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RASSEGNA STAMPA
lunedì 18 maggio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Left del 16/05/15, pag. 12
Arcistorie
A Ponticelli il cinema cambia la realtà
E’ il 1990, a Ponticelli, periferia est di Napoli, un gruppo di appassionati di cinema lancia
una campagna di mobilitazione: “Salviamo il Pierrot”, con l’obiettivo di riportare in attività
l’unico cineteatro del territorio. Cultura e aggregazione popolare sono gli strumenti con cui
i cinefili si oppongono al degrado urbano. Ed è questa convinzione che li porta a vincere la
battaglia, sostenuta da numerose personalità del mondo del cinema, primo fra tutti il
regista Ken Loach. Da qui prende il via l’esperienza del circolo Arci Movie. A parlarcene è
il neopresidente Roberto D’Avascio che, con orgoglio, racconta: “Quella di Ponticelli è una
realtà in cui il tasso di abbandono scolastico è elevatissimo, le guerre di camorra son
ricominciate nuovamente da qualche mese e la droga diventa troppo spesso la soluzione
più facile per tanti giovani”. Roberto racconta come, grazie al lavoro e alla passione del
circolo, si sia riusciti a trasformare una sala cinematografica degli anni 50 in un vero e
proprio modello di impresa sociale. “Siamo riusciti, con gli strumenti tipici del no profit, a
replicare le attività su tutto il quadrante orientale di Napoli”.
Rassegna, eventi, laboratori e incontri d’autore con ospiti illustri del mondo della cultura. In
poche parole, un successo: il cineforum conta più di 1000 soci, la mediateca vanta un
catalogo con più di 7.500 titoli e ogni anno vengono organizzate oltre 120 proiezioni nelle
scuole per diffondere la cultura cinematografica. Infine, “anche grazie alla collaborazione
con il regista Leonardo Di Costanzo” precisa il presidente, “lavoriamo a Filmap (Film a
Ponticelli), un centro di formazione e produzione cinematografica”.
Questo presidio Arci è vivo e in continuo fermento.
Prima dei saluti, Roberto ci invita al prossimo appuntamento: Astradoc, un viaggio in 5
tappe al cinema Academy Astra di Napoli, per tutto il mese di maggio.
Da Radio Popolare del 14/05/15
Intervista, nel corso del Gr delle 19.30, al vicepresidente nazionale Arci Filippo Miraglia
sull’emergenza sbarchi e l’Agenda Europea sulle migrazioni.
Da Repubblica.it del 17/05/15 (Roma)
Viaggio fra i disperati di Ponte Mammolo.
Dopo lo sgombero la tendopoli in strada
I profughi eritrei: "Quelle baracche erano la nostra casa". Sul New York
Times il caso del campo visitato dal Papa
di LORENZO D'ALBERGO e VIOLA GIANNOLI
"E se piove? Vi prego, non potete restare qui. Dovete dire agli altri che "Messi d'Oro" non
esiste più. Esiste qualcosa di meglio". L'assessore Francesca Danese, si sbraccia, cerca
di arrivare a un compromesso. Poi tira fuori una sigaretta. A porgerle l'accendino è
Kibrom. Eritreo, vive da sei anni a Roma ed è uno dei cento profughi che lunedì scorso
hanno visto crollare ancora le proprie certezze. Sgomberato dalla baraccopoli di Ponte
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Mammolo, rasa al suolo dalle ruspe, ora bivacca con i suoi connazionali in un parcheggio
a poche centinaia di metri dalla metro B. Dal marciapiede su cui ha piazzato il materassino
si vede il cumulo di macerie che fino a qualche giorno fa era casa sua e che a febbraio era
stato visitato a sorpresa da Papa Francesco.
Spiega l'assessore: "Sono qui per dire a donne e bambini che c'è una struttura per loro
con delle stanze e dei bagni. Si è deciso per lo sgombero perché le condizioni igieniche
erano insostenibili. Nel campo c'era stato anche un incendio. Una soluzione? La stiamo
cercando con prefettura e Viminale. L'importante è lavorare non solo per sanare
un'emergenza, ma per una vera integrazione". Gli occhi di Kibrom si illuminano: "Vogliamo
una casa, un posto dove cucinare, da pulire. Io sono un infermiere e ormai mi sento
romano. Vorrei rimanere qui".
Il centro Baobab di via Cupa è una delle proposte del Comune, un'ex vetreria dove già si
trovano alcuni sgomberati da Ponte Mammolo. Ma l'offerta non sembra convincere i cento
eritrei, qualcuno c'era già stato e aveva deciso di tornare alle casette abusive della
"Comunità della Pace": "Rimarremo qui un'altra notte - spiega Weldu, facchino sbarcato a
Lampedusa nel 2008 - e poi si vedrà. Ora abbiamo anche le tende". Quattro, da dieci posti
l'una, le ha donate Decathlon: sono arrivate venerdì sera dal negozio di Settecamini dopo
il passaparola su Twitter. I profughi le hanno montate attorno ai bagni dell'Atac.
Dovrebbero consentire ai cento sfollati di farsi una doccia, ma sono ridotti a un tugurio.
Tanto che donne e bambini fanno la fila alla fontanella in mezzo al parcheggio per lavarsi
la faccia. A mitigare tanta disperazione sono stati gli abitanti del quartiere. "Qualcuno ha
regalato dei gazebo - racconta Tonino, un residente storico - tutti hanno dato una mano.
Anche quelli di ultradestra, gli stessi che fino a qualche tempo fa avrebbero voluto
prendere a bottigliate questa gente, hanno portato cibo e coperte.
La verità è che queste persone non hanno mai dato fastidio a nessuno. Però ora sono
costrette a fare i loro bisogni nelle aiuole e non vogliamo che la nostra pazienza e la
nostra educazione finiscano tutte d'un tratto". C'è anche chi porta pizza, coperte,
detergenti, la comunità eritrea di Collatina lo zighinì per cena. Una rete di solidarietà che
ha coinvolto anche Conad. Tirato in ballo su Twitter, l'amministratore delegato Francesco
Pugliese ha promesso: "Stiamo prendendo contatti con le associazioni umanitarie per
capire come dare sostegno". Medici per i diritti umani ha allestito un ambulatorio mobile,
Caritas e Sant'Egidio vanno e vengono in questo piccolo mondo tra la Tiburtina e la
Togliatti abitato per 13 anni, fino a lunedì,
da eritrei, sudamericani, indiani, ucraini e approdato ieri anche sul New York Times: "Una
vita precaria, ridotta in macerie", il titolo. In parlamento è arrivata l'interrogazione di Giulio
Marcon (Sel) al ministro Alfano. Le associazioni - Amnesty, Arci, Asgi, Prime Italia - hanno
scritto invece al Comune. "Passo qui in incognito ogni sera per controllare la situazione",
sussurra l'assessore. Domani tornerà in veste ufficiale.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/05/17/news/viaggio_fra_i_disperati_di_ponte_mam
molo_dopo_lo_sgombero_la_tendopoli_in_strada-114530737/
Da la Gazzetta del Mezzogiorno del 17/05/15
Tagliaerbe e rastrelli volontari «a gara»
puliscono Ostuni
OSTUNI (BRINDISI) – Tagliaerbe e rastrelli per una 'garà che ha coinvolto gruppi di
volontari che si sono dedicati alla ripulitura degli orti storici 'extra moenià, terrazzamenti
che si trovano appena al di sotto delle mura del centro storico di Ostuni. L’iniziativa, una
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sintesi tra agricoltura, arte e tutela del patrimonio, è stata voluta dal circolo Arci Pablo
Neruda di Ostuni e ha coinvolto le associazioni partner dell’Apulia Land Festival.
Alle 7 in punto i volontari si sono ritrovati nel cuore del borgo antico della Città bianca per
ripulire gli orti, in parte nel degrado, e per sensibilizzare alle pratiche di manutenzione
ambientalmente compatibili.
Tutto ciò in preparazione dell’edizione 2015 di 'AgriCulturLand’, un festival che si svolgerà
dal 4 al 6 settembre prossimi proprio tra gli orti storici terrazzati di Ostuni e in diversi altri
comuni della Valle d’Itria, celebrando in questo modo il territorio pugliese e le sue
tradizioni agricole. Sono 12 gli artisti selezionati quest’anno dalla curatrice del Festival, la
critica d’arte Ilaria Gianni. Ognuno di loro, immergendosi durante una settimana di
residenza artistica nel contesto locale, ideerà e progetterà un’opera site-specific
direttamente pensata per il territorio e realizzata sul territorio. La tre giorni della kermesse
di Ostuni sarà poi arricchita da una serie di eventi collaterali – concerti, spettacoli teatrali,
incontri letterari, laboratori didattici – rigorosamente in linea con il tema del festival.
http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/homepage/taglierbe-e-rastrelli-volontari-a-garapuliscono-ostuni-no818138
Da la Nazione.it (Livorno) del 16/05/15
Pubblicato il bando del Premio Ciampi 2015
La rassegna sulla canzone d'autore si terrà a novembre
Artisti sul palco del Premio Ciampi 2014 Artisti sul palco del Premio
Ciampi 2014
Livorno, 16 maggio 2015 _ La canzone d'autore come ogni anno torna protagonista a
Livorno. E' stato infatti pubblicato il bando di concorso dell'edizione 2015 del Premio "Piero
Ciampi-Città di Livorno" la rassegna dedicata al poeta e musicista scomparso
prematuramente nel 1980. Una manifestazione, giunta alla sua 21a edizione, che negli
anni ha portato la città a essere un punto di riferimento importante per quanto riguarda la
scena musicale nazionale. Da Livorno infatti, grazie al Premio Ciampi, hanno iniziato la
carriera molti artisti come Bandabardò, La Crus, Offlaga Disco Pax, Gatti Mezzi, Letti Sfatti
mentre tanti altri nomi illustri, a partire da Fabrizio De André e Luciano Ligabue, con la loro
presenza in qualità di ospiti hanno riconosciuto alla manifestazione un ruolo di primo
piano.
Possono partecipare al concorso singoli artisti o gruppi musicali che presentino due brani
originali entro la data del 30 giugno 2015. Facoltativamente sarà possibile presentare
anche una propria versione di un brano di Piero Ciampi che sarà giudicato separatamente
dalla Giuria. La Giuria, presieduta da Franco Carratori, provvederà, quindi, secondo un
proprio calendario dei lavori, alla selezione dei vincitori 2015, che saranno premiati in
occasione delle serate finali della manifestazione in programma nel mese di novembre.
Per maggiori informazioni è possibile rivolgersi a: Associazione Premio Ciampi, c/o Arci
Livorno, Via S.Omobono 1b, 57100 Livorno; tel. 0586/892984. Il bando è reperibile anche
sul sito internet: www.premiociampi.it. Il Premio Ciampi è organizzato dall'associazione
culturale Premio Ciampi con il contributo di: Regione Toscana, Comune di Livorno, ,
Fondazione Teatro Goldoni, Fondazione Livorno, Arci.
http://www.lanazione.it/livorno/ciampi-premio-1.961940
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Left del 16/05/15, pag. 87
Il no profit che fa bene alla crescita culturale
Le politiche culturali sono al centro della riflessione che riguarda il Terzo Settore. Il ruolo
del no profit, in costante crescita, è primario nella valorizzazione del patrimonio culturale,
nell’organizzazione e promozione di eventi. Se ne parlerà il 21 maggio alla Sala Convegni
del Senato, dalle 10.30 alle 13.00. Incontro promosso dal Forum del Terzo Settore.
Del 18/05/2015, pag. 13
Coalizione di Landini, ecco il programma
Lotte sociali, mutualismo, opposizione al governo. Il leader Fiom: “Non
abbiamo ambizioni elettorali” Assemblea della rete di associazioni il 6 e
il 7 giugno a Roma, ma Libera e Emergency si defilano
MATTEO PUCCIARELLI
Appuntamento a Roma, il 6 e 7 giugno. Un’assemblea pubblica per «associazioni,
movimenti, sindacati, donne e uomini che in questi anni si sono battuti contro le molteplici
forme di ingiustizia, discriminazione e progressivo deterioramento dei diritti. E che oggi
decidono di promuovere un cammino comune ». La “coalizione sociale” di Maurizio
Landini prende forma così, con un appello che verrà reso pubblico domani. Ma non sarà
un soggetto politico. O almeno, non nell’immediato. «Come ha compreso il movimento
delle donne — si spiega — vogliamo dimostrare che si può far politica attraverso un agire
condiviso tra soggetti diversi, che si può rimotivare le persone a occuparsi dell’interesse
generale nello spazio pubblico, al di fuori e non in competizione rispetto a partiti,
organizzazioni politiche o cartelli elettorali».
