PRIMA PARTE Seduto sulle tegole umide, la
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PRIMA PARTE Seduto sulle tegole umide, la
PRIMA PARTE Seduto sulle tegole umide, la schiena contro una mansarda, Red mandò affanculo il piccione che con un occhio rosso lo guardava male. Il volatile era arrivato vicino ai suoi piedi scuotendo il collo neanche avesse un iPod trapiantato nel cervello e Sharon Jones glielo rintronasse con “100 days, 100 nights”. Si era fermato e aveva fissato perplesso l’uomo. Di gente appollaiata sul tetto di Palazzo Panciatichi in via Cavour, dove c’è il Consiglio regionale della Toscana, fino a quella sera il pennuto ne doveva aver vista poca. Federico Magara, Red per i pochi amici che aveva, il bavero del cappotto di cammello rialzato, lo aveva guardato e, chissà perché, si era ricordato di avere letto sulla “Settimana enigmistica” rubrica “Strano ma vero” che i pittori del Rinascimento avevano copiato le ali banali di quegli uccelli per metterle sulle spalle dei loro aristocratici angeli. Sembrava che lo sapesse, il pennuto presuntuoso che lo guardava impettito e con un velo di disprezzo. “Che cazzo vuoi?” gli gridò ancora Red di brutto e con un piede fece il gesto di allungargli un calcio. Il piccione se ne volò via leggiadro, come un angelo. Lassù Red c’era arrivato uscendo dalla piccola finestra del gabinetto al secondo piano proprio prima che, girando a sinistra, si arrivasse alle due stanze assegnate alla consigliera di maggioranza Alessia Bergero. La Bergero era la donna che Red aveva accettato di uccidere quella sera. 9 Nancy Sinatra cantava “Bang bang, my baby shot me down” e il commissario venuto da Roma Lupo Belacqua, chino sulla sua scrivania di Capo della Mobile fiorentina, al primo piano della Questura, giocherellava con un dito di Dio rigirandolo tra le mani. Insomma, il dito con cui Amma indicò ai Dogon il mondo che aveva appena creato. Almeno, questo è quello che quei negri sostengono e perché no? Da qualche migliaio di anni insistono a dire che loro vengono da una stella vicina a Sirio così piccola che manco si vede e invece c’è davvero e non si sa come la conoscano. Noi, quella nana bianca, l’abbiamo scoperta solo nel 1844 e l’abbiamo chiamata Sirio B. I Dogon la chiamavano Digitaria da parecchio prima e magari hanno ragione loro, visto che sono oriundi di lì. Il dito di Amma, a dirla tutta, sembrava piuttosto un cucchiaino, forse d’argento, più probabilmente di peltro. Marie Claire glielo aveva spedito dal Mali assieme alle fotografie che lui aspettava da tempo. Dei Dogon, di Amma e del suo dito, di Sirio B, C e magari D, a Lupo Belacqua fregava parecchio. Da un po’ di tempo si era scoperto politeista. Anzi, proprio pagano. Il primo passo verso la sua riconversione all’antica religione era stata un’illuminazione: “Ao’, ma perché tutti a dire che gli antichi Greci erano dei ganzi con la filosofia, l’architettura, l’arte, la traggedia, la poesia, la scultura e poi che erano dei minchioni con la religione, con tutti quelli dei? Nun ce posso crede! È che la raccontano male, è che questa deve essere propaganda cristiana, giudea e poi pure mussulmana, di quelli che si sono buttati per ultimi sul mercato delle anime, con il nuovo articolo del Dio unico che dovevano piazzare”. Non gli andava, a Belacqua, quella storia dei monoteisti, che Dio se ne sta da qualche altra parte, cielo, paradiso, aldilà, e diceva: “Vuoi vedere che, alla fine, proprio i cristiani vogliono far passare Gesù per un ateo? Che altro può essere 10 uno che avrebbe spostato Dio da questo mondo e lo avrebbe messo in un posto che nun se sa dov’è e che nessuno conosce? Non è lo stesso che eliminarlo? Solo che loro, furbi, mica lo dicono. E, poi, la trovata pubblicitaria: tutti di nuovo in ciccia e ossa dopo la fine