qui - La Pasqualina

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qui - La Pasqualina
Le cento Pasqualine
(Un viaggio nel gusto dal 1912)
Testi di SEVERINO COLOMBO
Fotografie di ANTONIO CASTELLANI - WALTER MEREGALLI
A tutta la mia famiglia, ai miei figli Gabriele e Tommaso. Con l’augurio che qualsiasi
cosa vorranno fare da grandi, la facciano sempre con tanta passione e serietà.
Riccardo Schiavi
Le cento Pasqualine
(Un viaggio nel gusto dal 1912)
DA UN’IDEA DI RICCARDO ED ELENA SCHIAVI
Progetto Grafico e Art Direction
Walter Meregalli
Copertina
AA.VV.
Testi
Severino Colombo
Curatore Editoriale
Elena Schiavi
Fotografie
Antonio Castellani - Walter Meregalli
Riferimenti web
lapasqualina.it
castellani.name
waltermeregalli.it - waltermeregallifoto.com
studiotm.org
Stampato in Italia presso Arti Grafiche Turati - Desio (MI)
Finito di stampare nel luglio 2012
TUTTI I DIRITTI RISERVATI - è vietata la riproduzione parziale o totale della presente
opera senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
© - 2012
I- PROLOGO
1 - PIERO E PASQUALINA
(dove scopriamo che tutto nasce da
un sogno)
22 - IL LATTE - Scheda ingredienti
(per dirla tutta, un alimento galattico)
26 - IL PASTORE DI API
(Andrea Paternoster)
32 - IL MIELE - Scheda ingredienti
(cibo degli dei)
36 - UOVA, BURRO, FARINA - Scheda ingredienti
(protagonisti assoluti di ogni ricetta)
41 - TELEVISIONE E GELATO
(dove cambiano le mode ma non i gusti)
Crediti immagini:
Foto di Antonio Castellani
pg. 8 - pgg. 12/13 - pg. 14 - pgg. 22/23 - pgg. 24/25 - pgg. 32/33 - pgg. 34/35 - pgg. 36/37 - pgg. 38/39 - pg. 47 - pgg. 48/49 - pgg. 50/51 - pg. 52 - pgg. 60/61
pgg. 62/63 - pgg. 70/71 - pgg. 72/73 - pgg. 86/87 - pg.88 - pg. 96 - pg. 99 - pgg. 100/101 - pgg. 102/103 - pgg. 104/105 - pgg. 106/107 - pg. 141 - pgg. 146/147
pgg. 148/149 - pg. 168 - pg. 171 - pgg. 172/173 - pg. 174 - pgg. 176/177 - pgg.184/185 - pgg. 186/187 - pgg. 188/189 - pgg. 196/197 - pgg. 198/199 - pg. 209
pgg. 212/213 - pgg. 216/217
Foto di Walter Meregalli
pg. III - pgg. 10/11 - pg. 27 - pgg. 28/29 - pg. 30 - pg. 42 - pg.55 - pg. 59 - pg. 75 - pg. 76 - pgg. 78/79 - pg. 81 - pgg. 82/83 - pg. 113 - pg. 115 - pg. 117 - pgg. 118/119
pg. 120 - pgg. 122/123 - pg. 125 - pgg. 126/127 - pg. 137 - pg. 151 - pgg. 152/153 - pg. 155 - pg. 157 - pgg. 158/159 - pg. 160 - pg. 164 - pg. 179 - pg. 191
pgg. 192/193 - pg. 195 - pg. 202 - pg. 205 - pg. 207 - pg. 210 - pg. 219 - pg. 221 - pg. 223
Foto archivio personale famiglia Schiavi e famiglia Preda
pg. 2 - pg. 5 - pg. 7 - pg. 16 - pg. 21 - pg. 56 - pg. 67 - pg. 68 - pg. 92 - pg. 130 - pg. 133 - pg. 142
70 - LE CILIEGIE - Scheda ingredienti
(come si suol dire, una tira l’altra)
116 - IL FRATELLO DEI LIMONI
(Luigi Aceto)
124 - L' ACCADEMICO DELLE MANDORLE
(Pasquale Campobasso)
129 - LA ROSA
(dove ci imbattiamo in un vulcano)
146 - IL PISTACCHIO - Scheda ingredienti
(l’oro verde)
150 - IL SOMELIER DELLE NOCCIOLE
(Emanuele Canaparo)
156 - IL PERSONAL TRAINER DELLE MUCCHE
(Ivan Avogadro)
163 - QUESTA È CASA MIA
(dove scopriamo i veri ingredienti)
186 - LA LIQUIRIZIA - Scheda ingredienti
(la dolce radice ricca di misteri e
proprietà)
74 - LO GNOMO DELLE CASTAGNE
190 - IL CUSTODE DELLA LIQUIRIZIA
80 - IL MOLTIPLICATORE DI FRUTTI
196 - I LIMONI - Scheda ingredienti
86 - MANDORLE E NOCCIOLE - Scheda ingredienti
201 - MOTO PERPETUO
(Raffaele Corrado)
(Romano Micheletti)
(streghe, fate e tanta salute)
91 - NON SI SCHERZA CON NONNO LUIGI
(dove il carattere burbero nasconde
il cuore vero)
(Fortunato Amarelli)
(trombe d’oro della solarità)
(dove non si finisce mai di imparare)
Alcuni momenti salienti
Il Ristoro Cacciatori diventa
Bar dei Tennis Preda
PIERO DAINA e
PASQUALINA LOCATELLI
si sposano e aprono il
Ristoro Cacciatori Pasqualina
LUIGI PREDA e
LINA LOCATELLI
si sposano
LUIGI e LINA
si trasferiscono ad
Almenno dove vivono
con i loro figli EDDA,
ABELE, PIERO, ROSA,
TINA, FRANCO,
MARINELLA
sopra il locale di
ZIA PASQUALINA
RICCARDO
subentra agli zii
nella gestione del locale
ROSA si sposa con
ALBERTO.
Avranno due figli:
RICCARDO e ELENA
FRANCO, con la moglie
LISETTA,
ristruttura il locale che
torna al nome originale:
La Pasqualina
LUIGI
costruisce i campi
da tennis
LA PASQUALINA
compie 100 anni
e apre a Porto Cervo
LA PASQUALINA
apre a Bergamo
LINA e LUIGI
prendono in gestione
dalla zia il locale
1926
1912
1967
1952
2007
1985
1969
1963
1968
1995
2012
Un viaggio nel gusto dal 1912
PROLOGO
C’era una volta...
Non può che iniziare come una favola la storia di un luogo come la Pasqualina
dove si sono intrecciati i destini di molte generazioni, di tante persone e di una sola
famiglia.
Una favola che inizia esattamente un secolo fa, nel 1912, quando la Pasqualina era
il nome di una persona, prima ancora che di un luogo. E che continua ancora oggi,
che Pasqualina è il nome di un luogo, con dietro molte persone.
I
Le cento Pasqualine
Un viaggio nel gusto dal 1912
Primo fra tutti Riccardo, bisnipote della fondatrice, che dalla metà degli anni
Novanta ha preso in mano il locale - allora una trattoria, oggi una pasticceria - e
l’ha fatto crescere.
In un secolo molto è cambiato: il luogo, il paesaggio attorno, le persone, gli obiettivi
e le aspettative. A restare identici sono i valori che per cento anni hanno tenuto
insieme una famiglia. Passati da una generazione all’altra. Quasi entrati nel Dna
di chiunque - e sono molti - abbia fatto qualcosa per mantenere in vita e alimentare
un sogno. Dopo un secolo è sempre la stessa storia che si ripete: quella di chi,
con determinazione e sudore, entusiasmo e fatica, rende fertile un terreno perché
possano crescere frutti genuini e perché questi frutti - come è nella natura di chi
fa il ristoratore - possano essere goduti, gustati e apprezzati da altri. Riccardo ha
seminato qualcosa ogni giorno in questi ultimi diciassette anni; lo stesso hanno fatto
altri prima del suo arrivo. Ora che i frutti stanno crescendo vuole conoscerne le
radici, appropriarsi di un passato che già gli appartiene e che, quasi senza saperlo,
aveva dentro.
È lui il motore di questa storia, ma non è lui il protagonista, ciò a cui tutto ruota
attorno è un luogo.
Riccardo Schiavi, nella Pasqualina di Bergamo.
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PIERO E PASQUALINA
(dove scopriamo che tutto nasce da un sogno)
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PIERO E PASQUALINA
1912. Pasqualina - anzi zia Pasqualina oggi nel ricordo di nipoti e bisnipoti era allora una bella ragazza, bionda con gli occhi verdi. Una bellezza genuina da
far perdere la testa agli uomini del piccolo paese della Bergamasca, Almenno San
Bartolomeo, dove inizia questa storia. E proprio questo accadde a Piero. Il giovane,
con alle spalle il diploma di scuola media commerciale, aveva fatto fortuna all’estero,
in Argentina. Non è chiaro se fosse partito già accarezzando il sogno di metter su
famiglia con Pasqualina o se il colpo di fulmine avvenne al ritorno a casa.
Piero e Pasqualina il giorno delle nozze.
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«Piero era innamoratissimo.
È lui l’artefice di tutto. Ha
costruito un sogno e l’ha
dedicato alla ragazza di cui
era innamorato»
Ma, tutto sommato, poco importa. Conta che, da Piero a Riccardo, quella della
Pasqualina, a guardarla da fuori, è un’avventura fatta di mille partenze e di
altrettanti ritorni. E conta che con i soldi guadagnati lontano da casa Piero compra
un terreno alle porte del paese, che dobbiamo immaginare allora come un luogo
in aperta campagna. Quasi un paradiso incontaminato. Non solo due cuori e una
capanna, come dice il proverbio, ma qualcosa di molto più solido e duraturo: un
edificio che è sia casa sia luogo di lavoro, attorno i campi che con i loro frutti sono la
base dell’economia domestica.
La prima Pasqualina è un atto d’amore. «Piero era innamoratissimo. È lui l’artefice
di tutto. Ha costruito un sogno e l’ha dedicato alla ragazza di cui era innamorato»
racconta la nipote Marinella. È lei la guida - la prima - in questo lungo viaggio nel
passato della famiglia.
Nata in una famiglia di nove fratelli, Marinella fu affidata dalla madre alla cure dei
“nonni”. Piero e Pasqualina erano i prozii di Marinella che, non avendo avuto bambini,
avevano già cresciuto Carolina. «Avevano cresciuto mia mamma Carolina, Lina; e
Un atto d’amore lo si può ritrovare anche in un documento notarile.
Nella pagina accanto, l’atto di acquisto della proprietà di Almenno San Bartolomeo,
datato 3 giugno 1912 e depositato presso il notaio Camillo Dolci.
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poi mia mamma, sempre per non lasciarli soli, mi affidò alle loro cure». Mamma
Lina si era sistemata non molto lontano, a Brembate, con la famiglia («La strada era
sterrata e ricordo che mio padre mi portava da una casa all’altra in motoretta, un
Galletto»). Marinella, classe 1944, dagli zii trascorre l’infanzia e la giovinezza: «una
vita serena e spensierata fino ai 18 anni - sottolinea - piena di bei momenti».
Dello zio Piero, Marinella ha un ricordo dolce. Di una persona speciale, molto
affettuosa, un uomo semplice e di buon cuore: «uno con cui era impossibile non
andare d’accordo». Una leggera balbuzie lo rendeva ancora più simpatico agli occhi
della nipotina. Ne prendeva sempre le difese quando, per qualche motivo, la zia
la rimproverava; sempre disposto a coprire le sue marachelle. Avendo la passione
per la caccia, talvolta portava la piccola Marinella con sé nei boschi, nonostante
sapesse come sarebbe andata a finire. «Non volevo che catturasse gli uccellini e
lui mi accontentava, ma per non tornare a mani vuote prima di rientrare andava a
comprarne due sporte da un amico cacciatore».
Almenno San Bartolomeo in tre cartoline dei primi del ‘900.
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2012. «Le brioches le fate voi?». Fino a un paio d’anni fa una domanda
del genere, pur fatta senza malizia né cattive intenzioni, era il modo per mettere a
disagio Riccardo. Perché, da persona schietta e abituata a dire la verità, era costretto
ad ammettere che: no, le brioches non erano farina del suo sacco. «Dare questa
risposta, lo confesso, mi faceva soffrire» dice Riccardo. È anche per questo che ha
deciso di comprare una sfogliatrice, anzi la Ferrari delle sfogliatrici. «È la migliore al
mondo». Così alla domanda «Le brioches le fate voi?» la risposta è cambiata: sì, ora
sono made in Pasqualina: «La macchina può sfornare cinquemila brioches al giorno»
spiega con orgoglio. E aggiunge: «Ma ne produciamo tremila a settimana. Solo per
noi». È una scelta per difendere e salvaguardare l’unicità del prodotto. «Le nostre
brioches si trovano solo da noi».
La filosofia alla base di questo episodio è la stessa che Riccardo ha già messo in atto
per altri prodotti di punta della pasticceria come il gelato e il cioccolato.
«L’obiettivo - spiega - è arrivare a produrre tutto da noi, in casa». Che è una novità,
ma per uno strano destino di corsi e ricorsi storici era proprio ciò che accadeva già
alle origini della Pasqualina…
«Le nostre brioches si
trovano solo da noi».
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Il laboratorio: il motore, il cuore della Pasqualina di oggi.
Un momento della preparazione dei Pasqualini, biscotti fatti soltanto
con ingredienti naturali.
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1912. Va bene l’amore, ma di cosa vivevano Piero e Pasqualina? Nei primi
anni di attività la destinazione d’uso del locale era varia: ristorazione, mescita di
vino e produzione di alimenti. Nasce così, con un nome quasi obbligato e una dedica
ad personam, il “Ristoro Cacciatori Pasqualina” che, passato indenne attraverso
due guerre, ampliato e ristrutturato è tutt’ora sede della pasticceria che porta quella
dedica nel nome.
L’immagine della trattoria come si presentava agli occhi dell’avventore affiora vivida
e poetica: «era un luogo magico e incantato». A far da cornice all’edificio - nello
spazio oggi occupato dai capannoni di famiglia e in quello dove saranno collocati per
alcuni decenni i tre campi da tennis - era una distesa di vigneti. Un Paradiso verde
che faceva somigliare la Lombardia di allora alla Toscana di oggi. Completavano il
quadro da “giardino di delizie” un frutteto, un pollaio, collocato sul retro nell’aia
aperta della trattoria, e un campo di girasoli.
All’interno la sala era allora molto semplice e spartana: un bancone, di dimensioni
ridotte rispetto a quello attuale, dava il benvenuto all’ingresso; davanti ad esso
erano posizionati alcuni tavoli per mangiare, dove clienti abituali si intrattenevano
giocando a carte.
«Era un luogo magico e
incantato. Lì la sera lo zio
Piero mi raccontava storie
fantasiose»
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Spiccava un enorme camino dentro il quale ci si poteva sedere per scaldarsi nella
stagione fredda, «lì la sera lo zio Piero mi raccontava storie fantasiose».
All’avvenenza la padrona di casa univa altre virtù: innanzitutto era un’ottima cuoca.
La ristorazione aveva il suo punto di forza in piatti della tradizione popolare, una
cucina povera e di sostanza, che oggi è tornata di moda.
Nel menù della trattoria non mancavano mai trippa («che veniva servita in tazza»),
faraona e selvaggina, rigorosamente accompagnate da polenta. Zia Pasqualina era
ligia al dovere dell’accoglienza: «Alle sei di mattina quando arrivavano i primi clienti
era già in piedi». A decenni di distanza le abitudini non sono davvero cambiate di
molto: oggi tocca ad Alberto, il padre di Riccardo, aprire ogni giorno la pasticceria
all’alba e “viziare” i primi clienti con brioches appena sfornate.
Della mescita di vino era restata testimonianza nelle grandi botti ritrovate negli anni
Sessanta in cantina. Ma l’aspetto più interessante, in chiave prospettica, è legato alla
produzione propria di alimenti che, iniziata fin dai primi anni, è continuata fino
almeno alla metà degli anni Cinquanta.
«Ogni giorno un contadino della zona portava il latte fresco con cui la zia Pasqualina
faceva burro e taleggio che poi vendeva». Lo spazio adibito alla lavorazione era
adiacente all’osteria; una sala oggi recuperata nella nuova Pasqualina. Allora era
zona vietata ai “non addetti ai lavori” e forse proprio per questo meta di furtive
In una foto del 1898, Pasqualina, in piedi a sinistra, è ritratta
con la madre Maria, seduta al centro, le quattro sorelle,
Caterina, Maria, Carolina, Anna e il fratello Pasquale.
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scorribande della piccola Marinella: «C’era un odore molto forte, ma entrarci valeva
e commerciale, si ritrovavano nel loro piccolo anche alla Pasqualina di allora: «si
sempre la pena. Di nascosto andavo a mangiare la panna che si formava sul latte».
allestivano tavoli all’aperto, c’erano musica, balli e canti». Era l’occasione per gare
di imitazione del canto degli uccelli, a bocca libera o con zufoli, strumento nella cui
Già all’epoca uno dei momenti più attesi dell’anno era, a metà agosto, la Fiera degli
costruzione erano famosi gli artigiani della Valle Imagna.
Uccelli nel paese limitrofo di Almenno San Salvatore.
L’evento, allora, aveva il carattere di una festa popolare: Zia Pasqualina, che aveva il
La tradizione, tutt’ora viva, fu istituita nel 1934 per dare spazio e riscontro ad una
senso degli affari, in quell’occasione chiedeva alla giovane nipote di stare sulla soglia
attività praticata in tutte le cascine del luogo, l’allevamento degli uccelli da richiamo,
dell’osteria: «le prime volte non comprendevo perché. Poi ho capito, era per “attirare”
utilizzati nei capanni e nei roccoli della Lombardia e del Veneto. Come a dire che
clienti».
accanto all’aspetto folcloristico legato all’uccellagione ce ne era anche un altro,
Consapevole della sua bellezza e con un pizzico di vanità civettuola tutta femminile
economico, che negli anni era cresciuto e che trovava compiuta espressione in una
Pasqualina amava essere al centro dell’attenzione, ricevere sguardi di spasimanti,
sagra di grande richiamo, un evento talmente popolare per il territorio che c’è ancora
che poi con carattere fermo sapeva tenere a distanza. Il suo profilo si rispecchia alla
adesso chi colleziona le cartoline dell’epoca con scritte del tenore Polenta noa, ùsei de
perfezione in un aneddoto ricordato dalla nipote: «Avevo sedici anni e un cliente
passada, ì de butiglia; l’è ona paciada! (ovvero “polenta appena fatta, uccelli di passo
entrando mi guardò, poi si rivolse alla zia e le disse che ero proprio una bella ragazza».
e vino di bottiglia; che bella mangiata”).
