bancarotta societaria, posto che la disciplina del codice civile stabilisce espressamente che la controllata può anche agire nell’in‑ teresse della capofila o de gruppo, ogni qual volta il pregiudizio che le viene causato dalla singola operazione risulti compensato da vantaggi che derivano dall’appartenenza al gruppo. Anzi, è proprio il concetto di distrazione penal‑ mente rilevante che dovendosi modulare sulla disciplina dei vantaggi compen‑ sativi non può più ricomprendere operazioni di questo tipo, anche perché la compensazione determina l’inesistenza di quel danno che costituisce un elemen‑ to caratterizzante il fatto tipico”. Quanto alla penale rilevanza delle operazioni infragruppo non compensate, poi, dovrebbe da ultimo distinguersi le ipotesi in cui esse danno luogo ad una vera e propria distrazione, da quelle in cui si de‑ p e n a l e Gazzetta F O R E N S E l’applicabilità della fattispecie in esame ad ipotesi di reato diverse da quella per cui la disciplina è stata posta. 4. Applicabilità della disciplina prevista per il reato di infedeltà alla bancarotta Al riguardo, appare doveroso avvertire da subito che la trattazione meriterebbe ben altra attenzione e ben più appro‑ fondito studio che non è concesso svolgere in questa sede, nella quale si intende unicamente rendere conto, per quanto possibile, del dibattito sorto in dottrina e degli ultimi appro‑ di della giurisprudenza. Giova, innanzitutto, rilevare che una corretta impostazio‑ ne della questione in parola presuppone chiarezza di idee in ordine a tre aspetti e, precisamente: la definizione della no‑ zione di gruppo24, la corretta individuazione del bene giuridi‑ co tutelato nei reati di bancarotta 25, la soluzione della diatriba relativa alla natura giuridica da attribuire alla disposizione normativa in tema di infedeltà patrimoniale che si intende applicare alle richiamate ipotesi di bancarotta 26. Va da sé che, se si ritiene che se la disposizione di cui all’art. 2634, co. 3 c.c. contribuisce a definire il precetto nor‑ mativo escludendo la tipicità di ipotesi di infedeltà in cui sia ravvisabile la compensazione di vantaggi e svantaggi derivan‑ ti dall’operazione economica nel suo complesso, essa non potrebbe trovare applicazione al di fuori del reato in esame. Viceversa, attribuendo alla disposizione natura di scrimi‑ nante, per poter sciogliere l’esaminando nodo ermeneutico, si renderebbe doveroso e necessario rispondere all’interrogativo circa l’applicabilità in via analogica delle norme che prevedo‑ no cause di esclusione dell’antigiuridicità 27. In altri termini, potrebbe ritenersi applicabile anche alla bancarotta la teoria del vantaggio compensativo aderendo alla tesi che propende per l’applicabilità analogica delle scriminanti. termina “un affievolimento della responsabilità penale, potendo fatti che po‑ trebbero essere anche qualificati come delle distrazioni fraudolente se le opera‑ zioni riguardassero società non collegate tra loro, assumere i tratti tipici di una bancarotta semplice”. Nell’orientamento prospettato sembrerebbe collocarsi anche altra dottrina e segnatamente Codazzi, Bancarotta fraudolenta e vantag‑ gi compensativi: alcune riflessioni sul concetto di “distrazione” nei gruppi”, in Giur. comm., 2008, 4, 764 ove nelle considerazioni conclusive si legge che “si potrebbe ritenere che – indipendentemente dalla possibilità di una applicazione in senso tecnico dell’art. 2634, 3° comma, c.c. ad altre fattispecie penali ‑, se diversi indici normativi consentono di fondare un giudizio di non illegittimità di principio della direzione unitaria da parte dell’ordinamento e se, di conse‑ guenza, la stessa valutazione della responsabilità in capo alla società control‑ lante e ai suoi organi sociali, per coerenza intrinseca al sistema, non può essere disgiunta dall’esigenza di ricondurre il singolo ‘’atto’’ entro la prospettiva uni‑ taria presupposta dalla ‘’attività’’, parrebbe, allora, necessario indirizzare l’in‑ terprete verso una rivisitazione del concetto di ‘’distrazione’’ alla luce della lo‑ gica imposta dalle relazioni intragruppo”. 24Può in tal sede sottolinearsi ulteriormente la mancanza di una definizione normativa di gruppo che ha originato i fenomeni di supplenza giudiziaria sfo‑ ciati nella già citata sentenza della V sezione della Corte di cassazione del 2004. 25Può sinteticamente ricordarsi che ad opinione della concezione patrimoniale esso sarebbe ravvisabile nella tutela di interessi patrimoniali dei creditori e, più precisamente, nella conservazione della garanzia patrimoniale offerta ai mede‑ simi 26 Disposizione che, ricordiamo, sarebbe ad avviso di molti da intendersi quale norma di favore. 27Senza alcuna velleità di esaustività, può brevemente ricordarsi che la dottrina non è concorde nel ritenere applicabili in via analogica le scriminanti. Sebbene, infatti, una consistente parte della di essa reputa trattarsi di norme generali dell’ordinamento e di favore, applicabili anche al di fuori dei casi espressamen‑ te previsti; coloro i quali ritengono che le stesse contribuiscano indirettamente alla definizione del discrimen tra lecito ed illecito, consentendo l’individuazione della materia del divieto, ne negano l’applicazione analogica. Gazzetta 55 4.1. La tesi della inapplicabilità e le sue argomentazioni La tesi originariamente dominante è apparsa salda nell’af‑ fermare l’inapplicabilità dell’art. 2634 co. 3 c.c. al di fuori dell’ambito in cui è prevista e, quindi, nel negare la possibili‑ tà di estendere la disciplina dei vantaggi compensativi prevista per il reato di infedeltà patrimoniale anche ai reati di banca‑ rotta, che, oltretutto, rappresentano un sottosistema di collo‑ cazione extracodicistica 28. Le motivazioni di una simile posizione potrebbero essere sostanzialmente affidate alle seguenti argomentazioni giuri‑ diche. In primo luogo, i reati di infedeltà patrimoniale, da un lato, e quelli di bancarotta, dall’altro, sono volti alla tutela di una diversa oggettività giuridica e, rispettivamente, il primo tende alla tutela del patrimonio sociale, mentre i secondi alla tutela della garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c. In secondo luogo, si evidenzia pure una diversa natura dei medesimi, il primo reato di danno, gli altri reati che espongo‑ no a pericolo le ragioni creditorie. In terzo luogo, si insiste molto pure sulla autonomia sog‑ gettiva delle imprese appartenenti al gruppo. Ciò comporte‑ rebbe che, mentre nel reato di infedeltà patrimoniale il van‑ taggio compensa il danno con riferimento al patrimonio nella singola società sulla quale si andranno a rivalere i cre‑ ditori, in quanto essa riceve vantaggio dall’appartenenza al gruppo; in presenza di una operazione criminosa che deter‑ mini la bancarotta della singola società appartenente al gruppo, i creditori di quest’ultima comunque non potranno che rivalersi sul patrimonio sociale della singola impresa pregiudicata, non essendo aggredibile in alcun modo il patri‑ monio di altre imprese. Sicché, qualora si determini la banca‑ rotta, il pregiudizio resterebbe inevitabilmente in capo ai creditori senza che essi possano rivalersi sul gruppo o su altre imprese appartenenti al medesimo. Da ultimo, il vantaggio compensativo, come si è detto, presuppone necessariamente un conflitto di interessi, il quale non può ritenersi in re ipsa in ogni atto a nocumento della controllata e a vantaggio di altra o del gruppo29. La Suprema Corte, prendendo posizione sulla questione, all’indomani dell’entrata in vigore della legge si è attestata su tesi restrittive, affermando che “Il vantaggio compensativo non può, tuttavia, andare oltre la sfera dell’infedeltà patrimo‑ niale per la quale è previsto e non è, dunque, applicabile all’ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria riguardante una società collegata o appartenente al gruppo, in quanto il fenomeno del collegamento societario non vulnera il principio dell’autonomia soggettiva delle società interessate ed il falli‑ mento di una di esse prescinde dalla considerazione degli in‑ teressi del gruppo societario”30. 28Si è, infatti, da subito chiaramente affermato che “Il vantaggio compensativo che, ai sensi dell’art. 2634, comma 3, c.c. esclude l’ingiustizia del profitto nell’infedeltà patrimoniale, non opera oltre tale fattispecie, e men che meno nella bancarotta fraudolenta, la quale prescinde dalla considerazione degli in‑ teressi del gruppo societario unitariamente considerato”. Così Cass. pen., Sez. IV, n. 641 del 24 aprile 2003. 29Sul punto si veda la più volte richiamata sentenza della V Sez. Cass pen., 24 aprile 2003, n. 23241, in materia di gruppi societari. 30 Così la già citata Cass. pen., Sez. V, 24 aprile 2003, n. 23241. 4.2. Possibili aperture della giurisprudenza Negli anni successivi, in vero, il massimo organo nomofi‑ lattico è tornata ad occuparsi della questione in numerose pronunzie31. Anch’esse, prima facie, appaiono negare la sussi‑ stenza nella fattispecie concreta della ipotesi dei vantaggi compensativi; resta, però, da chiedersi quale sia la posizione assunta dalla giurisprudenza rispetto alla astratta applicabilità della norma in esame alle ipotesi di bancarotta fraudolenta32. In altri termini, i recenti attestamenti giurisprudenziali eviden‑ zierebbero come la Corte – nell’escludere nel caso sottoposto alla sua attenzione la ricorrenza degli estremi della compensa‑ zione – in modo più o meno esplicito presupponga l’applicabi‑ lità della clausola sui gruppi di società anche al di fuori dell’ipo‑ tesi criminosa per cui è prevista e, segnatamente, in materia di reati fallimentari. E ciò, ancorché, mutatis mutandis, le valu‑ tazioni da compiere in ordine alla sussistenza di tali vantaggi nei reati di bancarotta assumano profili peculiari, anche in considerazione della diversità dei beni giuridici tutelati. Sicché, anche in tale ambito potrebbe darsi rilevanza, entro certi limi‑ ti e nell’ottica dell’integrità dell’interesse creditorio, alla logica del gruppo. La prima pronunzia esplicita al riguardo risale al 200633. In essa, al punto 6 della lettera C), intitolato per l’ap‑ punto “L’interesse di gruppo”, il Collegio precisa, in primo luogo, che i c.d. vantaggi compensativi sono definibili quali quei vantaggi di cui “un singola società sarebbe in grado di fruire in conseguenza della sua appartenenza ad un più ampio gruppo d’imprese: della possibilità, insomma, che da un’ope‑ razione orchestrata dalla controllante e intesi vantaggiosa per il gruppo discenda per la controllata una indiretta utilità idonea a neutralizzare l’apparente pregiudizio ad essa arrecato”. Chia‑ rito quanto innanzi, la Suprema Corte afferma expressis verbis che “con riferimento ai fatti di disposizione patrimoniale con‑ testati come distrattivi o dissipativi, siffatta eventualità è da ritenere in astratto ammissibile”. E ciò in quanto “non può non riconoscersi (…) che la previsione dell’art. 2634 c.c., comma 3, conferisce valenza ‘normativa’ a principi già desumibili dal sistema, in punto di necessaria considerazione della reale of‑ fensività della condotta tanto gravemente sanzionata dalle norme fallimentari. A conferma della necessità di inserire (co‑ me è stato rilevato dalla dottrina) il rapporto di gruppo ‘nella lista delle circostanze da ponderare in sede di verifica della sussistenza della condotta tipica della distrazione, non potendo in materia l’analisi giuridica andare comunque distinta da quella economica della vicenda”. 31Al riguardo, basti pensare a Cass. pen., Sez. V, 18 novembre 2004, n. 10688; Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 2006, n. 36764; Cass. pen., Sez. V, 22 febbraio 2007; Cass. pen., Sez. V, 15 marzo 2007, n. 11019; Cass. pen., Sez. V, 4 dicem‑ bre 2007; Cass. pen., Sez. V, 15 febbraio 2008, n. 7326. 32Parte della dottrina ha, infatti, evidenziato come, nella maggior parte delle pronunzie richiamate la Corte di Cassazione ribadisce “sia pur in termini assai cauti (…) il proprio più recente indirizzo, circa la possibilità di ‘esportare’ la teoria dei vantaggi compensativi in territorio penale fallimentare”, pur esclu‑ dendo che “vantaggi di tal genere fossero ipotizzabili nel caso di specie, giacché i trasferimenti privi di contropartita erano stati effettuati da una società in difficoltà economiche, a favore di società che versavano in analoghe difficoltà. Situazione nella quale non si sarebbe potuta prefigurare alcuna ‘utilità di ritor‑ no’ futura, connessa all’appartenenza al medesimo gruppo, atta a compensare il depauperamento patrimoniale imposto nell’immediato alla società sfavorita” Napoleoni, Le mariane qui a mal tournè: lo strano caso dell’infedeltà patrimo‑ niale e della bancarotta “da reato societario”, nota alla già citata sentenza della Cass. pen., 7326/2008, in Cass. Pen., 2009, I., p. 294 e ss. 33 Ci si riferisce alla già ricordata Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 2006, n. 36764. penale F O R E N S E 56 D i r i t t o e p r o c e d u r a Ciò posto, la Corte individua l’oggetto dell’accertamento relativo alla sussistenza in concreto dell’offensività precisando che, al riguardo, risulta necessario verificare: 1) la sussistenza di vantaggi compensativi; 2) la sussistenza di una effettiva connessione tra gli ipotizzati benefici indiretti ed il vantaggio complessivo del gruppo; 3) l’idoneità di tali benefici a com‑ pensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta, privandola del carattere lesivo del bene giuridico tutelato che, nel caso dei reati fallimentari, è ravvisato negli interessi dei creditori34. In altri termini, dun‑ que, la sussistenza di vantaggi compensativi in tale ambito si riverbera in una peculiarità dell’oggetto dell’accertamento legata a sua volta allo specifico oggetto di tutela avuto di mira dal legislatore con l’incriminazione della bancarotta. La Corte, dunque, parrebbe prendere indirettamente posi‑ zione anche sulla natura della clausola sui vantaggi compensa‑ tivi, ritenendola espressione del più generale principio di offen‑ sività35 e, subito di seguito, parrebbe precisare che, movendosi dal contesto dei reati contro il patrimonio a quello dei reati di bancarotta, la valutazione circa l’idoneità offensiva andrebbe condotta tenendo presente l’interesse dei creditori36. La Corte, in conclusione, non esclude l’astratta rilevanza anche per i reati di bancarotta della logica del gruppo, ma precisa i limiti entro i quali può considerarsi rilevante l’inte‑ 34Per ricordare le parole usate dalla Corte nella pronunzia in esame “proprio il fatto che siffatta analisi ha lo scopo di verificare l’offensività in concreto della condotta rende evidente che nono è sufficiente, al fine di escludere la ricondu‑ cibilità di un’ operazione diminuzione patrimoniale senza apparente corrispet‑ tivo ai fatti di distrazione o dissipazione incriminabili, la mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi, ma occorre che gli ipotizzati benefici in‑ diretti della fallita risultassero non solo effettivamente connessi ad un vantaggio compensativo del gruppo, ma altresì idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta: in guisa tale da non renderla capace d’incidere (perlomeno nella ragionevole previsione dell’agente) sulle ragioni dei creditori della società” 35 Appare doveroso precisare, tuttavia, che in altre pronunzie successive, la Su‑ prema Corte, pur senza soffermarsi specificamente sulla questione relativa alla natura della clausola in esame per dirimerla espressamente, qualifica quella dei vantaggi compensativi come “scriminante”. Sul punto cfr, da ultimo, Cass., Sez. V, 5 novembre 2008, n. 41293, su cui si avrà modo di tornare di qui a breve. 36Ponendosi in un ottica di offensività, tuttavia, non risulta limpidissimo il pas‑ saggio poc’anzi riportato per inciso in parte motiva e relativo alla “ragionevo‑ le previsione dell’agente”. Chiaro essendo che l’animus dell’agente non potreb‑ be elidere l’offensività della condotta, probabilmente la Corte intende dire che, sia pure in presenza di una condotta offensiva, idonea a causare la bancarotta dell’impresa, e sia pure in presenza di un nesso materiale tra reato societario e bancarotta, la previsione di un vantaggio compensativo da parte dell’agente dovrebbe ritenersi incompatibile con il dolo di bancarotta. Le strade che astrat‑ tamente potrebbero seguirsi al riguardo sono due. Innanzitutto, l’art. 216 l. fall. richiede, per il reato di bancarotta, che il soggetto attivo abbia agito allo scopo di recare pregiudizio alle ragioni dei creditori, sicché, ci si potrebbe chiedere se un simile elemento psicologico sia richiesto pure nell’ipotesi di cui all’art. 223, concludendo che, in caso di risposta positiva, in presenza di vantaggi compen‑ sativi dovrebbe escludersi il descritto dolo specifico. Diversamente si potrebbe ragionare in termini di struttura del reato ricordando che attualmente è richie‑ sta la sussistenza di un nesso materiale tra reato societario e dissesto; ciò posto ci si potrebbe chiedere se esso debba essere affiancato anche un nesso psichico. A tale ultimo riguardo, senza voler in alcun modo ripercorrere in tal sede gli esiti delle diverse opzioni ermeneutiche sorte prima delle modifiche legislative in commento, la questione appare a chi scrive risolvibile alla luce dei principi generali. Infatti, se è vero che l’elemento psicologico deve coprire tutti i tratti essenziali della fattispecie oggettiva, non vi è dubbio che inserire tra gli elemen‑ ti di quest’ultima il descritto nesso causale, significhi richiedere che lo stesso sia presente nella rappresentazione dell’agente, affinché possa ritenersi perfeziona‑ ta la fattispecie soggettiva del fatto tipico. Pertanto, affermare che l’agente si sia rappresentato la presenza di vantaggi compensativi in nesso con la distra‑ zione, potrebbe equivalere a sostenere che egli non si sia rappresentato la sus‑ sistenza di un nesso tra la propria condotta e il dissesto, impedendo il perfezio‑ namento della fattispecie soggettiva del fatto tipico. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E resse del gruppo per i reati de quibus, in considerazione della rilevanza da attribuire al bene giuridico da essi precipuamen‑ te tutelato37. La massima che, pertanto, si è tratta da tale sentenza è quella secondo cui nei trasferimenti infragruppo il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione resta escluso se, con valutazione ex ante, i benefici indiretti per la società fallita si dimostrano idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi, sì da rendere l’operazione incapace di incidere sulle ragioni dei creditori della società. Sulla stessa scia si pone anche altra successiva decisione del 2007, la quale nel rimarcare il limite posto dall’autonomia soggettiva, va oltre nel ravvisare la disposizione di cui al co. 3 dell’art. 2634 un presidio posto anche a tutela dei creditori38. La Suprema Corte torna ad occuparsi del tema dei trasfe‑ rimenti infragruppo nel 2008 assumendo una decisione a ben vedere conforme al proprio orientamento39. In parte motiva è dato leggere che “Sia secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità formatasi prima della riforma societaria, sia secon‑ do quella successiva alla introduzione delle nuove norme, che concedono senz’altro qualche possibilità in più a siffatte ope‑ razioni, il trasferimento di risorse infragruppo, ovvero tra società appartenenti allo stesso gruppo imprenditoriale, spe‑ cialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società già in difficoltà economiche, non è consentito e deve essere qualificato come vera e propria distrazione ai sensi e per gli effetti della l. Fall. art. 226”. Tale affermazione, evidentemen‑ te, non può essere colta e compresa pienamente, se non alla luce di tutto quanto si è sin qui argomentato circa l’astratta rilevanza dell’interesse del gruppo. Infatti, la V sez., ad atten‑ to esame, non sembra rinnegare i propri esiti ermeneutici, quanto, piuttosto, precisarne i contenuti. La Corte, dunque, intende chiarire che nell’ipotesi in cui il trasferimento infra‑ gruppo sia operato a favore di una società in dissesto, non appare verosimile con giudizio ex ante che l’amministratore abbia posto in essere una operazione in concreto orientata al perseguimento di vantaggi compensativi. In altri termini, se il trasferimento è effettuato in presenza delle descritte circo‑ stanze (cioè a favore di una società in disseto), deve escluder‑ si la possibilità che nel caso concreto ricorrano vantaggi compensativi. Non tutti i trasferimenti infragruppo, dunque, sono di per sé vietati in quanto riconducibili al reato di ban‑ carotta fraudolenta per distrazione. Ma se si giunge ad una valutazione concreta, coerentemente, si presuppone l’astratta ammissibilità degli stessi40. 37Si tratta, in altri termini, di individuare i limiti entro cui può essere sacrificato l’interesse della singola a favore dell’interesse del gruppo, operando un bilan‑ ciamento che tenga conto dell’autonomia soggettiva che caratterizza le società ad esso appartenenti. 38 Ci si riferisce a Cass. pen., Sez. V, 15 marzo 2007, n. 11019 la quale espressa‑ mente afferma che “il panorama normativo è decisamente mutato (…) Né il Collegio ritiene esistere assoluta incompatibilità tra le disposizioni codicistiche e la fattispecie della bancarotta fraudolenta impropria. A quest’ultimo propo‑ sito, invero, la corte osserva che la tutela del patrimonio dispiegata dall’art. 2634 c.c., si traduce non soltanto nella (indiretta) protezione degli interessi dei soci, ma anche dei creditori, che nell’asse attivo societario, rinvengono la ga‑ ranzia alla soddisfazione delle proprie pretese (art. 2740 c.c.) e che, inoltre, l’evento di danno, previsto quale momento consumativo del delitto di infedeltà patrimoniale, può agevolmente compararsi al dissesto (a cui consegue un’alta probabilità di insoddisfazione nel recupero della pretesa), che analoga funzione riveste in seno alla l. fall., art. 223, co.2, n.1” 39 Ci si riferisce a Cass. pen., Sez. V, 15 febbraio 2008, n. 7326. 40Una simile conclusione sembra avallata anche dal ragionamento esplicato F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o Ciò in realtà non meraviglia più di tanto ove si ricordi che assai di frequente in presenza di un mutamento di orienta‑ mento giurisprudenziale, anche al fine di mitigarne le conse‑ guenze, si comincia ad affermare l’astratta ammissibilità della regola, pur negandone la ricorrenza nel caso concreto. A conclusioni non dissimili conduce anche l’esame di altre pronunce emanate dalla Suprema Corte nello stesso anno 41. dalla Corte nel prosieguo. “È sufficiente ricordare, invero, che le società, pur appartenendo allo stesso Gruppo, sono persone giuridiche diverse e, pertanto, i creditori della società depauperata mai potrebbero rivalersi dei loro crediti inseguendo i beni ceduti da una società ad una altra dotata, ovviamente di una autonoma personalità giuridica. Insomma la garanzia dei creditori è data pro‑ prio dal patrimonio sociale, che viene depauperato allorché vengano effettuati trasferimenti di beni ad altra società, con conseguente diminuzione della garan‑ zia. Si può obiettare che se la prognosi dell’operazione è fausta, nel senso che ne potrebbero trarre benefici entrambe le società, con conseguente beneficio anche per i creditori, non vi sono gli estremi, alla luce del nuovo diritto socie‑ tario, per considerare quella operazione come distrattiva. Può anche trattarsi di un ragionamento di una certa consistenza, che, però, non può essere richia‑ mato quando il trasferimento di beni avvenga da una società già in difficoltà economica ad altra società che versi in analoghe difficoltà. Invero in siffatte situazioni nessuna prognosi positiva è possibile e, quindi, l’operazione di tra‑ sferimento di risorse non potrà che essere considerata distrattiva. Anche la più recente giurisprudenza, infatti, ha rilevato che l’introduzione nel nostro ordi‑ namento dell’articolo 2634 c.c. comma 3 non permette di affermare che la presenza di un gruppo societario legittimi per ciò solo qualsiasi condotta di asservimento di una società all’interesse delle altre società del gruppo. Anche dopo la riforma, infatti, l’autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddi‑ stingue ogni singola società impone all’amministratore di perseguire priorita‑ riamente l’interesse della specifica società a cui egli è preposto, non essendogli consentito di sacrificare l’interesse in nome di un diverso interesse anche se ri‑ conducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo e che non procure‑ rebbe riflesso alcuno a favore dei terzi creditori dell’organismo impoverito (vedi Cass. Civ., Sez. I, 24 agosto 2004 n. 16707; Cass., Sez. V penale 22 feb‑ braio 2007 – 15 marzo 2007, n. 11019, Pollice). Altra recente decisione ha ricordato, inoltre, che nei trasferimenti infragruppo il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione resta escluso soltanto se, con valutazione ex ante, i benefici indiretti per la società fallita si dimostrino idonei a acompensare effi‑ cacemente gli effetti immediatamente negativi, si da rendere l’operazione inca‑ pace di incidere sulle ragioni dei creditori della società (Cass., Sez. V penale, 24 maggio 2006 – 7 novembre 2006, n. 36764, Bevilacqua ed altri). A ben vedere il concetto espresso con tale indirizzo non è dissimile da quello contenuto nella decisione più volte richiamata dal ricorrente a sostegno della sua tesi. Infatti anche la sentenza di Cass., Sez. V penale, 6 ottobre 1999, n. 12897 ha chiarito che è possibile ritenere legittimo e non punibile quel trasferimento di capitali o di altre attività da una società all’altra, allorché sia giustificato da un corretto rapporto obbligatorio assistito da adeguata contropartita e da garanzie idonee a salvaguardare gli interessi tutelati dalla norma contenuta nell’articolo 216 del RD 16 marzo 1942, n. 267)”. Chiarito quanto innanzi in punto di diritto la sentenza passa ad escludere la sussistenza di vantaggi compensativi in punto di fatto, precisando che “Orbene, secondo quanto è lecito desumere dalle due sentenze di merito, il trasferimento del bene in discussione è avvenuto senza alcuna contropartita economica ed a vantaggio di una società in difficoltà economiche; quindi non era assolutamente possibile operare, nel momento in cui è stata disposta, una prognosi fausta della operazione”. 41 Ci si riferisce a Cass. pen., 22 ottobre 2008, n. 39546 e Cass. pen, Sez. V, 5 novembre 2008, n. 41293. La prima, in realtà, a ben vedere riproduce in ma‑ niera quasi pedissequa gli esiti della precedente Cass. 7326 del 2008. In parti‑ colare, nella massima che da essa è stata tratta è dato leggere proprio che “Il trasferimento di risorse infragruppo, ovvero tra società appartenenti allo stesso gruppo imprenditoriale, specialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società già in difficoltà economiche, non è consentito e deve essere qualifi‑ cato come vera e propria distrazione ai sensi e per gli effetti previsti dall’art. 216, comma 1, n.1, l. fall., giacché le società, pur appartenendo allo stesso gruppo, sono persone giuridiche diverse e, pertanto, i creditori della società depauperata mai potrebbero rivalersi dei loro crediti inseguendo i beni ceduti da una società ad un’altra dotata di un’autonoma personalità giuridica, posto che la garanzia dei creditori è data proprio dal patrimonio sociale, che viene depauperato dal trasferimento di quei beni ad un’altra società, con conseguen‑ te diminuzione della garanzia patrimoniale”. Sicché, ancora una volta, una prima lettura sembra fornire indicazioni circa l’inapplicabilità dei vantaggi compensativi in ipotesi di bancarotta a condotte che restano qualificabili come distrazione. Se non fosse per l’inciso “specialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società già in difficoltà economiche” che lascia trasparire, a contrario la possibilità di attribuire penale rilevanza alla logica del gruppo, anche per i reati in parola ove il trasferimento offra possibilità di valutare in termini positivi la sussistenza di una adeguata contropartita all’operazione ef‑ 2 0 1 3 57 Nel 2009 la V Sezione torna, infatti, nuovamente sul punto 42 affermando ancor più esplicitamente che “in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, qualora il fatto si ri‑ ferisca a rapporti intercorsi tra società appartenenti a un medesimo gruppo, l’interesse che esclude l’effettività della distrazione e la configurabilità del reato non può ridursi alla partecipazione al gruppo stesso né identificarsi nel vantaggio della società controllante, in quanto il collegamento tra le società e l’appartenenza a un gruppo imprenditoriale unitario è solo la premessa per individuare uno specifico e concreto vantaggio per la società che compie l’atto di disposizione patrimoniale”43. Essa pare, appunto, confermare le tesi sin qui esposte e consentire di concludere circa la possibilità di valutare, sempre meno timidamente, la sussistenza di vantaggi compensativi in operazioni infragruppo anche al di fuori della ipotesi espres‑ samente prevista dal legislatore. Ciò, tuttavia, nella giurispru‑ denza sembra prescindere dall’assunzione di una posizione dogmatica esplicita in ordine alla natura della clausola sui gruppi di cui al comma 3 dell’art. 2624 e riposare in ragioni di coerenza sistematica. La Suprema Corte, nel 2010, poi, quasi a voler riassume‑ re i propri precedenti e compiere ancora un passo in avanti propendendo per la natura di causa di giustificazione afferma che “Costituisce (…) consolidato orientamento di questa Corte (Sez. 5 n. 10688 del 18 novembre 2004 Rv 230565; Sez. 5, n. 4410 del 4 dicembre 2007 Rv 238237; Sez. 5, n. 1137 del 17 dicembre 2008 Rv 242546; Sez. 5, n. 21251 del 10 febbraio 2010 Rv 247471) che non può ravvisarsi la scrimi‑ nante dei vantaggi compensativi quando il profitto venga tratto dal trasferimento di somme di denaro, come nel caso di specie, da una società già vertente in istato di decozione ad altra che si trovi in analoga condizione patrimoniale, dovendo in tal caso escludersi in radice che la società collegata o il gruppo che entrambe le società costituiscono possano trarre vantaggio alcuno da un’operazione che è e resta eminentemen‑ te distrattiva. Nel caso di specie il ricorrente ha ribadito i motivi già proposti con l’appello, sostenendo che, pacifico in punto di fatto lo stretto rapporto commerciale tra le due so‑ cietà, la Corte territoriale avrebbe dovuto a suo avviso pun‑ tualmente verificare se i trasferimenti patrimoniali non fosse‑ ro stati compensati da vantaggi conseguiti dalla società finan‑ ziatrice in virtù dell’interazione tra le attività delle due socie‑ tà, ma non ha inteso chiarire sulla base di quali elementi og‑ gettivi la prospettata situazione di vantaggio potesse ravvi‑ sarsi, non essendo sufficiente la mera prospettazione di un rapporto, ancorché intenso, tra due società per conseguire per ciò stesso l’elisione dell’ingiustizia dell’operazione distrattiva” (così Cass. pen., Sez. V, sent., ud. 27 maggio 2010, 04 ottobre 2010, n. 35619). fettuata. Quanto alla massima tratta dalla seconda delle richiamate pronunzie, è dato leggere che “Integra il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione l’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo, ancor‑ ché effettuata a favore di società del medesimo gruppo, qualora gli ipotizzati benefici indiretti della fallita non risultino effettivamente connessi ad un van‑ taggio complessivo del gruppo e non siano idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta”. 42 Cfr. Cass. pen., Sez. V, 13 gennaio 2009 n. 1137. 43 Quanto alla disamina dell’iter argomentativo logico‑giuridico seguito dalla Corte, si rinvia in particolare al punto 9 della richiamata pronunzia. penale Gazzetta 58 D i r i t t o e p r o c e d u r a Non può, tuttavia, tacersi che, un diverso orientamento ha fornito una lettura contrapposta delle pronunzie sin qui richiamate, leggendo in esse un atteggiamento restrittivo e negativo della Corte costituente quasi un revirement delle aperture inizialmente prospettate sulla scorta, probabilmente, dell’entusiasmo immediatamente successivo alla codificazione del reato di infedeltà patrimoniale. Il tema, appare di rilevanza tale da non lasciare indiffe‑ rente neppure il legislatore. Ci si riferisce al Disegno di legge delega n. 1741‑C presentato il 2 ottobre 2008 (in www.nuovo. camera.it), il quale, all’art. 2 rubricato “Delega al Governo per la riforma della disciplina penale fallimentare” delegava il Governo “con l’osservanza dei princìpi e criteri direttivi di cui al comma 4, uno o più decreti legislativi recanti la riforma organica della disciplina delle disposizioni penali in materia di procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”, meglio noto come Legge Fallimentare, preci‑ sando al summenzionato co. 4. che “Nell’attuazione della delega di cui al comma 1, il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi: (…) p) prevedere che, agli effetti della legge penale, non è ingiusto il vantaggio dell’impresa collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, consegui‑ ti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”. La delega avrebbe dovuto trovare attuazione entro l’anno. Il progetto, successivamente accantonato, è stato recentemente ripreso ed ancorché appaia meritoria la decisione da parte del Parlamento di intervenire a risolvere normativamente la questione, non possono che riproporsi le doglianze da sempre avanzate dalla dottrina in ordine all’utilizzo dello strumento prescelto quale fonte del diritto penale44. L’intenzione del legislatore delegante appare, dunque, di‑ retta ad uniformare la disciplina prevista in materia di reati fallimentari a quella prevista per il delitto di infedeltà, nelle ipotesi in cui il reato trovi il suo humus all’interno di holding. Un simile intervento normativo, senz’altro auspicabile de jure condendo, da un lato, sarebbe coerente con le scelte di sistema effettuate …, dall’altro, attraverso l’introduzione di una disci‑ plina ad hoc, priverebbe di rilevanza pratica la disputa circa la estensibilità della clausola di cui al co. 3 dell’art. 2634 c.c. 44Per un più analitica disamina delle problematiche più specificatamente attinen‑ ti alla delega contenuta nel disegno legge in esame si rinvia ad Amarelli, La ri‑ forma dei reati fallimentari, cit., p. 201 ss. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 59 ● Sommario: 1. Il “Decreto Crescitalia”: svilire la doppia giurisdizione per sviluppare le imprese; 2. I limiti costituzio‑ nali al filtro in appello; 3. Sviluppare l’organizzazione per non svilire le garanzie. La tutela giurisdizionale dei diritti in tempi di crisi finanziaria. Il “Decreto Crescitalia” ed il riesame delle pronunce giudiziali 1. Il “Decreto Crescitalia”: svilire la doppia giurisdizione per svi‑ luppare le imprese «L’attuale sistema delle impugnazioni è un lusso che non possiamo più permetterci»1. Sarebbero «lo stato disastroso della nostra giustizia civile e le sue gravi ricadute sull’economia»2 ad impedirci di poterne godere ancora, come sostiene il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Ma‑ gistratura. Gli fa eco il Sottosegretario alla Giustizia Salvatore Maz‑ zamuto, ricordando che «i lunghissimi tempi occorrenti per il recupero dei crediti commerciali […] incidono negativamen‑ te sull’efficienza delle nostre imprese e rallentano gli investi‑ menti stranieri»3. Per questo, l’art. 54 del Decreto Legge del 22 giugno 2012, n. 83, recante «Misure urgenti per la crescita del Paese» (c.d. “Decreto Crescitalia” o “Decreto Sviluppo”)4, apporta diverse modifiche alla disciplina delle impugnazioni contenuta nel co‑ dice di procedura civile, in particolare attribuendo al giudice di secondo grado la facoltà di dichiarare inammissibile l’appello, qualora non abbia una ragionevole possibilità di essere accol‑ to. La relazione illustrativa che ha accompagnato il d.d.l. di conversione del decreto de quo si appella agli indici doing business della Banca mondiale, i quali imputano al «sistema delle impugnazioni l’elemento di maggiore inefficienza della giustizia civile italiana e uno dei maggiori disincentivi allo sviluppo degli investimenti nel nostro Paese». Si richiama anche la relazione del Governatore della Banca d’Italia del 31 maggio 2011, nella quale «si stima in un punto percentuale la “perdita annua di prodotto” attribuibile all’inefficienza di questo sistema di gestione del contenzioso»5. Questi, dunque, i motivi per i quali una modifica di na‑ tura strettamente processualistica è inserita in un provvedi‑ mento contenente misure per la crescita del Paese. Il comunicato stampa, relativo alla riunione del Consiglio dei Ministri nel quale è stato approvato il decreto, richiama l’attenzione sugli «effetti positivi anche per il sistema econo‑ mico e per le imprese che operano in Italia» che conseguiran‑ no dalla «deflazione dei carichi di lavoro delle Corti d’appel‑ lo» e dalla «conseguente riduzione dei tempi dei giudizi». Questi risultati saranno raggiunti grazie ai correttivi al pro‑ cesso contenuti nel decreto, da inscriversi in una serie di mi‑ sure perseguite, da tempo, dal Governo, onde evitare le riper‑ ● Rosanna Fattibene Ricercatore di Istituzioni di Diritto pubblico presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Salerno 1 Come dichiara il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura M. Vietti, Una riforma per snellire i processi. Così il sistema attuale va ripensato, in Corriere della Sera, 25 luglio 2012. 2M. Vietti, Una riforma per snellire i processi. Così il sistema attuale va ripen‑ sato, cit. 3In un’intervista rilasciata a P. Maciocchi, Il filtro taglia del 30% le liti civili in appello», in Il Sole 24 ore, 7 agosto 2012. 4Pubblicato in G.U. n. 147 del 26 giugno 2012, supplemento ordinario, e con‑ vertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (G.U. n. 187 dell’11 agosto 2012). 5 Relazione illustrativa del disegno di legge n. 5312, che prevede la conversione in legge del decreto‑legge 22 giugno 2012, n. 83, recante misure urgenti per la crescita del Paese, presentato il 26 giugno 2012, in http://nuovo.camera.it. penale Gazzetta 60 D i r i t t o e p r o c e d u r a cussioni della lentezza della giustizia civile sulla nostra econo‑ mia6. Alla «resistenza culturale di alcuni giudici e avvocati verso un cambiamento di mentalità», nonché all’«opposizione di chi dalle attuali lungaggini delle cause trae benefici, lucran‑ do sui ritardi»7, viene imputata parte della difficoltà ad anda‑ re incontro al cambiamento, ai necessari aggiustamenti dei meccanismi processuali8. Al contrario, gli avvocati, che sono tra i principali attori di questo processo, attraverso il loro organismo di rappresen‑ tanza istituzionale, il Consiglio Nazionale Forense, esprimo‑ no condivisione per le preoccupazioni del Governo circa le ripercussioni della lentezza della giustizia sull’economia del Paese ed, in particolare, sulla capacità attrattiva d’investimen‑ ti stranieri. Il CNF rileva, però, nel parere (negativo) espresso in ordine alla conversione in legge dell’art. 54 del d.l. n. 83/2012, che nessuna delle recenti riforme legislative, com‑ presa quella in parola, «ha anche solo minimamente a che fare con gli interessi delle imprese»9. Per garantire a queste un’azione giudiziaria che assecondi la necessaria celerità delle loro attività vi è «bisogno», piutto‑ sto, «di giudici di primo grado che in tempi celeri decidano sulle loro domande di condanna, sui decreti ingiuntivi e sulle istanze di provvisoria esecutorietà, senza rinvii di 4‑5 mesi della prima udienza nelle opposizioni a d.i., senza rinvii di anni per l’udienza post memorie, senza che le sezioni di Tri‑ bunali e Corti d’appello vengano depauperate da distacchi ministeriali con prospettive di rimpiazzo aleatorie quando non effimere, senza tourbillon di magistrati da sede a sede e da sezione a sezione con i relativi trasferimenti dei ruoli»10. Secondo le previsioni dell’organismo nazionale dell’Avvo‑ catura, le misure azionate dal Governo allungheranno, anzi, i tempi della giustizia ulteriormente, con la conseguenza di penalizzare proprio quelle attività imprenditoriali a favore delle quali le modifiche normative sono state varate. Invero, questa predominante preoccupazione del legisla‑ tore per l’attività economica e commerciale, tanto da funzio‑ nalizzare gli interventi normativi sull’andamento del processo ai benefici che le aziende ne ricaveranno, inficia la correttezza del suo agire, fino alla mancata osservanza del principio di uguaglianza. Non vi è chi neghi che l’attività imprenditoriale sia un nerbo fondamentale del Paese. 6Comunicato stampa relativo al Consiglio dei Ministri n. 35 del 15 giugno 2012, in www.governo.it. 7M. Vietti, Una riforma per snellire i processi. Così il sistema attuale va ripen‑ sato, cit. 8 Con ironia, G. Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, in www.judicium.it, commenta: «Da una serie di norme, tutte urgenti e ad effetto immediato, proposte dal Governo dei tecnici ed approvate dal Parlamento, gli studiosi del processo civile (che non sono né tecnici né esperti da tenere in considerazione) hanno appreso non senza stupore come tra le cause determi‑ nanti dell’attuale e pesantissima crisi economica vi fossero le tariffe dei liberi professionisti, specialmente quelle degli avvocati, ed il diritto di azione in virtù del quale ognuno può rivolgersi al giudice civile per la tutela delle proprie ra‑ gioni. Quel diritto, cioè, che ingenuamente una norma costituzionale (in tempi passati notoriamente floridi: 1948!) si preoccupò di garantire a tutti i cittadi‑ ni». 9Parere del Consiglio Nazionale Forense relativo alla conversione in legge dell’art. 54 del d.l. n. 83/2012, 22 giugno 2012, in www.consiglionazionaleforense.it. 10Parere del Consiglio Nazionale Forense del 4 luglio 2012, relativo alla conver‑ sione in legge dell’art. 54 del d. l. n. 83/2012, 22 giugno 2012, cit. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Il processo, però, è la sede in cui si azionano i diritti, tutti e di ogni natura, purché riconosciuti dall’ordinamento giuridico e, pertanto, meritevoli del secondo livello di prote‑ zione11. È il luogo nel quale «tutti possono agire»12 per otte‑ nere tutela giudiziale, senza preferenze né priorità da rispet‑ tare. Alle norme processuali va il compito di regolarne l’an‑ damento in modo da assicurare la piena soddisfazione dell’istanza di giustizia di tutti, senza distinzioni. Non è infondato, pertanto, rilevare e temere che la valen‑ za di pienezza e di uguaglianza espressa dalla norma cardine dell’agire giudiziario a livello costituzionale sia lesa da una normazione – per giunta d’urgenza – “pensata” per una spe‑ cifica categoria (il mondo delle imprese e degli imprenditori), che, per quanto fondamentale nell’economia nazionale, è pur sempre portatrice di una visione parziale degli interessi. La primazia della “celerità”, a discapito della garanzia di (maggiore) correttezza della pronuncia giudiziale assicurata dall’appello, è il segno della considerazione che, nell’innovare la dinamica processuale, è stata rivolta ad uno solo degl’inte‑ ressi in campo. Se il “fattore tempo”, nell’attività imprenditoriale, riveste quella particolare importanza in grado di compensare il rischio di un eventuale vulnus al pieno soddisfacimento dell’istanza di giustizia, non lo è altrettanto per «tutti» gli altri possibili soggetti del giudizio. Per questi, che non sono attori del mondo economico‑finanziario o che sono coinvolti in vicende giudi‑ ziarie che non lo riguardano, il “tempo” non assume un valo‑ re altrettanto elevato da rendere accettabile lo svilimento del sistema delle impugnazioni e delle sue garanzie. Evidentemente, la logica ispiratrice delle misure per la giustizia civile assunte dal d.l. n. 83/2012 è che le garanzie (delle impugnazioni, in questo caso) sono un “lusso” che gli Italiani non possono permettersi in tempi di crisi finanziaria: i diritti come beni voluttuari. 2. I limiti costituzionali al filtro in appello Tra le misure sulla giustizia civile assunte dal decreto n. 83/2012, esamineremo l’istituto dell’inammissibilità dell’ap‑ pello, pur ricordando che il secondo grado di giudizio e tutto il sistema delle impugnazioni sono variamente interessati da que‑ ste recenti disposizioni, così come lo è la legge sull’equa ripara‑ zione in caso di violazione del termine ragionevole del proces‑ so13. Per la precisione, la dichiarazione d’inammissibilità può intervenire solo dopo che le parti siano state sentite in merito, in prima udienza14, per assumere la forma dell’ordinanza succintamente motivata, anche mediante elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa ed il riferimento a prece‑ denti conformi. Nel caso d’inammissibilità, avverso il prov‑ vedimento di primo grado può essere proposto ricorso per 11La tutela giurisdizionale è il secondo livello di protezione delle posizioni giuri‑ diche riconosciute dall’ordinamento giuridico, che interviene solo dopo che abbiano fallito, in quanto violate, le nome poste a loro riconoscimento e salva‑ guardia. Per questa ricostruzione, v. A. Police, Sub Art. 24, in a cura di R. Bi‑ fulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, I. Artt. 1‑54, Torino, 2006, pp. 503, 504. 12Secondo l’amplissima formula adottata dall’art. 24 Cost. 13 Legge 24 marzo 2001, n. 89. 14 Quest’udienza‑filtro è stata introdotta con un emendamento approvato in fase di discussione per la conversione in legge del decreto in parola. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 61 Cassazione15. Molteplici critiche sono state mosse al c.d. filtro in appel‑ lo, talune di natura puramente processualistica, altre mag‑ giormente preoccupate dell’ulteriore limitazione alla tutela giurisdizionale dei diritti che ne consegue. Le censure del primo tipo colgono diversi aspetti della novella, dalla confusione concettuale tra inammissibilità ed infondatezza in cui incorre il legislatore16, alla complicata convivenza dell’ordinanza filtro con la sentenza contestuale17, alla motivazione dell’appello, che, nella nuova determinazione, ripete, in realtà, quanto già acquisito dal diritto vivente18. Riguardo alla dichiarazione d’inammissibilità, in partico‑ lare, si lamenta la mancata «distribuzione selettiva del potere liminare di ricusare gli appelli manifestamente infondati»19, nonché la discrezionalità del giudicante a cui essa è rimessa 20, acuita dall’ambiguità della formula della «ragionevole proba‑ bilità» dell’accoglimento dell’istanza di appello21. Tale valuta‑ zione richiederà che il processo di appello si svolga in più udienze, piuttosto che essere definito in un’udienza unica, come pur sarebbe stato possibile prima della riforma 22. Viene rilevata anche l’incogruità insita nella non ricorribi‑ lità in Cassazione di un’«ordinanza succintamente motivata di inammissibilità dell’appello, che ha la sostanza decisoria di una sentenza e che contiene anche la condanna alle spese ex art. 91 c.p.c.», rispetto alla ricorribilità della relativa sentenza di primo grado, per quei motivi che, alla prima valutazione, non hanno mostrato ragionevoli probabilità di accoglimento23. Infine, in contraddizione con l’intento deflativo della ri‑ forma, si paventa l’aggravio del carico di lavoro della Corte di cassazione, presumibilmente determinato dall’immediata ricorribilità della sentenza di primo grado24. Queste incoerenze e difficoltà di coordinamento trovano il loro humus in una stratificazione di tentativi – talvolta ri‑ masti tali, talaltra riusciti ‑, sfuggenti ad un disegno unitario e razionale. Tra i provvedimenti che, negli ultimi anni, sono stati tesi a velocizzare l’andamento processuale, vi si ritrova, costante‑ mente, un “attentato” all’appello, nel processo civile e, più significativamente, in quello penale. Dall’inappellabilità della sentenza di proscioglimento da parte del P.M. 25 al c.d. processo breve26, dalla motivazione sintetica della sentenza27 all’abbattimento dei tempi d’impu‑ gnabilità di quella di primo grado28 nel processo civile, dalla dichiarazione d’impugnazione nel processo penale29 all’aggiun‑ ta di un nuovo comma all’art. 111 Cost. sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento30, il doppio grado di giudizio è stato estenuato da continue ansie di rimodellamento. Ne rimane coinvolto anche il livello costituzionale delle garanzie. Se il doppio grado di giudizio possa vantare o meno un fondamento costituzionale è questione dalla soluzione né immediata, né piana. Si tratta di un tema che, a torto, non ha suscitato partico‑ lare interesse nella dottrina costituzionalistica ed in quella processualistica. Il vivace confronto sulla possibilità ed oppor‑ tunità delle modifiche al codice di procedura civile disposte dall’attuale governo ne comprova l’importanza e l’attualità. Interrogarsi sul fondamento costituzionale della doppia giurisdizione serve, infatti, a definire gli ambiti di garanzia che devono essere rispettati dal legislatore ordinario nel rifor‑ mare le dinamiche processuali. La ricaduta pratica dell’irrile‑ vanza o, di contro, della rilevanza costituzionale del doppio grado di merito sta, rispettivamente, nella possibilità o nel divieto, per il legislatore ordinario, di restringere l’applicazio‑ ne del principio. La natura costituzionale del doppio grado di giudizio ammette una limitazione solamente in conseguenza di un’ope‑ razione di bilanciamento con altri beni o valori di pari rile‑ vanza. Se lo si considerasse, invece, “solamente” garanzia di giustizia, come pure è dovuto in base alla storia dell’istituto31, non sarebbe comunque sopportabile qualsivoglia elisione del principio: il sacrificio, se necessario, dovrà contenersi «entro limiti tanto ristretti da essere avvertito come tollerabile»32. Sebbene l’appello sia meccanismo processuale radicato in tutti gli Stati moderni, va anche registrata una tendenza ad esso sfavorevole, che si estrinseca nell’apportarvi deroghe ed eccezioni. Vi è sottesa la preoccupazione che l’appello allunghi ulteriormente i già insopportabili tempi processuali ed aggra‑ vi il già insostenibile carico di lavoro degli uffici giudizia‑ 15L’inciso «nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto d’appello» è stato soppresso dalla Camera con la legge di conversione del decreto. Sul punto, v. A. Porracciolo, Filtro in appello, parti da sentire, in Il Sole 24 ore, 6 agosto 2012. 16 Denunciata, in particolare, dall’Unione Camere Civili. V. L’unione Camere Civili boccia il filtro in appello, 31 luglio 2012, in www.leggioggi.it. 17 G. Tona, Il «filtro» vince sulla sentenza breve, in www.ilsole24ore.it. 18 G. Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, 10 settembre 2012, n. 3, in www.treccani.it. 19 F. Auletta, Filtro in appello senza ostacoli in Costituzione, 21 giugno 2012, in www.ilsole24ore.it, per il quale soltanto «un collegio distrettuale avrebbe posto senz’altro le condizioni per un’effettiva garanzia di congruità e uniformità di tale giudizio». 20L. Viola, Il nuovo appello filtrato: riflessioni sulla ragionevole probabilità di accoglimento, 20 agosto 2012, n. 2.1, in www.altalex.com. 21L. Viola, Il nuovo appello filtrato: riflessioni sulla ragionevole probabilità di accoglimento, cit. 22 G. Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, cit. 23Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, cit. 24 R. Caponi, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, n. 3, in www.judicium.it. 25L. 20 febbraio 2006, n. 46, recante «Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento». La Corte costi‑ tuzionale, con sent. n. 26/2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della limitazione posta dalla norma all’appello del Pubblico Ministero. 26 D.d.l. AS n. 1880, recante «Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione e dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uo‑ mo e delle libertà fondamentali», comunicato alla presidenza del Senato il 12 novembre 2009. 27Voluta dalla legge di riforma del processo civile del 18 giugno 2009, n. 69. A seguito di questa novella, la motivazione non ripercorre più pienamente il percorso argomentativo seguito dal giudice, nonostante l’importanza che la sua conoscenza assume nella decisione sull’opportunità di proporre appello. 28 Disposto anch’esso dalla l. n. 69/2009. 29Prevista dall’art. 8, comma 1, lett. b, del disegno di legge di riforma del proces‑ so penale, n. 1440/S. 30 Come prevedeva il d.d.l. cost. C. 4275 di «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione», approvato dal Consiglio dei Ministri del 10 marzo 2011. 31E.F. Ricci, voce Doppio grado di giurisdizione (principio del). I) Diritto proces‑ suale civile, in Enc. giur., XII, Roma, 1989, p. 4. 32E.F. Ricci, voce Doppio grado di giurisdizione (principio del). I) Diritto proces‑ suale civile, op. loc. citt. penale Gazzetta 62 D i r i t t o e p r o c e d u r a riAll’inverso, la dottrina più recente33 va persuadendosi del fondamento costituzionale del doppio grado di giudizio, pur timidamente e con argomentazioni parzialmente diverse. La mancanza di una norma costituzionale – al di fuori dell’ambito del processo amministrativo – che contempli esplicitamente il doppio grado di giudizio non è preclusiva di questo convincimento, potendosi ricercare un addentellato costituzionale anche in norme che non prevedano affatto il principio o il relativo istituto processuale. In particolare, può sostenersi l’esistenza di un nesso di stretta strumentalità tra la doppia giurisdizione ed il diritto di difesa, nella misura in cui il primo “serve” alla piena ed effettiva realizzazione del secondo, nell’ampiezza espressa dall’incipit dell’art. 24 Cost. Agendo o difendendosi in giudizio, la parte manifesta il bisogno di tutela di un diritto o di un interesse legittimo leso, che la funzione giurisdizionale, investita di tale richiesta, può soddisfare con l’assunzione di una pronuncia pienamente “adeguata”, formatasi attraverso un procedimento. Questo carattere di “adeguatezza” che la sentenza deve avere richiede che essa sia corretta nel merito e nella forma. Essendo (umanamente) possibile che degli errori, in proceden‑ do ed in judicando, affliggano la prima pronuncia, il secondo grado di giudizio costituisce una possibilità di riparazione; anzi, “la” possibilità di riparazione. Vi si aggiunge – è vero – il giudizio di cassazione, che, però, è giudizio a critica vincola‑ ta e di sola legittimità34. Il metodo dell’appello è, infatti, quello proprio di ogni disciplina scientifica, per il quale, attraverso l’indagine, si raggiunge la maggiore conoscenza possibile dei fenomeni e degli eventi. Il secondo giudice può giovarsi appieno dell’«esperienza del primo giudizio»35, in quanto «non parte dalla massa ag‑ grovigliata dei fatti, su cui verté la prima investigazione, ma criticamente muove da quel primo risultato, in cui l’indagine fu riassunta in sede di provvisoria elaborazione»36. Può essere sostituita, pertanto, la seconda pronuncia alla prima, «non tanto perché il primo giudice ha giudicato male, ma benché il 33Ex plurimis, G. Serges, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel si‑ stema costituzionale italiano, Milano, 1993, spec. p. 97 ss. e p. 273 ss.; M. Menna, Il giudizio d’appello, Napoli, 1995, pp. 28‑49; G.L. Verrina, Doppio grado di giurisdizione, convenzioni internazionali e Costituzione, in Av.Vv., Le impugnazioni penali. Trattato diretto da A. Gaito, Torino, 1998, pp. 150‑152; A. De Caro, «Doppio grado di giurisdizione» ed efficienza del processo penale, in Studium Iuris, 1999, pp. 947‑951; A. Gaito (a cura di), La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, Torino, 2006, p. 18 ss.; I. Nico‑ tra Guerrera, Doppio grado di giudizio, diritto di difesa e principio di certezza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, pp. 134‑138, 141‑144; G. Tranchina, G. Di Chiara, voce Appello (dir. proc. pen.), in Enc. dir., III Agg., Padova, 1999, p. 202 ss.; M. Pivetti, Per un processo civile giusto e ragionevole, in cura di M.G. Civinini, C.M. Verardi, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, Milano, 2001, p. 65 ss.; T. Padovani, Il doppio grado di giuri‑ sdizione. Appello dell’imputato, appello del P.M., principio del contraddittorio, in Cass. Pen., 2003, p. 4027; A. Masaracchia, Quando il doppio grado di giurisdizione è imposto da «ineludibili principi costituzionali», in Giur. cost., 2005, p. 639 ss. 34Per questa tesi, sia consentito rinviare a R. Fattibene, Il doppio grado di giudi‑ zio tra garanzia dei diritti e organizzazione giudiziaria. Profili di comparazione, 2010, Torino, spec. n. II.2. 35E.T. Liebman, Il giudizio di appello e la Costituzione, in Riv. dir. proc., 1980, p. 404. 36E. Allorio, Interventi nella discussione su Il doppio grado di giurisdizione. Atti del XII Convegno nazionale, Venezia, 14‑15 ottobre 1977, in Quaderni dell’As‑ sociazione fra gli Studiosi del processo civile, XXXVI, Milano, 1980, p. 248. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E giudice abbia giudicato male, l’errore essendo una tappa ver‑ so la verità»37. A tacer d’altro, l’art. 24 Cost., nel suo secondo comma, offre anche una base letterale alle speculazioni già consentite dal primo. Le plurime istanze di giustizia espresse dalla for‑ mula in «ogni stato e grado del procedimento» sono da questa concatenate l’una all’altra e tutte cospirano al fine unico del conseguimento della migliore difesa possibile in giudizio. La riparazione, infine, degli errori giudiziari, posta a ca‑ rico dello Stato dall’ultimo comma dell’art. 24 Cost., tende anch’essa alla pronuncia di un provvedimento corretto38. Se l’errore va riparato, esso dev’essere, innanzitutto, prevenuto39. Serve, a tal fine, un sistema processuale – il sistema delle impugnazioni, appunto ‑, che procede per incrementali mi‑ glioramenti, tali da garantire che l’atto ultimo del potere giudiziario sulla singola controversia sia corretto. Una restrizione eccessiva dell’appello significa lasciare inevasa la stessa istanza di giustizia di cui lo Stato si fa carico attraverso la previsione dell’art. 24 Cost., nonché gli assetti processuale e giudiziario che ne sono al servizio. Soltanto l’«impiego pretestuoso»40 dello strumento stesso può essere perseguito, in quanto ne inficerebbe il funzionamento. Alla luce di queste riflessioni, la deminutio dell’appello operata dall’ultima riforma del processo civile appare ancora più inaccettabile. Essa va ben oltre l’abbattimento degli im‑ pieghi cavillosi dello strumento, tanto da suscitare le lagnan‑ ze di chi ritiene costituzionalizzato il principio del doppio grado41, ma anche di chi lo esclude42. Soprattutto, il sistema elaborato in sede di decretazione d’urgenza è chiaramente diretto ad impedire l’accesso al giu‑ dizio di secondo grado alle impugnazioni infondate e, proba‑ bilmente, puramente strumentali. Il rimedio, però, avrebbe dovuto consentire il “comodo” passaggio, attraverso le maglie del retino di controllo, di tutte quelle istanze di appello che non sono infondate e che, soprattutto, non sono proposte in maniera strumentale. A quel trentadue per cento di sentenze di primo grado che, fino ad oggi, sono state riformate nel secondo giudizio, si deve, infatti, continuare a garantire l’accesso alla cognizione piena di un altro giudice, appunto il giudice di secondo grado43. 37C. Ferri, voce Appello nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv. Sez. civ., XII, Appendice, Torino, 1995, p. 557. 38A. Police, Sub Art. 24, cit., p. 522. 39M. Pisani, Durata ragionevole del processo penale e appellabilità delle senten‑ ze, in Riv. dir. proc., 2006, p. 4. 40F. Peroni, Giusto processo e doppio grado di giurisdizione nel merito, in Riv. dir. proc., 2001, p. 728. 41A. Greco, Il nuovo “Filtro in appello”, 2 ottobre 2012, in www.i‑dom.com, per il quale la spending review applicata alla giustizia ha compromesso «anche il principio cardine del nostro processo, quello del doppio grado di giudizio» e, conseguentemente, il diritto costituzionale della difesa. 42F. Auletta, Filtro in appello senza ostacoli in Costituzione, cit., imputa alle misure per la giustizia civile contenute nel “Decreto Sviluppo” di aver portato «a conseguenze ulteriori la mancanza in Costituzione della garanzia del doppio grado per i giudizi civili: se l’appello è una largizione graziosa, il legislatore può disporne a piacimento fino a negarlo, e, dunque, senza che le modalità alle quali rimanga comunque affidato il gravame possano esporsi a censure di co‑ stituzionalità, come “noli equi dentes inspicere donati”». 43Così, Ester Perifano, Segretario generale dell’Associazione Nazionale Forense, in una dichiarazione riportata in Filtro per gli appelli civili. Le toghe: Giustizia negata, 19 Giugno 2012, in www.associazionenazionaleforense.it, capovolge, a favore del cittadino, i dati forniti dal Governo per giustificare il suo massiccio intervento (vale a dire, il sessantotto per cento delle pronunce di primo grado che non sono riformate in appello). F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o Eppure, l’ampiezza di decisione che il decreto‑legge rimet‑ te al giudice, in una con le precarie condizioni di lavoro in cui egli versa e con lui tutta la macchina giudiziaria civile, rischia realmente di negare l’istanza di giustizia (anche) a chi mag‑ giormente ne avrebbe diritto (istanze di appello fondate e non pretestuose). È probabile o, quantomeno, possibile, infatti, che il giudi‑ ce di seconde cure, astretto tra la discrezionale valutazione che gli viene chiesta dalla norma44 ed il carico di lavoro che gli “suggerisce” di sfuggire a quest’ulteriore incombenza45, scelga il comportamento da tenere, di volta in volta, secondo varie “opportunità” (e non nel pedissequo rispetto delle inno‑ vative prescrizioni)46. 3. Sviluppare l’organizzazione per non svilire le garanzie Le soluzioni al malfunzionamento della giustizia – civile, in particolar modo – vanno cercate sul piano dell’organizza‑ zione, nell’adeguamento di uomini e mezzi all’imponente ca‑ rico di lavoro giornaliero e nell’ammodernamento di struttu‑ re e funzioni, con ampio ricorso alle nuove tecnologie. L’informatizzazione dei servizi giudiziari ed il processo telematico, la riorganizzazione degli uffici e dei tempi di la‑ voro, il potenziamento del personale e delle risorse per l’inte‑ ro comparto della giustizia, la riforma della magistratura non togata, un’esatta geografia giudiziaria, la regolamentazione di una conciliazione volontaria47 e qualificata: sono questi i rimedi da tempo proposti dagli operatori del diritto 48. Eppure, i rimedi all’ingolfamento della giustizia che inci‑ dono sulle garanzie sono quelli ai quali è più facile e più im‑ mediato mettere mano, soprattutto in periodi di crisi econo‑ mica49, a discapito dei diritti. 44«Il parametro di giudizio che l’impugnazione non abbia una “ragionevole probabilità di essere accolta” concede un margine di apprezzamento eccessivo al giudice dell’impugnazione, poiché gli consente di dichiarare inammissibile un’impugnazione che pur abbia una probabilità di essere accolta, sol che questa probabilità sia a suo giudizio non “ragionevole”»: R. Caponi, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, cit., p. 4. 45«I giudici di appello, già sommersi di lavoro in conseguenza dell’inutile e dan‑ nosa introduzione generalizzata del giudice unico di primo grado, non trarran‑ no dalle nuove norme particolari benefici. Infatti, per potere decidere alla prima udienza e preliminarmente alla trattazione se l’appello non ha una ragionevole probabilità di essere accolto, dovranno studiarsi a fondo subito tutte le cause perché solo così potranno delibare quella ragionevole possibilità e provvedere in conseguenza. È facile, pertanto, prevedere che […] quei giudici non appli‑ cheranno mai la nuova norma e salteranno a piè pari l’ordinanza succintamen‑ te motivata continuando ragionevolmente a comportarsi come al solito»: G. Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, cit., p. 2. 46La contrapposta previsione circa il comportamento che terranno i giudici di appello in base alla nuova normativa, secondo la dottrina che, per prima, si è pronunciata a riguardo, è messa in evidenza da L. Viola, Il nuovo appello fil‑ trato: riflessioni sulla ragionevole probabilità di accoglimento, cit., n. 2.1. 47La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega legislativa, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, nella parte in cui ha previsto il carattere obbligatorio della mediazione, come da Comunicato dell’Ufficio Stampa della Consulta, del 24 ottobre 2012, nell’attesa del deposito della sentenza. 48Si tratta dei rimedi da lungo tempo invocati dall’Organismo Unitario dell’Av‑ vocatura Italiana (cfr., per tutti, Giustizia civile al collasso: le proposte degli avvocati, 9 ottobre 2012, in http://denaro.it). L’OUA ha anche proposto al Ministro della Giustizia di riformare l’appello secondo un disegno di sua elaborazione. Questo prevede, essenzialmente, di anticipare alla «“prima ed unica udienza di trattazione” la vera e propria deci‑ sione nel merito. Insomma, giudicare direttamente sulla fondatezza del ricorso e non fornire soltanto una valutazione sulla probabilità di accoglimento (che, del resto, altro non sarebbe se non “una manifesta infondatezza”)», come può leggersi in Oua: contro il “filtro” via libera all’appello sprint, 9 ottobre 2012, in www.diritto24.ilsole24ore.com. 49«In ogni caso, l’incalzare della crisi economica ha ulteriormente ridotto gli 2 0 1 3 63 Finanche l’Unione europea vi ha fatto ricorso, negando del tutto la possibilità di un riesame di merito nel suo sistema giudiziario, per salvaguardare la Corte di giustizia, già obe‑ rata da un eccessivo carico di lavoro, da altre probabili com‑ petenze. Non appare esagerato, qualificare come “deviante, e francamente mortificante per la stessa istituzione”50 l’aver cercato la soluzione di un problema puramente organizzatorio in un ambito funzionale e competenziale, anziché in una re‑ visione dei metodi di lavoro. L’attivazione di un’ulteriore fase processuale determina sempre un allungamento della durata complessiva del proces‑ so. Ma la scelta di avanzare quell’ulteriore istanza corrispon‑ de all’esercizio di un diritto, tra i più risalenti e consolidati della storia della giustizia dell’uomo: il fastidio per il dilatar‑ si dei tempi giudiziali non giustifica e non ammette la sostan‑ ziale ablazione di questo arcaico diritto51. 2 novembre 2012 penale Gazzetta spazi di manovra, cosicché invece di aumentare le risorse, si aspira a diminuire il numero dei processi (in questo caso: d’appello)»: R. Caponi, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, cit., p. 12. 50A. Tizzano, Il ruolo della Corte di giustizia nella prospettiva dell’Unione euro‑ pea, in Riv. dir. internaz., 1994, p. 936. 51Per L’evoluzione storica del doppio grado di giudizio, dalla Roma antica ai giorni nostri, v. R. Fattibene, Il doppio grado di giudizio tra garanzia dei dirit‑ ti e organizzazione giudiziaria. Profili di comparazione, cit., nn. I.1.a e I.1.b. 64 D i r i t t o ● p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E I CONTRASTI TRA LA CORTE EDU E LE CORTI NAZIONALI Dialogo tra la corte Edu e le corti nazionali sulla natura delle confische Due interpretazioni diverse su casi simili ● Vittorio Sabato Ambrosio e Avvocato Corte EDU, 09/02/1995, Welch e. Regno Unito; Corte EDU, 30/08/2007, Sud Fondi srl c. Italia; Corte EDU, 20/01/2009, sud Fondi c. Italia; Corte EDU, 17/12/2009, M. c. Germa‑ nia La nozione convenzionale di confisca la confisca, anche se di natura amministrativa secondo la configurazione di diritto interno, ha la qualifica di pena ai sensi dell’art. 7 CEDU, in quanto non tende alla riparazione pecuniaria di un danno, ma ad impedire la reiterazione dell’inosservanza di prescrizioni. Essa presenta caratteristiche ad un tempo preventiva e repressiva, e quest’ultima è una qualificazione che contraddistingue le sanzioni penali, per cui tale misura è applicabile solo in presenza di un illecito penale previsto dalla legge nel rispetto dei principi generali… (omissis)…il principio di cui all’art. 7 CEDU si applica all’in‑ tera materia penale ricomprendendo in questa tutte le infra‑ zioni e sanzioni che, a prescindere dalla denominazione for‑ male utilizzata da ciascun Stato membro, risultano caratte‑ rizzate da un contenuto sostanzialmente punitivo e da una dimensione intrinsecamente afflittiva. Cass. pen., Sez. VI, 06 marzo 2009, n. 25096 La giurisprudenza nazionale si discosta dall’interpretazione della Corte EDU sulle cd. confische allargate La confisca prevista dall’art. 12 sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella L. 7 agosto 1992, n. 356, così come modificata dall’art. 1, comma 220, lett. a), della l. 27 dicem‑ bre 2006, n. 296, ha natura di misura di sicurezza patrimo‑ niale, ed è pertanto applicabile anche ai reati contro la P.A. commessi nel tempo in cui tale ipotesi di confisca non era prevista dalla legge, non operando il principio di irretroat‑ tività della legge penale, ma quello dell’applicazione della legge vigente al momento della decisione fissato dall’art. 200 c.p. Corte cost., 04 giugno 2010, n. 196 L’accoglimento nel diritto nazionale del concetto punitivo della confisca La confisca in esame, al di là della sua qualificazione formale, ha natura essenzialmente sanzionatoria, e non di misura di sicurezza in senso proprio: riveste una funzione meramente repressiva e non preventiva. L’applicazione re‑ troattiva di una misura propriamente sanzionatoria viola il principio di irretroattività della pena sancito dall’art. 7 del‑ la Cedu ed esteso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a tutte le misure di carattere punitivo‑afflittivo. Cassazione penale, Sezioni unite, 19 gennaio 2012 , n. 14484 Un’ulteriore applicazione dei principi giurisprudenziali Corte EDU nell’ordinamento nazionale La Corte di Strasburgo ha riconosciuto alla confisca, anche se di natura amministrativa secondo la configurazione di diritto interno, la qualifica di pena ai sensi dell’art. 7 CEDU, in quanto non tende alla riparazione pecuniaria di un danno, ma ad impedire la reiterazione dell’inosservanza di prescrizioni. Essa presenta caratteristiche ad un tempo g e n n a i o • f e b b r a i o F O R E N S E preventiva e repressiva, e quest’ultima è una qualificazione che contraddistingue le sanzioni penali, per cui tale misura è applicabile solo in presenza di un illecito penale previsto dalla legge nel rispetto dei principi generali. **** S ommario : Introduzione; 1. La disciplina nazionale: premessa storica; 2. La confisca e la sua evoluzione; 3. La natura giuridica della confisca per la Corte EDU; 4. La po‑ sizione della giurisprudenza nazionale; 5. Due diverse inter‑ pretazioni nostrane su casi simili; 6. Considerazioni conclu‑ sive Introduzione Il forte impatto che la Cedu ha nel nostro ordinamento ci obbliga a ripensare ed a rileggere in chiave convenzionale alcuni istituti fondamentali del nostro ordinamento onde renderli compatibili con quanto affermato in sede giurispru‑ denziale dalla Corte di Strasburgo, che ha il compito dare attuazione ai principi normati dalla convenzione. Rappresenta oggetto di forte conflitto il tema, che ancora una volta vede coinvolte Corte EDU e le corti interne, delle confische previste dal diritto penale. Esso ci obbliga a rimedi‑ tare, a livello di teoria generale, sull’esatta qualificazione da dare nel nostro ordinamento all’istituto delle misure di sicu‑ rezza. La questione si presenta oltremodo complessa per effet‑ to di una tendenza legislativa nazionale dell’ultimo decennio che ha determinato un vistoso proliferare di confische norma‑ tivamente previste atte a svilirne la funzione primordiale di misura di sicurezza per conferirle la sostanza di una pena. La disciplina nazionale: premessa storica Il codice rocco del 1930, al fine di completare il sistema sanzionatorio, affiancò al sistema delle pene un istituto che rispondesse a finalità diverse, orientato a debellare la perico‑ losità sociale del reo. In ossequio a tale concezione è stato adottato nel nostro ordinamento il cd. sistema del doppio binario, nell’ambito del quale, in primis, viene disciplinata la pena avente finalità eminentemente punitiva–repressiva diret‑ ta a limitare la liberta personale del reoex art. 13 Cost. e, contemporaneamente, a fungere da corrispettivo per il danno sociale cagionato con l’azione penalmente rilevante posta in essere; in secundis, la misura di sicurezza, intesa come san‑ zione teleologicamente orientata a neutralizzare pro futuro la pericolosità sociale del soggetto attivo del reato onde preve‑ nire la possibilità che esso ponga in essere ulteriori azioni potenzialmente pericolose per la società. Da tale distinzione ne discende come logico corollario che la pena e la misura di sicurezza sono sottoposte a criteri e regole applicative differenti. In particolare, con riferimento alla pena vige l’imperativi‑ tà del principio costituzionale di irretroattività ex art. 25 Cost II comma, in base al quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima che del fatto commesso. Di converso, per le misure di sicurezza vige il principio sancito dall’art. 199 che statuisce testualmente che “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge 2 0 1 3 65 stessa preveduti” (disposizione che invera il comma 3 dell’art. 25 della Costituzione in base al quale “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”), nonché quello desumibile dall’art. 200 c.p. che, occu‑ pandosi del problema dell’applicabilità delle misure di sicu‑ rezza nel tempo, dispone che le misure di sicurezza sono re‑ golate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione. Questa norma consolida il principio tempus regit actum, il quale consente di applicare la misura di sicurezza anche a fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore. Da ciò si desumerebbe che non esiste nel nostro ordinamento il principio che vieta l’applicazione retroattiva della misura di sicurezza. La confisca e la sua evoluzione Poste queste premesse essenziali bisogna soffermarsi sulle particolari forme di misure di sicurezzadi carattere patrimo‑ niale introdotte dal legislatore che hanno messo in crisi il si‑ stema del doppio binario in modo da alterare l’originaria funzione delle misure di sicurezza onde avvicinarle maggior‑ mente al concetto di pena. Tra le misure di sicurezza di carattere patrimoniale assume particolare rilievo la confisca, strumento volto alla neutraliz‑ zazione della pericolosità non del reo ma delle cose che, per la loro stretta pertinenza al reato, potrebbero mantener viva nella psiche l’idea del reato rappresentando da stimolo alla perpetrazione di ulteriori fattispecie criminose. Tali confische – grazie anche ad una serie di novelle legi‑ slative di recente conio che ne hanno valorizzato l’intrinseca elasticità connessa alla praticabilità sia in forma specifica che per equivalente – hanno esteso di molto la loro sfera applica‑ tiva, diventando misure di sicurezza privilegiate in relazione ad una vastissima gamma di fattispecie criminose sia codici‑ stiche che extra codicistiche (si pensi, a solo titolo esemplifi‑ cativo, alla confisca di armi di cui all’art. 6 l. 152/1975, di sostanze stupefacenti di cui all’art. 87 d.P.R. 309/90, a quel‑ la prevista dal nuovo codice della strada, a quella di cui all’art. 12 sexies d.l. 306/92, etc.). A livello sistematico, il codice penale delinea la principale forma di confisca nell’art. 240 c.p. Tale articolo disciplina in generale l’istituto de quo, distinguendo tra confisca facoltati‑ va delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto e confisca obbligatoria delle cose che costituiscono il prezzo del reato e delle cose la cui fabbricazione, il cui uso, porto, deten‑ zione e alienazione costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna. La norma, non fornendo una chiara definizione delle nozioni di prodotto, prezzo o profitto del reato, ha lasciato all’interprete l’arduo compito di delineare i tratti distintivi dei diversi elementi confiscabili. Operazione, quest’ultima, quan‑ to mai delicata, posto che a seconda della qualificazione in termini di prodotto, prezzo o profitto, cambia radicalmente il regime della confisca applicabile. Secondo le coordinate tracciate dall’orientamento inter‑ pretativo nettamente maggioritario, il profitto consiste in qualsiasi vantaggio di carattere patrimoniale rinveniente la propria origine nella commissione dell’illecito. Da questo di differenzia il prezzo che opera principalmen‑ te sul piano dei motivi che spingono il soggetto ad agire, in‑ penale Gazzetta 66 D i r i t t o e p r o c e d u r a corporando il corrispettivo dato o promesso in vista della commissione del reato. Il prodotto, invece, consiste nell’oggetto materiale in cui l’illecito si è effettivamente concretizzato (tipico esempio è quello dell’opera o della moneta adulterata, contraffatta, falsamente riprodotta). I principali problemi applicativi si sono posti con l’intro‑ duzione sistematica della confisca per equivalente che in ef‑ fetti ha snaturato la funzione e la ratio della tradizionale misura di sicurezza disposta dall’art. 240 c.p. Invero, la confisca per equivalente ex art. 322 ter si carat‑ terizza poiché non ha ad oggetto beni specificamente connes‑ si con il reato. In particolare, la confisca per equivalente si applica in tutte le ipotesi in cui non sia possibile confiscare quei beni che costituiscono precipuamenteil prezzo o il prodotto o il profitto del reato, ma sussiste comunque la possibilità di re‑ quisire dei beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente, a seconda dei casi, al prezzo o al profitto del reato. In altri e collimati termini, si ammette la possibilità di confiscare determinati beni che non hanno alcun collegamen‑ to con il reato, poiché aggrediscono quote patrimoniali del soggetto per equivalente monetario al prezzo, prodotto e profitto del reato. Da tale elementare definizione balza ictu oculi la rilevan‑ te differenza che si pone tra la confisca quale misura di sicu‑ rezza ex art. 240 c.p., e la confisca per equivalente. Nella sostanza, la tradizionale concezione di confisca come misura di sicurezza, mirante a prevenire una manifesta pericolosità sociale – dove la minaccia per la commissione di ulteriori reati vienerinvenuta nella permanente disponibilità nelle mani del reo di un bene strettamente collegato al reato idoneo a mantenere vivo uno spirito di reiterazione di condot‑ te socialmente riprovevoli – si distingue dalla peculiare ipote‑ si di confisca per equivalente laddove essa va a colpire beni che non hanno alcun collegamento con il reato, con la conse‑ guenza che i beni espropriati certamente non possono realiz‑ zare una funzione preventiva della pericolosità sociale, giac‑ ché hanno ad oggetto cose espressione di mera ricchezza personale. La natura giuridica della confisca per la Corte EDU Delineati in via generale i caratteri attribuiti alla confisca dal sistema sanzionatorio italiano, è necessario porre in debi‑ to risalto i rilievi differenziali di quest’ultimo rispetto all’or‑ dinamento disposto dalla Convenzione EDU. Il rapporto conflittuale tra Corte EDU e ordinamento interno nasce in ragione del fatto che la Corte di Strasburgo non conosce la distinzione tra pena e misura di sicurezza ma si limita ad accogliere una nozione sostanziale di pena, ai fini di una maggiore attuazione dei principi garantistici che la stessa convenzione dedica alla pena, soprattutto con riferi‑ mento al principio di irretroattività e al principio di colpevo‑ lezza. Non avendo alcun parametro di riferimento, la giurispru‑ denza EDU ha goduto di una certa autonomia in relazione alla qualificazione giuridica da attribuire ad ipotesi partico‑ lari di confische che, seppur definite di natura amministrati‑ va, celavano evidenti effetti repressivi aggredendo beni che p e n a l e Gazzetta F O R E N S E non avevano alcuna pertinenza con i mezzi utilizzati per la commissione del reato. Sulla base di questa considerazioni la Corte EDU ha esa‑ minato le peculiari ipotesi di confische cd. allargate, previste da alcuni ordinamenti degli stati aderenti, le quali colpivano l’intero complesso di beni patrimoniali del reo presumendo un’intrinseca provenienza illecita. Nella celeberrima sentenza sul caso Welch, la Corte si occupa della vicenda di una confisca, disposta ai sensi di una normativa britannica, che prevedeva una ablazione molto estesa di beni per chi fosse stato condannato per traffico di stupefacenti (il Governo britannico sosteneva che quella misura veniva disposta per prevenire la commissione di ulte‑ riori crimini connessi al traffico di stupefacenti e che la sua natura intrinsecamente afflittiva poteva essere giustificata dal permanere, in capo all’autore del reato di traffico illecito di stupefacenti, di questa ampia disponibilità di beni). Il filo conduttore del ragionamento ermeneutico condotto dai giudici di Strasburgo si fonda sul fatto che, per rendere efficace la tutela offerta dall’art. 7 CEDU, la Corte deve esse‑ re libera di andare oltre le apparenze e valutare se una deter‑ minata misura costituisca una «pena» ai sensi della predetta disposizione (v., mutatis mutandis, le sentenze Van Droogen‑ broeck c. Belgio del 24 giugno 1982, serie A n. 50, par. 38, e DuinhofetDuijf c. Paesi Bassi del 22 maggio 1984, serie A n. 79, par. 34). In particolare la Corte EDU, reinterpretato in ottica evo‑ lutiva il concetto di pena dell’art.7 convenzione EDU, afferma che “il punto di partenza di ogni valutazione sull’esistenza di una pena consiste nello stabilire se la misura in questione sia stata irrogata in seguito ad una condanna per un «reato». Altri elementi possono essere ritenuti pertinenti in proposito: la natura e lo scopo della misura in contestazione; la sua qualificazione in diritto interno; i procedimenti connessi alla sua adozione ed esecuzione, nonché la sua severità”. (Corte EDU, 09/02/1995, Welch e. Regno Unito). Successivamente, la giurisprudenza EDU ha cominciato ad entrare “a gamba tesa” sulle ipotesi di confische cd. allar‑ gate, debellando tutte quelle peculiari ipotesi di misure di sicurezza che, nel colpire indiscriminatamente beni patrimo‑ niali del reo completamente sconnessi dal reato, celavano all’evidenza il valore sostanziale di pena. Nel caso Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, la Corte afferma che “confligge con il principio “nulla poena sine lege”, non‑ ché con il diritto al rispetto dei propri beni, l’adozione di misure sanzionatorie reali, ivi compresa anche la confisca, in applicazione di disposizioni non sufficientemente chiare, accessibili e prevedibili, a prescindere dalla natura penale o amministrativa della sanzione” (Corte EDU, 20 gennaio 2009, n. 75909; cfr Corte EDU, 17 dicembre 2009, M. c. Germania). Inoltre, la corte di Strasburgo effettua un ulteriore sforzo ricostruttivo per individuare gli indici sintomatici idonei a qualificare una confisca come una pena, che possiamo sem‑ plificare, per scopi sistematici nei seguenti criteri: la connessione con un illecito penale, quindi il fatto che quella misura sia prevista in connessione con un illecito pe‑ nale (e queste sono misure che si applicano normalmente a fronte di un illecito penale); la natura e lo scopo della misura in questione (quando ha F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o uno scopo che risulta essere afflittivo si deve ritenere che, nonostante la denominazione, sia una pena); la sua qualificazione giuridica sotto il diritto nazionale; tuttavia, la qualificazione giuridica in base al diritto nazio‑ nale è solo uno dei criteri, quindi anche “se in base al diritto nazionale questa viene qualificata come misura di sicurezza, ma risulta che è connessa ad un crimine, che ha natura e scopo afflittivo, si deve ritenere che sia una pena e non una misura avente diversa natura”; la procedura attraverso la quale viene applicata, quindi anche la circostanza che venga applicata dal giudice penale può essere un indizio della natura punitivo/afflittiva; e poi la sua severità (quindi il fatto che sia una misura particolarmente incisiva, particolarmente severa, è un ulterio‑ re criterio che giustifica la qualificazione in termini di pena). La posizione della giurisprudenza nazionale La nuova impostazionedata dallaCorte EDU in termini di equiparazione della confisca alla pena ha aperto nuovi scenari all’interno del nostro ordinamento, in quanto sia il legislatore che la giurisprudenza nazionale hanno dovuto fare i conti con i risultati dell’ermeneutica sovranazionale e la sua vis persua‑ siva e vincolante: configurare come pena ciò che per il codice penale è considerata misura di sicurezza comporterebbe un drastico mutamento del diritto penale sanzionatorio. È chiaro, ad esempio, che, se dovessimo qualificare come pena una confisca, avremmo una evidente deroga del tempus regit actum, con la conseguenza che essa non potrebbe essere applicata retroattivamente ma dovrebbe soggiacere ai criteri di successioni delle leggi penali ex art. 2 Cost. Allo stesso modo, la natura di sanzione punitiva impliche‑ rebbe che la confisca non possa applicarsi laddove il soggetto agente difetti dei coefficienti psicologici del dolo o della colpa in relazione alla punibilità del reato base al quale vi si collega l’ablazione accessoria, anche al fine di evitare un contrasto con il principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 Cost. Il problema nel nostro ordinamento si è posto con una certa pregnanza in quanto il legislatore, nel corso degli ultimi anni, ha predisposto ipotesi variegate di confische che si av‑ vicinano alla confisca per equivalente ex art 322 ter. Tale frequente legiferare ha comportato un’eterogeneità del feno‑ meno delle confische non riconducile ad un nozione unitaria uniforme. Ne è conseguito che l’interprete, di fronte alle con‑ fische di nuovo conio, si è dovuto interrogare sull’esatta na‑ tura e sul regime giuridico da applicare in termini di pena o di misura di sicurezza. Due diverse interpretazioni nostrane su casi simili Per comprendere in pieno la problematica è necessario riportare alcuni esempi di confische allargate predisposte di recente dal legislatore e sulle risposte date volta per volta dalla giurisprudenza nazionale. L’art. 12 sexiesdella legge n.356/92 (misura di sicurezza nata con riferimento ai delitti a stampo mafioso e ipotesi delittuose con finalità di terrorismo, estesa, per effetto della legge finanziaria del 2007, anche ai reati contro la pubblica amministrazione) prevede che: «è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o 2 0 1 3 67 avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzio‑ nato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica». La confisca de quo è stata esaminata da due importanti arresti della Corte di Cassazione. In particolare le Sezioni unite nel 2004 con sentenza n. 920 hanno individuato i caratteri morfologici dell’istituto sostenendo che “la confisca prevista dall’art. 12‑sexies della l. n. 356 del 1992 non comporta l’accertamento di un rap‑ porto di pertinenzialità del bene da confiscare con uno dei reati tassativamente indicati in tale disposizione e per i qua‑ li interviene condanna, né che i beni siano stati acquistati in un periodo di tempo prossimo alla commissione del delitto sorgente. È sufficiente che sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il valore dei beni nella disponibilità del condannato e il reddito dichiarato o i proventi della sua at‑ tività economica, quali accertati con riferimento al momen‑ to dell’acquisto, e che non risulti una giustificazione credibi‑ le della loro lecita provenienza”. Nonostante l’evidente vicinanza ad una pena, dato il ca‑ rattere eminentemente afflittivo e repressivo per il patrimonio disponibile del reo, la recente giurisprudenza di legittimità, almeno nel caso di specie, ha inteso discostarsi dai dicta del‑ la Corte EDU statuendo che “la confisca prevista dall’art. 12 sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356, così come modificata dall’art. 1, comma 220, lett. a), della l. 27 dicembre 2006, n. 296, ha natura di misura di sicurezza patrimoniale, ed è pertanto applicabile anche ai reati contro la P.A. commessi nel tempo in cui tale ipotesi di confisca non era prevista dalla legge, non operando il principio di irretroattività della legge penale, ma quello dell’applicazione della legge vigente al momento della deci‑ sione fissato dall’art. 200 cod. pen.” (Cass. pen., Sez. VI, 06 marzo 2009, n. 25096). Di recente, una diversa soluzione sull’esatta qualificazione giuridica, in termini di pena o di misura di sicurezza, è stata data in relazione alla confisca prevista dal Codice della Stra‑ da normata dall’art. 186 comma 2 lett. c). disciplinante la fattispecie di reato di guida in stato di ebbrezza, il quale di‑ spone che “è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato”. La problematicità di tale misura ablatoria si fondava sul fatto che l’originaria versione della norma coniata dall’art. 1 comma 1 della legge 24 luglio del 2008 n. 125 prevedeva che la confisca del veicolo era disposta ai sensi dell’art. 240 c.p. Tale disposizione è stata scandagliata dall’opera interpre‑ tativa della Corte Costituzionale, la quale ha rilevato che il riferimento all’art. 240 c.p. è fuorviante in quanto determina l’applicazione retroattiva della confisca anche a fatti commes‑ si prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2008, secondo il regime proprio delle misure di sicurezza che, ai sensi dell’art.200 c.p., sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione. Sulla base di questa premessa, il giudice delle leggi dichia‑ ra l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui annuncia il riferimento al 240 c.p.; soffermandosiin partico‑ lare sulla sua natura giuridica, afferma che “la confisca in esame, al di là della sua qualificazione formale, ha natura essenzialmente sanzionatoria, e non di misura di sicurezza in penale Gazzetta 68 D i r i t t o e p r o c e d u r a senso proprio, e riveste una funzione meramente repressiva e non preventiva: infatti, potendo essere disposta anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporane‑ amente inutilizzabile ed essendo, inoltre, inidonea ad impe‑ dire l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, essa non si presenta in grado di neutralizzare la situazione di pericolo per la cui prevenzione è stata concepita. L’applicazione re‑ troattiva di una misura propriamente sanzionatoria viola il principio di irretroattività della pena sancito dall’art. 7 della CEDU ed esteso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a tutte le misure di carattere punitivo‑afflittivo. Del resto, analogo principio è desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale, data l’ampiezza della sua formulazione, può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionato‑ rio, non avente prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non riconducibile alle misure di sicurezza in senso stretto), è applicabile soltanto se la legge che lo pre‑ vede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato. Pertanto, per rendere l’impugnata discipli‑ na compatibile con la citata disposizione convenzionale – e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost. – si impone la declaratoria di illegittimità costituzionale del novellato art. 186, comma 2, lett. c), cod. strada, sia pure limitatamente alle parole “ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale”, dalle quali soltanto deriva l’applicazione re‑ troattiva della misura. Tale esito è, infatti, sufficiente a reci‑ dere il legame che – in contrasto con le indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza tanto di questa Corte, quanto di quella di Strasburgo – l’art. 4, comma 1, lett. b), del d.l. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125 del 2008, ha inteso stabilire tra detta ipotesi di confisca e la di‑ sciplina generale delle misure di sicurezza patrimoniali con‑ tenuta nel codice penale. In tale approdo interpretativo è interessante notare come la Corte Costituzionale approvi i principi giurisprudenziali della Corte EDU valutando la sostanza repressiva della misu‑ ra di sicurezza sottoposta al suo vaglio. Il carattere eminentemente sanzionatorio di tale confisca è stato riconosciuto anche da un importante arresto della Suprema Corte di Cassazione, con riferimento alla problema‑ tica della confiscabilità di un veicolo di proprietà di un sog‑ getto estraneo al reato di guida in stato di ebbrezza. Nello specifico, i giudici del Supremo Organo della nomo‑ filachia, nell’avallare la giurisprudenza della Corte EDU in relazione al concetto di pena, hanno evidenziato che ammet‑ tere la confisca del mezzo di proprietà del concedente estraneo al reatocomporterebbe la palese violazione del disposto ex art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione (Protezione della proprietà) che consente una diminuzione patrimoniale del soggetto solo nelle condizioni previste dalla legge, per cui anche l’applicazione di una misura comportante un pregiudi‑ p e n a l e Gazzetta F O R E N S E zio patrimoniale, al di fuori delle previsioni normative, con‑ figura un’illecita ingerenza nella sfera giuridica ed economica del singolo. Sulla base di tali coordinate le Sezioni unite, prescindendo dalla formale denominazione amministrativa dell’ipotesi in esame, ravvisano in tale confisca un contenuto sostanzialmen‑ te punitivo e una dimensione teleologicamente afflittiva e, pertanto, sostengono che “non è confiscabile la vettura con‑ dotta in stato di ebbrezza dall’autore del reato, utilizzatore del veicolo in relazione a contratto di “leasing”, se il conce‑ dente, proprietario del mezzo, sia estraneo al reato” (Cass. pen., Sez. unite, 19 gennaio 2012, n. 14484). Considerazioni conclusive La complessa ed eterogena disciplina delle confische me‑ riterebbe sicuramente approfondimenti maggiori. In tale breve relazione – senza alcuna pretesa di esaustivi‑ tà di un tema troppo complesso e variegato da essere compiu‑ tamente sciorinato – si è voluto evidenziare solo come, allo stato, non possa considerarsi ancora raggiunta una totale armonia tra l’evoluzione giurisprudenziale della Corte EDU ed i principi interni, quali risultanti dagli interventi normati‑ vi e dalla giurisprudenza chiamata a darne continuamente applicazione. È evidente come tutto questo “filosofeggiare argomenta‑ tivo” tra le corti sovranazionali e nazionali vada solo a disca‑ pito dell’individuo che non è mai in grado di prevedere, so‑ prattutto in tema di repressione penale, a quale regime puni‑ tivo verrà sottoposto. Tutto ciò comporta una lapalissiana violazione del prin‑ cipio di autodeterminazione e responsabilità delle proprio scelte, poiché il reo non è in grado di calcolare preventivamen‑ te le conseguenze delle proprie azioni. Tale esigenza di chiarezza e prevedibilità – intrinsecamen‑ te connaturata ad ogni tipo di previsione penale introdotta in un ordinamento che possa compiutamente definirsi liberale – è maggiormente avvertita in relazione a misure evidentemen‑ te ablatorie come le cd. confische allargate. Si consideri altresì che l’espropriazione di un cespite patri‑ moniale slegato dal reato comporta delle irreversibili conse‑ guenze anche sul piano civilistico in quanto, seppur in manie‑ ra indiretta, ciò arrecherebbe un evidente vulnus al principio di responsabilità patrimoniale illimitata sancito dall’art 2740 c.c., con ulteriori conseguenze sul piano della certezza dei traffici economici. Per queste ragioni sarebbe auspicabile una maggiore cer‑ tezza sull’esito applicativo delle sanzioni accessorie repressive, quali appunto le confische allargate, che non hanno alcun legame con le tradizionali misure di sicurezza disposte dal nostro ordinamento in ossequio al sistema del cd. doppio binario. Gazzetta F O R E N S E ● g e n n a i o • f e b b r a i o 69 2 0 1 3 CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 08 febbraio 2013 (ud. 20 dicembre 2012), n. 6509 I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali L'impugnazione della parte civile contro la sentenza assolutoria è ammissibile anche quando non contenga espressi riferimenti alle statuizioni concernenti gli effetti civili Allorché la parte civile impugni una sentenza di proscio‑ glimento che non abbia accolto le sue conclusioni, chiedendo la riforma di tale pronunzia, l’atto di impugnazione, ricorren‑ do le altre condizioni, è ammissibile anche quando non con‑ tenga l’indicazione che l’atto è proposto ai soli effetti civili, discendendo tale effetto direttamente dall’art. 576 c.p.p. ● A cura di Angelo Pignatelli Avvocato La questione di diritto devoluta alle Sezioni unite può essere riassunta nei seguenti termini: “Se la parte civile, con l’impugna- zione della sentenza di proscioglimento, debba richiedere espressamente, a pena di inammissibilità, la rifor‑ ma della sentenza ai soli effetti civili”. La risoluzione di tale questione, secondo la Suprema Cor‑ te, necessitava di una precisazione sulla disciplina dei poteri di impugnazione della parte civile e segnatamente quello di impugnazione delle sentenze di proscioglimento prendendo spunto dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46 (inappellabilità delle sentenze di prosciogli- mento). Quest’ultima normativa, secondo i Giudici Ermellini, ha influito sulla disciplina della facoltà di appello della parte ci‑ vile abrogando la disposizione dell’art. 577 c.p.p. che consen‑ tiva eccezionalmente alla parte civile di impugnare, “anche agli effetti penali”, le sentenze di condanna e di proscioglimento per i reati di ingiuria e di diffamazione ed eliminando, nell’art. 576 c.p.p., il riferimento all’appello del pubblico ministero e, quindi, recidendo il preesistente vincolo tra l’impugnazione della parte civile e le facoltà di impugnazione attribuite al pubblico ministero quantomeno per i procedimenti che non siano di competenza del giudice di pace per i quali residua la previsione del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 38. Secondo una parte della dottrina, tale eliminazione, coe‑ rente con la scelta del legislatore di privilegiare la separazione della vicenda risarcitoria da quella strettamente penale al fine di incentivare l’azione civile nella sua naturale sede, avrebbe avuto, quale effetto, l’impossibilità per il danneggiato di im‑ pugnare la sentenza di primo grado. Altro prevalente orientamento dottrinale non aveva con‑ diviso tale interpretazione restrittiva dell’art. 576 c.p.p., in quanto l’ordinamento non potrebbe consentire l’ingresso della parte civile nel processo penale per poi precluderle l’espe‑ rimento dei mezzi di impugnazione ammessi dalla legge. Era stato posto in evidenza come, aderendo all’opposta tesi, sa‑ rebbero rimasti privi di efficacia all’art. 600 c.p.p., comma 1, e art. 601 c.p.p., comma 1 che, al contrario, non erano stati intaccati dalla riforma del 2006. La sopravvivenza alla riforma di tali disposizioni, nella parte in cui esse fanno riferimento, rispettivamente, al potere di riproposizione della richiesta di provvisoria esecuzione della parte civile al giudice di appello ed “all’appello proposto per i soli fini civili”, avrebbe evidenziato come fosse rimasto intatto il potere di impugnazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento pronunciate in primo grado. penale *** 70 D i r i t t o e p r o c e d u r a La giurisprudenza di legittimità (cfr. Sezioni unite senten‑ za 29 marzo 2007, n. 27614, Lista, Rv. 236539), ha condiviso la più estensiva interpretazione della portata della disposizio‑ ne di cui all’art. 576 c.p.p., ritenendola aderente al dettato letterale della norma e più adeguata ad una lettura costituzio‑ nale della stessa, affermando che, dopo la riforma del 2006, il potere di impugnazione della parte civile era rimasto sostanzialmente immutato. L’attuale assetto normativo, quindi, secondo la pronunzia in esame, prevede che la parte civile non possa impugnare i capi penali della sentenza di primo grado se non indirettamente, attraverso il potere di sollecitazione del pubblico mi‑ nistero previsto dall’art. 572 c.p.p. (anch’esso sopravvissuto alla riforma della l. n. 46 del 2006) mentre le è riconosciuto il potere di impugnazione contro i capi della sentenza di con‑ danna che riguardino l’azione civile, nonché, ai soli effetti della responsabilità civile, contro le sentenze di prosciogli‑ mento pronunciate nel giudizio, così come espressamente previsto dall’art. 576 c.p.p. Essa può proporre impugnazione anche avverso le sentenze emesse a seguito di giudizio abbre‑ viato quando abbia consentito alla abbreviazione del rito. Per quanto concerne i procedimenti dinanzi al Giudice di pace, infine, la parte civile, in applicazione della regola gene‑ rale dettata dall’art. 576 c.p.p., riferibile anche a tali procedi‑ menti sulla base del richiamo del d.lgs. n. 274 del 2000, art. 2 è legittimata ad impugnare le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti civili, nonché, anche agli effetti penali, la sen‑ tenza di proscioglimento relativa a procedimento instaurato con il ricorso immediato previsto dall’art. 21 del citato decre‑ to legislativo, così come disposto dall’art. 38 dello stesso. Per quanto concerne le sentenze di proscioglimento, la formula normativa “ai soli effetti della responsabilità civile” di cui all’art. 576 c.p.p. è stata interpretata da parte della dottrina nel senso che la sentenza del giudice della impugna‑ zione, favorevole alla parte civile impugnante, non può deci‑ dere sul merito, accordando o negando il risarcimento (perché lo vieterebbe l’art. 538 c.p.p., comma 1), ma rimuove soltanto l’effetto extrapenale, conseguente all’art. 652 c.p.p., della sentenza di proscioglimento, aprendo in tal modo all’interes‑ sato la tutela in un giudizio civile. Conseguenza di tale impostazione, espressa anche da al‑ cune decisioni di legittimità (sez. 3, sentenza 30 novembre 2001, n. 537, Bovicelli, Rv. 220669; sez. 1, sentenza 07 apri‑ le 1997, n. 4482, Giampaolo, Rv. 207589; sez. 4, sentenza 31 gennaio 1996, n. 4950, Mazza, Rv 205222; sez. 3, sentenza 08 giugno 1994, n. 10792, Armellini, Rv. 200381), è che l’interesse ad impugnare della parte civile sussiste nei soli casi in cui la pronuncia penale, una volta divenuta irrevoca‑ bile, avrebbe autorità di cosa giudicata anche nel giudizio civile ed amministrativo avente ad oggetto il risarcimento del danno derivante dal reato. Secondo tale orientamento, l’interesse della parte civile ad impugnare le sentenze di proscioglimento, sussiste solo ove la sentenza penale precluda il perseguimento degli interessi ci‑ vili, anche in sede civile. Altro orientamento, maggioritario, ritiene invece che la parte civile abbia titolo ad ottenere una sentenza che conten‑ ga la condanna dell’imputato alle restituzioni ed al risarci‑ mento dei danni (sez. 4, sentenza 23 gennaio 2003, n. 13326, Grecuccio, Rv. 226430; sez. 7, sentenza 15 gennaio 2002, n. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E 4216, Sconcerti, Rv. 222052; sez. 5, sentenza 06 febbraio 2001, n. 12359, Maggio, Rv. 218905; sez. 4, sentenza 29 ottobre 1997, n. 10451, Marcelli, Rv. 209673; sez. 5, senten‑ za 31 ottobre 1996, n. 10990, Piccioni, Rv. 207064). In particolare si è specificato che sarebbe ammissibile l’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la senten‑ za di assoluzione quando preordinata a chiedere l’affermazio‑ ne di responsabilità dell’imputato, quale presupposto della condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno, con la conseguenza che detta richiesta non può condurre ad una modifica della decisione penale, sulla quale si è formato il giudicato, in mancanza dell’impugnazione del pubblico mini‑ stero, ma all’affermazione della responsabilità dell’Imputato per un fatto previsto dalla legge come reato, che giustifica la condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno. Da ciò deriva che l’interesse della parte civile al gravame non è commisurato, come nell’ambito del primo indirizzo, alla pre‑ clusività della formula di proscioglimento, con la conseguen‑ za che essa può proporre impugnazione, senza incorrere in censure di carenza di interesse, anche contro la sentenza di proscioglimento adottata con formula non preclusiva dell’eser‑ cizio della azione risarcitoria in sede civile. Nell’ambito di tale ultimo più ampio contesto, secondo il Supremo Consesso, si tratta, allora, di verificare quale sia l’esito di una impugnazione della parte civile che, come quel‑ la del procedimento in oggetto, limiti, formalmente, il petitum alla sola richiesta di carattere penale, ovvero alla pronuncia di condanna, senza formulare richieste diretta -mente o indi‑ rettamente (in questo secondo caso per il tramite del riferi‑ mento alla clausola degli “effetti civili”) attinenti al risarci‑ mento dei danni. Sulla questione al vaglio delle Sezioni unite si registrano sostanzialmente nella giurisprudenza della Corte di Cassazio‑ ne due difformi approdi interpretativi. Un primo orientamento minoritario fa conseguire, dalla disposizione contenuta nell’art. 576 c.p.p., la facoltà della parte civile di proporre impugnazione anche chiedendo l’af‑ fermazione della responsabilità penale dell’imputato sebbene ai soli effetti civili ed escludendo la necessità di una espressa richiesta, nell’atto di gravame, di riforma della sentenza ai soli effetti civili. (veggasi: sez. 5, sentenza 22 febbraio 1999, n. 958, Bavetta, Rv. 212934 nella quale si è affermato che sussiste la legittimazione della parte civile a proporre impu‑ gnazione chiedendo l’affermazione della responsabilità dell’imputato perché, a norma dell’art. 538 c.p.p. e, salvo quanto previsto dall’art. 578 c.p.p., il giudice penale può de‑ cidere sulla domanda per le restituzioni e per il risarcimento solo quando pronunci sentenza di condanna. All’esito del giudizio il giudice della impugnazione, quindi, può legittimamente decidere sulle richieste risarcitorie e restitutorie la cui specificazione non deve essere necessariamente contenuta nell’atto di impugnazione, poiché, come si desume dagli artt. 78 e 82 c.p.p., essa può essere anche differita al momento della formulazione delle conclusioni in dibattimento. I mede‑ simi principi di diritto sono stati recepiti dalla sentenza sez. 5, n. 31904 del 02 luglio 2009, Rubertà, Rv. 244499, secondo la quale l’atto di appello non deve contenere necessaria- men‑ te la espressa specificazione della domanda risarcitoria e re‑ stitutoria in quanto questa può essere differita al momento delle conclusioni in dibattimento, in base all’art. 523 c.p.p., F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o applicabile anche nel giudizio di impugnazione. Infatti l’art. 82 c.p.p. prevede che la costituzione si intende revocata se la parte civile non presenta le conclusioni a norma dell’art. 523 c.p.p., ovvero se promuove l’azione dinanzi al giudice civile. Il combinato di tali disposizioni con l’art. 576 c.p.p. e con gli artt. 581 e 591 c.p.p. rende evidente che la parte civile, la quale abbia presentato le conclusioni a norma dell’art. 523 c.p.p. nel precedente grado di giudizio e non abbia revocato la sua costituzione nel processo penale, è legittimata a pro‑ porre appello contro la sentenza di proscioglimento o assolu‑ zione dell’imputato, chiedendo la verifica della responsabilità dello stesso per il reato, agli effetti civili. Il suo appello non può, inoltre, ritenersi inammissibile per genericità dei motivi (art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c)) agli effetti civili, in quanto la questione di responsa‑ bilità dell’imputato fa riferimento implicito alle conclusioni non accolte nella sentenza di primo grado in conseguenza della assoluzione del medesimo, potendo inoltre la parte spe‑ cificare la richiesta diretta al giudice d’appello in sede conclu‑ sionale, ai sensi dell’art. 523 c.p.p., comma 2. Nel solco dell’orientamento estensivo riportato si collocano anche le seguenti ulteriori pronunzie sez. 5, sentenza 08 giugno 2010, n. 27629, Berton, Rv. 248317; sez. 5, sentenza 04 maggio 2010, n. 22716, Marengo, Rv 247967; sez. 5, sentenza 23 settembre 2009, n. 42411, Longo, Rv. 245392; sez. 5, senten‑ za 06 maggio 2003, n. 23412, Caratossidis, Rv. 224932; sez. 4, sentenza 12 luglio 2012, n. 41184. Un secondo orientamento, più restrittivo (sez. 1, sentenza 04 marzo 1999, n. 7241, Pirani, Rv. 213698) ritiene l’inam‑ missibilità dell’atto di impugnazione della sentenza di proscio‑ gli- mento proposto dalla parte civile che non contenga espresso e diretto riferimento agli effetti civili che si vogliono conseguire, non potendosi neppure ritenere tale riferimento implicito nella mera richiesta di verifica della responsabilità dell’imputato negata dalla pronunzia impugnata. Tale pro‑ nuncia pone in evidenza come l’art. 576 c.p.p. legittimi la parte civile a proporre impugnazione “contro i capi della sentenza di proscioglimento ai soli effetti civili”. “I medesi‑ mi”, continua la sentenza, “sono quelli inerenti all’esercizio dell’azione civile nel processo penale, la cui sede naturale sarebbe il processo civile e ... ragioni di opportunità pratica e di economia di giudizio ne consentono l’esperimento nel pro‑ cesso penale. Pertanto la richiesta della parte civile impugnante, a pena di inammissibilità del gravame ai sensi del combinato disposto dell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. b) e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), deve fare riferimento specifico e diretto agli effetti di carattere civile che si intendono conseguire con la proposta di impugnazione. Ne consegue che una richiesta rivolta dalla parte civile impugnante al giudice del gravame riguardante esclusivamente la affermazione della penale responsabilità dell’imputato, prosciolto nel precedente grado di giudizio, rende inammissibile il gravame, in quanto richiede al giudice adito di delibare soltanto in merito ad un effetto penale e non civile, esulante da quanto prescritto dal legislatore nel rico‑ noscere a tale parte processuale la legittimazione all’impugna‑ zione”. Secondo sez. 6, n. 9072 del 22 ottobre 2009, Bianco, Rv. 246168, si tratta di “limiti strutturali della impugnazione di una decisione penale per i soli effetti civili”, sicché l’atto di impugnazione della parte civile deve contenere riferimenti 2 0 1 3 71 specifici ed immediati agli effetti di natura civile, segnatamen‑ te risarcitoti, che indichino “latitudine ed entità del danno risarcibile causato da condotte dell’imputato prosciolto”, in assenza dei quali il gravame sarà inammissibile per aspecifi‑ cità della impugnazione giacché si tradurrebbe in una “impro‑ pria richiesta di delibazione su effetti penali estranei alle fa‑ coltà conferite dalla legge alla parte civile” (in questo senso anche sez. 2, sentenza 20 maggio 2008, n. 25525, Gattuso, Rv. 240646; sez. 3, sentenza 23 maggio 2007, n. 35224, Gue‑ rini, Rv. 237399; sez. 2, sentenza 31 gennaio 2006, n. 5072, Pensa, Rv. 233273; sez. 5, sentenza 30 novembre 2005, n. 9374, dep. 2006, Princiotta, Rv. 233888; sez. 2, sentenza 24 ottobre 2003, n. 897, dep. 2004, Cantamessa, Rv. 227966; sez. 2, sentenza 30gennaio 2003, n. 11863, Bernardi, Rv. 225023); né potrebbe sopperire alle funzionali lacune esposi‑ tive dell’atto di appello il principio della devolutività limitata dell’Impugnazione a fini civili in sede penale (sez. 6, sentenza 22 ottobre 2009, n. 9072, Bianco, cit.). L’orientamento “restrittivo” è stato seguito dalla Corte sino a tempi recenti: sez. 4, n. 23155 del 03 maggio 2012, Di Curzio, Rv. 252763. Le Sezioni unite nel dirimere il contrasto giurisprudenzia‑ le hanno aderito all’orienta- mento meno restrittivo conside‑ rando che la sezione Terza del Capo Secondo del Titolo Terzo del Libro Settimo del Codice di procedura penale, nel disci‑ plinare la decisione sulle questioni civili, contiene l’art. 538, il quale statuisce che, salva l’ipotesi di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione di cui all’art. 578 c.p.p., il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e per il risarcimento solo quando pronunci sentenza di condanna. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di impugnazioni, in presenza di specifica richiesta della parte civile, la pronuncia sulle domande di restituzione o di risar‑ cimento del danno non può essere omessa per il solo fatto che la sentenza assolutoria dell’imputato non sia stata impugnata dal pubblico ministero, dovendo, in tal caso, il giudice effet‑ tuare, in via incidentale e ai soli fini civilistici, il giudizio di responsabilità; ma la pronuncia su tali domande non può che restare legata (e subordinata) all’accertamento (incidentale) della responsabilità penale. (sez. 1, sentenza 12 marzo 2004, Maggio, n. 19538, Rv.227971). Come si è detto, ribadiscono i Supremi Giudici, la parte civile, nonostante la modifica dell’art. 576 c.p.p. ad opera della legge n. 46 del 2006, conserva il potere di impugnare le sentenze di proscioglimento ed il giudice dell’impugnazione ha, nei limiti del devoluto ed agli effetti della devoluzione, il potere di affermare la responsabilità dell’imputato agli effet‑ ti civili e di condannarlo al risarcimento o alle restituzioni. (sez. 6, sentenza 25 ottobre 2011, n. 41479, V., Rv. 251061). Ne consegue che, la disposizione di cui all’art. 576 c.p.p., secondo la quale la parte civile può proporre impugnazione contro le sentenze di proscioglimento pronunziate nel giudi‑ zio, ai soli effetti della responsabilità civile, deve essere intesa nel senso che la parte civile può impugnare al fine di ottenere che il giudice effettui, in via incidentale e ai soli fini civilistici, il giudizio di responsabilità. Ovviamente (come precisato dalla richiamata sentenza sez. 1, n. 19538 del 12 marzo 2004, Maggio, Rv. 227971) la pronuncia su tali domande non può che restare legata (e su‑ bordinata) all’accertamento (incidentale) della responsabilità penale. penale Gazzetta 72 D i r i t t o e p r o c e d u r a Tale effetto devolutivo tuttavia non dipende dalle richieste della parte civile contenute nell’atto di impugnazione, ma dalle richiamate disposizioni di cui agli artt. 538 e 576 c.p.p. La non necessità della formale enunciazione della finaliz‑ zazione dell’atto di gravame agli effetti civili si fonda perciò sulla superfluità di un tale elemento dal momento che è lo stesso art. 576 c.p.p. a circoscrivere in tal modo l’impugna‑ zione svolta dalla parte civile. Ciò in considerazione del fatto che, una volta presenti nel gravame le richieste, indipendentemente dal loro contenuto, la precisazione dell’art. 576 c.p.p. non richiede ulteriori requi‑ siti di forma del ricorso accanto a quelli previsti dall’art. 591 c.p.p., bensì contiene un criterio rivolto al giudice la cui decisione non potrebbe oltrepassare il limite degli interessi civili. Lo sbarramento normativo non sarebbe violato da una richie‑ sta di affermazione della responsabilità penale, inevitabilmen‑ te implicante, per le ragioni sopra viste, anche la richiesta di condanna al risarcimento dei danni; senza considerare che un’interpretazione restrittiva finirebbe per fare invece della indicazione in oggetto un requisito, appunto, di formale reda‑ zione del ricorso in apparente contrasto con la tassativa elen‑ cazione del combinato disposto degli artt. 581 e 591 c.p.p. Non può, quindi, essere qualificato generico l’atto di im‑ pugnazione che, sul presupposto del mancato accoglimento delle conclusioni rassegnate dalla parte civile nel precedente grado di giudizio, chieda la riforma della decisione impugna‑ ta, sempre che svolga adeguata critica alla pronunzia stessa. Conclusivamente, Le Sezioni unite hanno affermato il seguente principio di diritto: «Allorché la parte civile impugni una sentenza di proscio‑ glimento che non abbia accolto le sue conclusioni, chiedendo la riforma di tale pronunzia, l’atto di impugnazione, ricor‑ rendo le altre condizioni, è ammissibile anche quando non contenga l’indicazione che l’atto è proposto ai soli effetti ci‑ vili, discendendo tale effetto direttamente dall’art. 576 c.p.p.». CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite 28 febbraio 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 28 febbraio 2013, le Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione: «se, in tema di reato continuato, l’individuazione della violazione più grave ai fini di computo della pena debba essere effettuata in concreto oppure con riguardo alla valutazione compiuta in astratto dal legislatore». Secondo l’informazione provvisoria p e n a l e Gazzetta F O R E N S E diffusa, al quesito è stata data la seguente soluzione: «seconda alternativa». La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite 28 febbraio 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 28 febbraio 2013, le Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione: «se, nel caso in cui venga dedotta l’incompetenza determinata da connessione, l’operatività di quest’ultima quale criterio attributivo della competenza sia subordinata alla pendenza dei procedimenti connessi nello stesso stato e grado». Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata data la soluzione: « negativa ». La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite 31 gennaio 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 31 gennaio 2013, le Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione: «se, a seguito della novella introdotta dalla legge n. 49 del 2006, il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia o meno penalmente rilevante, nella duplice ipotesi di mandato all’acquisto o dell’acquisto comune». Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata data la soluzione: «Penalmente irrilevante in entrambe le ipotesi». La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite 31 gennaio 2013 All’esito della Camera di consiglio del 31 gennaio 2013, le Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione :«se la circostanza aggravante ad effetto speciale della cosiddetta transnazionalità, prevista dall’art. 4 della l. 16 marzo 2006. n. 146, sia o meno compatibile con il reato di associazione per delinquere o sia applicabile ai soli reati fine». Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata data la seguente soluzione: «è compatibile con il reato di associazione per delinquere, sempreché il gruppo criminale transnazionale non coincida con l’associazione stessa». La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o ● Rassegna di legittimità ● A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli e Andrea Alberico Dottore di Ricerca in Diritto Penale Avvocato 2 0 1 3 73 Impugnazioni – Interessi civili – Impugnazione per i soli interessi civili – Appello introdotto dalla sola impugnazione della parte civile – Partecipazione e conclusioni del rappresentante della pubblica accusa – Necessità L’appello che sia stato introdotto, ai sensi del comma pri‑ mo dell’art. 576 c.p.p., dall’impugnazione della sola parte civile va trattato, sulla scorta di quanto disposto dall’art. 573 c.p.p., con le forme ordinarie del processo penale, per cui è necessaria la partecipazione e le conclusioni del rappresen‑ tante della pubblica accusa. Cass., sez. 6, sentenza 19 dicembre 2012, n. 1514 (dep. 11 gennaio 2013) Rv. 253939 Pres. Agro’, Est. Citterio, Imp. Crispi, P.M. D’Angelo (Diff.) (Annulla senza rinvio, App. Campobasso, 10 novembre 2011) Impugnazioni – Interessi civili – Impugnazione per i soli interessi civili – Assoluzione dell’imputato in primo grado – Riforma in grado di appello ai soli fini civili – Diversa e non maggiormente plausibile valutazione delle medesime prove – Illegittimità È illegittima la sentenza d’appello che in riforma di quel‑ la assolutoria affermi la responsabilità dell’imputato, sia pure ai soli fini civili, sulla base di una alternativa e non mag‑ giormente persuasiva interpretazione del medesimo compen‑ dio probatorio utilizzato nel primo grado di giudizio. Cass., sez. 6, sentenza 19 dicembre 2012, n. 1514 (dep. 11 gennaio 2013) Rv. 253940 Pres. Agro’, Est. Citterio, Imp. Crispi, P.M. D’Angelo (Diff.) (Annulla senza rinvio, App. Campobasso, 10 novembre 2011) Persona giuridica – Società – Reati societari – False comunicazioni sociali – Nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 61 del 2002 – Esclu‑ sione della punibilità – Cause In tema di false comunicazioni sociali, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 61 del 2002 la punibilità è esclusa se la condotta incriminata non altera in modo sensi‑ bile la rappresentazione della situazione economica, patrimo‑ niale o finanziaria della società, ovvero, in via alternativa, non determina una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al cinque per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all’uno per cento, ferma restando ai fini della configurabilità del reato l’irrilevanza di valutazioni estimative che singolar‑ mente considerate non differiscano in misura non superiore al dieci per cento rispetto a quella corretta. Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229 (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253929 Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Volpe (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011) Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici Uffi‑ ciali – Concussione – In genere – Modifiche previste dalla legge n. 190 del 2012 – Condotta di costrizione – Integrazione – Violenza mora‑ le – Necessità – Violenza fisica – Rilevanza – Esclusione – Ragioni In tema di concussione, la costrizione, che costituisce l’elemento oggettivo della fattispecie, così come modificata dall’art. 1, comma 75, legge 6 novembre 2012, n. 190, impli‑ ca l’impiego da parte del pubblico ufficiale della sola violenza penale Gazzetta 74 D i r i t t o e p r o c e d u r a morale, che consiste in una minaccia, esplicita o implicita, di un male ingiusto, recante alla vittima una lesione patrimo‑ niale o non patrimoniale. (In motivazione la Corte ha preci‑ sato che il concetto di costrizione non ricomprende l’utilizzo della violenza fisica, incompatibile con l’abuso di qualità o di funzioni). Cass., sez. 6, sentenza 3 dicembre 2012, n. 3251 (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253936 Pres. Agro’, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. Roscia,P.M. Viola (Conf.) (Annulla con rinvio, App. Roma 17 giugno 2011) Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici Ufficiali – Concussione – In genere – Modifiche previste dalla legge n. 190 del 2012 – Ipotesi delittuose ex artt. 317 e 319 quater c.p. – Continuità normativa con il precedente testo dell’art. 317 c.p. – Configurabilità Sussiste continuità normativa fra l’incriminazione previ‑ sta dall’art. 317, c.p., nel testo vigente prima delle modifiche apportate dall’art. 1 comma 75 della legge 6 novembre 2012 n. 190, e quelle contenute nel medesimo art. 317 e nella nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater, comma primo, c.p., come introdotte dalla legge citata. Cass., sez. 6, sentenza 3 dicembre 2012, n. 3251 (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253935 Pres. Agro’, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. Roscia,P.M. Viola (Conf.) (Annulla con rinvio, App. Roma 17 giugno 2011) Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici Ufficiali – Corruzione – Istigazione alla corruzione – Distinzione dalla fattispecie di induzione di cui all’art. 319 quater – Rapporto paritario fra le parti – Necessità Sussiste il delitto di istigazione alla corruzione, previsto dall’art. 322 c.p., e non di induzione punita dall’art. 319 quater c.p., ove fra le parti si instauri un rapporto paritario diretto al mercimonio dei poteri. Cass., sez. 6, sentenza 3 dicembre 2012, n. 3251 (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253937 Pres. Agro’, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. Roscia,P.M. Viola (Conf.) (Annulla con rinvio, App. Roma 17 giugno 2011) Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici Ufficiali – In genere – Reato di cui all’art. 319 quater c.p. – Elemento oggettivo – Attività di induzione – Significato L’induzione, che costituisce l’elemento oggettivo della fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., così come introdotta dall’art. 1, comma 75, legge 6 novembre 2012, n. 190, sussi‑ ste quando, in assenza di qualsivoglia minaccia, vengano prospettate, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione della legge, per ottenere il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità. (In motivazione, la Corte ha evidenziato come l’esclusione dal concetto di induzione di qualsiasi tipo di minaccia giustifichi sia il minor grave trattamento sanzionatorio rispetto alla concussione, sia la punizione di chi aderisce alla violazione della legge, ricevendone un suo tornaconto). Cass., sez. 6, sentenza 3 dicembre 2012, n. 3251 p e n a l e Gazzetta F O R E N S E (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253938 Pres. Agro’, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. Roscia,P.M. Viola (Conf.) (Annulla con rinvio, App. Roma 17 giugno 2011) Reati fallimentari – Bancarotta fraudolenta – In genere – Banca‑ rotta per distrazione – Dolo – Oggetto – Stato d’insolvenza – Esclu‑ sione – Scopo di recare pregiudizio ai creditori – Necessità – Esclu‑ sione Il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è rea‑ to di pericolo a dolo generico per la cui sussistenza, pertanto, non è necessario che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori. Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229 (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253932 Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑ pe (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011) Reati fallimentari – Bancarotta fraudolenta – In genere – Banca‑ rotta per distrazione – Reato di pericolo – Conseguenze Il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo e non è dunque necessario, per la sua sussistenza, la prova che la condotta abbia causato un effettivo pregiudi‑ zio ai creditori, il quale rileva esclusivamente ai fini della eventuale configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 219 legge fallimentare. Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229 (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253933 Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑ pe (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011) Reati fallimentari – In genere – Impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa – Applicabilità – Accertamento giudiziale dello stato d’insolvenza – Eseguito prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 270 del 1999 – Irrilevanza L’accertamento giudiziale dello stato d’insolvenza dell’im‑ presa soggetta alla procedura di liquidazione coatta ammini‑ strativa è presupposto necessario e sufficiente per l’applica‑ bilità delle norme incriminatrici in materia di bancarotta ancorché effettuato in epoca antecedente alla modifica degli artt. 203 e 237 legge fall. ad opera del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270. Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229 (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253931 Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑ pe (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011) Reati fallimentari – In genere – Impresa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa – Accertamento giudiziale dello stato d’insolvenza – Sindacabilità da parte del giudice penale – Esclu‑ sione L’applicabilità delle norme incriminatrici in materia di bancarotta nel caso di impresa soggetta alla procedura di liquidazione coatta amministrativa presuppone l’accertamen‑ to giudiziale del suo stato d’insolvenza, equiparato, ai sensi dell’art. 237 legge fall., alla sentenza dichiarativa di fallimen‑ F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o to e, come quest’ultima, insindacabile in sede penale anche qualora sottoposto a gravame. Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229 (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253930 Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑ pe (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011) Reati fallimentari – In genere – Società cooperative – Liquidazione coatta amministrativa – Reati fallimentari – Configurabilità – Rin‑ vio in tal senso operato dalla l. n. 400 del 1975 alla legge fallimen‑ tare – Natura del rinvio – Individuazione della norma di rinvio a seguito delle modifiche apportate dalla d.lgs. n. 270 del 1999 In tema di società cooperative, il rinvio operato dall’art. 1 l. 17 luglio 1975, n. 400 alle norme contenute nel titolo quinto della legge fallimentare e dunque anche all’originaria formulazione dell’art. 203 della stessa legge, che prevedeva l’applicabilità delle norme penali fallimentari all’imprendito‑ re soggetto alla procedura di liquidazione coatta amministra‑ tiva, deve ritenersi di tipo “mobile” e pertanto in tale pro‑ spettiva tuttora operante sebbene riferibile, dopo le modifiche apportate dal d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, alla disposizione contenuta nell’art. 237 legge fall. Cass., sez. 5, sentenza 14 dicembre 2012, n. 3229 (dep. 22 gennaio 2013) Rv. 253934 Pres. Ferrua, Est. Vessichelli, Imp. Rossetto e altri, P.M. Vol‑ pe (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 18 aprile 2011) Stupefacenti – In genere – Art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990 – Art. 84 d.P.R. n. 309 del 1990 – Rapporti – Fattispecie La condotta di chi si limiti a rendere nota al pubblico l’esistenza di una sostanza stupefacente, veicolando un mes‑ saggio non persuasivo e privo dello scopo immediato di de‑ terminare all’uso di sostanze stupefacenti, integra l’illecito amministrativo di propaganda pubblicitaria di sostanze stu‑ pefacenti (art. 84 d.P.R. n. 309 del 1990), e non il reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti (art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990). 2 0 1 3 75 Cass., sez. un., sentenza 18 ottobre 2012, n. 47604 (dep. 07 dicembre 2012) Rv. 253551 Pres. Lupo, Est. Squassoni, Imp. P.M. in proc. Bargelli e altro, P.M. Fedeli M. (Conf.) (Annulla con rinvio, Gip Trib. Firenze, 01 giugno 2011) Stupefacenti – In genere – Offerta in vendita di semi di pianta dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti – Rilevanza penale – Esclusione – Ragioni La mera offerta in vendita di semi di pianta dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti non è penalmente rile‑ vante, configurandosi come atto preparatorio non punibile perché non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato, non potendosi dedurne l’effettiva de‑ stinazione dei semi. Cass., sez. un., sentenza 18 ottobre 2012, n. 47604 (dep. 07 dicembre 2012) Rv. 253552 Pres. Lupo, Est. Squassoni, Imp. P.M. in proc. Bargelli e altro, P.M. Fedeli M. (Conf.) (Annulla con rinvio, Gip Trib. Firenze, 01 giugno 2011) Stupefacenti – In genere – Vendita di semi di piante di piante idonee a produrre sostanze stupefacenti con indicazione di mo‑ dalità di coltivazione e resa – Rilevanza penale Istigazione al consumo di sostanze stupefacenti – Esclusione – Istigazione a delinquere – Configurabilità L’offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricava‑ bile una sostanza drogante, accompagnata da precise indica‑ zioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato di cui all’art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990. (La S.C. ha precisato che la predetta condotta può integrare, ricorrendo‑ ne i presupposti, il reato di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti, ex art. 414 c.p.). Cass., sez. un., sentenza 18 ottobre 2012, n. 47604 (dep. 07 dicembre 2012) Rv. 253550 Pres. Lupo, Est. Squassoni, Imp. P.M. in proc. Bargelli e altro, P.M. Fedeli M. (Conf.) (Annulla con rinvio, Gip Trib. Firenze, 01 giugno 2011). penale Gazzetta 76 D i r i t t o ● p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E DIRITTO PENALE Rassegna di merito ● e A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli e Giuseppina Marotta Avvocato Associazione per delinquere di stampo mafioso: partecipazio‑ ne – Condotta dell’imprenditore – Criterio distintivo tra impren‑ ditore vittima ed imprenditore colluso (art. 416 bis c.p.) Il criterio distintivo tra imprenditore vittima ed imprendi‑ tore colluso va individuato, come sostenuto da pacifica giuri‑ sprudenza sul punto, nel. fatto che il secondo, a differenza del primo, rivolge consapevolmente e volontariamente a proprio vantaggio l’essere venuto in relazione con il sodalizio camorri‑ stico entrando così in un sistema illecito di esercizio dell’ impre‑ sa contraddistinto da agevolazioni (appalti, commesse, appoggi politici, aperture di linee di credito ecc. ottenuti grazie all’inter‑ mediazione del clan) così trasformando l’originario danno in‑ giusto subito derivante dalla imposizione della tangente estor‑ siva – in un consistente ingiusto vantaggio o beneficio ravvisa‑ bile nella possibilità di consolidare una posizione dominante a scapito della concorrenza, potendo fruire, dunque, di una sorte di posizione di monopolio. Cosi la Suprema Corte (cfr. tra le altre sent. n. 46552/05) ha affermato che è ragionevole ritenere imprenditore colluso colui che sia entrato in un “rapporto si‑ nallagmatico” con il sodalizio tale da produrre vantaggi ‑ingiu‑ sti perché garantiti dall’apparato strumentale mafioso – per entrambi i contraenti e tale da consentire all’imprenditore di imporsi sul territorio in posizione dominante proprio grazie all’ausilio del sodalizio che in cambio ne riceve risorse, servizi o comunque utilità. Una volta provato il suddetto “sinallagma criminoso”, prosegue la Suprema Corte, la condotta dell’im‑ prenditore colluso sarà configurabile come partecipazione alla associazione per delinquere ex art. 416 bis c.p – allorquando l’imprenditore risulti stabilmente inserito nella struttura orga‑ nizzativa dell’associazione con un ruolo specifico e funzionale al raggiungimento dei fini del sodalizio – o sarà configurabile come concorso eventuale ‑allorquando l’ imprenditore, non intraneo alla struttura organizzativa, agisca dall’esterno con la consapevolezza e volontà di fornire un contributo causale alla conservazione, rafforzamento o realizzazione, anche parziale del programma della associazione. È e rimane imprenditore vittima colui che non viene a patti con il sodalizio per volgere a proprio vantaggio la condizione di assoggettamento, ma anche di omertà, in cui si trova per la forza della intimidazione espres‑ sa dal sodalizio cedendo alla imposizione mafiosa e magari trovando un’intesa con il sodalizio al fine di limitare il danno ingiusto (ad esempio pagamento preventivo ed accettato della tangente estorsiva per evitare danneggiamenti, atti di intimida‑ zione, blocchi di cantieri ecc.). Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno sentenza 2 dicembre 2011, n. 3026 Calunnia: elemento oggettivo – Caratteristiche (art. 368 c.p.) Secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale, il delitto di calunnia sussiste anche, quando l’incolpazione venga formulata attraverso la simulazione a carico di una persona, non indicata, ma identificabile, delle tracce di un indeterminato reato, purché la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti all’ inizio dell’azione penale nei confronti di soggetto univocamente e agevolmente identificabile. Ed invero in base a tale il principio la Cassa‑ F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o zione ha, più volte, ritenuto sussistente l’elemento materiale del reato previsto dall’art.368 c.p. nella denuncia di smarri‑ mento di un assegno preordinata a far convergere su una persona identificabile l’accusa del reato di furto o di ricetta‑ zione (cfr., tra le altre, Cass. 02 aprile 92 n.3784, Arduini). Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno sentenza 10 gennaio 2013, n. 43 Circostanze aggravanti: minorata difesa – Presupposti e limiti (art. 61 n. 5 c.p.) Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa (art. 61 comma primo, n. 5 c.p.). se il tempo di notte, di per sé solo, non realizza automaticamente tale aggravante, con esso possono concorrere altre condizio‑ ni che consentono, attraverso una complessiva valutazione, di ritenere in concreto realizzai, una diminuita capacità di difesa sia pubblica che privata, non essendo necessario che tale difesa si presenti impossibile ed essendo sufficiente che essa sia stata soltanto ostacolata (in tal senso Cass. sei. 2. Sentenza n. 3598 del 18/01/2011). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164 Pres. Napoletano, Est. De Majo Circostanza aggravante: minorata difesa – Valutazione delle condizioni soggettive e della sua attendibilità – Necessità (art. 61 n. 5 c.p.) Il dato concernente le peculiari condizioni della vitti‑ ma – costituisce il substrato di una circostanza che viene posta a base della stessa ricostruzione storico – fattuale della vicenda, per cui ne deriva che detta circostanza deve rilevare nel contesto processuale in tutte le sue diverse implicazioni: essa, cioè, non solo deve essere oggetto di prova, come ogni altro elemento costitutivo del reato ma deve rilevare ed inci‑ dere anche ai fini della valutazione della prova testimoniale, non potendosi non attribuire un rilievo specifico alle predet‑ te condizioni soggettive della vittima anche al fine di consi‑ derarne la concreta possibilità di incidenza, determinante ai fini della complessiva attendibilità della vittima, soprattutto laddove, dal dibattimento emergano una serie di indici di‑ mostrativi di labilità e lacunosità del ricordo da parte della vittima e di incongruenze nelle sue capacità descrittive, con‑ dizionate evidentemente, come più volte detto, da fattori stressanti e da comunemente noti fenomeni di rimozione reattiva, oltre che dall’età. Corte Appello Napoli, Sez. III sentenza 15 novembre 2012, n. 5096 Pres. Est. Catena Circostanza attenuante del risarcimento del danno: natura sog‑ gettiva – Riequilibrio del pregiudizio patrimoniale – Necessità (art. 70 c.p.) La circostanza attenuante in argomento, di natura sog‑ gettiva quanto agli effetti di cui all’art. 70 c.p., deve qualifi‑ carsi “oggettiva” in ordine al suo contenuto. Il risarcimento deve essere integrale e deve essere posto in essere dal sogget‑ to agente nei cui confronti il giudice deve essere preliminar‑ mente in grado di esprimere una valutazione positiva della sua resipiscenza e, dunque, della sua minore pericolosità sociale. È evidente allora che la circostanza attenuante in 2 0 1 3 77 argomento non si perfeziona tanto nel caso in cui la ripara‑ zione non sia integrale, quanto in quello in cui essa sia inte‑ grale ma non espressione della attenuata capacità a delinque‑ re del reo (cfr. da ultimo, Cass., Sez. II, sentenza n. 21014 del 13 maggio 2010 ud. (dep. 04 giugno 2010) Rv. 247121 così massimata: ‘la circostanza attenuante del risarcimento del danno ha natura soggettiva solo relativamente agli effetti mentre quanto al contenuto qualificabile come essenzialmen‑ te oggettiva, giacché, ai fini della sua configurabililtà è ne‑ cessario che il pregiudizio patrimoniale subito dalla persona offesa sia pienamente riequilibrato, non essendo sufficiente il solo ravvedimento del reo). Tribunale Napoli, G.u.p. Ferri sentenza 20 dicembre 2012, n. 2975 Circostanza attenuante della riparazione del danno: denaro pro‑ veniente da terzi e/o familiari – Esclusione dell’attenuante (art. 70 c.p.) L’assenza di un assegno impedisce di valutare se all’offer‑ ta gli imputali abbiano provveduto con denaro proprio d in tal caso di verificare quale sia la provenienza. Invero, i giu‑ dici della Suprema Corte hanno chiarito che “l’attenuante della riparazione del danno non può trovare applicazione nel caso in cui il risarcimento, in tutto o in parte, venga operato da terzi e non dall’imputato. (Fattispecie in cui al risarcimen‑ to del danno sofferto dalla vittima del reato avevano prov‑ veduto i familiari dell’imputato), (Cass., Sez. 6, n. 12621 del 25 marzo 2010) ud (dep., 31 marzo 2010) Rv. 246742 Tribunale Napoli, G.u.p. Ferri, sentenza 20 dicembre 2012, n. 2975 Confisca: trasporto di TLE – Proprietà di terzo estraneo – Onere della prova dell’assenza di colpa e difetto di vigilanza – Assen‑ za – Confiscabilità (art.240 c.p. – d.P.R. 43/73) L’art 301 del d.P.R. 43/1973 prevede la possibilità di procedere alla confisca del mezzo utilizzato per il trasporto della merce di proprietà del terzo qualora lo stesso non di‑ mostri: di non averne potuto prevedere l’illecito impiego anche occasionale e di non essere incorsa in un difetto di vi‑ gilanza. Con tale disposizione il legislatore ha sostanzialmen‑ te posto a carico del terzo estraneo ai fatti e proprietario del veicolo l’onere di dimostrare la sua assoluta buona fede e quindi di ignorare che l’utilizzo del suo veicolo avvenisse per attività di contrabbando. Ed infatti “in tema di contrabban‑ do doganale, nel caso in cui venga utilizzato per il trasporto della merce un mezzo di proprietà di un terzo estraneo al reato, quest’ultimo ha l’onere di provare, al fine di evitare la confisca obbligatoria, ed ottenerne la restituzione, di non averne potuto prevedere, nemmeno a titolo di colpa, l’illeci‑ to impiego, anche occasionale da parte dei terzi e di non es‑ serne incorso in un difetto di vigilanza”. (Cass. pen., Sez. III 14 novembre 2007, n. 41876). Tribunale Napoli, G.u.p. Piccirillo sentenza 21 maggio 2013, n. 1116 Estorsione: minaccia finalizzata ad ottenere interessi usura‑ ri – Esclusione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ra‑ gioni – Configurabilità del tentativo di estorsione (art. 629 c.p.) penale Gazzetta 78 D i r i t t o e p r o c e d u r a Nell’ipotesi in cui un soggetto ponga in essere una minac‑ cia per ottenere il pagamento di interessi usurari, è configu‑ rabile il delitto di estorsione (nella specie tentata, in mancan‑ za di successive erogazioni) e non quello di esercizio arbitra‑ rio delle proprie ragioni, poiché l’agente è consapevole di esercitare la minaccia per ottenere il soddisfacimento dell’in‑ giusto profitto derivante da una pretesa “contra ius”; egli non può avere, infatti, la ragionevole opinione di far valere un diritto tutelabile con l’azione giudiziaria che gli è negata in considerazione dell’illiceità della pretesa. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 18 luglio 2012, n. 1972 Pres. Aschettino, Est. de Majo Estorsione: pluralità di atti intimidatori – Configurabilità di azio‑ ne unica o meno – Requisiti e presupposti (art. 629 c.p. – 81 c.p.) Per stabilire se (nel caso di tentata estorsione posta in essere attraverso più atti intimidatori) ci si trovi in presenza di un’azione unica o meno occorrerà analizzare la pluralità di condotte poste in essere alla luce di un duplice criterio: finalistico e temporale. Ed invero, ‘azione unica non equiva‑ le ad atto unico, ben potendo la stessa essere composta da una molteplicità di atti che, in quanto diretti al conseguimen‑ to di un unico risultato, altro non sono che un frammento dell’ azione. una modalità esecutiva della condotta delittuo‑ sa. L’unicità del fine a sua volta non basta per imprimere all’azione un carattere unitario. essendo necessaria la cosid‑ detta contestualità, vale a dire l’immediato succedersi dei singoli atti, sì da rendere l’azione unica. Ne consegue che in caso di estorsione tentata, i diversi contatti posti in essere per procurarsi l’ ingiusto profitto costituiscono autonomi tenta‑ tivi di reato, unificabili con il vincolo della continuazione quando, singolarmente considerati in relazione alle circostan‑ ze del caso concreto e, in particolare, alle modalità di realiz‑ zazione e soprattutto all’elemento temporale, appaiono do‑ tati di una propria completa individualità. Mentre si ha un solo tentativo di estorsione, pur in presenza di molteplici atti di minaccia, allorché gli stessi, alla stregua dei criteri sopra enunciati, costituiscono singoli momenti di un ‘azione unica’. (Cass., Sez. VI, 10 novembre 1994 ‑28 febbraio 1995, fI. 2070, CP 96 n 17) Tribunale Napoli, G.u.p. Ferri sentenza 20 dicembre 2012, n. 2975 Estorsione: tentativo – Espressioni intimidatorie “se non paghi ti uccido” – Configurabilità (art. 56 — 629 c.p.) Ai fini della configurabilità del delitto di tentata estorsio‑ ne è sufficiente che la minaccia o violenza, che è elemento costitutivo, sia tale da incutere potenzialmente una coerci‑ zione dell’altrui volontà e a nulla rileva che il soggetto passi‑ vo in effetti non si sia intimidito, né rileva la misura dell’in‑ tensità del proposito dell’agente riguardo alla realizzazione del male minacciato (cfr. Cass., Sez. E, n. 3824 del 17 maggio 1986 e Cass., Sez. VI, n. 10229 del 27 agosto 1999). Ed è evidente come una tale potenzialità di coazione psìchicafos‑ se connaturata nelle espressioni intimidatorie utilizzate dall’imputato – “Se non paghi ti uccido”‑ al fine di ottenere l’ingiusto profitto richiesto. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Tribunale Nola, coll. A) sentenza 18 luglio 2012, n. 1972 Pres. Aschettino, Est. de Majo Favoreggiamento personale: aggravante di cui all’art. 7 – Agevo‑ lazione della latitanza di un soggetto apicale – Insufficien‑ za – Esclusione della circostanza – Necessaria prova di voler aiu‑ tare l’associazione (art. 378 c.p.) Non è sufficiente per l’operatività dell’aggravante il solo fatto che il soggetto favorito sia un membro apicale dell’as‑ sociazione criminale, ma sarebbe necessario un quid pluris consistente in un concreto aiuto al sodalizio (Cass., Sez. VI, 28 febbraio 2008, n. 13457 in Riv. Polizia, 2009, 7, 491, in una fattispecie relativa all’agevolazione della latitanza di un capo camorrista, per averne reso possibile un incontro con il figlio, accompagnato dal padre a bordo di un’autovettura; Cass., Sez. VI, 11 febbraio 2008, n. 19300, in CED Casso rv. relativa alla condotta di una persona che, per favorire i contatti tra un latitante e i suoi congiunti, aveva predisposto autoveicoli idonei ad eludere le ricerche delle forze di polizia; Cass., Sez. VI, 10 dicembre 2007, n. 6571).Sul piano dell’im‑ putazione soggettiva dell’aggravante, infatti, deve rilevarsi che, allorché risulta un aiuto al capomafia, deve pure ravvi‑ sarsi necessariamente l’intenzione del favoreggiatore di favo‑ rire anche l’associazione (Cass., Sez. II, 26 maggio 2011, n. 26589 in CED Casso 2011, rv. 251000) Il legame di pa‑ rentela esistente tra gli imputati e la specifica condotta posta in essere non permettono di ravvisare, con la necessaria cer‑ tezza, detto elemento soggettivo. Deve pertanto escludersi la contestata aggravante. Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano sentenza 9 gennaio 2013, n. 143 Favoreggiamento personale: aggravante di cui al comma 2 – Com‑ patibilità con l’aggravante di cui all’art. 7 l. 203/91 (art. 378 c.p. – l. 203/91) L’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 378 cod. peno è compatibile con quella prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, quando il favoreggiamento sia stato compiuto in re‑ lazione a persona che abbia fatto parte di associazione di stampo mafioso e contemporaneamente l’azione sia diretta ad agevolare l’attività del sodalizio criminoso (Cass. pen., Sez. VI, 10 giugno 2005, n. 35680). Non sussiste, infatti, alcuna sovrapposizione con l’aggravante ex art. 378 c.p. che è legata esclusivamente al dato oggettivo del favoreggiamen‑ to di colui che sia indagato per associazione mafiosa, mentre la fattispecie in esame è caratterizzata dalla finalizzazione della condotta all’agevolazione del sodalizio criminale. Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano sentenza 9 gennaio 2013, n. 143 Favoreggiamento personale: aggravante di cui al comma 2 – Na‑ tura e presupposti (art. 378 c. 2 c.p.) La circostanza aggravante di cui all’art. 378, co. 2, c.p. ha natura oggettiva, poiché attiene alla maggiore entità del danno subito dall’amministrazione della giustizia per effetto della lesione dell’interesse alla repressione del reato di cui F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o all’art. 416‑bis cod. peno (oggetto del favoreggiamento), considerato di particolare gravità; conseguentemente, essa sussiste per il solo fatto che il soggetto “favorito” abbia fatto parte dell’organizzazione criminosa di stampo mafioso, non occorrendo la prova che l’attività di favoreggiamento sia diretta ad agevolare l’attività del sodalizio (Cass. pen., Sez. II, 13 giugno 2007, n. 35266). Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano sentenza 9 gennaio 2013, n. 143 Favoreggiamento personale: aggravante di cui al comma 2 dell’art. 378 c.p. – Natura e presupposti (art. 378 co. 2 c.p.) L’aggravante di cui al comma,2 dell’art. 378 c.p. ha na‑ tura oggettiva e trova fondamento nella “maggiore entità del danno subito dall’amministrazione della giustizia per effetto della lesione dell’interesse alla repressione del reato di cui all’art. 416 bis c.p. (oggetto del favoreggiamento), conside‑ rato di particolare gravità; conseguentemente, essa sussiste per il solo fatto che il soggetto ‘’favorito’’ abbia fatto parte dell’organizzazione criminosa di stampo mafioso, non occor‑ rendo la prova che l’attività di favoreggiamento sia diretta ad agevolare l’attività del sodalizio. Non può, invece, ritenersi provata l’aggravante, di natura soggettiva e fondata “sulla maggiore pericolosità sodale dimostrata dall’agente attraver‑ so l’intento di perseguire il vantaggio che necessita, pertanto, di specifica prova (cfr. sentenza sopra richiamata), di cui all’art. 7 L. 203/291 in mancanza di elementi positivi che facciano ritenere che l’agente fosse a conoscenza dello spes‑ sore criminale del favorito e che, aiutando il latitante, abbia voluto favorire o agevolare l’attività del clan. Tribunale Napoli, G.u.p. Rovida sentenza 20 dicembre 2012, n. 2991 Favoreggiamento personale: elemento soggettivo – Presupposti (art. 378 c.p.) Per la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di favoreggiamento personale è sufficiente il dolo generico, che deve consistere nella cosciente e volontaria determinazione delle condotte nella consapevolezza della loro natura elusiva delle investigazioni e delle ricerche dell’autorità e della fina‑ lizzazione delle stesse a favorire colui che sia sottoposto a tali investigazioni o ricerche (Cass. pen., Sez. VI, 24 maggio 2011) Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano sentenza 9 gennaio 2013, n. 143 Favoreggiamento personale: nozione di aiuto – Condotta mate‑ riale (art. 378 c.p.) L’aver sostenuto un latitante, anche con azioni volte ad evitargli incontri in zone pubbliche, è comportamento idoneo ad integrare il delitto di favoreggiamento personale, perché determina a carico della polizia giudiziaria procedente un maggiore impegno nello svolgimento delle indagini finaliz‑ zate alla ricerca del latitante medesimo. Il delitto di favoreg‑ giamento, infatti, consiste in un reato di pericolo a forma libera, che rimane integrato da qualsiasi comportamento idoneo, sia pure solo in astratto, a intralciare il corso della giustizia. Ai fini della configurabilità dell’illecito, pertanto, 2 0 1 3 79 non è necessaria la dimostrazione dell’effettivo vantaggio conseguito dal soggetto favorito, occorrendo solo la prova della oggettiva idoneità della condotta favoreggiatrice ad intralciare il corso della giustizia (Cass. pen., Sez. VI, 07 novembre 2011, n. 3523). La nozione di aiuto contemplata dalla fattispecie, dunque, è individuabile in qualsiasi com‑ portamento tenuto da chi collabori attivamente con un lati‑ tante nella cura dei suoi affari ed interessi, offrendogli il modo e la copertura per attendere a ciò senza esporsi all’at‑ tenzione dell’autorità di polizia. Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano sentenza 9 gennaio 2013, n. 143 Favoreggiamento personale: scriminante – Nozione di prossimo congiunto – Cugino imputato – Esclusione (art. 384 c.p.) La nozione di prossimo congiunto è delineata dall’art. 307, co. 4, c.p. secondo il quale s’intendono per i prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti. Le ipo‑ tesi che la norma ricomprende nel concetto di “prossimo congiunto” sono tassative; pertanto non è tale il “cugino” dell’imputato. Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano sentenza 9 gennaio 2013, n. 143 Favoreggiamento personale: scriminante – Requisiti (art. 384 c.p.) L’art. 384 c.p. scrimina o comunque manda esente da responsabilità penale colui che commetta un fatto di favoreg‑ giamento personale allorché questi agisca per tutelare un proprio individuale interesse di libertà o di onore ovvero quello di un prossimo congiunto. La ratio sottesa a tale nor‑ ma risiede nella volontà del legislatore di privilegiare l’inte‑ resse privato rispetto a quello di prevenire il pericolo di sviamento dell’ordinato e corretto svolgersi dell’amministra‑ zione della giustizia (Cass. pen., Sez. VI, 16 giugno 2011, n. 37398). Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano sentenza 9 gennaio 2013, n. 143 Minaccia: fatto commesso contro un p.u. – Circostanza aggravan‑ te di cui all’art. 339 c.p. – Esclusione – Perseguibilità a querela (art. 339 c.p. – 61 n. 10 c.p.) Tra le aggravanti di cui all’art.339 c.p. non vi rientra quella di cui all’art.61 n.10 c.p. – l’aver commesso il fatto contro un pubblico ufficiale – per cui in assenza della quere‑ la, s’impone la pronuncia di non doversi procedere per difet‑ to della necessaria condizione di procedibilità. Tribunale Napoli, G.M. Bottillo sentenza 28 gennaio 2013, n.1698 Oltraggio: offesa rivolta a p.u. – Luogo pubblico o aperto al pub‑ blico – Fatto avvenuto in istituto penitenziario – Esclusione del reato (art. 336 c.p.) Non integrano il reato di minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.) le espressioni di minaccia rivolte nei confronti di un pubblico ufficiale come reazione alla pregressa attività dello stesso, in quanto difetta la finalità di costringere la persona penale Gazzetta 80 D i r i t t o e p r o c e d u r a offesa a compiere un atto contrario ai propri doveri o ad omet‑ tere un atto dell’ufficio ovvero quella di influire comunque su di esso, potendosi, piuttosto, configurare il reato di minaccia aggravata ex art. 612 e 61, n. 10, c.p. (Nella specie, il reato di cui all’articolo 336 c.p. era stato ravvisato a carico degli impu‑ tati, detenuti in un carcere, i quali, come reazione alla condot‑ ta di un agente della polizia penitenziaria che, in precedenza, aveva redatto rapporto a carico di uno dei due e testimoniato nei confronti del medesimo in relazione ad un altro illecito ex articolo 336 c.p., lo avevano minacciato, profferendo, tra le altre, le seguenti espressioni: “prega solo Dio che non mi con‑ dannino e che tutto vada bene, se no poi vedrai”; la Corte, proprio sulla base delle argomentazioni di cui in massima, ha ritenuto che il fatto dovesse essere configurato come minaccia contro un pubblico ufficiale perseguibile a querela). Tribunale Napoli, G.M. Bottillo sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698 Oltraggio a p.u.: elementi costitutivi – Successione di leggi (art. 341 bis c.p.) Il reato di cui all’art.341 bis c.p. (fattispecie reintrodotta, con modifiche, dalla Legge 15.7.2009 n. 94) sanziona la con‑ dotta di colui che in luogo pubblico o in presenza di più per‑ sone offenda l’onore o il decoro del pubblico ufficiale mentre compie un atto istituzionale ovvero è nell’esercizio delle sue funzioni. La legge 94/2009 ha espunto dal tessuto normativo ogni riferimento alla violenza, con la conseguenza che l’uso della violenza è compatibile con tale delitto soltanto nei ri‑ strettissimi limiti della cosiddetta ingiuria reale, configurabi‑ le quando le percosse costituiscano una violenza di inavver‑ tibile entità, che, senza voler cagionare alcuna sofferenza alla parte offesa, evidenzi il proposito di arrecare alla vittima of‑ fesa morale, avvilendola con un gesto di disprezzo (cfr. Cass., Sez. 6, sentenza n. 24630 del 15 maggio 2012 Imputato: Fiorillo e altro). Tuttavia, la nuova fattispecie dell’art.341 bis c.p. come reintrodotta dalla Legge 2009/94, prevede, rispetto alla pregressa fattispecie di cui all’art.34 c.p., un diverso ed ulteriore elemento costitutivo del reato ovverossia che l’offesa avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico cosicchéessa abbia attitudine ad essere recepita da un numero indetermi‑ nato di persone, ovvero che l’offesa avvenga in presenza di più persone che abbiano effettivamente percepito l’espressione ingiuriosa posto che la ratio della punibilità di tale condotta è quella di tutelare l’immagine del pubblico ufficiale e della istituzione che rappresenta. Tribunale Napoli, G.M. Bottillo sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698 Recidiva: aumento di pena – Facoltatività – Obbligatorietà solo per i delitti di cui all’art. 407 co. 2 lett.a) (art. 99 c.p.) Quanto all’entità pena deve premettersi che il giudicante non ritiene di applicare l’aumento di pena previsto dalla re‑ cidiva attesa la facoltatività dello stesso e la lontananza nel tempo dei precedenti, che induce a ritenere l’attuale ricaduta nel reato non significativa sotto il profilo della pericolosità e comunque non rilevante per la tutela sociale. Vale la pena aggiungere che la natura facoltativa dell’aumento di pena ex art 99 c.p., chiaramente desumibile dal suo previgente testo, non è mutata pur a seguito delle innovazioni in tema di reci‑ p e n a l e Gazzetta F O R E N S E diva dettate con la legge 251 del 2005, come può desumersi dall’ interpretazione letterale della norma. Infatti, quelle disposizioni di legge non hanno cambiato il primo com‑ ma dell’articolo in parola, che, pertanto (in proposito cfr. Corte Cost. sentenza n. 192/07 del 14 giugno 2007) continua a statuire il carattere opzionale della maggiorazione di pena, prevedendo esplicitamente, invece, un solo caso di aumento di pena obbligatorio per l delitti indicati nell’art 407 comma 2 lett. a) c.p.p., confermandosi, così, anche “a contrario”, la regola della facoltatività dell’aumento per tutti gli altri casi. Tribunale Napoli, G.u.p. De Gregori sentenza 28 maggio 2012, n. 1638 Resistenza a p.u.: elemento psicologico – Presupposti (art. 337 c.p.) Quanto al profilo psicologico, la fattispecie richiede la coscienza e volontà di usare violenza o minaccia per opporsi al compimento dell’atto e la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un rappresentante dell’autorità che sta adempiendo ad un dovere del proprio ufficio (cfr. Cass. pen., Sez. 6° 16 aprile 2004, n. 17701 imp. Fontana). L’elemento psicologico è costituito dall’azione dell’imputato diretta a sfuggire co‑ munque all’operato del pubblico ufficiale, e cioè nella co‑ scienza e volontà di precludergli, con la propria condotta minacciosa e violenta, l’atto di ufficio ritenuto pregiudizie‑ vole ai propri interessi (Sez. 6, Sentenza n. 12554 del 30/10/1985), mentre del tutto estranei sono lo scopo media‑ to ed i motivi di fatto avuti di mira dall’agente (cfr. Sez. 6, sentenza n. 9119 del 01 giugno 1995). Tribunale Napoli, G.M. Bottillo sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698 Resistenza a p.u.: minaccia e/o ingiuria rivolta al p.u. dopo il com‑ pimento dell’atto di ufficio – Mancanza della finalità di ostacola‑ re l’operato del p.u. – Insussistenza del reato – Configurabilità dell’eventuale reato di minaccia a p.u. perseguibile a querela (art. 337 c.p.) Il reato di cui all’art.337 c.p. si configura laddove il sog‑ getto ponga in essere una condotta aggressiva, violenta o minacciosa tale da coartare la libertà del pubblico ufficiale mentre compie un atto del proprio ufficio o che sia idoneo ad ostacolare l’esplicazione della propria funzione. Infatti, la norma salvaguarda la libertà di azione del pubblico ufficiale ed è posta a tutela della pubblica amministrazione. La con‑ dotta criminosa sanzionata è specificamente diretta ad osta‑ colare il compimento dell’attività doverosa e legittima del pubblico ufficiale sicché la violenza o minaccia è usata du‑ rante il compimento dell’atto d’ufficio al fine di impedirlo e di opporsi ad esso senza restare nell’ambito della mera mani‑ festazione offensiva quale espressione di un semplice disprez‑ zo verso il pubblico ufficiale. Rientra nell’ambito delle con‑ dotte penalmente rilevanti e sanzionabili, ogni comporta‑ mento idoneo ad opporsi all’atto che il pubblico ufficiale sta doverosamente compiendo che costituisca oggettivamente minaccia e ponga in pericolo la pubblica e privata incolumi‑ tà quali, la guida spericolata inseguiti dagli agenti, il divin‑ colarsi o lo strattonare, esulando tali condotte dalla mera resistenza passiva. Tribunale Napoli, G.M. Bottillo sentenza 28 gennaio 2013, n.1698 F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 81 Resistenza a p.u.: minacce o ingiurie che non rivelano alcuna vo‑ lontà di opporsi allo svolgimento dell’atto di ufficio – Insussisten‑ za del reato (art. 337 c.p.) Non integrano il delitto di resistenza a pubblico ufficiale le espressioni di minaccia rivolte nei suoi confronti, quando le stesse non rivelino alcuna volontà di opporsi allo svolgi‑ mento dell’atto d’ufficio, ma rappresentino piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale, da inquadrare nell’ambito della diversa ipotesi delittuosa di cui all’art. 612, comma secondo, c.p. (Fattispecie in cui un detenuto, reagendo ad un rimprovero rivoltogli da una guardia penitenziaria, inveiva nei suoi con‑ fronti minacciandola di “spaccarle la testa” cfr. Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 22453 del 29 gennaio 2009 Imputato: Lombardi. Conforme Cass., Sez. 6, sentenza n. 8340 del 18 novembre 2010 Imputato: Chiodo Khalil e altro). Allo stesso modo, qualora la condotta ingiuriosa posta in essere nei confronti di un pubblico ufficiale non riveli alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell’atto d’ufficio e risulti priva del nesso di causalità psicologica tra l’offesa arrecata e le funzio‑ ni esercitate, ma rappresenti piuttosto l’espressione di uno sfogo di sentimenti ostili e di disprezzo, non può ritenersi configurabile il delitto di resistenza dovendosi inquadrare la condotta nell’ipotesi dell’oltraggio (cfr. Cass., Sez. 6, senten‑ za n. 44976 del 13 novembre 2008 Imputato: Luccisano). Tribunale Napoli, G.M. Bottillo sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698 equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità. sulla base di una valutazione “ex ante” e in rela‑ zione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto” (cfr. Cass., sez II, sentenza n. 41649 del 5 novembre 2010, Cass., Sez. 5, sentenza n. 43255 del 24 settembre 2009). Tribunale Napoli, G.u.p. Capozzi sentenza 14 gennaio 2013, n. 139 Resistenza a p.u.: violenza impropria – Sussistenza del reato (art. 337 c.p.) La materialità del delitto di resistenza al pubblico uffi‑ ciale è integrata, infatti, anche dalla violenza cosiddetta impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il suddetto soggetto, si riverbera negativamente nell’esplicazio‑ ne della relativa funzione pubblica, impedendola o semplice‑ mente ostacolandola. Solo la resistenza passiva, in quanto negazione di qualunque forma di violenza o di minaccia, ri‑ mane al di fuori della previsione legislativa di cui all’art. 337 c.p. (cfr. Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 7061 del 25 maggio 1996 Imputato: Solfrizzi). Tribunale Napoli, G.M. Bottillo sentenza 28 gennaio 2013, n. 1698 Usura: aggravante co. V n. 4 – Presupposti (art. 644 co. 5 n. 4) La circostanza aggravante speciale di cui all’art. 644 comma quinto, n. 4, c.p. è configurabile per il solo fatto che la persona offesa eserciti una delle attività protette, a nulla rilevando che il finanziamento corrisposto dietro la promes‑ sa o dazione di interessi usurari non abbia alcuna attinenza con le predette attività, (cfr. Cassazione Sez. n. 22.3.2011 n. 25328: Fattispecie nella quale il soggetto passivo esercita‑ va attività d’impresa, ma il finanziamento ricevuto era stato impiegato per l’acquisto di un immobile non direttamente impiegato nella predetta attività) dal che non può dubitarsi in alcun modo in ordine alla sussistenza della aggravante. Tribunale Nola, coll. A) Pres. Aschettino, Est. Majo Sentenza 18 luglio 2012, n. 1972 Sottrazione beni sottoposti a sequestro: rapporto con la sanzione amministrativa – Specialità della seconda (art 334 – 213 c.d.s.) La sanzione penale di cui all’art. 334 c.p. e quella ammi‑ nistrativa di cui all’art, 213 comma 4 cod. strada si pongano in rapporto di specialità che, come tale, dando luogo ad un concorso apparente di norme, non può che essere risolto con la sola applicazione della norma speciale (art. 9 1. n. 689/1981), nel caso di specie, la seconda. Tribunale Napoli, G.u.p. Pilla sentenza 9 gennaio 2013, n. 79 Tentativo: atto preparatorio – Requisiti – Criteri di valutazione (art. 56 c.p.) Anche un atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile. quando sia idoneo e diretto in modo non Tentativo: desistenza – Condotta rilevante – Requisiti (art. 56 c.p.) L’esimente della desistenza nel tentativo richiede che la determinazione del soggetto agente di non proseguire nell’azione criminosa si concreti indipendentemente da cau‑ se esterne che impediscano comunque la prosecuzione dell’azione o la rendano vana” (Cfr. Cass, Sez. 2, sentenza n. 41484 del 29 settembre 2009). “La desistenza dal tenta‑ tivo, per integrare la causa di non punibilità prevista dall’art 56 comma terzo c.p., pur non essendo necessario che sia spontanea (cioè dettata da motivi interiori di resipiscenza o di pentimento), deve tuttavia essere volontaria, cioè non determinata da intervenuti fattori esterni e indipendenti dalla volontà dell’agente. Non è volontaria la desistenza determinata dalla percezione di un fatto esterno che possa far ritenere il pericolo dell’intervento della polizia” (Cfr. Cass., Sez. 2, sentenza n. 1833 del 16 maggio 1973). Tribunale Napoli, G.u.p. Capozzi sentenza 14 gennaio 2013, n. 139 Usura: condotta materiale – Presupposti (art. 644 c.p.) Il delitto di usura, avente la struttura dei delitti ed. a con‑ dotta frazionata o a consumazione prolungata, si delinea come un reato a schema duplice, costituito da due fattispecie, desti‑ nate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria, aventi in comune l’induzione del soggetto passivo alla pattuizione di interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione dì denaro o di altra cosa mobile, delle quali l’una è caratterizzata dal conseguimen‑ to del profitto illecito e l’altra dalla sola accettazione del sinal‑ lagma ad esso preordinato. Nella prima fattispecie, il verificar‑ si dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteggia non già ad effetto del reato, più o meno esteso nel tempo in relazione penale Gazzetta 82 D i r i t t o e p r o c e d u r a all’eventuale rateizzazione del debito, bensì ad elemento costi‑ tutivo dell’illecito il quale, nel caso di integrale pagamento dell’obbligazione usuraria, si consuma con il pagamento del debito, mentre nella seconda, che si verifica quando la promes‑ sa del corrispettivo, in tutto o in parte, non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione dell’obbligazione rimasta inadempiuta (Cass. pen., 01 ottobre 2008, n. 38812; Cass. Sez. En. 11837 del 1 marzo 2004). Tribunale Nola, coll. A) Pres. Aschettino, Est. de Majo sentenza 18 luglio 2012, n. 1972 Usura: sproporzione tra le prestazione ed approfittamento dello stato di bisogno – Necessità – Esclusione (art. 644 c.p.) All’esito della riforma di cui alla l. 108/96, per la confi‑ gurabilità dell’illecito non è più richiesta una generica spro‑ porzione tra le prestazioni con approfittamento da parte dell’agente dello stato di bisogno della vittima, essendo suf‑ ficiente che il vantaggio o l’interesse pattuito nell’ambito dell’operazione negoziale sottoposta ad esame ecceda un li‑ mite di legge (ed. tasso soglia) superato il quale si realizza sempre e comunque la fattispecie ex art. 644 c.p. Tribunale Nola, coll. A) Pres. Aschettino, Est. de Majo sentenza 18 luglio 2012, n. 1972 Usura – Estorsione: concorso di reati – Presupposti (art. 644 – 629 c.p.) II reato di usura e quello di estorsione concorrono tra loro allorquando la violenza o la minaccia, assenti al momen‑ to della stipulazione del patto usurario, siano impiegate in un momento successivo, al fine di ottenere la realizzazione dei pattuiti “interessi o altri vantaggi usurari” che il soggetto passivo non possa o non voglia più corrispondere, sussisten‑ do invece il solo reato di estorsione ove la violenza o la mi‑ naccia siano impiegate “ab inìtio”, al fine di ottenere la da‑ zione o la promessa dei suddetti interessi o 23 vantaggi (Cassazione penale, 14 gennaio 2009, n. 5231 Cassazione penale, Sez. II, 29 settembre 2009, n. 41481). Tribunale Nola, coll. A) Pres. Aschettino, Est. de Majo sentenza 18 luglio 2012, n. 1972 Usura: nesso teleologico – Sussistenza – Natura del reato istanta‑ neo con effetti permanenti (art. 644 c.p.) Ricorre l’aggravante del nesso teleologìco, laddove le violenze e minacce siano chiaramente finalizzate alla ulterio‑ re consumazione del reato, cioè la riscossione dei proventi usurari. Invero, in tema di usura, la riscossione degli interes‑ si dopo l’illecita pattuizione integra il momento di consuma‑ zione del reato e non costituisce un posi factum penalmente irrilevante. Ciò deve desumersi dalla speciale regola prevista in tema di decorrenza della prescrizione dall’art. 644 ter c.p., laddove si stabilisce che “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”. Ne deriva che l’usura non è più qualifica‑ bile, come in passato, come reato istantaneo con effetti permanenti, bensì come reato a consumazione prolungala, p e n a l e Gazzetta F O R E N S E la cui consumazione perdura sino a che non cessano le dazio‑ ni degli interessi: la consegna effettiva degli interessi usurari convenuti, infatti, segna il momento consumativo “sostan‑ ziale” del reato, senza che in proposito vi sia motivo di di‑ stinguere, atteso il termine “riscossione”utilizzato dal legi‑ slatore, tra riscossione volontaria e spontanea e riscossione coattiva mediante procedura esecutiva (Cassazione penale, sez., 19 giugno 2009, n. 42322; Cassazione penale, Sez. H, 10 luglio 2008, n. 34910; Cassazione penale, Sez. E, 12 giugno 2007,n. 26553). Tribunale Nola, coll. A) Pres. Aschettino, Est. de Majo sentenza 18 luglio 2012, n. 1972 Violenza sessuale: attenuante del fatto di minore entità – Criteri di applicazione (art. 609 bis c.p.) Ai fini della confìgurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravita nel reato di violenza sessuale, ri‑ levano i soli elementi indicati dal comma primo dell’art. 133 c.p., e non anche quelli di cui al comma secondo, utilizzabili solo per la commisurazione complessiva della pena. (Sez. 3, sentenza n. 45692 del 26 ottobre 2011) Tribunale Nola, coll. B) sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164 Pres. Napoletano, Est. De Majo Violenza sessuale: esimente del consenso dell’avente dirit‑ to – Esclusione (art.609 bis c.p.) L’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurarle nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia pertanto in un errore inescusabile sulla legge penale.(in tal senso Cass. pen., Sez. 3, sentenza n. 7210 del 10 marzo 2011). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164 Pres. Napoletano, Est. De Majo Violenza sessuale: finalità – Intrusione nella sfera sessuale al‑ trui – Elemento soggettivo – Dolo generico (art. 609 bis c.p.) Le finalità dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale non assumono un rilievo decisivo ai lini del perfezionamento del reato, che è caratterizzato dal dolo generico e richiede semplicemente la coscienza e volon‑ tà di compiere atti pervasivi della sfera sessuale altrui. Ne deriva che nel caso di specie il fatto di pretendere ed ottenere un rapporto sessuale completo contro la volontà della donna non necessita di alcuna specificazione in quanto l’intrusione nella sfera sessuale della vittima appare macroscopica. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164 Pres. Napoletano, Est. De Majo Violenza sessuale: finalità dell’agente – Irrilevanza (art. 609 bis c.p.) L’elemento soggettivo del reato consiste nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o sessuale della persona non consenziente, restando pertanto irrilevante l’eventuale fine ulteriore, sia esso di concupiscen‑ za, ludico o d’umiliazione, propostosi dal soggetto agente. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164 Pres. Napoletano, Est. De Majo Violenza sessuale: iniziale consenso della vittima – Ripensamen‑ to – Sussistenza del reato (art. 609 bis c.p.) Integra il reato di violenza sessuale la condotta di colui che prosegua un rapporto sessuale quando il consenso della vittima, ordinariamente prestato, viene poi meno a causa di un ripensamento ovvero della non condivisone delle forme o delle modalità di consumazione del rapporto, ciò in quanto il consenso della vittima deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità” (in tal senso Cass., Sez. 3, n. 4532 del 11 dicembre 2007). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164 Pres. Napoletano, Est. De Majo Violenza sessuale: nozione, contenuto e limiti di atti sessuali (art. 609 bis c.p.) Il reato di violenza sessuale, si riconnette alla definizione della nozione, del contenuto e dei limiti della locuzione «at‑ ti sessuali», di cui alla 1. n. 66 del 1996. in quanto l’art. 609‑bis c.p. (introdotto dalla predetta legge) ha concentrato in una fattispecie unitaria le previgenti ipotesi criminose previste dagli arti. 529 e 521 c.p. individuando quale unica condotta composita, idonea a ledere il bene giuridico della libertà sessuale, in luogo della «congiunzione carnale» e degli «atti di libidine violenti», il fatto di chi con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità «costringe» taluno a compiere o a subire «atti sessuali». Punto focale è la dispo‑ nibilità della sfera sessuale da parte della persona che ne è titolare. La condotta vietata dall’art. 609‑bis c.p. ricompren‑ de se connotata da costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità) sostituzione ingannevole di persona ovvero abu‑ so di condizioni di inferiorità fisica o psichica oltre ad ogni forma, di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolven‑ dosi in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo, ancorché fugace ed estemporaneo, o comunque coinvolgendo la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia fina‑ lizzato e normalmente idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 11 ottobre 2012, n. 2164 Pres. Napoletano, Est. De Majo 2 0 1 3 83 PROCEDURA PENALE Appello: rinnovazione – Acquisizione documentazione allegati a memoria difensiva – Ammissibilità (art. 603 c.p.p.) Non vi è alcun dubbio che i documenti allegati alla me‑ moria difensiva possano essere acquisiti in fase di appello attraverso il meccanismo di cui all’art. 603 c.p.p. primo comma, dovendosi considerare “prove nuove” anche le ri‑ chieste inerenti ad elementi di prova suscettibili di introdu‑ zione nel precedente giudizio, ma non acquisite dal primo giudice perché ritenute irrilevanti. Corte Appello Napoli, Sez. III sentenza 15 novembre 2012, n. 5096 Pres. Est. Catena Appello: rinnovazione dibattimento – Funzione ricostruttiva del fatto del giudice di appello – Previsione (art. 603 c.p.p.) La funzione del giudice di appello non può assolutamen‑ te limitarsi ad un esame critico e non anche ricostruttivo, laddove la funzione del giudice di appello non si limita affat‑ to a quella di mero controllo, consistendo invece anche in una più pregnante funzione di ricostruzione del fatto, come si evince da un’attenta lettura della normativa sulla rinnova‑ zione dell’istruttoria dibattimentale, secondo le varie ipotesi di cui all’art. 603 c.p.p.‑ in concreto i tempi estremamente dilatati del processo spesso precludono la possibilità al giu‑ dice dell’appello di poter esercitare in maniera proficua quei poteri che le norme processuali gli attribuiscono. Corte Appello Napoli, Sez. III sentenza 15 novembre 2012, n. 5096 Pres. Est. Catena Dibattimento: richiesta difensiva di integrazione probatoria – Uti‑ lità per rafforzamento percorso logico argomentativo della sen‑ tenza L’atteggiamento mentale del giudice, non può escludere la possibilità concreta che anche nelle fasi finali dell’istrutto‑ ria dibattimentale possano emergere elementi in grado di chiarire circostanze sino a quel momento non considerate né valutate, soprattutto quando le richieste difensive non appa‑ iano manifestamente infondate o dilatorie ma specificamen‑ te argomentate. Sotto altro aspetto, nella scansione proces‑ suale ciascun giudice dovrebbe sempre considerare l’ulterio‑ re sviluppo del processo e considerare, quindi, che ciò che non trova accoglimento in primo grado può costituire un elemento di intrinseca debolezza della motivazione della sentenza, laddove l’accoglimento di una richiesta difensiva può, al contrario, costituire un rafforzamento ed un arricchi‑ mento del percorso logico – argomentativo della sentenza stessa; e ciò proprio nella misura in cui, alla luce dell’esito rappresentato dall’acquisizione probatoria ulteriore prove‑ niente dalla Difesa in termini di impulso processuale, si possa confermare o smentire la tesi accusatoria, ovvero in‑ trodurre un ragionevole dubbio circa la concreta possibilità di una alternativa ricostruzione del fatto specifico. Corte Appello Napoli, Sez. III sentenza 15 novembre 2012, n. 5096 Pres. Est. Catena penale Gazzetta 84 D i r i t t o e p r o c e d u r a Nuove contestazioni: contestazione di un reato per il quale è prevista udienza preliminare – Limiti e presupposti (art. 516 e ss. c.p.p.) La possibilità di retrocessione degli atti al Pubblico Mi‑ nistero, a fronte di nuove contestazioni formulate dal titola‑ re dell’esercizio dell’azione penale nel corso dell’istruzione dibattimentale (modifica imputazione o reato concorrente o reato circostanziato per il quale è prevista l’udienza prelimi‑ nare), è circoscritta alle ipotesi in cui i reati originariamente contestati per i quali si procede in dibattimento “non preve‑ dono” l’udienza preliminare che, quindi, non è stata tenuta e non “doveva” essere tenuta, ovverossia per i reati per i quali si procede con citazione diretta ex art.550 c.p.p. Di contro, la regressione del procedimento, in assenza, peraltro, di espressa disposizione normativa contraria non rinvenibile dalla letturatestuale degli artt.516 e ss.c.p.p., non è giustifi‑ cata in dibattimento se si procede per reati originariamente contestati per i quali “è prevista” dal legislatore l’udienza preliminare e questa è stata celebrata ovvero ‑situazione equiparabile – non è stata tenuta per la scelta, consentita dal legislatore, di procedere con il giudizio immediato in presen‑ za di determinati presupposti normativi. Tribunale Napoli, Sez. I ordinanza 17 gennaio 2013 Pres. Pellecchia, Est. Bottillo Proscioglimento anticipato: deposito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna – Emissione della sentenza di proscioglimento – Prevedibilità (art. 129 c.p.p.) L’art, 129 c.p.p. conferisce al Giudice uno strumento deflattivo di notevole portata, che come ribadito dalla Supre‑ ma Corte può avere luogo, cosi come richiesto dalla lettera della norma “in ogni stato e grado del processo” cioè solo nel vero e proprio processo, e non anche nell’intero procedimen‑ to. Non vi è dubbio che con il deposito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, ha avuto termine la fase procedimentale e pertanto il Giudice se ritiene sussi‑ stenti una della cause di cui all’art. 129 c.p.p. può dare luogo alla sentenza di non luogo a procedere provvedendo di ufficio, essendo evidente che il legislatore ha inteso con tale mezzo fornire il Giudice, di un potere selettivo atto ad evitare inuti‑ li dispendi processuali purché l’esercizio dello stesso avvenga in una fase processuale in modo da potere essere efficacemen‑ te controllato con i mezzi di impugnazione. Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno sentenza 8 gennaio 2013, n. 16 Rito abbreviato: atti di indagine – Inutilizzabilità – Limite della cd. inutilizzabilità patologica (art. 438 e ss. c.p.p.) La richiesta di definizione del giudizio nelle forme del rito abbreviato allo stato degli atti, comporta la piena utiliz‑ zabilità di tutti gli atti di indagine confluiti nei fascicolo del PM: ed invero, in tale procedimento, cd. a prova contratta, deve attribuirsi rilevanza esclusivamente alla categoria san‑ zionatoria della cd. inutilizzabilità patologica, inerente, cioè, ad atti di indagine acquisiti contra legem, la cui utilizzabilità è vietata in modo assoluto non solo in sede dibattimentale ma in ogni fase del procedimento. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno sentenza 21 dicembre 2012, n. 3008 Rito Abbreviato: questione di indeterminatezza dell’imputazio‑ ne – Esclusione (art. 438 c.p.p.) Nel caso in cui l’imputato chiede di essere giudicato con rito abbreviato, la questione dell’indeterminatezza o generi‑ cità dell’imputazione non può essere presa in esame. La configurazione della richiesta di giudizio abbreviato incon‑ dizionato come diritto potestativo dell’imputato, infatti, comporta non solo la scelta di essere giudicato sulla base degli atti, ma anche l’accettazione necessaria dell’imputazio‑ ne formulata dall’accusa”. La richiesta ex art. 438 c.p.p. non può che riguardare l’imputazione formulata dal pubblico ministero. Non a caso, nei limitati casi in cui è possibile da parte del pubblico ministero l’esercizio dei poteri di cui all’art. 423 c.p.p., l’imputato ha diritto di ripensare alla scelta di essere giudicato con il rito abbreviato. Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano sentenza 9 gennaio 2013, n. 143 Sentenza: sentenza di condanna – Colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio – Significato e presupposti (art. 533 c.p.p.) La formulazione dell’art. 533 c.p.p. – secondo cui alla pronuncia di una sentenza di condanna deve pervenirsi se la colpevolezza dell’imputato risulta al di là di ogni ragionevo‑ le dubbio – non significa affatto che il giudice debba prende‑ re in considerazione tutte le molteplici ipotetiche ed astratte ricostruzioni alternative della singola vicenda sottoposta al suo vaglio, al di là, quindi, delle emergenze processuali e delle risultanze probatorie, ma significa, altrettanto sicura‑ mente, che in base alla completa valutazione di ogni elemen‑ to, che in concreto abbia o possa avere legittimo ingresso nel dibattimento, il giudice debba procedere alla ricostruzione delle concrete e verosimili ricostruzioni alternative in relazio‑ ne alla specificità del caso; specificità che non può che risul‑ tare sempre più peculiare e caratterizzata per effetto degli apporti forniti dalle parti nel corso dell’istruttoria dibatti‑ mentale. La caratteristica ontologica della terzietà, quella più rilevante sul piano pratico, quindi, consiste proprio nel prendere sempre in considerazione le richieste delle parti in un’ottica non solo scevra da precostituiti convincimenti, ma soprattutto volta a considerare serenamente la complessità delle vicende umane, spesso al di là di ogni logica apparenza, ed essendo, conseguentemente, disponibili non solo a muta‑ re il proprio convincimento a fronte di fattori univoci, ma soprattutto ad analizzare la concreta e plausibile rilevanza di ogni ulteriore acquisizione probatoria che, per le più svaria‑ te ragioni, non abbia potuto trovare la propria naturale sede di sviluppo nella fase delle indagini preliminari. Corte Appello Napoli, Sez. III sentenza 15 novembre 2012, n. 5096 Pres. Est. Catena Valutazione della prova: attendibilità e credibilità – Differenze (art. 192 c.p.p.) In tutti i casi in cui si verta in materia di ricordo visivo debba essere sempre effettuato un vaglio critico saldamente F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o ancorato ad una approfondita analisi di tutti quei fattori che possano, anche inconsapevolmente, incidere sui proces‑ si di formazione e di riproduzione del ricordo, condizionan‑ doli per ragioni derivanti da fattori emozionali e di stress, nonché da fattori anagrafici e culturali, che spesso agiscono indipendentemente dalla consapevolezza del soggetto chia‑ mato a fornire descrizioni e riconoscimenti, non potendo la valutazione del giudice limitarsi al profilo di genuinità del‑ la deposizione e della buona fede del teste che non è, di per sé, automaticamente dimostrativa della attendibilità del ricordo. Corte Appello Napoli, Sez. III sentenza 15 novembre 2012, n. 5096 Pres. Est. Catena Valutazione della prova: chiamata in correità – Valutazione fra‑ zionata delle dichiarazioni – Criterio applicativo (art. 192 c.p.p.) Come chiarito in giurisprudenza, è del tutto lecita la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie prove‑ nienti da un chiamante in correità, per cui l’attendibilità del medesimo, anche se denegata per una parte del suo racconto, non ne coinvolge necessariamente tutte le altre che reggono alla veridicità giudiziale del riscontro; per un altro verso, la credibilità ammessa per una parte dell’accusa, non può signi‑ ficare attendibilità per l’intera narrazione in modo automa‑ tico (va sul punto precisato che la frazionabilità della chia‑ mata in tanto è ammissibile in quanto in quanto non sussista un’interferenza logica e fattuale tra le parti del narrato diver‑ samente valutate, quando cioè non vi sia un rapporto di causalità necessaria o un imprescindibile rapporto di antece‑ denza logica tra le predette parti del narrato). Perdipiù in tema di cd riscontri esterni, che completano il percorso logi‑ co di verifica cui il Giudice è tenuto nella valutazione della chiamata di correità, non occorre che gli stessi abbiano la consistenza di una prova autosufficiente di colpevolezza, poiché se così fosse la chiamata diverrebbe priva di rilevanza, per cui gli stessi possono essere, in via generale, di qualsiasi tipo e natura, potendo concretarsi sia in elementi di prova rappresentativa, sia in elementi di prova logica, potendo, altresì, consistere, nel pieno rispetto del.principio del libero convincimento del giudice, anche in altre chiamate in correi‑ tà (cd. dichiarazioni incrociate) sempre che le stesse siano state valutate nel la loro credibilità intrinseca e siano real‑ mente autonome. Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno sentenza 2 dicembre 2011, n. 3026 Valutazione della prova: condizioni di minorata difesa della vitti‑ ma – Incidenza sulla attendibilità della stessa (art. 192 c.p.p.) Laddove il giudice deve valutare delle specifiche situazio‑ ni che emergono come oggettivamente acquisite – ad es. le condizioni di minorata difesa della persona offesa – dette specifiche situazioni devono necessariamente essere valutate in tutte le sue implicazioni e, quindi, non solo a carico dell’im‑ putato – ponendole, cioè, a base della circostanza aggravan‑ te contestata – ma anche a favore dell’imputato – ossia tenen‑ do ben presenti dette condizioni nella valutazione di atten‑ dibilità complessiva della testimonianza della vittima, una 2 0 1 3 85 volta risolto in senso positivo la questione concernente la buona fede della teste. Corte Appello Napoli, Sez. III sentenza 15 novembre 2012, n. 5096 Pres. Est. Catena Valutazione della prova: deposizione della persona offesa – Cre‑ dibilità – Vaglio – Criteri (art. 192 c.p.p.) Il legislatore ha riconosciuto alle dichiarazioni rese dalla persona offesa di un reato un ruolo probatorio in nulla dif‑ ferente da quello attribuito alla persona estranea agli interes‑ si dedotti in giudizio, trovando in tal caso applicazione la norma generale espressa dal comma 1° dell’art. 192 c.p.p., che è quella del libero convincimento del giudice. Tuttavia, considerando che l’alto tasso di attendibilità che il legislato‑ re affida al testimone è connaturato alla presunzione che egli è assolutamente estraneo agli interessi in gioco nel processo e che, quindi, normalmente, a meno che non sussista un movente (paura, compiacenza, ostilità, ecc.) egli in genere dica la verità, è evidente che dinanzi ad una persona offesa si impone una maggiore cautela nella valutazione delle rela‑ tive propalazioni, atteso che la stessa, contrariamente al te‑ stimone, è in linea di massima interessata ad un determinato esito del processo, tanto più quando, come nel caso che ci occupa, avanzi pretesi risarcitorie con riferimento ai fatti su cui depone (costituzione di parte civile). Nondimeno è suffi‑ ciente in tale caso, secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, che il giudice verifichi la credibilità del dichiarante valutando con particolare rigore il contenuto delle sue dichiarazioni anche in relazione agli ul‑ teriori elementi emergenti dalle risultanze processuali. Va in particolare precisato che la deposizione della parte lesa, an‑ che se rappresenta l’unica prova del fatto da accertare e manchino riscontri esterni, ben potrebbe essere posta a base del convincimento del giudice, non applicandosi le regole di cui ai commi 3° e 4° del Part 192 c.p.p. (cfr. explurimis Cass. pen., Sez. V, del 01 giugno 1999, n. 6910; Cass. pen., Sez. III, 03 dicembre 2001, n. 43303). Tribunale Nola, coll. A) Pres. Aschettino, Est. Majo sentenza 18 luglio 2012, n. 1972 LEGGI PENALI SPECIALI Misure di prevenzione patrimoniale: attribuzione fittizia di cespi‑ ti patrimoniali – Natura del reato – Presupposti oggettivi e sog‑ gettivi – Criteri di accertamento (art. 12 quinquies d.l. 306/929) Il reato di cui all’art. 12 quinquies d.l. 306/92 conv. in l. 356/92 si connota come fattispecie a dolo specifico, consi‑ stente nella volontà di eludere gli effetti di una misura di prevenzione patrimoniale senza che con ciò si presupponga che la misura di prevenzione sia stata disposta; il reato si configura come reato istantaneo ad effetti permanenti, nella impostazione adottata ormai da orientamento consolidato in giurisprudenza cui questo giudice aderisce, a condotta libera che si consuma nel momento in cui viene realizzata l’attribuzione fittizia, rimanendo privo di rilevanza penale il penale Gazzetta 86 D i r i t t o e p r o c e d u r a permanere della situazione giuridica susseguente alla consu‑ mazione della condotta delittuosa. È dunque l’utilizzo di meccanismi interpositori in grado di determinare una diffor‑ mità tra titolarità formale, apparente, e titolarità effettiva dei beni e, dunque, l’effetto traslativo o il conferimento di un potere di fatto sul bene, che consente di realizzare quella formale intestazione elusiva delle disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione o di contrabbando o age‑ volatrice della commissione dei reati indicati dalla citata disposizione. Pertanto, anche in ragione della epoca di en‑ trata in vigore della normativa introduttiva di tale fattispecie penale, è necessario accertare la data in cui si realizza il fit‑ tizio conferimento di un potere di disponibilità sul bene ‑si concretizzi esso nella attribuzione della titolarità del bene, intesa come situazione giuridica. o nella attribuzione della disponibilità del bene, quale situazione di fatto giuridica‑ mente rilevante o anche, senza adozione di alcun atto giuri‑ dico idoneo a creare la situazione simulata. attraverso una gestione quale socio occulto o di fatto delle attività econo‑ miche imprenditoriali formalmente riconducibili ad altro soggetto. Tribunale Napoli, G.u.p. Ferrigno sentenza 2 dicembre 2011, n. 3026 Sorveglianza speciale: violazione obblighi e prescrizioni – Asso‑ ciarsi abitualmente a persone condanne – Presupposti (art. 75 c.2 d.lgs. 159/11) La fattispecie normativa prescrivendo il divieto di asso‑ ciarsi abitualmente con soggetti che hanno riportato condan‑ ne o sono sottoposte a misure di sicurezza, intende inteso riferirsi ‑‑come ormai pacificamente ritenuto dalla stessa giurisprudenza della Suprema Corte – ai contatti con pregiu‑ dicati che non si limitino ad un isolato accompagnarsi, che concernono rapporti con detti individui che, siano ripetuti e plurimi, pur se discontinui non necessitando, certamente, la sussistenza di un vincolo stabile cementato da un comune fine criminoso (in tal senso Cass. pen., Sez. I sentenza n. 14606 del 24 novembre 1999). Tribunale Napoli, G.M. Sorrentino sentenza 24 aprile 2012, n. 5817 Stupefacenti: aggravante della ingente quantità – Criteri di indi‑ viduazione – Quantitativo inferiore a 2.000 volte il valore massi‑ mo in milligrammi – Esclusione della circostanza aggravante (d.P.R. 309/90 art. 80) Come’è noto la ratio dell’art. 80 co.2 d.P.R. 309/90 è da ravvisare nell’incremento del pericolo per la salute pubblica, e ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di p e n a l e Gazzetta F O R E N S E imputazione,“pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguar‑ di di un rilevante numero di tossicodipendenti “secondo l’apprezzamento del giudice di merito. Anche alla stregua della più recente giurisprudenza “l’aggravante della ingente quantità, di cui all’art. 80 co. 2 d.P.R. 309/90 non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo, in milligrammi (valore‑soglia), determinan‑ do per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11/4/2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata.” (cfr. Cass., sez. un., n. 36258 del 24 maggio 2012) Ne consegue che nella condotta accertata non sono rile‑ vabili le condizioni perché possa ritenersi configurata in concreto la circostanza aggravante della ingente quantità, tenuto conto della percentuale di principio attivo puro pre‑ sente nel quantitativo caduto in sequestro (pari a 7,6%) e del contenuto di Delta9‑tetraidrocannabinolo (pari a 250,241 grammi) accertato nella sostanza. Corte Appello Napoli, Sez. I sentenza 10 gennaio 2013, n. 85 Pres. Marotta, Est. Santaniello Stupefacenti: attenuante di cui al co. 5 art. 73 d.P.R. 309/90 – Cri‑ teri di individuazione (art. 73 co. 5 d.P.R. 309/90) La S.C., in genere ha sempre affermato la riconoscibilità dell’attenuante in parola quando il fatto ha il carattere della minima o trascurabile offensivitàdel bene giuridico tutelato. In particolare secondo una recente pronunzia, che riprende un criterio ermeneutico consolidato1:” Il giudice è tenuto a valutare tutti gli elementi della norma, quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze) e quelli concernenti l’oggetto materiale del reato (quantità e qualità dello stupe‑ facente), dovendo in conseguenza negare l’attenuante quan‑ do anche uno solo di tali elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di lieve entità “ Cass., Sez. IV sent. 38879 del 2005. Nella fattispecie era stata rite‑ nuta correttamente negata l’attenuante in caso di detenzione e vendita di diverse tipologie di stupefacenti, tali da dimo‑ strare che lo spaccio era diretto ad un cospicuo e variegato numero di consumatori. Altro principio interpretativo è quello secondo il quale l’attenuante deve escludersi quando il quantitativo ceduto non sia modico e le modalità dell’azio‑ ne denotino professionalità, organizzazione di mezzi anche rudimentale o continuità nella condotta. Tribunale Napoli, G.u.p. De Gregorio sentenza 23 novembre 2012, n. 3021 Diritto amministrativo Il cottimo fiduciario. Principi comunitari e corollari applicativi nella più recente giurisprudenza 89 Maria d’Elia Giudizio di ottemperanza e connessa domanda di risarcimento del danno alla luce dell’Ad. Plen. n. 2 del 15 gennaio 2013 Francesco Foggia 94 Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 101 (d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) amministrativo A cura di Almerina Bove Gazzetta F O R E N S E ● 2 0 1 3 89 ● Maria d’Elia Avvocato - Coordinatrice dell’Avvocatura della Regione Campania 1. Il cottimo fiduciario L’articolo 125 del Codice dei Contratti pubblici (d.lgs. 163/2006) disciplina delle procedure di acquisizione in eco‑ nomia, ovvero quei particolari strumenti di scelta del contra‑ ente di natura semplificata, correlati ad importi di modesta entità, che possono essere effettuate attraverso i modelli dell’amministrazione diretta e del cottimo fiduciario. L’amministrazione diretta è caratterizzata, come noto, dalla mancanza di qualsiasi vincolo contrattuale, in quanto la stazione appaltante opera direttamente attraverso il proprio responsabile del procedimento, il quale agisce in nome dell’amministrazione medesima ma con la propria e persona‑ le responsabilità. Tale modello prevede l’utilizzo di personale interno all’Ente, di materiali e mezzi, appartenenti all’ammi‑ nistrazione o specificamente noleggiati. La stazione appaltan‑ te, attraverso il proprio responsabile, assume direttamente tutti i rischi, legati all’esecuzione delle prestazioni dedotte in contratto, diversamente da quanto avviene nell’appalto, ove i rischi ricadono sull’impresa appaltatrice1. Il cottimo fiduciario costituisce, invece, un vero modello di scelta del contraente, assimilabile alla trattativa privata ovvero alle procedure negoziate. La disciplina dettata dal Codice in tema di cottimo fidu‑ ciario può essere così sintetizzata: 1) Limite generale di € 200.000,00; 2) Ogni stazione appaltante deve individuare i lavori ese‑ guibili in economia nell’ambito delle seguenti categorie gene‑ rali: a) manutenzione o riparazione di opere od impianti, quan‑ do l’esigenza è rapportata ad eventi imprevedibili e non sia possibile realizzarle con le forme e le procedure ordinarie; b) manutenzione di opere o di impianti; c) interventi non programmabili in materia di sicurezza; d) lavori che non possono essere differiti, dopo l’infrut‑ tuoso esperimento delle procedure di gara; e) lavori necessari per la compilazione di progetti; f) completamento di opere o impianti a seguito della riso‑ luzione del contratto o in danno dell’appaltatore inadempien‑ te, quando vi è necessità e urgenza di completare i lavori. Per il comma 12 dell’art. 125, “l’affidatario di lavori, servizi, forniture in economia deve essere in possesso dei re‑ quisiti di idoneità morale, capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria prescritta per prestazioni di pari im‑ porto affidate con le procedure ordinarie di scelta del contra‑ ente. Agli elenchi di operatori economici tenuti dalle stazioni appaltanti possono essere iscritti i soggetti che ne facciano richiesta, che siano in possesso dei requisiti di cui al periodo 1Per le tematiche inerenti all’acquisizione in economia e al rapporto con l’opposto principio dell’esternalizzazione, cfr. Napolitano G., “La pubbli‑ ca amministrazione e le regole di esternalizzazione”, in Dir. econ., 2006, Dauno F., Trebastoni G. (2006), “Servizi e forniture in economia nel co‑ dice dei contratti”, in www.giustizia-amministrativa.it, sez. Studi e contribu‑ ti; ultima consultazione: 23 ottobre 2010 e Greco M., “Acquisti in econo‑ mia: può mancare anche la determina a contrattare”, 27 novembre 2006, in www.appaltiecontratti.it. amministrativo Sommario: 1. Il cottimo fiduciario; 2. Il ruolo della giurispru‑ denza nell’esplicazione dei principi applicabili al cottimo fi‑ duciario. Il cottimo fiduciario. Principi comunitari e corollari applicativi nella più recente giurisprudenza g e n n a i o • f e b b r a i o 90 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o precedente. Gli elenchi sono soggetti ad aggiornamento con cadenza almeno annuale”. Al fine di evitare usi distorti ed elusivi delle procedure in esame, il comma 13 vieta l’artificioso frazionamento delle prestazioni di beni, servizi, lavori 2. La ratio concreta dell’istituto consiste nell’assicurare pro‑ cedure più snelle e semplificate per acquisire lavori, opere, servizi o forniture di importo non elevato, nei casi in cui il ricorso alle ordinarie procedure di gara potrebbe comportare un rallentamento dell’azione amministrativa, oltre ad un no‑ tevole dispendio di tempi e risorse. Sulla base di tale procedura, viene stipulato un contratto tra la stazione appaltante ed un operatore economico qualifi‑ cato, avente ad oggetto i lavori, servizi e forniture, previamen‑ te individuati dall’amministrazione nel proprio provvedimen‑ to generale di disciplina dell’at tività contrat tuale. Il cottimo fiduciario è dunque una procedura negoziata di acquisto in economia di lavori beni o servizi di entità econo‑ mica non elevata, ammissibile solo nelle ipotesi tassativamen‑ te previste dall’ordinamento e previa individuazione da parte della stazione appaltante dei lavori beni o servizi acquisibili in economia. Giova chiarire immediatamente che in origine, essendo il ricorso al cottimo caratterizzato dall’affidamento fiduciario di lavori pubblici, in presenza di condizioni di urgenza o di estrema urgenza, era ritenuto del tutto normale che si potesse prescindere da qualsiasi procedimento concorsuale, sia pure a carattere informale. Progressivamente, però, le regole sono state enucleate e può quindi convenirsi che il c.d. «cottimo fiduciario» non possa in alcun modo ricondursi ad una sem‑ plice attività negoziale di diritto privato priva di rilevanza pubblicistica. Difatti le regole procedurali, anche minime, che l’amministrazione si dà per concludere il relativo contratto3 implicano il rispetto dei principi generali di imparzialità, correttezza, buona fede, logicità e coerenza della motivazio‑ ne4, in riferimento ai quali la giurisprudenza ha individuato specifici corollari applicativi. Di seguito si riporta una breve rassegna dei principali precipitati che la giurisprudenza am‑ ministrativa ha individuato, in alcuni arresti5 in ossequio ad un approccio formalistico, non sufficientemente attento alle esigenze di celerità e snellezza dell’azione amministrativa. 2. Il ruolo della giurisprudenza nell’esplicazione dei principi ap‑ plicabili al cottimo fiduciario Ai sensi del comma 14°, dell’articolo 125 del Codice, “i procedimenti di acquisizione di prestazioni in economia sono disciplinati, nel rispetto del presente articolo, nonché dei principi in tema di procedure di affidamento e di esecuzione del contratto desumibili dal presente codice, dal regolamen‑ to”. Dunque, il cottimo fiduciario, quale procedura negoziata in economia, risulta disciplinato dalle disposizioni normative contenute nell’articolo 125 medesimo e dai principi regolanti 2 Al riguardo cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1681. 3 Contratto che comunque deve riportare i medesimi contenuti della lettera di invito. 4 Consiglio di Stato sez. VI, 6 luglio 2006, n. 4295; Consiglio di Stato sez. IV, 19 ottobre 2007, n. 5473. 