L’incontro di messa a punto del progetto è avvenuto alla sede nazionale dell’Arci lo scorso
fine settimana. Non c’era solo la Fiom, ma anche esponenti del variegato mondo dei centri
sociali (come Action), Libertà e Giustizia, la Rete della Conoscenza, Act e associazioni
ambientaliste. Ma stavolta si sono defilate sia Libera che Emergency, che sì
collaboreranno ma indirettamente, più attraverso i singoli che altro. Una curiosità: si è
rivista Simona Panzino, la candidata “senza volto” alle primarie dell’Unione del 2006 vinte
da Romano Prodi. Non c’era nessuno (o quasi) dei partiti della sinistra come Sel,
Rifondazione e L’Altra Europa con Tsipras. Ma la questione partitica è stata toccata più
volte, ricordando che la “coalizione sociale” si struttura all’infuori delle vecchie
organizzazioni. Le parole d’ordine? Mutualismo, lotte sociali, mobilitazione e opposizione
al governo. «Non lasciare nessuno indietro o da solo è la prima ragione che ci porta a
intraprendere questo percorso per cambiare il Paese e l’Europa, formulando proposte che
siano un’alternativa concreta alle divisioni e alle solitudini in cui ogni persona rischia di
essere abbandonata», recita il documento. Alla due giorni verranno istituiti quattro gruppi
di lavoro: “Unions”, dove si parlerà di reddito, migranti e democrazia; “Saperi e
conoscenze”, e si affronterà anche la riforma della scuola; “Rigenerare le città”;
“Economia, politica industriale e ambiente”. Tempi di intervento uguali per tutti e nessun
esponente politico invitato sul palco. La seconda fase invece sarà quella della mappatura
e del radicamento territoriale: «Realizzare un modello d’impegno che si manifesti e
qualifichi a partire dai territori, dai luoghi di lavoro e si caratterizzi per il fatto che ciascuno
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di noi offrirà il contributo delle proprie migliori pratiche e dei propri saperi; sulla base di tali
principi in reciproca autonomia aderirà alle campagne per obiettivi comuni che insieme
decideremo di avviare». Nel corso della riunione il leader dei metalmeccanici della Cgil ha
parlato di come — ad esempio — occorra reinterpretare il concetto di legalità: «Per una
vita l’abbiamo difesa in fabbrica. Ma adesso le leggi le fa direttamente Confindustria
attraverso questo governo, in un clima di piena restaurazione». Alla domanda (solita) di
cosa sia davvero la “coalizione sociale”, Landini risponde così: «Un cantiere in evoluzione,
senza ambizioni elettorali. Fate una cosa rivoluzionaria: prendetela per quel che è, senza
retropensieri ».
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ESTERI
del 18/05/15, pag. 8
Missione in Libia, i Paesi maggiori verso il via
libera
Francesca Basso
Il Consiglio dei ministri degli Esteri e della Difesa dell’Unione Europea oggi è chiamato ad
approvare il piano di intervento navale contro i trafficanti di esseri umani che salpano dalle
coste della Libia, elaborato dall’Alto rappresentante per la Politica estera, Federica
Mogherini. È il cosiddetto Cmc, che sta per Crisis Management concept . Dopo le
dichiarazioni della Francia contro il sistema delle quote per la redistribuzione dei migranti
previsto dall’Agenda europea sull’immigrazione, che va ad aggiungersi al fronte del no
capeggiato da Londra e sostenuto dai Paesi dell’Est Europa, il piano navale sembra
essere al momento la parte del progetto di intervento che vede gli Stati Ue più compatti.
Insieme all’Italia, hanno già dato la disponibilità a fornire navi anche Gran Bretagna e
Francia, oltre a Germania e Spagna. A Bruxelles oggi non si aspettano ostacoli almeno
per il via politico alla missione navale. Le parole del premier francese Manuel Valls,
lasciano intendere dalla Commissione Ue che non ha voluto fare dichiarazioni ufficiali, non
sarebbero incompatibili con lo spirito delle quote riferite ai migranti che chiedono asilo per
avere una protezione internazionale. Ma lo strappo francese è evidente.
Una volta approvato il piano navale, è necessaria una risoluzione Onu – attesa nelle
prossime settimane – che definisca le regole di ingaggio. Infatti il piano prevede un
complesso lavoro di intelligence per individuare i trafficanti e procedere alle incursioni
mirate sulle coste per l’eliminazione a riva, o il sequestro e la confisca al largo dei barconi.
Operazioni per le quali è essenziale che la Ue abbia una risoluzione Onu, precondizione
anche per l’approvazione definitiva da parte dei capi di Stato e di governo della Ue nel
vertice di fine giugno. Sulla sede e sul comandante dell’operazione ci dovrebbe essere
l’accordo di accettare la candidatura dell’Italia. Quindi il quartier generale dell’operazione,
che si chiamerà Eunavfor Med, dovrebbe essere Roma e il suo comandante operativo
l’ammiraglio Enrico Credendino. Il Consiglio oggi non affronterà solo il piano navale, bensì
la strategia europea complessiva per l’immigrazione dal punto di vista delle relazioni con i
Paesi di origine dei flussi migratori, a cominciare dal rafforzamento delle missioni Ue nei
Paesi confinanti con la Libia. Ieri in un’intervista alla Bbc un consigliere del governo libico
di Tobruk, Abdul Basit Haroun, ha detto che l’Isis starebbe infiltrando terroristi sui barconi.
Un rischio che il governo italiano non esclude a priori, ma che al momento non risulta ai
servizi di intelligence né alle procure della Repubblica.
del 18/05/15, pag. 16
Isis conquista Ramadi I jihadisti sconfitti dai
siriani a Palmira
Una città chiave in Iraq cade nonostante i raid Usa L’annuncio di
Damasco: «Salvi i monumenti romani»
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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME Gli ultimi poliziotti e militari si erano
trincerati nel quartier generale della città e nel palazzo di fronte, un tribunale. Sono fuggiti
anche loro, come gli oltre 8 mila civili. «Ramadi è caduta» ha ammesso il portavoce del
governatore. E con la capitale lo Stato Islamico estende il controllo sulla provincia
irachena di Anbar.
I morti nei combattimenti sono già cinquecento, l’avanzata dei miliziani in nero non è stata
fermata neppure dai bombardamenti americani. Adesso le truppe del Califfato sono anche
rafforzate dagli armamenti recuperati nel centro di comando, tank e mezzi blindati.
Il governo iracheno sta preparando la controffensiva. Il premier Haider Al Abadi ha
annunciato di voler inviare le milizie sciite che dovrebbero combattere a fianco dell’esercito
regolare come è già successo per la riconquista di Tikrit. La provincia di Anbar è
strategica, i suoi confini arrivano fino ai dintorni di Bagdad. La maggioranza delle tribù è
sunnita, come gli estremisti dello Stato Islamico: l’intervento dei commando sponsorizzati
e addestrati dall’Iran potrebbe creare tensioni con i capiclan locali, che li considerano
quasi invasori stranieri.
L’assalto degli uomini del Califfo è stato invece respinto a Palmira, dall’altra parte della
frontiera. La televisione del regime siriano diffonde le immagini delle meraviglie
archeologiche, patrimonio dell’Unesco, il governatore della provincia di Homs rassicura
che la zona «è stata ripulita» e le colonne, gli archi, i monumenti dell’antica oasi a nord-est
di Damasco «non sono stati toccati».
In due giorni di battaglia — calcola l’Osservatorio siriano per i diritti umani, organizzazione
che si basa su una rete di attivisti locali — i morti sono oltre 315: i soldati dell’esercito
(123) e le truppe agli ordini del Califfo (135). Tra le vittime anche 57 civili, per la maggior
parte freddati per strada dagli estremisti.
La minaccia su Palmira resta, lo Stato Islamico si sarebbe ritirato a pochi chilometri di
distanza. Come ai tempi dell’impero romano la città è la porta di passaggio tra l’Est e
l’Ovest, qui corre l’autostrada principale che unisce le due parti della Siria, le milizie
sunnite vogliono premere verso la capitale, la fortezza di Assad.
L’obiettivo è anche raggiungere Homs, tagliare in due il corridoio di sicurezza che
dall’inizio della guerra quattro anni fa il regime sta cercando di mantenere: sono le regioni
al confine con il Libano che uniscono Damasco con Latakia, il porto sul Mediterraneo
abitato dagli alauiti, la minoranza che controlla il Paese da oltre quarant’anni.
Se Damasco cadesse, diventerebbe l’ultimo bastione del clan al potere.
Davide Frattini
Del 18/05/2015, pag. 16
Flop e vittime civili i droni non bastano la
svolta di Obama ok ai soldati sul campo
VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON
NELLA nebbia verdognola dei visori notturni montati sugli elmetti di commando,
s’intravede il profilo della nuova strategia americana nella guerra allo Stato Islamico, non
più droni, certamente non più invasioni in massa, ma stilettate dirette, di uomini in campo
contro altri uomini.
Il successo della missione condotta dalla Delta Force, il reparto della US Army addestrato
per azioni di commando come i Seals della Navy, nell’eliminazione dell’”Emiro del Petrolio”
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Abu Sayyaf in Siria segnala l’avvio di una terza fase nella guerra infinita contro le
organizzazioni terroristiche lanciata nelle ore arroventate dell’11 settembre. La fase
dell’”Arrivano i Nostri”. Tragicamente naufragata la strategia del “Cambio di Regime” e
dell’”Esportazione della Democrazia”, che ha prodotto soprattutto in Iraq l’esatto contrario
di quello che le farneticazioni dei neo-con teorizzavano, e sempre più controproducente la
teleguerra condotta con droni che compiono stragi all’ingrosso uccidendo civili e ostaggi
come l’italiano Lo Porto, Barack Obama ha autorizzato il Pentagono a condurre blitz con
reparti speciali. A impegnare uomini, non macchine. A rischiare vite americane e non
soltanto robot volanti, nella caccia al nemico.
Alla fine del proprio mandato presidenziale, e senza più campagne elettorali da condurre o
voti da corteggiare, Obama ha avvertito l’imperativo di un cambiamento che servisse non
soltanto a rendere più efficaci e mirate le azioni contro il principale avversario del giorno,
l’Is , o Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, come lui preferisce chiamarlo, ma a rendere
più accettabile e insieme palpabile lo scontro. Nella intrinseca immoralità delle guerre e
della violenza, la strage con il telecomando, il massacro vissuto come un videogioco
senza rischio per il «giocatore», rappresenta un nocciolo di iniquità specialmente
ripugnante, non avendo il nemico niente da opporre, se non violenze ancora più ignobili.
E’ evidente che l’invio di reparti ufficiali, non di mercenari o di killer sotto «false flags»,
false insegne, in territori di altri Stati teoricamente sovrani pur se in piena cancrena come
la Siria, la Libia o lo Yemen, rappresenta un azzardo politico che neppure vere o presunte
autorizzazioni dei governi locali annullano. Ma il cambiamento qualitativo fra le punture a
distanza dei droni e l’assalto di militari scaricati da elicotteri Black Hawk (gli stessi del
disastro di Mogadiscio e dell’attacco al fortino di Osama) comporta un’assunzione
volontaria e diretta di responsabilità da parte della Casa Bianca. Che infatti ha seguito
passo per passo la stesura del piano e il suo svolgimento, fino alla sparatoria
nell’abitazione dell’uomo considerato come il ministro, e il primo contrabbandiere, del
petrolio oggi nelle mani degli islamisti. L’assalto è qualcosa meno di un’invasione, e
qualcosa più di uno stormo di robot volanti. E richiama, per il pubblico, il classico mito
americano del Settimo Cavalleria all’orizzonte e al galoppo per salvare i pionieri
accerchiati. Terrorista islamico, non avrai il mio scalpo.
Perché questa nuova tattica, questo Terzo Tempo nella zigzagante e confusa strategia
americana contro il terrorismo che si sta facendo Stato, funzioni è necessaria una
condizione indispensabile: l’intelligence. Prima di inviare dozzine di commando in territorio
ostile o comunque controllato da altri, i Servizi americani devono sapere con altissimo
grado di probabilità che il bersaglio si trovi effettivamente dove è stato indicato. I droni,
come purtroppo sappiamo, possono sbagliare e innaffiare con i loro missili campi, case,
accampamenti, moschee, ristoranti con la perfetta irresponsabilità della macchina. I
soldati, per specializzati e super addestrati che siano, devono sapere chi, dove e quando
colpire, perché la loro vita, come quella degli obbiettivi è in gioco. O rischiare la ripetute
figuracce già vissute negli scorsi mesi da altre missioni fallite. E’ accaduto in Siria, per
liberare il giornalista James Foley, soltanto per scoprire che la soffiata era falsa e poi
assistere al suo sgozzamento. E si è ripetuto nel dicembre scorso, in Yemen, dove
l’attacco della Forze Speciali provocò la morte di colui che esse volevano liberare, Luke
Somers, di altri otto ostaggi con lui.
Ma l’enorme pubblicità data dalla Casa Bianca all’esecuzione di Abu Sayyaf, personaggio
importante ma come tutti nelle strutture mafiose o terroristiche facilmente sostituibile nella
torbida gerarchia dell’Is, indica che questa è la strada che negli ultimi diciotto mesi della
propria amministrazione, Barack Obama vorrebbe seguire. Dopo avere entusiasticamente
abbracciato la tattica dei droni, impiegati nella caccia grossa ai bersagli umani come
nessun altro presidente prima di lui, e averne constatato i pochi successi e i molti fallimenti
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polizieschi e d’immagine, l’azione diretta, e quindi l’assunzione esplicita di responsabilità,
è la nuova strada, sempre che l’infiltrazione di informatori tra i ranghi degli islamisti sia
davvero capillare come in queste ore la propaganda cerca di indicarci. Nonostante lo
scetticismo di ex analisti della Cia, come Bruce Riedel che avverte: «Di quel mondo
sappiamo ancora molto poco e capiamo ancora meno». Sostituire le macchine con gli
uomini, ridare un volto e non soltanto un joystick da video game alla guerra è dunque una
scelta che soltanto un Comandante in Capo come Obama, lontano da considerazioni
elettorali, poteva fare. Perché se l’impiego di soldati in prima linea restituisce una
dimensione umana al gelido orrore della teleguerra, esso aumenta il pericolo che uno di
quei Delta Force, uno di quei Seals, sia ferito, ucciso o, ancor peggio, catturato e dunque
diventi una preziosa marionetta da far ballare e poi da sgozzare davanti al mondo, in una
trionfale rappresentazione di vittoria e di vendetta. La sola, e magra consolazione, sarebbe
ricordare che i macellai non hanno mai fatto distinzione fra soldati, civili, donne, bambini
amici o nemici, nel loro mattatoio.
del 18/05/15, pag. 1/31
Bene e male
Quella linea incerta
di Angelo Panebianco
C’è stato un tempo, il tempo della Guerra fredda, in cui gli amici e i nemici, il bene e il male
erano facilmente riconoscibili. Una volta presa la decisione fondamentale (stare con i
democratici occidentali oppure con i comunisti sovietici) tutto discendeva di conseguenza.