Poteva finire lì, invece, Pasqualina, per non concedere alla nipote la soddisfazione
Ma la sagra era anche, si direbbe oggi, una fiera di settore in cui convenivano
di aver ricevuto un complimento, rispose all’avventore: «se trova bella Marinella,
“addetti ai lavori” da provincie e regioni vicine. Entrambi gli aspetti, folcloristico
non ha visto le sue sorelle!». Il colpo basso fu però ricambiato alla prima occasione.
«C’era un odore molto
forte, ma entrarci valeva
sempre la pena. Di nascosto
andavo a mangiare la panna
che si formava sul latte».
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Le cento Pasqualine
Venuta a conoscenza di un vecchio spasimante della zia, Marinella le giocò un brutto
tiro. «In paese abitava un signore che da sempre era invaghito di mia zia, tanto da
averne un ritratto in casa. Pensando proprio a lui le dissi che lo avevo incontrato
per caso e che mi aveva fatto dei gran complimenti…gli ricordavo qualcuno, disse.
Raccontai poi alla zia che - saputo che ero la nipote della Pasqualina - mi disse che ero
ancora più bella di lei da giovane!». Anche stavolta però la spuntò la zia che sbottò in
un commento lapidario: «Si vede che non si ricorda come ero».
In ogni caso Marinella non svelò mai alla zia il suo piccolo segreto.
Nel 1952 la scomparsa dello zio Piero segna la fine di un’epoca. La zia Pasqualina
ora, nella gestione del locale, si fa aiutare da Carolina, mamma di Marinella, e da suo
marito Luigi. Di lì a poco si trasferiranno nei locali sopra l’osteria con la numerosa
famiglia. Le cose alla Pasqualina stavano per cambiare…
Alcuni schizzi relativi al Ristoro Cacciatori Pasqualina,
quella che poi sarebbe diventata La Pasqualina.
In una foto degli anni 50, Pasqualina Locatelli si affaccia da
una finestra sopra il suo locale.
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Le cento Pasqualine
Ingredienti e materie prime.
Tra storia e curiosità.
Il Latte
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Un viaggio nel gusto dal 1912
Il Latte
(per dirla tutta, un alimento galattico)
Il latte è da sempre simbolo di vitalità.
Nel sapere popolare gli vengono attribuite capacità quasi universali di restaurare forza vitale e gioventù:
rimedio per il raffreddore, antidoto ai veleni, cura di bellezza. È un alimento primordiale, il primo
di cui tutti i mammiferi si nutrano, ed è preposto alla crescita.
La mitologia Greca associa il latte ai misteri dell’universo. Zeus desiderava che il
proprio figlio illegittimo Eracle, nato dall’unione con una mortale e perciò egli
stesso mortale, succhiasse il latte dal seno di sua moglie. Era per acquisire la
vita eterna. Furtivamente, di notte, il padre degli dei mise il bimbo sul petto
di Era dormiente. La dea però se ne accorse e lo scacciò. Uno schizzo di latte
bagnò il cielo nero, che da allora è striato di bianco. Si originò così la Via Lattea,
la nostra galassia: gli ammassi di stelle si indicano con un termine che deriva
direttamente dalla parola greca gala, cioè “latte”.
Gli antichi greci non erano gli unici a formulare fantasie siderali sull’origine di
questo alimento fondamentale. Italo Calvino nelle “Cosmicomiche” (1965) immagina
che anticamente gli esseri umani salissero sulla Luna per raccogliere latte dai suoi crateri.
Il latte lunare di Calvino è un alimento «molto denso, come una specie di ricotta. Si formava
negli interstizi tra scaglia e scaglia per la fermentazione di diversi corpi e sostanze di provenienza
terrestre». Anche se le “sostanze” di cui lo scrittore fa un lungo elenco sono del tutto improbabili, il suo
rimane un delicato omaggio fantascientifico alle reali ricchezze del latte, che contiene praticamente tutti i
principi nutritivi necessari all’alimentazione umana: proteine, grassi, zuccheri, vitamine (A, B2, B12) e sali
minerali (calcio, fosforo, zinco, potassio e sodio).
Insomma, un cibo galattico.
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Piccole grandi storie, sogni,
passioni e altro ancora.
il pastore di api
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Andrea Paternoster
46 anni
«Ogni anno a primavera mi crescono le ali e le antenne, ogni
anno divento un’ape». Rivela con tono serio, convincente, Andrea
Paternoster. «Solo così riesco a guardare il mondo dal loro punto di
vista, dall’alto».
Dietro questa metamorfosi c’è la storia di una famiglia nelle cui
vene da oltre novant’anni scorre il miele: «Quando hai un nonno
che ti ha regalato nome e cognome e che ti ha fatto conoscere il
mondo delle api hai il destino segnato; lo è stato ieri per mio padre,
lo è oggi per me e forse lo sarà domani per le mie figlie».
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GUARDO I PRATI COME LI
GUARDEREBBERO
LE MIE API
Di suo Andrea - 46 anni, creatore del marchio d’eccellenza Mieli Thun - ci ha aggiunto
l’orgoglio con cui svolge questo mestiere - «fare qualcosa che sia bello da raccontare ai
propri figli» - e la sintonia, profonda e totale, con la natura. «Essere apicoltore significa
avere un contatto diretto con il mondo vegetale: conoscere le fioriture, la meteorologia,
l’orografia del territorio». Il suo è un lavoro nomade e poetico: come un pastore porta a
spasso il “gregge” di api. «Sono gli unici animali che mentre si nutrono non distruggono
ma anzi donano la vita perché impollinano il fiore. Ape, nella mia testa, è una parola che fa
rima con vita». Andrea non si accontenta di produrre miele in Trentino, in Val di Non, ma
viaggia dalle Alpi al Meridione, in cerca dei “pascoli” migliori. «Quando trovo un posto
adatto, lascio le api “vuote” a inizio fioritura e dopo dieci giorni, prima che cominci la
successiva, le riprendo». Così il miele che produce non è solo monofloreale, cioè da una sola
specie di fiore o albero, ma addirittura da “monofioritura”, legato a una singola fioritura,
in un determinato posto. «L’idea è venuta dal vino - spiega - Per ogni piatto c’è un vino
diverso e appropriato, perché non poteva essere lo stesso con il miele?». Con cura maniacale
Andrea è andato anche oltre: «il miele di quintessenza», una sorta di “cru”, si direbbe in
enologia, «prodotto solo con nettare raccolto al culmine della fioritura; le possibilità di
“contaminazione” con altri nettari sono ridotte al minimo».
Il sogno che sta realizzando l’ha chiamato “Rinascimento del miele” significa «riportarlo
al ruolo originario di prodotto nobile dell’alimentazione».
Due le strade: la valorizzazione della biodiversità - «delle circa 18 mila specie vegetali
dell’Europa, quasi la metà, 8 mila, sono presenti in Italia» e la diffusione della cultura del
miele - «è molto di più di un medicamento per i mesi piovosi o di un toccasana per il mal
di gola e altri malanni». In questo percorso non è solo: ha trovato la collaborazione, oltre
che delle api, di botteghe, ristoratori, chef e pasticceri che ne dimostrano la versatilità in
cucina e nell’alimentazione quotidiana.
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Un viaggio nel gusto dal 1912
Ingredienti e materie prime.
Tra storia e curiosità.
Il miele
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Il miele
(cibo degli dei)
Veniva chiamato Cibo degli Dei e mai nome fu più meritato. La storia del miele è intrecciata a
leggende, miti e racconti che si perdono nel passato millenario.
Fu usato nell’antico culto di Mitra, celebrato dai filosofi, ne parlava la Bibbia:
miele selvatico e cavallette il “menù” di Giovanni il Battista nel deserto. Gli
Egizi ne mettevano alcuni vasi nelle tombe accanto ai defunti, perché
rendesse più dolce l’ultimo viaggio, dopo avere addolcito la vita.
Per secoli - fino alla scoperta dell’America che segnò la massiccia
diffusione della canna da zucchero - aveva in esclusiva la virtù di rendere
più “dolce” la vita. Ma i suoi usi spaziano da quello alimentare a quello
rituale; Greci e Romani ne scoprirono il valore curativo ed estetico.
A Sparta era usato perfino nell’imbalsamazione dei sovrani. Pare che il
matematico Pitagora, vissuto nel VI secolo a.C., si nutrisse solo di quello. Mica
male come regime alimentare visti i risultati geniali raggiunti: ancora oggi sui
banchi di scuola si studia il suo teorema.
E a proposito di calcoli: quanto dovrebbe volare e quanti fiori dovrebbe visitare una singola
ape per produrre 1 kg di miele? Le cifre sono da capogiro: l’insetto dovrebbe compiere 60
mila viaggi di andata e ritorno dall’arnia per un totale di 150mila km ovvero quattro volte il
giro della terra; e fare 82 milioni di passaggi da un fiore all’altro per raccoglierne il nettare. Il
tutto in 50 giorni che è la durata del ciclo vitale delle api operaie (la regina può vivere invece
fino a 5 anni). Per loro fortuna le api non “lavorano” da sole ma in squadra.
Un alveare di 30mila api ogni giorno visita in media 225mila tra fiori e piante: vale a dire che
per 1 kg di miele “bastano” 2 milioni e settecento viaggi.
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Ingredienti e materie prime.
Tra storia e curiosità.
uova, burro, farina
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uova, burro e farina
(protagonisti assoluti di ogni ricetta)
I tre ingredienti insieme sono l’ABC della pasticceria, l’equivalente in poesia della rima baciata
cuore-amore o per dirla con un ritornello pop di qualche anno fa, sono come “Sole Cuore
Amore”. Insomma uova, burro e farina sono qualcosa senza cui il sentimento non lievita e
neppure la torta. Impossibile sapere chi per primo abbia deciso di farli incontrare.
Infine, a completare la triade c’è il burro, alimento ricco di vitamine che si ottiene dalla
Le uova sono simbolo di vita, ma anche un alimento presente sulle tavole di tutto il mondo.
lavorazione della crema di latte ovvero dalla panna. Pare che la sua storia risalga ad almeno
Nell’antichità già gli Egiziani e poi i Greci allevavano galline, mentre i Cartaginesi preveferivano
duemila anni prima di Cristo, e che in origine non fosse usato come alimento ma nella cosmesi,
mettere in tavola uova di struzzo. È nato prima l’uovo o la gallina? L’enigma è destinato a
nella cura del corpo e in medicina come unguento. Asia, Europa o Mediterraneo, quale che
rimanere senza soluzione. Meglio allora cambiare domanda: viene prima l’uovo o la farina?
sia “patria” del burro, si doveva comunque trattare di una regione settentrionale: il processo
In un diagramma evolutivo l’uovo sta all’uomo cacciatore, come la farina all’uomo coltivatore.
attraverso cui si forma il burro (detto burrificazione) richiede una temperatura non superiore
Nella storia dell’alimentazione vince l’uovo, ma in cucina non è così: senza una “montagnetta”
ai 15 gradi. In Italia, per legge, quando si parla di burro si intende un prodotto di latte vaccino,
di farina in cui adagiare le uova è impossibile fare un impasto! La farina si ottiene macinando
ma esiste anche di capra e all’estero di yak. Per un chilo di burro occorrono circa 25 kg di latte.
cereali - soprattutto grano, ma anche mais, segale, riso o miglio - e altri prodotti come legumi
(ceci, piselli, fagioli, soia), fecole (patate, castagne, tapioca).
Quello che insieme i tre “amici” possono fare in cucina lo raccontano manuali ed enciclopedie
Ogni farina ha caratteristiche diverse, ma tutte sanno soddisfare il palato. Meglio, invece,
e lo confermano le pance dei golosi.
tenersi alla larga dalla farina fossile, fatta con i gusci di alghe: fu usata da Alfred Nobel come
Del resto, ogni ricetta che li vede protagonisti riesce gustosa, forse perchè la bontà è scritta
“ingrediente” per la dinamite.
“dentro” i loro nomi: BUrro uOva fariNA.
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Le cento Pasqualine
Un viaggio nel gusto dal 1912
TELEVISIONE E GELATO
(dove cambiano le mode ma non i gusti)
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Un viaggio nel gusto dal 1912
TELEVISIONE E GELATO
«Con l’animo profondamente commosso diamo il seguente triste annuncio: il
Sommo Pontefice Giovanni XXIII è morto». Ad Almenno San Bartolomeo la notizia
della scomparsa del papa bergamasco - era nato nel 1881 in un paese non lontano da
lì, a Sotto il Monte - arriva il 3 giugno 1963 attraverso la televisione. Con lo stesso
mezzo erano arrivate quattro anni prima, nel 1958, le immagini della sua elezione al
soglio pontificio in quello che, secondo il critico televisivo Aldo Grasso, fu il primo
media-event italiano. La Rai aveva iniziato le proprie trasmissioni nel 1954. Allora
erano pochissimi a possedere un apparecchio; gli abbonati erano circa 88mila e il
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Le cento Pasqualine
A seguire sul piccolo schermo la
notizia della morte del Papa BUono
c’era più o meno tutto il paese.
Un viaggio nel gusto dal 1912
2012.
La rivoluzione, nel ‘95, è iniziata con il gelato. Spiega Riccardo:
«Il fatto è che la gente guarda prima il colore: il verde è per il pistacchio, anche se
poi il sapore nella maggior parte dei casi non ha nulla a che fare con il gusto vero
costo medio di un televisore si aggirava sulle 250mila lire. La visione era pubblica,
del frutto». Così fin da subito si è dato una regola: «se è pistacchio deve sapere di
collettiva e condivisa e avveniva il più delle volte in luoghi di ritrovo o in esercizi
pistacchio». Semplice da dire, meno da mettere in pratica perché significava puntare
commerciali: bar, latterie, trattorie. In quegli anni il Ristoro Cacciatori Pasqualina
innanzitutto sulla qualità del prodotto. Per tenere fede al proposito il suo gelato era
non era certo l’unica osteria del paese, ma era l’unica con un apparecchio televisivo.
fatto con i pistacchi di Bronte ben prima che, nel 2009, l’Unione Europea conferisse al
A seguire sul piccolo schermo la notizia della morte di Papa Giovanni XXIII nel
prodotto l’etichetta DOP (Denominazione di Origine Protetta), facendolo conoscere
locale c’era più o meno tutto il paese. E il “pienone” si ripeterà qualche mese dopo,
e diventare quasi di moda. «All’inizio - racconta - in molti erano diffidenti perché il
nel novembre dello stesso anno, per le immagini dell’attentato a Kennedy.
gelato non era del colore verde cui erano abituati e dopo averlo assaggiato alcuni si
Più che su novità e potenzialità del mezzo vale qui la pena di soffermarsi sulla scelta
stupivano che sapesse davvero di pistacchio».
di una realtà periferica e di paese, quale era la Pasqualina negli anni Cinquanta, di
Il pistacchio è il fiore all’occhiello della Pasqualina. O meglio uno dei fiori
possedere un televisore. A posteriori, è la dimostrazione della lungimiranza di chi
all’occhiello, perché negli anni si sono aggiunti menta («che da noi è bianca perché è
allora teneva le redini del locale. Investire su quello che allora era l’ultimo ritrovato
fatta non con coloranti ma a partire dalle foglie»), zabaione e castagna. Mai sentito
della tecnica non è altro che la capacità di cogliere cambiamenti in atto nella società
parlare di Calizzano? La materia prima per il gelato alla castagna della Pasqualina
e di intuire, prima di altri, mode e tendenze di successo. Le stesse virtù che vanno
viene da quella località della Val Bormida. «Questo gusto ce l’abbiamo in pochi: noi
riconosciute a chi la Pasqualina la guida cinquant’anni dopo.
e qualche gelateria nei dintorni di Calizzano» dice con orgoglio Riccardo. Per ora! viene da aggiungere - Visto come è andata con i pistacchi di Bronte.
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Le cento Pasqualine
1963.
Un viaggio nel gusto dal 1912
Lo stesso anno di Papa Giovanni XXIII muore anche Pasqualina,
dopo essere stata per oltre mezzo secolo l’anima del locale. L’osteria passa in mano
alla nipote Lina che da qualche anno con il marito Luigi aveva affiancato Pasqualina
nella gestione quotidiana. Nel locale c’era la tv, come ricordato, e già sul finire degli
anni Cinquanta in molti si ritrovavano lì per seguire le puntate del popolare quiz
“Lascia o raddoppia?”. «Le donne si portavano da casa le sedie - aggiunge Donatella - e
a turno gli uomini la legna per il camino con cui si riscaldava la sala». Donatella,
per tutti Tella, è la figlia della balia che crescerà Riccardo e come una sorella per
lui; abitava a un passo dalla trattoria. È sempre stata una di famiglia, la sua vita è
ruotata (e continua tutt’ora a ruotare) attorno alla Pasqualina. «Si pagavano cinque
lire per poter assistere alle trasmissioni» aggiunge Manuela, figlia maggiore di
Edda, una delle 3 sorelle di Marinella, primogenita di Lina e Luigi. Anche le loro
vite sono strettamente legate a questo luogo. Edda proprio in quegli anni apre nei
locali adiacenti alla trattoria - dove oggi è stata ricavata una saletta - un negozio di
parrucchiera. Non ci sono molte notizie al riguardo, ma di una cosa Manuela è certa:
«era il primo negozio del genere, in paese».
La rivoluzione è iniziata nel
1995...se è pistacchio, deve
sapere di pistacchio.
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2012.
«Un bravo ristoratore deve essere davanti agli altri; un passo in più
dei concorrenti, mezzo passo sui clienti, per anticipare i cambiamenti di gusto» parola
di Riccardo. A 27 anni, quando prende in mano la Pasqualina ha le idee chiare: «dal
primo giorno ho iniziato a investire sulla qualità del prodotto». Ma la prima cosa da
far quadrare erano i conti: «la sera, quando chiudevo il locale, mi mettevo a un tavolo
e provavo a capire dove volevo andare e come fare per arrivarci».