5 elativi, in particolare, all’obbligo di motivazione del ricorso al cottimo. Gazzetta F O R E N S E l’affidamento e l’esecuzione del contratto6, ovvero: - principio di economicità, principio di efficacia, principio di tempestività, principio di correttezza, principio di libera concorrenza, principio di parità di trattamento, principio di non discriminazione, principio di trasparenza, principio di proporzionalità, principio di pubblicità. La genericità del comma 14 pone peraltro problemi appli‑ cativi in relazione ad ogni disposizione normativa del Codice in sede di cottimo fiduciario, dovendosi di volta in volta pro‑ cedere all’analisi delle singole norme per verificarne la consa‑ crazione applicativa dei principi sopra citati. Occorre altresì osservare che il titolo II°, della Parte II^, dedicato ai contratti sotto soglia comunitaria, comprende anche l’articolo 1257, cioè gli “affidamenti in economia di lavori, servizi, forniture sotto soglia”. Quindi, si potrebbe pensare che anche gli affidamenti in economia, compreso il cottimo fiduciario, rientrino nella disciplina del titolo II°. Tuttavia, una tale interpretazione non sembra corretta, in quanto trascura il già illustrato comma 14 dell’articolo 125, che appare introdurre una disciplina speciale. In buona so‑ stanza, i rapporti fra le due disposizioni normative in questio‑ ne (comma 1 dell’articolo 121 e comma 14 dell’articolo 125) sembra che possano essere letti nel senso che le acquisizioni in economia, fra cui il cottimo fiduciario, costituiscono fatti‑ specie speciale della generale categoria degli affidamenti sotto soglia, per cui sono assoggettati alla speciale e peculia‑ re disciplina desumibile dai principi sopra illustrati.. Come è agevole intuire, il compito di individuare la disci‑ plina applicabile al cottimo fiduciario è rimesso all’opera della giurisprudenza, che si è soffermata in particolare su alcuni principi. Deve premettersi che nella procedura in economia non può esigersi un integrale rispetto delle singole previsioni normati‑ ve dettate per le gare ordinarie. Il cottimo fiduciario di cui all’art. 125 del d.lgs. n. 163 del 2006, è “procedura negozia‑ ta in cui le acquisizioni avvengono mediante affidamenti a terzi” (comma 4) e la cui disciplina normativa è data dal “rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque opera‑ tori economici” (comma 11). Si è quindi in presenza di una procedura negoziata la quale, pur procedimentalizzata, non richiede il necessario rispetto dello specifico assetto discipli‑ nare predisposto dal Codice dei contratti pubblici per le procedure aperte e ristrette, com’è peraltro reso evidente dal richiamo al rispetto dei “principi”, cioè dei contenuti valori‑ stici sostanziali della trasparenza, parità di trattamento ecc. senza tuttavia il necessario ossequio di tutti i passaggi proce‑ durali in cui tali principi si inverano nelle procedure concor‑ suali ordinarie8. Sulla base di tale impostazione generale, si è ritenuto che non trovino applicazione, in sede di cottimo fiduciario né l’articolo 83, comma 4, a norma del quale il bando di gara e la lettera di invito, per ciascun criterio di valutazione prescel‑ to, devono prestabilire, ove necessario, i sub-criteri e i sub- 6 Articolo 2 del Codice. 7Precisamente: dall’articolo 121 all’articolo 125. 3. 8In tal senso, Tar Firenze, sez. I, 11 Settembre 2008, n. 1989; Tar Toscana, sez. I, pronuncia del 22 dicembre 2009, n. 3988. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o pesi o i sub-punteggi nè l’articolo 84, comma 10, il quale stabilisce che la nomina della commissione deve essere dispo‑ sta dopo la scadenza del termine previsto per la presentazione delle offerte9. In tema di offerte anomale, la giurisprudenza ha statuito che “l’articolo 86, comma 5°, del Codice dei contratti pub‑ blici, in via ordinaria, non si applica alle procedure in econo‑ mia di cui all’articolo 125 del Codice stesso. Ciò in conside‑ razione delle esigenze proprie di semplificazione e di celerità che sono logicamente connesse con procedure di lieve rilievo economico”10. Il principio di rotazione In merito al principio di rotazione dei soggetti da invitare nelle procedure negoziate, giova richiamare la giurisprudenza del Consiglio di Stato, per la quale tale principio è funziona‑ le ad assicurare un certo avvicendamento delle imprese affi‑ datarie dei servizi con il sistema selettivo del cottimo fiducia‑ rio, ma - in quanto tale – “lo stesso non ha, per le stazioni appaltanti, una valenza precettiva assoluta, con la conse‑ guenza che la sua episodica mancata applicazione non vale ex se ad inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta che questa si sia conclusa con l’aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza invitato a simili selezioni (ovvero già affidatario del servizio)” 11. Il principio di pubblicità Si discute se il principio in questione imponga la pubblici‑ tà delle sedute di gara di cottimo fiduciario, al pari delle altre procedure di scelta del contraente. Secondo un primo orientamento, le sedute di cottimo possono svolgersi anche in modo riservato: si è, ad esempio, affermato che “Il principio di pubblicità delle gare non si estende alla procedura avente ad oggetto l’acquisizione di forniture in economia ed in cottimo fiduciario, non essendo l’osservanza di tale principio previsto per essa dall’articolo 125, del codice dei contratti pubblici”12 e che “versandosi in tema di cottimo fiduciario, l’invocato principio di pubblicità delle gare non si estende alla procedura avente ad oggetto l’acquisizione di forniture in economia, non essendo l’osser‑ vanza di tale principio previsto dall’art. 125 del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163”13. Ad avviso di tale orientamento, assume importanza il fatto che l’articolo 125, che disciplina le procedure in econo‑ mia ed il cottimo fiduciario, non contempla il principio di pubblicità. In tal modo, peraltro, si sottovaluta completamen‑ te il rinvio che lo stesso comma 14 dell’articolo 125 compie ai “principi desumibili dal codice e dal regolamento”. Una let‑ tura indubbiamente restrittiva, che appare preoccupata solo di valorizzare al massimo le caratteristiche di semplificazione del cottimo, dimenticando, in modo non convincente, il rinvio ai principi. Viceversa, secondo altre pronunce, proprio l’assetto dei principi generali, cui anche le procedure in economia debbo‑ no ispirarsi, implica la doverosa pubblicità delle sedute di 9 Così anche Tar Veneto, sez. I, 27 gennaio 2010, n. 168. 10Tar Lazio, sez. I, 6 novembre 2009, n. 10880. 11 Consiglio di Stato, sez. VI, 28 dicembre 2011, n. 6906. 12Tar Piemonte, sez. II, 3 settembre 2009, n. 2243. 13Tar Friuli Venezia Giulia, n. 716/2010. 2 0 1 3 91 gara: il riferimento tocca la fase di apertura dei plichi, conte‑ nenti la documentazione amministrativa e la verifica della medesima, nonché quella di apertura delle buste con le offer‑ te economiche, che devono sempre avvenire in seduta pubbli‑ ca così da assicurare a tutti i partecipanti la possibilità di assistere alle relative operazioni, a tutela del corretto svolgi‑ mento della procedura14. L’obbligo di pubblicità delle sedute è stata statuita anche dal Consiglio di Stato15, il quale ha rile‑ vato come “le procedure per l’aggiudicazione di contratti con la p.a., compresa la trattativa privata, debbono rispettare i principi di trasparenza e di adeguata pubblicità”. L’adesione al secondo orientamento si rinviene, in parti‑ colare, motivata sulla base del seguente percorso argomenta‑ tivo16: a. il cottimo fiduciario, ai sensi della richiamata normati‑ va, ha natura di procedura negoziata; b. il d.P.R. 384/2001 (regolamento di semplificazione dei procedimenti di spese in economia), cui aveva fatto riferimen‑ to la difesa dell’impresa del ricorrente, nulla dispone in ordi‑ ne alle modalità di svolgimento delle sedute di gara, per cui non è idoneo a sorreggere un’interpretazione restrittiva della portata applicativa del principio di pubblicità; c. diversamente opinando, peraltro, il regolamento sareb‑ be da disapplicare, in quanto contrastante con un principio operante a livello di norma primaria (art. 2, codice); d. contrariamente a quanto sostenuto dalla stazione ap‑ paltante, nessun rilievo può essere attribuito al fatto che l’allegato IX-A al Codice dei contratti pubblici individui le persone ammesse ad assistere all’apertura delle offerte solo con riguardo alle procedure aperte. Se ne deduce che il principio di pubblicità esplica una va‑ lenza generale ed opera, anche in quanto diretto a garantire la trasparenza, indipendentemente dal fatto che il bando lo pre‑ veda, in tutte le ipotesi in cui all’aggiudicazione si pervenga attraverso un’attività di tipo procedimentale, ancorché sempli‑ ficata e, quindi, anche in relazione ai cottimi fiduciari. In favore di tale condivisibile indirizzo milita, peraltro, oltre alle ragioni ora illustrate, anche un’ulteriore considera‑ zione, concernente il carattere generale del principio di pub‑ blicità delle sedute di gara, applicabile non a caso anche nei settori speciali (gas, energia termica, elettricità, acqua, tra‑ sporti, servizi postali, sfruttamento di area geografica), la cu disciplina è contrassegnata da rilevanti peculiarità. Recentemente, a seguito del decreto legge n.52 del 2012, convertito in legge 6 luglio 2012, n. 94, l’art. 120 del d.p.r. 207/2010 chiarisce sul tema che: “La commissione, anche per le gare in corso, ove i plichi contenenti le offerte tecniche non siano stati ancora aperti alla data del 9 maggio 2012, apre in seduta pubblica i plichi contenenti le offerte tecniche al fine di procedere alla verifica della presenza dei documenti pro‑ dotti. In una o più sedute riservate, la commissione valuta le offerte tecniche e procede alla assegnazione dei relativi pun‑ teggi applicando, i criteri e le formule indicati nel bando o nella lettera di invito secondo quanto previsto nell’allegato G. Successivamente, in seduta pubblica, la commissione da’ 14Tar Veneto, sez. I, 10 dicembre 2007, n. 3926. 15 Consiglio di Stato sez. V, 10 novembre 2010, n. 8006. 16 Cfr. Tar Sardegna, sez. I, 28 gennaio 2011, n. 85. amministrativo Gazzetta 92 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o lettura dei punteggi attribuiti alle singole offerte tecniche, procede alla apertura delle buste contenenti le offerte econo‑ miche e, data lettura dei ribassi espressi in lettere e delle ri‑ duzioni di ciascuna di esse, procede secondo quanto previsto dall’articolo 121“. Deve segnalarsi, infine, quanto statuito recentemente dal Consiglio di Stato per cui “i principi di pubblicità e traspa‑ renza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici comportano che, qualora all’ag‑ giudicazione debba procedersi col criterio dell’offerta econo‑ micamente più vantaggiosa, l’apertura delle buste contenen‑ ti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti va‑ dano effettuate in seduta pubblica anche laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza previa predisposizione di bando di gara, e di affidamenti in economia nella forma del cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria” 17. Gli obblighi informativi Gli obblighi informativi sono previsti dall’articolo 79 del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs n. 163/2006). Tali obbli‑ ghi e la clausola di standstill, prevista dall’articolo 11 comma 10 del Codice, sono considerati dalla giurisprudenza applica‑ bili anche al cottimo fiduciario. In tal senso, il Tar Toscana18ha precisato che la stazione appaltante, ai sensi del riformulato articolo 79, comma 5 del Codice, deve comunicare, fra l’altro, l’aggiudicazione defini‑ tiva tempestivamente e, comunque, entro un termine non su‑ periore a cinque giorni, ai soggetti partecipanti alla gara19. Ad avviso dei giudici amministrativi toscani, le due illu‑ strate disposizioni normative del Codice trovano applicazione, in quanto costituiscono applicazione di principi generali e, in particolare: - l’articolo 79, comma 5 (obblighi informativi) rappresenta la consacrazione dei principi di trasparenza e pubblicità; - ’articolo 11, comma 10 (termine dilatorio) concretizza i principi di efficacia e tempestività del diritto di difesa nel settore dei contratti pubblici. Concorda il Tar Lazio, che in un recente arresto giurispru‑ denziale conferma la sottoposizione del cottimo fiduciario agli obblighi di comunicazione, di cui all’articolo 79, comma 5del Codice, sulla base del richiamo al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. 20. L’obbligo di motivazione Il ricorso al cottimo, in quanto costituisce esercizio di una facoltà discrezionale, deve essere motivato. Nella Deliberazione dell’Autorità di Vigilanza dei Con‑ tratti pubblici n. 4 del 2009 si precisa, in particolare, che “il ricorso alla procedura negoziata del cottimo fiduciario deve essere opportunamente limitato e motivato; la previsione, pertanto, di lavori da affidarsi in economia nell’ambito di un 17 Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 31 luglio 201, n. 31. 18Tar Toscana, sez. I, sentenza del 10 novembre 2010, n. 6570. 19Precisamente: all’aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un’offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l’esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se dette impugnazioni non siano state ancora respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva. 20Tar Lazio, sez. III, 11 aprile 2011, n. 3169. Gazzetta F O R E N S E appalto, ove non adeguatamente motivata, costituisce un’in‑ giustificata sottrazione di questi alle ordinarie procedure concorsuali”. Al riguardo il Consiglio di Stato precisa che in caso di cottimo fiduciario nei confronti dei funzionari si applicano “le regole generali di motivazione degli atti amministrativi” in considerazione del fatto che “il cottimo fiduciario non può ricondursi ad una semplice attività negoziale di diritto priva‑ to priva di rilevanza pubblicistica”. Si conclude, quindi, che “le regole procedurali anche minime che l’amministrazione si dia per concludere il cottimo fiduciario implicano il rispetto dei principi generali di imparzialità, correttezza, buona fede, logicità e coerenza della motivazione”21. Pur prendendo atto dell’indirizzo giurisprudenziale sopra riportato, non ci si può esimere dall’elaborazione di taluni spunti di riflessione. In primo luogo deve premettersi che il comma 6 dell’art 125 predefinisce le categorie generali nell’ambito delle quali l’amministrazione individua i lavori eseguibili in economia 22 , ovvero quelli che ad un tempo rientrano anche nella soglia richiesta dal comma 523 e, in ordine all’acquisizione di beni e servizi in economia l’art 125, comma 10 condiziona l’esperi‑ bilità della procedura a circostanze eccezionali e pertanto tassative24. La disciplina ex art. 125 si presenta, dunque, attenta nella definizione degli stretti parametri di azionabilità del cottimo, dettando non soltanto le soglie massime d’importo, bensì anche le situazioni oggettive nelle quali il cottimo può essere adottato. Ciò posto, il legislatore, ricorrendo le descritte condizioni, 21 Consiglio di Stato, sez. VI, 6 luglio 2006, n. 4295. 22La norma dispone che: “I lavori eseguibili in economia sono individuati da ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie specifiche competenze e nell’ambito delle seguenti categorie generali: a) manutenzione o riparazione di opere od impianti quando l’esigenza è rap‑ portata ad eventi imprevedibili e non sia possibile realizzarle con le forme e le procedure previste agli articoli 55, 121, 122; b) manutenzione di opere o di impianti [di importo non superiore a 100.000 euro] (1); c) interventi non programmabili in materia di sicurezza; d) lavori che non possono essere differiti, dopo l’infruttuoso esperimento delle procedure di gara; e) lavori necessari per la compilazione di progetti; f) completamento di opere o impianti a seguito della risoluzione del contratto o in danno dell’appaltatore inadempiente, quando vi è necessità e urgenza di completare i lavori”. 23 “I lavori in economia sono ammessi per importi non superiori a 200.000. I lavori assunti in amministrazione diretta non possono comportare una spesa complessiva superiore a 50.000 euro”. 24 Comma 10: “L’acquisizione in economia di beni e servizi è ammessa in rela‑ zione all’oggetto e ai limiti di importo delle singole voci di spesa, preventi‑ vamente individuate con provvedimento di ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie specifiche esigenze. Il ricorso all’acquisizione in economia è altresì consentito nelle seguenti ipotesi: a) risoluzione di un precedente rapporto contrattuale, o in danno del con‑ traente inadempiente, quando ciò sia ritenuto necessario o conveniente per conseguire la prestazione nel termine previsto dal contratto; b) necessità di completare le prestazioni di un contratto in corso, ivi non previste, se non sia possibile imporne l’esecuzione nell’ambito del contratto medesimo; c) prestazioni periodiche di servizi, forniture, a seguito della scadenza dei relativi contratti, nelle more dello svolgimento delle ordinarie procedure di scelta del contraente, nella misura strettamente necessaria; d) urgenza, determinata da eventi oggettivamente imprevedibili, al fine di scon‑ giurare situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero per l’igiene e salute pubblica, ovvero per il patrimonio storico, artistico, culturale”. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o attribuisce la facoltà alla PA di procedere tramite acquisizio‑ ni in economia 25 e la giurisprudenza che si è espressa in ordi‑ ne all’obbligo di motivazione, movendosi sulla base principio di concorrenza e di quello di trasparenza, espressamente ri‑ chiamato dal comma 11, ha ritenuto che occorra una puntua‑ le giustificazione del ricorso al cottimo nella delibera a con‑ trarre26 . La facoltà rimessa alla PA fa ritenere, in altri termini, necessaria una motivazione in ordine alla scelta di procedere all’acquisizione in economia di beni, servizi e forniture. Sul punto può, però, rilevarsi come l’obbligo motivazio‑ nale sia particolarmente sentito laddove vi sia l’esigenza che la PA esplichi la ratio di una propria scelta o attività. Laddo‑ ve, invece, la pubblica amministrazione non abbia un margi‑ ne d’autonomia rilevante, l’obbligo motivazionale, lungi dal garantire la trasparenza dell’agere amministrativo che è in sostanza predefinito ed assorbito dalle previsioni normative, rischia di tradursi in un aggravamento irragionevole e spro‑ porzionato dell’azione amministrativa. L’obbligo motivazionale, difatti, non può ritenersi esteso automaticamente ad ogni atto della PA, e in ogni caso non può ritenersi sempre prescritto con la stessa ampiezza. Sulla giurisprudenza incombe il delicato compito di individuare i casi in cui l’obbligo di motivazione assicuri l’esigenza ad esso sottesa, nonché i casi in cui, essendo assente tale necessità, esso possa ritenersi assolto a prescindere da specifiche e cir‑ costanziate allegazioni, pena un irragionevole e sproporzio‑ nale aggravamento dell’azione amministrativa. Il necessario contemperamento che deve operarsi laddove vi sia una mol‑ teplicità di principi applicabili richiede un continuo ed atten‑ to bilanciamento degli stessi nel caso concreto, alla luce del principio di proporzionalità. L’ampiezza dell’obbligo di motivazione quindi, invero, assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa, a pena peraltro di appesantire quest’ultima laddove sia estesa irra‑ gionevolmente. Nell’ipotesi del cottimo fiduciario, i requisiti in termini di soglia massima consentita e di circostanze obiettive richieste non sembrano lasciare spazio ad un’azione amministrativa tanto ampia da richiedere un ulteriore e specifico obbligo moti‑ vazionale, con la conseguenza che, risultando il principio della concorrenza già assicurato attraverso la previsione di requisiti stringenti, l’Amministrazione non dovrebbe ritenersi tenuta ad esplicitare la presenza di ulteriori motivi di utilità o convenien‑ za del ricorso a detta procedura, né a fortiori la sussistenza di specifici elementi ostativi al ricorso alla gara aperta. 25 Comma 1: “Le acquisizioni in economia di beni, servizi, lavori, possono essere effettuate […]”. 26 Cfr., di recente, Tar Campania, Napoli, sez.I, ord. n. 1667 del 5.12.2012 2 0 1 3 93 amministrativo Gazzetta 94 d i r i t t o ● Giudizio di ottemperanza e connessa domanda di risarcimento del danno alla luce dell’Ad. Plen. n. 2 del 15 gennaio 2013 ● Francesco Foggia Avvocato del foro di Napoli a m m i n i s t r at i v o Gazzetta F O R E N S E Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2 “Il giudice dell’ottemperanza è il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discen‑ dono o che in esso trovano il proprio presupposto”. “Il giudizio di ottemperanza presenta un contenuto com‑ posito, entro il quale convergono azioni diverse, talune ri‑ conducibili alla ottemperanza come tradizionalmente confi‑ gurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale)” “La disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle senten‑ ze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al «presupposto» (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere: a) l’«attuazione» delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo «per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza» (art. 112, comma 2). E già in questa ipo‑ tesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impe‑ disce – come è noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione; b) la condanna «a pagamento di somme a titolo di riva‑ lutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza» art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azio‑ ne è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’ammi‑ nistrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronun‑ ciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato); c) il «risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato» (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ «attuazione» di una precedente sentenza o prov‑ vedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presup‑ posto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperi‑ bile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza; d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei dan‑ ni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato g e n n a i o • f e b b r a i o F O R E N S E (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che pos‑ sono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimen‑ to, una volta verificatone l’effetto causativo di danno. e) a tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di «ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza»: anche questo non presenta ca‑ ratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanzia‑ le, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzi‑ tutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’ «azione di ottemperanza» ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è «il ricorso» introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto proces‑ suale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperan‑ za, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equipa‑ rabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Ammini‑ strazione soccombente nel precedente giudizio)”. “Qualora in sede di esecuzione sia stato emesso un ulteriore provvedimento sfavorevole per chi sia vincitore in un preceden‑ te giudizio di annullamento, l’interessato può contestare l’atto sopravvenuto con un unico ricorso, proposto entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 del codice del processo ammini‑ strativo, e può formulare sia censure di legittimità che censure che ne lamentano la nullità per elusione del giudicato, spettando al giudice amministrativo la qualificazione dell’attività ammini‑ strativa in rapporto al precedente giudicato”. *** Il commento Sommario: 1. Funzione del giudizio di ottemperanza alla luce della recente giurisprudenza amministrativa; 2. La pro‑ ponibilità della domanda risarcitoria nel giudizio di ottem‑ peranza nella giurisprudenza precodicistica; 3. Il cumulo di domande nel nuovo codice di procedura amministrativa; 4. Il danno risarcibile in sede di ottemperanza; 5. Proponibilità della domanda risarcitoria innanzi al Consiglio di Stato, in funzione di giudice dell’ottemperanza. 1. Funzione del giudizio di ottemperanza alla luce della recente giurisprudenza amministrativa L’attenzione dedicata al giudizio di ottemperanza dalla più recente giurisprudenza amministrativa dimostra l’interesse per tale tipologia di giudizio, il quale, a ben vedere, rappre‑ senta proprio il luogo finalizzato a dare effettività ad una precedente pronuncia e attribuire concretezza a quella giusti‑ zia che, con la sua pronuncia, il giudice ha tentato di portare nel rapporto tra privato e amministrazione. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013 riprende tale visione del giudizio di ottemperanza, il quale non può essere ridotto ad uno strumento di mera esecuzione di una decisione già resa da un giudice, ma costituisce forse il luogo privilegiato per dare attuazione al principio sancito all’art. 100 della Carta costituzionale, che vede nel giudice ammini‑ strativo l’organo deputato a tutelare la giustizia nell’ammini‑ strazione, nonché all’art. 1 del Codice del processo ammini‑ 2 0 1 3 95 strativo che individua il compito del giudice amministrativo in quello di assicurare una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo: proprio in questo senso, il recente consesso della Plenaria ha definito il giudizio di ottemperanza in base alla molteplicità delle istan‑ ze che in esso il privato può farvi confluire, definendolo come un giudizio composito, in cui possono essere riversate non solo esigenze marcatamente esecutive del dictum giudiziale, ma anche domande di condanna e domande di accertamento della nullità dei provvedimenti emessi dalla p.a. in elusione del giudicato (art. 114 co. 4 c.p.a.) ovvero circa le modalità di corretta esecuzione dello stesso (art. 112 co. 5 c.p.a.). La polisemicità, in questo senso propria del giudizio di ottemperanza (così come definita dalla sentenza in commen‑ to), trova dunque organicità alla luce del suo presupposto, che è la sentenza passata in giudicato, nonché alla luce del suo fine, che è quello di dare effettività al giudicato, riportando l’azione amministrativa sui binari della legalità, in funzione dell’interesse collettivo (ovvero, chiaramente, del diritto del singolo, nel caso in cui il giudicato abbia ad oggetto diritti soggettivi): riprendendo l’espressione utilizzata, quasi a chio‑ sa, dall’Adunanza Plenaria, il giudice dell’ottemperanza è dunque il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto. Non può non vedersi, allora, tratteggia‑ to con evidenza proprio in tale forma di giudizio, la peculia‑ rità del giudizio amministrativo, da molti intesa come rivolto al futuro, cioè come diretta a provocare la continuazione dell’azione amministrativa alla luce dei principi di giustizia espressi nel giudicato, piuttosto che finalizzata a giudicare su una situazione già esaurita. Concentrare l’attenzione sul tipo di danno risarcibile nel giudizio di ottemperanza può avere la sua importanza, allora, anche al fine di saggiare i confini di tale giudizio quanto alla possibilità di contenere domande ultronee rispetto a quella clas‑ sica di esecuzione di una sentenza passata in cosa giudicata. 2. La proponibilità della domanda risarcitoria nel giudizio di ot‑ temperanza nella giurisprudenza precodicistica Una breve premessa storica può costituire, al fine del nostro esame, un valido ausilio a verificare la genesi dell’at‑ tuale conformazione del giudizio di ottemperanza e della sua attuale duttilità. Come noto, la possibilità di disporre il risarcimento del danno ingiusto nell’ambito del processo amministrativo, è un’introduzione pretoria che affonda le sue radici, nella me‑ morabile sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 500 del 1999, la quale decretò la risarcibilità del danno derivante dalla lesione degli interessi legittimi, senza la necessità della cd. pregiudiziale amministrativa; tale espansione della sfera cognitoria del giudice amministrativo ricevette consacrazione legislativa di lì a poco, con l’art. 7 della Legge n. 205/2000, norma processuale che attribuiva direttamente al giudice amministrativo la tutela risarcitoria per i danni prodotti al privato dalla p.a., non solo nelle materie di giurisdizione esclusiva, ma anche negli ordinari giudizi di legittimità1. 1 Sul punto si rinvia a Lieto G. M., La giurisdizione in tema di responsabilità amministrativo Gazzetta 96 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o Tale acquisizione da parte del giudice amministrativo ha dovuto confrontarsi ed armonizzarsi, in termini di domanda accessoria, con i riti previsti dalla procedura amministrativa, determinando, talvolta, difficili convivenze: una delle inter‑ ferenze di cui si è fatto menzione, si è avuta proprio con il giudizio di ottemperanza 2. In questo senso, dunque, si poneva il problema dell’ammissibilità dell’inserimento della domanda tesa al risarcimento dei danni cagionati dalla pubblica ammi‑ nistrazione, specie nel porre in essere atti in elusione o con‑ trari al giudicato, all’interno del rito per l’esecuzione al giu‑ dicato stesso. Dall’analisi delle pronunce emesse dai tribunali ammini‑ strativi, si possono individuare due orientamenti: uno, mag‑ gioritario, in base al quale si riteneva inammissibile, in sede di ottemperanza, la proposizione della domanda risarcitoria, fondato sulla convinzione che in sede di esecuzione del giudi‑ cato non possono essere proposte domande che non siano state già proposte e decise dalla sentenza da eseguire, in quan‑ to solo il decisum è oggetto di esecuzione3; l’altro, minoritario, che ammetteva la proposizione, in sede di ottemperanza, della domanda risarcitoria dei danni discendenti dall’ illegit‑ timo esercizio della funzione pubblica, a condizione, inter alios, che venisse introdotta davanti al Tar, al fine di evitare la violazione del principio del doppio grado di giudizio4. A ben vedere la ragione di tale disparità di opinioni può rinvenirsi nella diversa concezione dei poteri che si riconosce‑ vano al giudice dell’ottemperanza e all’idea stessa di tale giudizio: vale a dire in merito all’ampiezza dei poteri cognito‑ ri riconosciuti al giudice dell’ottemperanza. Non sono man‑ cati, infatti, specie nel passato, orientamenti soprattutto giurisprudenziali che hanno inteso la natura del giudizio di ottemperanza come un processo meramente di esecuzione5: in questo senso è chiaro che il thema decidendum su cui il giu‑ dice è chiamato a pronunciarsi non potrà essere più ampio delle statuizioni adottate dal giudicante nella sentenza di cui si domanda l’esecuzione, senza che possa residuare spazio alcuno per l’analisi di altre questioni, come appunto quelle sottese ad una richiesta risarcitoria. Viceversa, allorché si intendeva la natura del giudizio di ottemperanza come mista di esecuzione e cognizione6, non vi erano difficoltà ad acco‑ gliere nel giudizio domande risarcitorie, benché queste fosse‑ ro intimamente connessa a quella più propriamente esecutiva: non sfuggiva, infatti, che il giudice che indaghi sul comporta‑ mento tenuto dalla p.a. in relazione alla fase esecutiva della aquiliana della P. A. per lesione di interessi legittimi e la c. d. “pregiudiziale amministrativa”. Considerazioni, in Dir. & Giust., 2002, XI, pag. 202. 2Sul punto, Virga G., Sull’ammissibilità o meno dell’azione di risarcimento dei danni proposta con ricorso per ottemperanza, in www. lexitalia.it, 2006, n.ri 7, 8. 3 Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 aprile 2006, n. 2374; Sez. IV, 21 ottobre 2004, n. 6914; Sez. IV, 1 febbraio 2002, n. 396 4 Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2006, n. 861; Sez. VI, 8 marzo 2004, n. 1080 5 Cfr. tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3332; Sez. VI, 14 novembre 2003 n. 7292 6 Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 agosto 2009, n. 5013, nella quale si attribuisce al giudizio di ottemperanza “natura mista, di esecuzione e di cognizione”. In dottrina si richiama sul punto l’opinione di Caianiello V., Diritto processua‑ le amministrativo, Torino 2003, 852, il quale attribuisce al giudizio di ottem‑ peranza funzione “necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cogni‑ zione”; conforme Ferrara L., Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione, Milano 2003, 76 ss.. Gazzetta F O R E N S E decisione, al fine di verificare se la stessa abbia posto in esse‑ re atti in contrasto con il giudicato, esercita chiari poteri co‑ gnitori, che possono finanche sfociare in condanne al risarci‑ mento del danno, compatibili con la pronuncia inerente pro‑ priamente all’ottemperanza. Altra ragione che indubbiamente frenava l’ammissibilità del cumulo della domanda risarcitoria all’interno del proces‑ so di ottemperanza era, senz’altro, da individuare nella nor‑ mativa all’epoca vigente. Il giudizio di ottemperanza era stato storicamente inteso dal legislatore come un processo che mi‑ rava unicamente all’esecuzione delle sentenza pronunciate dai Tribunali civili (prima) e da quelli amministrativi (successiva‑ mente), senza alcuna specificazione circa l’ipotesi che nello stesso giudizio potessero trovare ingresso ulteriori e diverse domande7, se non quella cautelare. Quanto al tipo di danno ingiusto, oggetto della connessa domanda risarcitoria, si riteneva che esso potesse riguardare non tutti i comportamenti tenuti dalla p.a. forieri di danno per il privato, bensì unicamente quelli successivi alla forma‑ zione del giudicato, derivanti da un’attività della p.a. esatta‑ mente connessa al ritardo o all’omissione o all’inesatta esecu‑ zione della sentenza da eseguire8. A ben vedere, dunque, il rapporto tra giudizio di ottem‑ peranza e domanda risarcitoria era abbastanza tormentato e affidato alle concezioni personali dei giudici investiti della cognizione della domanda di ottemperanza. Non può non riconoscersi la chiarezza che, almeno sul punto, ha portato il nuovo codice del processo amministrativo9. 3. Il cumulo di domande nel nuovo codice di procedura ammini‑ strativa Il D.Lgs. n. 104/2011, in omaggio ai principi sul giusto processo di cui all’art. 111 Costituzione, nonché, in partico‑ lare, al principio di concentrazione e di economia processua‑ le, ha previsto la possibilità del cumulo tra diverse domande, proposte con unico ricorso, benché assoggettate a riti diversi. L’art. 32 c.p.a. dispone, infatti, l’ammissibilità del cumulo di domande connesse, proposte in via principale o in via inci‑ dentale, prevedendo che nel caso in cui le diverse domande debbano trattarsi secondo riti diversi, si faccia applicazione per tutte del rito ordinario, salvo diverse specifiche disposi‑ zioni10, e salvo che la materia oggetto del ricorso non ricada tra quelle che necessitano di trattazione secondo le disposi‑ zioni del rito abbreviato, che prevalgono sugli altri riti11. La possibilità del cumulo di domande, purché ovviamen‑ te connesse, ha reso oggi certamente ammissibile la proposi‑ 7 Cfr. artt. 90 e 91 R. D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 27 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054, art. 21 c. 14 e 15, Legge 6 dicembre 1971, n. 1034. 8In tal senso, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 4 marzo 2008, n. 849; 21 giugno 2006, n. 3690. 9Nello stesso senso anche Chieppa R., Il Codice del processo amministrativo, Milano, 2010, 488. 10 Cfr. ad esempio l’art. 117 c.p.a. che, in tema di cumulo della domanda risarci‑ toria con il ricorso avverso il silenzio rifiuto, dispone che il giudice ha la facol‑ tà di trattare con il rito speciale la domanda contro il silenzio, rinviando la pronuncia della domanda risarcitoria, da trattarsi secondo le forme del rito ordinario. 11In tal senso, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 marzo 2011, n. 1739; Tar Campania – Napoli, Sez. IV, 17 novembre 2010 n. 12666. Vd. anche Di Paola N. S., Guida al nuovo codice del processo amministrativo, San’Arcangelo di Roma‑ gna, 2010, 92 ss. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o zione della domanda risarcitoria unitamente alla domanda volta all’introduzione del giudizio di ottemperanza. La cumu‑ labilità di tali domande è, peraltro, espressamente prevista e disciplinata dall’art. 112 c.p.a., non lasciando più margini di dubbio in merito a tale ipotesi di cumulo. Quanto ai riflessi sul rito da seguire, stando alla lettera del Codice, la domanda di risarcimento, rivestendo natura accessoria, sarà attratta dalla forma prevista per il giudizio di ottemperanza e, dunque, ai sensi dell’art. 87 c.p.a., si svolgerà in camera di consiglio, secondo il rito delineato per l’ottemperanza12. Da segnalare che, nel sistema delineato dall’originaria formulazione dell’art. 112 c.p.a., che prevedeva, al comma 4 (abrogato per effetto dell’art. 1 D.Lgs. 195/2011), la possibili‑ tà della proposizione della domanda risarcitoria ex art. 30 co. 5 c.p.a. nel contesto del giudizio di ottemperanza, il giudizio doveva svolgersi, nel caso di tale forma di connessione, ecce‑ zionalmente, nei modi e nei termini del processo ordinario. 4. Il danno risarcibile in sede di ottemperanza Sullo scenario delineato è allora da considerare la pronun‑ cia dell’Adunanza Plenaria n. 2/2013, la quale, più che vere e proprie innovazioni, ha apportato una importante e chiara ricostruzione dell’istituto così come delineato dal codice del processo amministrativo, definendo il ruolo e la fisionomia del giudizio di ottemperanza. È necessario esaminare, a questo punto della trattazione, quali siano le ipotesi di risarcimento previste dal Codice del processo amministrativo, cumulabili con la domanda di ot‑ temperanza, come in effetti riconosciute anche nella autore‑ vole pronuncia in commento. Al proposito, è possibile individuare due tipi di domande risarcitorie proponibili unitamente al giudizio di ottempe‑ ranza: a) azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudi‑ cato della sentenza (art. 112 co. 3, prima parte); b) azione di condanna al risarcimento dei danni derivanti dalla impossibilità o comunque dalla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione (art. 112 co. 3, seconda parte). L’originaria formulazione dell’art. 112 c.p.a. prevedeva, poi, al comma 4, la possibilità di un’ulteriore domanda risar‑ citoria proponibile in connessione con quella diretta all’ot‑ temperanza del giudicato, consistente nella condanna ai sensi dell’art. 30, comma 5, diretta cioè al risarcimento del danno derivante dall’emanazione o esecuzione del provvedimento amministrativo illegittimo: si trattava di una vera e propria innovazione del codice del processo, che assecondava la tesi minoritaria espressa dalla giurisprudenza precodicistica, tuttavia abrogata dopo poco più di un anno di vigenza. Passando all’analisi, dunque, delle domande risarcitorie che possono presentarsi in connessione con la domanda tesa 12 Per approfondimenti sulle norme processuali inerenti il giudizio di ottempe‑ ranza, si rinvia a Tarullo S., Il giudizio di ottemperanza alla luce del codice del processo amministrativo, in Scoca F.G., Giustizia Amministrativa, Torino, 2011; Fiasconaro V., I riti camerali nel codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it. Per approfondimenti in tema di procedura del rito dell’ottemperanza, si rinvia per tutti a Leone G., Elementi di diritto processuale amministrativo, Padova, 2011, 309 – 319. 2 0 1 3 97 all’ottemperanza, può rilevarsi che la prima delle domande risarcitorie si iscrive perfettamente nel contesto del carattere propriamente esecutivo del giudizio in oggetto, avendo lo stesso ad oggetto particolarmente l’esecuzione di sentenze che possano prevedere anche il riconoscimento del diritto ad una somma di danaro, il cui importo, chiaramente, deve essere attualizzato rispetto al momento della concreta soddisfazione del creditore e rispetto al quale le somme ulteriori richieste dal creditore hanno natura di obbligazioni accessorie. Con riferimento alla domanda risarcitoria indicata sub b), invece, il legislatore ha previsto la possibilità di cumulo della domanda di ottemperanza con la domanda di risarcimento dei danni derivanti proprio dalla inattuata (e inattuabile) ri‑ tardata o inesatta esecuzione della sentenza che prevedeva una condanna della soccombente in forma specifica13: la connes‑ sione, nel caso di specie, è molto forte, e particolarmente meritevole appare la previsione del Codice di proporre le azioni con la medesima domanda. In effetti, come rilevato dalla stessa Adunanza Plenaria n. 2/2013, la connessione opera nel senso che la domanda risarcitoria in questione, se non si pone in esecuzione del giudicato, trova in esso tuttavia il suo presupposto. In effetti, già parte della giurisprudenza ancien régime, come accennato, prevedeva che in sede di ot‑ temperanza fosse domandabile il risarcimento per detti danni; la previsione legislativa, sottrae, dunque, alle incerte interpre‑ tazioni giurisprudenziali il giudizio di ammissibilità di tali domande nel corpo del medesimo ricorso14. Vengono peraltro in rilievo in questa tipologia di azione di condanna, ad esempio, alcune tipiche figure di danno aventi genesi pretoria, derivanti da un’attività illegittima e/o omissiva da parte della p.a., quali il danno da ritardo e da disturbo, il primo dei quali ha ricevuto una vera e propria consacrazione legislativa con l’introduzione nel corpo della Legge n. 241/90 dell’art. 2-bis ad opera della Legge n. 69/0915. Tali figure di danno si riferiscono alla tradizionale divisione degli interessi legittimi tra pretensivi ed oppositivi, il primo dei quali si rife‑ risce all’interesse del privato ad ottenere una situazione di vantaggio che incida in modo favorevole su una propria situa‑ zione soggettiva, mentre il secondo ad un interesse di segno 13Una recente pronuncia del Consiglio di Stato (sent. n. 259 del 16.01.2013), individua con precisione i possibili comportamenti dell’amministrazione che possono dar luogo a risarcimento, nel caso di mancata attuazione del giudica‑ to, individuando l’effetto del danno: a) nella oggettiva impossibilità di esecu‑ zione, dipendente da cause diverse ed (eventualmente) estranee al giudizio, in particolare non riconducibili al comportamento della P.A.; b) nel comporta‑ mento attivo dell’amministrazione, in quanto essa con diverso esercizio del potere – non strettamente afferente all’esecuzione del giudicato – rende impos‑ sibile l’esecuzione; c) nel comportamento omissivo dell’amministrazione, che, non eseguendo il giudicato, rende – per il tramite della sua inerzia – non più eseguibile lo stesso. Altresì, la stessa pronuncia individua che fonte del danno risarcibile può essere un comportamento assunto dall’amministrazione in elu‑ sione del giudicato amministrativo, i cui atti, in questo senso, saranno da di‑ chiarare nulli, ex art. 21-septies Legge n. 241/90. 14Tanto da portare ad affermare che “in sede di ottemperanza si è sempre ritenu‑ to possibile formulare richiesta di risarcimento solo per i danni verificatisi in seguito alla formazione del giudicato e proprio a causa del ritardo nella esecu‑ zione della pronuncia” (Cons. Stato, Sezione V, 23 novembre 2010, n. 8142). 15Su tali figure di danno, cfr. ex pluribus, Cons. Stato, Sez. V - sentenza 21 mar‑ zo 2011 n. 1739; 2 marzo 2009 n. 1162. In dottrina: Giovagnoli R., “Il ri‑ sarcimento del danno da provvedimento illegittimo”, Milano 2010; Zerman P.M., Il risarcimento del danno da ritardo: l’art. 2 bis della legge 241/1990 introdotto dalla legge 69/2009, in www.giustizia-amministrativa.it. Già prima dell’introduzione dell’art. 2-bis Legge n. 241/90, si vedano Cons. Stato, Ad. Plen., 03 dicembre 2008, n. 13; Sez. V, 31 gennaio 2006, n. 321. amministrativo Gazzetta 98 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o contrario a quello dell’amministrazione, teso a paralizzarne l’esercizio di un potere16. La possibilità in concreto di ottenere, all’esito del giudizio per l’ottemperanza, tali forme di risarci‑ mento, dipende dalla dimostrazione puntuale degli elementi che attestano il verificarsi di una situazione dannosa oggetti‑ vamente riconoscibile in capo al privato, poiché la giurispru‑ denza prevalente tende a non riconoscere il danno in re ipsa nella tardiva o inesatta attuazione dei poteri amministrativi, specie con riferimento al danno da ritardo17. In effetti, a ben vedere, la pertinenza di tali voci di danno con l’azione risarci‑ toria disciplinata dall’art. 112 co. 3 ult. parte, sembra avallata dalla stessa pronuncia in commento resa dall’Adunanza Ple‑ naria, allorché la stessa si occupa della possibilità di far rien‑ trare nell’azione di ottemperanza, anche la domanda tendente all’accertamento della nullità di atti emessi dall’amministra‑ zione in elusione del giudicato: a tal proposito, il Consiglio di Stato rileva come l’accertamento della nullità può risultare funzionale all’individuazione dei danni derivanti sia dalla ri‑ tardata attuazione del giudicato (per avere l’amministrazione emanato un provvedimento nullo)18 . Recente giurisprudenza amministrativa, non ha poi man‑ cato di osservare che il termine di decadenza per la proposi‑ zione dell’actio iudicati è stato fissato dal Codice del processo amministrativo in dieci anni proprio in ragione della natura della situazione soggettiva che si assume lesa dalla parte che agisce per l’ottemperanza, che è una posizione riconducibile a diritto soggettivo, per la cui lesione, derivante da un rapporto contrattuale “da contatto”, il codice civile prevede proprio un analogo termine di decadenza: tale termine si sposa bene anche con la natura della pretesa risarcitoria, avanzabile ex art. 112 comma 3 c.p.a., che deriva proprio dalla lesione di tale enun‑ ciata situazione giuridica soggettiva19. 16Sulla distinzione di tali figure di danno, si rinvia a Cons. Stato, Sez. VI, 12 marzo 2004, n. 1261. 17La decisione n. 7 del 15 settembre 2005 dell’Adunanza Plenaria ha infatti stroncato quel timido orientamento che riconosceva il presupposto del danno da ritardo nel mero mancato rispetto della certezza dei tempi dell’azione am‑ ministrativa, che assumeva valore sub specie di responsabilità precontrattuale, risarcibile ex art. 2043 c.c. (Cons. Stato, Sez. IV, ord. 7 marzo 2005, n. 875). Con riferimento al danno da disturbo, invece, l’orientamento prevalente è nel senso che la lesione dell’interesse implica ex se la lesione del bene della vita preesistente al provvedimento affetto da vizi di illegittimità, sicché l’accerta‑ mento della circostanza che la p.a. ha agito non iure di per se stesso implica la consolidazione di un danno ingiusto nella sfera giuridica del privato; sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. V, 30 giugno 2009, n. 4237. 18Sul punto, la pronuncia dell’Adunanza Plenaria in commento si mostra netta nel ritenere ammissibile la proposizione della domanda di accertamento della nullità nel corpo del giudizio di ottemperanza, piuttosto che in un separato giudizio di cognizione, in funzione di una maggiore effettività della tutela e della concentrazione dei rimedi giurisdizionali. La pronuncia è, in tal punto, di sicura importanza, dal momento che risolve in senso positivo una costante in‑ certezza che si avvertiva nella prassi circa il cumulo tra tali due domande. Il principio, peraltro, a ben vedere, è anche in questo caso di natura ricognitiva, più che innovativa, dal momento che è lo stesso codice del processo ammini‑ strativo a prevedere, all’art. 114 co. 4 lett. b), il potere del giudice dell’ottem‑ peranza di dichiarare nulli gli atti emessi dall’amministrazione in elusione del giudicato. Da segnalare che, a brevissima distanza dalla pronuncia della Plena‑ ria, appena due giorni dopo, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha espresso e confermato l’ammissibilità del cumulo della domanda di accertamen‑ to della nullità nel corpo del giudizio di ottemperanza (Cons. Stato, Sez. IV, 17 gennaio 2013, n. 273), rilevando che lo stesso giudice può spingersi -laddove riscontri la sussistenza della nullità dell’atto – fino ad indicare all’amministra‑ zione puntuali criteri per dare attuazione al giudicato, ponendo così limiti al riesercizio del potere, senza che ciò possa essere considerato invasivo del “me‑ rito” amministrativo; e ciò anche nel caso in cui ad essere rimessi in discussio‑ ne non sono i “fatti” (rimasti immutati), ma la “valutazione” dei medesimi. 19Il riferimento è a Cons. Stato, Sez. IV, 16 gennaio 2013, n. 259. Gazzetta F O R E N S E È da precisare, inoltre, che l’attuale formulazione del comma 3 dell’art. 112 c.p.a. è il frutto di una rivisitazione operata dal legislatore nel 2011, in sede di revisione del codi‑ ce del processo amministrativo, ad un anno dalla sua entrata in vigore: la modifica legislativa ha precisato che la domanda risarcitoria indicata più sopra sub lettera b), riguarda il caso in cui la parte soccombente nel giudizio principale20 era stata onerata, in sentenza, di dare esecuzione in forma specifica alla pronuncia. In effetti, dunque, il legislatore del 2011 ha sentito di puntualizzare che tale forma di risarcimento si at‑ teggia come una domanda di conversione della condanna in forma specifica disposta con il primo giudizio, in una forma risarcitoria per equivalente nell’ambito del giudizio di esecu‑ zione, fondata sulla mancata esecuzione, totale o parziale, del giudicato, nel caso, evidentemente, in cui il ritardo nell’esecu‑ zione hanno reso impossibile ovvero non più interessante, l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo risarcitorio. Peraltro, la stessa operazione di restyling dell’art. 112 c.p.a., ha portato a prevedere che la domanda risarcitoria sia ammissibile anche nel caso risulti l’impossibilità della parte soccombente di dare esecuzione al giudicato: in tal senso, l’impossibilità non si atteggia come una causa non prevedibi‑ le che esime da responsabilità la parte onerata ad una deter‑ minata prestazione di fare, ma come un evento che è produt‑ tivo di danno risarcibile. L’azione di risarcimento per il danno derivante da atti o attività illegittima della pubblica amministrazione, a seguito dell’abrogazione del comma 4 dell’art. 112 c.p.a., è proponi‑ bile unicamente in via ancillare nel corso di un giudizio di annullamento (o in via autonoma nelle materie di giurisdizio‑ ne esclusiva), ai sensi dell’art. 30 comma 5 c.p.a. e non più in connessione con la domanda di esecuzione del giudicato21. Quanto alla categoria di danni risarcibili, sembra utile un veloce cenno ad una tendenza recente dei Tribunali ammini‑ strativi, nel senso di riconoscere titolo al risarcimento anche in presenza di lesioni di diritti che trovano dimora nelle di‑ sposizioni della Carta costituzionale, riferendo il sintagma del danno ingiusto, di cui all’art. 2043 c.c., anche a norme di rango costituzionale22. Il danno risarcibile ai sensi dell’art. 112, commi 3 c.p.a. deve, dunque, ritenersi comprensivo an‑ che dell’eventuale pregiudizio non patrimoniale patito da chi 20Sembra opportuno parlare genericamente di parte soccombente piuttosto che di amministrazione soccombente, atteso che l’interpretazione ermeneutica che va formandosi alla luce del nuovo codice tende a riconoscere la proponibilità del giudizio di ottemperanza anche contro la parte privata, qualora la stessa sia stata destinataria in sentenza di un obbligo di fare, derivante dalla soccomben‑ za (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 marzo 2012, n. 1570; Tar Sicilia – Catania, 24 maggio 2012, n. 1312). 