Era un mondo «semplice», chiaro e limpido sotto il profilo morale, ove si sapeva sempre
da che parte stare, ove era sempre evidente dove fossero ubicati il bene e il male. Ed era
anche un mondo in cui ciascuno era in grado di calcolare, per lo meno all’ingrosso, il
proprio interesse.
Oggi non è più così. Si guardi all’atteggiamento di noi europei di fronte all’intricatissima
situazione del Medio Oriente. Non solo il bene e il male si confondono ogni giorno, non è
possibile distinguerli, ma anche decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come
gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile. In
molti casi ci troviamo di fronte a scelte che hanno contemporaneamente un lato luminoso
e un lato oscuro, che sono segnate da un’ineliminabile ambiguità. Ad esempio, come ha
scritto giustamente Franco Venturini sul Corriere di ieri, gli europei dovrebbero fare
pressione sull’Egitto del generale Al-Sisi perché la condanna a morte dell’ex presidente
Morsi non venga eseguita (probabilmente non lo sarà. Al-Sisi non è uno sciocco, non ha
interesse a suscitare l’ostilità della comunità internazionale).
Ma al tempo stesso è un fatto che non possiamo dare alla società egiziana l’impressione
di parteggiare per i Fratelli musulmani, un errore che gli occidentali commisero
(alienandosi molte simpatie fra gli egiziani) quando Morsi era ancora al potere. E sempre a
proposito dell’Egitto: i regimi militari nati da colpi di Stato sono sicuramente una gran
brutta cosa ma sono anche peggiori dello Stato autoritario islamico che il maldestro Morsi
a un certo punto tentò di imporre nel suo Paese? Dove stanno il bene e il male?
Oppure prendiamo il caso di Saddam Hussein e di Gheddafi. Fu una buona cosa spazzare
via due regimi sanguinari o era meglio lasciarli al potere tenuto conto di ciò che ne è
seguito sia in Iraq che in Libia? E c’è poi il caso del dittatore siriano Assad. C’è chi pensa
che convenisse, e che convenga tuttora, all’Occidente impegnarsi per abbatterlo, tenuto
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conto di quante cose tremende quel dittatore ha fatto al suo stesso popolo. Sì, ma dopo?
Anche ammesso (e non concesso) che fosse stato possibile mandare al potere in Siria
uomini ragionevoli anziché fanatici, anziché estremisti islamici, come saremmo riusciti, ad
esempio, ad assicurare protezione a quella minoranza cristiana che in Siria sta con Assad
perché teme le persecuzioni che seguirebbero a una eventuale vittoria sunnita?
E l’elenco non è finito. È chiaramente nel nostro più vitale interesse colpire con la
massima durezza lo Stato islamico (ex Isis), indebolirlo militarmente e fare in modo che il
mito del Califfato prima o poi si appanni e si sgonfi, che il suo carisma smetta di eccitare e
di attrarre giovani islamici da ogni parte del mondo. Ma per perseguire questo vitale
interesse abbiamo forse anche bisogno di rendere esplicita, consolidandola, l’alleanza
militare fino ad oggi implicita, di fatto, con Assad di Siria e con l’Iran (sciita)? C’è il rischio
che un’alleanza esplicita di tal fatta faccia pagare a noi occidentali costi molto elevati. I
sunniti (che sono la netta maggioranza nel mondo islamico) diventerebbero ancora più
ostili di quanto già oggi non siano nei confronti degli occidentali laddove questi risultassero
anche formalmente alleati con i loro arci-nemici sciiti.
Anche la trattativa con l’Iran per il nucleare ha il suo lato oscuro. È una trattativa
ragionevole se riesce a ritardare nel tempo l’avvento di un Medio Oriente nucleare
(quando l’Iran si doterà della bomba, l’Arabia Saudita, l’Egitto, e forse anche altri,
seguiranno immediatamente). Ma non è ragionevole se contribuisce a spezzare i residui
esili fili fra gli occidentali e le potenze sunnite.
E ancora: forse abbiamo fatto bene a tenere la Turchia, con i suoi ottanta milioni di
musulmani, fuori dall’Europa. Ma, forse, il prezzo di una Turchia in via di accelerata riislamizzazione (quanto sta oggi accadendo), impegnata a sostenere l’islamismo politico
ovunque esso si trovi (per esempio, in Libia) è, per gli europei, ancor più salato.
Come si vede, non solo il bene e il male si confondono, ma la stessa definizione di quali
siano i nostri interessi in una così complicata vicenda è difficile da stabilire. Alla fin fine,
forse, possiamo dire che in Medio Oriente gli europei dovrebbero avere, oltre diversi
obiettivi pragmatici, da definire e ridefinire giorno per giorno (si tratti di business,
rifornimenti energetici, controllo dei flussi migratori, contenimento delle minacce terroriste,
eccetera), due soli obiettivi duraturi e irrinunciabili, due soli obiettivi che possiamo
chiamare «di civiltà», collegati alla storia e alla identità europee e occidentali: fare il
possibile perché non avvenga mai una seconda Shoah (quella distruzione di Israele che
continua ad essere sognata e invocata da tanti musulmani in Medio Oriente) e proteggere
le minoranze cristiane colpite dalla violenza dei fondamentalisti islamici.
Al primo ministro britannico ottocentesco Benjamin Disraeli è attribuita l’affermazione
secondo cui le nazioni non hanno amici o nemici stabili ma solo interessi permanenti.
Forse è così. Ma non sempre si riesce a capire come soddisfarli.
del 18/05/15, pag. 13
In Vaticano le bandiere palestinesi
L’ira della comunità ebraica e di Israele
“Abu Mazen angelo della pace? Francesco è ingenuo o non conosce il
Medio Oriente”
Giacomo Galeazzi
«Le nuove sante ispirino solidarietà e fraterna convivenza», auspica Francesco indicando
come modello di pacificazione per il Medio Oriente le prime due palestinesi canonizzate in
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epoca moderna, Marie Alphonsine Danil Ghattas e Mariam di Gesù Crocifisso Baouardy.
Umili e coraggiose.
La storia soffia in piazza San Pietro. L’evento unisce evangelizzazione e diplomazia nel
pontificato che ha riportato la Chiesa al centro dello scacchiere internazionale dopo un
decennio di ripiegamento sulle ferite interne (scandali finanziari e sessuali, lotte di potere).
Il Papa invita religioni e popoli che si contendono la Terra Santa a guardare al futuro con
«speranza», lasciandosi ispirare dalla «carità» e dalla «riconciliazione». Geopolitica e fede
in una giornata di festeggiamenti, nuovi scenari e polemiche.
Kefiah e canti
Nella canonizzazione si accende di colori e canti la festa palestinese a San Pietro con
bandiere, kefiah e il presidente dell’Anp, Abu Mazen seduto in prima fila. Francesco lo
abbraccia con grande cordialità dopo l’udienza di sabato e l’accordo tra Santa Sede e
Palestina. «Siamo sorpresi e delusi», dice Riccardo Pacifici, presidente della comunità
ebraica di Roma. Guarda le bandiere palestinesi in piazza e sospira: «Di tutto il Medio
Oriente e l’Africa, Israele è l’unico Stato in cui i cristiani crescono di numero e hanno
libertà religiosa. Da quando nel ’94 Betlemme è finita sotto il controllo dell’Autorità
nazionale palestinese la presenza cristiana è scesa dell’80%». La “due giorni” di Abu
Mazen in Vaticano lascia di ghiaccio i «fratelli maggiori» che preparano la visita papale
alla sinagoga di Roma. «Facciamo appello a Francesco affinché ci renda noti risvolti
sconosciuti del riconoscimento unilaterale e senza condizioni accordato ad Abu Mazen,
che invece andava sollecitato a negoziare con il governo israeliano appena eletto, in
spirito di giustizia e senza finzioni», spiega Pacifici. E aggiunge: «Per rilanciare solidarietà
e accoglienza in Europa occorre combattere uniti, ebrei e cristiani, contro il terrorismo e
l’odio fondamentalista in Medio Oriente e in Africa». E’ l’unica strada «per arginare le
spinte nazionaliste e xenofobe che su questo tema raccolgono consensi».
Intanto da Israele piovono critiche per l’accoglienza del Pontefice e l’esortazione ad Abu
Mazen ad essere angelo della pace. «O Sua Santità è persona ingenua o non ha nessuna
conoscenza di quanto succede in Medio Oriente», scrive Yediot Ahronot.
Fraintendimenti e accuse
Il tabloid filo-governativo Israel ha-Yom pubblica una «lettera aperta al Papa» in cui si
definisce la costituzione di uno Stato palestinese «la prosecuzione dei tentativi di
crocifiggere il popolo ebraico». Secondo il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni
«abbiamo bisogno tutti di angeli di pace ma devono essere angeli veri e pace vera».
Padre Federico Lombardi riconduce però l’episodio all’obiettivo di Francesco, incoraggiare
l’impegno per la pace. «Lo stesso dono del simbolo dell’Angelo di Pace viene fatto dal
Papa a molti presidenti», chiarisce il portavoce vaticano.
Resta la delusione degli ebrei, soprattutto a Roma. «Abbiamo vissuto tutto questo come
una beffarda ironia della sorte: si affida a un angelo della morte la speranza di pace afferma Pacifici - Lo scorso giugno la preghiera ai Giardini Vaticani sembrava un nuovo
corso. Invece, poi, è scoppiato il peggior conflitto degli ultimi vent’anni. Ci aspettavamo
che il Papa chiedesse ad Abu Mazen di tagliare ogni legame con Hamas e con i
finanziamenti dei Paesi che sostengono il genocidio dei cristiani». Infatti, «per le vittime
cristiane abbiamo spento le luci al Colosseo manifestando con la Comunità di
Sant’Egidio». Perciò «in queste ore la nostra base vive come un tradimento le immagini
che arrivano dal Vaticano. Ma resta la speranza». Polemiche che non scalfiscono la
proposta di pace che Francesco lancia attraverso l’esempio delle nuove sante.
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del 18/05/15, pag. 9
Ungheria, minacce di morte
e una taglia sul gay italiano
Andrea perseguitato dai neonazisti: offende i cristiani
Tonia Mastrobuoni
«Lavora qui il frocio italiano che ha insozzato la nostra bandiera?». L’immagine trema, il
video su Youtube è girato di nascosto, la telecamera è all’altezza dei fianchi. Lui è Gyorgy
Gyula Zagyva, un ex parlamentare di Jobbik, il partito xenofobo, antisemita e ultra
nazionalista ungherese. L’interlocutore, il capo della sicurezza di una multinazionale
americana. Zagvya lo incalza, rivolge insulti irripetibili e omofobi all’«italiano». Continua a
chiedere di vedere il «dipendente che offende il popolo cristiano». È l’estate del 2014 e il
calvario di Andrea Giuliano è appena cominciato.
Nelle stesse ore, sui siti Facebook di organizzazioni neonaziste come quella dei
«Motociclisti dal sentimento nazionale» continuano ad arrivare migliaia di messaggi di
insulti contro il ligure di 33 anni. Tra di essi «zingaro italiano, puoi correre, ma non ti puoi
nascondere», alate riflessioni tipo «mica sarà un caso che abiti nel quartiere ebraico?».
Ma anche le prime minacce di morte: «Vedrete che presto passerà a miglior vita». E c’è
persino chi suggerisce come: «Ti inchioderemo il pene alla porta di casa». La colpa di
Andrea: essere attivista gay in un Paese in cui il partito di estrema destra ormai raccoglie i
favori di un ungherese su tre. E aver fatto umorismo sul club ultranazionalista di amanti
delle dure ruote.
I «Motociclisti dal sentimento nazionale», guidati da un ex militante di Jobbik, Sandor
Jeszenszky, hanno come emblema la bandiera della «Grande Ungheria», quella
cancellata dalla storia quasi un secolo fa. Quella dei nostalgici ultra nazionalisti. Quella,
per dire, che ingloba anche Trieste. Il loro motto, tanto per non lasciare dubbi
sull’atteggiamento nei confronti degli ebrei è «Dai gas!». Peccato che il capo, Jeszenszky,
sia stato fotografato anni fa in un locale di lap dance, mentre si esibiva in performance
porno con un costume di paillettes - dettagli trascurabili di una solida biografia da
persecutore di gay e infedeli e minoranze.