Si trattava, per cominciare, di trovare i soldi da investire nella produzione.
«Mi addormentavo a tarda notte, quand’era già l’alba». È il periodo in cui Riccardo
con piccole idee che colgono perfettamente le nuove esigenze del momento allarga
il giro dei clienti. «Nei week end si lavorava bene, ma volevo che ci fosse gente anche
durante la settimana così ho preso contatto con una ditta che produce giochi da
tavolo e me li sono fatti mandare».
Negli anni Novanta la Pasqualina “vestita” da ludoteca funziona a pieno regime sette
giorni su sette. Sempre per venire incontro alle mode (e agli appetiti notturni) di un
pubblico giovane, Riccardo lancia lo spuntino di mezzanotte: brioches fresche e pane
appena sfornato. La cosa già funzionava in grandi città, ma in un piccolo paese era
una novità assoluta.
Superate di slancio le difficoltà del periodo iniziale (“I primi sei mesi sono stati i
più duri”) Riccardo può finalmente cominciare a investire sul prodotto: il gelato,
innanzitutto, che finora era prodotto da un laboratorio artigianale esterno. «Non
bastava, volevo che il mio gelato fosse unico e solo nostro».
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Un viaggio nel gusto dal 1912
Per garantire l’alta qualità c’era un solo modo: seguire la lavorazione in tutte le fasi.
«D’ora in poi il gelato ce lo facciamo noi» più o meno con queste parole Riccardo
ha comunicato la novità allo staff della Pasqualina. Per fare spazio a mantecatori
e pastorizzatori ha chiesto e ottenuto dallo zio Abele un pezzo del capannone
adiacente, divenuto un laboratorio.
Da allora la formula del «d’ora in poi facciamo da noi» i collaboratori di Riccardo
se la sono sentita dire più di una volta: per il cioccolato come per le brioches. E
pure, per un altro primato del locale: la preparazione di infusi e tè in foglie. Per la
degustazione del tè è stata creata una apposita sala; la stessa che mezzo secolo prima
aveva ospitato il negozio di parrucchiera della zia Edda.
Anni ‘60. Già dalla fine degli anni Cinquanata, poi nel decennio
successivo, la Pasqualina - nel senso della trattoria al piano di sotto, ma pure del
mondo di affetti e relazioni familiari, al piano di sopra - ruota attorno a Lina e Luigi.
Marinella in proposito riferisce di una felice mescolanza dei due “piani”, il privato e
il pubblico, che rimarrà una costante anche nei successivi decenni. Di quando «alla
fine dell’inverno dalle stanze di sopra si portavano al pian terreno i materassi che
nella sala della trattoria venivano aperti per cardare la lana» oppure delle volte che
a locale chiuso «noi delle generazioni più giovani mettevamo su i dischi e l’osteria
diventava una sala da ballo».
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I figli davano una mano pure dietro il bancone e in cucina, prima di sposarsi e
prendere, lavorativamente, altre strade.
Tra questi anche Rosa, mamma di Riccardo, che già allora si muoveva con il piglio
del comando. È lei a rinnovare l’immagine del vecchio Ristoro Cacciatori, senza
tradirne lo spirito: il locale mantiene il carattere di un ritrovo semplice e alla
mano, ma con l’aggiunta di un’impronta più moderna e al passo con i tempi. Vale
in proposito l’introduzione di un cocktail come lo Skiwasser (succo di limone,
sciroppo di lampone e soda). Anche qui, un’idea semplice ed efficace. La novità ebbe
un immediato successo anche perché faceva sentire i clienti della Pasqualina al pari
di quelli dei ritrovi montani più “in” dell’epoca.
Sul piglio di Rosa ricorda Tella: «Ero la più piccola, facevo un po’ di tutto. Rosa era
molto esigente passavo le mattinate a lucidare le mele da mettere sulla tavola. Mi
sembrava di essere Ceneretola. Guai se non luccicavano a dovere».
Lina e Rosa, mamma e figlia, erano diverse per carattere, molto legate anche se
spesso in disaccordo. In una cosa erano simili: l’attenzione e la professionalità con
cui svolgevano il lavoro. «A loro non scappava niente» sintetizza in maniera efficace
il nipote Luigi, figlio di Abele.
Nonna Lina nel ritratto del nipote, pure cresciuto alla Pasqualina (il padre aveva
un’attività imprenditoriale nei terreni attigui alla trattoria) appare così: «Era
un’ottima cuoca, aveva il senso del commercio ed era una persona molto generosa;
La Pasqualina - nel senso della
trattoria al piano di sotto, ma
pure del mondo di affetti e relazioni
familiari, al piano di sopra - ruota
attorno a Lina e Luigi.
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divideva sempre il cibo che rimaneva dopo la chiusura serale con chi restava in
cucina». Era una donna semplice e di buon carattere: «in tanti anni non l’ho mai
vista una volta arrabbiata e neppure alzare la voce con noi bambini».
A sostegno dell’atteggiamento solare ed estroverso di nonna Lina, la figlia Marinella
rievoca un buffo episodio avvenuto intorno alla metà degli anni Sessanta: un giorno
entra in trattoria un forestiero. Un distinto signore di Milano che stava andando
in Valle Imagna per trovare una donna, una vedova, con cui magari metter su
famiglia. Un bicchiere di vino, poi un altro e un altro ancora e il cliente cambia
idea e rivolgendosi a Lina: «Quasi quasi…anziché salire in valle aspetto lei. Che ne
dice?» e lei, con piglio ironico e divertito risponde: «Ma certo! Perché no? Ma passi
stasera dopo le sette e mezzo.» E alla domanda dello sconosciuto sul perché dovesse
attendere quell’ora, la risposta arriva tempestiva: «vorrei chiedere a mio marito e ai
miei sette figli se sono contenti». Al che il corteggiatore si dilegua all’istante.
Da allora la formula del «d’ora
in poi facciamo da noi» i
collaboratori di Riccardo se la
sono sentita dire più di una volta
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In quegli anni - siamo dopo la metà degli anni Sessanta - i cambiamenti non
A praticarlo erano, per tradizione, persone della buona società; le stesse che giravano
riguardano solo l’interno e il piano abitazioni, che viene ampliato per soddisfare
intorno all’esclusivo “Golf Club Bergamo l’Albenza” nato nel 1961 sempre ad Almenno
le nuove esigenze di chi ci vive, ma soprattutto e in maniera più evidente l’esterno.
San Bartolomeo.
I lavori riguardano la realizzazione di un dehor e di un campo da bocce, nell’area
I campi della Pasqualina li fece costruire nonno Luigi, innanzitutto, come gesto
antistante il locale. Sul retro dove oggi c’è il parcheggio, c’erano già un orto e un
d’affetto: perché i figli, Abele e Franco in particolare, potessero coltivare la passione
frutteto, viene ora creata una serra che garantisce frutta e verdura, prodotti genuini
per questo sport.
e di stagione. Altro che chilometro zero oggi tanto di moda, lì la distanza dal campo
Forse fu questo il motivo per cui, pur richiamando una clientela chic, la Pasqualina
al piatto era solo di qualche metro.
non divenne mai ritrovo esclusivo, mantenendo invece sempre il profilo di un
ambiente familiare e popolare.
Accanto a queste modifiche, funzionali al miglioramento dell’attività di ristoro,
Che Luigi e Lina avessero intuito anche le potenzialità economiche legate a questa
arriva un’altra importante novità, che con il passato della Pasqualina sembra avere
nuova attività sportiva è probabile. L’Italia sospinta dal boom economico stava
assai poco a che fare. L’atterraggio di tre “astronavi” nei terreni limitrofi, sempre di
cambiando abitudini e costumi sociali; di riflesso uno sport considerato elitario
proprietà di famiglia. Così dovevano apparire i tre campi da tennis in terra battuta,
come il tennis stava acquistando popolarità.
così lontani - almeno sulla carta - dalla storia e dal mood di una provincia come la
Alla Pasqualina la racchetta raccoglieva proseliti anche tra i giovani soprattutto di
Bergamasca, famosa per l’operosità dei suoi abitanti più che per le occasioni di svago.
città, che nel tennis vedevano un divertimento alla moda e di tendenza. Così è per
A maggior ragione, se si trattava di divertimenti da cittadini, da ricconi un po’ snob,
Alberto, un giovane di Bergamo, che proprio con una compagnia di amici in quegli
come agli occhi di chi viveva in un paese poteva apparire il tennis allora.
anni inizia a frequentare i campi di Almenno.
Altro che chilometro zero
oggi tanto di moda, lì la
distanza dal campo al piatto
era solo di qualche metro.
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Che il tennis rientri a pieno titolo tra i
primati della Pasqualina non ci sono dubbi,
anzi è forse il più bizzarro
«Galeotto fu il tennis» dice oggi Alberto, papà di Riccardo, che tra una partita e
l’altra conosce Rosa, la ragazza che di lì qualche anno sarebbe diventata sua moglie.
Che il tennis rientri a pieno titolo tra i primati della Pasqualina non ci sono dubbi,
anzi è forse il più bizzarro: oltre ai due campi da gioco all’aperto viene costruito il
primo campo coperto della provincia di Bergamo. Quello del tennis sembrava un
vezzo destinato a durare solo qualche stagione, sarà invece una scelta che segnerà nei
decenni successivi il destino della Pasqualina.
Per adesso, però, è ancora la trattoria il centro del mondo alla Pasqualina, quanto a
giri d’affari e relazioni familiari.
Genitori e figli sono tutti lì quando nel 1968, nel mezzo di un pranzo arriva una
notizia drammatica.
«Mamma Lina era come se se lo sentisse che qualcosa non andava. Era agitata e
inquieta» racconta Marinella, la voce ancora turbata al ricordo, nonostante siano
passati più di quarant’anni. È lei a rispondere alla chiamata dell’ospedale e a riferire
la notizia ai familiari: Edda in ospedale per il parto, è morta mettendo al mondo la
terza figlia. Aveva quarant’anni.
Nella pagina accanto alcuni istanti di vita famigliare e del tennis: Ugo Tognazzi che presenzia alla
premiazione del torneo a lui dedicato “Pignatta d’oro”; Lisetta sorride ritratta tra i fratelli Preda; Rosa e
Alberto all’uscita dalla chiesa il giorno del loro matrimonio.
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Dai semi gettati nei campi
(da tennis) crescono,
infatti, i primi frutti: nel 1968
nasce Riccardo, primogenito
di Rosa e Alberto.
«Quel lutto ha cambiato la nostra storia. Ha cancellato in un attimo tutte le cose belle
che avevamo costruito negli anni».
Ancora più toccanti le parole della figlia Manuela: «Quando ho sentito suonare le
campane a morto, ho capito subito che erano per la mamma anche se mi avevano
detto soltanto che non stava bene».
Per la famiglia, che era sempre stata molto unita, è un colpo duro, durissimo. Difficile
in questo stato d’animo mandare avanti un esercizio commerciale, impossibile
guardare lontano e mettere energie ed entusiasmo nel lavoro. Il clima del ristorante
cambiò, non c’era la voglia di fare.
È il periodo più buio della Pasqualina, ma anche quello in cui si intravedono timidi
segnali di rinascita. Dai semi gettati nei campi (da tennis) crescono, infatti, i primi
frutti: nel 1968 nasce Riccardo, primogenito di Rosa e Alberto; l’anno dopo Lisetta e
Franco, pure conosciutisi sulla terra rossa, si sposano.
Rosa e Riccardo in uno dei numerosi momenti passati sulla terra rossa.
In quegli anni “seconda casa” di tutta la famiglia.
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Un viaggio nel gusto dal 1912
Ingredienti e materie prime.
Tra storia e curiosità.
le ciliegie
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Come ben riflette la simbologia
biblica
del
paradiso
terrestre,
la frutta sarebbe un cibo per esseri
superiori.
Per la medicina rinascimentale, la vicinanza al cielo
dei frutti che crescono sui rami era indice che erano
prodotti adatti agli stomaci delicati dei nobili, mentre
i “frutti” della terra, come tuberi e radici, erano quelli
adatti agli stomaci forti dei poveri, che invece di ciliegie,
pesche e albicocche dovevano nutrirsi di rape, patate e cipolle.
Le ciliegie
Macchiarsi del peccato di aspirare a un cibo proibito può costare caro, come ben sappiamo,
(come si suol dire, una tira l’altra)
perché il frutto può portarsi dietro ospiti striscianti e indesiderati. Tornando sulla terra, il
folklore ha elaborato una serie di proverbi per metterci in guardia da certi pericoli. All’inizio
L’accesso “democratico” alla frutta è più recente di quanto si pensi. All’inizio del XX secolo
dell’estate, si dice, è meglio astenersi dal consumare ciliegie, perché “a San Vito le sarièse ga
il consumo pro capite di frutta fresca era solo di 33 Kg. Fino alla prima guerra mondiale, nei
el marìo”, recita un proverbio veneto. San Vito cade il 15 giugno. Il marìo, il marito, che in
ricettari popolari si trovano ben pochi dolci preparati con la frutta fresca. Negli anni Novanta
Toscana chiamano confidenzialmente Gigi e in Piemonte Giuanìn, non è certo minaccioso
il consumo è quadruplicato.
come il serpente di Adamo ed Eva, ma di certo a nessuno piace condividere le proprie ciliegie
A differenza di altri prodotti della natura altrettanto semplici, la frutta è sempre stata riservata
con il classico “bacarozzo”. Anche se il fatto che anche lui le apprezzi è indubbiamente indice
alle classi sociali altolocate.
della loro divina bontà.
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Piccole grandi storie, sogni,
passioni e altro ancora.
Lo gnomo delle castagne
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RAFFAELE corrado
200 anni
«Mi presento, sono Raffaele dell’azienda le Giaire di Calizzano e ho
duecento anni. Sono uno gnomo». Cosa fa una creatura dei boschi
per campare, al giorno d’oggi? «Affumica castagne».
Raffaele scherza, ma non troppo. Le sue castagne sono davvero
un prodotto da favola. Nei boschi di Calizzano e Murialdo
nell’entroterra savonese, in autunno si levano piccoli fumi.
Inequivocabile presenza degli “gnomi” locali, ossia i membri
dell’associazione locale dei produttori di castagne che hanno
riportato in vita antiche pratiche, diventando un presidio Slow
Food.
Da queste parti con i castagni si fa tutto. Non si butta niente, spiega
Raffaele: «quando in autunno cadono i ricci, noi li raccogliamo
con metodo antico, ancora a mano, con pinze di legno di castagno
che si chiamano drizzere. Sembrano dei ferri di cavallo schiacciati.
Cosa fa una creatura dei
boschi per campare, oggi?
Affumica castagne
Li prepariamo durante l’estate: tagliamo dei rametti di castagno,
li mettiamo a bagno, li pieghiamo piano piano, così diventano
elastici».
Raccolti i frutti senza rimetterci le dita, li si porta al teccio, una
casetta fatta di legno di castagno dalle fondamenta al comignolo.
«Il tetto è di scandole, rettangoli di legno di castagno di 40 per 20
cm. È molto resistente, perché le scandole contengono tannino che
le rende immuni alla marcescenza. Sovrapponendole una all’altra
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per il 40%, una parte rimane all’asciutto, così il tetto può essere
rigovernato rovesciandolo: lo si gira e lo si riusa. Alla fine del
ciclo, lo si trasforma in legna da ardere». Il teccio è un essicatoio.
All’interno c’è un soppalco a due metri dal soffitto, la graia. Le
castagne, rigorosamente della varietà locale detta Gabbina, o
Gabbiana, vengono sparse qui sopra, mentre sotto si accende un
fuoco che attraversa il tavolato e le asciuga. La graia è di castagno,
ça va sans dire.
A questo punto comincia la vera fatica gnomesca, per la quale ci
vogliono arti magiche: «la fiamma non deve essere troppo alta,
devono salire solo il fumo e il calore. La temperatura all’interno
non deve alzarsi di più di 30-35°. Questo procedimento dura 60
giorni e ci deve essere sempre qualcuno di noi che alimenta il fuoco,
o lo calma. Si cerca di mantenere la brace. Per soffocare il fuoco se
è troppo alto si usa la buccia delle castagne raccolte l’anno prima,
che si chiama pula, come quella del grano. Il suo profumo sale e
conferisce un aroma affumicato alle nostre castagne».
Dopo due mesi di trattamento sono pronte per essere lavorate:
macinate al mulino per fare la farina, oppure diventano l’ingrediente
di uno squisito e rarissimo gelato di castagne essiccate. «Una volta
si davano ai bambini come caramelle, perché si sciolgono in bocca»
ricorda Raffaele. «Ma era tanti, tanti anni fa».
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Piccole grandi storie, sogni,
passioni e altro ancora.
il moltiplicatore
di frutti
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ROmano Micheletti
52 anni
Romano Micheletti di Bolgare, nei pressi di Bergamo, è appassionato
di giardinaggio. Un giorno del 1982 decide di coltivare da sè delle
mele. Sogna dei frutti rossi e succosi come quelli di Biancaneve.
Entra in un vivaio e chiede un albero che produca mele Stark, le
sue preferite.
Lo pianta in giardino. Dopo due anni di amorose cure, il melo
produce i primi frutti, che si rivelano essere tutt’altra varietà.
«Porca miseria!» esclama Romano, «com’è che chiedo una cosa e
me ne danno un’altra?».
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Nasce così l’idea di un frutteto in cui ognuno possa scegliere
varietà di frutti: «le pesche Rosa del West, Glo Haven, Maria
personalmente la varietà di frutti che preferisce. Perché le mele
Bianca; le albicocche Tonda di Costigliole, Valleggia ligure, Valeria
non sono tutte uguali, e neanche i nostri palati. Nei tre decenni che
della Val Venosta, Reale d’Imola, Boccuccia Spinosa, Pellecchiella e
sono seguiti, Romano si è dedicato allo sviluppo di un modello di
Portici del Vesuvio...» e via di seguito.
frutticultura innovativo.