21Nel breve periodo di vigenza del comma 4 art. 112 c.p.a., era stato più volte sottolineato la novità del codice sul punto ed il suo carattere di rottura rispetto al passato. Cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 novembre 2010, n. 8142, che ha rilevato come “Dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, appro‑ vato con d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, deve ritenersi non più applicabile il princi‑ pio giurisprudenziale per il quale in sede di ottemperanza era possibile formu‑ lare richiesta di risarcimento, ma solo per i danni verificatisi in seguito alla formazione del giudicato e a causa del ritardo nella esecuzione della pronuncia, mentre il risarcimento dei danni riferibili al periodo precedente al giudicato doveva essere richiesto con un giudizio cognitorio da proporsi davanti al giudi‑ ce di primo grado, atteso che ai sensi dell’art. 112, comma 4, di detto codice è ora ammessa la proposizione, nel giudizio di ottemperanza, di una azione risar‑ citoria anche per i danni riguardanti periodi precedenti al giudicato”. 22Vd., già prima dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, Cons. Stato, Sez. V, 28 maggio 2010, n. 3397. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o subisce l’inerzia della P.A., a fronte di una decisione favore‑ vole, posto che non sussistono ostacoli di carattere testuale o sistematico ad immaginare una siffatta domanda giudiziale proposta nel corso del processo di ottemperanza 23: possono venire in considerazione, ad esempio, sotto tale profilo il di‑ ritto al lavoro (art. 4 Cost.) o alla reputazione ed alla imma‑ gine (riconducibili, questi ultimi, entro l’alveo dei diritti in‑ violabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.), i quali potrebbero offrire seri spunti per avanzare richieste risarcitorie connesse alla domanda di ottemperanza 24. Da ultimo si intende segnalare un’innovazione del Codice di procedura amministrativo che dovrebbe essere maggior‑ mente conosciuta e utilizzata, in quanto può consentire alla parte vittoriosa una certa soddisfazione in termini recupera‑ tori del diritto all’immagine e alla reputazione rovinata o compromessa: la richiesta, formulata dalla parte ricorrente, di condannare la parte soccombente alla pubblicazione della sentenza, prevista dall’art. 90 c.p.a. Nei casi in cui tale strumento possa contribuire alla ripa‑ razione del danno, potrebbe certo formare oggetto di una domanda connessa a quella di ottemperanza, formulata ex art. 112 c. 3 c.p.a. 5. Proponibilità della domanda risarcitoria innanzi al Consiglio di Stato, in funzione di giudice dell’ottemperanza La pronuncia dell’Adunanza Plenaria lascia in ombra un aspetto di certo interesse, che riguarda la ammissibilità della domanda risarcitoria proposta dinanzi al Consiglio di Stato, in funzione del giudice dell’ottemperanza, per la prima volta. In merito alla individuazione del giudice competente per l’ot‑ temperanza, è da premettere che il Codice del processo am‑ ministrativo ha lasciato pressoché inalterata la competenza per l’ottemperanza delle sentenze pronunciate dal Giudice amministrativo, mentre ha innovato quanto all’individuazio‑ ne del giudice competente a dare esecuzione alle sentenza dei Tribunali ordinari: nel primo caso, sarà, infatti, competente lo stesso Giudice che ha pronunciato la sentenza della cui ottemperanza si tratti, fermo restando la competenza del Tar anche per l’ottemperanza di quelle sentenze che non siano state sostanzialmente modificate a seguito di appello25; nel secondo caso, invece, deciderà il Tar nella cui circoscrizione 23In questi termini la recente sentenza Tar Puglia-Bari, sez. II, sentenza 10 genna‑ io 2011 n. 19. 24 È noto come la Cassazione abbia già da tempo aderito ad un approccio erme‑ neutico che legge in senso elastico la tipicità del danno non patrimoniale risar‑ cibile, consentendo il ristoro del danno in caso di lesione di valori costituziona‑ li primari, oltretutto non confinabili ad un numerus clausus in quanto ricava‑ bili, in forza della clausola aperta di cui all’art. 2 della Costituzione, in base ad un criterio dinamico che consente di apprezzare l’emersione, nella realtà socia‑ le, di nuovi interessi aventi rango costituzionale in quanto attinenti a posizioni inviolabili della persona; sul punto cfr. Cass. Civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828; Cass. SS. UU., 11 novembre 2008, n. 26972; 19 agosto 2009, n. 18356. 25 Già l’art. 37 Legge Tar prevedeva un simile riparto di competenza: sono anco‑ ra attuali, dunque, i contributi di dottrina e giurisprudenza tesi a chiarire quale valore attribuire esattamente a tale disposizione quando parla di “deci‑ sione del tribunale amministrativo confermata dal Consiglio di Stato”. In particolare si ricorda Cons. Stato, Ad. Plen. 11 gennaio 2011, n. 4, che ha sancito la competenza del Consiglio di Stato, allorché la sentenza di appello “abbia confermato la decisione di primo grado ma con integrazioni o modifiche alla relativa motivazione che abbiano apportato un autonomo contenuto pre‑ cettivo in ordine al quid e al modus dell’ottemperanza”. Si rinvia sul punto a Saitta F., Il giudice dell’ottemperanza, Milano, 1991. 2 0 1 3 99 ha sede il Tribunale che ha pronunciato il provvedimento di cui si domanda l’ottemperanza. Come si può notare, il legislatore favorisce la competenza sul giudizio di ottemperanza in capo al Tar, certamente sia con fini deflattivi dei ruoli già oberati del Consiglio di Stato, sia per ragioni di effettività della tutela, riconoscendo nel giudice che ha pronunciato la sentenza presupposta, il più idoneo a darvi esecuzione. Nel sistema così delineato, dunque, il Consiglio di Stato è competente quale giudice dell’ottempe‑ ranza solo nel caso di domanda avente ad oggetto una senten‑ za su cui si è pronunciato lo stesso Consiglio di Stato, modi‑ ficando in senso sostanziale l’opinione già espressa dal Tar investito del giudizio in primo grado. Tuttavia, proprio in tale limitata, benché niente affatto remota, ipotesi, resta il problema di stabilire l’ammissibilità della domanda risarcitoria proposta unitamente al ricorso per l’ottemperanza: resta, infatti, chiaro che la domanda risarci‑ toria proposta unitamente alla domanda di ottemperanza, per competenza funzionale, innanzi al Consiglio di Stato, verreb‑ be da quest’ultima decisa senza lasciare possibilità alcuna di appello. In tal senso, dunque, la domanda risarcitoria incon‑ trerebbe quello stesso limite delle sentenze di ottemperanza decise in grado unico dal Consiglio di Stato e ne condivide‑ rebbe la sorte26. Ebbene, sul punto, può ritenersi che la parte ricorrente possa rinunciare alla garanzia del doppio grado di giudizio, ma appare certo inaccettabile che debba subire tale compressione anche l’amministrazione convenuta. Il Codice non si pronuncia sulla problematica, lasciando all’interprete il compito di stabilire la soluzione. Ad opinione di chi scrive, sembra che il problema non debba porsi per le domande risarcitorie riguardate dall’art. 112 c. 3 (ossia, “il pagamento di somme a titolo di rivaluta‑ zione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza” ovvero “l’azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzio‑ ne in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”): le stesse seguono, infatti, la stes‑ sa sorte del giudizio di ottemperanza, stante anche la forte connessione che hanno con lo stesso. Un argomento testuale a sostegno dell’opinione fornita era ricavabile anche dall’ori‑ ginario testo dell’art. 112 c.p.a. e, in particolare, dal confron‑ to con quanto prescritto ai commi 3 e 4: il comma terzo, in‑ fatti, non prevede alcuna precisazione di carattere simile a quella espressamente contenuta all’ormai abrogato comma successivo e che si riferisce, invece, alle domande risarcitorie proposte ai sensi dell’art. 30, comma 5: per tale tipo di do‑ 26 Quanto all’appellabilità delle sentenze emesse all’esito di un giudizio di ottem‑ peranza, va detto che il Codice del processo amministrativo ha perso l’occasio‑ ne di portare chiarezza sul punto. In particolare non va dimenticata la regola, di genesi pretoria, della non appellabilità delle pronunce prive di contenuto decisorio, con conseguente necessità di distinguere, ai fini dell’ammissibilità dell’appello delle sentenze di ottemperanza, tra le sentenze che contengano mere misure attuative del giudicato – le quali sono ritenute non appellabili salvo che non dettino statuizioni aberranti e comunque estranee all’ambito ed alla funzione propria del giudizio di ottemperanza (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 9 giugno 2008, n. 2854) – e quelle che risolvano o omettano di risolve‑ re questioni di rito o attinenti alle condizioni dell’azione ovvero alla fondatezza del ricorso – le quali sono, invece, ritenute appellabili (ex pluribus, Cons. Stato, Sez. IV, 6 novembre 2007, n. 5739 e 10 marzo 2004, n. 1167). Si rinvia sul punto a Saitta F., Art. 100. Appellabilità delle sentenze dei tribunali ammi‑ nistrativi regionali, in Quaranta A. – Lopilato V. (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011. amministrativo Gazzetta 100 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o mande, il comma 4 dell’art. 112, espressamente stabiliva che “il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario”27. Ebbene, deve intender‑ si che tale clausola, disponendo che il giudizio dovesse segui‑ re le forme del giudizio ordinario, intende anche che lo stesso si svolga con le garanzie del giudizio ordinario, tra le quali senz’altro figura il doppio grado di giudizio: si può, dunque, ritenere che solamente la domanda risarcitoria ex art. 112, comma 4 non fosse proponibile in grado unico innanzi al Consiglio di Stato, non potendosi sottrarre alla garanzia della sua appellabilità. Malgrado la sopravvenuta abrogazione del comma in questione, sembra ancor utile rifarsi allo stesso per rinvenire l’intenzione storica o autentica del legislatore del codice del processo amministrativo, evidentemente intenzionato a con‑ sentire la connessione della domanda risarcitoria a quella di ottemperanza, anche quando la cognizione di quest’ultima sia affidata in grado unico al Consiglio di Stato. Peraltro, la stessa pronuncia in commento soccorre nel portare chiarezza su tale apparente fonte di dubbio: la stessa, infatti, nel corso della argomentazione, ha evidenziato come la funzione del giudizio di ottemperanza, nel senso di dare effettività al giudicato prevalga sulla garanzia del doppio grado di giudizio: ed infatti, mentre l’esigenza di concentra‑ zione e di effettività della tutela trova copertura costituziona‑ le nell’art. 100 della Costituzione, nonché nei principi espres‑ si nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo28, la garan‑ zia del doppio grado di giudizio, come noto, non ha alcuna copertura costituzionale. 27Per una simile riflessione su tale inciso, si rinvia a Tarullo S., Il giudizio di ottemperanza, cit.. Cfr. in giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. V, 1 aprile 2011, n. 2011; Sez. III, 5 maggio 2011, n. 2693. 28 Cfr. CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia. Gazzetta F O R E N S E F O R E N S E ● Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) ● A cura di Almerina Bove Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 101 Affidamento dell’attività di gestione degli spazi pubblicitari sugli impianti di proprietà dell’ente - Costituisce una concessione di servizio pubblico locale, con conseguente applicabilità dell’art. 30 del Codice dei contratti pubblici. L’affidamento dell’attività di gestione degli spazi pubbli‑ citari sugli impianti di proprietà dell’ente comporta l’instau‑ razione di un rapporto trilaterale tra Amministrazione con‑ cedente, concessionario e utenti, nel quale il concessionario agisce in luogo dell’Ente pubblico, cedendo gli spazi a terzi dietro compenso e corrispondendo un canone all’Ammini‑ strazione, a cui si aggiungono il servizio di manutenzione ed altre eventuali prestazioni accessorie. L’indicato affidamento, pertanto, non si configura come appalto di servizi, ma come concessione di servizio pubblico locale, con conseguente applicazione dell’art. 30 del Codice dei contratti pubblici. T.A.R. Campania- Napoli, Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 313 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo A.T.I. – Mancata specificazione della quota di partecipazione dei singoli partecipanti- Costituisce causa di esclusione dalla gara, ai sensi dell’art.46, comma 1 bis del Codice dei contratti pubblici. La misura espulsiva da una gara d’appalto del R.T.I. che non abbia dichiarato in fase di ammissione alla gara le quote di partecipazione di ciascuna impresa al raggruppamento e le quote di ripartizione delle prestazioni oggetto dell’appalto, discendendo direttamente dall’art. 37del Codice dei contrat‑ ti pubblici risulta conforme al principio di tassatività delle cause di esclusione - di recente codificato dall’art. 4 comma 2, lett. d), d.l. 13 maggio 2011 n. 70, con l’inserimento del comma 1 bis al citato art. 46 del Codice dei contratti pubbli‑ ci - atteso che la misura espulsiva dalla gara può esser dispo‑ sta “oltre che nei casi in cui le disposizioni del codice o del regolamento la prevedano espressamente, anche nei casi in cui dette disposizioni impongano adempimenti doverosi ai concorrenti o candidati, o dettino norme di divieto, pur senza prevedere una espressa sanzione di esclusione”. T.A.R. Campania- Napoli, Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 312 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo A.T.I. - Necessità, al fine dell’ammissione alla gara, della specifi‑ cazione della quota di partecipazione dei singoli partecipanti e della corrispondenza tra detta quota e quella dei lavori, servizi o forniture da svolgere da ciascuno - Ratio. Il comma 13 dell’art. 37 del Codice dei contratti pubblici - secondo cui “i concorrenti riuniti in raggruppamento tem‑ poraneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamen‑ to”- prescrive una perfetta corrispondenza tra quota dei la‑ vori (o, nel caso di forniture o servizi, parti del servizio o della fornitura) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, ed im‑ pone che sia l’una che l’altra siano specificate dai componen‑ ti del raggruppamento all’atto della partecipazione alla gara, come requisito di ammissione alla procedura. Detto obbligo di specificazione trova la sua ratio nella necessità di assicura‑ re la conoscenza preventiva del soggetto che in concreto eseguirà le prestazioni, al fine di ogni previa verifica sullo stesso, e di evitare che le imprese si avvalgano del raggruppa‑ mento non per unire le rispettive disponibilità tecniche e fi‑ nanziarie, ma per aggirare le norme di ammissione alle gare. amministrativo Gazzetta 102 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o T.A.R. Campania- Napoli, Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 312 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo Informative c.d. atipiche – Discrezionalità della stazione appal‑ tante in ordine alla instaurazione o meno del rapporto contrat‑ tuale - Necessità di idonea motivazione in ordine alla ritenuta ri‑ levanza della segnalazione. A differenza dell’informativa cd. tipica - la quale ha ca‑ rattere vincolante per le stazioni appaltanti ed automatica efficacia interdittiva in ordine alla capacità della pubblica amministrazione a negoziare con il soggetto interessato – nel caso dell’informativa c.d. supplementare o atipica l’ammini‑ strazione destinataria conserva la potestà discrezionale di valutare autonomamente le informazioni ricevute, verifican‑ do l’idoneità morale del partecipante alla gara, ai fini dell’av‑ vio o del prosieguo del rapporto contrattuale. Le informati‑ ve del genere rappresentano, infatti, atti endoprocedimenta‑ li, non dotati di efficacia immediatamente lesiva, prive di carattere interdittivo, ma consentono l’attivazione degli or‑ dinari strumenti di discrezionalità nel valutare l’avvio o il prosieguo dei rapporti contrattuali. Siffatta segnalazione, esclusa ogni sorta di automatismo, necessita in ogni caso di un adeguato vaglio critico da estrinsecare attraverso una congrua motivazione, mentre la determinazione automatica ad avviare o proseguire un rapporto contrattuale non può che derivare da fattispecie puntualmente definite dal legislatore, ipotesi che, in quanto tali, consentono di ritenere (con ragio‑ nevolezza) vincolata l’attività dell’amministrazione. T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 14 febbraio 2013, n. 900 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo Lex specialis – Ammissibilità del ricorso proposto da chi abbia partecipato alla gara. La presentazione della domanda di partecipazione ad una procedura selettiva non implica acquiescenza alle clausole della relativa lex specialis, le quali possono essere impugnate solo dopo avere concretamente dimostrato non solo la volontà di prendere parte alla selezione, ma anche la lesione attuale e concreta dell’interesse legittimo azionato, considerato, d’altro canto, che la presentazione della domanda è un atto normal‑ mente necessario proprio per radicare l’interesse al ricorso. T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 20 febbraio 2013, n. 933 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio Offerta economica – Necessità di indicare in maniera chiara e determinata l’ammontare degli oneri destinati alla sicurezza, a pena di esclusione dalla procedura – Irrilevanza di mancata pre‑ visione di tale obbligo nella lex specialis. La lettura combinata degli articoli 86 e 87 del codice dei contratti impone ai partecipanti alle procedure di evidenza pubblica di indicare nell’offerta economica, in maniera chia‑ ra e determinata, l’ammontare degli oneri destinati alla sicu‑ rezza, al fine di permettere alla stazione appaltante l’accer‑ tamento della congruità e dell’attendibilità dell’offerta in relazione a tale voce, a prescindere dall’attivazione degli or‑ dinari strumenti di verifica dell’anomalia. Più precisamente, le imprese concorrenti sono tenute a segnalare gli oneri eco‑ nomici finalizzati all’esatto adempimento degli obblighi di sicurezza sul lavoro, al duplice scopo di assicurare la consa‑ pevole formulazione dell’offerta con riguardo ad un aspetto Gazzetta F O R E N S E nevralgico e di consentire alla stazione appaltante la valuta‑ zione preventiva della congruità dell’importo posto a coper‑ tura dei costi per la sicurezza; né la quantificazione dei pre‑ detti oneri può tradursi nell’inclusione in voci di costo ampie e generiche. La mancanza di una apposita previsione in seno alla lex specialis non toglie che la disciplina del codice dei contratti in materia sia immediatamente precettiva ed idonea ad eterointegrare le regole procedurali, imponendo agli offe‑ renti di indicare separatamente gli oneri per la sicurezza. T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 20 febbraio 2013, n. 934 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio Operazioni di gara - Mancata contestazione della illegittimà della lex specialis nelle more della gara - Non si configura quale acquie‑ scenza. La condotta silenziosa assunta nel procedimento di gara da una partecipante non è di per sé indicativa della volontà di aderire all’operato della commissione giudicatrice; né tale volontà può essere inferita dalla semplice sottoscrizione del verbale di verifica della documentazione amministrativa, dal momento che è evidente che la sottoscrizione in parola non può avere altra funzione che quella di mera presa d’atto di quanto deliberato dal seggio di gara.Infatti, sussiste acquie‑ scenza ad un provvedimento amministrativo solo nel caso in cui ci si trovi in presenza di atti o comportamenti univoci posti liberamente in essere dal destinatario dell’atto, che di‑ mostrino la chiara ed irrefutabile volontà dello stesso di ac‑ cettarne gli effetti e l’operatività. T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 6 febbraio 2013, n. 766 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio Requisiti generali di partecipazione alla gara – Sussiste l’obbligo di dichiarazione ex art. 38 anche da parte di chi, nonostante non sia amministratore, abbia il potere di impegnare sostanzialmente all’esterno l’ente. L’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, nella parte in cui elenca le dichiarazioni di sussistenza dei requisiti di moralità profes‑ sionale richiesti ai fini della partecipazione alle procedure di gara, assume come destinatari tutti coloro che, in quanto titolari della rappresentanza dell’impresa, siano in grado di trasmettere al soggetto rappresentato, con il proprio compor‑ tamento, la riprovazione dell’ordinamento nei riguardi della loro personale condotta. Deve, pertanto, ritenersi sussisten‑ te l’obbligo di dichiarazione non soltanto da parte di chi ri‑ vesta formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte di colui che, in qualità di procuratore ad negotia, abbia ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella rappre‑ sentanza della società e nel compimento di atti decisionali incidenti sulla gestione complessiva dell’impresa. L’identifi‑ cazione dei soggetti che cadono nel raggio di operatività della norma deve essere effettuata non solo in base alle qua‑ lifiche formali rivestite, ma anche alla stregua dei poteri so‑ stanziali attribuiti che inducano a qualificare detti soggetti come amministratori di fatto. T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 6 febbraio 2013, n. 766 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio Requisiti di moralità - L’omissione o l’incompletezza della dichia‑ razione è insanabile, senza che possa invocarsi la categoria del “falso innocuo”. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o La dichiarazione in ordine alla sussistenza dei requisiti di moralità è richiesta per una finalità che non si traduce solo nella garanzia sull’assenza di ostacoli di natura etica all’ag‑ giudicazione, ma anche nella predisposizione dello strumen‑ to atto a consentire l’ordinaria verifica sull’affidabilità dei soggetti partecipanti. La completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché consente - anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministra‑ zione e di proporzionalità - la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara. Conse‑ guentemente una dichiarazione inaffidabile, perché falsa o incompleta, è già di per se stessa lesiva degli interessi consi‑ derati dalla norma, a prescindere dal fatto che l’impresa meriti “sostanzialmente” di partecipare alla gara, senza pos‑ sibilià di essere “sanata” ricorrendo alla categoria del falso innocuo. T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 6 febbraio 2013, n. 766 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Carlo Dell’Olio 2 0 1 3 103 Subappalto - Erronea o incompleta dichiarazione - Comporta l’esclusione dalla gara soltanto ove il partecipante risulti sfornito in proprio delle qualificazioni per le lavorazioni da subappaltare. L’incompleta o erronea dichiarazione del concorrente re‑ lativa all’esercizio della facoltà di subappalto è suscettibile di comportare l’esclusione dello stesso dalla gara nel solo caso in cui esso risulti sfornito in proprio della qualificazione per le lavorazioni che ha dichiarato di voler subappaltare, determi‑ nando negli altri casi effetti unicamente in fase esecutiva, sotto il profilo dell’impossibilità di ricorrere al subappalto. Tale so‑ luzione appare in linea col principio di tassatività delle cause di esclusione - ai sensi dell’art. 46 comma 1 bis, del Codice dei contratti pubblici, modificato dall’art. 4 comma 2, lett. d), d.l. 13 maggio 2011 n. 70 - dal quale discende anche che, qualora manchi nella lex specialis una chiara prescrizione che imponga in modo esplicito l’obbligo dell’ esclusione, vale il principio della più ampia partecipazione alla gara. T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 1 febbraio 2013, n. 696 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Pierluigi Russo amministrativo Gazzetta Diritto tributario Riflessioni a margine di alcuni casi di deroga al principio di alternatività tra imposta sul valore aggiunto e imposta di registro 107 tributario Maria Pia Nastri Gazzetta F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o ● 107 ● Maria Pia Nastri Ricercatrice di diritto tributario Università degli Studi Suor Orsola Benincasa - Napoli 1. Le possibili ragioni poste alla base delle deroghe all’alternatività. Nel vigente sistema legislativo tributario risulta complessa la ricostruzione del quadro sistematico delle deroghe al nor‑ male regime di alternatività e la ricostruzione della ratio legi‑ slativa sottesa1. Il principio di alternatività contenuto, come noto, in una legge ordinaria (art. 40 del d.P.R. n. 131/86), avente carattere precettivo è stato “rivisitato” con i vari interventi normativi successivi, introdotti con norme di pari rango. Le modifiche introdotte con il più volte citato d.l. n. 223/2006, ed i successivi decreti d.l. n.1/2012 e d.l. n. 83/2012, sebbene non abbiano modificato il principio di alternatività contenuto nell’art. 40 del d.P.R. n. 131/86, hanno dapprima ampliato l’ambito delle deroghe e poi quello delle opzioni,è quindi necessario verificare se detto principio trovi ancora la sua forza precettiva o sia stato ridimensionato a mera norma programmatica. Un’attenta ricostruzione della ratio della disposizione contenuta nell’art. 40 comma 1, conduce sia al divieto di dop‑ pia imposizione contenuto nell’art. 53 Cost., ed anche all’art. 401 della direttiva 2006/212/CE che vieta l’introduzione di ulteriori imposizioni che siano assimilabili all’Iva; detta inda‑ gine consente di verificare le ragioni poste alla base delle de‑ roghe, al fine di poter eventualmente giustificare detti inter‑ venti, oppure evidenziarne il contrasto con i principi interni e comunitari. Le numerose deroghe e opzioni introdotte dal legislatore possono infatti determinare un’interferenza tra le due imposte causando un ostacolo all’applicazione dell’Iva con possibili effetti distorsivi della concorrenza, ma anche fenomeni di duplicazione d’imposta. L’intervento del legislatore, come osservato dalla più atten‑ ta dottrina, può essere suddiviso in due tipi di operazioni: ampliamento delle deroghe già previste dal legislatore attra‑ verso l’estensione dell’ambito di applicazione delle operazioni esenti Iva ed allo stesso tempo soggette ad imposta di registro proporzionale e ulteriore superamento della deroga (deroga della deroga) per operazioni che scontano l’imposta di registro all’1% anche se rientranti nel campo di applicazione dell’Iva, si tratta in particolare delle locazioni di beni immobili stru‑ mentali 2. Le deroghe nel settore immobiliare consentono delle brevi riflessioni sotto il profilo sistematico: fin dalla riforma Bersa‑ ni-Visco il legislatore si è soffermato sul presupposto sogget‑ tivo e su quello oggettivo sulla base della considerazione che la cessione e la locazione degli immobili è posta in essere sia dalle imprese, sia dai privati. Il requisito soggettivo è risultato di particolare rilievo nel caso di cessioni di fabbricati effettua‑ 1 Cfr. M. P. Nastri, Il principio di alternatività tra imposta sul valore aggiunto e imposta di registro, Torino, 2012. 2 Cfr. M. Basilavecchia, Problematiche concernenti il nuovo sistema di alterna‑ tività tra Iva e imposte sui trasferimenti della ricchezza, in Novità e problemi nell’imposizione tributaria relativa agli immobili, cit. p. 101 ss. tributario Sommario: 1. Le possibili ragioni poste alla base delle deroghe all’alternatività. – 2. La rilevanza del presupposto soggettivo. – 3. Regimi derogatori nel settore immobiliare: casi applicativi. – 4. Deroga al principio di alternatività ed interferenza con le norme comunitarie. Riflessioni a margine di alcuni casi di deroga al principio di alternatività tra imposta sul valore aggiunto e imposta di registro 2 0 1 3 108 d i r i t t o te dopo il decorso di cinque anni dalla ultimazione dei lavori, ipotesi in cui, secondo il legislatore, emerge una finalità an‑ tielusiva, in quanto spesso le società immobiliari scarsamente attive sul piano della produttività nell’ambito dell’impresa svolgono un’attività di gestione degli immobili con connota‑ zione prevalentemente patrimoniale. Tuttavia con il decreto sviluppo, come meglio verrà chia‑ rito in seguito, il legislatore ha riconsiderato la tassazione di tali cessioni decorso il quinquennio, considerando detti im‑ mobili come invenduti e consentendo la possibilità per l’im‑ presa cedente, a seguito di opzione, di detrarre l’Iva sugli acquisti effettuati e fruire del regime di neutralità peculiare dell’Iva. 2. La rilevanza del presupposto soggettivo. Le operazioni sono nella generalità dei casi caratterizzate attraverso l’individuazione del presupposto soggettivo e con‑ seguentemente sottoposte ad Iva le cessioni oggetto di attività commerciali e industriali e ad imposta di registro quelle non rientranti nella sfera imprenditoriale, ma privata. L’alternatività deve evitare non solo eventuali fenomeni di duplicazione d’imposta, ma anche interferenze dell’imposta di registro con la fiscalità delle imprese e delle professioni e nella maggior parte dei casi il presupposto soggettivo costitu‑ isce l’elemento centrale ai fini della qualificazione degli atti. Il principio di alternatività non viene però sempre rispet‑ tato e sebbene in taluni casi le deroghe siano previste esplici‑ tamente dal legislatore come ad esempio per i contratti di permuta, casi in cui è prevista una tassazione “sdoppiata” (in cui formalmente l’alternatività viene rispettata) non si può negare che il pagamento dell’imposta di registro per un’impre‑ sa che acquista da un soggetto non Iva, inciderà sul meccani‑ smo del tributo creando un’interferenza tra le due imposte. L’individuazione del presupposto soggettivo quale stru‑ mento interpretativo consente un’applicazione coerente e al‑ ternativa di entrambe le imposte. Il profilo soggettivo del cedente è stato “rivisitato” dal le‑ gislatore con l’introduzione del decreto sviluppo (d.l. 83/12 conv. in l. 134/12): i soggetti passivi Iva (imprese e professioni‑ sti) potranno beneficiare del regime opzionale scegliendo l’imponibilità Iva (anziché il penalizzante regime di esenzione Iva con applicazione dell’imposta di registro): le modifiche in‑ trodotte consentono ad esempio alle imprese costruttrici, che non sempre riescono a vendere nei cinque anni dalla fine dei lavori gli immobili abitativi realizzati, di optare per l’applica‑ zione dell’Iva sulle cessioni degli immobili medesimi e di evita‑ re, in tal modo, l’indetraibilità dell’Iva assolta sugli acquisti. 3. Regimi derogatori nel settore immobiliare: casi applicativi. In caso di trasferimenti di fabbricati realizzati da privati a favore d’imprese aventi per oggetto, esclusivo o principale, la rivendita di beni immobili, che dichiarino nell’atto di ac‑ quisto l’intenzione di rivenderli entro i tre anni successivi, l’imposta di registro non è dovuta nella misura agevolata dell’1%3. È questo l’orientamento della Suprema Corte che, diver‑ samente da quanto deciso nelle sentenze di merito, ha accolto 3 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 23 giugno 2011, n. 13847, in banca dati Fisconline. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E il ricorso dell’Agenzia dell’Entrate, ritenendo non applicabile l’aliquota dell’1% dell’imposta di registro e le imposte ipote‑ caria e catastale in misura fissa, in caso di trasferimento di un bene immobile posto in essere nei confronti di una società di rivendita immobiliare da parte di un privato. Infatti, affin‑ chè si possa ravvisare il beneficio, è necessario che ricorra il presupposto soggettivo e che quindi il cedente ponga in atto il trasferimento nell’ambito dell’esercizio dell’attività di im‑ presa, arte o professione. Infatti, l’art. 35 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con l.4 agosto 2006, n. 248, ha riformulato il testo dell’art. 10, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, recante la disciplina delle esenzioni dall’imposta sul valore aggiunto, sostituendo integralmente i nn.8 e 8-bis ed aggiungendo il n. 8-ter4. L’art. 10, comma 1, n. 8-bis, prevedeva per le cessioni di “fabbricati o di porzioni di fabbricato diversi da quelli di cui al n. 8-ter)” l’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto5, fatta eccezione per le cessioni effettuate, entro cinque anni dalla data di ultimazione della costruzione o dell’intervento, dalle imprese costruttrici degli stessi fabbricati o dalle impre‑ se che vi hanno eseguito, anche tramite imprese appaltatrici, gli interventi di recupero del patrimonio edilizio di cui all’art. 31, lettere c), d), e) della l. 5 agosto 1978, n. 457 e per le ces‑ sioni effettuate dai medesimi soggetti, anche successivamente ai cinque anni dalla data di ultimazione della costruzione o dell’intervento, a condizione che i fabbricati siano stati locati, entro il predetto termine, per un periodo non inferiore a quattro anni, in attuazione di programmi di edilizia residen‑ ziale convenzionata. È infatti prevista l’applicazione dell’im‑ posta di registro nella misura dell’1% “se il trasferimento avente per oggetto fabbricati o porzioni di fabbricato è esente dall’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’art. 10, co. 1, n. 8-bis del d.P.R. n. 633/72 ed ha effettuato nei confronti di imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’at‑ tività esercitata la rivendita di beni immobili, a condizione che nell’atto l’acquirente dichiari che intende trasferirli entro tre anni”, ai sensi dell’art. 1 della Tariffa, Parte Prima, alle‑ gata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 che a seguito della de‑ creto Bersani-Visco non ha subito alcuna modifica. Nei casi di cessioni, ex art. 10, comma 1, n. 8-bis, del d.P.R. n. 633/1972 e quindi di operazioni esenti Iva6, troverà 4 Cfr. Relazione governativa di accompagnamento al d.l. 4 luglio 2006, n. 223, dalla quale si evince che la ratio del legislatore era essenzialmente quello di circoscrivere l’ambito di applicazione dell’Iva alle sole operazioni di prima immissione sul mercato dei fabbricati di cui trattasi, con la conseguenza che, in ogni altra ipotesi, diversa da quelle normativamente considerate, la cessione di tali fabbricati è soggetta all’imposta di registro. 5Numero aggiunto dall’art. 10 del d.l. n. 323/1996, poi sostituito dal comma 8 dell’art. 35 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, come modificato dalla relativa legge di conversione e infine modificato dal comma 330 dell’art. 1 della l. 27 dicem‑ bre 2006, n. 296 e dal comma 86 dell’art. l. della l. 13 dicembre 2010, n. 220 a decorrere dal 1° gennaio 2011. Si tratta, quindi d’immobili diversi dai fabbri‑ cati o porzioni di fabbricati strumentali che, per le loro caratteristiche, non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni. 6La classificazione tra operazioni imponibili, non imponibili, esenti ed escluse ai fini Iva deriva da interpretazioni derivate dalla lettura combinata di numerosi articoli dell’Iva, non essendovi alcuna disposizione legislativa che la preveda. Affinché possano assumere la qualifica di esenti, come richiesto dal citato art. 10, le operazioni devono avere tutti i requisiti di soggettività, oggettività e ter‑ ritorialità propri delle operazioni imponibili e per ciò che concerne gli adempi‑ menti formali e sostanziali, esse devono essere comunque assoggettate ai dove‑ ri e agli obblighi stabiliti per queste ultime, salvo le eccezioni normativamente F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o applicazione l’imposta di registro in misura proporzionale pari all’1%, in deroga al principio di alternatività ai sensi dell’art. 40 del d.P.R. n. 131/1986. La Corte di Cassazione ha pertanto effettuato la verifica della sussistenza dei presuppo‑ sti per l’applicazione di tale disposizione con particolare rife‑ rimento al rinvio di cui all’art. 10, comma 1, n. 8-bis, del d.P.R. n. 633/1972 al trasferimento esente da Iva7. Ai fini dell’applicazione dell’aliquota dell’1% dell’imposta di registro, il trasferimento deve essere soggetto ad Iva, ex art. 2 del d.P.R. n. 633/1972, ed effettuato nel territorio dello Stato e deve essere realizzato nell’esercizio di attività di impresa, ex art. 4 del decreto Iva8: l’aliquota applicabile sarà, tuttavia, non quella ordinariamente stabilita, ma quella dell’1% solo se ri‑ corrono anche le ulteriori due condizioni richieste dal quinto periodo dell’art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al Tur, cioè che la cessione sia posta in essere in favore di imprese aventi per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercita‑ ta la rivendita di beni immobili e che nell’atto l’acquirente dichiari di voler trasferire quanto acquistato entro tre anni. Nel caso in cui, tuttavia il cedente non sia uno dei sogget‑ ti di cui al citato n. 8-bis, la cessione si renderà assoggettabi‑ le ad imposta di registro con aliquota ordinaria ai sensi dell’art. 40 del d.P.R. n. 131/1986. Inoltre, la cessione dovrà essere realizzata dalle imprese che “hanno per oggetto esclu‑ sivo o principale dell’attività esercitata la rivendita dei predet‑ ti fabbricati o delle predette porzioni”, e cioè i fabbricati o le porzioni di fabbricato a destinazione abitativa (soggetto ce‑ dente) mentre il cessionario dovrà essere: “imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata la rivendita di beni immobili”: ne consegue che, sempre con ri‑ ferimento ai requisiti soggettivi, la categoria di imprese am‑ messe all’acquisto di case di abitazione con l’imposta di regi‑ stro all’aliquota dell’1% è più ampia rispetto alla categoria individuata dalla disposizione contenuta nel d.P.R. n. 633/1972. Ai fini dell’individuazione delle “imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata” la riven‑ dita di fabbricati o di porzioni di fabbricato a destinazione abitativa ovvero di immobili, è necessario precisare alcuni elementi distintivi, rientrano nel presupposto soggettivo le imprese che, costituite in forma societaria, prevedano, nello statuto o nei patti sociali, quale oggetto sociale prevalente o principale l’attività innanzi definita e le imprese che svolgono effettivamente, in via esclusiva o principale, tale attività, con riferimento sia al volume d’affari nel caso di impresa già ope‑ rante, sia al codice attività attribuito ai fini Iva9. previste allo scopo di limitare l’effetto tipico che caratterizza le operazioni esenti, e cioè l’indetraibilità dell’imposta (art. 19 del d.P.R. n. 633/1972). 7 Cfr. S. Di gregorio Natoli, Iva: operazioni imponibili, non imponibili, esen‑ ti ed escluse, in Fisco, 42, 2000, p.12509 ss. rappresentano un’eccezione al meccanismo di applicazione dell’Iva, in quanto interrompono il processo di traslazione in avanti che consente di trasferire, ad ogni passaggio di beni, l’im‑ posta dai produttori ai consumatori mediante l’istituto della rivalsa, ex art. 18 del d.P.R. n.633/72. 8Tale conclusione, è condivisa anche dall’Amministrazione con la Ris. min.,10 giugno 1999 n. 93/E-III-7-75104 che, occupandosi della cessione di fabbricati da parte di un Ente regionale di sviluppo agricolo, ha rilevato come nel caso di specie difettasse, in capo al cedente, il presupposto soggettivo di cui all’art. 4 del d.P.R. n. 633/72, ritenendo inapplicabile alla fattispecie considerata la di‑ sciplina di cui all’art.10, co. 1, n. 8-bis, dello stesso d.P.R. n. 633/72. 9 Cfr. Circ. min., 11 luglio 1996, n. 182, in banca dati Fisconline. 2 0 1 3 109 Secondo la Suprema Corte l’applicazione dell’aliquota agevolata in oggetto presuppone la realizzazione di un’opera‑ zione esente ai fini Iva, ai sensi dell’art. 10 n. 8-bis, del d.P.R. n. 633/1972 e anche se il testo della norma di cui all’art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al d.p.r. n. 131/1986 è ri‑ masto immutato, il relativo ambito di applicazione è certa‑ mente più ampio poiché ai sensi dell’art. 10 comma 1, n. 8-bis, la previsione delle fattispecie esenti dall’Iva è anch’essa più ampia. La Corte di Cassazione ritiene vigente la previsione di cui all’art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131/1986, il cui ambito applicativo è determinato mediante il rinvio all’art. 10, comma 1, n. 8-bis, del d.P.R. n. 633/1972, a condizione che la cessione sia posta in essere in favore di imprese aventi per oggetto, esclusivo o principale, dell’attività esercitata la rivendita di beni immobili e che nell’atto l’acqui‑ rente dichiari di voler trasferire quanto acquistato entro tre anni10. È opportuno evidenziare che la recente ordinanza ha però ribadito che, affinché l’operazione in oggetto possa essere considerata esente da Iva, è indispensabile che sussistano tutti i requisiti, soggettivo, oggettivo e territoriale, per l’appli‑ cazione dell’Iva stessa e quindi naturalmente, che il cedente sia qualificabile come soggetto passivo agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 633/197211. È esclusa invece l’applicazione dell’aliquota di registro dell’1%, nel caso in cui il trasferimento nei confronti di una società immobiliare sia effettuato da parte di un soggetto privato che non operi nell’esercizio di attività di impresa, in quanto tale operazione si configura come fuori dal campo di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto e non esente12. Infatti come esplicitamente chiarito dal Ministero delle Finanze, nella risposta all’interrogazione parlamentare 17 giugno 2009 n. 5-01457, l’aliquota dell’1% non può trovare applicazione nel caso in cui il cedente sia un soggetto non Iva, poichè in tal caso, la cessione sarebbe fuori campo Iva e non rientrerebbe nell’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 10 co. 1 n. 8-bis del d.P.R. 633/7213. 10Per completezza si ricorda che ai sensi della nota II-ter all’art. 1 della Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131/86, il mancato trasferimento degli immobili oggetto dell’agevolazione nell’arco dei tre anni dalla data del loro acquisto comporta quale conseguenza: il pagamento delle imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, l’irrogazione di una sanzione pari al 30% della minor imposta versata per effetto dell’applicazione dell’aliquota ridotta, nonché il computo e l’addebito degli interessi di mora ex art. 55 co. 4 del d.P.R. n. 131/86. 11Il beneficio, secondo l’interpretazione fornita dalla Comm. trib.reg. di Torino nella sentenza del 22 marzo 2012 n.18/34/12, in banca dati Fisconline, si ap‑ plica anche nell’ipotesi di rivendita soltanto parziale di detti immobili, in quanto la norma non prevede espressamente che la cessione debba essere inte‑ grale. 12 Cfr. “Risposta a quesito n. 14-2006/T”, Applicazione dell’aliquota di registro nell’1 per cento in caso di trasferimento a favore di società che svolge attività di rivendita, di A.Lomonaco. Così Agenzia delle Entrate, circ. n. 12 /E del 1° marzo 2007, in banca dati Fisconline; cfr. A. Lomonaco, Cessioni e locazioni di fabbricati dopo la manovra Visco-Bersani: le attese risposte dell’Agenzia delle entrate sulle problematiche aperte, in Consiglio nazionale notariato - No‑ tizie del 14 marzo 2007. 13 Interr. e Risp. Parl. n. 5-01457 del 17 giugno 2009 (Risposta del Sottosegreta‑ rio on. Daniele Molgora all’interrogazione presentata dagli onorevoli Antonio Pepe e Manlio Contento) Applicazione in misura ridotta delle imposte di regi‑ stro, ipotecarie e catastale ai trasferimenti da soggetti privati a società immobi‑ liari di immobili.“omissis…Con l’interrogazione in esame è stato chiesto, in tributario Gazzetta 110 d i r i t t o Sembrerebbe quindi che il legislatore abbia voluto limitare ai soli operatori economici detta agevolazione, per evitare un ulteriore aggravio economico alle imprese del settore immo‑ biliare per le quali l’imposta di registro costituisce un costo. 4. Deroga al principio di alternatività ed interferenza con le norme comunitarie. Un altro caso di particolare interesse, in merito all’appli‑ cazione del regime derogatorio è stato esaminato dalla Com‑ missione tributaria provinciale della Lombardia14 e successi‑ vamente ha trovato conferma in una recente sentenza della Commissione tributaria Regionale della Lombardia15. Il contribuente di fronte alla pretesa dell’Amministrazione finanziaria di applicare l’imposta di registro proporzionale in misura dell’1% su un contratto di locazione avente ad ogget‑ to un bene strumentale e, quindi, soggetto ad Iva, ai sensi dell’art. 10, co. 1, n. 8, del d.P.R. n. 633/1972, ha sollevato la domanda di annullamento, invocando il principio contenuto particolare, «in base a quali considerazioni e in quali situazioni il trasferi‑ mento fiscale agevolato (ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catasta‑ le), sia ovvero non sia applicabile al caso in cui il trasferimento immobiliare risulti effettuato da un soggetto privato ad una società che abbia per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata la rivendita di beni immobili, pur in presenza dell’espressa dichiarazione, nell’atto, che l’acquirente inten‑ de trasferirli entro tre anni». Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate ha rappre‑ sentato che l’articolo 1 della Tariffa, Parte I, allegata al decreto del Presiden‑ te della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, prevede che ai fini dell’imposta di registro si applica l’aliquota agevolata nella misura dell’1%. «Se il trasfe‑ rimento avente per oggetto fabbricati o porzioni di fabbricato è esente dall’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’articolo 10, primo comma, numero 8-bis), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, ed è effettuato nei confronti di imprese che hanno per oggetto esclu‑ sivo o principale dell’attività esercitata la rivendita di beni immobili, a con‑ dizione che nell’atto l’acquirente dichiari che intende trasferirli entro tre anni». Per ciò che concerne le imposte ipotecaria e catastale, l’articolo 1del‑ la Tariffa allegata al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347, prevede che, nel caso di specie, queste si applicano nella misura fissa di euro 168. In proposito, la nota II-ter dell’articolo 1 della Tariffa, Parte I, allegata al cita‑ to decreto n. 131 del 1986, stabilisce che, «Ove non si realizzi la condizione, alla quale è subordinata l’applicazione dell’aliquota dell’1% del ritrasferi‑ mento entro il triennio, le imposte di registro, ipotecaria e catastale sono dovute nella misura ordinaria e si rende applicabile una soprattassa del 30 per cento oltre agli interessi di mora di cui al comma 4 dell’articolo 55 del presente testo unico. Dalla scadenza del triennio decorre il termine per il recupero delle imposte ordinarie da parte dell’amministrazione finanziaria». Ciò premesso, l’Agenzia delle Entrate ha rilevato che la disciplina normativa in materia non prevede la tassazione in misura agevolata qualora: il trasfe‑ rimento non abbia per oggetto fabbricati o porzioni di fabbricato; il trasfe‑ rimento non sia esente dall’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’articolo 10, primo comma, numero 8-bis), del decreto del Presidente della Repubbli‑ ca n. 633 del 1972; il trasferimento non sia effettuato nei confronti di im‑ prese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata la rivendita di beni immobili”. 14Si riporta il testo di questa brevissima sentenza di particolare rilievo, Comm. trib. prov. Milano, sent. 28 febbraio 2011, n. 272, in banca dati Fisconline:“… omissis… svolgimento del processo- Trattasi, ai fini dell’imposta di registro, di un avviso di liquidazione di imposta relativo al contratto di locazione di immo‑ bili strumentali soggetto ad imposizione Iva. L’Ufficio sostiene che in caso di locazione di immobili strumentali il cui canone è soggetto ad imposizione Iva si debba anche applicare l’imposta di registro proporzionale, art. 5 numero 1 lettera a-bis della tariffa, nella misura dell’1% del canone di locazione. Il ricor‑ rente sostiene che trattasi di una violazione della direttiva europea, art. 401 Direttiva 2006/112/CE del 28.11.2006, che vieta l’introduzione di imposte che abbiano la natura di imposte sul giro di affari. -Motivi della decisione- Il ricor‑ so è fondato. La Commissione ritiene che la proporzionalità dell’imposta di registro, nella misura dell’uno per cento, sul canone di locazione di beni stru‑ mentali soggetto ad IVA sia in contrasto con la richiamata direttiva CE n. 2006/112/CE, art. 401, in quanto ha natura di imposta sul giro di affari. P.Q.M La Commissione Tributaria Provinciale di Milano accoglie il ricorso. Spese di giudizio compensate”. 15 Cfr. Comm. trib. reg. Lombardia 30 ottobre 2012, n. 138 in Fisco 2012, p.7257. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E nell’art. 401 della direttiva 2006/112/CE contenente il divieto d’introduzione di ulteriori imposizioni che siano assimilabili all’Iva. La norma richiama il principio di alternatività tra l’Iva e l’imposta di registro prevista per gli immobili strumentali, sia per la vendita (n. 8-ter) che per la locazione (n. 8), intro‑ ducendo un’ulteriore deroga al regime di esenzione general‑ mente previsto, laddove l’operazione sia rivolta nei confronti di cessionari soggetti passivi d’imposta che svolgono in via esclusiva o prevalente attività che conferiscono il diritto alla detrazione d’imposta in percentuale pari o inferiore al 25% (lett. b del n. 8-ter); ovvero nei confronti di cessionari che non agiscono nell’esercizio di impresa, arti o professioni (lett. c); con l’esclusione dell’ultima ipotesi (lett. d del n. 8-ter) ove, limitatamente alla cessione del bene strumentale, era prevista l’applicazione dell’Iva, cioè, se nel relativo atto il cedente avesse espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione. Detto contrasto è stato rilevato dai giudici di primo grado ed applicato, quale primo giudice comunitario, ai fini dell’acco‑ glimento del ricorso e l’annullamento della pretesa azionata dall’Amministrazione finanziaria. In tal senso anche la Commissione tributaria regionale della Lombardia secondo la quale l’art. 5 comma 1 lettera a) bis della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131/86, contrasta con le norme comunitarie nei casi in cui applica l’imposta di registro dell’1% alle locazioni di immobili stru‑ mentali imponibili ad Iva ai sensi dell’art. 10 comma 1 n.8 del d.P.R. n. 633/7216. L’applicazione dell’imposta di registro dell’1% oltre all’Iva, secondo i giudici di secondo grado con‑ figurerebbe un’imposta sul valore aggiunto in contrasto con il dettato dell’art. 401 della dir. n. 2006/112/CE. La commis‑ sione tributaria regionale disapplica quindi la norma contra‑ stante con il diritto europeo e non applica l’imposta di registro dell’1%. Con la sentenza della Commissione regionale si apre un interessante indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’ap‑ plicazione dell’imposta di registro proporzionale si pone in contrasto con uno dei principi sanciti dalla direttiva comuni‑ taria in materia di Iva e va quindi disapplicata. Questo recen‑ te orientamento sebbene attualmente limitato alla sola giuri‑ sprudenza di merito evidenzia l’interferenza tra le due imposte ed apre la strada ad eventuali istanze di rimborso per l’impo‑ sta di registro pagata. 