del mondo, sai che bello! Ma – pensava Belacqua – se prima viene una faccia e poi un culo, vuol dire che c’è un prima e un poi, un davanti e un dietro. Se anche in Paradiso uno sta qui e l’altro sta là, c’è spazio e, allora, scusa, fatte un po’ più in là. Tutto come adesso n’antra volta! E che cavolo”. Aveva un caschetto di capelli lisci e biondi che non si spettinava mai, un nasino all’insù che ti mandava in continuazione a quel paese, la voce con troppi decibel, due occhi celesti che bucavano i tuoi e sprizzava energia, troppa, da tutti i nervi. Anche quel pomeriggio. La consigliera di maggioranza Alessia Bergero arrivò in Regione e si dava da fare per far sapere in giro che, a lei, la sparata che c’era quel giorno sulla Nazione faceva l’effetto di una brezzolina: le dava il buon umore. Anche perché, ma questo si guardava ben dal dirlo in giro, era stata proprio lei a dare la soffiata al cronista Stefano Liberati. Per i corridoi, pochi metri sotto il culo di Red appoggiato sulle tegole, parlava ad alta voce con il segretario personale che la seguiva. I tacchi da dieci erano nacchere che battevano il tempo: “Dai retta, Cipollino, il manifesto si fa, anche se il convegno è solo tra pochi giorni. E che? Non siamo mica in clandestinità!”. “Cipollino” era Massimo Peruzzi, poco più di cinquanta anni, quasi tutti spesi nel partito, quando aveva un altro nome e un sacco di deputati. Era una vittima ignota di Mani pulite, il Peruzzi, che tanto tempo prima era entrato addirittura nella lista dei candidati alla Camera e poi era arrivato il ciclone. Vittima innocente, ché non aveva ancora avuto il tempo 11 di arraffare una lira. Solo che una mattina si era svegliato e attorno c’erano solo le macerie del partito. Montecitorio era diventato lontano come Macondo. Adesso doveva fare tutto per la Alessia Bergero e per l’Edoardo Marri, il fidanzatodeputato della prima: segretario particolare, autista, portaborse, amministratore e soprattutto zerbino. “Buongiorno!” e la borsa di Alessia Bergero, compiuto un ampio semicerchio nell’aria, atterrò sulla scrivania di Umberto Del Plata, il giornalista giovincello mai stato in un giornale, ma solo negli uffici stampa, che da un po’ lavorava per la Bergero. Il pennivendolo precario, eliminata con cura ogni espressione dalla faccia, si alzò stringendo la rassegna stampa tra le mani e, come tenesse un vassoio pieno di cristalli fragilissimi, lo porse alla consigliera. Sulla prima di cronaca della Nazione, a sei colonne, avevano sbattuto: CON IL COSTO TROPPO ALTO DELLA MA.RA.MA. COSTITUITI FONDI NERI DAGLI ACQUIRENTI? Titolone indirizzato diritto diritto al partito della Bergero e al suo gruppo consiliare, lì dentro la Regione, dove lavorava anche Umberto Del Plata, il giovane giornalista precario addetto stampa dell’Alessia. C’era andato giù duro Stefano Liberati, il giornalista della Nazione, cronaca regionale, e c’era andato sicuro, ché quel punto interrogativo serviva a coprire i dubbi quanto il tanga della Sabrina Ferilli aveva coperto le sue chiappe il giorno che la Roma vinse lo scudetto. Il fatto era che il Liberati le informazioni le aveva sempre buone e questa, poi, direttamente dalla Bergero. Se per un grado avrebbe venduto la mamma a un albanese con la scabbia, non avrebbe rischiato un pelo su una notizia non sicura. Uno che ci godeva da morire a schiz12 zare fango. Mica per convinzione politica, avrebbe tranquillamente sparato sull’altro lato se avesse lavorato per un giornale dell’altra idea. Era che lui aveva sempre un orecchio girato dalla parte del padrone. La carriera era la sua ideologia. Qualche metro sopra, Red fumava una sigaretta dietro l’altra, riparandole dentro la mano concava, perché non si consumassero troppo velocemente e buttava le cicche in una piccola scatola di metallo