roma 9 novembre 2015 filiazione relaz russo

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roma 9 novembre 2015 filiazione relaz russo
Questioni aperte in materia di disciplina processuale dei
procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli. 1
1.- Lariforma e la discriminazione processuale: procedimento camerale, provvedimenti
provvisori, impugnazioni.
La riforma operata dalla legge 219/2012 e dal Dlgs. 154/2013, pur avendo parificato, sotto
tutti gli aspetti, i figli nati nel matrimonio ai figli nati fuori dal matrimonio, non ha però
introdotto un processo unico per l’affidamento del minore, così creando alcune aree di
criticità.
La questione dell’affidamento del minore si pone infatti essenzialmente quando i genitori
decidono di non vivere più insieme; se i genitori sono sposati l’affidamento dei minori segue
le regole del giudizio di separazione o divorzio, se non sono sposati le regole del giudizio
camerale.
Quid iuris dunque sulla necessaria rapidità della tutela? Può il giudicedel giudizio
camerale adottareprovvedimenti provvisori ed in tal caso questi provvedimenti sono
reclamabili?il giudice che adotta i provvedimenti provvisori è il giudice monocratico o
collegiale?
Le prassi giudiziarie, specie nella materia del diritto di famiglia hanno negli ultimi tempi
acquistatoun’importanza sempre maggiore, perché chiamate a supplire la insufficienza del
dettato legislativo. Sulle ragioni di questa “insufficienza” è inutile, almeno in questa sede,
interrogarsi: basti osservare che talora il legislatore non interviene, pur quando è
espressamente chiamato dalla Corte Costituzionale o dalla CEDU a farlo (si pensi alla
disciplina del cognome, all’accesso alle origini per il nato da parto anonimo, al matrimonio
del transessuale)e talora pur se interviene lascia “irrisolte” alcune questioni.
Muovendo quindi dall’assunto, che possiamo dare per condiviso, che al giudice spetta
risolvere le questioni irrisolte, interpretando la legge, in coerenza con la sua ratio e con i
valori costituzionali, possiamo provare a daredelle risposte alle nostre domande.
In primo luogoproviamo a dare una risposta a questa domanda: la diversità di rito significa
diversità di tutela? E’giusto e coerente con i nostri valori che i figli “matrimo niali” (ed i loro
genitori) abbiano una tutela più rapida o più efficiente o più garantita dei figli “non
matrimoniali”? se la risposta è negativa, come pare debba essere in considerazione della ratio
Relazione tenuta da Rita Russo, Consigliere della Corte d’Appello di Catania, all’incontro
di studi QUESTIONI APERTE IN MATERIA DI FILIAZIONE. CONFRONTO TRA PRASSI E
ORIENTAMENTI"organizzato dalla SSM – Struttura didattica territoriale della Corte
d’Appello di Roma, in Roma 9.11.2015
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della legge 219/2012 e dei nostri valori costituzionali, tutte le altre soluzioni dovrebbero
seguire “a cascata”.
Vale a dire chepuò ritenersi una prassivirtuosa modellare il processocamerale per
l’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio sul falsariga di quello di separazione e
divorzio, studiato per garantire celerità ed efficienza. Ne segue che entro il termine di 90
giorni dovrebbe tenersi la comparizione personale delle parti, innanzi al collegio o ad un
giudicedelegato (meglio quest’ultima soluzioneperché più rapida), il quale può tentare la
conciliazione tra le parti; questo step processuale è nato, nei giudizi di separazione,
favormatrimonii, ma è oggi rivolto essenzialmente a verificare, anche negli stessi giudizi di
separazione e divorzio, se le parti possono raggiungere un accordo ragionevole e sostenibile
per definire la loro contesa; nulla vieta quindi di inserirlo anche nel rito camerale per
l’affidamento dei figli nati da unione no n coniugale; in caso di esito negativo del tentativo di
conciliazione (recte: composizione della lite) possono essereadottatiprovvedimentiprovvisori
da ritenersi immediatamente reclamabili in Corte, ma solo la prima volta e non ove
modificati nel corso del procedimento dal giudice delegato/istruttore. Ciò per una ragione di
trattamento partitario tra i figli nati da genitori coniugati, i quali sono tutelati dalla garanzia
del reclamo ex art. 708 c.p.c.