16 Articolo modificato dall’art. 9 del d.l. 83/2012 conv. con mod. con la l. 134/2012. Diritto internazionale [ A cura di Francesco Romanelli ] Rassegna di diritto internazionale 113 internazionale A cura di Francesco Romanelli F O R E N S E ● Rassegna di diritto internazionale ● A cura di Francesco Romanelli Avvocato e Specialista di diritto ed economia delle Comunità europee g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 113 Diritto penale dell’Unione Indiana – Giurisdizione – Incidente di navigazione – Sparatoria – Personale militare straniero - Compe‑ tenza. In caso di incidente di navigazione e sparatoria avvenuti all’interno della Zona contigua alle acque territoriali indiane, risulta competente il Tribunale indiano atteso che a tale zona il diritto interno ha esteso l’efficacia del codice penale e del codice di procedura penale indiano. Corte Suprema dell’India, Giur. civile, ricorso civ. n. 135/2012, Istanza di rilascio n. 20370/2012, Pres. Altamas Kabir Corte Suprema dell’India, Giurisdizione civile Ricorso civile n. 135 del 20121 Repubblica Italiana e altri (ricorrenti) c/ Unione Indiana e altri (resistenti) Istanza di rilascio n. 20370 del 2012 Massimiliano Latorre e altri (ricorrenti) c/Unione Indiana e altri (resistenti) Sentenza Presidente della Corte Altamas Kabir 1. Lo scorso decennio è stato testimone di un deciso aumento degli atti di pirateria in mare aperto al largo delle coste della 1 La sentenza che si riproduce tradotta in italiano è quella emessa dalla Corte Suprema dell’Unione indiana a definizione del ricorso per carenza di giurisdi‑ zione proposto dalla Repubblica italiana e dai sottufficiali della Marina Milita‑ re Latorre e Girone. La questione può essere così riassunta: i due militari sono stati arrestati da un Tribunale dello Stato del Kerala, uno degli Stati che com‑ pongono l’Unione indiana, essendo stati accusati di aver provocato la morte di due pescatori indiani durante una sparatoria avvenuta al largo delle coste india‑ ne ed esattamente a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala. Il Tribunale si è ritenuto competente, essendo l’incidente avvenuto all’interno della Zona contigua alle acque territoriali indiane, sulla quale il diritto interno ha esteso l’efficacia del codice penale e del codice di procedura penale indiano. Il Governo italiano ha riproposto le proprie eccezioni innanzi alla Corte Suprema, affer‑ mando che l’incidente è avvenuto in acque internazionali, non potendo essere considerata la Zona contigua territorio nazionale indiano; che i militari godono dell’immunità avendo agito nell’ambito di provvedimenti emessi dalla Repub‑ blica italiana, nell’ambito della lotta internazionale alla pirateria in mare. La Corte ha preliminarmente dichiarato insussistente la giurisdizione del Tribu‑ nale dello Stato del Kerala, appartenendo essa all’Unione indiana quale sogget‑ to di diritto internazionale. Ha quindi affermato che, allo stato, vi sia una giu‑ risdizione concorrente tra i Tribunali italiani e quelli indiani, almeno fino a quando non verrà provato in dibattimento l’esistenza delle esimenti rilevate dalla difesa dei militari italiani. Ha infine disposto che il Governo centrale in‑ diano nomini un Tribunale speciale per giudicare sulla vicenda. Alcune osservazioni sono necessariamente da fare. Il ragionamento seguito dalla Corte Suprema indiana mostra in qualche punto delle debolezze e delle contraddizioni che ne evidenziano la natura politica e non strettamente giuridi‑ ca, come peraltro è naturale che avvenga al livello di giurisdizioni supreme e costituzionali. Si afferma infatti che la giurisdizione non appartenga ai giudici dello Stato del Kerala ma ciò contrasta con l’ordinamento interno indiano che non prevede un sistema giudiziario federale a parte la Corte Suprema. Tale contraddizione ha comportato la necessità per i giudici di New Delhi di chiede‑ re la costituzione di un Tribunale speciale. Ancora, si osserva che la Corte Suprema indiana, pur riconoscendo l’applicabi‑ lità al caso oggetto del suo giudizio della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare che assicura la giurisdizione allo Stato di bandiera per le colli‑ sioni e gli incidenti in mare, afferma che la sparatoria in cui trovarono la morte due pescatori indiani non può considerarsi un incidente di navigazione. Infine, in ordine alla costituzione di un Tribunale speciale, deve rilevarsi che esso viola i diritti fondamentali assicurati dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea sui diritti dell’Uomo (art. 6), le quali richiedono che il giudice sia predeterminato per legge, ma non la Convenzione universale delle Nazioni Unite, proclamata nel 1948, la quale richiede solo che il Tribunale sia indipendente ed imparziale (art. 10). La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 prevede che in caso di controversie tra Stati contraenti che non sia risolto bonariamente tra loro possa esservi un tentativo di conciliazione e, in mancanza, che la questione possa essere sottoposta all’esame o del Tribunale Internazionale sul diritto del mare o della Corte internazionale di Giustizia (art. 287). internazionale Gazzetta 114 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e Gazzetta F O R E N S E Somalia ed anche in prossimità delle isole Minicoy costituen‑ ti una parte dell’archipelago di Lakshadweep. Nello sforzo di contrastare la pirateria e di assicurare la libertà di navigazio‑ ne del naviglio mercantile e per la protezione delle navi bat‑ tenti bandiera italiana in navigazione in acque internazionali, la Repubblica italiana approvò il decreto legge 107/2011, convertito in legge dal Parlamento con il n. 130/11 del 2 ago‑ sto di quell’anno per proteggere le navi italiane dalla pirateria in acque internazionali. L’art. 5 di tale normativa autorizza il dispiegamento di contingenti della Marina Militare italiana sul naviglio battente bandiera italiana per contrastare la cre‑ scente minaccia della pirateria sui mari. In applicazione di tale normativa, un protocollo di intesa fu sottoscritto in data 11.10.2011 tra il Ministero della Difesa – Marina e la Confe‑ derazione Italiana degli Armatori (Confitarma). In applica‑ zione di tale protocollo i ricorrenti nn. 2 e 3, che sono anche i ricorrenti nn. 1 e 2 nell’istanza di rilascio, furono dispiegati insieme ad altri quattro, come “Team Latorre”, a bordo del M/V Enrica Lexie il 6.2.2012, per proteggere la nave e quin‑ di imbarcati l’11.2.2012 da Galle in Sri Lanka. L’ordine di dispiegamento fu inviato dallo Stato Maggiore della Marina ai competenti Addetti militari a New Delhi, India, e Muscat, Oman. Un cambiamento nei piani di sbarco, poiché il porto programmato di sbarco fu spostato da Muscat a Gibuti, fu inoltre comunicato ai competenti Addetti militari. 2. Mentre la nave soprannominata, con il distaccamento militare di protezione a bordo, faceva rotta verso Gibuti il 15.2.2012, incrociò il battello da pesca indiano St. Anthony, che si dichiara essere stato scambiato per un’imbarcazione pirata, ad una distanza di circa 20,5 miglia nautiche al largo delle coste dello Stato del Kerala. A seguito del fuoco prove‑ niente dalla nave italiana, due persone sul battello da pesca due persone furono uccise. Dopo detto incidente, la nave italiana proseguì la sua rotta prevista verso Gibuti. Quando la nave aveva percorso circa 38 miglia nautiche in acque in‑ ternazionali verso Gibuti, ricevé un messaggio telefonico, così come una e.mail, dal Centro di Coordinamento di Salva‑ taggio Marittimo di Mumbai, con la richiesta di ritorno al Porto di Cochin per fornire assistenza all’inchiesta sull’inci‑ dente. Rispondendo al messaggio, la M/V Enrica Lexie mo‑ dificò la propria rotta e attraccò al Porto di Cochin il 16 febbraio 2012. Sul molo, il comandante della nave fu infor‑ mato che il FIR (First Information Report)2 n. 2 era stato depositato presso il Circle Inspector di Neendakara, provin‑ cia di Kollam, Stato del Kerala, ai sensi del combinato dispo‑ sto degli art. 302 e 34 del Codice penale indiano in relazione alla sparatoria che aveva portato alla morte di due pescatori indiani. Il 19.2.12, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ricorrenti nn. 2 e 3 nel ricorso principale, furono arrestate dal Circle Inspector of Police, Stazione di Polizia Costiera di Neendakara, provincia di Kollam, e sono in stato di custodia giudiziaria da allora. 3. Il 20.2.12, i ricorrenti nn. 2 e 3 furono condotti dinan‑ zi al Chief Judicial Magistrate dal Circle Inspector che chiese di trattenere gli accusati in custodia giudiziale. 4. I ricorrenti depositarono quindi il ricorso n. 4542 del 2012 dinanzi alla Kerala High Court, ai sensi dell’art. 226 della Costituzione, impugnando la giurisdizione dello Stato del Kerala e del Circle Inspector of Police a registrare il FIR e condurre l’investigazione e quindi di arrestare i ricorrenti e di condurli dinanzi al Magistrato. I ricorrenti fecero istanza di annullamento del FIR n. 2/2012 nel fascicolo del Circle Ispector of Police di Neendakara, provincia di Kollam, poi‑ ché il medesimo era evidentemente privo di giurisdizione, contrario alla legge, nullo ed invalido. I ricorrenti fecero inoltre istanza perché fosse dichiarato che il loro arresto e la loro detenzione e tutte le procedure intraprese contro di loro fossero prive di giurisdizione, contrarie alla legge e quindi invalidi. Un’ulteriore istanza fu fatta per il rilascio dei ricor‑ renti nn. 2 e 3. 5. Tra il 22 ed il 26.2.2012 alcuni parenti dei defunti in‑ tervennero nel giudizio e furono considerati come intervento‑ ri resistenti nn. 4, 5 e 6. 6. Durante la pendenza del ricorso, l’Ufficiale giudiziario addetto al Tribunale di Roma, notificò al Ministro della Di‑ fesa italiano che il 24.2.2012 il procedimento n. 9463/12 era iniziato a carico dei ricorrenti nn. 2 e 3 in Italia. Fu comuni‑ cato che la condanna per il reato di omicidio ai sensi dell’art. 575 del codice penale italiano è quella della reclusione per almeno 21 anni. 7. Dopo la loro costituzione, l’Unione indiana e la sua Agenzia Investigativa depositarono una dichiarazione con‑ giunta il 28.2.2012, per conto dell’Unione indiana e la Guar‑ dia Costiera, insieme al rapporto degli ufficiali saliti a bordo. Il 5.3.12, il Console Generale depositò un ulteriore affidavit3 per conto della Repubblica Italiana depositando ulteriori documenti a supporto della tesi che gli accusati avessero agi‑ to nelle loro funzioni di servizio. Nell’affidavit, il Console Generale riaffermò che l’Italia avesse giurisdizione esclusiva sui ricorrenti ed invocò l’immunità sovrana e funzionale. 8. La Kerala High Court ascoltò la questione e autorizzò i ricorrenti a depositare ulteriori memorie scritte, le quali furono regolarmente depositate il 2.4.2012, e quindi la High Court riservò la sua decisione. Comunque, nel frattempo, poiché la decisione sul ricorso non procedeva, i ricorrenti depositarono un nuovo ricorso ai sensi dell’art. 32 della Co‑ stituzione indiana il 19.4.2012, fra l’altro, per sentir così provvedere: i) dichiarare che ogni azione di tutti i resistenti in relazione all’incidente de quo, ai sensi del codice di procedu‑ ra penale o di ogni altra legge indiana, siano illegali e ultra vires e violativi degli artt. 14 e 21 della Costituzione indiana e, ii) dichiarare che la detenzione continuata dei ricorrenti nn. 2 e 3 dallo Stato del Kerala è illegale ed ultra vires essendo violativa dei principi di immunità sovrana e anche violativa degli artt. 14 e 21 della Costituzione indiana e, iii) emettere mandato e/o ogni altro possibile decreto, ordine o istruzione ai sensi dell’art. 32 nel senso che l’Unione Indiana adotti tutte le misure che possano essere necessarie per assicurare la custodia dei ricorrenti nn. 2 e 3 e trasmettere la loro custodia al ricorrente n. 1 (il Governo Italiano). 9. Durante la pendenza di tale ricorso dinanzi a questa Corte, la Polizia di Stato del Kerala depositò l’atto di accusa 2Primo rapporto informativo – equiparabile alla denuncia delle forze di polizia in Italia 3 Dichiarazione giurata Gazzetta F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o contro i ricorrenti nn. 2 e 3 il 18.5.2012 ai sensi degli artt. 302, 307 e 427, nonché dell’art. 34 del codice penale indiano e dell’art. 3 della legge per la soppressione delle attività illeci‑ te contro la sicurezza della navigazione marittima e degli impianti sulla piattaforma continentale del SUA Act 2002. Il 29.5.12, il dotto giudice monocratico della Kerala High Court rigettò il ricorso n. 4542/12 per due motivi. Il dotto giudice monocratico ha ritenuto che, ai sensi della notificazione n. SO 67/E del 27.8.1981, l’applicabilità dell’intero codice penale indiano sia stata estesa alla Zona Economica Esclusiva e che la giurisdizione territoriale dello Stato del Kerala non fosse limitata alle sole 12 miglia nautiche. Il dotto giudice mono‑ cratico ha ritenuto inoltre che, ai sensi del SUA Act, lo Stato del Kerala ha giurisdizione fino a 200 miglia nautiche dalle coste indiane, ricadenti nella Zona Economica Esclusiva dell’India. 10. Dolendosi di tale decisione della Kerala High Court, i ricorrenti depositarono l’istanza di rilascio n. 20370/12, impugnando il provvedimento di rigetto del ricorso dinanzi alla Kerala High Court. 11. Come sarà evidente da quanto è stato narrato sopra, le questioni e le istanze proposte dal ricorso dinanzi alla Ke‑ rala High Court n. 4542/12, l’istanza di rilascio n. 20370/12 sono le medesime di quelle sollevate nel ricorso n. 135/12. 2 0 1 3 115 ni di detto codice nonché del codice di procedura penale, siano state estese anche alla Zona Contigua con l’ulteriore conseguenza che la Polizia del Kerala sia stata investita della giurisdizione per investigare sull’incidente ai sensi di dette disposizioni, non sono condivisibili5. Lo Stato del Kerala non ha giurisdizione sulla Zona Contigua ed anche se le disposi‑ zioni del codice penale indiano fossero estese alla Zona Con‑ tigua, ciò non investirebbe lo Stato del Kerala dei poteri di investigazione e, quindi, di persecuzione del reato. Cosa, in effetti, è il risultato di detta estensione è che l’Unione indiana estende l’applicazione del codice penale indiano e del codice di procedura penale alla Zona Contigua, che autorizza l’Unio‑ ne indiana a prendere cognizione, investigare e perseguire le persone che commettono qualunque infrazione alle leggi do‑ mestiche all’interno della Zona Contigua. In ogni caso, di tale potere non è investito lo Stato del Kerala. 85. Le difese formulate nell’interesse dell’Unione indiana, così come dello Stato del Kerala, che poiché il battello da pesca, il St. Antony, è salpato per la sua spedizione di pesca da Neendakara nella Provincia di Kollam e qui ha fatto ritor‑ no dopo l’incidente di fuoco, lo Stato di Kerala avesse titolo per investigare sull’incidente, è parimenti insostenibile, poiché la causa dell’azione per la registrazione del FIR accadde fuori della giurisdizione della Polizia del Kerala, ai sensi dell’art. 154 del codice di procedura penale6. Il FIR avrebbe potuto 82. Due questioni, entrambe relative alla giurisdizione, sono decisive per questo caso. Mentre la prima questione ri‑ guarda la giurisdizione della Polizia di Stato del Kerala nell’in‑ vestigazione sull’incidente di fuoco sui due pescatori indiani a bordo del loro battello di pesca, la seconda questione, di importanza maggiore, nell’ambito del diritto internazionale pubblico, riguarda la questione se i Tribunali della Repubbli‑ ca Italiana ovvero i Tribunali indiani abbiano la giurisdizione per perseguire gli accusati. 83. Proponiamo di esaminare la giurisdizione della Polizia di Stato del Kerala di investigare la materia prima di affron‑ tare la seconda e più importante questione, la cui decisione dipende da numerosi fattori. Uno di tali fattori è la localizza‑ zione dell’incidente. 84. E’ pacifico che l’incidente avvenne ad una distanza di circa 20,5 miglia nautiche dalla costa dello Stato del Kerala, membro dell’Unione indiana. L’incidente, quindi, avvenne non nelle acque territoriali prospicienti lo Stato del Kerala, ma all’interno della Zona Contigua, sulla quale la Polizia di Sta‑ to dello Stato del Kerala non ha ordinariamente giurisdizione. Le difese svolte per conto dell’Unione indiana e dello Stato del Kerala secondo cui con l’estensione dell’art. 188 A del codice penale indiano alla Zona Economica Esclusiva4, le disposizio‑ 4 Le Zone Economiche Esclusive sono così definite dall’art. 55 della Convenzio‑ ne delle Nazioni Unite sulla Legge del Mare (UNCLOS 1982): Article 55 Spe‑ cific legal regime of the exclusive economic zone The exclusive economic zone is an area beyond and adjacent to the territorial sea, subject to the specific legal regime established in this Part, under which the rights and jurisdiction of the coastal State and the rights and freedoms of other States are governed by the relevant provisions of this Convention. Article 56 Rights, jurisdiction and duties of the coastal State in the exclusive economic zone 1. In the exclusive eco‑ nomic zone, the coastal State has: (a) sovereign rights for the purpose of explor‑ ing and exploiting, conserving and managing the natural resources, whether living or non-living, of the waters superjacent to the seabed and of the seabed and its subsoil, and with regard to other activities for the economic exploitation and exploration of the zone, such as the production of energy from the water, currents and winds; (b) jurisdiction as provided for in the relevant provisions of this Convention with regard to: (i) the establishment and use of artificial islands, installations and structures; (ii) marine scientific research; (iii) the protection and preservation of the marine environment; (c) other rights and duties provided for in this Conven‑ tion. 2. In exercising its rights and performing its duties under this Convention in the exclusive economic zone, the coastal State shall have due regard to the rights and duties of other States and shall act in a manner compatible with the provisions of this Convention. 3. The rights set out in this article with respect to the seabed and subsoil shall be exercised in accordance with Part VI. 5 L’art. 73 UNCLOS 1982 delimitano chiaramente i poteri degli Stati costieri: Article 73 Enforcement of laws and regulations of the coastal State 1. The coastal State may, in the exercise of its sovereign rights to explore, exploit, conserve and manage the living resources in the exclusive economic zone, take such measures, including boarding, inspection, arrest and judicial proceedings, as may be necessary to ensure compliance with the laws and regulations ad‑ opted by it in conformity with this Convention. 2. Arrested vessels and their crews shall be promptly released upon the posting of reasonable bond or other security. 3. Coastal State penalties for violations of fisheries laws and regulations in the exclusive economic zone may not include imprisonment, in the absence of agreements to the contrary by the States concerned, or any other form of corporal punishment. 4. In cases of arrest or detention of foreign vessels the coastal State shall promptly notify the flag State, through appropriate channels, of the action taken and of any penalties subsequently imposed. 6 Codice di procedura penale indiano 1973, art. 154. Information in cognizable cases. (1) Every information relating to the commission of a cognizable offence, if given orally to an officer in charge of a police station, shall be reduced to writing by him or under his direction, and be read over to the informant; and every such information, whether given in writing or reduced to writing as aforesaid, shall be signed by the person giving it, and the substance thereof shall be entered in a book to be kept by such officer in such form as the State Govern‑ ment may prescribe in this behalf. (2) A copy of the information as recorded under sub-section (1) shall be given forthwith, free of cost, to the informant. (3) Any person, aggrieved by a refusal on the part of an officer in charge of a police station to record the information referred to in sub-section (1) may send the substance of such information, in writing and by post, to the Superintendent of Police concerned who, if satisfied that such information discloses the com‑ mission of a cognizable offence, shall either investigate the case himself or direct an investigation to be made by any police officer Subordinate to him, in the manner provided by this Code, and such officer shall have all the powers of an officer in charge of the police station in relation to that offence. internazionale ... omissis... 116 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e essere depositato presso la Stazione di Polizia di Neendakara, ma ciò non investiva la Polizia del Kerala della giurisdizione per investigare. E’ l’Unione indiana che ha titolo per legge di iniziare l’investigazione e di portarla avanti. 86. Inoltre, in questo caso, deve tenersi in conto un altro aspetto che riguarda il diritto internazionale pubblico, poiché i due accusati nel caso sono fanti di marina appartenenti alla “Royal Italian Navy” (la Corte ha compiuto un evidente la‑ spus calami), imbarcati sulla M/V Enrica Lexie e, si afferma, in esecuzione di un atto legislativo e di un accordo intercorso tra la Repubblica italiana da un lato e la Confederazione degli Armatori italiani (Confitarma) dall’altro. Ciò porta la controversia ad un diverso livello nel quale sono coinvolti i Governi dei due Paesi. La Repubblica italiana ha infatti, sin dall’immediatezza, asserito il proprio diritto di perseguire i due fanti di marina e ha già iniziato il procedimento contro di loro in Italia ai sensi delle disposizioni penali vigenti che possono portare ad una condanna a 21 anni di reclusione se gli accusati fossero ritenuti colpevoli. In tale scenario, lo Sta‑ to del Kerala, come unità di uno Stato federale, non avrebbe alcuna autorità di perseguire gli accusati che sono al di là della giurisdizione della unità statale. Come ricordato più sopra, l’estensione dell’art. 188 A CPP indiano alla Zona Marittima Esclusiva, della quale la Zona Contigua è parte, non estende l’autorità della Polizia di Stato del Kerala oltre le acque territoriali, che è il limite della sua operatività. 87. Cosa allora rende differente questo caso da ogni altro che possa riguardare casi simili, così da meritare l’esclusione dall’applicabilità della Sezione 2 del codice penale indiano? Per l’opportunità della citazione, si riporta la Sezione 2 del codice penale indiano: “2. Punizione dei crimini commessi all’interno dell’India. Ogni persona potrà essere punita ai sensi di questo codice soltanto per ogni atto o omissione contraria alle previsioni di esso di cui si sarà reso colpevole all’interno dell’India. 88. La risposta alla questione posta è l’intervento dell’UN‑ CLOS 1982 che stabilisce la cornice legale applicabile per la lotta alla pirateria ed agli assalti armati in mare, così come per altre attività in mare. Detta convenzione che fu sottoscrit‑ ta dall’India nel 1982 e ratificata il 29 giugno 1995, ingloba il diritto marittimo ed è rafforzata da numerose susseguenti risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. 89. Prima che UNCLOS venisse in esistenza, il diritto marittimo vigente in India, è stato la Legge sulle acque terri‑ toriali, la piattaforma continentale, la zona economica esclu‑ siva e altre zone marittime del 1976, che affermava la giuri‑ sdizione del Governo Centrale sulle acque territoriali, le zone contigue e la zona economica esclusiva. 90. Oltre a ciò deve considerarsi l’art. 11 della convenzio‑ ne di Ginevra sul diritto marittimo del 1958, e l’interpretazio‑ ne dell’espressione “incidente di navigazione” usata in tale trattato, nella sua applicazione alla sparatoria cui fanno ricor‑ so i ricorrenti nn. 2 e 3 da bordo della M/V Enrica Lexie. 91. E’ altresì di qualche rilevanza nei fatti di questa causa, la risoluzione 1897 del 2009, adottata dal Consiglio di Sicu‑ rezza della Nazioni Unite del 30 novembre 2009, laddove, riconoscendo la minaccia della pirateria, particolarmente al largo delle coste della Somalia, le Nazioni Unite rinnovarono il loro appello agli Stati ed alle organizzazioni regionali che Gazzetta F O R E N S E ne avessero la capacità di farlo, di prendere parte alla lotta contro la pirateria e gli assalti armati al largo delle coste del‑ la Somalia in particolare. 92. Le norme della Legge sulle zone marittime del 1976 tengono conto delle acque territoriali, della zona contigua, della piattaforma continentale e della zona economica esclu‑ siva. La sezione 7 di tali disposizioni regola la zona economi‑ ca esclusiva indiana e prevede che la medesima sia un’area oltre ed adiacente alle acque territoriali che si estende fino a 200 miglia nautiche dal punto più vicino della costa del Ke‑ rala. E’ chiarissimo quindi che la Zona Contigua sia all’inter‑ no della Zona economica esclusiva indiana e che le leggi che governano la Zona economica esclusiva governino l’incidente che si verifichi all’interno della Zona Contigua, come defini‑ ta dalla sezione 57 della citata legge. Le previsioni dell’UN‑ CLOS sono in armonia e non in conflitto con le previsioni della legge sul diritto marittimo del 1976, a tal proposito. L’art. 33 della Convenzione riconosce e descrive la Zona Contigua di una nazione estendendola fino a 24 miglia nau‑ tiche dalla linea dalla quale l’ampiezza delle acque territoria‑ li è misurata8. Ciò è in piena armonia con le previsioni della legge del 1976. Similarmente, gli articoli 56 e 57 descrivono i diritti, la giurisdizione ed i doveri dello Stato costiero nella zona economica esclusiva e l’ampiezza della sua estensione a 20 (rectius 200) miglia nautiche dalla linea dalla quale l’am‑ piezza delle acque territoriali è misurata. Questa previsione è anche consonante con la legge del 1976. L’area di differenza tra le previsioni della legge sulle zone marittime del 1976 e la convenzione sta nell’art. 97 della convenzione che è relativa alla giurisdizione penale in materia di collisione o di ogni altro incidente di navigazione. 93. Il caso che ci occupa non riguarda alcuna collisione tra il vascello italiano ed il battello da pesca indiano. Comun‑ 7 The Territorial Waters, Continental Shelf, Exclusive Economic Zone and Other Maritime Zones Act, 1976, Section 5. Contiguous zone of India. (1) The contiguous zone of India (hereinafter referred to as the contiguous zone) is an area beyond and adjacent to the territorial waters and the limit of the contigu‑ ous zone is the line every point of which is at a distance of twenty-four nautical miles from the nearest point of the baseline referred to in sub-section (20 of section 3. (2) Notwithstanding anything contained in sub-section (1), the Cen‑ tral Government may, whenever it considers necessary so to do having regard to International Law and State practice, alter, by notification in the Official Gazette, the limit of the contiguous zone. (3) No notification shall be issued under sub-section (2) unless resolutions approving the issue of such notification are passed by both Houses of Parliament. (4) The Central Government may exercise such powers and take such measures in or in relation to the contiguous zone as it may consider necessary with respect to,- (a) The security of India, and (b) Immigration, sanitation, customs and other fiscal matters. (5) The Central Government may, by notification in the Official Gazette,- (a) Extend with such restrictions and modifications as it thinks fit, any enactment, relating to any matter referred to in clause (a) or clause (b) of sub-section (4), for the time being in force in India or any part thereof, to the contiguous zone, and (b) Make such provisions as it may consider necessary in such notification for facilitating the enforcement of such enactment. And any enactment so extended shall have effect as if the contiguous zone is a part of the territory of India. 8 Il testo dell’art. 33 così dispone: Article 33Contiguous zone 1. In a zone contiguous to its territorial sea, described as the contiguous zone, the coastal State may exercise the control necessary to: (a) prevent infringement of its customs, fiscal, immigration or sanitary laws and regulations within its territory or territorial sea; (b) punish infringement of the above laws and regulations committed within its territory or territorial sea. 2. The contiguous zone may not extend beyond 24 nautical miles from the baselines from which the breadth of the territorial sea is measured.Appare dunque evidente che lo Stato costiero possa esercitare solo i controlli per perseguire le violazioni alle norme doganali, fiscali, di immigrazione o sanitarie commesse all’inter‑ no delle proprie acque territoriali. F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o que, deve verificarsi se una sparatoria possa rientrare nella definizione di “incidente di navigazione”. Inoltre, nel caso di specie, come sostenuto dai ricorrenti, l’incidente rientrerebbe nell’art. 100 della Convenzione che dispone che tutti gli Stati coopereranno al massimo per la repressione della pirateria in alto mare o in ogni altro luogo all’esterno della giurisdizione di ogni Stato. Se l’art. 97 della convenzione si applica ai fatti di questo caso, allora, nessun procedimento penale o discipli‑ nare può aversi contro il comandante o altro personale in servizio sulla nave, tranne che dinanzi alle autorità ammini‑ strative o giudiziarie sia dello Stato di bandiera9 sia dello Stato di cui tale personale sia cittadino. L’art. 97.3 prevede in termini chiari che nessun arresto o detenzione della nave, anche come misura necessaria per le indagini, potrà essere ordinata da alcuna autorità diversa da quelle dello Stato di bandiera. In questo caso , la nave italiana, M/V Enrica Lexie batteva bandiera italiana. Deve ricordarsi che il St. Anthony non batteva una bandiera indiana quando l’incidente ebbe luogo. A mio parere, tale circostanza non è rilevante in questo momento e potrebbe esserlo se le disposizioni dell’art. 100 dell’UNCLOS 1982 fossero invocate. 94. La successiva questione che si pone è se l’incidente di fuoco possa essere definito un incidente di navigazione. Il contesto nel quale l’espressione è stata usata nell’art. 97 della Convenzione10 sembra indicare che lo stesso si riferisca ad un incidente che avvenga nel corso della navigazione, fra i quali la collisione fra due navi è il principale incidente. Un inciden‑ te di navigazione come inteso nel citato articolo, non può, a mio parere, riguardare un atto criminale in qualsiasi circo‑ stanza. Ma in quali circostanze l’incidente abbia avuto luogo potrà essere una difesa in un procedimento penale che possa aver luogo, in cui tale posizione giuridica sia accettata da entrambi i paesi che abbiano iniziato in procedimento penale contro i due fanti di marina. Anche la previsione dell’art. 100 UNCLOS11 potrà essere usata al medesimo scopo. Se gli ac‑ cusati abbiano agito sull’erroneo presupposto che il battello da pesca indiano fosse una nave pirata e ciò abbia provocato la sparatoria, ebbene questa è una questione di merito che 9 L’art. 92 UNCLOS 1982 stabilisce che la giurisdizione appartiene alla Stato sotto la cui bandiera navighi la nave: Article 92 Status of ships 1. Ships shall sail under the flag of one State only and, save in exceptional cases expressly provided for in international treaties or in this Convention, shall be subject to its exclusive jurisdiction on the high seas. A ship may not change its flag during a voyage or while in a port of call, save in the case of a real transfer of owner‑ ship or change of registry. 2. A ship which sails under the flags of two or more States, using them according to convenience, may not claim any of the nation‑ alities in question with respect to any other State, and may be assimilated to a ship without nationality. 10 L’art. 97 UNCLOS 1982 così recita: Article 97 Penal jurisdiction in matters of collision or any other incident of navigation 1. In the event of a collision or any other incident of navigation concerning a ship on the high seas, involving the penal or disciplinary responsibility of the master or of any other person in the service of the ship, no penal or disciplinary proceedings may be instituted against such person except before the judicial or administrative authorities either of the flag State or of the State of which such person is a national. 2. In disciplinary matters, the State which has issued a master’s certificate or a certificate of competence or licence shall alone be competent, after due legal process, to pronounce the withdrawal of such certificates, even if the holder is not a na‑ tional of the State which issued them. 3. No arrest or detention of the ship, even as a measure of investigation, shall be ordered by any authorities other than those of the flag State. 11 L’art. 100 UNCLOS 1982: Article 100 Duty to cooperate in the repression of piracy All States shall cooperate to the fullest possible extent in the repres‑ sion of piracy on the high seas or in any other place outside the jurisdiction of any State. 2 0 1 3 117 potrà essere stabilita durante il dibattimento. Se la difesa formulata dai ricorrenti nn. 2 e 3 fosse accolta, allora solo la previsione dell’art. 100 della Convenzione diverrebbe appli‑ cabile ai fatti di causa. 95. La decisione nel caso Lotus su cui si appoggiava il dotto procuratore generale aggiunto potrebbe essere utilizza‑ ta se le previsioni di cui all’art. 97 della Convenzione rientras‑ sero nei fatti di questo caso. Come già indicato prima, l’espres‑ sione “incidente di navigazione” nell’art. 97 non può essere estesa agli atti criminosi, quali l’uccisione di due pescatori indiani a bordo di un battello indiano da pesca, sebbene, esso non battesse bandiera indiana. Quindi, l’art. 100 della Con‑ venzione potrebbe essere applicato, se e quando la versione della difesa di timore di un attacco privato sia accolto dal giudice del dibattimento. Nel caso Lotus la questione relativa all’estensione della giurisdizione penale di uno Stato fu por‑ tato innanzi alla Corte Internazionale Permanente di Giustizia nel 1927, In tale caso, relativo alla collisione tra la nave a vapore francese “Lotus” e la nave a vapore turca “Boz-Kourt” a causa della quale quest’ultima affondò provocando la mor‑ te di otto cittadini turchi. Una volta giunta a Costantinopoli, il Governo turco iniziò un procedimento penale sia contro il comandante della nave turca sia contro l’ufficiale di guardia a bordo della Lotus. Essendo stati entrambi condannati ad una pena detentiva, il Governo francese chiese il giudizio della Corte internazionale sulla base della carenza di giuri‑ sdizione della Turchia sugli atti commessi in mare aperto da uno straniero a bordo di una nave straniera, la cui bandiera dava alla Francia la giurisdizione esclusiva sulla questione. Essendo stata la questione devoluta al giudizio della Corte Internazionale Permanente di Giustizia, fu deciso che la Tur‑ chia non avesse agito in maniera contraria al diritto interna‑ zionale poiché l’atto commesso a bordo della Lotus produsse i suoi effetti sulla Boz-Kourt battente bandiera turca. Nella nona edizione de Il Diritto internazionale di Oppenheim, nella quale è stato riportato il giudizio in questione, la que‑ stione della nazionalità delle navi in mare aperto è stata ri‑ portata al paragrafo 287, dove è stato osservato dal dotto autore che l’ordinamento giuridico delle acque internazionali è basato primariamente sulle regole del diritto internazionale che richiede che ogni nave che navighi in mare aperto possie‑ da la nazionalità e batta la bandiera di uno Stato, alla cui legge la nave e le persone a bordo di essa sono assoggettate ed in generale, titolare della giurisdizione esclusiva su di loro. Nel paragrafo 291 del citato testo, l’autore definisce il fine della giurisdizione della bandiera come il mezzo attraverso cui la giurisdizione in acque internazionali dipenda dalla bandiera marittima sotto cui il naviglio navighi, poiché nes‑ suno Stato può estendere la propria giurisdizione territoriale in acque internazionali. Naturalmente, il sopramenzionato principio trova limitazione nel diritto di inseguimento12 , che 12 L’art. 111 UNCLOS 1982 assicura il Right of hot pursuit: secondo il Diziona‑ rio dei termini militari ed associati edito dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (Dictionary of Military and Associated Terms. US Department of Defense, 2005), l’inseguimento cominciato all’interno del territorio nazionale, delle acque territoriali, delle acque di arcipelaghi o nello spazio aereo naziona‑ le può proseguire senza interruzione oltre il limite del territorio, delle acque territoriali o dello spazio aereo. Lo Hot pursuit sussiste inoltre se l’inseguimen‑ to comincia all’interno delle zone contigue od economica esclusiva o sulla piattaforma continentale dello Stato inseguitore, prosegua senza interruzione, internazionale Gazzetta 118 q u e s t i o n i è un’eccezione alla esclusività della giurisdizione dello Stato della bandiera sulle navi in acque internazionali, nei casi ri‑ conosciuti. 96. Queste considerazioni ci portano ad esaminare un diverso profilo riguardante il concetto di sovranità nazionale nell’ambito del Diritto Internazionale Pubblico. L’esercizio della sovranità somma l’esercizio di tutti i diritti che un so‑ vrano esercita sui suoi sudditi e sui suoi territori, fra i quali l’esercizio della giurisdizione penale nell’ambito del diritto penale costituisce parte essenziale. In un’area nella quale un Paese esercita la propria giurisdizione le sue leggi prevarranno su altre norme in caso di conflitto fra due (differenti giurisdi‑ zioni ndt). D’altro canto, uno Stato può avere diritti sovrani su un’area che cessano di fronte ad una sovranità non piena, come nel caso presente, dove per le previsioni sia della Legge sulle Zone marittime del 1976 sia dell’UNCLOS 1982, la Zona Economica Esclusiva è estesa fino a 200 miglia nautiche dalla linea di misurazione delle acque territoriali. Sebbene le disposizioni della sezione 188 A IPC13 siano state estese alla Zona Economica Esclusiva, le stesse sono estese alle aree in‑ dicate come “aree designate” dalla Legge che si limitano alle installazioni ed alle isole artificiali, create allo scopo di esplo‑ rare e sfruttare le risorse naturali marine e sottomarine fino al limite delle 200 miglia nautiche, area comprendente la piattaforma continentale di un paese. Comunque, la Zona Economica Esclusiva continua ad essere parte delle acque internazionali sulla quale non può essere esercitata da alcuna nazione la propria sovranità. 97. E’ mia opinione che, poiché l’India è una delle firma‑ tarie, essa sia obbligata al rispetto delle disposizioni di UN‑ CLOS 1982, ed alla sua applicazione se non vi sia conflitto con il diritto interno. In tale contesto, entrambi i Paesi posso‑ no dover sottostare alle disposizioni dell’art. 94 della Conven‑ zione che regola i doveri dello Stato di bandiera e, in partico‑ lare, del comma 7 che dispone che ogni Stato dovrà aprire un’inchiesta su ogni evento in mare o incidente di navigazio‑ ne in acque internazionali che abbia coinvolto una nave bat‑ tente la propria bandiera ed abbia provocato la perdita di vite o lesioni gravi a cittadini di un altro Stato. E’ anche pre‑ visto che lo Stato di bandiera e l’altro Stato cooperino nella condotta di ogni indagine condotta dall’altro Stato in tali eventi o incidenti di navigazione. 98. I principi enunciati nel caso LOTUS (supra) sono sta‑ ti in qualche modo resi meno cogenti dall’art. 97 di UNCLOS 1982. Inoltre, come osservato nel volume International Law di Starke, al quale si è riferito Mr. Salve14, la giurisdizione territoriale penale si fonda su vari principi i quali stabiliscono e sia stato intrapreso sulla base della violazione dei diritti per la cui protezione la zona sia stata delimitate. Il diritto di inseguimento cessa non appena la nave o la forza ostile inseguita entra nel territorio, nelle acque territoriali del proprio Stato o di uno Stato terzo. Il diritto di inseguimento come definito, non implica di per sé l’uso della forza. 13 Codice indiano di procedura penale, art. 188: Offence committed outside India. When an offence is committed outside India- (a) By a citizen of India, whether on the high seas or elsewhere; or (b) By a person, not being such citizen, on any ship or aircraft registered in India. He may be dealt with in respect of such offence as if it had been committed at any place within India at which he may be found. Provided that, notwithstanding anything in any of the preceding sections of this Chapter, no such offence shall be inquired into or tried in India except with the previous sanction of the Central Government. 14 Difensore dei ricorrenti italiani Gazzetta F O R E N S E che, per questioni di opportunità, i reati devono essere perse‑ guiti dagli Stati il cui ordine sociale sia stato più da vicino colpito. Comunque, è stato anche osservato che alcune navi di Stato e le forze armate di Stati stranieri possono godere di un grado di immunità dalla giurisdizione territoriale di una nazione. 99. Ciò mi porta alla questione della applicabilità delle disposizioni del Codice penale indiano al caso in esame, alla luce delle sezioni 2 e 4 di esso. Naturalmente, l’applicabilità della sezione 4 non è più in discussione in questo caso sulla base della concessione formulata per conto dello Stato del Kerala nel procedimenti sommari innanzi alla Kerala High Court. Comunque, la sezione 2 del Codice penale indiano come sopra citata dispone altrimenti. Senza dubbio, l’inciden‑ te ebbe luogo all’interno della Zona Contigua sulla quale, sia per le disposizioni della Legge sulle Zone Marittime del 1976 e per UNCLOS 1982, l’India ha titolo per esercitare i propri diritti di sovranità. Comunque, come deciso da questa Corte nel caso Aban Loyd Chiles Offshore Ltd15, citato da Mr.Salve, il comma 4 della sezione 7 dispone che l’Unione Indiana abbia solo diritti sovrani limitati all’esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse naturali, sia viventi che non viventi così come per la produzione di energia dalle maree, venti e correnti, che non possono essere equiparati con i dirit‑ ti di sovranità sulle dette aree nella Zona Economica Esclusi‑ va. Esso assicura, inoltre, all’Unione Indiana l’esercizio di altri diritti ancillari che soltanto vestono l’Unione Indiana di diritti sovrani ma non diritti di sovranità sulla Zona Econo‑ mica Esclusiva. Detta posizione è rinforzata dalle sezioni 6 e 7 della Legge sulle Zone marittime del 1976, che dispone che la sovranità dell’India si estende alle sue acque territoriali mentre la posizione è differente rispetto alla Zona Economica Esclusiva. Non posso accettare la difesa di Mr. Banerji16 che al contrario afferma che l’effetto dell’art. 59 della Convenzio‑ ne permette agli Stati di rivendicare la propria giurisdizione oltre le aree specificamente indicate dalla Convenzione. 100. Ciò, quindi, che si comprende dalla precedente di‑ scussione è che mentre l’India è titolata sia per il diritto inter‑ no che per il diritto internazionale pubblico ad esercitare la propria sovranità fino a 24 miglia nautiche dalla linea di costa sulla quale è calcolata l’estensione delle acque territo‑ riali, essa può esercitare diritti sovrani all’interno della Zona Economica Esclusiva solo entro certi fini. Essendosi verifica‑ to l’incidente di fuoco dalla nave italiana sul battello indiano all’interno della Zona Economica Esclusiva, l’Unione indiana ha titolo per perseguire i due fanti di marina italiani ai sensi del sistema giudiziario penale prevalente nel Paese. Comun‑ que, lo stesso è soggetto alle disposizioni dell’art. 100 UN‑ CLOS 1982. Concordo con Mr. Salve che la “Dichiarazione sui Principi di Diritto Internazionale relativi alle relazioni familiari e alla cooperazione fra gli Stati in accordo con la Carta delle Nazioni Unite” sia solo a livello del Governo centrale o federale e non possa essere oggetto di un procedi‑ mento iniziato da un governo provinciale o statale. 15 Aban Loyd Chiles Offshore Limited vs. Union of India & Anr. [(2008) 11 SCC 439] 16 Additional Solicitor General: Procuratore generale aggiunto, che compare, ovviamente, per l’Unione indiana Gazzetta F O R E N S E g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 119 17 Article 27 Criminal jurisdiction on board a foreign ship 1. The criminal juris‑ diction of the coastal State should not be exercised on board a foreign ship passing through the territorial sea to arrest any person or to conduct any inves‑ tigation in connection with any crime committed on board the ship during its passage, save only in the following cases: (a) if the consequences of the crime extend to the coastal State; (b) if the crime is of a kind to disturb the peace of the country or the good order of the territorial sea; (c) if the assistance of the local authorities has been requested by the master of the ship or by a diplo‑ matic agent or consular officer of the flag State; or (d) if such measures are necessary for the suppression of illicit traffic in narcotic drugs or psychotropic substances. 2. The above provisions do not affect the right of the coastal State to take any steps authorized by its laws for the purpose of an arrest or investi‑ gation on board a foreign ship passing through the territorial sea after leaving internal waters. 3. In the cases provided for in paragraphs 1 and 2, the coastal State shall, if the master so requests, notify a diplomatic agent or consular of‑ ficer of the flag State before taking any steps, and shall facilitate contact between such agent or officer and the ship’s crew. In cases of emergency this notification may be communicated while the measures are being taken. 4. In considering whether or in what manner an arrest should be made, the local authorities shall have due regard to the interests of navigation. 5. Except as provided in Part XII or with respect to violations of laws and regulations adopted in accordance with Part V, the coastal State may not take any steps on board a foreign ship passing through the territorial sea to arrest any person or to conduct any inves‑ tigation in connection with any crime committed before the ship entered the territorial sea, if the ship, proceeding from a foreign port, is only passing through the territorial sea without entering internal waters. internazionale 101. Mentre, quindi, ritenendo che lo Stato del Kerala non abbia giurisdizione per investigare sull’incidente, sono anche del parere che fino al momento che sarà provato che le dispo‑ sizioni dell’art. 100 dell’UNCLOS 1982 si applichino alla fattispecie in esame, è l’Unione Indiana che ha giurisdizione a procedere con l’investigazione ed il processo dei ricorrenti nn. 2 e 3. L’Unione indiana è quindi autorizzata, previa con‑ sultazione con il Presidente della Corte Suprema dell’India, a costituire una Corte speciale per processare questo caso e per disporre sullo stesso secondo la Legge sulle Zone marittime del 1976, il codice penale indiano, il codice di procedura penale e, soprattutto, UNCLOS 1982, laddove non ci sia conflitto tra il diritto interno e UNCLOS 1982. Il procedi‑ mento pendente innanzi al Chief Judicial Magistrate di Kol‑ lam, sarà riassunto presso la Corte speciale da costituirsi nei termini di questa sentenza e ci si aspetta che ciò avvenga sollecitamente. Ciò non impedirà ai ricorrenti di invocare le disposizioni di cui all’art. 100 UNCLOS 1982, fornendo prove in supporto di ciò, laddove la questione della giurisdi‑ zione dell’Unione indiana di investigare l’incidente e per i Tribunali in India di perseguire gli accusati possa essere ri‑ considerata. Se si trovasse che sia la Repubblica italiana che la Repubblica indiana avessero giurisdizione concorrente sulla questione, allora le istruzioni qui date continuerebbero ad essere efficaci. 