In ogni caso, alla parata per l’orgoglio omosessuale di Budapest dell’anno scorso, Andrea
è su un carro e tiene in mano una parodia della bandiera dei motociclisti: al posto della
moto stilizzata che la orna, c’è un fallo. È satira, ma per lui è la fine, la sua condanna. Sul
sito nel club neonazi compaiono quasi subito la sua foto, il suo indirizzo di casa e quello
del suo datore di lavoro. Cominciano a ricoprirlo di insulti e a mandare migliaia di mail al
suo capo, chiedendo che licenzi l’italiano, reo di «infangare il Paese e la religione
cristiana». Non solo.
Quando Andrea torna a casa, trova due energumeni che lo stanno aspettando. Lui riesce
a scappare, ma da allora cambia casa dieci volte, vive da amici, modifica il suo indirizzo di
residenza tre volte, limita i suoi contatti a chi conosce, evita i vicini sul pianerottolo. Non ha
pace. E le minacce, nel tempo, peggiorano. Ad un certo punto sul sito di Jeszenszky
appare una taglia: 10mila dollari per chi lo ammazza. Una condanna a morte.
Abbiamo incontrato Andrea in città, in un’associazione di attivisti per i diritti civili, «Aurora».
In questi giorni è di nuovo agitato in vista di un’udienza in tribunale che è stata fissata a
giugno: è finito perfino sotto processo. Il capo del club dei motociclisti lo ha querelato. Un
po’ curioso, il concetto di diffamazione per un’associazione di estrema destra che esibisce
cartine dell’Ungheria imperiale e slogan razzisti e antisemiti: «La mia domanda è sostiene - come ho fatto a infangare il “buon nome” di un’associazione che promuove
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iniziative dal titolo “Dai gas” che passano provocatoriamente davanti alla sinagoga? E poi:
è possibile infangare il “buon nome” di un’associazione che mi ha minacciato di morte?».
Il processo che Andrea ha chiesto contro i suoi persecutori è invece fermo. Il suo avvocato
gli ha detto che se resterà bloccato per un altro anno e mezzo, potrà ricorrere alla Corte di
Strasburgo. Ma per lui non è una consolazione. «La domanda, ancora una volta, è
semplice: è legale quello che hanno fatto loro? No. È legale, quello che ho fatto io? Sì».
Già, in uno stato di diritto. Ma l’Ungheria lo è ancora?
Del 18/05/2015, pag. 16
Macedonia nel caos migliaia in piazza “Via il
premier spia”
Opposizione e società civile unite contro il governo Gruevski sotto
accusa per le intercettazioni illegali
ANDREA TARQUINI
«Gruevski, vattene, autocrate corrotto!», gridano a decine di migliaia nel centro di Skopje,
la capitale della Macedonia. Opposizioni democratiche, esponenti della vasta etnìa di
lingua e cultura albanese, giornalisti, magistrati. Vogliono restare davanti al palazzo del
governo finché lui, il premier, non se ne andrà. Cominciò così in Ucraina, con piazza
Majdan a Kiev. Un piccolo Yanukovich dei Balcani, ha acceso un’altra crisi europea, a
poco più di un’ora di volo da Roma.
«Spero che verranno in piazza in almeno centomila», dice Zoran Zaev, il capo
dell’opposizione progressista. A fianco dei dimostranti c’era il segretario del partito
socialista europeo, Sergej Stanishev. «Oggi siamo a Skopje per sostenere i cittadini
macedoni che vogliono democrazia, rispetto della legge, istituzioni trasparenti», ha detto.
Un mare di bandiere e striscioni, bandiere macedoni e albanesi e slogan in macedone e in
albanese, voglia di unità nazionale, esaltavano la folla. Col timore che Nikola Gruevski,
appunto il premier contestato, giochi sporco chiamando in piazza suoi sostenitori, magari
prezzolati e pronti a tutto. Mentre poliziotti governativi in tenuta da guerra fronteggiavano
minacciosi i dimostranti. Anni e anni dopo la fine della Jugoslavia per colpa di stragi stupri
e guerre etniche di Slobodan Milosevic che si prese sulla coscienza un milione di civili
morti, e poi fu sconfitto solo dal deciso intervento Nato, i Balcani tornano in fiamme.
«Vittoria, vittoria», gridano i dimostranti in macedone e in albanese. Voglia di unità
nazionale appunto. Il leader dell’opposizione Zoran Zaev li incita a non mollare, con un
richiamo implicito a Majdan: «Restiamo qui davanti ai palazzi del potere, questo governo
corrotto e che ci spia deve dimettersi». Le accuse a Gruevski sono molteplici e gravissime,
e ostacolano in modo ultimativo i negoziati di Skopje per una prospettiva di associazione e
poi adesione all’Unione europea. Il governo è accusato di frode elettorale alle elezioni
dell’aprile 2014, di aver spiato almeno ventimila cittadini “scomodi”, tra oppositori,
giornalisti e magistrati. La corruzione si dice sia sistematica e al massimo livello, tra
malversazione, indagini di diritto penale infondate contro gli oppositori, e persino
insabbiamento di omicidi politici. Poi, nei giorni scorsi, è accaduto il peggio. Le forze di
sicurezza macedoni sono intervenute in modo brutale in zone abitate dalla vasta etnìa
albanese, che conta un quarto dei 2,1 milioni di abitanti. Quattordici persone di etnìa
albanese uccise, e otto poliziotti di Gruevski caduti, sono il pesante bilancio. Il premier
accusa ovviamente Kosovo e Albania, ma i media internazionali, dalla Bbc alla Frankfurter
, non gli credono. E ricordano che pochi giorni fa due ministri e il capo della polizia segreta
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Saso Mijalkov, si sono dimessi per le intercettazioni e i sospetti di copertura di omicidi
politici. L’Unione europea in allarme sospetta un remake di un vecchio, sinistro copione
balcanico: macchinazioni dei servizi serbi, come con la “Mano nera” prima della Prima
guerra mondiale. E oggi in Kosovo, dove agitatori legati a Belgrado incitano i giovani a
emigrare per azzoppare l’economia. Intanto, dinamico sviluppo economico e stabilità
politica dell’Albania (in ottimi rapporti con Berlino) contrastano con le cupe situazioni
serba, bosniaca o macedone. Sullo sfondo c’è l’amicizia profonda tra Belgrado e Putin.
del 18/05/15, pag. 19
Nuovi giochi di guerra
Grandi muraglie oceaniche, acque contese, un traffico di merci da
cinque trilioni di dollari l’anno Così l’espansionismo di Pechino
preoccupa l’America e il Giappone Le mosse dal Pacifico al
Mediterraneo
Washington e PECHINO Il messaggio, aveva annunciato il Dipartimento di Stato
americano, «non deve lasciare alcun dubbio»: la flotta Usa è pronta a difendere il diritto di
navigazione nel Mar cinese del Sud, dove il genio militare di Pechino sta costruendo con
sorprendente rapidità una grande muraglia oceanica di isole artificiali nel cuore delle isole
Spratly. L’arcipelago, rivendicato dalla Cina, è conteso da Filippine, Vietnam, Malesia,
Taiwan e Brunei.
John Kerry, responsabile della politica estera Usa, ha passato il fine settimana a Pechino
dicendo che Washington è preoccupata dal ritmo e dallo scopo delle operazioni cinesi di
riempimento con sabbia e cemento degli atolli.
Kerry ha chiesto una soluzione diplomatica: Pechino reclama il 90 per cento di quel mare
dal quale passano ogni anno merci per 5 trilioni di dollari, un terzo del totale mondiale; i
suoi genieri hanno già costruito isole per 800 ettari nell’oceano, 600 solo quest’anno; è già
comparsa anche una pista di tre chilometri capace di far operare aerei militari, oltre a moli
per l’attracco di navi.
Il ministro cinese Wang Yi ha parlato di pace, naturalmente, ma non ha concesso niente:
«Voglio riaffermare che la determinazione della Cina di proteggere la propria sovranità e
l’integrità territoriale è irremovibile, ferma come la roccia». La «fabbrica delle isole
artificiali» non si fermerà.
Mentre i ministri parlavano, le flotte dei loro Paesi già si muovevano, dal Mar cinese
meridionale fino al Mediterraneo. E in un’azione che ricorda drammaticamente i tempi
della Guerra Fredda, i cinesi hanno modificato i loro missili intercontinentali rendendoli
capaci di portare testate nucleari multiple.
La Us Navy ha già preparato i piani per sfidare «la grande muraglia di sabbia» ed ha
inviato un primo rapporto alla Casa Bianca: uno scenario prevede che aerei militari e navi
penetrino nelle 12 miglia dalle coste delle Spratly che Pechino dichiara territorio nazionale.
Il Pentagono sta già muovendo le sue unità in nome della «libertà di navigazione».
Washington vorrebbe anche schierare nuovi velivoli in Australia. Il vice segretario alla
Difesa David Shear ha parlato di bombardieri B-1 e dei nuovi pattugliatori aerei P8
Poseidon, capaci di missioni a lungo raggio. Un’ipotesi che ha messo in imbarazzo il
governo locale nascostosi dietro una debole smentita. Prevedibile anche un impiego dei
droni da ricognizione, i grandi Global Hawk.
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La Marina cinese in risposta ha inviato sabato la fregata lanciamissili Yulin davanti a
Singapore e tre navi in Mediterraneo per manovre con i russi. Pechino sta anche trattando
con Gibuti per ottenere un punto di appoggio per le sue unità militari, proprio accanto alla
principale base Usa.
Il governo giapponese la scorsa settimana ha approvato un piano legislativo
sull’allargamento del ruolo militare del Giappone: quando il Parlamento lo approverà le
forze armate di Tokyo potranno affiancare gli alleati in azioni belliche, anche se il
Giappone non si trovasse sotto attacco diretto. Dopo settant’anni, finisce il pacifismo della
Costituzione.
Potenziano le loro flotte anche il Vietnam, le Filippine, la Malesia, l’Indonesia, per
contrastare la Marina di Pechino che può schierare 205 unità di superficie (95 grandi e 110
piccole) e ne farà entrare in servizio forse altre 50 entro un paio d’anni; la flotta
sottomarina conta 60 unità delle quali 10 nucleari.
Quindi è il ritorno della Guerra Fredda? Ci sono molti segnali che fanno escludere questa
ipotesi. La nuova formula si chiama «Cool War», Guerra Fresca (o distaccata). Questo
schieramento di forze militari coesiste con rapporti economici tra Cina, Stati Uniti,
Giappone.
È stato appena annunciato che Pechino è tornata ad essere il primo detentore di debito
pubblico americano, con 1 trilione e 261 miliardi di dollari di valore.
E Kerry si è concentrato sui prossimi appuntamenti: a giugno si terrà la riunione del
Dialogo strategico economico Usa-Cina e a settembre Xi Jinping andrà alla Casa Bianca.
L’agenzia Xinhua ha avvisato: «Non permettiamo che distrazioni facciano deragliare la
cooperazione sino-americana». Sfida rischiosa e interdipendenza economica indissolubile:
è la Guerra Fresca .
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INTERNI
del 18/05/15, pag. 1/5
Trentatré rapporti e la spesa non scende mai
di Sergio Rizzo
Qual è il bilancio della spending review, il procedimento per rendere più efficiente la spesa
pubblica ed eliminare gli sprechi? In cinque governi si sono alternati 15 fra commissari e
consiglieri: con la parentesi dei quattro anni dell’esecutivo Berlusconi. Prima i 10
consiglieri incaricati da Padoa-Schioppa. Nel 2012, Enrico Bondi. Poi il ragioniere generale
dello Stato Mario Canzi, il ministro Piero Giarda e, con il governo Letta, Carlo Cottarelli.
Infine Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, messi al timone da Matteo Renzi. Eppure, è stato
calcolato, dal 2007 la spesa pubblica è salita di 107,2 miliardi, più 18,1% in sette anni .
«Tesoro: parte la revisione della spesa, nominata commissione di esperti». Titolava così
l’agenzia Ansa il 16 marzo del 2007. Governava Romano Prodi con Tommaso PadoaSchioppa ministro dell’Economia e la «revisione della spesa» era un oggetto così
misterioso che la principale agenzia di stampa del Paese aveva fino ad allora pubblicato
appena cinque notizie contenenti le parole inglesi spending review . Revisione della
spesa, appunto. Ovvero, il procedimento di matrice anglosassone per rendere più
efficiente la spesa pubblica ed eliminare gli sprechi. Elementare.
Così elementare che da quel momento l’inondazione non si è più fermata. La formula
spending review è stata citata in 9.844 lanci dell’Ansa, a una media di 3,29 citazioni al
giorno. In cinque differenti governi si sono alternati 15 fra commissari e consiglieri: con la
parentesi dei quattro anni dell’esecutivo di Silvio Berlusconi. Prima il pool di dieci
consiglieri incaricati da Padoa-Schioppa. Quindi, nel 2012, Enrico «mani di forbice» Bondi.
Poi il ragioniere generale dello Stato Mario Canzi. Per arrivare al ministro Piero Giarda e
quindi, con il governo di Enrico Letta, a Carlo Cottarelli. E infine a Yoram Gutgeld e
Roberto Perotti, installati al timone della spending review da Matteo Renzi.
Con un simile spiegamento di parole e di risorse umane, viene da domandarsi, chissà
quali risultati saranno stati raggiunti. La risposta è in un dossier dell’Ufficio studi della
Confartigianato. Eccola: 33 rapporti scritti, per un totale di 1.174 pagine. Un diluvio di
parole.