Il provvedimento finale sarà poi non solo reclamabile ma anche ricorribile per
Cassazione(Cass. 16296/2015)
Questo schema appare compatibile con il rito camerale perché esso è -come da tempo è stato
evidenziato dalle s.u. della Cassazione- un contenitore neutro che può adattarsi alle esigenze
specifiche del processo e della materiadel contendere, purché si rispetti il principio del
contraddittorio. Del restoil rito camerale specificamente pensato per le cause di famiglia e
cioè quello disciplinato dall’art. 710 c.p.c.contempla espressamente la possibilità per il
giudice di regolare in via provvisoria le questioni urge nti in attesa del provvedimento finale.
Anche lo strumento contenuto nel comma 3 dell’art. 337 c.c., nell’ambito dei procedimenti
riguardanti l’esercizio della responsabilitàgenitoriale, consente al giudice di adottare, anche
d’ufficio, provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio, in caso di urgente necessità,
provvedimenti che sono sempre modificabili o revocabili dallo stesso giudice, con la
decisione finale, e che tradizionalmente si ritengono impugnabili immediatamente, mediante
reclamo in Corte, se ed in quantoidonei ad incidere, in modo tendenzialmente stabilizzato, sui
diritti delle parti (Cass. 4614/1998; Cass. s.u. 1/2001).
Se si adottano provvedimenti provvisori,è da risolvere, di conseguenza, la questione della loro
efficacia a in caso di estinzione del processo per inattività delle parti e se si può ipotizzare una
loro ultrattività in applicazione estensiva dell’art. 189 disp.att. c.p.c.
Il processo camerale è un contenitore neutroidoneo ad assicurare, da un lato, la
speditezza e la concentrazione del processo, e, dall'altro, il rispetto dei limiti
imposti all'incidenza della forma procedimentale dalla natura della
controversia(Cass. sez. un. 5629/1996, Cass. 14200/2004)
Non può negarsinelle procedure per l’affidamento dei figli naturali quella stessa
garanzia di rivedibilità dei provvedimenti provvisori, da parte di un giudice
diverso da quello che li ha pronunciati, che attiene alla procedura di
affidamento dei figli legittimi, purchè si tratti di provvedimenti idonei ad
incidere sui diritti soggettivi con quella definitività che è propria della materia,
e cioè in maniera significativamente stabilizzata nel tempo, pur se rivedibile al
sopravvenire di fatti nuovi(App. Catania 14.11. 2012)
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La specificità del processo per l’affidamento deifigli di genitori non coniugati ha agevolato la
nascita di una prassi virtuosa e cioè del rito partecipativo (Tribunale di Milano). E’ una
prassi fondata sulla valorizzazione dei poteri conciliativi del giudice, muovendo dall’idea che
nel processo di affidamento die figli di genitori non coniugati, ove non vi sono questioni di
status, di addebito, di mantenimento peril coniuge, sia più semplice giungere ad un accordo.
Il Tribunale di Milano reputa che la gestione del contenzioso inerente le
controversie tra genitori non uniti da matrimonio debba offrire al nucleo
familiare in crisi l’opportunità di una fase preliminare di tipo conciliativo – in
analogia a quanto avviene nel rito della separazione e del divorzio - in cui ai
genitori viene anche «suggerito», dal giudice delegato, un possibile assetto
regolativo delle nuove dinamiche relazionali: la fase in questione, deve
consentire ai genitori di avere un lasso di tempo ragionevole per valutare la
proposta del giudice e successivamente deve consentire agli stessi di essere
ascoltati. La conclusione della fase pre-contenziosa può, così, concludersi con un
accordo dei genitori, recepito dal Collegio: accordo che corrisponde alla
proposta del giudice designato; accordo che consiste in una soluzione totalmente
o parzialmente diversa, elaborata dai genitori grazie alla assistenza dei difensori
nominati, che certamente possono utilizzare il suggerimento del magistrato al
fine di convincere le rispettive parti a confrontarsi sui problemi emersi ed a
dialogare come padre e madre. La fase conciliativa può anche concludersi con
un tentativo di composizione bonaria infruttuosamente espletato n questo caso,
gli atti vengono rimessi al Collegio che provvede alla definizione giudiziale del
procedimento, se del caso, previa nuova convocazione dei genitori. Il
procedimento così proposto prevede – come avviene per il rito della separazione
e del divorzio – una sorta di switch procedimentale: dalla fase conciliativa, in
caso di fallimento, si passa alla fase contenziosa. La procedura così concepita
certamente può beneficiare dell’apporto collaborativo dei giudici onorari (Guida
al rito partecipativo – Tribunale Milano)
Inoltre, in virtù della riforma dell’art. 38disp. att. c.c. i provvedimenti limitativi o ablativi
della responsabilità genitoriale, qualora sia in corso il giudizio di separazione, divorzio,
affidamento sono oggi di competenza del giudice ordinario.