Terzo. Romano è riuscito a trasformare il suo hobby in un lavoro
«L’idea era realizzare un frutteto per poter far entrare la gente.
redditizio, in un settore che era in piena crisi: ignorando tutte le
Significava uscire dagli schemi classici, nella scelta delle varietà
consuetudini del mercato, che imponevano prezzi bassi per frutta
ma anche nella forma delle piante, che devono essere accessibili da
sempre più standardizzata; saltando i grossisti e rivolgendosi
terra, il più basse possibili». Comincia nel 1996 con un ceraseto. Ha
direttamente alle papille gustative dei consumatori; aggiungendo,
un tale successo che presto ne nascono altri, perché il primo non
compresa nel prezzo, l’esperienza irripetibile di scegliersi il proprio
riesce a soddisfare tutte le richieste.
frutto staccandolo da un ramo.
L’idea di Romano, che oggi ha 52 anni, ha prodotto diversi risultati
Infine Romano ha contagiato con il suo esempio diversi colleghi,
degni di nota.
che hanno iniziato a investire nel settore e coltivare ciliegie, pesche,
albicocche e kiwi. Si è creata così una rete di dieci coltivatori che
sembra di stare in
paradiso, con la
differenza che se qui
cogli una mela, nessuno
ti caccia
seguono il suo modello, garantendo la stessa qualità nei loro frutteti.
Ai clienti sembra di stare in paradiso. Con la differenza che qui,
se cogli le mele, non solo non ti caccia nessuno, ma puoi anche
ritornare. Magari per le ciliegie.
Innanzitutto i suoi frutti hanno sapore. Sono buoni. Pare una
banalità, ma quando nello spazio di pochi filari si possono
assaggiare una quarantina di diverse varietà di ciliegie, il reparto
frutta del supermercato appare subito un luogo triste e monotono.
Un secondo risultato è il contributo notevole alla preservazione
della biodiversità. Romano snocciola litanie suadenti sulle sue
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Ingredienti e materie prime.
Tra storia e curiosità.
MANDORLE e nocciole
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Se questo non è un miracolo...Insomma, nei frutti tondi sopravvive una mistica allegra. Il
regista Nanni Moretti, noto devoto dell’arte pasticcera, se ne ricorda in una predica ispirata
di Don Giulio, protagonista de “La messa è finita”: «Ti ricordi di quando ci comprava le
nougatine? Metà cioccolatino e metà caramella». In realtà, la caramella è un croccante di
zucchero e nocciole. Appartiene alla vasta schiera di dolcetti piemontesi in cui le nocciole
sono protagoniste: gianduiotti, cremini, biscottini brutti-ma-buoni. Sugli incarti trionfano
personaggi bizzarri, maschere grottesche, marchi di automobili. E non dite che brut ma bun
è un nome serio. Perfetti per riempire di dolcezze i bambini. Forse è merito dell’atmosfera
sospesa del paesaggio collinare delle Langhe, ma l’autunnale nocciola sembra proprio fatta
apposta per scongiurare gli scherzetti delle “Witch Hazel” nostrane.
Per le mandorle è tutt’altra storia. Le sue radici affondano nella mitologia greca. Basti pensare
Mandorle e nocciole
(streghe, fate e tanta salute)
che a causa delle mandorle Sir Edward Burne-Jones passò dei bei guai. Correva l’anno 1870
e per la pudibonda Inghilterra, l’immagine di una fanciulla fusa nel tronco di un albero,
da cui emergeva per afferrare un giovane totalmente nudo, era troppo. Se poi aggiungiamo
che la signorina aveva le fattezze dell’amante del lord, possiamo immaginare la portata dello
“scandalo”. L’acquerello incriminato fu rimosso dall’esposizione della Reale Società degli
Negli anni Cinquanta, dalle matite del disegnatore Carl Barks, il papà di Paperino, uscì un
Acquarellisti e Sir Edward costretto a dimettersi. Nonostante fosse uno dei maggiori esponenti
personaggio insolito. “Witch Hazel” fu creata per un cortometraggio intitolato Trick or Treat,
della corrente pittorica pre-raffaellita, aveva commesso il peccato di dare un volto a Fillide,
“Dolcetto o scherzetto”, ma non ebbe grande successo negli Stati Uniti.
la mitologica regina di Tracia che si innamora di Demoofonte, figlio di Teseo. Come ricorda
Una volta trasportata in Italia, però, la Strega Nocciola (questa era la traduzione quasi letterale
anche Ovidio nelle “Eroidi”, il ragazzo un giorno se ne va, promettendo che tornerà dopo sei
del suo nome), divenne uno dei beniamini delle pagine del settimanale Topolino, dove esordì
mesi. Ma si sa come sono gli uomini: Fillide aspetta e lui non si fa più vedere. La poveretta si
nel 1956 in una storia ambientata a Carnevale.
dà la morte per il dispiacere. Per fortuna siamo nell’antica Grecia: c’è sempre un dio pronto a
Allora di Halloween si sapeva poco o nulla, ma forse il successo europeo della strega pasticciona
intervenire in questi casi e Fillide viene tramutata in un mandorlo. Finalmente Demoofonte
si può spiegare in altro modo, ricorrendo a echi di leggende che sin dall’antichità legano gli
ripassa da quelle parti e preso dal rimorso abbraccia il tronco dell’albero, che - miracolo -
alberi di nocciole a presenze femminili magiche. Una leggenda narra che nelle campagne di
invece delle foglie si ammanta improvvisamente di bellissimi fiori bianchi, nonostante il pieno
Otranto le streghe usassero rami di nocciolo per trovare tesori nascosti. Nella “Cenerentola”
inverno. Ecco perché i mandorli fioriscono precocemente.
dei fratelli Grimm non è una fata, bensì una pianta di nocciole a dare alla fanciulla il vestito
Nel lungo viaggio tra l’oriente, di cui sono originarie, e l’occidente, in cui sono consumate
per il ballo. La regina delle fate Mab viaggia in un cocchio fatto da un guscio di nocciola nel
abbondantemente per le innumerevoli virtù riconosciute sin da tempi antichi (versatili,
“Romeo e Giulietta” di Shakespeare. E di nocciolo sono le bacchette dei rabdomanti.
nutrienti, rimedio all’ubriachezza e antidepressivi naturali), le mandorle non sono mai riuscite
Così narra la leggenda. La storia invece ci dice che le nocciole furono l’ingrediente magico che
a scucirsi di dosso l’associazione con l’amore e la sensualità. Sicuramente è merito anche del
permise ai cioccolatai piemontesi di sopravvivere durante l’epoca napoleonica: il cacao costava
profumo avvolgente come le braccia della bella Fillide, la cui effige oggi può essere ammirata
caro, ma “tagliandolo” con l’umile pasta di nocciole si ottenne il gianduia.
alla Birmingham Art Gallery, dove Sir Burne-Jones è stato generosamente perdonato.
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Le cento Pasqualine
Un viaggio nel gusto dal 1912
NON SI SCHERZA CON NONNO LUIGI
(dove il carattere burbero nasconde il cuore vero)
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NON SI SCHERZA CON NONNO LUIGI
Sono in molti nel coro di voci che dà corpo alla storia della Pasqualina ad avere
qualcosa da raccontare sul nonno Luigi.
I ricordi di Riccardo e del cugino, che di nome fa pure lui Luigi, convergono su un
punto.
«Il nonno? Era il tipo che ti faceva lavorare sodo, anche se eri piccolo».
Da bambini questo significava soprattutto una cosa: quando il nonno era nei
paraggi, meglio non farsi trovare a portata di voce, altrimenti…«Si finiva per dover
interrompere i giochi e correre da lui - racconta Luigi - C’era sempre qualcosa, dal
suo punto di vista, di più importante da fare. E guai a non obbedire. Ci faceva rigare
dritti».
Nonno Luigi Preda ai comandi del suo biplano al campo
di aviazione di Brembate Sopra nel 1924.
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Le cento Pasqualine
«Il nonno? Era il tipo che
ti faceva lavorare sodo,
anche se eri piccolo».
Un viaggio nel gusto dal 1912
dolore, con vantaggio di essere subito liberi ma con il rischio di ricevere qualche
altro incarico; oppure si poteva suddividere il carico in più viaggi. Comunque fosse
i “carichi” erano una seccatura quotidiana che difficilmente da bambini si riusciva
Aggiunge Riccardo: «Nonno Luigi era una persona burbera, ma di gran cuore.
ad evitare.
Avevo dieci anni quando è scomparso. Nella vita aveva già sofferto molto e la
scomparsa della figlia era stato un duro colpo. Mi voleva molto bene e mi faceva
Il lavoro di “togliere i sassetti” riguardava invece i campi da gioco: era una mansione
lavorare». Forse quello era soltanto il suo modo per dimostrarlo.
meno faticosa, ma non per questo più gradita.
I tennis - al plurale, come si diceva allora usando il termine per indicare non soltanto
Al riguardo occorre fare una breve precisazione: siamo in una terra, quella Bergamasca,
lo sport, ma pure il luogo dove era praticato - andavano preparati prima dell’arrivo
dove più che altrove la laboriosità era - e continua ad essere - un valore. Qualcosa da
dei giocatori. Il lavoro in questo caso consisteva nel pulire con una scopa le righe dalla
trasmettere da una generazione all’altra. Per farsene un’idea basta pensare al fatto
terra battuta che vi si era depositata o nel chinarsi per togliere eventuali sassolini,
che la parola “cosa” nel dialetto orobico neppure esiste: si dice “laurà”. E di cose da
foglie o altri piccoli oggetti dal terreno di gioco.
fare - di laurà - ce n’erano per ogni età, nessuno ne era esentato.
Un incarico che poteva richiedere pochi minuti, ma da ripetere più volte nella
Per Riccardo - che con i nonni viveva, dopo i primissimi anni passati con la balia - così
giornata: ad ogni turno di partite e ad ogni nuovo arrivo di giocatori, perché il campo
come per gli altri nipoti la cui adolescenza ruotava attorno alla Pasqualina, i laurà
fosse sempre in perfette condizioni.
corrispondevano, ad esempio, a dare una mano in trattoria o sui campi da tennis.
Un altro laurà a misura dei piccoli era spazzare il cortile.
«Fare carichi» o «togliere sassetti» sintetizza Riccardo.
A ripensarci oggi, Riccardo vede chiaramente il senso di quelle piccole fatiche: «Sono
«Nel primo caso - spiega - la mansione consisteva nello scendere in cantina per
grato a mio nonno per avermi trasmesso i valori del lavoro, del sudore, dell’onore
risalire con carichi di bottiglie». Erano le bibite da mettere in frigorifero per i clienti
che viene prima dei soldi». Dietro quei compiti c’era una grande lezione di vita: «la
della trattoria. Si poteva scegliere di portare tutto insieme, tipo via il dente via il
correttezza nei rapporti con le persone. Il fatto che mantenere la parola data è ciò che
«Fare carichi» o «togliere
sassetti» sintetizza Riccardo.
Due laurà a misura di bambino.
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ti permette di tenere la testa alta e guardare la gente negli occhi». Da quelle esperienze
Riccardo ha imparato anche l’importanza di avere cura di un luogo, il rispetto per
il lavoro degli altri, l’attenzione con cui offrire un servizio di qualità. Elementi che
sono il trait-d’union tra quello che la Pasqualina era sempre stata - e continuava ad
essere - e la nuova Pasqualina, che sarebbe nata da lì a pochi anni, facendo tesoro di
quelle quotidiane “lezioni di vita”.
Non la pensava, però, così Riccardo da bambino, quando un giorno nonno Luigi
gli chiese di scopare la ghiaia del vialetto accanto al dehor. «Lo trovavo un lavoro
inutile, non capivo a cosa servisse. Oltretutto lui mi stava alle spalle per controllarmi,
voleva vedere se davvero facevo come mi aveva chiesto. Persi la pazienza e mi misi
a spazzare la ghiaia come un forsennato. Ci misi vigore ed energia. Poi mi voltai e
gli chiesi con rabbia se andasse bene così. Il nonno sorrise, annuì e non disse nulla».
Non servivano parole. Sì, così andava bene, Riccardo oggi l’ha capito.
Di parole non ne servirono neppure in un’altra occasione. Un episodio in cui
Riccardo capì di avere sbagliato.
«C’era l’abitudine, prima di andare a dormire, di dare il bacio della buona notte
al nonno che stava seduto in poltrona nella sala del bar» racconta ancora oggi con
un pizzico di imbarazzo. «Chissà perché quella sera mi venne l’idea di prendere di
nascosto dallo scaffale una tavoletta di cioccolata». La infila furtivamente nel pigiama
per mangiarla una volta salito in camera. «Quando sono arrivato davanti al nonno,
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mi sono abbassato per salutarlo ed è successo il guaio: la tavoletta è scivolata lungo i
pantaloni uscendo dai piedi. Sotto i suoi occhi. Non ha detto nulla, ma il suo sguardo
mi è bastato».
2012. Che sia per farsi perdonare quell’ingenuo peccato di gola che Riccardo
ha voluto che il cioccolato diventasse un ingrediente fondamentale nelle ricette della
Pasqualina?
La vera cultura del cioccolato viene dal Belgio ed è lì che va personalmente a
procurarsi la materia prima per il gelato, le torte, le praline, la cioccolata e i dolci di
pasticceria. Il cacao, da Ecuador, Costa Rica e Nuova Guinea, è declinato in un’ampia
gamma di prodotti, compresi alcuni golosi e arditi abbinamenti con tè in foglie (un
altro pallino).
Nel piccolo laboratorio ha trovato spazio una temperatrice che scioglie e tempera il
cioccolato mantenendolo liquido, pronto all’uso.
Ingredienti scelti e macchinari sono il punto di partenza, ma non bastano per una
cioccolata al top, quella che Riccardo vuole sia servita ai suoi clienti. Occorre l’arte
(segreta) del pasticcere, per questo chiama maestri internazionali a lavorare gomito
a gomito con il personale del suo staff. Per trovare la perfetta consistenza, il giusto
equilibrio tra il troppo liquido e il troppo denso. Si va per tentativi, serve pazienza,
ma alla fine il risultato arriva. Ed è quello che davvero fa di una cioccolata la “bevanda
dei re”, come la chiamavano gli antichi Maya.
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Anni ‘70. Negli anni Settanta, dopo il grave lutto familiare, la trattoria
Dopo i primi anni di matrimonio a Brembate i due vengono a vivere alla Pasqualina
funziona quasi esclusivamente come bar per chi gioca a tennis.
dove Franco dà lezioni di tennis e si occupa della gestione degli impianti. Quasi
Il cambiamento rispetto al passato è sottolineato anche dal nuovo nome del locale:
naturale che il padre Luigi, che morirà alla fine degli anni Settanta, pensasse in
non più il poetico e evocativo “Ristoro Cacciatori Pasqualina”, come era stato fino ad
primis a lui per il proseguo dell’attività. E così avviene: Franco e Lisetta si occupano
allora, ma il più pratico “Bar dei tennis Preda”.
dei tennis e del bar.
In questo momento difficile, a far da collante, cioè a tenere unita la famiglia, è
proprio il tennis sia come passione sportiva dei figli sia come servizio alla comunità
Lisetta ricorda ancora i dubbi iniziali legati a quel cambiamento di vita: «Innanzitutto
che favorisce anche la nascita di nuove relazioni.
non ero una della famiglia; la Pasqualina mi piaceva, ma non avevo un legame
particolare e profondo con il luogo, come poteva essere per chi c’era cresciuto». Poi
Franco è quello che con maggior determinazione si dedica a questo sport, arrivando
c’era il fatto che aveva sempre fatto un altro mestiere, era impiegata; per un po’ ha
a conseguire il diploma di maestro a Roma e a farne una professione.
lavorato come segretaria anche alla Saveral, l’azienda limitrofa di suo cognato Abele,
Così come era accaduto a Rosa - mamma di Riccardo - con Alberto, anche lo zio
che faceva zincatura e trattamenti galvanici (oggi si occupa di verniciatura).
Franco ha conosciuto la futura moglie Lisetta sulla terra rossa della Pasqualina.
Prosegue Lisetta: «Con bar e ristorazione non avevo mai avuto a che fare, se non
«All’inizio - racconta lei - non mi piaceva, non era il mio tipo. Eravamo molto diversi.
come cliente. Dietro il bancone mi sentivo a disagio».
Mi dava lezioni di tennis; in campo era perfetto, impeccabile». Dalle lezioni all’altare
il passo è stato breve.
Lisetta avrà tutto il tempo di ricredersi: se la Pasqualina è arrivata a spegnere cento
candeline una parte del merito va anche a lei, che ha raccolto la sfida e passato il
testimone all’ultimo (per ora) staffettista, Riccardo.
Il cambiamento rispetto
al passato è sottolineato
anche dal nuovo nome del
locale: “Bar dei tennis Preda”.
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Anni ‘80. Nel frattempo, sempre verso la fine degli anni Settanta,
È l’estate del 1984 quando zia
Lisetta decide che è venuto
il momento di provare a far
rinascere la Pasqualina.
inizia una serie di lavori che prosegue fino all’inizio degli anni Ottanta e che dà alla
Pasqualina il volto che in buona parte ha ancora oggi.
Gli interventi di ristrutturazione, importanti e onerosi, riguardano in un primo
tempo le parti abitative. A dimostrazione che - se in quel periodo ad occuparsi
della gestione di bar e tennis erano rimasti prima i nonni, poi gli zii - la Pasqualina
continua ad essere un punto di riferimento per la vita familiare: il centro verso cui
Ricevuti con schietta e sincera cordialità gli attori di grido venivano trattati quasi
convergono gli affetti, il luogo a cui far ritorno, il nucleo attorno al quale cresce e
come persone di casa, fatta eccezione per qualche immancabile foto ricordo (ora
si sviluppa una fitta rete di rapporti che comprende - oltre ai figli - nuore, generi e
appese alle pareti del bar).
nipoti in numero crescente.
«Quando arrivò la Muti - racconta Luigi - in paese lo sapevano tutti e io stesso con
Occasionalmente la cerchia si allarga anche a personaggi noti, star del cinema e
gli amici mi appostavo vicino ai tennis per vederla da vicino».
personaggi della tv, portati da Rosa, che lavorava nel mondo dello spettacolo e che
A fronte di queste presenze celebri, la situazione economica era tutt’altro che florida:
alla Pasqualina è tornata a vivere con la sua famiglia.
il giro d’affari legato ai campi da tennis era limitato e l’attività del bar molto ridotta,
I nomi sono quelli altisonanti per l’epoca di Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Ubaldo
anche perché il restyling che aveva riguardato i piani sopra ora era arrivato ai locali
Lay (popolarissimo per il personaggio televisivo del tenente Sheridan), Ornella Muti
del piano terra.
e altri.