che aveva contenuto mentine, perché lo sapeva bene che i mozziconi avrebbero potuto essere una buona traccia. Red stava aspettando le sette, quando l’ultimo impiegato del secondo piano sarebbe uscito dal palazzo del Consiglio regionale della Toscana. Tutti, a parte Alessia Bergero. Lei ogni sera faceva tardi lì dentro. Ma, paganesimo a parte, più di Amma e del suo dito al commissario Belacqua interessavano le foto che Marie Claire gli aveva mandato. Gli erano costate un sacco di soldi: quasi mezzo milione di Euro. Metà del gruzzolo che aveva recuperato alla fine di una delle ultime indagini, ufficialmente un fiasco, tre o quattro morti ammazzati, nessun colpevole e, appunto, un sacco di soldi e di diamanti spariti. I colpevoli, lui, sapeva chi erano, ma non c’era più niente da fare: si erano ammazzati tra loro. I soldi, invece, li aveva ritrovati, ma non lo aveva detto a nessuno. Gli sarebbe dispiaciuto ridarli al proprietario, che tanto era uno schifo pure lui e ce ne aveva parecchi altri tra Svizzera, Cayman e Liechtenstein. Allora ne aveva mandato la metà a Marie Claire, ingegnere nucleare in pensione, amica di quel lama francese che è amico del Dalai Lama, di un accademico di Francia e di scultori inquietanti, una che con il suo gruppo Tabalé faceva belle cose laggiù in Africa. 13 Con l’altra metà Lupo Belacqua aveva pagato i debiti ed estinto il mutuo per la casa. Roba da piccolo borghese, era stato costretto ad ammettere. L’estate prima, nella villetta alle porte di Aix, Marie Claire gli aveva parlato del progetto di una diga, di corsi d’acqua, di roba così, per potere insegnare ai selvaggi venuti da Sirio B a coltivare anche le zucchine e i piselli. Era una gran bella persona, Marie Claire. Okey, aveva detto Lupo, mostrando nel sorriso quasi infantile i due denti davanti leggermente incrociati e ravvivando di rosso le lentiggini sulle gote. Però, visto che dovete costruire qualcosa che ha a che fare con l’acqua, allora con i miei soldi ci fate pure un aquafan. Sì, proprio i giochi d’acqua per i ragazzini. Sì, nel deserto o quasi, e questo era il bello. Magari non proprio come quello di Riccione, dei delfini si poteva fare a meno, ma comunque roba divertente. Roba per far ridere i ragazzini. L’acqua per giocare era la stessa che serviva per l’irrigazione, solo che adesso, prima di finire per terra, faceva un po’ di giri per scivoli e cascatine e i ragazzini ci andavano con le vecchie camere d’aria nere delle ruote dei camion. L’acqua, poi, veniva recuperata quasi tutta. Se ne andava quella che evaporava. Pazienza, un paio di zucchine in meno. Lupo era convinto che niente sia più necessario del superfluo. Le foto dei ragazzini sugli scivoli d’acqua che Marie Claire gli aveva mandato, con quelle facce nere attraversate dal lampo bianco dei denti, gli ribadirono che aveva ragione. Avevano solo il difetto di ricordargli, a contrasto, i ghigni inquietanti di Camilla e Virginia, le sue bambine. “Cavolo – si rese conto Belacqua – sembra ieri che me ne stavo dallo psicanalista a parlare male dei miei, e mo’ è già il turno loro di parlare male di me...”. 14 Nancy Sinatra insisteva: “Bang bang, my baby shot me down”. “Via, via, sciocchezze – diceva l’Alessia nello stesso momento, a più o meno novecento metri di distanza dalla questura, allontanando con una mano schifata la rassegna stampa che le porgeva il Del Plata! So già tutto. Io me ne sbatto las pelotas. Sono cazzi degli altri. Al convegno ci faremo due risate. Del Plata, stia attento, mi ascolti bene: lei di questa storia non sa niente, se dovesse telefonare qualche giornalista, io non ci sono. Della faccenda, poi, che con la mia interrogazione in pratica bloccherò il nuovo piano del commercio, lei non deve sapere assolutamente niente! Chiaro? Bortolotti! Bortolottiiii!”