Il che significa che dovrebbero seguire lo stesso regime delle impugnazioni previsto per il
provvedimento conclusivo (sentenza, decreto) e quindi sono, oltre che appellabili,
ricorribili per Cassazione.
Viene così superata la questionedelle ricorribilità per cassazione deiprovvedimenti de
potestate, tradizionalmente esclusa dalla S.C. sul rilievo che que sti provvedimenti sarebbero
privi dei caratteri della decisorietà e definitività, principio che la stessa S.C. si era trovata
talora a derogare facendo riferimento alla regola della prevalenza della sostanza sulla forma
(Cass. 7041/2013, relativa ad un provvedimento formalmente de potestate ma ritenuto dalla
Corte nella sostanza di affidamento) e che oggi sembra definitivamente abbandonato nelle
ultime decisioni (Cass. 2833/2015).
E’ da chiedersi inoltre se le limitazioni della responsabilità genitoriale, nell’ambito di un
provvedimento di affidamento/separazione/ divorzio, possono essere oggi adottate anche
monocraticamente, dal presidente del tribunale prima, dal giudice istruttore o delegato dopo.
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E’ quasi impossibile distinguere in molti casi il provvedimento di affidamento da quello
adottato ex art. 333 c.c. equindi rientra certamente nelle attribuzioni del presidente o
dell’istruttore disporre in merito (ad es. un affidamento esclusivo, un affidamento ai servizi
sociali) ma quid iuris sulla decadenza dalla responsabilità genitoriale? È più opportuno
che si pronunci il collegio eventualmente con una sentenza non definitiva?
Ciòrenderebbe il provvedimento di decadenza impugnabile per le vie ordinarie alla stregua di
qualunque altra sentenza non definitiva.
Il vero nodo del problema è quello dei provvedimenti adottati dal giudice istruttore. Infatti, i
provvedimenti provvisori sono reclamabili in corte d’appello e quindi sicuramente sottoposti
ad un giudizio collegiale, sia pure in seconda battut a. Analogamente si può ritenere che siano
reclamabili anche i provvedimenti provvisori inziali, emanati in un procedimentodi
affidamento figli nati fuori dal matrimonio.Invece, nessun controllo,se non quello finale del
collegio, è previsto sui provvedimenti del giudice istruttore (Cass.15416/2014). Il che è
comprensibilese si considera che il processo, nel suo aspetto fisiologico, prevede un
provvedimento provvisorio che una volta reclamato, e passato eventualmente al vaglio della
Corte, mantiene la sua sostanziale stabilità, fino alla decisione finale che sopraggiunge in
termini brevi; meno comprensibile ove si consideri che a volte i processi di separazione hanno
iter complicati e lunghi, e nel corso di essi possono anche intervenire provvedimenti del
giudice istruttore che ribaltano totalmente la situazione originaria, e che oggi possono
spingersi sino alla adozione di provvedimenti assai incisivi sulla responsabilità genitoriale.
2.- La esecuzione deiprovvedimenti che riguardano i minori: esecuzione contro la
volontà dei minori,
la concentrazione delle tutele, il possibile conflitto tra
provvedimenti.
L’esecuzione, o meglio attuazione deiprovvedimenti che riguardano il minore è una delle
questioni più complesse che il giudice della famiglia si trova ad affrontare. Ritenute inumane
oltre che inutili le soluzioni che equiparavano il minore ad un cosa mobile da consegnare o ad
un muro da demolire e che prevedevano l’intervento del giudice della esecuzione, nel 1987 la
riforma della legge sul divorzio segna un punto di svolta, individuando giudice del merito il
giudice dellaattuazione deiprovvedimenti che riguardano il minore.