È l’estate del 1984 quando zia Lisetta decide che è venuto il momento di provare a
Lontano dai riflettori, trascorrono giornate tranquille giocando a tennis e
far rinascere la Pasqualina. La scintilla è stata una vacanza ad Alassio. «Con Franco
condividendo pranzi e cene con i membri della famiglia. Un trattamento non da vip
e Marinella passeggiando vedevamo bar, grandi e piccoli, tutti pieni di gente. Il
ma informale o - come si dice - alla buona.
pensiero è sorto spontaneo: un bar ce l’abbiamo anche noi e pure spazioso, perché
Del resto il Bar dei Tennis, nella sua breve storia, non è mai stato un circolo esclusivo
non provare a farlo funzionare?». Detto, fatto.
né ha mai voluto esserlo, pur avendone avuto l’occasione.
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«Prima che con le
macchine, il gelato lo si
fa con carta e penna»
La missione era partita già prima di rientrare a casa.
«Andavo da un locale all’altro per vedere come funzionava. Entravo nei bar e mi
facevo dare depliant e menu. In altri buttavo un occhio: sono sempre stata una molto
attenta ai dettagli. Lì andavano di moda coppe molto elaborate e cocktail appariscenti
che dalle nostre parti non erano ancora arrivati».
Nel giro di sei mesi la Pasqualina riapre al pubblico come bar gelateria.
«L’inaugurazione - ricorda con una punta d’orgoglio - avvenne all’inizio del 1985,
alla presenza del sindaco del paese e di molte persone».
Fin da subito la nuova gestione di Lisetta e Franco lascia intravedere chiaramente
quelli che saranno alcuni tratti comuni con l’approccio che avrà dieci anni dopo
Riccardo. «Non mi sentivo preparata per mandare avanti un bar - spiega Lisetta così mi sono avvalsa della consulenza di chi ne sapeva di più, un professore di un
istituto alberghiero. Volevo apprendere meglio le basi del mestiere». Lo stesso ha
fatto il nipote qualche anno più tardi.
Appunti di lavoro...piccole comunicazioni quotidiane dove carta e penna sono
ancora il segreto di una produzione di qualità.
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2012. Quando nel 1995 ha deciso che la Pasqualina avrebbe avuto il suo
gelato fatto in casa, Riccardo non aveva idea di cosa questo significasse realmente.
«Per capirlo - ammette - sono andato a imparare da un gelataio storico di Bergamo,
il signor Miglietto, che con generosità ha trasmesso gratuitamente a me e molti altri
il suo sapere. Mi ha insegnato che, prima che con le macchine, il gelato lo si fa con
carta e penna».
È una questione di dosi, quantità e proporzioni tra gli ingredienti. E una volta capiti i
segreti del gelato, Riccardo si è messo a girare in lungo e in largo l’Italia in cerca delle
materie prime migliori con cui farlo. Oggi che la filosofia del made in Pasqualina si è
allargata ad altri prodotti il modus operandi è rimasto lo stesso. Riccardo chiama in
sede specialisti della ristorazione e maestri pasticceri che tengono corsi e workshop
al suo staff. Sono occasioni preziose per formare la squadra e tenerla al passo con
tendenze e novità del settore.
A marcare l’ideale continuità tra la Pasqualina di ieri e quella di oggi è anche altro.
Il principale elemento d’arredo della pasticceria - il bancone - è rimasto lo stesso di
allora. Ancora più significativo, il dato che riguarda il personale in servizio: alcune
delle persone assunte vent’anni fa da Lisetta come giovani cameriere, lavorano
ancora lì e hanno un ruolo di responsabilità nel team di Riccardo.
Alcune delle persone assunte
vent’anni fa da Lisetta
lavorano ancora nel team di
Riccardo.
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Piccole grandi storie, sogni,
passioni e altro ancora.
iL FRATELLO DEI limoni
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Luigi ACETO
77 anni
«I limoni li ho nel cuore. Anzi nel sangue». Luigi Aceto è nato a
Ravello il 12 giugno 1935, figlio di Salvatore, nato a Minori, nipote
di Pantaleone, nato a Ravello, pronipote di Antonio, nato a Ravello
pure lui, nel 1825.
Come i suoi avi, coltiva limoni sulla costiera amalfitana.
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«Sono l'ottavo di tredici figli. Vivevamo tutti in una stanza e i miei genitori andavano a
fare l'amore sotto le piante di limone. Sono stato concepito così. Da bambino, a sei anni,
già andavo a lavorare i limoni sulle piazzole e non pensavo alla scuola.»
Per essere uno che sostiene di aver «leticato con la cultura» e che «conosce solo la zappa, il
potatoio e la forbice», Luigi sa un sacco di cose.
Racconta che anticamente, quando Amalfi era la prima repubblica marinara d'Europa,
gli abitanti della costiera sapevano che imbarcare limoni sulle navi serviva a salvare i
marinai dai malanni, come il famigerato scorbuto.
sono nato tra i
limoni non posso
vivere senza
Spiega che il limone è speciale, perchè è alimento benefico, medicina, cura di bellezza, tutto
insieme. «Cicatrizza e disinfetta le ferite; con la buccia facciamo il nostro celebre liquore,
il limoncello (quello vero!). Persino i semi si usano: i francesi li vogliono per la cosmesi».
Afferma con fierezza: «Nel mio piccolo sono stato determinante per sensibilizzare le autorità.
Siamo in un territorio patrimonio dell'umanità riconosciuto dall'Unesco. Nonostante
questo, un territorio da sempre svantaggiato, dove la vita è dura. Ai limonicoltori locali
deve essere dato un riconoscimento particolare. Sono degli eroi: con i tempi che corrono la globalizzazione, la crisi dei prezzi - loro continuano a coltivare i limoni qui. Sono loro i
veri custodi di questo territorio».
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solo quando sono tra
i miei limoni mi sento
qualcuno
«Quando pensiamo che non è solo un fatto economico, ma che noi
facciamo un prodotto che fa bene all'umanità, capiamo che fare dei
sacrifici serve a tutta la società, non solo a noi».
Luigi, nonostante i settantasette anni, non si ferma mai.
Si alza al mattino alle cinque e torna a casa la sera. «Tutto il tempo lo
passa tra i limoni», racconta tra il divertito e il disperato la moglie,
che l'ha conosciuto quando aveva solo tredici anni.
Aggiunge la signora Aceto: «Anche se stiamo insieme da una vita,
tanto che lo conosco cchiu’io c'a mamma c'o fece, non lo vedo mai.
Un tempo la gente mi chiamava la vedova Aceto!».
Luigi sorride e si stringe nelle spalle: «Solo quando sono tra i miei
limoni mi sento qualcuno, perchè mi riconosco in loro. Quando sto
in mezzo agli uomini mi sento...meno importante».
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Piccole grandi storie, sogni,
passioni e altro ancora.
l accademico
delle mandorle
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«Io da bambino ho sempre mangiato pane e mandorle, non si parlava d’altro in famiglia».
Pasquale Campobasso si ricorda bene di quando lasciava i giochi degli amici per seguire con curiosità la potatura
dei rami o la raccolta dei frutti nell’azienda agricola fondata nel 1898 dal nonno.
«Sono nato nel 1962, la terza generazione di una famiglia che produce mandorle. Facevo ancora l’università a Bari,
"Economia e Commercio", quando mio padre mi chiese di dargli una mano».
Si potrebbe scambiarla per la classica storia del giovane che mette da parte i libri per aiutare i genitori. Ma
l’apparenza non inganni. C’è chi fa gli studi sul campo - anzi, sui campi - e ne ricava grande profitto.
Anche se la laurea l’ha presa a trent’anni, Pasquale oggi può fregiarsi del prestigioso titolo di "Accademico dei
Georgofili".
La storica istituzione fiorentina raccoglie dal 1753 coloro che fanno «continue e ben regolate sperienze, ed
osservazioni, per condurre a perfezione l’Arte tanto giovevole della [...] coltivazione» e conta tra i suoi membri
decine di studiosi e professori di scienze agrarie. Da qualche anno ha accolto tra le proprie fila anche alcuni
imprenditori che si sono distinti per l’eccellenza dei risultati delle proprie aziende agricole.
E pensare che negli anni Settanta le mandorle pugliesi, un tempo pilastro dell’economia locale, sembravano
spacciate dall’invasione delle sorelle californiane, che hanno una «buona macchinabilità: si adattano di più alla
lavorazione industriale, come panettoni e colombe. Le mandorle californiane sono tutte uguali, belle a vedersi,
ma non sono saporite». Sembra quasi che Pasquale parli delle Barbie della frutta secca.
I tedeschi, grandi consumatori di marzapane, si rivolgono oltre oceano e il mercato pugliese comincia a risentirne.
Babbo Francesco non demorde, e decide di investire sui semilavorati. Le mandorle restano il business di famiglia.
Il tempo gli darà ragione.
Per fare un torrone “come Dio comanda”, infatti, non c’è esotismo che tenga. I pasticceri lo sanno bene e continuano
a ricercare le “imperfette” mandorle di casa nostra, che qui vengono ricoperte di attenzioni speciali. «I 103 ettari
della nostra tenuta hanno l’aspetto di campi da golf. Invece dell’aratura, si pratica la trinciatura del terreno. Le
pietre vengono macinate. Con un grosso martello escavatore prepariamo il posto dove piantare il mandorlo,
rompendo nel sottosuolo la pietra e creando il giusto habitat, fresco ma drenante, per prevenire l’asfissia radicale».
Ovviamente c’è un costo. «La qualità spesso è un freno ai guadagni. La funzione dell’imprenditore è creare
Pasquale Campobasso
50 anni
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profitto e lavoro» Ma per un “amico della terra”, come vuole l’etimo del titolo accademico, è un po’ diverso: «Non
c’è dubbio che il profitto non basta. È l’amore delle cose fatte bene, del realizzare i propri sogni, del nome di
famiglia, a darci la spinta per migliorare sempre».
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LA ROSA
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(dove ci imbattiamo in un vulcano)
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LA ROSA
«Era un vulcano, una forza della natura».
Così Alberto ricorda la moglie Rosa. Come lui la pensano molti, se non tutti, quelli
che l’hanno conosciuta.
Rosa era di quelle persone che lasciano il segno e di cui in questa storia non si può
non parlare, sia per il ruolo importante che ha avuto nella storia della Pasqualina, sia
soprattutto per quello che ha saputo trasmettere ai figli come approccio alla vita. A
Riccardo prima e a Elena poi.
Rosa era una persona determinata a eccellere e consapevole di averne le qualità, in
tutto ciò che faceva metteva carattere, carisma e serietà.
Rosa Preda Schiavi alle prese con il lancio del
peso nei primi anni Sessanta, specialità atletica
che l’ha vista eccellere.
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Le cento Pasqualine
Da ragazza pratica atletica leggera, specialità lancio del peso; con la squadra dello
Sport Club Bergamo arriva al titolo italiano. A vent’anni è modernissima: scia, gioca
a tennis e, qualche tempo dopo, prende il brevetto di pilota d’aereo. A trenta è avanti:
cura eventi di moda e sfilate. La prima è stata nel 1969 per Yves Saint Laurent.
Quando poi decide di aprire un’agenzia lo fa alla sua maniera, ovvero richiedendo alle
modelle uno standard di professionalità che allora in Italia non esisteva. Racconta
Alberto: «della moda non sopportava l’aspetto frivolo, le ragazze che lavoravano per
noi giravano in divisa. Una cosa che non si era mai vista».
Inedito anche il progetto Fashion by Air, un tour della moda ideato da Rosa e
svilluppato in Italia e all’estero, che si appoggiava alla compagnia aerea Itavia e
alla catena Jolly Hotel. Basta pensare a lei per capire da dove viene un aspetto oggi
fondamentale nel lavoro di Riccardo: la voglia di essere innovativi.
Dentro e fuori dalla Pasqualina, Rosa contagia la sua vita e quella di chi le sta
intorno con idee e scelte molto moderne. Come moderna, per allora, è anche l’idea
di diventare rappresentante della Vestro, il marchio che per l’Italia era l’antesignano
dell’e-commerce via posta, quando ancora Internet non esisteva; una formula per
entrare nelle case e aprire “finestre” su mode e tendenze nel mondo.
Nella pagina accanto, alcune immagini di Rosa.
In basso con Ornella Muti e Franco Preda “ai tennis”.
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Donna intraprendente, curiosa e di vedute aperte. Di quegli anni rimase memorabile
un suo viaggio a Londra: «tornò carica di oggetti e vestiti - ricorda la sorella
Un viaggio nel gusto dal 1912
Ciò che il cliente trova da
noi non deve trovarlo da
altre parti
Marinella - Maglioni, orologi, collane e abiti in stile beat allora in voga. Sapeva intuire
le tendenze. Con tutto quell’ambaradan di materiali allestì un mercatino nella sala
Nel 1968, dopo il bizzarro matrimonio in tuta da sci, Rosa e Alberto si trasferiscono
da pranzo della trattoria». I giovani facevano la fila per le novità made in London.
a Bergamo.
Altrettanto memorabili, almeno in famiglia, erano i battibecchi tra Lina e Rosa,
«Sono cresciuto in città, in un quartiere popolare, - ricorda Alberto - Passavo ore
mamma e figlia.
a giocare in cortile; per vivere avevamo l’indispensabile». Dopo il servizio militare
negli Alpini inizia a lavorare nella vendita di latticini prima, poi per la raccolta e lo
La domenica mattina si potevano sentire ben distinti - anche da chi sorseggiava un
stoccaggio di pellami; infine come rappresentante per alcune grandi ditte americane.
caffè al locale, al piano inferiore - i battibecchi tra la battagliera Rosa, che adorava
È in quel periodo che conosce Rosa. «Il lavoro mi piaceva ma era faticoso, restavo a
spostare i mobili di casa e la calma e dolce nonna Lina. «Dai Rosa, lascia lì».
lungo fuori, in genere partivo al lunedì e tornavo al venerdì». Lo stesso si troverà a
«Mamma, per favore, lasciami fare eh!». Poi la nonna si metteva in poltrona con il
fare anni dopo il figlio con il suo lavoro in azienda. Una volta sposati e dopo la nascita
ventaglio e scuoteva la testa. Lo stesso accadeva per mille altre questioni quotidiane.
nel 1968 di Riccardo, Alberto coglie al volo l’occasione per cambiare. Quando Rosa nel
Le discussioni, però, duravano quanto un temporale.
1971 apre a Bergamo un’agenzia di moda si mette a lavorare con lei. L’agenzia Tiss-Moda
«Guarda lì, la sciura del bon ton». La pizzicava Lina vedendola bere “a canna”, dalla
- oggi passata sotto la direzione della figlia Elena - era allora una delle poche in Italia,
bottiglia. «Mamma, a casa mia potrò fare come mi pare?» replicava secca lei. E la
e la prima in città, per modelle. In questo Rosa continuava la tradizione di famiglia,
discussione finiva lì.
aggiungendo l’ennesimo primato.
«Di carattere erano come cane e gatto, ma si volevano un gran bene. Rosa è stata al
suo capezzale anche alla sua morte». Aggiunge Marinella.
Donna intraprendente,
curiosa e di vedute aperte.
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Le cento Pasqualine
2012. Talis mater…l’unicità è una delle regole fondamentali della gestione
di Riccardo. «Ciò che il cliente trova da noi non deve trovarlo da altre parti» spiega.
È il motivo per cui il gelato così come le brioches e gli altri prodotti che nascono nel
loro laboratorio non vengono venduti a terzi.
La pasticceria negli anni si è costruita un nome e molti negozi ed esercizi commerciali
si sono fatti avanti con richieste.
Ma su questo punto Riccardo non molla: «produrre qualcosa di esclusivo è un valore
aggiunto. Ci credo e lo difendo».
Il discorso non vale solo per i prodotti.
Le “ragazze” della Pasqualina indossano da sempre una divisa. Con la zia Lisetta era
una camicia con gilet a quadrettoni verdi e rossi. Con Riccardo sono arrivate vistose
polo rosse a manica lunga, poi sobrie camicie Oxford con manglioncino blu a scollo
a V.
Oggi il dress code Pasqualina prevede come divisa «un grembiule che avvolge il corpo
richiamando l’idea di un cono gelato» spiega Gio Pozzi, designer che l’ha creato e che
da anni progetta i punti vendita Pasqualina, curando arredi e dettagli.
È un rettangolo con una bretella, si indossa sopra un paio di jeans e una t-shirt
bianca. «Ad alcuni clienti piace ad altri no - spiega Riccardo - è questione di gusti».
Comunque sia, è un look che non lascia indifferenti, è originale. Unico.
Nella pagina accanto alcuni dettagli “unici” curati da Gio Pozzi, designer che
da sempre affianca Riccardo Schiavi nell’avventura Pasqualina.
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Le cento Pasqualine
Un viaggio nel gusto dal 1912
Dalla moda al cinema,
alla tv.
Sul lavoro i ruoli tra Rosa e Alberto sono chiari: «Lei era il comandante, io il soldato»
di affidarlo ai nonni durante la settimana. «Eravamo una famiglia poco allineata
scherza il marito. «Lavoravamo molto; tra i nostri clienti abituali c’erano le più
con una routine piuttosto anomala - ammette Riccardo - Se di ritorno da un
importanti aziende della moda italiana». La gestione dell’agenzia era professionale e
viaggio il frigo di casa era vuoto nessuno ne faceva un dramma. Avendo i parenti
insieme familiare: era normale che nipoti e figli venissero “arruolati” come modelli
vicini il problema si risolveva». Anche crescendo, per Riccardo, nonna e zii restano
per servizi di collezioni baby. E così in casa e negli archivi ancora campeggiano
punti d’appoggio sicuri: «quando da ragazzo rientravo tardi la sera era più spesso
insolite foto di gruppo con cugini e fratelli che posano per campagne pubblicitarie
nonna Lina piuttosto che mamma Rosa ad aspettarmi sveglia inquieta e a farmi la
di moda.
ramanzina».