. Con uno scatto da centometrista Guelfo Bortolotti, l’impiegato della Regione delegato al gruppo consiliare della Bergero, fu sulla porta. Aveva cancellato il sorriso furbo che aveva due minuti prima dell’arrivo della Bergero, i due occhietti a spillo brillavano meno e sembrava addirittura serio: “Dimmi Alessia”. “Hai sentito anche tu. Non ci sono per nessuno e sull’interrogazione, silenzio totale! To-ta-le! Nessuno, dico nessuno, deve sapere quello che farò. Adoro le sorprese. Ha telefonato l’onorevole Marri?”. “Ostia, sì. Ha detto se lo richiami al cellulare. Credo che sia in commissione”. La Bergero smosse l’aria con la mano, come a cacciare una mosca fastidiosa, e rientrò nel suo ufficio. “Oh – gongolò Guelfo Bortolotti – Del Plata, questa è roba grossa davvero! Cazzo, da oggi ci divertiamo da matti!”. Umberto Del Plata, contratto a termine, stipendio, sedia e scrivania precari, aveva evitato ogni commento. “Però – continuò insinuante a bassa voce il Bortolotti come 15 uno che la sa più degli altri, anzi che la sa solo lui – mi sa che stavolta il Liberati ha messo un piede su una merda che non se l’immagina nemmeno. Se avesse saputo chi sarebbe andato a toccare con quella roba, si sarebbe mangiato il computer prima di scrivere una sola parola”. A quel punto il Del Plata osò chiedere a Guelfo Bortolotti: “E chi sarebbe?”. “Ah, Del Plata, tu non te lo puoi neanche immaginare. E io invece lo so. Però è meglio lasciare stare, neanche nominarlo chi dico io. Dicono delle cose a proposito della Ma.Ra.Ma. Dicono, ma chi lo può sapere? Sul giornale non c’è scritto niente di quello che c’è davvero sotto, non lo sa neanche il Liberati. C’è da vederne delle belle! Dicono – e Bortolotti abbassò di nuovo il tono della voce – che dietro ci sia nientemeno che… il Ragno. Come d’altra parte dietro a tutto in questa città...”. “Il Ragno? – si decise a chiedere il Del Plata pur sapendo di fare un passo in territori che sembravano pieni di insidie, specie per un precario – E chi è?”. “Chi è? Passa alla domanda successiva, ché è meglio”. “Bene. Allora perché la Bergero vuole bloccare il piano del commercio? Così va contro la sua stessa maggioranza”. “Oh, l’Alessia l’aveva già detto da un sacco di tempo, prima che uscisse il Liberati con ‘sto articolo: la Ma.Ra.Ma. per me non diventerà mai un centro commerciale! E, cazzo, con la sua interrogazione il piano commerciale cade! Quella è matta. E io mi diverto”. Dopo l’illuminazione, Belacqua era passato al ragionamento: “Che so’ gli dei? Persone, ma mica persone come noi, con le gambe, le braccia e il resto. In un sacco di posti, anche se non ce sta un uomo, ci sono intelligenza e volontà, e allora lì c’è una persona, anche se nun se vede. Ce sta un Dio, insomma. 16 L’albero non c’ha l’intelligenza per capire che per campa’ deve girare le foglie verso il sole? Non c’ha la volontà per farlo? E un bel culo di donna, perché ti fa girare la testa, anche se stai a pensa’ alle tasse che devi pagare? L’eros, insomma, funziona da solo, che ce devi pensa’ tu? Venere Callipigia, avevano chiamato un bel culo quei marpioni di Atene, Venere dalle belle chiappe, insomma. A essere più educati, ‘dalle belle natiche’, dal greco kalós e pygé, il papà magistrato di Lupo Belacqua gli aveva fatto fare il Classico. Tutta roba che funziona da sola, senza che tu fai niente. E lo spermatozoo? Che t’ha fatto lo spermatozoo? Lui parte come fosse a un Gran Premio e sa dove andare, ché deve fregare tutti i concorrenti. E chi ce lo manda? Il proprietario? No, fa tutto da solo. No, non ce lo manda neanche quel Dio che se ne sta chissà dove. Un Dio è la vita dello spermatozoo, un altro è la vita dell’albero, un altro ancora le chiappe di Venere. Stanno qui, in mezzo a noi, bisognerebbe pensarci quando s’ammazza una zanzara”. 17