L’art. 6 comma 10 della legge 898/1070 come modificato dalla legge 74/1987, dispone che
all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice del
merito. La norma riguardava i procedimenti di divorzio, ma si è prevalentemente ritenuto che
si potesse includere nel novero di quelle norme applicabili estensivamente anche ai giudizi di
separazione, stante la identità di ratio legis. La soluzione di cui all’art. 6 comma 10 citato è
agevolmente praticabile in corso di causa di separazione e divorzio, grazie anche alla struttura
bifasica di questo processo, struttura che peraltro corrisponde perfettamente allo schema
raccomandato ai punti 52/53 delle Linee Guida del Consiglio d’Europa del 17 novembre
2010, (Giustizia a misura di minore),le quali prevedono che le autorità giudiziarie
dovrebbero,in questa materia, valutare la possibilità di adottare delle decis ioni provvisorie o
delle sentenze preliminari da monitorare per un certo periodo di tempo in vista di un loro
successivo riesame. Questa presenza del giudicedelegato/istruttore investito della funzione
direndere il provvedimento in via provvisoria ma anche di sperimentarlo “su strada” ed
eventualmente di modificarlo prima di proporlo al collegio per la sua adozione definitiva, ha
consentito il nascere di prassi virtuose sull’attuazione dei provvedimenti che riguardano il
minore, in virtù delle quali il giudice ricorre all’ausilio dei servizi sociali e non dell’ufficiale
giudiziario.
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Quella con i servizi è una collaborazione esecutiva, ma anche propositiva; si pensi all’uso dei
calendari di incontri assistiti tra genitori e figli che divengono al tempo stesso una occasione
di osservazione della relazione familiare e di indagine della condizione e volontà del minore
o delle cause delle difficoltà riscontrate in sede esecutiva. I servizi sociali tendono, in effetti,
ad avere ruoli sempre di maggior rilievo nei giudizi di separazione e divorzio ed anche nei
relativi procedimenti esecutivi; essi fungono da strumenti di indagine per raccogliere tutti gli
elementi utili alle decisioni, ma anche quali organi di assistenza e supporto nella attuazione
dei provvedimenti e possono considerarsi dei veri propri ausiliari del giudice in quanto
persone esperte o comunque idonee al compimento di determinati atti, che richiedono la loro
specifica competenza e professionalità. Tuttavia l’operatore del servizio sociale può
distinguersi dal consulente, poiché scopo di quest’ultimo è quello di raccogliere elementi di
fatto, valutarli e trasmettere queste informazioni al giudice, mentre lo scopo della attività
dell’assistente sociale è quello di aiutare i soggetti con i quali vengono a contratto nell’ottica
della composizione del conflitto; in questo senso deve anche notarsi che il ruolo dei servizi
non è strettamente limitato al mandato del giudice dal momento che il provvedimento
giudiziale ha essenzialmente per i servizi il valore di una segnalazione di uno stato di bisogno
assistenziale, che obbliga comunque il servizio sociale ad interve nire nell’ambito delle proprie
funzioni e compiti, anche autonomi.
Nel dettaglio,i diversi enti locali hanno specifici protocolli d’intesa con l’autorità giudiziaria o
comunque progetti di collaborazione con i giudici minorili. Si tratta di una collaborazione che
normalmente produce buoni frutti. Ad esempio, dando mandato ai servizi sociali di
predisporre un calendario di incontri assistitisi consegue il vantaggio di far avvenire gli
incontri almeno nella fase iniziale in territorio neutro (presso la sede del servizio o altri locali
idonei) ed alla presenza di personale specializzato che può intervenire per favorire l’incontro
reale tra i soggetti e vincere le eventuali resistenze morali del minore o rimediare alle
incapacità di comunicazione del genitore: nei casi più complessi può anche essere utile far
precedere gli incontri da alcuni colloqui con psicologi o neuropsichiatri infantili, per
comprendere le ragioni della resistenza del minore o della ostilità dei genitori e promuovere
interventi specifici di recupero. E’ però da dire chedegli incontri assistiti non si deve
nemmeno abusare perché in qualche modo possono anche falsare la relazione familiare,
rendendola innaturale e possono ingenerare o ingigantire nel minore l’idea di un conflitto che
potrebbe invece comporsi in altro modo: senza contare che quando per la mancanza di locali
idonei gli incontri vengono espletati in luoghi normalmente destinati alla terapia (i locali della
NPIA) possono anche ingenerare nel minore l’idea di essere “malato” o soggetto psichiatrico.