Il carattere forte e al tempo stesso estremamente solare continua ad essere il suo
Verso la fine degli anni Settanta Rosa si occupa anche di alcune produzioni
tratto distintivo: «Rosa era capace di fare una scenata nel backstage se qualcosa non
cinematografiche italiane. Vengono girate a Bergamo alcune scene del film “Mani di
andava e un istante dopo presentarsi in passerella con il sorriso, ad annunciare la
velluto” (1979) con Adriano Celentano ed Eleonora Giorgi; la produzione si affida,
collezione» aggiunge Alberto. La stessa cosa accadeva quando dava una mano al bar
per comparse e location, all’agenzia di Rosa. A quella prima esperienza ne seguirono
della Pasqualina: bastava poco per farla “esplodere”. Anche in questo Riccardo ha
altre, tra cui “Nessuno è perfetto” (1981) con Renato Pozzetto e Ornella Muti, dove
preso da mamma. Chi in questi anni ha lavorato al suo fianco ha imparato a fare i
compare anche Rosa nel ruolo di una suora.
conti con i suoi sguardi fulminanti e con le sue fulminee arrabbiature.
Con alcuni di questi personaggi nascono rapporti sinceri e di profonda amicizia.
Sono spesso ospiti alla Pasqualina dove vengono trattati senza troppe formalità
L’agenzia di moda comincia a farsi conoscere, organizzando eventi di moda in
come persone di casa. Quello era per Rosa il suo mondo più privato, il luogo a cui
molte città, in Italia e all’estero. Capitava che Rosa e Alberto restassero lontano
era più attaccata. Tra i frequentatori della Pasqualina c’è anche Federico Fazzuoli,
da casa rientrando solo per il week end alla Pasqualina, dove la famiglia, dopo un
conduttore della popolare trasmissione di Rai Uno “Linea verde” con cui nasce
primo periodo a Bergamo, era tornata a risiedere. Impensabile che, tra impegni e
una insolita collaborazione. All’interno del programma Rosa ha una “finestra”, un
spostamenti, potessero occuparsi di Riccardo, ancora piccolo. Da qui la soluzione
appuntamento fisso dove parla del mondo della moda in una chiave innovativa;
Sul lavoro i ruoli tra Rosa e
Alberto sono chiari: «Lei era
il comandante, io il soldato»
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Le cento Pasqualine
Un viaggio nel gusto dal 1912
raccontando il lavoro di chi sta dietro la nascita di un tessuto, dal cashmere di Laura
Biagiotti al cotone di Missoni. Con una sensibilità che oggi si definirebbe “eco” crea
il marchio Modagricoltura. Il progetto ha una finalità etica: raccontare le fasi di
lavorazione che dalla fibra portano al lavoro finito; far conoscere l’agricoltura e il
lavoro degli allevatori di bachi, degli artigiani che danno corpo e forma a un tessuto
o a un prodotto. Lo stesso approccio di valorizzazione della manualità e del sapere
legato al passato si ritrova, oggi, in maniera diversa nel lavoro di Riccardo.
2012. «Quando si vuole puntare su materie di prima scelta - spiega - anche
i piccoli dettagli sono importanti. Non prestare attenzione al modo in cui servire il
gelato o il tè, è una mancanza di rispetto verso il lavoro mio e degli altri, oltre che
verso il cliente». È quello che Riccardo non si stanca di ripetere a ragazzi e ragazze del
suo staff. Tanto meticoloso e amante della perfezione, quanto curioso di conoscere il
volto e il lavoro di chi sta dietro alla qualità di una materia prima.
«Alla fine - conclude - ottenere un buon gelato da pistacchi o da nocciole di qualità è
un dovere anche verso chi, con passione, li ha prodotti».
Strettamente collegata all’idea di trasmettere la cultura del fare (e del saper fare) è,
per Rosa, “l’etica del quotidiano” ovvero l’attenzione a buona educazione e rispetto
per gli altri. Un insieme di pratiche virtuose, ereditato dalla famiglia, che trasmette
in primis ai suoi figli e che la spingerà poi a tenere corsi di comportamento nelle
Lo stesso approccio di
valorizzazione della manualità e del
sapere legato al passato si ritrova,
nel lavoro di Riccardo.
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Un viaggio nel gusto dal 1912
scuole. Ad uso di ragazzi - e non solo - nel 2004 scrive il libro “I nuovi barbari”
(edizioni AssModAgriCultura) che, ancora attualissimo, è un manuale ironico e
insieme una disamina dei difetti della nostra epoca.
Rosa scompare, dopo una malattia, il 20 ottobre del 2008. «Due giorni dopo
avrebbe compiuto 73 anni - ricorda la nipote Manuela - fino a dieci giorni prima
si era presa cura della Pasqualina, come amava fare. L’ho vista che puliva le sedie e
sistemava il giardino». Del resto chi, fino a qualche settimana prima, fosse entrato
nella pasticceria l’avrebbe trovata dietro la cassa, come sempre. E come sempre,
sorridente. Perché Rosa - s’è capito - era una che non sapeva stare con le mani in
mano. Non si tirava mai indietro, che si trattasse di fare un conto, di stare dietro il
bancone a servire caffè o in cucina per una mano.
Della scomparsa - lo stesso destino tocca nell’arco di un anno e mezzo ai fratelli
Franco e Abele - si sono occupati anche i quotidiani locali; in un articolo di quei
giorni si legge: “Amava definirsi semplicemente una «donna di cultura contadina».
In realtà era una donna forte, con mille idee e mille occupazioni, sempre sorridente
e disponibile. Per moltissimi anni aveva lavorato nei backstage dell’affascinante
mondo della moda. Organizzatrice di sfilate, pierre, modella, sportiva, mamma e
nonna”. Tutto vero, verissimo.
Rosa con Renato Rascel e con Vanda Osiris.
Alcune delle sue modelle posano con la divisa voluta da Rosa.
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Un viaggio nel gusto dal 1912
Un aspetto di non poco conto è che la morte sia avvenuta nella sua casa di Almenno
solo il giorno dopo: il cane, curioso, era entrato nel bagagliaio del pullman che aveva
San Bartolomeo. Sopra la Pasqualina.
accompagnato a casa i suoi padroni e vi era rimasto rinchiuso.
Chiarito il mistero, il caso rimane ancora aperto perché il pullman era rientrato alla
«Insieme abbiamo girato il mondo, condiviso molte esperienze, conosciuto tante
rimessa che si trovava a diversi chilometri da Almenno ma Napoleone, una volta
persone - ricorda Alberto - ma per lei la felicità era, dopo ogni viaggio, poter fare
riacquistata la libertà, non aveva atteso di essere riportato a destinazione, era fuggito
ritorno alla Pasqualina. Qui tornava con i piedi per terra, orgogliosamente attaccata
nei campi. È ormai sera quando, stremato e affamato, il cane arriva alla Pasqualina:
alle sue radici».
da solo, grazie al fiuto, aveva trovato la strada di casa.
Era l’unico luogo dove Rosa, sempre impeccabile sul lavoro, si concedeva un
Se avesse potuto parlare, quella volta anche lui, avrebbe probabilmente detto: «Questa
atteggiamento meno professionale e più rilassato, “guadagnandosi” per questo i
è casa mia».
bonari rimproveri di Riccardo quando dall’abitazione, scendeva nel locale in abiti
“da casa”, talvolta anche in ciabatte. Rimproveri ai quali lei rispondeva lapidaria:
«Questa è casa mia».
Dopo l’ultimo viaggio, quello di ritorno dall’ospedale, ritrova per qualche ora le
forze: giusto il tempo di dare l’addio ai suoi familiari. E alla sua casa.
Fa sorridere, infine, che il rapporto speciale con la Pasqualina, il piacere di tornarci
dopo un viaggio, non riguardi solo uomini e donne di famiglia, ma anche gli
animali. Napoleone era il cane di casa, un meticcio, ai tempi in cui Rosa e Alberto
lavoravano ancora nel mondo della moda (oggi invece il cane di casa è un labrador di
nome Paco). Una sera erano tornati da un viaggio a Bruxelles, ma dopo la consueta
calorosa accoglienza Napoleone sparisce misteriosamente. Il giallo viene chiarito
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Le cento Pasqualine
Un viaggio nel gusto dal 1912
Ingredienti e materie prime.
Tra storia e curiosità.
il Pistacchio
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Un viaggio nel gusto dal 1912
aromatico - siano dovute proprio alle ceneri vulcaniche. Insomma il lavoro dei ciclopi nella
fucina ha preparato il terreno perché crescesse la nodosa pianta del pistacchio. Una pianta che
da quelle parti si chiama scornabeccu, per la forma a corna di capra delle foglie, o spaccasassi,
per la caparbietà con cui si aggrappa alle rocce. La beffa per i ciclopi è che loro non hanno
neppure avuto l’occasione di assaggiarli i famosi pistacchi. A quel tempo, infatti, la pianta non
era ancora arrivata in Sicilia, vi fu portata intorno al 30 d.C. da Lucio Vitellio, governatore
della Siria, sotto l’impero di Tiberio, e da allora mise radici sull’isola, soprattutto durante la
presenza degli Arabi che ne favorirono la coltivazione. Il gesuita siciliano Alessio Narbone, che
scrive diversi secoli dopo - nel 1800 - dice che il pistacchio «ora vi cresce e con gran profitto si
spaccia», nel senso che godeva di una notevole fortuna commerciale.
La terra di origine del pistacchio (o pistacia vera) è l’area del Medio Oriente, soprattutto la
il pistacchio
Persia, così come persiano è il termine pesteh, divenuto in arabo fustuaq e in siciliano festuca.
Fu tra i tesori, racconta la Bibbia, che Giacobbe volle fossero inviati al faraone, mentre la regina
(l’oro verde)
di Saba lo considerava un frutto tanto prezioso da riservare l’intera produzione del suo regno
solo per sé e la sua famiglia; in Siria era sinonimo di ricchezza e veniva consumato solo da
chi apparteneva alle classi più agiate. Per gli Assiri aveva virtù curative e per i Greci era uno
Il segreto della bontà dei pistacchi di Bronte? I ciclopi. Sterope, Piracmone e Bronte erano tre
stimolante fisico (e sessuale). La scienza moderna ne ha confermato l’apporto energetico grazie
ciclopi che lavorano al servizio del dio Vulcano; tutto il giorno chiusi dentro l’Etna a fabbricare
alla presenza di vitamine e minerali.
fulmini (quelli che Giove scagliava poi sui poveri mortali) e neppure un momento per uscire
Il pistacchio di Bronte nel 2010 ha ottenuto dalla Comunità Europea la qualifica di prodotto
all’aria aperta a riposarsi dalla gran fatica. La leggenda mitologica sarebbe all’origine del nome
DOP, Denominazione di Origine Protetta; ogni anno in settembre, dopo il raccolto, la cittadina
della cittadina di Bronte, sulle pendici dell’Etna, in provincia di Catania, divenuta famosa nel
siciliana celebra il suo “oro verde” (e la fatica dei ciclopi) con una sagra popolare di grande
mondo per i pistacchi. Ma il legame con il frutto non si ferma qui; pare che le particolari
richiamo turistico.
caratteristiche del pistacchio di quest’area - colore verde intenso e accentuato sapore
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Piccole grandi storie, sogni,
passioni e altro ancora.
IL SOMELIER
DELLe nocciole
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Emanuele Canaparo
33 anni
Emanuele Canaparo sostiene che il suo mestiere è «dare modo alle
persone nel mondo di assaggiare un cibo che non troveranno mai
al supermercato».
Più che un lavoro sembra una missione, ma ripaga con soddisfazioni
notevoli: «è bello quando il cliente compra il tuo prodotto in un
negozietto e poi ti telefona per farti i complimenti. E ti viene anche
a trovare».
La sua azienda, “Nocciole d’élite”, a Cravenzana (CN), vende
direttamente ai privati, alle pasticcerie e alle gelaterie. Ne producono
circa 400 quintali all’anno. Quando Emanuele dice «nel mondo»,
non è un esagerazione. Le sue nocciole, oltre essere vendute in tutta
Italia, sono apprezzate dai palati fini di tutto il globo: dall’America
al Giappone.
Come si crea il frutto perfetto?
«La qualità della nocciola è data dal clima, dal terreno, dall’acqua e
dalla capacità dell’agricoltore di valorizzare le loro proprietà».
Alle spalle del mare, dove il clima non è mai troppo freddo né
troppo caldo, dove la terra è generosa ma la siccità è sempre in
agguato, ci sono i noccioleti della famiglia Canaparo.
Siamo nelle Langhe, luogo d’origine, per eccellenza, della nocciola
tonda gentile trilobata, meglio conosciuta come nocciola delle
Langhe IGP, che ha «un aroma, una fragranza tutta particolare».
Emanuele si intende di marchi di qualità. Fino a qualche anno fa
era un enotecnico e si occupava di vini.
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Nel 2008 l’azienda di famiglia ha preso piede e lui ha mollato tutto
per fare l’agricoltore.
La buona nocciola comincia dalla cura delle piante: «se non concimi
adeguatamente, le piante si indeboliscono. Ci sono due parassiti, la
cimice e il balanino: se la pianta è debole la attaccano più facilmente.
Per sconfiggerli usiamo solo piretro, che è un principio attivo molto
leggero, di origine naturale».
Poi c’è la raccolta. In autunno le nocciole cadono dagli alberi
e vengono aspirate con appositi macchinari. Se non sono da
conservare (nel guscio si mantengono anche un anno) vengono
passate in un frantoio che le sguscia senza rovinarle, divise per
dimensione e messe in celle frigorifere. Le più grandi sono tostate,
curando che non perdano fragranza, e messe immediatamente
sottovuoto per essere consumate intere.
il premio sono
i clienti che ritornan0
Con le altre si fanno la granella, la farina e, soprattutto, la pasta,
ingrediente per il gelato più squisito. L’azienda di Emanuele è
salita diverse volte sul podio del “Premio Novi Qualità”, ma per
lui «il premio più importante sono i clienti che ritornano e, anzi,
che fanno il passaparola. Questo ti rende felice». L’ultimo segreto
è quello decisivo. «Essere un’azienda famigliare permette di avere
un prodotto a un costo vantaggioso, ma soprattutto di qualità
migliore, perché è fatto con il cuore».
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Piccole grandi storie, sogni,
passioni e altro ancora.
Il personal trainer
delle mucche
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Ivan avogadrO
29 anni
A noi profani, se ci chiedessero di che colore è il latte, saremmo
capaci di guardare l’altro di traverso, tanto la risposta ci sembra
banale. La prospettiva cambia decisamente quando se ne mungono
seicento litri tutti i giorni, Natale, Pasqua e domeniche comprese.
Allora si scopre che il latte ha tante sfumature diverse, un po’ come
la neve per gli eschimesi.
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«D’inverno è più chiaro, d’estate è più giallino» racconta Ivan. Prosegue, con dovizia di
particolari: «Le mucche mangiano erba al pascolo, invece che il fieno nella stalla. Per
questo motivo i principi nutritivi variano.
45 signore da
amare e accudire
tutte le mattine
D’estate nel latte ci sono meno grassi. Al pascolo l’alimentazione è più varia e i sapori
cambiano. Anche nei formaggi si sentono le varie erbe. Il grasso può passare all’incirca dal
3,9% dell’estate al 4,10% dell’inverno».
Ivan ha 29 anni e fa la stessa vita che fece suo padre e, prima ancora, suo nonno.
Al mattino si sveglia alle 4.45, munge una cinquantina di mucche, pulisce la stalla, raccoglie
il latte e lo consegna. Le mucche vanno munte due volte al giorno, trecentosessantacinque
giorni all’anno. Il resto va fatto perché «devi garantire la freschezza». Il lavoro è d’altri
tempi, ma per fortuna non troppo. Ci sono strumenti moderni, come le mungitrici, nastri
che portano fuori il letame e dotti d’acciaio che portano il latte direttamente nei frigoriferi,
dove viene miscelato con un agitatore. Lì rimane a raffreddarsi per almeno un’ora (deve
raggiungere i 3 gradi) prima di essere consegnato ai distributori.
È un lavoro duro, ma oltre al pane ci sono anche le rose. Come i “concorsi di bellezza”
bovina. «Partecipiamo spesso a competizioni - racconta Ivan - ci sono circa tredici categorie
per le mucche, si valuta la mammella, la qualità del latte, il pelo. È una passione che porta
via tempo perché la mucca va preparata, il pelo tosato...però quando vinci e tutti ti dicono
che la tua mucca è la più bella, è una grande soddisfazione».
Ivan è figlio d’arte. L’azienda agricola Castelli esiste da oltre quarant’anni e lui ha cominciato
a lavorarci poco più che maggiorenne. La sua bambina ha solo due anni ma sembra molto
interessata al lavoro del papà. «Bisognerà vedere quando sarà più grande - commenta lui Non è che non è un lavoro da femmine, ci sono tante aziende in cui lavorano delle ragazze.
Ma bisogna aver passione, se no questo lavoro non lo fai».
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Le cento Pasqualine
Un viaggio nel gusto dal 1912
QUESTA È CASA MIA
(dove scopriamo i veri ingredienti)
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Le cento Pasqualine
Un viaggio nel gusto dal 1912
QUESTA È CASA MIA
Mille, diecimila, forse centomila. Chi ha mai contato le volte che ha messo piede in
casa sua? Nessuno. Neanche Riccardo, per quanto sia un amante della precisione,
l’ha mai fatto. Finora era entrato e uscito dalla Pasqualina un’infinità di volte.
E la Pasqualina era la sua casa: sopra l’appartamento dei nonni con cui era cresciuto;
sopra ancora quello della famiglia dove viveva con mamma, papà e sorella; sotto,
senza soluzione di continuità, il locale pubblico, gestito dagli zii Lisetta e Franco.
Quella volta, però, - era il primo gennaio del 1995 e Riccardo aveva ventisei anni - tutto
era diverso. Perché da quel giorno la Pasqualina era sua. Sarebbe stato lui a deciderne
il futuro e a costruirlo giorno per giorno.
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Le cento Pasqualine
Un viaggio nel gusto dal 1912
Avere oggi tra le mani un volume che racconta i cento anni del locale è garanzia che
Sono anni faticosi per la famiglia e Riccardo dimostra senso di responsabilità.
l’avventura avrà un lieto fine, ma non basta a spiegarne i motivi.