102. Deve essere chiaro che le osservazioni formulate in questa sentenza si riferiscono solo alla questione della giurisdi‑ zione prima della produzione di prove e una volta che le prove siano state prodotte, ciò aprirà ai ricorrenti la possibilità di risollevare la questione della giurisdizione innanzi al giudice del dibattimento che avrà la libertà di riconsiderare la questio‑ ne alla luce delle prove che potranno essere prodotte dalle parti e secondo diritto. Deve essere anche chiaro che niente nella presente pronuncia debba essere utilizzato come prece‑ dente in detto riesame, se tale richiesta fosse formulata17. Questioni [ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ] Se la sospensione condizionale della pena sia estensibile alle pene accessorie, e se la decorrenza degli effetti delle pene accessorie sia riferibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza comminativa delle pene accessorie, o, a quello successivo, della loro concreta esecuzione, con particolare riguardo all’ipotesi della “sospensione-perdita del diritto elettorale”. / Myriam Di Domenico Il sub ingresso nella titolarità della concessione demaniale marittima attribuisce la qualità di nuovo cessionario o di concessionario ab origine? / Anna Laura Magliulo e Mary Musto 123 125 127 questioni Nel caso in cui un’Amministrazione dello Stato sia parte nel processo esecutivo a chi e in che modo vanno notificati il titolo esecutivo, il precetto e l’atto di pignoramento presso terzi? / Marianna Falco F O R E N S E ● DIRITTO CIVILE La notifica del titolo esecutivo, del precetto e dell’atto di pignoramento nei confronti di un’Amministrazione dello Stato Nel caso in cui un’Amministrazione dello Stato sia parte nel processo esecutivo a chi e in che modo vanno notificati il titolo esecutivo, il precetto e l’atto di pignoramento presso terzi? ● Marianna Falco Dottoressa in Giurisprudenza Per affrontare la problematica che qui ci occupa, giova richiamare in linee generali la nozione e i presupposti della fase dell’esecuzione. Com’è noto, il processo di esecuzio‑ ne è finalizzato alla emissione di misure esecutive dirette a soddisfare la pretesa del creditore. Accade sovente, infatti, che il titola‑ re di un diritto di credito, sebbene in possesso di una sentenza favorevole, ottenuta a seguito di un ordinario pro‑ cesso di cognizione, non veda soddisfat‑ to il suo diritto se il debitore non vi dia spontanea esecuzione. In tali casi, il creditore, per ottenere la soddisfazione del suo diritto, sebbene coattivamente, deve esperire l’azione esecutiva. Mediante il processo esecutivo, il creditore può realizzare il suo credito procedendo ad esecuzione forzata sui beni del debitore. Difatti, come previsto dall’art. 2740 c.c. “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni assunte con tutti i suoi beni, presenti e futuri”. Una peculiare caratteristica del pro‑ cesso di esecuzione è rappresentata dalla presenza di alcuni atti che, pur potendosi sempre qualificare come atti esecutivi, devono, tuttavia, essere com‑ piuti prima dell’inizio del processo stesso in quanto atti preliminari o pre‑ paratori. g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 Tali atti, con maggior impegno esplicativo, hanno la funzione di prean‑ nunciare al debitore il proposito del creditore di procedere ad esecuzione forzata, consentendogli in tal modo da un lato, di adempiere la propria obbli‑ gazione, evitando l’esecuzione e le rela‑ tive spese, dall’altro, la possibilità di conoscere gli elementi dell’esecuzione preannunciata e di contestarne, even‑ tualmente, la legittimità. Questi atti preliminari sono previsti dall’art. 479 c.p.c., il quale al 1° comma sancisce “se la legge non dispone altri‑ menti, l’esecuzione forzata deve essere preceduta dalla notificazione del titolo in forma esecutiva e del precetto”. I successivi due commi del medesi‑ mo articolo stabiliscono che la notifica di tali atti deve essere fatta alla parte personalmente. Quando parte, invece, è una Ammi‑ nistrazione dello Stato, in linea genera‑ le, l’art. 144 c.p.c, nel richiamare le di‑ sposizioni di leggi speciali, prescrive che la notificazione debba essere effettuata presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato; il secondo comma dello stesso articolo, stabilisce che “fuori dei casi previsti nel comma precedente, le noti‑ ficazioni si fanno direttamente presso l’amministrazione destinataria, a chi li rappresenta nel luogo in cui risiede il giudice innanzi al quale si procede ”. Orbene, occorre capire nello speci‑ fico, in un processo di esecuzione, a chi notificare titolo esecutivo e precetto quando parte sia una Amministrazione dello Stato; aliis verbis, occorre com‑ prendere se la notifica debba pervenire presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato o piuttosto presso la stessa Am‑ ministrazione statale. Il capo III del r.d. n. 1611 del 1933 all’art. 11 stabilisce “tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi altro atto di oppo‑ sizione giudiziale, nonché le opposizio‑ ni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali, od innanzi agli arbitri, devono essere notificati alle Amministrazioni dello Stato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’Autorità giudiziaria innanzi alla qua‑ le è portata la causa, nella persona del Ministro competente”. Come chiaramente si evince dal sopra citato art. 11 T.U., la notifica presso l’Avvocatura, riguarda gli atti 123 introduttivi di giudizi ed i successivi atti del processo. In ambo i casi, quindi, trattasi di atti che vedono lo Stato come parte del giudizio. Ne consegue che gli atti che pur es‑ sendo collegati ad un processo, non han‑ no quella natura, vanno notificati diret‑ tamente presso le Amministrazioni. Si può quindi ritenere che ciò valga anzitutto per gli atti esterni al processo anche se ad esso finalizzati, quali ap‑ punto il titolo esecutivo ed il precetto in quanto atti preparatori del processo esecutivo, ma non atti del processo esecutivo. Più nel particolare, la notifica della sentenza quale titolo esecutivo al fine di avviare l’esecuzione forzata va effettua‑ ta nei confronti dell’Amministrazione debitrice, come peraltro si desume, oltre che dai principi generali, dall’art. 14, 1° comma, del d.l. 31/12/96, n. 669, con‑ vertito in l. 28/02/97 n. 30. Si può ritenere che la notifica presso l’Avvocatura ha un senso piuttosto per il decorso del termine breve per l’impu‑ gnazione, mentre invece, la sentenza in quanto titolo esecutivo parificato anche a titoli esecutivi non giudiziali e notifi‑ cata quale atto prodromico all’esecuzio‑ ne, vede più ragionevolmente come di‑ retto destinatario l’Ufficio debitore, e ciò tanto più quando si tratti di senten‑ za passata in giudicato. Alla stessa conclusione è pervenuto, tra gli altri, il Tribunale di Napoli Se‑ zione V bis con sentenza emessa in data 22/12/2012, nella quale si legge che la notificazione del titolo esecutivo, pro‑ pedeutica all’esecuzione forzata, deve essere effettuata direttamente presso l’Amministrazione destinataria, giusto il combinato disposto degli art. 479, 2° comma, e 144 2° comma del codice di rito, argomentando che “la notifica di tale atto non dà immediatamente luogo ad un processo nel quale l’Amministra‑ zione possa o debba costituirsi a mezzo dell’Avvocatura”(ex multis, Cass. 05/01/2000 n. 53 e Cass. 06/03/2000, n. 2501). Quanto alla notifica dell’atto di precetto, la conclusione per la quale, trattandosi di atto meramente prepara‑ torio, non giudiziale del processo esecu‑ tivo, di natura stragiudiziale va notifi‑ cato all’Amministrazione e non all’Av‑ vocatura dello Stato, ha ricevuto l’aval‑ lo della Suprema Corte, la quale con sentenza n. 19512 del 19/12/2003 ha questioni Gazzetta 124 affermato il principio per cui il creditore dell’amministrazione pubblica, fornito di titolo esecutivo, ha l’onere di notifica‑ re il precetto, atto di natura non proces‑ suale, direttamente all’ufficio ammini‑ strativo debitore, ai sensi degli art. 480, ultimo comma, e 144 c.p.c., e non pres‑ so l’Avvocatura dello Stato, ex art. 11 r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611, norma inapplicabile in quanto attinente esclu‑ sivamente agli atti giudiziali (nè l’invali‑ dità della notificazione può ritenersi sanabile ex art. 156 c.p.c., concernente soltanto gli atti del processo). Ne conse‑ gue che il precetto notificato presso l’Avvocatura dello Stato, cioè a soggetto diverso dal suo destinatario, deve rite‑ nersi del tutto inefficace - in quanto non conoscibile da quest’ultimo - e, quindi, inidoneo anche al fine dell’interruzione della prescrizione ex art. 2943 c.c. Tornando alla normativa generale in materia di esecuzione, gli art. 481 e 482 del c.p.c., stabiliscono che non prima di dieci giorni e non oltre novan‑ ta giorni dalla notificazione del precet‑ to, deve essere effettuato il pignoramen‑ to, con il quale si dà inizio all’espropria‑ zione forzata (art. 491 c.p.c). Il pignoramento, com’è noto, può avere ad oggetto beni determinati o appartenenti a terzi. Con riferimento a quest’ultimo tipo, l’art. 543 c.p.c. stabi‑ lisce che il pignoramento si esegue me‑ diante atto notificato personalmente al terzo e al debitore. Anche in tal caso, punctum dolens è stabilire, nelle controversie che vedono lo Stato come terzo, a chi notificare l’atto di pignoramento, se presso la singola Amministrazione interessata o piuttosto presso gli uffici dell’Avvoca‑ tura dello Stato. Come spesso accade in questioni interpretative di questa portata, si ri‑ scontrano in giurisprudenza orienta‑ menti diametralmente opposti tra lo‑ ro. Invero, in un primo momento, la giurisprudenza maggioritaria era orien‑ tata a ritenere che tale atto dovesse es‑ sere notificato all’Amministrazione, fondando tale convincimento sulla cir‑ costanza che la citazione del terzo non desse luogo ad un procedimento di na‑ tura contenziosa, ritenendo il terzo mero “testimone” del giudizio, il quale avrebbe assunto la qualità di parte solo a seguito di mancata dichiarazione o di sua contestazione. q u e s t i o n i In tal senso, Cass. n. 798 del 19/02/1981 “Nel caso di pignoramento di somma depositata dal debitore pres‑ so un ufficio postale, poiché l’ammini‑ strazione in questione non assume la qualità di soggetto del processo esecu‑ tivo, non è richiesta una sua rappresen‑ tanza processuale per mezzo dell’Avvo‑ catura dello Stato e deve essere chiama‑ to a rendere la dichiarazione di cui all’art. 543 c.p.c. il dirigente dell’ufficio stesso e non il ministro delle poste pres‑ so il competente ufficio dell’Avvocatu‑ ra dello Stato. Diversamente, la rappre‑ sentanza processuale dell’Avvocatura dello Stato si rende necessaria allorché - a seguito di mancata dichiarazione o di contestazione della stessa - s’instau‑ ra “su istanza di parte” un processo di cognizione (art. 548 c.p.c.) e l’ammini‑ strazione - terzo pignorato - ne assume la qualità di parte.” (di pari contenuto, tra le altre, Cass. civ. n. 983 del 01/02/91). Attualmente il contrasto giurispru‑ denziale, che vedeva prevalere la solu‑ zione poc’anzi menzionata, appare es‑ sersi risolto capovolgendo il precedente orientamento. È opportuno riportare il principio di diritto enunciato dalla Suprema Cor‑ te nella recente sentenza n. 17349 del 2011, nella quale si legge “In tema di espropriazione presso terzi, quando esecutata sia un’Amministrazione dello Stato, l’atto di pignoramento va notifi‑ cato presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria dinnanzi alla qua‑ le è portata la causa. E’ nulla la notifi‑ ca effettuata presso gli uffici dell’Am‑ ministrazione. ” Si è quindi ritenuto che sebbene l’atto di pignoramento presso terzi non dia vita ad un giudizio di cognizione, il quale, più precisamente, si apre in caso di mancata dichiarazione o contestazio‑ ne del debito ex art. 548 c.p.c., esso vada notificato presso l’Avvocatura dello Stato (dovendosi considerare atto giudiziale). Il giudizio di cognizione che si apre ricorrendo i presupposti dell’art. 548 c.p.c, infatti, si conclude con una sentenza idonea al giudicato (in tal senso, Cass. civ. n. 25037 del 2008). Pertanto, essendo l’atto di pignora‑ mento atto idoneo, in astratto, a dare inizio ad un processo ordinario, esso va notificato con l’osservanza del disposto dell’art. 11 del r.d. n. 1611/1933. Gazzetta F O R E N S E Infine, per completezza, va precisa‑ to che la nullità di cui sopra, non riguar‑ da l’atto di pignoramento, ma solo la sua notificazione. Quest’ultima è in primo luogo rin‑ novabile previa assegnazione di un ter‑ mine da parte del giudice dell’esecuzio‑ ne, inoltre, la relativa nullità è soggetta alla sanatoria di cui agli artt. 156-160 c.p.c. F O R E N S E ● DIRITTO penale Pene accessorie e sospensione condi‑ zionale della pena Se la sospensione condizionale della pena sia estensibile alle pene accessorie, e se la decorrenza degli effetti delle pene accessorie sia riferibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza comminativa delle pene accessorie, o, a quello successivo, della loro concreta esecuzione, con particolare riguardo all’ipotesi della “sospensione-perdita del diritto elettorale”. ● Myriam Di Domenico Dottoressa in Giurisprudenza La questione in oggetto trae spunto da una recentissima sentenza della Corte d’Appello di Napoli, I Sezione civile, n. 99/2013. La sospensione condizionale della pena è un istituto giuridico disciplinato nel nostro ordinamento dagli artt. 163168 del codice penale, nell’ambito delle cause di estinzione del reato. Consiste nell’ordine dato dal giudice con la sentenza di condanna, che l’esecu‑ zione della pena inflitta, qualora la con‑ danna non superi i due anni di reclusione, resti sospesa per cinque anni (in caso di delitti) o per due anni (in caso di contrav‑ venzioni). L’effetto estintivo del reato, atto a spiegarne la collocazione normati‑ va, si verifica alla fine del periodo di so‑ spensione se non sopravvengono cause di revoca della sospensione stessa, che com‑ portano l’esecuzione della pena “sospe‑ sa”. Quanto alla sorte delle pene accesso‑ rie, l’art 166, comma 1, c.p. dispone che “la sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie”. Tuttavia ciò non vale per tutte le pene accessorie, in particolare l’art. 166 c.p. g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 non trova applicazione per la sospensio‑ ne-perdita del diritto elettorale. In realtà la bontà di tale affermazione dipende dal tipo di qualificazione attri‑ buita alla sospensione-perdita del diritto elettorale. In particolare occorre distinguere il caso in cui quest’ultima venga qualifica‑ ta come effetto extrapenale della condan‑ na, da quello in cui venga qualificata come conseguenza dell’interdizione dai pubblici uffici, e quindi pena accesso‑ ria. La non applicabilità della disciplina prevista dall’art.166 c.p., e valevole in generale per tutte le pene accessorie, ri‑ sulterà esclusa in forza di disposizioni normative differenti. L’art. 113 D.P.R. 361/67 stabilisce che “Le condanne per reati elettorali, ove venga dal Giudice applicata la pena della reclusione, producono sempre la sospensione dal diritto elettorale e l’in‑ terdizione dai pubblici uffici. Se la con‑ danna colpisce il candidato, la privazio‑ ne dal diritto elettorale e di eleggibilità è pronunziata per un tempo non minore di cinque anni e non superiore a dieci”. Pertanto, la sospensione-perdita del diritto elettorale, così come prevista dall’art 113 D.P.R 361/67, deve essere giustamente qualificata non come pena accessoria, bensì come effetto extrapena‑ le della condanna. Si può quindi affermare che il legisla‑ tore, nel contemplare quale conseguenza autonoma della condanna la sospensio‑ ne-perdita del diritto elettorale, ha inteso prevedere un effetto extrapenale della condanna che mantenesse la propria ef‑ ficacia indipendentemente dalla sorte della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Tale sospensione, quindi, continuerebbe a sussistere anche quando l’interdizione dai pubblici uffici dovesse cessare per una causa ad essa esclusiva. E’ chiara allora l’irrilevanza rispetto alla sospensione-perdita del diritto elet‑ torale dei principi afferenti le pene acces‑ sorie (Tribunale di Napoli, III sezione penale, ordinanza del 26.10.2012). Se invece consideriamo la privazione del diritto elettorale come conseguente all’interdizione dai pubblici uffici, non vi è dubbio che si tratti di una pena acces‑ soria. A questo punto, l’estensibilità della sospensione condizionale della pena alla conseguente pena accessoria, astratta‑ mente possibile ex art.166 c.p., così come 125 modificato dalla legge 7.2.1990 n. 19 che, come visto, dispone che “la sospen‑ sione condizionale della pena si estende alle pene accessorie”, risulta invece esclu‑ sa dalla deroga prevista dall’art. 2, 2° comma, D.P.R. 223/67 come sostituito dall’art.1 L. 16/92. Tale norma prevede che sono privati del diritto elettorale, tra gli altri, “i con‑ dannati a pena che importa l’interdizio‑ ne dai pubblici uffici” e “coloro che sono sottoposti all’interdizione temporanea dai pubblici uffici per tutto il tempo della sua durata” prevedendo infine che “la sospensione condizionale della pena non ha effetto ai fini della privazione del diritto di elettorato”. Si può quindi affermare che tale legge indica esplicitamente che si tratta di una disposizione che pone un’eccezione al principio generale secondo il quale la sospensione condizionale della pena si estende anche alle pene accessorie (Tri‑ bunale di Napoli VII sezione penale, provvedimento del 31.12.2010). Una volta risolta in senso positivo la questione di cui sopra, possiamo affron‑ tare la seconda delle questioni che ci siamo posti; cioè quale sia il momento da cui cominciano a decorrere gli effetti delle pene accessorie, sempre avendo ri‑ guardo, in particolare, all’ipotesi della sospensione del diritto elettorale. Ci troviamo di fronte a due possibili‑ tà. La prima, sarebbe quella di ancorare la decorrenza degli effetti delle pene ac‑ cessorie al passaggio in giudicato della sentenza comminativa delle pene stesse. La seconda, quella di far riferimento, ai fini della decorrenza degli effetti delle pene accessorie, alla loro concreta attua‑ zione. La questione ha avuto origine dalla differenza tra esecutività della sentenza, intesa come astratta possibilità di porre in essere le attività materiali che danno esecuzione alla sentenza, (che si ha nel momento del passaggio in giudicato), ed effettiva esecuzione della stessa, intesa come concreta applicazione del provve‑ dimento stesso. Rappresenta principio pacifico in giurisprudenza che gli effetti della pena accessoria della sospensione-perdita del diritto elettorale sono automatici ed im‑ mediati a decorrere dalla data del passag‑ gio in giudicato della sentenza che la commina (Corte di appello di Roma sent. n. 329/11 e Corte di appello di Napoli sent. n. 3799/11). questioni Gazzetta 126 Quanto affermato, si evince chiara‑ mente dalla lettura dell’art. 2 comma 2, del D.P.R. 223 del 1967, come sostituito dall’art. 1 della L. 16/1/1992 n. 15, per il quale “le condanne penali producono la perdita elettorale solo quando sono passate in giudicato. La sospensione condizionale della pena non ha effetto ai fini della privazione del diritto dell’elettorato” . Si può quindi ritenere che gli effetti della cessazione o della sospensione del diritto elettorale cominciano a decorrere sin dal momento del passaggio in giudi‑ cato della sentenza, a nulla rilevando altri momenti quali, ad esempio, quelli concernenti attività di competenza del P.M. E’ vero, infatti, secondo il dettato dell’art. 662 comma 1, c.p.p., che il Pub‑ blico Ministero, ai fini dell’esecuzione delle pene accessorie, deve trasmettere l’estratto della sentenza di condanna agli organi competenti a provvedere agli adempimenti esecutivi conseguenti, indi‑ cando le pene accessorie che devono es‑ sere eseguite, ma è altrettanto vero che l’inottemperanza di questa attività da parte del P.M., non impedisce agli orga‑ ni competenti di provvedere agli adem‑ pimenti esecutivi delle pene accessorie loro spettanti. Applicando ciò alla sospensioneperdita del diritto elettorale, viene da sè che se il P.M è tenuto a trasmettere l’estratto della sentenza comminativa di detta pena accessoria alla commissione elettorale circondariale nel cui ambito territoriale rientra il Comune nell’ana‑ grafe della cui popolazione il condanna‑ to è iscritto, è altrettanto vero che in mancanza di tale adempimento del P.M., la commissione elettorale circondariale “può”e “deve”cancellare dalle liste elet‑ torali il soggetto a cui è stata applicata tale pena accessoria. Ciò è confermato dallo stesso art. 662 comma 1, c.p.p. laddove dispone che ai fini dell’esecuzione delle pene accesso‑ rie il P.M. deve trasmettere l’estratto della sentenza di condanna “indicando” le pene accessorie che devono essere ese‑ guite, non già “ordinarne” l’esecuzione. Ciò induce a ritenere che gli adempi‑ menti ex art. 662 c.p.p., sono sì doverosi per il P.M., ma non necessari ai fini dell’esecuzione delle pene accessorie co‑ me la sospensione del diritto elettorale. Pertanto, tale pena accessoria non solo diventa esecutiva e quindi può esse‑ q u e s t i o n i re eseguita, ma comincia ad essere ese‑ guita il giorno stesso a partire dal quale la sentenza che l’ha inflitta è divenuta irrevocabile. In tal senso si è recentemente espres‑ sa la suindicata sentenza della Corte d’Appello di Napoli, I Sezione civile n. 99/2013. Tutto ciò risulta già in precedenza affermato dalla Corte di cassazione con ordinanza della seconda sezione penale 7 febbraio/24 giugno 1966 n. 391. Si tratta di un lontano ma ancora attuale precedente riguardante la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici ma pacificamente estensibile a quella della sospensione del diritto elet‑ torale. Seconda la massima ufficiale (in CED Cass., arch. penale, rv.101877): “la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici si attua per effetto del giudicato, e quindi con decorrenza dal giorno in cui la sentenza di condanna diviene irrevocabile, un’attività propria‑ mente esecutiva della relativa pronuncia non è concepibile, perché nessun atto ulteriore potrebbe togliere o comunque modificare quella capacità che il con‑ dannato ha già perduto per effetto della sentenza. Per conseguenza, la sospensio‑ ne dell’esecuzione delle pene accessorie, disposta dal giudice dell’esecuzione in sede di incidente, deve considerarsi nul‑ la siccome abnorme, e di un simile provvedimento non può tenersi conto nel computare la durata della pena ac‑ cessoria, dovendosi in tale computo comprendere anche il periodo durante il quale l’esecuzione è stata in apparenza sospesa”. Tuttavia, non si possono non men‑ zionare avvisi contrari. Nel suindicato provvedimento del Tribunale di Napoli, Terza sezione pena‑ le, del 26.10.2012, si giunge alla conclu‑ sione opposta, sempre partendo dal det‑ tato dell’art. 662 c.p.p. Il principio che se ne desume è il seguente: “Occorre distin‑ guere tra esecutività della sanzione, la quale si ha nel momento del passaggio in giudicato della sentenza, ed effettiva esecuzione della stessa, soltanto a far data dalla quale può essere computato il termine di durata della sanzione acces‑ soria […] D’altra parte, appare del tutto ragionevole ritenere che intanto possa dirsi in esecuzione la sanzione accessoria in quanto la sentenza (irrevocabile) ven‑ ga portata a conoscenza delle autorità e degli organi amministrativi interessati al Gazzetta F O R E N S E fine dell’adozione dei provvedimenti consequenziali idonei a rendere effettivi gli effetti della condanna”. Si tratta, però, di una giurisprudenza fortemente minoritaria. Può osservarsi che aderire a tale ulti‑ ma posizione potrebbe costituire un pe‑ ricolo per alcuni principi di rango costi‑ tuzionale, primo tra tutti l’art. 51 comma 1 della Costituzione, il quale riconosce e garantisce ad ogni cittadino il libero accesso alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza secondo requisiti stabiliti dalla legge. A tale proposito, una consolidata giurisprudenza della Corte Costituzio‑ nale ha affermato che le norme contenen‑ ti cause di ineleggibilità, derogando al principio costituzionale della generalità del diritto di elettorato passivo, “sono di stretta interpretazione e devono comun‑ que rigorosamente contenersi entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfa‑ zione delle esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate. Per l’art. 51 della Costituzione, l’eleggibilità è la regola, l’ineleggibilità l’eccezione” (sent. n. 46/1969 e da ultimo, sentt. nn. 344/1993, 141/1996, 306/2003). Pertanto, il diritto di elettorato pas‑ sivo va inquadrato nella sfera dei diritti inviolabili sanciti dall’art. 2 della Costi‑ tuzione, con la conseguenza che “restri‑ zioni del contenuto di un diritto invio‑ labile sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interes‑ si di rango costituzionale, e ciò in base alla regola della necessità e della ragio‑ nevole proporzionalità di tale limitazio‑ ne” (sent. n. 141/1996 e giurisprudenza ivi richiamata). Possiamo concludere affermando che appare principio pacifico che gli effetti della pena accessoria della sospensioneperdita del diritto elettorale sono auto‑ matici ed immediati a decorrere dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che la commina. Ciò perché il diritto di elettorato è costituzionalmente garantito e può subire limitazioni nei ristretti limiti previsti dalla legge. Di conseguenza, affidare la decor‑ renza degli effetti della pena accessoria ai provvedimenti amministrativi e alla data della loro eventuale adozione costi‑ tuirebbe una violazione del principio dell’affidamento e della certezza della pena, comprimendo oltremodo il diritto di elettorato. F O R E N S E ● DIRITTO AMMINISTRATIVO Il subingresso nella concessione demaniale marittima Il sub ingresso nella titolarità della concessione demaniale marittima attribuisce la qualità di nuovo cessionario o di concessionario ab origine? Anna Laura Magliulo e Mary Musto Dottoresse in Giurisprudenza La questione trae spunto da una recente pronuncia del Tar Campania – Napoli, sez. VII, che con ordinanza n. 17 79 / 2 01 2 , d e p o s it at a i n d at a 21.12.2012, ha respinto il ricorso pro‑ posto da una società contro l’Autorità Portuale di Napoli per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia esecu‑ tiva, del provvedimento con cui si di‑ sponeva la decadenza di una licenza di concessione del 2012 costituente voltu‑ ra di una precedente licenza del 2009, a firma del Presidente dell’Autorità di Porto di Napoli. La questione sottoposta al vaglio del Giudice amministrativo ha riguardato l’acquisizione da parte della Società, che chiameremo X, di un ramo d’azienda di altra Società, che chiameremo Y, consi‑ stente nel complesso di beni organizza‑ ti per l’esercizio di attività di ormeggio natanti da diporto, per la cui attività era stata rilasciata la suindicata licenza. Nel contratto di cessione si conveni‑ va, altresì, il subentro della Società cessionaria anche nel rapporto di affi‑ damento della gestione dei pontili, in‑ tercorso tra la cedente ed una terza so‑ cietà, che chiameremo Z. A tal fine l’Autorità Portuale, effet‑ tuata l’attività istruttoria, rilasciava apposita autorizzazione al subingresso. Successivamente la Capitaneria di Porto di Napoli provvedeva al sequestro di “n. 1 (uno) pontile adibito all’ormeg‑ gio di unità di diporto”, oggetto della summenzionata concessione, in quanto riteneva che la Società Z, applicando g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 arbitrariamente quanto disposto dall’art. 45 bis del Codice della Navigazione, avesse stipulato un contratto di locazio‑ ne con terzi avente ad oggetto attività primarie (anziché secondarie, come ri‑ chiesto dal menzionato articolo). A seguito della violazione dell’art. 45 bis, l’Autorità Portuale di Napoli dichiarava la decadenza della ricorrente dalle concessioni del 2012 e del 2009, ai sensi dell’art. 47, lett. e), f), del Codi‑ ce della Navigazione “per l’abusiva so‑ stituzione di altri nel godimento del bene demaniale”. Sulla base di tale provvedimento, la Società X ricorreva dinanzi al Tar, lamen‑ tando l’infondatezza del medesimo, in quanto l’illegittimo godimento del bene da parte dei terzi non poteva, in alcun modo, a sé imputarsi, ma unicamente alla Società cedente e alla Società Z. Per meglio comprendere la questio‑ ne in oggetto occorre, in primis, esami‑ nare il procedimento concessorio d’uso dei beni demaniali. Quest’ultimo si articola essenzial‑ mente in quattro fasi: la fase introdut‑ tiva, la fase istruttoria, la fase di pub‑ blicità e la fase di decisione. La prima si sostanzia nella presenta‑ zione delle domande da parte degli aspi‑ ranti alla concessione ed ha, dunque, carattere propulsivo o di iniziativa. La fase istruttoria si caratterizza, invece, in una serie di atti finalizzati all’oggettiva rilevazione di quei fatti materiali, in concorso dei quali il prov‑ vedimento di concessione può valida‑ mente venire in essere. La fase di pubblicità riguarda, esclu‑ sivamente, le concessioni di particolare importanza “per entità o per scopo” e si realizza mediante affissione nell’albo del Comune dove è situato il bene e nella Gazzetta Ufficiale. Infine, la fase della decisione che consistente nel rilascio o meno della concessione. La concessione d’uso del bene dema‑ niale dà luogo di regola alla costituzio‑ ne di diritti reali, in quanto il potere attribuito al concessionario si estrinseca direttamente sulla cosa che ne forma l’oggetto, e può essere fatto valere erga omnes, sia pure nei limiti imposti dalla natura e dalla funzione del bene. Se quindi nei confronti degli altri privati la posizione del concessionario è configurabile come diritto soggettivo perfetto, nei confronti della P.A. essa si 127 concreta sempre in un diritto condizio‑ nato. L’Amministrazione, infatti, non è mai vincolata a mantenere in vita la concessione, nemmeno per il tempo pre‑ visto, proprio perché, perseguendo essa finalità di pubblico interesse, le esigenze sopravvenute possono rendere necessario l’esercizio del potere di decadenza o re‑ voca della concessione stessa. “Tale esercizio costituisce attività essenzialmente discrezionale, impor‑ tando valutazioni e apprezzamento di pubblici interessi, ed ha per conseguen‑ za l’affievolimento ad interesse legitti‑ mo del diritto del concessionario” (Cass. sez. III, 18.08.1988, n. 4969). Il titolo concede le potestà previste dalla legge a favore dell’Amministrazio‑ ne cui è correlato, di guisa che le facoltà disciplinate permangono nella discre‑ z i o n a l it à d e l l’a m m i n i s t r a z io n e . Infatti, anche quando si intenda affida‑ re a terzi l’intero compendio dei beni demaniali concessi, come nel caso di specie, il legislatore prevede più che mai la necessità del previo assenso della Amministrazione concedente. Al riguardo deve essere premesso che la concessione di beni demaniali marittimi, in quanto rilasciata intuitu personae deve essere, di regola, eserci‑ tata personalmente dal concessionario (art. 30, comma 1, regol. nav. maritt.) e detto esercizio deve riferirsi alla totalità degli usi, opere e facoltà, che ne forma‑ no oggetto (art. 24, comma 1, regol.) nei limiti di spazio e tempo risultanti dall’atto. Costituiscono delle deroghe ai prin‑ cipi finora enunciati sia l’istituto del subingresso, oggetto della fattispecie al vaglio dei Giudici amministrativi, sia l’ipotesi prevista dall’articolo 45 bis del codice della navigazione che consente al concessionario di affidare a terzi l’inte‑ ro compendio dei beni demaniali con‑ cessi, sempre con la previa autorizzazio‑ ne dell’autorità concedente, finalizzata a verificare se il soggetto terzo possegga le qualità specifiche che lo rendono idoneo a tale esercizio. Prima della modifica apportata dal‑ la legge n.88/2001, a differenza dell’ipo‑ tesi del sub ingresso, la sostituzione prevista dall’articolo 45 bis cod. nav. non poteva avvenire ad libitum, ogni qual volta il concessionario lo desideras‑ se ed il concedente lo autorizzasse, ma soltanto in casi eccezionali. Inoltre era questioni Gazzetta 128 prevista un’ulteriore limitazione: la ge‑ stione del terzo non poteva protrarsi, anche qui al contrario di quanto avviene nel subingresso, per l’intero arco tempo‑ rale di validità della concessione, ma solo per periodi di tempo determinati. Il secondo periodo della norma esa‑ minata prevede una ulteriore ipotesi di affidamento, da parte del concessiona‑ rio, dell’esercizio della concessione al terzo, condizionata anch’essa all’auto‑ rizzazione del concedente ma non sog‑ getta alle limitazioni del caso eccezio‑ nale e del limite temporale. In questo secondo caso, infatti, il limite è diverso e di carattere contenu‑ tistico: non possono essere affidati alla gestione del terzo tutti i beni e le utilità, che derivano dal provvedimento conces‑ sorio, ma soltanto “le attività seconda‑ rie nell’ambito della concessione” stes‑ sa (T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, 26.02.2000, n.151). Attualmente le due possibili ipotesi previste dall’articolo 45 bis cod.nav. non divergono più così tanto rispetto al passato, né si differenziano eccessiva‑ mente dalla fattispecie del subingresso. Ciò che emerge è senz’altro il rilievo in base al quale, l’autorizzazione del con‑ cedente costituisce, in tutti i casi, la condizione necessaria ed indispensabile per la sussistenza di quel complesso di situazioni giuridiche correlate all’uso del demanio marittimo (Cass., sez. I, 04.05.1998, n.4402). La peculiare posizione giuridica del concessionario del bene demaniale marittimo, inevitabilmente correlata alle singolari caratteristiche giuridiche di quest’ultimo, si palesa ulteriormen‑ te nell’ipotesi oggetto della presente disamina, sottoposta al vaglio della q u e s t i o n i sez. VII del Tar Campania – Napoli. Il Giudice di prime cure, esaminata la questione, ha ritenuto non fondato il ricorso, affermando che il subingresso da parte della Società ricorrente nella concessione del 2009 (a seguito dell’ac‑ quisto del ramo di azienda del comples‑ so di beni della Società Y) ha integrato un fenomeno di successione particolare nella posizione del concessionario, con conseguente assunzione di tutte le ob‑ bligazioni di quest’ultimo. La statuizione assunta dal Giudi‑ cante si conforma ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, in base al quale “il subingresso nella concessio‑ ne di area demaniale marittima, di cui all’art. 46, Codice della Navigazione, costituisce un fenomeno di successione particolare nella posizione giuridica del concessionario, con la permanenza del primitivo rapporto amministrativo, malgrado la liberazione del concessio‑ nario cedente dalle obbligazioni na‑ scenti a suo carico dal provvedimento concessorio; e non dà, quindi, luogo ad una novazione soggettiva del rapporto concessorio” (ex multis, Cass. sez. II, 18.11.1974, n. 3684). Come noto, il subingresso nella ti‑ tolarità della concessione attribuisce la qualità non già di “nuovo concessiona‑ rio”, bensì quella di primigenio conces‑ sionario o concessionario ab origine. Pertanto, lo stesso non produce un effetto purgativo degli eventuali debiti e/o inadempimenti commessi dal primo con‑ cessionario, ma determina un’automatica imputazione degli stessi al subentrante che, dunque, sarà responsabile anche dei fatti e/o delle omissioni verificatesi ante‑ riormente al rilascio dell’autorizzazione dell’amministrazione concedente. Gazzetta F O R E N S E D’altronde, ragionando altrimenti si perverrebbe ad un irrimediabile pre‑ giudizio dell’interesse pubblico sotteso alla corretta utilizzazione del bene demaniale. Va rilevato, infatti, che qualora si ritenesse archiviato il complesso di ob‑ blighi o di inadempimenti posti in esse‑ re dal concessionario cedente in virtù del subingresso nella titolarità di una concessione, si perverrebbe da un lato ad un’assenza sostanziale di responsa‑ bilità in capo al soggetto cedente, e dall’altro all’acquisto della medesima da parte del soggetto cessionario, ma solo a partire dal momento del suben‑ tro. Ciò si tradurrebbe nel paradosso in base al quale l’insieme di situazioni giuridiche sorte in una fase precedente il momento del subingresso verrebbero del tutto svuotate di tutela. Pertanto, qualora si ritenesse possi‑ bile porre nel nulla gli eventuali debiti e inadempimenti imputabili al soggetto concessionario per il solo fatto della cessione di un ramo d’azienda, accom‑ pagnata dal subingresso nella titolarità della concessione, si giungerebbe all’ine‑ vitabile proliferarsi del ricorso allo strumento della cessione/concessione come espediente per realizzare un tota‑ le svincolo da responsabilità sorte in capo al soggetto cedente, di cui lo stes‑ so intende liberarsi. Ovviamente è da ritenersi che tale interpretazione non privi il sub conces‑ sionario della tutela civilistica che il nostro ordinamento riconosce ai terzi in buona fede: questi potrebbe agire nei riguardi del proprio dante causa ai fini risarcitori nell’ipotesi in cui gli illeciti pregressi gli siano stati dal medesimo sottaciuti. Recensioni L’esame incrociato tra legge e prassi, Vania Maffeo, Cedam, 2012 131 recensioni A cura di Giuseppe Riccio F O R E N S E ● L’esame incrociato tra legge e prassi, Vania Maffeo, Cedam, 2012 ● A cura di Giuseppe Riccio Professore di Procedura Penale presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" Non capita sovente una lettura del genere; solitamente il tema che Vania Maffeo affronta in modo originale ap‑ partiene alla letteratura di common low, dove è consuetudine impegnarsi sulle tecniche dell’ interrogatorio perché opera dei giuristi pratici, quelli che ali‑ mentano giurisprudenza e diritto in un sistema nel quale la legge, quando esi‑ ste, detta principi non discipline la cui regolazione é affidata al giudice; e lì la legalità assume questo colore giudiziale ben diverso dal nostro; almeno storica‑ mente è così. Non capita sovente avvertire il biso‑ gno di entrare nella tecnicità del diritto – meglio: della giurisdizione – in un Paese dove la dottrina sembra esclusiva‑ mente interessata a dogmi e leggi – e a giurisprudenza, ovviamente – mai alle prassi, al punto che il giurista è ancora considerato personalità che si interessa di cose astratte, definizione che qualifi‑ ca impropriamente la teoria, la dogma‑ tica, che é struttura intellettuale essen‑ ziale per la creazione del diritto, ovun‑ que ciò avvenga. Non capita sovente, poi, che l’Auto‑ re prenda le distanze proprio dall’im‑ pronta anglosassone del tema, delinean‑ do con opportuna semantica sistemi e diritto e rivelando la necessità delle premesse dogmatiche quando il primo (= il sistema) è legale ed il secondo (= il diritto) è dettato da regolazioni puntua‑ li che dovrebbero guidare comporta‑ menti ed interpretazioni dei protagoni‑ sti dell’evento. Alla fine scopri che l’originalità sta già nel titolo, perchè il rifiuto dell’am‑ g e n n a i o • f e b b r a i o 2 0 1 3 miccante “cross examination” è scelta sistemica precisa, delineata dalla diffe‑ renza funzionale e dalle diversità strut‑ turali tra cross ed esame incrociato. Qui si apre la porta della ricerca; che affonda le radici nelle prassi, senza trascurare cause ed effetti della crisi del momento topico di qualificazione del sistema adversary, a cui strizzava l’oc‑ chio il legislatore di fine anni ‘80, dibat‑ tuto tra esigenze di garanzia e resistenti arretratezze inquisitorie, frutto di stasi culturali mai sufficientemente denun‑ ziate. E col tempo si svela che la crisi sta qui; e che forse è tardi per porvi rime‑ dio. Qui, da noi, il cammino dell’esame incrociato – è questo l’oggetto del nuovo impegno monografico della Maffeo – non poteva non dare ascolto alle esigen‑ ze dogmatiche e garantiste dell’impe‑ gnativo istituto ed alle cause che gli hanno fatto perdere la centralità ideale su cui faceva affidamento quell’innova‑ tore. Bisognava chiarire subito che l’op‑ zione per siffatto strumento – vedremo che è tale, non di più –, avendo esso quella origine estera, comportava la scelta di evitare una disciplina di detta‑ glio, forse per la incapacità di prevedere tutte le esigenze tecniche connesse al complesso progetto – esame, controesa‑ me, riesame: che lo distingue dalla cross examination –, forse per consegnare alla dialettica processuale, alle sue in‑ terpretazioni ed alle sue prassi un avve‑ nimento dialogante capace di fornire al giudice la gestione della indispensabile lealtà processuale che quel confronto presuppone e, contestualmente, la liber‑ tà dei segni che i dichiaranti manifesta‑ no, utili ausilio per il libero convinci‑ mento nella ricostruzione della prova sia sotto il profilo della genuinità del detto, sia sotto l’aspetto della attendibi‑ lità della fonte. Bisognava chiarire, poi, che questa “delega” al giudice non è – come spesso si crede – appannaggio esclusivo dei si‑ stemi di common, giacché anche nella nostra tradizione giuridica, per quanto possa essere minuziosa la regolazione delle attività del processo, il loro svol‑ gimento non può mai essere descritto in maniera così rigorosa da vincolare in strette camicie l’iniziativa ed i liberi comportamenti di parti e giudice: e se lo dice Calamandrei bisogna credergli; 131 anche perché molte sono le possibili esemplificazioni, fino alla geniale in‑ venzione del mezzo di prova “atipico” che tante questioni, imbarazzi e proble‑ mi applicativi sta creando, quanti cer‑ tamente quel perplesso legislatore non poteva prevedere, né previde si potesse‑ ro realizzare in concreto. Bisognava chiarire che per queste ragioni il legislatore del secolo scorso affidava a poche disposizioni regolanti il simbolo del nuovo sistema, tranquillo che ... le cose sarebbero andate per il meglio, perchè affidava a quello stru‑ mento l’accertamento di un processo snello, tendenzialmente monosoggetti‑ vo, condotto con maestria da giudici togati in un dibattimento concentrato; tant’è che tutte le precedenti dichiara‑ zioni procedimentali si avvalgono di diverso strumento non dialogante. È qui l’errore di prospettiva; non politico né sistemico; è qui l’eccessiva fiducia nella accettazione delle radicali novità da parte di ceti che si sono mo‑ strati invece impreparati a recepire ed a mettere in atto così sofisticate strutture processuali; è qui l’errore di credito dato in bianco ad una cultura ancorata a vizi inquisitori, se nel ‘92 perfino la Corte costituzionale – che pure imboni‑ va i giudici sulle nuove categorie accu‑ satorie – potè realizzare una “caduta” di quel genere; anche se, alla fine, essa è risultata benefica, essendo riuscita a smuovere l’inerte legislatore ed a fargli approvare le nuove regole per la giuri‑ sdizione. Bisognava chiarire, ancora, l’altra verità; quella che cala quell’errore, ag‑ gravandolo, in un contesto legislativo quasi immediatamente modificato per far fronte all’“assalto” della criminalità organizzata, che ha indotto radicali modifiche della struttura del processo: ricostruita per eliminare i processi cu‑ mulativi e, quindi, per realizzare accu‑ satorietà-cross-concentrazione-imme‑ diatezza, la giurisdizione si é trovata impegolata, senza soluzione di continu‑ ità, in ingestibili maxiprocessi a cui la legislazione ha dovuto adeguarsi con la creazione di organizzazioni giudiziarie complesse ed articolate e di procedure gigantesche, soprattutto quando si rea‑ lizza il coordinamento tra più procure se non tra più distretti. Si sono sottratti così funzione e compiti all’esame incro‑ ciato; che ha perduto il ruolo di strumen‑ to centrale per il libero convincimento, recensioni Gazzetta 132 essendo venuta meno la concentrazione del dibattimento servente alla duttile ed aspra dialettica dei contendenti. Bisognava chiarire, infine – ed ap‑ punto –, che esso è strumento non mezzo e che riguarda solo le prove di‑ chiarative, confermando, così, che quel legislatore aveva anticipato ruolo ed ambito del contraddittorio secondo una tradizione giuridica che travalica i con‑ fini del Paese, e che qui da noi assume significato costituzionale originario; esso cioè era già scritto nel tessuto sta‑ tutario del ‘48 (= del 1948) con quei compiti e per quell’ambito. Si entra così nei delicati meandri delle scarse ed incerte definizioni legi‑ slative e se ne coglie la singolare speci‑ ficità, quella della regolazione – solo – dei divieti, impotente, il legislatore, a descrivere attività libere di interrogato‑ rio e tipologie “inquisitorie” imprevedi‑ bili; egli, cioè, non poteva scrivere modi e forme delle domande ma solo allerta‑ re il giudice sui quesiti chiaramente ri‑ volti ad alterare il ricordo, a bloccare dichiarazioni pregiudizievoli, a mettere in difficoltà il dichiarante, ad “alterare” la verità, fornendogli il potere di inter‑ venire direttamente sulla scorta dei “capitoli” di prova opportunamente chiesti come premessa indispensabile per la ammissibilità del mezzo, ma, contemporaneamente, come necessaria comunicazione delle conoscenze della fonte all’altra parte e come “guida” per l’eventuale intromissione del giudice. È questo il risultato dello studio della Maffeo; che si arricchisce di spe‑ cificità operative quando si cala nelle reali vicende dei diversi soggetti dichia‑ ranti e nelle infinite semplificazioni che le prassi offrono, seguendo le delicate questioni sulla scia della giurisprudenza e, quando è intervenuta, sulle linee del‑ la legislazione – anche “giurispruden‑ ziale” (leggi: ... delle additive della Corte costituzionale) – che hanno inver‑ tito il rapporto tra esame incrociato e interrogatorio presidenziale per la tute‑ la di soggetti deboli e per dare loro co‑ perture rasserenanti, unico “sistema” r e c e n s i o n i per assicurare credibilità alla dichiara‑ zione ed attendibilità alla fonte. È questo il risultato dello studio della Maffeo; che si insinua nelle diver‑ se tipologie dei dichiaranti, cercando di dissolvere il dubbio sulla utilità del contesto dialettico, proponendo di ri‑ volgere più significativa attenzione all’esame dei “tecnici”, periti o consu‑ lenti che si voglia, lì dove, per una verso, il confronto è più complesso e proble‑ matico, perché essi non ricostruiscono fatti – talvolta anche questi –; essi soli‑ tamente forniscono conoscenze scienti‑ fiche su cui la dialettica acquista più pregnante valore per il giudice. L’Autrice scopre qui carenze che fanno male e su cui la giurisprudenza nicchia. Per questi dichiaranti ella propone una nuova centralità dell’esame incro‑ ciato; raccomanda alla dottrina di assu‑ mere la linea garantista del dialogo tra esperti, unico strumento veramente si‑ gnificativo per il convincimento del giudice in materia di prova scientifica; auspica che la giurisprudenza, più volte compulsata, si convinca della bontà della soluzione, ancor più della indi‑ spensabilità della reale tutela delle par‑ ti e della difesa in particolare. È questo il risultato dello studio; che segue i mille rivoli con cui si realizza il duttile strumento e che contestualmen‑ te scoprono i mille e ricorrenti problemi che la scarna disciplina pone all’ inter‑ prete, in un ambito dialettico origina‑ riamente problematico ed “irresponsa‑ bile”: è questo il dato più sconcertante, che offre all’Autrice l’occasione per tornare alla dogmatica e per porsi il vero problema della complessa patolo‑ gia di cui si interessa. La questione di fondo parte dalla osservazione che, certo, la disciplina regolante è limitata e se ne sono com‑ prese le ragioni; ma il maggiore diso‑ rientamento per chi si intriga di questi temi è la considerazione che tutte le patologie che si verificano nel corso dell’ esame incrociato non hanno “copertu‑ ra” sanzionatoria. Gazzetta F O R E N S E E dunque: quid juris, come avrebbe chiesto Vannini, se l’irregolarità è inte‑ sa come assurda indifferenza di un vizio dell’atto; se essa non soddisfa i bisogni di legalità della prova in quel modo acquisita e se per quelle “lacune” non v’è ricorso alla nullità né alla inutilizza‑ bilità; quid juris, non per le ragioni già manifestate dalla giurisprudenza, bensì per le più severe argomentazioni su cui fa leva l’ Autrice a cui si rinvia; quid juris se appare complicato far ricadere la deviazione nei vizi di motivazione della sentenza. Il tema è complesso; e Vania Maffeo ne è profondamente consapevole; ma val la pena di seguire la sua “ardita” rappresentazione di una aggiornata lettura problematica della irregolarità, che affida alla discrezionalità del giudi‑ ce la valutazione della rilevanza del vi‑ zio, correggendo l’incomprensibile con‑ vinzione secondo cui il “difetto” di un atto probatorio possa essere indifferen‑ te per l’ordinamento e, di riflesso, per il giudice. Il tema è complesso, soprattutto perché si intromette nel concetto e nella specie della invalidità degli atti e lambi‑ sce legalità ed uguaglianza; ma la mo‑ dernità del diritto ha già fornito colori più tenui e duttilità alla prima e mag‑ giore responsabilità al giudice per la tutela della seconda, resa sicura da un maggior senso di lealtà chiesto delle parti e da più penetranti assicurazioni deontologiche; e poi – è questa l’inten‑ zione della Nostra – dibattere sulla questione è certamente opera benefica per il diritto e per i diritti. Tutto qui, se è poco; tutto qui, se l’itinerario, sinteticamente rappresenta‑ to in questa sede ma compiutamente argomentato nel lavoro di Vania Maf‑ feo, non attraversasse, con l’alibi delle prassi, i principi fondamentali della Procedura penale; tutto qui, se l’intro‑ missione nella dogmatica, nell’ermeneu‑ tica e nei comportamenti processuali di cui ella si intriga, con metodo nuovo e con originali approdi argomentativi, è da considerarsi “poca cosa”. Indice delle sentenze Diritto e procedura civile CORTE DI CASSAZIONE Cass. civ., sez. III, 19.02. 2013, n. 4030 (con nota di Sabbatini) Cass. civ., sez. un., 23.01.2013 n. 1521 s.m. Cass. civ., sez. I, 18.01.2013 n. 1237 s.m. Cass. civ., sez. lav., 15.01.2013 n. 809 s.m. Cass. civ., sez. III, 15.01.2013 n. 797 s.m. Cass. civ., sez. II, 14.01.2013 n. 705 s.m. Cass. civ., sez. III, 20.12.2012, n. 23625 s.m. Cass. civ., sez. un, 19.12.2012, n. 23464 s.m. Cass. civ., sez. III, 18.12.2012, n. 23318 s.m. Cass. civ., sez. III, 10.12.2012, n. 22382 s.m. Cass. civ., sez. III, 27.11.2012, n. 20984 s.m. Cass. civ., sez. un.,13.11.2012, n. 19704 s.m. Cass. civ., sez. Un., 04.09.2012, n. 14828 (con nota di Catalano) TRIBUNALE Trib. Napoli, sez. III,05.12.2012, Giud. A. Balzano s.m. Trib. Napoli, sez. III,05.12.2012, Giud. E. Pastore Alinante s.m. Trib. Napoli, sez. VIII, 04.12.2012, Giud. M. Amura s.m. Trib. Napoli, sez. X, 03.12.2012, Giud. M. Magliulo s.m. Trib. Napoli, sez. X,03.12.2012, Giud. C. Sorrentini s.m. Diritto e procedura penale CORTE DI CASSAZIONE Cass. pen, sez. Un., 28.02.2013 s.m. Cass. pen, sez. Un., 31.01.2013 s.m. Cass. pen, sez. Un., 20.12.2012, n. 6509 (con nota di Pignatelli) Cass. pen, sez. VI, 19.12.2012, n. 1514 s.m. Cass. pen, sez. V, 14.12.2012, n. 3229 s.m. Cass. pen, sez. VI, 03.12.2012, n. 3251 s.m. Cass. pen, sez. Un.,18.10.2012, n. 47604 s.m. CORTE DI APPELLO App. Napoli, sez. I, 10.01.2013, n. 85 s.m. App. Napoli, sez. III, 15.11.2012, n. 5096 s.m. TRIBUNALE Trib. Napoli, G.M., 28.01.2013, n. 1698 s.m. Trib. Napoli, sez. I, ord. 17.01.2013 s.m. Trib. Napoli, G.u.p., 14.01.2013, n. 139 s.m. Trib. Napoli, G.u.p., 10.01.2013, n. 43 s.m. Trib. Napoli G.u.p., 09.01.2013, n. 143 s.m. Trib. Napoli G.u.p., 09.01.2013, n. 79 s.m. Trib. Napoli G.u.p., 08.01.2013, n. 16 s.m. Trib. Napoli G.u.p. 21.12.2012, n. 3008 s.m. Trib. Napoli G.u.p., 20.12.2012, n. 2991 s.m. Trib. Napoli G.u.p., 20.12.2012, n. 2975 s.m. Trib. Napoli G.u.p., 23.11.2012, n. 3021s.m. Trib. Nola, coll. B), 11.10.2012, n. 2164 s.m. Trib. Nola, coll. A), 18.7.2012, n. 1972 s.m. Trib. Napoli, G.u.p., 28.5.2012, n. 1638 s.m. Trib. Napoli, G.u.p., 21.5.2012, n. 1116 s.m. Trib. Napoli, G.M., 24.4.2012 n. 5817 s.m. Trib. Napoli, G.u.p., 02.12.2011, n. 3026 s.m. Diritto amministrativo CONSIGLIO DI STATO Cons. Stato, Ad. Plen., 15.01.2013, n. 2 (con nota a cura di Foggia) T.A.R. T.a.r. Campania-Napoli, sez. I, 20.02.2013, n. 934 s.m. T.a.r.Campania-Napoli, sez. I, 20.02. 2013, n. 933 s.m. T.a.r.Campania-Napoli, sez. I, 14.02.2013, n. 900 s.m. T.a.r.Campania-Napoli, sez. I, 06.02.2013, n. 766 s.m. T.a.r.Campania-Napoli, sez. I, 01.02. 2013, n. 696 s.m. T.a.r.Campania- Napoli, sez. I, 15.01.2013, n. 313 s.m. T.a.r.Campania- Napoli, sez. I, 15.01.2013, n. 312 s.m. Diritto internazionale Corte Suprema dell’India Corte Suprema dell’India, Giur. civile, ricorso civ. n. 135/201, Istanza di rilascio n. 20370/2012, Pres. Altamas Kabir (con nota di Romanelli)