Nell’anno 2006la legge sull’affidamento condiviso introduce l’art. 709 ter c.p.c che è ormai
riconosciuto come strumento attuativo dei provvedimenti di affidamento. Essenzialmente due
sono i pilastri sui quali si regge la norma: la imprescindibile unione della qualità di giudice
del merito e della attuazione e il potere di comminare sanzioni. Da un lato, infatti, si prende
atto che il giudice della attuazione deve essere necessariamente dotato del potere di
modificare il provvedimento per adattarlo alle necessità che si manifestano nel corso
dell’attuazione stessa; dall’altro, poiché di solito il buon andamento dell’affidamento
dipende dalla collaborazione dei genitori, che è una prestazione infungibile, si cerca di
stimolare la collaborazione dei genitori stessi mediante la coazione psicologica rappresentata
dalle sanzioni. Questi strumenti attuativi coercitivi possono essere utilizzati dal giudice
dell’affidamento dei minori indipendentemente dal tipo di processo in corso (divorzio,
revisione delle condizioni di separazione e divorzio, affidamento figli nati fuori dal
matrimonio).
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Il nodo ancora irrisolto è quello dell’irriducibile opposizione del minore: fino a che
punto il giudice deve insistere? è lecito esercitare coercizione sul minore?
Nella pratica si presentano con una certa frequenza casi in cui il minore si rifiuta di
mantenere i contatti con uno dei genitori, pur se questi contatti sono stati ritenuti dal giudice
conformi all’interesse del minore stesso. Di regola questi atteggiamenti trovano la loro causa
e radice nel conflitto familiare, a volte perché il genitore conviventecon il minore scredita
l’altro, altre volte perché il minore si sente “abbandonato” dal genitore che non vive con lui,
talora perché il minore non ha informazioni corrette sulle dinamiche della separazione dei
suoi genitori.
Si tratta cioè di casi di resistenza oggettivamente ingiustificata (perché gli incontri con il
genitore avversato non sono pregiudizievoli per il minore) ma soggettivamente radicata.
Qui bisogna tenere conto dell’orientamento espresso dalla CEDU:la Corte di Strasburgo in
più occasioni ha osservato che l’obbligo per le autorità nazionali di adottare delle misure al
finedi riconciliare genitori e figli che non vivono insieme non è assoluto, e che lacooperazione
di tutte le persone interessate costituisce sempre un fattore importante. (CEDU, Piazzi contro
Italia 2.11.2010 per il testo in lingua italiana v. http://www.minoriefamiglia.it/)In primo luogo
quindi le autorità nazionali devono sforzarsi di facilitare tale collaborazione, perché
l’interesse del minore si realizza tramite il corretto esercizio delle responsabilità genitoriali e
questa funzione non può che essere chiesta ai genitori stessi. Gli interventi sul minore si
devono attuare con grande prudenza e il ricorso alla coercizione in questa materia non può
essere che limitato: bisogna tener conto degli interessi, dei diritti e delle libertà delle stesse
persone, compresi gli interessi superiori del bambino e dei diritti che gli riconosce l’articolo 8
della Convenzione. Così la Corte, citando i casi ReigadoRamos c. Portogallo eElsho lz c.
Germania(Elsholz c. Germania 13 luglio 2000 www.echr.coe.int.) mette in guardia dal
perseguimento dello scopo ad ogni costo raccomandando “grande prudenza” quando si tratta
di ricorrere alla coercizione in questo delicato settore e puntualizzando che non si può
autorizzare il genitore a far adottare delle misure pregiudizievoli alla salute ed allo sviluppo
del bambino. Ma, con altrettanta fermezza, afferma che la mancanza di cooperazione tra i
genitori non esenta lo Stato da responsabilità.Osserva infatti la Corte Europea che le autorità
nazionali devono sforzarsi di facilitare la collaborazione tra le persone interessate, facendo
ricorso anche a strumenti di mediazione e che le misure adottate non possono essere
stereotipate ed automatiche ma devono essere efficienti, secondo quanto ci si può
ragionevolmente attendere dalle autorità che hanno il dovere di intervenire, pur se bisogna
tener conto degli interessi, dei diritti e delle libertà delle stesse persone, compresi gli interessi
superiori del bambino e dei diritti che gli riconosce l’articolo 8 della Convenzione, agendo
con grande prudenza, con il limite del rispetto della personalità del minore, il che comporta
una attenzione speciale nella attuazione dei provvedimenti che hanno incidenza diretta sul
minore stesso.