Dopo la scuola, lavora alla gelateria. Zio Franco aveva problemi di salute: «durante
Per conoscere gli “ingredienti” che negli ultimi diciotto anni - quelli con alla guida
i ricoveri in ospedale c’era sempre qualcuno di noi ad assisterlo. Tutti in famiglia
Riccardo - hanno portato la Pasqualina al successo occorre fare un passo indietro e
cercavamo di essere da supporto a zia Lisetta e quando non c’era nessuno che potesse
raccontare un altro pezzo di storia. Stavolta quella di Riccardo.
farlo, mi occupavo del bar. Mi mettevo a un tavolo con i libri di scuola, e se entrava
Il bambino che faceva i “carichi” per il bar, toglieva i “sassetti” dai campi da tennis
un cliente, andavo al bancone e lo servivo».
e spazzava il cortile, era diventato un ragazzo con la testa sulle spalle: «è vero, ho
capito presto la soddisfazione che danno le cose ottenute con fatica e sudore».
Alla fine arriva al diploma. Con il pezzo di carta in mano Riccardo si guarda allo
La prima moto, una Cagiva da enduro di seconda mano, l’ha pagata (a metà con i
specchio e si fa un esame di coscienza: «avrei potuto continuare gli studi e laurearmi,
genitori) con i soldi messi da parte lavorando al bar. «Sarò passato almeno venti volte
magari a trent’anni, oppure mettermi subito a lavorare».
davanti alla vetrina prima di decidermi ad acquistarla. Volevo fosse quella giusta».
Sceglie la seconda strada. Ma prima si prende il tempo per rifletterci sopra: una
vacanza on the road in America.
Nel frattempo si iscrive a Ragioneria, lì capisce un’altra cosa importante di sé: «sono
uno che impara di più e più volentieri con la pratica: facendo e parlando con gli altri
«A diciotto anni sono andato un mese e mezzo a New York con alcuni amici per
piuttosto che ascoltando una lezione seduto in un banco».
imparare l’inglese, tornai a casa che ne sapevo quanto prima». Deciso a raggiungere
Ma questa, allora, come scusa per nonna Lina non valeva: «se tornavo con brutti voti
l’obiettivo, l’anno dopo parte di nuovo, stavolta da solo. «È stata un’esperienza
non me la faceva passare liscia, in un attimo lo sapevano tutti in famiglia».
formativa, mi sono dovuto adattare alle situazioni e all’idea di poter contare solo
sulle mie forze. Dormivo negli ostelli, mi spostavo in pullman, ho fatto il cameriere e
ho dipinto cancellate per tirare su qualche soldo e proseguire il viaggio».
«Ho capito presto la soddisfazione
che danno le cose ottenute con
fatica e sudore».
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A casa per qualche tempo affianca mamma Rosa nel lavoro in agenzia («ma l’ambiente
della moda non mi piaceva»), fa qualche altra breve esperienza («con alcuni amici
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«Decidere di mollare tutto
per occuparmi del locale di
famiglia non è stata una
scelta facile»
ingegneri lavorammo a un brevetto che poi vendemmo»), per poi entrare in
un’azienda dove passerà diversi anni della sua vita professionale.
«Al colloquio speravo mi prendessero, ma non per il lavoro di contabile».
Invece è proprio quello che, suo malgrado, si trova a fare, almeno all’inizio.
Tiene duro, e appena si creano le condizioni passa ad un altro incarico, poi a un altro
ancora («ogni volta accumulavo esperienza, in quel periodo sono cresciuto molto»)
fino ad arrivare, a soli ventiquattro anni, dove voleva, all’ufficio commerciale. Essere
responsabile per l’estero di una ditta - la Limar, leader nei caschi per biciclette - che faceva
più della metà del fatturato con i Paesi stranieri, significava essere disposti a girare
il mondo e Riccardo lo faceva con entusiasmo. «Era un incarico di responsabilità;
impegnativo, stavo molti giorni lontano da casa; lì avevo buone prospettive di crescita
personale e professionale».
La vita e le aspirazioni di Riccardo erano quelle quando dalla famiglia arriva, quasi
come un fulmine a ciel sereno, la proposta di occuparsi della Pasqualina. «Decidere
di mollare tutto per occuparmi del locale di famiglia non è stata una scelta facile».
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Riccardo soppesa i pro e i contro.
Da un lato c’era il fatto che non si sente “tagliato” per l’azienda. Dall’altro lato, però,
accettando la sfida della Pasqualina ha una grande paura: «quella di chiudermi tra
quattro mura dimenticando quasi che fuori c’era un mondo».
La risposta ce l’aveva davanti agli occhi, anzi dietro le spalle ovvero nella sua storia.
Era una frase che usava ripetere mamma Rosa: «Ricordati che il Brembo scorre
sempre verso valle». Una di quelle piccole perle di saggezza popolare che contengono
un’intera filosofia di vita. Lei, a sua volta, aveva imparato questo atteggiamento da
sua mamma e sua mamma da chi era venuto prima. Così risalendo all’indietro, di
generazione in generazione, si potrebbe arrivare fino alla zia Pasqualina e forse prima
ancora, ché il Brembo, il fiume che si trova a poca distanza da lì, già allora scorreva.
Quella frase era un invito a non lamentarsi, a lasciar correre sugli aspetti secondari di
un problema (divergenze di opinioni o malumori quotidiani) e a concentrarsi, invece,
sulle questioni importanti e di sostanza. In quel caso ciò che conta è, innanzitutto,
il futuro della Pasqualina che per questioni, anche economiche, è incerto. Si tratta,
insomma, di volare alto e guardare lontano, ma a questo Riccardo è preparato. La
decisione è presa: guiderà la Pasqualina.
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Il passaggio di testimone dalla generazione di padri e zii a quella di figli e nipoti
avviene formalmente allora, ma ha un ideale prologo in un episodio avvenuto
qualche tempo prima, quando accanto al locale c’erano ancora i campi da tennis.
«Stavo giocando contro mio padre - racconta Riccardo - ed ero avanti. Arrivati
al matchpoint, mancava un solo punto e avrei vinto la partita. Papà non ci stava
a perdere, così, prendendo come scusa un mal di schiena improvviso, dovemmo
interrompere la partita sul match point! Che rabbia! Credo che quella fu la nostra
ultima partita». Poi i campi furono smantellati, non era più tempo di giocare: si
faceva sul serio e toccava a Riccardo dimostrare di saperci fare.
Con la gestione degli zii Lisetta e Franco il bar aveva ritrovato il nome, “Pasqualina”;
per la figlia Silvia e i nipoti era normale affiancare il personale in servizio con turni
di lavoro soprattutto nel week end e nel periodo estivo.
Il locale era diventato punto di ritrovo per compagnie di ragazzi cui spesso e volentieri
si univa anche lo zio, diventato ormai simbolo e riferimento del luogo, tanto quanto
la zia Pasqualina ai suoi tempi.
Al suo arrivo, Riccardo vuole dare una nuova impronta al locale, ma il nome e la
presenza dello zio restano. Era ormai usuale vedere lo zio Franco bersi il suo caffè
macchiato - «Per lui non c’era caffè più buono» - e la sua presenza sanciva il passaggio
di testimone, confermava quanto la Pasqualina fosse patrimonio di tutta la famiglia,
vecchia e nuova.
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Gli sforzi maggiori da subito si sono concentrati su una produzione di qualità. Un
esempio? Il gelato. Fino ad ora veniva da un laboratorio esterno, ora l’intenzione
era di farselo da sé. «Con il latte fresco portato ogni mattina da un contadino della
zona».
Da ritrovo semplice e conviviale la Pasqualina aspira a diventare un ambiente
raffinato (ma non esclusivo), un luogo pensato per offrire al cliente un’esperienza di
valore, che abbia come basi l’unicità del prodotto e la qualità del servizio.
I primi tempi sono in salita, ma Riccardo ha vicino persone che non solo credono
in lui, ma su cui può contare. La fidanzata Elena, che poi diventa sua moglie: «Nel
primo anno lavoravo tutte le sere e lei è stata sempre al mio fianco». O più spesso
dietro le quinte, in cucina.
«È nelle difficoltà che capisci chi ti sa stare vicino e ti vuole bene davvero. È facile
andare d’accordo quando gli affari girano e hai il tempo per un pomeriggio di
shopping, una cena romantica o una vacanza».
E a proposito di questo: «aiutare Riccardo è stato quasi naturale. Non sono fatta
per stare dietro un banco, il rapporto con la gente a volte mi imbarazza, ma credo
che sia stato proprio in quel momento che ci siamo riconosciuti in quello che siamo
diventati oggi», aggiunge Elena, che ricorda quegli anni come ciò che ha posto le basi
per la costruzione della loro famiglia. Oggi è lei a dividersi tra il ruolo di mamma
(di Gabriele e Tommaso), e quello di donna che lavora, alla scrivania che era stata
La casa trasmette la personalità di chi ci vive, così come i dettagli di
Pasqualina trasmettono la personalità di Riccardo e di chi lavora con lui.
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Per Alberto, da come escono
le brioches dal forno dipende
l’umore della giornata, altro che
oroscopo
Un viaggio nel gusto dal 1912
L’obiettivo su cui da mesi sta lavorando è un croissant al 100% integrale, più facile a
dirsi che a farsi. «Sono goloso di dolci - ammette con candore - se mi mettono davanti
una torta non mi alzo fino a che non l’ho finita». Ed è sempre lui ad alzare la serranda
alle sei («ma anche prima») per servire cornetti caldi ai clienti più mattinieri. La
di Rosa prima di lei. Un passaggio di testimone raro a vedersi, quello tra suocera e
passione e l’attaccamento al lavoro di Alberto emergono in maniera evidente da un
nuora, ma che per Rosa fu naturale, tanto quanto per Elena essere al suo fianco negli
episodio recente. «Una notte - racconta Riccardo - papà mi chiama perché non si
ultimi giorni della sua vita.
sente bene. Arriva l’ambulanza che lo avrebbe portato in ospedale. Per uscire da
casa si passa vicino al laboratorio: all’improvviso Alberto ordina ai paramedici
Rosa e Alberto, ormai liberi da impegni, affiancano da subito il figlio nella gestione
di fermarsi. Sotto il loro sguardo incredulo comincia a darmi le indicazioni sulle
del locale: lavorare insieme è anche l’occasione di consolidare il rapporto e recuperare
brioches: a che ora infornarle, in quale ordine, quali farcire e quali no…una scena
almeno un po’ del tempo perduto in passato.
memorabile!».
Riguardo il profondo legame di Rosa con la Pasqualina s’è detto.
Nel caso di Alberto, invece, le cose sono diverse: quel luogo non era casa sua, non era
La passione (di Pasqualina e Piero), l’impegno quotidiano (di nonno Luigi), la
il suo mondo, ma a poco a poco lo diventa.
sensibilità (di nonna Lina), la determinazione (di mamma Rosa), la costanza (di papà
Oggi Alberto, alla Pasqualina, è “l’uomo delle brioches”. Si sveglia ogni notte alle tre
Alberto), la grinta (di zia Lisetta).
e va di sotto per sovraintendere alla produzione: conosce tempi e modi di cottura.
Alla lista dei valori “ereditati” dalla famiglia Riccardo ne aggiunge di suoi: curiosità,
È esigente e scrupoloso: «Da come escono dal forno dipende l’umore della giornata,
voglia di migliorarsi e intuito.
altro che oroscopo» scherza la figlia Elena. È lui a dare le idee sulle farciture: oltre alle
classiche marmellata, crema e cioccolato, ci sono quelle con il miele, frutti di bosco e
Partiamo dall’ultimo “ingrediente” che Riccardo spiega con un paradosso: «il gelato
arance amare (la preferita). È lui a fare i primi assaggi.
è come la Panda». Ovvero? «Se la Fiat producesse le auto che faceva vent’anni fa
nessuno le comprerebbe. Così il gelato continua a rinnovarsi: la qualità è migliorata
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e il cliente è più esigente. Anche il gusto si è modificato: meno dolce, con meno grassi,
portava avanti in Modagricoltura. «Viaggiare è uno degli aspetti che più amo del
più digeribile».
mio lavoro, a cui non rinuncerei. Prima lo facevo per vendere un prodotto - dice
Questo Riccardo l’ha capito prima di altri, tanto che oggi il gelato della Pasqualina
Riccardo, riferendosi agli anni da commerciale in azienda - ora per scoprire luoghi e
ha già queste virtù. Dove l’intuito diventa genialità è nella vaschetta del gelato.
conoscere persone». È un po’ come se limoni, pistacchi, mandorle, castagne, ciliegie
È un modello unico e brevettato: un contenitore che valorizza il contenuto.
o nocciole che finiscono nelle ricette di molti prodotti Pasqualina avessero, oltre al
«L’idea mi è venuta mentre giravo in moto sulle Dolomiti; al bordo della strada ho
gusto, anche una voce e, ad ogni assaggio, raccontassero le storie di chi li coltiva, li
visto alcune galline e nella mia testa c’è stato un corto circuito: una scatola per il
raccoglie e li trasforma.
gelato come quella che si usa per le uova!».
Lì si salvaguarda l’integrità del prodotto, qui l’integrità del sapore; uno spazio per
La voglia di migliorare, infine, è il pizzico di sale che - come ogni buon pasticcere
ogni “pallina” evita che i gusti si sovrappongano e si mescolino tra loro.
sa - serve per dare più gusto ai dolci. E, come vedremo, alla vita, sua e di chi lavora
«Tornato a casa ho provato subito a realizzarla con filo di ferro caldo e polistirolo».
con lui.
Dopo averla perfezionata intorno al 2005 prova a venderla nelle principali fiere di
settore, ma senza successo.
«L’idea è buona ma il mercato italiano la snobba, allora decido di tenerla per me».
Dove l’intuito diventa genialità
è nella vaschetta del gelato:
un contenitore che valorizza il
contenuto.
Oggi sono in molti a chiedergliela, anche dall’estero. La “vaschetta porzionata”, però,
resta un’esclusiva della Pasqualina.
La curiosità, secondo “ingrediente”, è invece quella che gli ha permesso non solo
di selezionare materie prime di qualità, ma di andare alla scoperta del mondo di
saperi di cui sono il frutto e pure di fare la conoscenza diretta delle persone che tali
saperi tengono vivi. A pensarci è la continuazione del progetto che mamma Rosa
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Ingredienti e materie prime.
Tra storia e curiosità.
la liquirizia
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La glicirrizina non è solo dolce, ha molte altre qualità:
antinfiammatoria, lenitiva per le ulcere, sedativa e leggermente
lassativa. È anche molto potente, per cui non bisogna esagerare
nel consumo.
Le antiche farmacopee indiane e cinesi riportano diversi rimedi a
base di liquirizia. In Cina sono così numerosi, che la parola nel linguaggio
corrente indica metaforicamente qualcosa che si trova dappertutto: un po’ come noi
usiamo “prezzemolo”.
Nei paesi affacciati sul Mediterraneo, nel primo secolo d.C. si attestano rimedi in cui la
La Liquirizia
liquirizia grezza, o sotto forma di decotto, viene prescritta per le affezioni delle vie respiratorie.
(la dolce radice ricca di misteri e proprietà)
Tuttavia la storia della liquirizia nel mondo occidentale è segnata anche dalla sua natura dolce
e aromatica.
Testimonianze indicano che sin dal XV secolo l’estratto, ottenuto come oggi dalla bollitura
A volte le nostre convinzioni si divertono a giocare tiri birboni ai nostri sensi. Nonostante uno
delle radici e poi essiccato, veniva venduto sotto forma di pastiglie nell’Europa del nord.
dei marchi più celebri del mondo possa indurci a pensare il contrario, la liquirizia pura non è
Nasce così il nuovo mercato del succo di liquirizia che nei quattro secoli successivi, aggiunto a
affatto amara. Strani scherzi del destino. Sta di fatto che il principio attivo che si estrae dalla
dolciumi, caramelle e bevande, affermerà la sua natura “ricreativa”, al pari di prodotti esotici
radice, la glicirrizina, è molto più dolce del saccarosio. Il nome della pianta infatti deriva dal
come tè, caffè e tabacco.
greco glukurrhiza, che significa appunto “radice dolce” (da glukus, dolce e rhiza, radice).
Proprio a quest’ultimo la liquirizia deve la sua fortuna nei neonati Stati Uniti, dove viene
acquistata in quantità industriali per aromatizzare il tabacco da masticare.
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Piccole grandi storie, sogni,
passioni e altro ancora.
Il custode
della liquirizia
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FORTUNATO AMARELLI
35 anni
«La Calabria produce la migliore liquirizia al mondo, lo dice anche
l’enciclopedia Britannica», dice Fortunato Amarelli, 35 anni.
La sua famiglia è a Rossano dall’anno 1000 e lui rappresenta la
quattordicesima generazione di coltivatori ed estrattori.
Siamo a Contrada Amarelli. Il primo documento che attesta la
presenza di una piccola comunità che trae sostentamento dalla
raccolta e lavorazione della radice di liquirizia, con un Amarelli
a capo, risale al 1731. Qui ci sono i campi e le attrezzature per
l’estrazione del succo dalla radice.
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Più che raccolta, la liquirizia va “domata”: una pianta selvatica e infestante, per raccoglierla
bisogna scavare trincee di un metro e mezzo ed estirparla. Quello che rende la liquirizia così
speciale è che la pianta cresce senza bisogno di intervento umano, ma solo a determinate
latitudini, intorno al 40° parallelo. Al di fuori è quasi impossibile coltivarla. La si trova nel
sud di Spagna e Italia, in Grecia, Turchia, India e Cina.
Come le generazioni precedenti, Fortunato è cresciuto giocando in fabbrica, insieme ai
figli degli operai, a loro volta figli d’arte: «si correva ad arrampicarsi sui grandi depositi di
radice, per noi erano montagne da scalare».
Per i cugini della famiglia «la fabbrica era una casa comune».
Altrettanto accadeva ai loro dipendenti: «per produrre in un luogo isolato, gli operai
vivevano qui. La situazione economica della Calabria era difficile. L’economia era basata
solo sui latifondi». Così agli inizi del ‘900 le aziende rappresentavano gli ammortizzatori
sociali che non c’erano: davano la casa e da mangiare.
più che raccolta
la liquirizia va domata
Oggi è tutto diverso, ma allora chi era povero non aveva veramente niente. Attorno alla
fabbrica sono nate le abitazioni dei proprietari e dei dipendenti: «qui lavorava tutta la
famiglia, il padre alle macchine o alle conche, le mogli al prodotto, a filare i pastoni come
si fa con i maccheroni».