Tutto qui? In sostanza, sì. Ha calcolato l’organizzazione degli artigiani che dal 2007 la
spesa pubblica corrente primaria è salita di 107,2 miliardi di euro, con un incremento del
18,1 per cento in sette anni. In parallelo, la spesa per gli investimenti è scesa di 9,2
miliardi, con una flessione superiore al 20 per cento, mentre le entrate hanno registrato
un’impennata di 77,2 miliardi. Il che ha confermato all’Italia il primato assoluto continentale
nell’aumento della pressione fiscale. Il tutto senza alcun effetto positivo sulla crescita
economica, se è vero che nel periodo in esame il Prodotto interno lordo è sceso in termini
reali di ben l’8,2 per cento: nell’eurozona nessuno ha fatto peggio di noi.
La spesa pubblica, insomma, continua a restare qui un macigno impossibile da scalfire.
Anche se, ricorda il presidente della Confartigianato Giorgio Merletti, «senza risparmi e
maggiore efficienza nell’uso delle risorse pubbliche rischiamo di incappare nelle clausole
di salvaguardia imposte dal Patto di stabilità. Non vorremmo essere costretti a riparare
sprechi e inefficienze con nuove tasse e imposte».
Nel 2015 è previsto che la spesa pubblica si attesti a 827 miliardi e 146 milioni, pari al
50,5% del Pil, con un calo di 0,6 punti rispetto all’anno scorso: ma senza considerare
l’impatto della sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il blocca degli
adeguamenti pensionistici decretato dal governo Monti. E se un calo modesto si
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verificherà lo dovremo soprattutto alla riduzione della spesa per gli interessi sul debito,
stimati in 69,3 miliardi contro i 75,2 del 2014. Merito della discesa dei tassi e della moneta
unica, che ci ha consentito l’unico vero risparmio mai registrato negli ultimi 15 anni.
Nonostante l’aumento enorme del debito oggi spendiamo per gli interessi, in termini reali,
una trentina di miliardi in meno rispetto al 2001.
E vediamo che cosa hanno fatto, al contrario, gli altri Paesi. Dice il dossier Confartigianato
che fra il 2010, quando cioè è iniziato l’aggiustamento dei bilanci pubblici conseguente alla
grande crisi dei debiti sovrani, e il 2015, la spesa pubblica primaria dell’eurozona è rimasta
pressoché stabile, con un incremento di appena lo 0,1 per cento. In Germania, per
esempio, si taglia dell’1%. Mentre in Italia la spesa corrente sale dell’1,5%. Il confronto
porta alla conclusione che se avessimo seguito non l’andamento della più virtuosa
Germania, bensì quello della media della zona euro, oggi spenderemmo 23,2 miliardi di
euro in meno. E non è tutto. Perché un paragone fra la spesa pubblica italiana e quella
degli otto principali Paesi della moneta unica aveva indotto gli esperti coordinati dall’ex
commissario Cottarelli a prevedere una possibile correzione strutturale valutabile in 42,8
miliardi.
Ma tant’è. Cottarelli predicava nel deserto. Il fatto è che alcune voci del bilancio pubblico,
lui l’aveva detto, crescono in modo inarrestabile. Come le pensioni, per effetto
dell’invecchiamento della popolazione: e questo è forse comprensibile. Assai di meno,
invece, è l’esplosione dei trattamenti di invalidità civile, nonostante l’emergere sempre più
frequente di scandali e abusi e l’ intensificazione dei controlli. Fra il 2003 e il 2013 il loro
numero è aumentato da un milione 834.208 a 2 milioni 781.621: +51,7%. Quasi un milione
di invalidi civili in più in soli dieci anni. E per un costo annuale lievitato di 6 miliardi 836
milioni rispetto al 2003. Non solo spendaccioni e improduttivi, dunque. Siamo anche il
Paese degli invalidi: c’è un invalido civile ogni 21 abitanti, neonati e bambini compresi. E
questo forse dice tutto del perché in Italia spending review sia soltanto un termine inglese
molto in voga negli ambienti giornalistici.
del 18/05/15, pag. 11
L’addio di Fitto. Pronto il gruppo in Senato
«FI capitolo chiuso. In Europa lascio il Ppe per i conservatori». Le
mosse dei fedelissimi
ROMA «Non è Oltre è fuori», aveva gridato Silvio Berlusconi dal palco. E Raffaele Fitto ieri
ha replicato a muso duro: «Non sono io fuori. È Forza Italia che non c’è più». L’ultimo atto
dello scontro tra l’ex premier e il suo ultimo delfino è andato in scena ieri a In ½ h di Lucia
Annunziata.
Fitto, impegnato in una dura battaglia con il Cavaliere per le regionali pugliesi, dove
Berlusconi ha ritirato il sostegno a Francesco Schittulli per candidare Adriana Poli Bortone
di Fratelli d’Italia (ora sospesa), annuncia lo strappo. Uscirà dal gruppo dei Popolari
europei, per aderire ai Conservatori riformisti europei del premier britannico David
Cameron.
E alla Camera e al Senato? «FI è un capitolo chiuso, lavoriamo per una prospettiva
diversa», dice. Berlusconi replica a distanza: «Chi se ne va ci toglie un peso».
Ma oltre a togliere il «peso» Fitto toglierà anche numeri al partito. E, salvo imprevisti, già
da questa settimana. Per costituire un gruppo autonomo servono 10 senatori e 20
deputati. Ce li ha? «Un passo alla volta — si schermisce Fitto — per me è cruciale la
cornice: essere l’unico gruppo italiano a cui i conservatori poggiano una mano sulla spalla
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è importante. Del resto in 30 abbiamo firmato una lettera a sostegno di Cameron quando i
sondaggi lo davano in calo, non dopo che ha stravinto».
Eccoli i numeri. Si riparte da quei 30. Ma a sentire i fittiani sono ormai molti di più. «Al
Senato i numeri per fare un gruppo autonomo ci sono in abbondanza. E già in settimana ci
saranno novità», assicura il senatore Luigi Perrone. Ma anche alla Camera sono sicuri di
farcela. Tra domani e dopodomani, in una riunione, si prenderà la decisione definitiva. E il
primo passo sarà costituire, di fronte a un notaio di Roma, una Fondazione, che sancirà la
nascita della nuova formazione. Titolo provvisorio: Oltre.
A quel punto altri parlamentari che, secondo Fitto, «stanno a guardare» potrebbero unirsi.
Ma la resa dei conti con Berlusconi si scatenerà dopo le elezioni. Lo dice Fitto su Raitre:
«Noi guardiamo al modello inglese. Si vota nel 2018 e nel 2017 ci vorrebbero le primarie
del centrodestra. Molti in FI la pensano come me ma non hanno il coraggio di dirlo. Anche
Matteo Salvini porrà con forza questa questione dopo la campagna elettorale».
Virginia Piccolillo
Del 18/05/2015, pag. 10
LE SCELTE DEI PARTITI
La scissione parte alla Camera pronti i gruppi
autonomi “Abbiamo già il nome Conservatori
e riformisti”
TOMMASO CIRIACO
Il gruppo si chiamerà “Conservatori e riformisti”. È lo stesso nome dell’associazione che
Raffaele Fitto lancerà domani, in una conferenza stampa convocata per sancire l’addio a
Forza Italia. Anche la scissione nei gruppi parlamentari è certa. L’idea, a dire il vero, era
quella di ufficializzarla il primo giugno, un minuto dopo le Regionali. Il violento ping pong
polemico con Silvio Berlusconi, però, ha messo il turbo ai dissidenti azzurri. «Tenetevi
pronti per questa settimana», è il messaggio recapitato ieri sera dal capo dei frondisti.
Tra i fittiani, in realtà, non tutti condividono l’accelerazione e in molti preferirebbero
rompere dopo le amministrative. Comunque vada, esiste già un elenco degli scissionisti
aggiornato a domenica sera. Che recita: 14 deputati certi e 9 in bilico, 13 senatori arruolati
e 4 incerti. Nel frattempo le diplomazie anti berlusconiane sono in fermento. L’ultima novità
è che un nuovo faccia a faccia tra Fitto e Denis Verdini è stato fissato per domani a
pranzo, ma dopo le ultime tensioni attende la conferma definitiva.
La road map del nemico numero uno di Berlusconi è pronta. Ed è tutta a trazione
continentale. Il passo decisivo è l’adesione ai conservatori dell’europarlamento. Toccherà
a Fitto, domani stesso, spiegarne le ragioni alla stampa. L’appuntamento, come è ovvio,
mostrerà all’esterno la forza delle truppe parlamentari fittiane e sarà anche il trampolino di
lancio della nuova associazione. Nel week end, poi, è in agenda un viaggio del
capocorrente a Londra, per partecipare a un evento dei conservatori europei. Quindi
l’ultimo passo, nella settimana di vigilia delle Regionali: il capogruppo dei conservatori Ue
accoglierà ufficialmente gli scissionisti, nel corso di una visita in Italia. «E l’eventuale
“benedizione” di Cameron, uno che ha appena stravinto le elezioni - pregusta il successo
Fitto - non mi sembra un fatto del tutto marginale...».
I “candidati” all’addio sono incolonnati nei quadernoni di Daniele Capezzone. È sempre lui,
l’ex portavoce di FI, a mettere a disposizione lo studio parlamentare per ospitare i summit
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di corrente. I deputati pronti allo strappo sono i sette pugliesi (esclusi Sisto e Savino) e il
nucleo “storico” di dissidenti composto da Romano e Galati, Bianconi e Castiello, Latronico
e Laffranco. Con Capezzone fanno 14, ai quali vanno aggiunti i “possibilisti”. Sono in corso
colloqui, ad esempio, con Antonio Marotta, Alberto Giorgetti e Massimo Corsaro. Non
mancano i contatti con i verdiniani, naturalmente. E se anche Fitto continua a ripetere che
le strade non si incroceranno, i due capicorrente continuano a confrontarsi. Dalle parti di
Arcore, per dire, prevedono il peggio. «Alla fine Denis mi tradirà», mastica amaro
Berlusconi. Al Senato il quadro è migliore, almeno dal punto di vista di Fitto. Lì il conto lo
tiene Lucio Tarquinio. E il pallottoliere sorride ai frondisti: tredici senatori certi (Bonfrisco,
Zizza, Lettieri, Perrone, Liuzzi, Longo, Pagnoncelli, Milo, Falanga, Ruvolo e Scavone),
senza contare gli insoddisfatti che bussano alla porta.
Non tutto, naturalmente, fila liscio. Il balzo in avanti di Fitto ha spiazzato i “moderati” della
sua componente. C’è chi, ad esempio la senatrice Bonfrisco, è in piena campagna
elettorale per sostenere alle imminenti amministrative candidati in lista con Forza Italia.
Una scissione a pochi giorni dal voto comprometterebbe la gara. Altre “colombe”, poi,
invitano Fitto a raggiungere un compromesso con Verdini per allargare il consenso a
Montecitorio. Servono infatti venti deputati per far nascere un gruppo e immaginare una
start up con numeri ballerini non sembra l’idea migliore. «Berlusconi vedrà quanta gente
riuscirò a convincere», ostenta sicurezza Fitto. Con Verdini, in ogni caso, potrebbe
incontrarsi nuovamente domani, anche se le ultime stoccate dell’eurodeputato pugliese
hanno complicato i rapporti. Lo scontro con Berlusconi, destinato a crescere nei prossimi
giorni, resta il fattore decisivo che influenzerà il timing della scissione. L’orizzonte, in ogni
caso, è una costituente dei conservatori italiani. «Berlusconi continuerà ad attaccarmi
perché ha sempre bisogno di un nemico - è la previsione che Fitto consegna ai suoi - Noi
però guardiamo oltre, perché abbiamo il tempo dalla nostra parte ».
Del 18/05/2015, pag. 1-23
Salvini-Le Pen relazioni pericolose
ILVO DIAMANTI
MATTEO Salvini continua il suo viaggio attraverso le province d’Italia. Da Nord verso Sud.
INSEGUITO , dovunque, dalle proteste dei Centri sociali. Così rafforza la costruzione della
nuova identità leghista.
Nazionale e di Destra. Nello stesso periodo, si è consumata la frattura nella «famiglia reale
dell’estrema destra francese », come l’ha definita Bernardo Valli. Marine Le Pen, attuale
leader del Front National, ha sospeso dal partito il padre — e fondatore — Jean-Marie. Il
quale l’ha ripudiata come figlia. Un conflitto politico, e familiare, che riflette il tentativo di
“normalizzare” l’immagine del FN. È il tracciato dei percorsi incrociati di Marine Le Pen e
Matteo Salvini. Partiti da posizioni — politiche, simboliche e strategiche — distanti, per
alcuni versi opposte, tendono ad avvicinarsi. Nell’intento di conquistare nuovi spazi politici.
Con esiti ancora difficili da verificare. Marine Le Pen ha ereditato la leadership del FN dal
padre. Non è raro, nei partiti populisti, che il “comando” si trasmetta per via familiare. Ma,
rispetto al padre, ha riposizionato il partito. Il conflitto “familiare” in atto non sembra, infatti,
un semplice gioco delle parti, per allargare i consensi. Al di là degli indubbi elementi di
continuità con la tradizione, Marine Le Pen ha “nazionalizzato” l’immagine del partito in
senso “popolare” (e populista). E, dunque, anti-europeo. Prima, invece, la “nazione” era
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utilizzata come simbolo di un’identità “sostanziale” ed esclusiva. Perché il FN è sempre
stato “solo”. Inavvicinabile per ogni altra forza politica di destra. Oltre che di sinistra. Non
per caso, alle presidenziali del 2002, quando Le Pen (padre) andò al ballottaggio (per la
frammentazione del voto di sinistra), Jacques Chirac, candidato neo-gollista, venne eletto
con oltre l’82% dei voti. Grazie al sostegno massiccio degli elettori di sinistra e di centro,
oltre che dei propri. Con una partecipazione elettorale superiore al primo turno.