In altre parole, occorre trovare un punto di equilibrio tra interessi del minore, interessi del
genitore evalutare attentamente la gravità del pregiudizio cui resterebbe esposto il minore in
caso di mancata attuazione del provvedimento; gravità del pregiudizio e forza coercitiva sono
in rapporto direttamente proporzionale: se è grave il pregiudizio cui il minore è esposto si
può giustificare eccezionalmente la coercizione.
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Quantoallacollaborazione tra le parti interessate, è giustoconsiderare come parte interessata
(anche se non parte processuale in senso tecnico) il minore stesso: se la collaborazione dei
genitori si può stimolare con i mezzi di coercizione indiretta (709 ter c.p.c e secondoalcuni
614 bisc.p.c. e 96 III comma) per “facilitare” la collaborazione del minore, si può ricorrere
oltre che ai consueti mezzi di sostegno psicologico (che sono però inutili seil minore non
collabora con il suo psicologo) anche all’ascolto.
L’ascolto èun momento di partecipazionedel minore al giudizio e l’occasione perquest’ultimo
di esprimere liberamente la propria opinione, ma può diventare anche l’occasione per
spiegargli il provvedimento, le sue ragioni e per responsabilizzare il minore sulle sue scelte
nonché per trovare insieme al minore, o meglio tenendo conto della sua opinione, quel “punto
di equilibrio” che permette l’attuazione del provvedimento. Oppure anche, in taluni
casi,attraverso l’ascolto il giudice può prendere atto che la resistenza del minore è radicata,
invincibile e che non è il caso di utilizzarealcun mezzo coercitivo.
La concentrazione delle tutele ed il conflitto tra provvedimenti
Infine, la nuova formulazione dell’art. 38 disp.att. c.c. nella sua ambiguità pone il
problemadella “prevalenza” tra due provvedimenti in conflitto.
La norma è chiaramente ispirata al principio di concentrazionedelletutele: si vuole che il
minore abbia un unico provvedimento che regola la sua vitae si vuole evitare che i genitori in
contesa tra di loro utilizzino il tribunale minorile come strumento di impugnazione indiretta
ed orizzontale di un provvedimento sgradito reso dal giudice della separazione o del divorzio.
Prima della riforma dell’art. 38 disp.att. c.c. il provvedimento de potestate minorile veniva
inteso come factum superveniens che nella sostanza vincolava il giudice della separazione e
divorzio (Cass. 1401/95).
La riforma dell’art. dell’art. 38 disp.att. c.c. non consente più questa lettura perchè il giudice
della separazione e divorzio è oggi competente esso stesso ad emettere il provvedimento de
potestate.
Se,pur pendendo un giudizio di affidamento viene emesso un provvedimento de potestae
anche dal giudice minorile, quid iuris?Quale dei due provvedimenti si esegue se sono
contrastanti tra di loro?
Il caso è tutt’altro che infrequente perché molti tribunali minorili sono dell’idea che peril
provvedimento di decadenza non si verifichi la vis actractiva in favore del giudice ordinario e
che detta vis non operi neppure per i provvedimenti ex art. 333 c.c. quando a richiederli è il
PM minorile (v. TM Brescia 1.8.2013 contra TM Bari 20.3.2013) perché in tal caso viene
meno il requisito della identità delle parti espressamente richiesto dalla norma. Tuttavia, la
S.C. si è di recente espressa in senso contrario,ritenendo che non è esclusa la competenza del
tribunale ordinario solo perché l’azione ex art. 333 c.c.è proposta dal PM, atteso che tra
PMordinario e PM minorile si possono attuare meccanismi di raccordo(Cass.1349/2015).
L’ordinanza in questione, a parere di chi scrive, non afferma l’identità di funzioni e la
interscambiabilità piena dei ruoli tra PM ordinario e PM minorile: afferma anzi che se il PM
minorile attiva i suoi poteri officiosi ai fini della apertura di una procedura di adozione o di
affido familiare, si è in presenza “di procedimenti limitativi od ablativi della responsabilità
genitoriale, non dettati da un conflitto genitoriale e saldamente ancorati alla competenza del
giudice specializzato”.Diversamente, se le richieste di decadenza o limitazione della
responsabilità genitorialesono interne al conflitto familiare, la partecipazione e l'incidenza del
potere d'impulso del PM è “inferiore a quella rilevata nella prima ipotesi e comunque non
ostativa al radicamento della competenza presso il tribunale ordinario”, in virtù dei citati
meccanismi di raccordo.