Tutti davano una mano, anche i bambini. È andata così fino al secondo dopoguerra, ma
ancora nel 2000 alcuni operai vivevano qui.
Oggi i membri della famiglia Amarelli vivono e lavorano sparsi su tutto il territorio
italiano ed europeo, per adeguarsi alle esigenze del mercato internazionale. Ma l’azienda
rimane la «casa comune». Fortunato si sente investito di un ruolo speciale: «Ogni giorno
qui si fanno scelte che sono indirizzate dalla passione. Chi arriva come quattordicesima
generazione non si sente più “proprietario” dell’azienda. È un’importante eredità che va al
di la di qualsiasi logica imprenditoriale, non è nei suoi poteri fare scelte che non siano di
conservazione. La comunità intorno all’azienda è ciò che conta di più».
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Ingredienti e materie prime.
Tra storia e curiosità.
i limoni
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I limoni semmai sono “profumati” o “colorati”, come fiori: caratteristiche che hanno
suggestionato i viaggiatori nordici nelle loro peregrinazioni nel sud dell’Italia. Goethe definisce
il Meridione come “la terra dove fioriscono i limoni”.
Ma le “trombe d’oro della solarità” sono belle fuori quanto preziose all’interno: contengono
i limoni
acido citrico, acido ascorbico (la vitamina C), flavonoidi, terpeni e molte altre sostanze dalle
proprietà ricostituenti, conservanti, digestive. L’usanza di servire acqua con una fettina
(trombe d’oro della solarità)
di limone, oltre a decorare e profumare la più umile delle bevande, è una felice intuizione
popolare sulle proprietà antisettiche del frutto.
“Qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza/ed è l’odore dei limoni” scriveva
Senza l’aroma aspro del limone non ci sarebbe quel contrappunto che ci fa apprezzare il
Eugenio Montale nel 1925 nella sua lirica “I limoni”. Dopo qualche verso, aggiungeva: “e in
sapore dolce di molti dessert, o il gusto sapido di un frutto di mare. Il che spinge a riflessioni
petto ci scrosciano/le loro canzoni/le trombe d’oro della solarità”.
esistenziali: un proverbio ucraino recita che “lo zucchero si apprezza solo dopo il limone”.
Il poeta, ai giardini popolati di allori, simbolo della poesia classica, preferisce gli orti dei
I limoni sfusati (cioè allungati come fusi) di Amalfi, però hanno un gusto semi-dolce che fa
prosaici limoni: piante che ispirano i suoi versi asciutti, essiccati dall’aria e dal sole.
desiderare che restino così come sono, tanto che si mangiano anche in insalata. Sulla costiera
La bellezza soda e semplice dei limoni li rende un frutto diverso da tutti gli altri. Quando si
sono talmente amati che qualche ristoratore locale arriva ad abbinarli all’altra grande passione
parla di loro, si usano raramente aggettivi come “saporito” o “maturo”.
campana, servendo ai clienti una bevanda davvero unica: un caffè al limone.
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MOTO PERPETUO
(dove non si finisce mai di imparare)
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MOTO PERPETUO
«Con lui non ci lavoro!».
È sincera Emy quando dice che la prima cosa che ha pensato di Riccardo in quel
lontano 1995, è stata questa, quando ha incrociato il suo sguardo severo, quasi
glaciale. Dopo sedici anni lei è ancora qui, al suo fianco, passata dal bancone del
bar al laboratorio di pasticceria: nel frattempo sono aumentate le sue competenze,
è più preparata e motivata. In tre parole, dice lei: «qui sono cresciuta, anche se
Riccardo, con quel suo modo di rimproverare con gli occhi, mi mette ancora un po’
di soggezione».
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Emy è una delle presenze storiche della Pasqualina, come le “due Simone”, come
Beppe e come poi Marcella.
Ognuno ha la sua storia, ma lo stesso discorso vale anche per loro.
Emy era qui da prima che Riccardo prendesse il comando del locale, assunta da zia
Lisetta e zio Franco: «Prima lavoravo in una camiceria e venivo qui solo i sabati e
le domeniche - ricorda -. La prima volta ero stata chiamata per sostituire Silvia, la
figlia di Lisetta e Franco, che aveva un esame. Ho capito subito che il mestiere mi
piaceva». Eppure, quando è arrivato Riccardo, Emy è stata a un passo dal mollare
tutto. «Volevo stare a casa - confessa - la sua presenza mi metteva in agitazione».
A spiazzare lei e il resto dello staff, è stato il cambio di passo della nuova gestione:
«tutto doveva essere preciso, ordinato, senza sbavature. Non eravamo abituati a
lavorare così» spiega Simona Pozzi.
«Ho cominciato che ero una ragazzina, adesso sono un’altra persona; professionalmente
mi sento più completa. Ma ho ancora molto da imparare». Anche lei ha cominciato
con gli zii («al colloquio con Lisetta mi ero presentata in tuta da ginnastica; con mia
mamma perché ero ancora minorenne»); il nuovo corso è stato «un cambiamento
radicale», «una rivoluzione».
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L’unica cosa che non è mai cambiata è la qualità del rapporto: «qui mi sento in
famiglia. I parenti di Riccardo li chiamavo mamma, papà, zii e ho continuato a farlo
anche dopo».
Simona Bonfanti è finita a lavorare alla Pasqualina per caso: «un pomeriggio ero
venuta a mangiare un gelato con una compagna di scuola e per gioco ho chiesto a
Lisetta se cercavano personale».
Simona voleva una buona scusa per uscire il sabato sera e l’ha trovata. Alla Pasqualina
si trovava talmente bene da passarci, negli anni, quasi l’intera notte: «con le colleghe
e con Elena - sorella di Riccardo - con cui siamo amiche, dopo la chiusura del locale si
restava a chiacchierare e a rimpinzarci di schifezze fino a mattina. Quando da sopra
scendeva papà Alberto per preparare le brioches dovevamo nasconderci, soprattutto
Elena». Negli anni Simona ha pure provato a “mollare” questo posto: «non una ma
due volte - dice -, per fare altre esperienze lavorative».
Però alla fine è sempre tornata: «perché qui mi sento realizzata e valorizzata nelle
mie qualità».
L’effetto-Pasqualina su Marcella è stato ancora più marcato: «Venivo da un’esperienza
in un altro bar, ma è qui che ho imparato quanto è importante saper organizzare e
pianificare il lavoro». E non solo quello: «è un insegnamento di cui ho fatto tesoro
anche nella vita privata». E conclude: «Se oggi mi chiedessero che lavoro faccio non
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mi viene da dire che lavoro in un bar, la Pasqualina non è solo un bar. È diverso,
molto di più».
Di diverso c’è soprattutto il fatto che qui, lavorando si impara e, una volta imparato,
si lavora meglio.
È il metodo di Riccardo, lo stesso che applica su di sé. «Se c’è qualcosa che non so
- dice - faccio in modo di impararlo; e così voglio che facciano le persone che stanno
con me». E aggiunge: «abbiamo gli stessi valori: la passione per il lavoro e la voglia
di crescere. E con quelle puoi andare anche sulla Luna». Per formare e far crescere
il team si affida a chi ne sa di più. Dalla Pasqualina sono passati (e continuano a
passare) esperti di gastronomia, maestri cioccolatieri, pasticceri campioni del
mondo, gelatieri di talento, grandi cuochi e professori universitari. E quando non
sono loro a venire a domicilio è Riccardo con la squadra a spostarsi per corsi di
approfondimento e stage che sono anche l’occasione per una sorta di team building,
perché si consolidano i rapporti all’interno del gruppo: «Siamo stati a Firenze per
visitare una bellissima sala da tè - racconta Simona Pozzi - ed è stato curioso vedere
il “capo” nei panni di turista». Risultato: «Ogni due o tre mesi c’è qualche corso da
seguire: sul tè, sul caffè, sul cioccolato…» conferma Beppe.
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Su una cosa, anzi due, tutti sono d’accordo.
La prima è che qui, come dice Beppe, «non c’è il tempo per annoiarsi». La Pasqualina
2.0 è un work in progress e i progressi non solo si vedono, ma si assaggiano.
La seconda è che, aggiunge scherzando, «Riccardo è un gran rompiscatole, un
perfezionista, molto esigente e pignolo, alle volte al limite del maniacale. Ma alla fine
il risultato si vede nella qualità di quello che facciamo».
Se saper tenere in equilibro le coppe sul vassoio (compresi gli enormi “Mangiaebevi”
in voga negli anni Novanta) fa, tutto sommato, parte del know how di base di chi
lavora in una gelateria («In sedici anni non me ne è mai cascata una» dice Emy con
una punta d’orgoglio) non è, invece, cosa da tutti conoscere il rituale in uso alla
Pasqualina per servire un tè in foglie.
È Marcella a spiegarlo: «da un samovar si versa lentamente l’acqua, che deve essere a
basso contenuto di residuo; la temperatura non è sempre la stessa ma varia secondo
il tipo di foglia o di infusione; poi si attende il tempo giusto, che non è né troppo né
troppo poco; per il tè usiamo un filtro in acciaio, più igienico; il limone è ingarzato
e lo zucchero, chiaro o scuro, è rigorosamente cristallizzato, addolcisce meno e non
copre il sapore del tè».
«Riccardo è un gran rompiscatole,
un perfezionista, molto esigente
e pignolo, alle volte al limite del
maniacale. Ma alla fine il risultato
si vede nella qualità di quello che
facciamo».
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Anche “scolpire” la frutta per le coppe di gelato è un’arte. «L’effetto è molto scenografico
più alti al centro» e indica la misura sul metro. «Dopo un anno, a forza di provare e
- dice Beppe - ma per ottenerlo, che fatica! All’inizio sembrava impossibile. Serve
riprovare, ci siamo riusciti. Che soddisfazione!».
mano ferma e molta precisione. Per esercitarci usavamo la verdura».
In sala e al bar, invece, la regola nel rapporto con i clienti è «essere cordiali e preparate»
Beppe e Emy stanno in laboratorio. Tutto quello che esce da lì passa dalle loro mani:
dice Marcella, «in quel momento siamo noi il volto della Pasqualina». Aggiunge
gelato, pasticceria, uova di Pasqua, brioches. Beppe fa questo mestiere da trent’anni
Simona Pozzi, che qui ha visto fidanzati sposarsi e avere figli e questi diventare
e sa come prendere Riccardo: «siamo simili, anch’io ragiono come lui, di quello che
grandi: «mettere a proprio agio i clienti non è facile perché uno è diverso dall’altro.
faccio voglio conoscere e capire tutte le fasi di lavorazione così, se qualcosa va storto,
Con una parola di troppo la gentilezza può trasformarsi in eccesso di confidenza».
so dove intervenire». Riccardo è esigente e Beppe lo accontenta: «Preparami lo stesso
Il giusto modo per entrare in relazione con chi si ha davanti è un cocktail di virtù,
gusto di gelato fatto con diversi tipi di latte». «Pronti!». «Li hai numerati?». «Sì». Lui li
il frutto di un mix di esperienza, professionalità e sensibilità. Un delicato equilibrio
prova al buio, senza sapere le corrispondenze e poi fa le sue valutazioni.
che non viene da sé ma si impara.
Emy, al contrario, con Riccardo ha in comune un’altra cosa: la testa dura. «Emy, da
oggi le brioches le facciamo noi». «Cosaaa?? Te sei matto, non ci penso neanche».
La bravura di Riccardo è stata saper trasmettere ai suoi fedelissimi, e loro agli altri (il
«E, invece, sì». «Ma non sappiamo nemmeno da dove si comincia!». «Impariamo!».
personale in servizio conta oggi una trentina di persone), il valore di fare le cose bene
Alla fine ha avuto ragione lui: trovare il giusto equilibro tra morbidezza e fragranza
ovvero con impegno e passione, anche le più semplici o quelle che possono sembrare
nell’impasto è stato un lavoro lungo, ma non quanto ottenere la forma ideale. Ché il
secondarie o perfino inutili. Quando Beppe racconta di quanto sia importante per
cornetto della Pasqualina, non si fosse capito, doveva essere diverso da tutti gli altri.
Riccardo che «i quadrati di cioccolato che escono dallo stampo siano esattamente
Un giorno Riccardo è arrivato con il metro. «Mica per ampliare la cucina. Sai cosa
identici uno all’altro», viene in mente quel bambino che trent’anni prima spazzava la
doveva misurare? L’altezza dei croissant!». E l’ha fatto davvero! «Ecco, li voglio così:
ghiaia nel cortile senza capire perché dovesse farlo.
Quando Beppe racconta viene in
mente quel bambino che trent’anni
prima spazzava la ghiaia nel cortile
senza capire il perchè.
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Il messaggio è arrivato a destinazione forte e chiaro, tanto che oggi quelli che lavorano
alla Pasqualina sono i primi a condividerne la filosofia e a sostenerne, senza mezzi
termini, le scelte in fatto di qualità del prodotto e del servizio.
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«Voglio creare qualcosa di
cui andare fiero».
Per Emy «uno dei giorni più belli» della sua vita è stato quello in cui si è vista arrivare
in laboratorio la temperatrice, uno strumento che permette di lavorare in maniera
professionale il cioccolato: «L’avevo vista a una fiera di settore e da allora era il mio
sogno». (E siccome ha imparato bene la lezione di Riccardo, ora di sogno ne ha già
pronto un altro, «la nuova attrezzatura per le praline»).
Simona Bonfanti ha una passione per la cucina che sconfina spesso e volentieri fuori
dall’orario di lavoro: «a casa mi capita di segnarmi piatti, ricette e abbinamenti che
possono funzionare per migliorare l’offerta del locale; magari faccio una prova, poi
la fotografo e la mando a Riccardo per sapere subito cosa ne pensa». A proposito
di momenti di confronto, una volta al mese, ci sono i brain storming, riunioni tra
Riccardo e i suoi collaboratori più fidati: «finisce sempre - dice Marcella - che ci si
appassiona e si fanno le ore piccole presi da discussioni e confronti tra proposte e
modelli di lavoro».
Le novità di questi anni alla Pasqualina viaggiano su più livelli.
Oltre a quelle che riguardano ricerca di prodotti di qualità e cura del servizio, ci
sono quelle legate in generale alla strategia aziendale. L’idea è di una linea dettata
“dall’alto”, ma condivisa, sostenuta e alimentata “dal basso”. È lo stesso Riccardo
Nella pagina accanto, in alto, il nuovo locale di Porto Cervo, sotto, la sala del
camino nello storico locale di Almenno.
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a illustrarla. «Con la Pasqualina voglio creare qualcosa di cui andare fiero. Fare un
prodotto al meglio è una soddisfazione professionale e personale, come lo è mettermi
in discussione per raggiungere obiettivi che paiono impossibili». Molto cammino
in questi anni è stato fatto, molto ne resta da fare. Soprattutto perché Riccardo,
raggiunto un traguardo, se ne pone subito un altro, più ambizioso. «Se pensi di essere
arrivato - dice - è la fine, meglio che cambi mestiere». Ma il successo economico non
è mai stato al primo posto: «dopo che la Pasqualina s’era fatta un nome, avrei potuto
aprire locali in stazioni e centri commerciali della zona». Invece no. È la sfida - con
se stesso e con il mondo - che gli interessa: «mi piace misurarmi con obiettivi sempre
più difficili da raggiungere».
Così, cinque anni fa, Riccardo una seconda sede l’ha aperta davvero, ma nel posto
più improbabile: «una galleria stretta e buia di Bergamo» dice, dove prima sorgeva
La Tecnica, una storica stamperia cittadina. Era una stradina secondaria che poteva
rivelarsi, con una metafora, un vicolo cieco.
Ma non per lui, che ci ha creduto fin dal principio e l’ha fatto diventare un luogo di
passaggio “obbligato” per chi vuole un assaggio dello stile (e dei sapori) Pasqualina.
Il locale di Bergamo o la “dolceria”, come un affezionato cliente ha
ribattezzato La Pasqualina.
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In comune con la “sorella maggiore” di Almenno ha i colori e i materiali, per il resto
è un altro mondo. Con un arredo più moderno e un look più cittadino e glam. In
entrambi da qualche tempo, sotto la supervisione dello chef stellato Vittorio Fusari,
si sono sperimentate con successo soluzioni per il lunch time: piatti leggeri ed
equilibrati, giocati su abbinamenti innovativi.
«Solo un matto poteva decidere di buttarsi in questa impresa» dice Simona Bonfanti,
che con Marcella e Chiara manda avanti la Pasqualina a Bergamo.
Dopo Bergamo è già tempo di guardare avanti. E l’avanti di Riccardo, oggi si chiama
Sardegna. L’ultima sfida è una terza “sorella” Pasqualina, una gelateria aperta nella
primavera del 2012 a Porto Cervo, la capitale balneare del jet set.
La motivazione di partenza è la stessa. Identico lo standard di qualità, che prevede
la scelta delle materie sul posto. L’aggiunta è, in questo caso, una sfida lontano dai
propri territori. Con una clientela diversa e con nuove esigenze.
In poche parole: un nuovo modo di misurarsi, imparare e crescere.
Sono ormai molti, chi dal “cielo” - zia Pasqualina, nonno Piero, nonna Lina, zio
Franco, mamma Rosa… - chi da terra - famigliari, staff e clienti - a chiedersi quale
sarà il prossimo viaggio di Pasqualina e Riccardo.
Riccardo, il papà Alberto e i figli Tommaso e Gabriele.
Tre generazioni che si ritrovano nel locale di Bergamo.
Il sogno continua.
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Dopo aver letto la storia che Severino ha scritto sulla mia famiglia e sul nostro
locale, mi sono accorto che mancava qualcosa, che però non può stare tra le pagine
di questo libro. È qualcosa che viene prima e che continua poi. È il mio grazie,
personale e sincero, a tutte le persone che in questi anni mi sono state vicino. Tutto
il mio staff, la mia famiglia (nel senso più allargato del termine) e Donatella, per
me come una seconda sorella.
Riccardo Schiavi