Marine Le Pen ha cercato di ridimensionare l’isolamento del partito, contraddicendo, in
particolare, il tradizionale discorso antisemita — principale motivo di rottura con il padre.
Ha, invece, accentuato il discorso securitario della proposta politica. In particolare, ha
amplificato le paure degli stranieri — e dell’Islam. Drammatizzati dal sanguinoso attacco a
Charlie Hebdo . Infine, ha riassunto i temi sociali e il nazionalismo nell’opposizione
all’Europa dell’Euro. Una recente indagine, condotta da Ipsos e Sciences Po per Le
Monde ( e diretta da Pascal Perrineau), osserva il radicamento di queste idee nella società
francese, sottolineato dalla crescita elettorale del FN. La Lega, invece, nella fase di
maggiore crescita (1995-2010), si è proposta come un partito “estremista di centro” (vista
la posizione politica dichiarata dalla maggioranza dei suoi elettori). Federalista. E
governativo. Perché Berlusconi l’ha coinvolta, nei suoi governi, dal 1994 e fino al 2011.
Inoltre, si è imposta come partito di governo a livello locale. E regionale. Nelle regioni del
Nord ma anche nel Centro. È divenuto il sindacato del (Centro) Nord a Roma. In questo
modo ha avvicinato e, talora, superato il 10% dei voti (alle politiche del 1996 e alle
europee del 2009). Fino agli scandali “familiari” (anche nella Lega i parenti contano…)
che, nel 2012, hanno coinvolto il leader-fondatore, Umberto Bossi. Matteo Salvini, eletto
segretario nel dicembre 2013, ha rilanciato il partito in tempi relativamente brevi. Da un
lato, ha sfruttato la crisi del Pdl — “logorato” dal “logoramento” di Silvio Berlusconi.
Dall’altro, ha riproposto, con successo, il ruolo dell’Imprenditore politico della Paura. Ha,
dunque, ripreso, con violenza, la campagna contro gli immigrati. E, al tempo stesso, contro
l’Unione europea. E contro l’euro. Salvini ha, quindi, “lepenizzato” la Lega, proiettandola
oltre il Nord Ha, così, delineato una Ligue Nationale, nel solco della nuova Destra (anti)
europea. Una scelta marcata dall’alleanza — esplicita — con Casa Pound. I dati dei
sondaggi, fino ad oggi, gli hanno dato ragione, spingendola oltre il 13%. In attesa delle
prossime elezioni regionali che, almeno in Veneto, dovrebbero premiare il suo candidato. Il
governatore uscente, Luca Zaia. Tuttavia, per entrambi i partiti ed entrambi i leader, le
prospettive di questa via nazional—(anti) europea della Destra restano incerte. Per
ragioni, in parte, opposte. Il FN di Marine Le Pen (come ha osservato Jean-Yves Camus
su Le Monde) mira a guidare lo Stato. Il padre non ci aveva mai pensato. E ha sempre
agito per massimizzare la sua rendita di op-posizione. Ora, però, le idee del FN (di Marine
Le Pen) hanno attecchito. Ma quasi l’80% dei francesi continua a considerare il FN di
estrema destra, mentre il 60% lo ritiene “pericoloso per la democrazia”, come mostra il
sondaggio Ipsos-Sciences Po. Così, al momento del voto, il FN ha ottenuto un buon
risultato, ma è stato largamente superato dal Centro-destra repubblicano, trainato dal
ritorno di Sarkozy. Perché, fra gli elettori francesi, le paure e i valori promossi dal FN sono
largamente condivisi. Ma riesce ancora difficile accettarlo come forza di governo.
In Italia, invece, la Lega di Salvini deve affrontare un problema molto diverso, ma dagli
esiti simili. La sua marcia decisa verso destra e centrosud, infatti, ha sollevato da una
catena di proteste, che danno ulteriore enfasi alla svolta di Salvini. Un “provocatore di
talento”, come l’ha definito ieri Francesco Merlo. Tuttavia, resta difficile immaginare che la
Lega Padana possa sfondare nel Sud. E la Ligue Nationale nel Nord. Mentre non si
comprende come la nuova Destra di Salvini possa tornare al governo, senza il sostegno di
Berlusconi, ora marginale. E come possa, dopo il sostegno di Casa Pound, essere
“sopportata” a lungo dal FN di Marine Le Pen, impegnata a uscire dal ghetto dell’estrema
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destra. L’unione tra FN e LN (ationale), dunque, potrebbe delineare una “relazione
pericolosa”, anche per i due partiti coinvolti. Con l’esito, contraddittorio, di rafforzarli sul
piano elettorale ma, al tempo stesso, di allontanarli dal governo. Costringendoli a
interpretare la protesta. Contro i governi nazionali e contro l’Europa dell’euro. Considerata
“necessaria”, nonostante tutto, dalla maggioranza dei francesi e degli italiani. Così,
l’Unione di Front et Ligue Nationale rischia di apparire, agli elettori, uno strumento di
“lotta”, ma non “di governo”. Una prospettiva, forse, accettabile per la Ligue di Salvini,
intento a occupare lo spazio di destra. A ogni costo. Ma intollerabile per il FN di Marine Le
Pen, che conta di ottenere un risultato importante alle prossime presidenziali.
del 18/05/15, pag. 6
Liguria al voto: incubo pareggio
Se la candidata del Pd Paita non supera il 35% non potrà governare. Nei
sondaggi è sotto
Amedeo La Mattina
Pippo Civati e Luca Pastorino sono gli spettri che si aggirano tra le stanze del comitato
elettorale di Raffaella Paita. I due fuoriusciti dal Pd stanno provocando una preoccupante
emorragia di voti che potrebbe far perdere la candidata del Pd o consegnarle una vittoria
senza maggioranza. Il primo giugno la Paita rischia di poter contare solo 15 consiglieri
regionali su 30 e di non riuscire a governare la Liguria. Sarebbe un’anatra zoppa. A quel
punto il vertice del Pd non esclude nulla, anche alleanze con Forza Italia e Ncd.
Rischio anatra zoppa
Le liste del Pd dovrebbero superare il 35% per avere una maggioranza sicura di 16-18
consiglieri e non dover chiedere i voti ad altri gruppi. Ma i Democratici (almeno secondo i
sondaggi che, per la verità, non ci azzeccano quasi mai negli ultimi tempi) questa
percentuale non ce l’hanno. Quindi l’anatra zoppa, pur vincendo, vedrebbe materializzarsi
un altro spettro, quello del Nazareno. Ovviamente oggi Paita dice mai e poi mai
un’alleanza con Toti e Forza Italia. «Il tema non esiste, io vincerò e avrò i voti per
governare la Liguria, nonostante i corvi e coloro che vogliono far vincere il portavoce di
Berlusconi e il lepenista Salvini». Anche Toti esclude un patto del Nazareno in salsa ligure,
ma lascia un minimo di suspence: «Vedremo dopo, ma tanto vinciamo noi». In campagna
elettorale nessuno scopre le carte, ma senza una maggioranza netta o un compromesso
con una parte dell’opposizione la Liguria tornerà presto alla urne.
Il «PaiToti» e il «CivaToti»
Civati spera che vinca Pastorino e in questo caso «farà un governo di minoranza».
«Mentre se vince Paita si formerà una coalizione dei PaiToti», acronimo di Paita e Toti. «I
PaiToti - aggiunge sarcastico Civati - sono una nuova specie ligure che noi a Roma
conosciamo già». Un altro acronimo lo inventa Matteo Orfini, il «CivaToti». Sì, spiega il
presidente del Pd, perchè Civati è «il migliore alleato di Toti e di Berlusconi. Trovo curioso
che chi esce dal Pd per fare qualcosa di più a sinistra in realtà poi fa di tutto per
danneggiare la sinistra e aiutare Berlusconi e l’estrema destra alleata con lui». Insomma,
un classico della sinistra più radicale che si è vista all’opera negli anni scorsi, ai tempi
dell’Ulivo, di Rifondazione comunista e del governo Prodi. È il déjà vu di Debora
Serracchiani che richiama i momenti bui della lotta fratricida a sinistra. «Lo ha detto Civati
che è meglio Berlusconi di Renzi. Ecco perché vuol far vincere Toti. Bertinotti 2, il ritorno».
Il Pd conta su Ncd-Udc
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Chi uscirebbe sconfitto dal «PaiToti» sarebbe il leader leghista, che marca a uomo il
candidato del centrodestra e consigliere di Berlusconi. «Ma stiamo scherzando?
Un’alleanza con il Pd che ha distrutto la Liguria? I pateracchi li lascio al Pd, che porta a
votare alle primarie gente varia ed eventuale. In Liguria vinceranno Toti e la Lega, dal
primo giugno ci rimbocchiamo le maniche per riportare la Regione fuori dal terzo mondo in
cui l’ha fatta precipitare il Pd». Salvini poi precisa di non essere alleato con Alfano, mentre
«in Liguria ci sono anche nell’Ncd persone per bene che non vedono l’ora di fare
un’opposizione seria al Governo Renzi». Ma Salvini dovrebbe stare più accorto. Intanto
non è da escludere che, se eletto, Enrico Musso, capolista di «Liguria libera» accreditata
di un 7-8%, possa sostenere Paita («voteremo provvedimenti in sintonia con il nostro
programma»). Salvini dovrebbe stare attento soprattutto a Ncd-Udc della Liguria. A Roma,
a largo del Nazareno, tra il serio e il faceto dicono: se la Paita sarà un’anatra zoppa a
causa di Civati e Pastorino, si potrà aprire a Toti. «Sarà colpa loro». Ma Toti e Berlusconi
hanno sul collo il fiato di Salvini. Allora il piano B è quello di tirarsi dentro Ncd. Alfano non
potrà dire no a Renzi.
del 18/05/15, pag. 7
Primo partito, i senza-partito
Indagine Cmr Intesa Sanpaoloper La Stampa: il 52% degli italiani non si
riconosce in nessuna formazione politica L’astensione fa paura. Se si
andasse a votare oggi, parteciperebbero meno di sei elettori su
dieci.Come se ne esce?
Daniele Marini
Il fenomeno degli “homeless” della politica si sta facendo sempre più evidente. È l’assenza
di una casa, di un riferimento ideale in cui identificarsi. Ne abbiamo avuto un assaggio nei
giorni scorsi con le elezioni di alcune amministrazioni locali. Gli stessi sondaggi sulle
prossime elezioni regionali segnalano una quota rilevante di incerti e di elettori che non
paiono intenzionati ad andare a votare. Di qui le difficoltà delle proiezioni elettorali e il
materializzarsi dello spettro dell’astensionismo.
Da tempo l’azione del votare non è considerata più un obbligo morale: solo un terzo degli
italiani (34,8%, CMR – Intesa Sanpaolo per La Stampa) considera del tutto inammissibile
non esercitare questo diritto. Di qui, un rapporto sempre più laico, meno strettamente
ideologico nei confronti della politica e dei partiti Tuttavia, per l’Italia si pone un problema
specifico. Diversamente dagli altri Paesi europei, il sistema politico e dei partiti da oltre 20
anni non ha ancora trovato una sua definizione. Da Tangentopoli in poi, abbiamo avuto
diverse leggi elettorali, fra l’altro differenti secondo i livelli amministrativi. I partiti hanno sì
mutato – e ripetutamente – sigle e simboli, ma altrettanto velocemente non si può dire sia
avvenuta anche una riflessione culturale sulle trasformazioni sociali ed economiche. Il
risultato è, quando va bene, il diffondersi di un generale disorientamento e disillusione
nell’elettorato; quando va male, un disincanto e un distacco dalla politica. La ricerca di
CMR affronta le difficoltà nel rapporto dei cittadini verso la politica. Con esiti non scontati.
Complessivamente la maggioranza (52,6%) non individua, nell’attuale panorama politico,
un soggetto (partito o movimento) cui sentirsi idealmente vicino. Per converso, solo il
17,7% si potrebbe definire un “militante”, che s’identifica pienamente in un partito. Fra
questi due estremi si collocano quanti si approssimano (18,0%) a una delle formazioni
politiche o evidenziano un atteggiamento negoziale, valutando di volta in volta (11,7%). Se
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poi si chiede non tanto l’intenzione di voto, quanto il livello di prossimità ai partiti,
scopriamo che paradossalmente la prima formazione politica è il “non-partito”. Ben il
48,5%, infatti, non si sente vicino (o meno distante) ad alcuno della lunga lista di partiti
oggi presenti. Certo, poi alla fine contano i partecipanti effettivi. E così stimando solo
quanti esprimono una vicinanza, si può osservare che gli italiani si sentono idealmente più
vicini (si badi bene, non che voterebbero) soprattutto al Pd (43,0%), mentre le altre
formazioni seguono a grande distanza (M5S: 18,2%; Forza Italia: 12,2%; Lega Nord:
10,8%), evidenziando così lo sfarinamento delle opposizioni.