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Muovendo da queste considerazionisi può affermare che la partecipazione del PM minorile
determina l’ingresso nel processo di una parte “diversa” (e quindi “ancora” la competenza al
giudice specializzato) solo se ed in quanto il PM minorile eserciti effettivamente una
funzione diversa (i.e. l’impulso alla procedura di adozione) rispetto a quella che può esercitare
anche il suo omologo presso il Tribunale ordinario.
Il meccanismo, che può apparirefarraginoso, si spiega ove si pensi alla finalità della norma,
che è quella di realizzare il principio di concentrazione delle tutele. Come la stessa S.C. rileva
“l'applicazione del principio della concentrazione delle tutele ha, di conseguenza, anche
l'effetto di evitare la proposizione di azioni "di disturbo" volte a paralizzare l'efficacia di
statuizioni non gradite, puntando sulla mancata conoscenza completa della situazione di
conflitto genitoriale o sull'allegazione di fatti diversi”.
Non si tratta quindi solo di una questione di competenza, come siamo abituati a pensarla nel
processo civile. Ed invero, deve dirsi che una lettura della norma esclusivamente centrata
sulla questione della competenza, non sarebbe idonea a risolve re sempre e comunque il
problema della sovrapposizione in fatto dei provvedimenti. Non sempre, infatti, le parti
sollevano eccezione di incompetenza innanzi al TM o la ripropongono in appello, sicchè non
è detto che la regola posta dall’art. 38 come intrepretato dalla S.C., consenta sempre di
prevenire o rimuovere la duplicazione di provvedimenti. In sede esecutiva puòquindi
verificarsi un conflittodi provvedimenti che deve essere risolto, perché è materialmente
impossibile eseguire due provvedimenti contrastanti che riguardano lo stesso minore, né si
può consentire che la vita di un minore resti sospesa nell’incertezza più assoluta.
Una possibile soluzione è quindi quella diguardare all’art. 38 disp.att.c.cnon come una norma
relativa “solo” alla competenza, con tutti i limiti propri delle norme che riguardano la
competenza (primo tra tutti quello che attiene ai tempi e modi della rilevabilità) ma, in primo
luogo, come una norma che pone un principio di ordine pubblico inderogabile e cioè quello
dellanecessaria concentrazio ne delle tutele per il minore, che opera a favore del giudice
ordinario ogni qualvolta vi sia un conflitto tra i genitori; di conseguenza, la violazione di
questo principio sarebbe rilevabile anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo,
compresa la fase esecutiva/attuativa. Questa diversa ottica di lettura dell’art. 38comporterebbe
che un provvedimento del TM emesso in pendenza di un giudizio di affidamento, anche se
non impugnato, dovrebbe comunque in sede esecutiva cedere il passo al diverso
provvedimentoemesso dal giudice ordinario. Questo significa altresì che la Corte d’appello in
sede di impugnazione e pur se non espressamente adita per la questione della competenza,
rilevato il contrasto,potrebbe revocare comunque il provvedimento emesso dal TM perché
confliggente con altro provvedimento contestualmente emesso dal (competente) giudice
ordinario, per garantire la effettività del principio di concentrazione delle tutele.
Inquesta lettura si deve tenere conto però di altro orientamento della S.C. secondo il quale
se il giudizio de potestate è iniziato innanzi al TM prima dell’instaurarsi del giudizio di
separazione o divorzio, resta ferma la competenza del giudice minorile. (Cass.
2833/2015).Tuttaviaè da chiedersi se una vo lta iniziato, anche in data successiva, il giudizio
di separazione o divorzio il tribunale ordinario non divenga competente ad emettere un nuovo
ed eventualmente modificativo provvedimento de potestate.
Questioni complesse, ove il confronto tra prassi diventadi fondamentale importanza,
essenziale, perché solo dalla prassi possono venire, almeno al momento, le soluzioni alle
questioni rimaste ancora aperte.
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