La quota degli “homeless” della politica resta comunque elevata. Se ci fossero le elezioni
nazionali nelle prossime settimane, andrebbe a votare poco più della metà degli aventi
diritto (57,3%). Questo per tre motivi: la percezione della distanza del ceto politico dai
problemi reali della popolazione (37,4%), la frustrazione per l’assenza di reali cambiamenti
(27,5%), un disamore radicale nei confronti dei partiti (15,2%).
Ma non di sola anti-politica si tratta, anzi. Da un lato emerge una domanda di politica
nuova, in grado di aggiornare i propri riferimenti culturali e di analisi. Il 75,0% degli
interpellati ritiene che le tradizionali categorie politiche (destra/centro/sinistra) non siano
più in grado di leggere correttamente la realtà. E, quindi, di indicare prospettive coerenti
con le trasformazioni. Inoltre, è la stessa forma partito a essere messa in discussione
(55,4%). Dall’altro, trova spazio anche una forma di autocritica. C’è la consapevolezza che
il livello scadente della politica nazionale sia responsabilità anche dei cittadini (69,9%) e
che, in fondo, i politici siano lo specchio del paese (51,9%). Dunque c’è una domanda di
nuova politica che necessita nuovi edifici culturali e forme organizzative. Così sarà
possibile dare una casa anche agli “homeless” della politica.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 18/05/15, pag. 8
Parigi dice no alle quote dei migranti Timori a
Bruxelles per il piano Ue
Il premier francese sotto pressione in patria: saremo noi a decidere a
chi dare asilo
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Dopo Gran Bretagna, Ungheria e Polonia,
anche la Francia si oppone al sistema di quote di migranti da accogliere in ciascun Paese
europeo, proposto dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker per aiutare
l’Italia a fare fronte all’emergenza degli sbarchi nel Mediterraneo. Il rifiuto francese è
arrivato con le parole del primo ministro Manuel Valls pronunciate sabato non a caso alla
frontiera franco-italiana di Mentone (dove tra lunedì e giovedì sono state fermate 944
persone): «Sono contrario all’instaurazione di quote di migranti. Questo non ha mai
corrisposto alle proposte francesi. La Francia è invece favorevole a un sistema europeo di
guardie di frontiera».
Valls ha spiegato ieri di averne parlato in precedenza con il presidente François Hollande,
e insieme hanno deciso di intervenire: «Abbiamo considerato che fosse necessario dire le
cose ad alta voce perché non ci fosse alcuna ambiguità — ha detto il primo ministro al
Journal du Dimanche —. La questione delle quote è fonte di una grande confusione, e non
bisognava dare l’impressione che le avremmo accettate».
Su un tema cruciale come l’immigrazione, il governo francese vuole rassicurare l’opinione
pubblica e ribadire che la politica migratoria resta una prerogativa nazionale, non viene
decisa a Bruxelles. È e resterà la Francia — e non l’Unione Europea — a stabilire quanti
stranieri Parigi è in grado di accogliere ogni anno.
A dire il vero il piano Juncker non ha mai preteso di affrontare la questione
dell’immigrazione nel suo complesso, compresi i migranti cosiddetti economici. Né la
Commissione vuole arrogarsi il diritto di accogliere o respingere le domande di asilo.
Bruxelles ha sostenuto l’idea delle quote solo per rispondere ai casi di emergenza come
quelli di questi giorni, quando migliaia di persone sbarcano sulle nostre coste e da più
parti, in particolare dall’Italia, si invoca un maggiore ruolo dell’Europa.
La confusione che resiste tra migranti economici, domande di asilo e rifugiati selezionati
dall’Alto commissariato Onu potrà servire per avere più margine di discussione nei
negoziati che continueranno oggi, al vertice dei ministri degli Esteri e della Difesa a
Bruxelles, poi alla riunione dei ministri dell’Interno del 15 giugno a Lussemburgo e infine al
summit di Bruxelles del 25 giugno.
Se Valls dice no a quote generiche, chiede al tempo stesso una ripartizione «più equa»
dei rifugiati: «Questo suppone che si tenga conto degli sforzi già compiuti», ha aggiunto,
ricordando che Francia, Italia, Gran Bretagna e Svezia ricevono il 75% dei rifugiati e che la
Francia ha già accolto «5 mila siriani e 4.500 iracheni» dal 2012. All’opposizione, anche
l’ex presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy critica il sistema delle quote giudicandolo
«una follia», ma per Marine Le Pen non basta mai: la leader del Front National sostiene
che «sia Valls sia Sarkozy fingono di opporsi alle quote per ragioni mediatiche ed
elettorali, ma entrambi restano sottomessi a Bruxelles».
Stefano Montefiori
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del 18/05/15, pag. 11
“Basta immigrati
L’Ungheria guiderà il fronte anti-quote”
Il ministro Takacz: risolvere il problema nei Paesi d’origine
Tonia Mastrobuoni
Alla vigilia della riunione dei ministri degli Esteri e della Difesa europei prevista oggi
sull’immigrazione, il responsabile per le Politiche europee ungherese, Szabolcs Takacz,
ribadisce la contrarietà di Budapest e rivela che i Paesi dell’Est Europa stanno lavorando
attivamente per allargare il più possibile il fronte anti-quote obbligatorie. Ma sulle sanzioni
alla Russia - il voto per l’eventuale prolungamento è atteso a giugno - il diplomatico
magiaro rassicura i partner: «Non romperemo il fronte europeo».
L’Ungheria è contraria al piano Ue sulle quote per l’immigrazione?
«Certo. La posizione del mio governo è chiara: siamo contrari alle quote obbligatorie. E
credo lo siano anche altri Paesi: la Repubblica Ceca, la Slovacchia, i Paesi Baltici, la
Polonia e il Regno Unito. E, se non sbaglio, ora si è aggiunta anche la Francia».
Dunque il governo ungherese si sta impegnando attivamente per ampliare l’alleanza
anti-quote?
«Assolutamente sì, siamo in contatto con gli altri Paesi contrari e stiamo cercando di
rinsaldare i legami tra di noi e trovare altri alleati. Noi appoggiamo la posizione che era
stata adottata prima del piano, al vertice jumbo dei ministri degli Esteri e degli Interni.
Dobbiamo trovare soluzioni direttamente nei Paesi che sono all’origine dell’immigrazione».
Pensa che la maggioranza pro-quote di cui Juncker gode attualmente possa essere
messa a rischio?
«Non so, c’è ancora tempo fino al vertice di giugno. Per ora sembra difficile trovare una
soluzione comune. Dobbiamo combattere il problema dell’immigrazione all’origine».
All’origine ci sono spesso guerre civili o Paesi senza un interlocutore affidabile,
come la Libia.
«Vero, bisogna affrontare la questione con uno sguardo di medio termine. Ma intanto
occorre trovare soluzioni che non alimentino i sentimenti xenofobi».
A proposito. Il governo ungherese ha mandato un questionario a dir poco
discutibile ai cittadini che sarà ufficialmente adottato dal governo per determinare le
politiche per l’immigrazione, in cui si mescolano i temi dell’immigrazione, del
terrorismo. E in cui si parla di politiche europee «fallimentari». È questo il vostro
modo di porre la questione ai cittadini?
«Non possiamo ignorare gli umori della popolazione. Gli ultimi sondaggi dicono che quasi
un ungherese su due è contro l’immigrazione; non possiamo dare l’impressione che
decidiamo sopra le loro teste. L’Ungheria è al secondo posto in Europa nel rapporto
immigrati pro capite».
A giugno bisognerà decidere anche l’eventuale prolungamento delle sanzioni alla
Russia. L’Ungheria è vista spesso come l’anello debole che potrebbe rompere
l’unità europea. È così?
«La nostra posizione è chiara. Abbiamo legato le sanzioni all’implementazione degli
accordi raggiunti a Minsk. Ma non dimentichiamo di avere forti legami con la Russia, ad
esempio in campo energetico. Se tra un mese ci sarà stata una schiarita, si allenteranno le
sanzioni, altrimenti no».
E dal punto di vista ungherese ci sono segnali di schiarita?
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«Al momento la situazione è difficile. Non siamo molto ottimisti. E l’Ungheria partecipa ad
una decisione consensuale. Non romperemo l’unità europea. Ma non possiamo neanche
ignorare che le sanzioni sono, nel medio e lungo termine, una minaccia per la competitività
europea».
del 18/05/15, pag. 30
Le quote di solidarietà che l’Europa tralascia
Massimo Nava
Ci vuole più coraggio a fuggire dal comunismo o dalla fame? Sono più degni di
accoglienza i migranti di pelle chiara o gialla dei neri musulmani ? Sono domande cui
l’Europa — o meglio, la coscienza collettiva degli europei — risponde da tempo in modo
contraddittorio e scomposto. A giudicare da certe reazioni popolari e da non isolati
commenti politici, la risposta è anche inconsciamente affermativa, secondo una
percezione dello straniero che sconfina nel razzismo.
L’ipotesi di accordo su quote di profughi e azioni comuni contro i trafficanti trova forti
resistenze. Sembrano prevalere paura, incapacità di guardare con consapevolezza ai
problemi economici e demografici, vuoto di solidarietà (a parte le parole del Papa e
l’impegno di migliaia di soccorritori). Atteggiamenti che condizionano in modo drammatico
la ricerca di soluzioni e l’azione dei governi. Dopo il no di Londra, ecco le riserve di Parigi,
incline a rafforzare controlli e respingimenti alle proprie frontiere e refrattaria a subire
decisioni prese a Bruxelles che non tengano conto degli sforzi già sostenuti. Le
argomentazioni sono ovvie, oltre a quella sottintesa: il Front National che soffia sul fuoco.
Anche se, ufficialmente, viene ribadito il principio del «diritto d’asilo».
Sul tema immigrazione, l’Europa della moneta unica e della governance politica rafforzata
sembra meno coesa e meno consapevole dell’Europa al tempo del Muro di Berlino e della
Guerra fredda. La memoria dei nuovi europei e delle nuove classi dirigenti sembra
indifferente alla storia recente. È triste constatare una regressione collettiva proprio in
Paesi tradizionalmente di forte accoglienza. Basterebbe ricordare la nave ospedale Île de
la lumière , spedita nel Sudest asiatico per soccorrere migliaia di profughi in fuga dalle
purghe del regime di Hanoi. Una nave francese, voluta da intellettuali e artisti come Jean
Paul Sartre, André Glucksmann, Bernard Kouchner e Yves Montand, promotori di
un’eccezionale mobilitazione di opinione pubblica sul dramma dei vietnamiti che
fuggivano, annegavano, cadevano vittime dei pirati come oggi i disperati africani. Eravamo
alla fine degli Anni 70, le bandiere del Vietnam erano macchiate di vergogna e
repressione. È cambiato solo il nome del mare di morte o sono cambiati i nostri
sentimenti? La risposta è nel milione di boat people che furono accolti in Occidente.
Divennero impiegati, tecnici, ristoratori, ingegneri, dirigenti.
Basterebbe ricordare, 10 anni dopo, la grande fuga di tedeschi dell’Est, ungheresi,
polacchi, cechi, albanesi, yugoslavi. Prima e dopo la caduta del Muro, cercarono in Europa
libertà, democrazia, benessere. Trovano la solidarietà di tutti, le braccia aperte di molti,
l’accoglienza capillare e organizzata della Germania che su questo gigantesco esodo
gettò le basi della riunificazione del Paese, dell’attuale potenza economica, della sua
crescita demografica. Una Germania che ha capitalizzato le migrazioni e ha integrato nel
suo sistema industriale tanti frammenti della Mitteleuropa, tenendosi il più possibile al
riparo dai problemi del Sud europeo. Anche per i tedeschi, la memoria della storia agisce a
corrente alternata. Meglio avvicinare il Danubio al Reno, che il Maghreb e il Peloponneso
alla Baviera.
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È comprensibile che nessuno voglia o possa farsi carico di tutta la miseria del mondo, ma
è triste che siano le maggiori democrazie europee a ricostruire muri e confini, abbattuti con
la forza degli ideali. Ed è disonesto e miope non prendere coscienza della realtà. Il numero
di migranti in arrivo nei prossimi anni è stimato in centinaia di migliaia. E non li fermeranno
i droni o le quote. La percentuale di stranieri in Europa è molto più bassa che negli Usa.
L’Ue è l’area più ricca del mondo, ma anche quella con una popolazione sempre più
anziana e meno numerosa. Nonostante isterie e paure d’invasione, milioni di posti di
lavoro nei servizi restano vacanti. Se non riscopriamo la solidarietà, dovremmo almeno
cominciare ad essere, in modo intelligente, egoisti. Cioè pensare sul serio al nostro futuro .
Del 18/05/2015, pag. 10
LE SCELTE DEI PARTITI
La scissione parte alla Camera pronti i gruppi
autonomi “Abbiamo già il nome Conservatori
e riformisti”
TOMMASO CIRIACO
Il gruppo si chiamerà “Conservatori e riformisti”. È lo stesso nome dell’associazione che
Raffaele Fitto lancerà domani, in una conferenza stampa convocata per sancire l’addio a
Forza Italia. Anche la scissione nei gruppi parlamentari è certa. L’idea, a dire il vero, era
quella di ufficializzarla il primo giugno, un minuto dopo le Regionali. Il violento ping pong
polemico con Silvio Berlusconi, però, ha messo il turbo ai dissidenti azzurri. «Tenetevi
pronti per questa settimana», è il messaggio recapitato ieri sera dal capo dei frondisti.
Tra i fittiani, in realtà, non tutti condividono l’accelerazione e in molti preferirebbero
rompere dopo le amministrative. Comunque vada, esiste già un elenco degli scissionisti
aggiornato a domenica sera. Che recita: 14 deputati certi e 9 in bilico, 13 senatori arruolati
e 4 incerti. Nel frattempo le diplomazie anti berlusconiane sono in fermento. L’ultima novità
è che un nuovo faccia a faccia tra Fitto e Denis Verdini è stato fissato per domani a
pranzo, ma dopo le ultime tensioni attende la conferma definitiva.
La road map del nemico numero uno di Berlusconi è pronta. Ed è tutta a trazione
continentale. Il passo decisivo è l’adesione ai conservatori dell’europarlamento. Toccherà
a Fitto, domani stesso, spiegarne le ragioni alla stampa. L’appuntamento, come è ovvio,
mostrerà all’esterno la forza delle truppe parlamentari fittiane e sarà anche il trampolino di
lancio della nuova associazione. Nel week end, poi, è in agenda un viaggio del
capocorrente a Londra, per partecipare a un evento dei conservatori europei. Quindi
l’ultimo passo, nella settimana di vigilia delle Regionali: il capogruppo dei conservatori Ue
accoglierà ufficialmente gli scissionisti, nel corso di una visita in Italia. «E l’eventuale
“benedizione” di Cameron, uno che ha appena stravinto le elezioni - pregusta il successo
Fitto - non mi sembra un fatto del tutto marginale...».
I “candidati” all’addio sono incolonnati nei quadernoni di Daniele Capezzone. È sempre lui,
l’ex portavoce di FI, a mettere a disposizione lo studio parlamentare per ospitare i summit
di corrente. I deputati pronti allo strappo sono i sette pugliesi (esclusi Sisto e Savino) e il
nucleo “storico” di dissidenti composto da Romano e Galati, Bianconi e Castiello, Latronico
e Laffranco. Con Capezzone fanno 14, ai quali vanno aggiunti i “possibilisti”. Sono in corso
colloqui, ad esempio, con Antonio Marotta, Alberto Giorgetti e Massimo Corsaro. Non
mancano i contatti con i verdiniani, naturalmente. E se anche Fitto continua a ripetere che
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le strade non si incroceranno, i due capicorrente continuano a confrontarsi. Dalle parti di
Arcore, per dire, prevedono il peggio. «Alla fine Denis mi tradirà», mastica amaro
Berlusconi. Al Senato il quadro è migliore, almeno dal punto di vista di Fitto. Lì il conto lo
tiene Lucio Tarquinio. E il pallottoliere sorride ai frondisti: tredici senatori certi (Bonfrisco,
Zizza, Lettieri, Perrone, Liuzzi, Longo, Pagnoncelli, Milo, Falanga, Ruvolo e Scavone),
senza contare gli insoddisfatti che bussano alla porta.
Non tutto, naturalmente, fila liscio. Il balzo in avanti di Fitto ha spiazzato i “moderati” della
sua componente. C’è chi, ad esempio la senatrice Bonfrisco, è in piena campagna
elettorale per sostenere alle imminenti amministrative candidati in lista con Forza Italia.
Una scissione a pochi giorni dal voto comprometterebbe la gara. Altre “colombe”, poi,
invitano Fitto a raggiungere un compromesso con Verdini per allargare il consenso a
Montecitorio. Servono infatti venti deputati per far nascere un gruppo e immaginare una
start up con numeri ballerini non sembra l’idea migliore. «Berlusconi vedrà quanta gente
riuscirò a convincere», ostenta sicurezza Fitto. Con Verdini, in ogni caso, potrebbe
incontrarsi nuovamente domani, anche se le ultime stoccate dell’eurodeputato pugliese
hanno complicato i rapporti. Lo scontro con Berlusconi, destinato a crescere nei prossimi
giorni, resta il fattore decisivo che influenzerà il timing della scissione. L’orizzonte, in ogni
caso, è una costituente dei conservatori italiani. «Berlusconi continuerà ad attaccarmi
perché ha sempre bisogno di un nemico - è la previsione che Fitto consegna ai suoi - Noi
però guardiamo oltre, perché abbiamo il tempo dalla nostra parte ».
Del 18/05/2015, pag. 1-23
Salvini-Le Pen relazioni pericolose
ILVO DIAMANTI
MATTEO Salvini continua il suo viaggio attraverso le province d’Italia. Da Nord verso Sud.
INSEGUITO , dovunque, dalle proteste dei Centri sociali. Così rafforza la costruzione della
nuova identità leghista.
Nazionale e di Destra. Nello stesso periodo, si è consumata la frattura nella «famiglia reale
dell’estrema destra francese », come l’ha definita Bernardo Valli. Marine Le Pen, attuale
leader del Front National, ha sospeso dal partito il padre — e fondatore — Jean-Marie. Il
quale l’ha ripudiata come figlia. Un conflitto politico, e familiare, che riflette il tentativo di
“normalizzare” l’immagine del FN. È il tracciato dei percorsi incrociati di Marine Le Pen e
Matteo Salvini. Partiti da posizioni — politiche, simboliche e strategiche — distanti, per
alcuni versi opposte, tendono ad avvicinarsi. Nell’intento di conquistare nuovi spazi politici.
Con esiti ancora difficili da verificare. Marine Le Pen ha ereditato la leadership del FN dal
padre. Non è raro, nei partiti populisti, che il “comando” si trasmetta per via familiare. Ma,
rispetto al padre, ha riposizionato il partito. Il conflitto “familiare” in atto non sembra, infatti,
un semplice gioco delle parti, per allargare i consensi. Al di là degli indubbi elementi di
continuità con la tradizione, Marine Le Pen ha “nazionalizzato” l’immagine del partito in
senso “popolare” (e populista). E, dunque, anti-europeo. Prima, invece, la “nazione” era
utilizzata come simbolo di un’identità “sostanziale” ed esclusiva. Perché il FN è sempre
stato “solo”. Inavvicinabile per ogni altra forza politica di destra. Oltre che di sinistra. Non
per caso, alle presidenziali del 2002, quando Le Pen (padre) andò al ballottaggio (per la
frammentazione del voto di sinistra), Jacques Chirac, candidato neo-gollista, venne eletto
con oltre l’82% dei voti. Grazie al sostegno massiccio degli elettori di sinistra e di centro,
oltre che dei propri. Con una partecipazione elettorale superiore al primo turno.
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Marine Le Pen ha cercato di ridimensionare l’isolamento del partito, contraddicendo, in
particolare, il tradizionale discorso antisemita — principale motivo di rottura con il padre.
Ha, invece, accentuato il discorso securitario della proposta politica. In particolare, ha
amplificato le paure degli stranieri — e dell’Islam. Drammatizzati dal sanguinoso attacco a
Charlie Hebdo . Infine, ha riassunto i temi sociali e il nazionalismo nell’opposizione
all’Europa dell’Euro. Una recente indagine, condotta da Ipsos e Sciences Po per Le
Monde ( e diretta da Pascal Perrineau), osserva il radicamento di queste idee nella società
francese, sottolineato dalla crescita elettorale del FN. La Lega, invece, nella fase di
maggiore crescita (1995-2010), si è proposta come un partito “estremista di centro” (vista
la posizione politica dichiarata dalla maggioranza dei suoi elettori). Federalista. E
governativo. Perché Berlusconi l’ha coinvolta, nei suoi governi, dal 1994 e fino al 2011.
Inoltre, si è imposta come partito di governo a livello locale. E regionale. Nelle regioni del
Nord ma anche nel Centro. È divenuto il sindacato del (Centro) Nord a Roma. In questo
modo ha avvicinato e, talora, superato il 10% dei voti (alle politiche del 1996 e alle
europee del 2009). Fino agli scandali “familiari” (anche nella Lega i parenti contano…)
che, nel 2012, hanno coinvolto il leader-fondatore, Umberto Bossi. Matteo Salvini, eletto
segretario nel dicembre 2013, ha rilanciato il partito in tempi relativamente brevi. Da un
lato, ha sfruttato la crisi del Pdl — “logorato” dal “logoramento” di Silvio Berlusconi.
Dall’altro, ha riproposto, con successo, il ruolo dell’Imprenditore politico della Paura. Ha,
dunque, ripreso, con violenza, la campagna contro gli immigrati. E, al tempo stesso, contro
l’Unione europea. E contro l’euro. Salvini ha, quindi, “lepenizzato” la Lega, proiettandola
oltre il Nord Ha, così, delineato una Ligue Nationale, nel solco della nuova Destra (anti)
europea. Una scelta marcata dall’alleanza — esplicita — con Casa Pound. I dati dei
sondaggi, fino ad oggi, gli hanno dato ragione, spingendola oltre il 13%. In attesa delle
prossime elezioni regionali che, almeno in Veneto, dovrebbero premiare il suo candidato. Il
governatore uscente, Luca Zaia. Tuttavia, per entrambi i partiti ed entrambi i leader, le
prospettive di questa via nazional—(anti) europea della Destra restano incerte. Per
ragioni, in parte, opposte. Il FN di Marine Le Pen (come ha osservato Jean-Yves Camus
su Le Monde) mira a guidare lo Stato. Il padre non ci aveva mai pensato. E ha sempre
agito per massimizzare la sua rendita di op-posizione. Ora, però, le idee del FN (di Marine
Le Pen) hanno attecchito. Ma quasi l’80% dei francesi continua a considerare il FN di
estrema destra, mentre il 60% lo ritiene “pericoloso per la democrazia”, come mostra il
sondaggio Ipsos-Sciences Po. Così, al momento del voto, il FN ha ottenuto un buon
risultato, ma è stato largamente superato dal Centro-destra repubblicano, trainato dal
ritorno di Sarkozy. Perché, fra gli elettori francesi, le paure e i valori promossi dal FN sono
largamente condivisi. Ma riesce ancora difficile accettarlo come forza di governo.
In Italia, invece, la Lega di Salvini deve affrontare un problema molto diverso, ma dagli
esiti simili. La sua marcia decisa verso destra e centrosud, infatti, ha sollevato da una
catena di proteste, che danno ulteriore enfasi alla svolta di Salvini. Un “provocatore di
talento”, come l’ha definito ieri Francesco Merlo. Tuttavia, resta difficile immaginare che la
Lega Padana possa sfondare nel Sud. E la Ligue Nationale nel Nord. Mentre non si
comprende come la nuova Destra di Salvini possa tornare al governo, senza il sostegno di
Berlusconi, ora marginale. E come possa, dopo il sostegno di Casa Pound, essere
“sopportata” a lungo dal FN di Marine Le Pen, impegnata a uscire dal ghetto dell’estrema
destra. L’unione tra FN e LN (ationale), dunque, potrebbe delineare una “relazione
pericolosa”, anche per i due partiti coinvolti. Con l’esito, contraddittorio, di rafforzarli sul
piano elettorale ma, al tempo stesso, di allontanarli dal governo. Costringendoli a
interpretare la protesta. Contro i governi nazionali e contro l’Europa dell’euro. Considerata
“necessaria”, nonostante tutto, dalla maggioranza dei francesi e degli italiani. Così,
l’Unione di Front et Ligue Nationale rischia di apparire, agli elettori, uno strumento di
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“lotta”, ma non “di governo”. Una prospettiva, forse, accettabile per la Ligue di Salvini,
intento a occupare lo spazio di destra. A ogni costo. Ma intollerabile per il FN di Marine Le
Pen, che conta di ottenere un risultato importante alle prossime presidenziali.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 18/05/15, pag. 1/31
Un confronto davvero libero sui nuovi diritti
civili
di Aldo Cazzullo
L’ Italia è l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge che riconosca le unioni civili.
E sulla cittadinanza conserva norme concepite quando era un Paese di emigranti, e non
un Paese — anche — di immigrati.
Il richiamo del presidente Sergio Mattarella contro l’omofobia e «ogni discriminazione» è
arrivato nel momento opportuno. Sarebbe sbagliato attribuire al presidente parole che non
ha detto e intenzioni che non ha manifestato. Il Quirinale non interverrà nella definizione .
delle nuove regole che il Parlamento è chiamato a scrivere, per sanzionare crimini ma
anche per riconoscere diritti.
Ma può avere un ruolo significativo, a maggior ragione perché sul Colle si è insediato un
uomo di formazione cattolica; proprio ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere.
Questo non significa ovviamente che la Chiesa sia pronta a riconoscere le coppie di fatto.
Ma il clima non è più di scontro frontale. E il tempo è propizio per un confronto libero.
In molti, ricordando che le ultime elezioni politiche non hanno dato una maggioranza
parlamentare né alla sinistra né alla destra, sostengono che in questa legislatura sia
impossibile introdurre nuovi diritti civili. È vero il contrario. Proprio perché non esiste alle
Camere un orien-tamento culturale e politico prevalente, questa è la stagione giusta per
trovare un minimo comune denominatore, una maggioranza vasta che vada oltre gli
schieramenti precostituiti e approvi norme destinate a durare, e non a essere spazzate via
nella legislatura successiva. Già lo si è visto sul divorzio breve. Inoltre, le categorie
storiche di destra e sinistra, già logore di loro, in questo campo aiutano poco a capire; non
a caso il matrimonio omosessuale con diritto di adozione è rimasto in vigore nella Spagna
governata dai popolari e nell’Inghilterra conservatrice.
In Italia un simile cambiamento non troverebbe una maggioranza in Parlamento, e
probabilmente neppure un ampio consenso nella società. Però la discussione deve essere
aperta e rispettosa delle varie culture e sensibilità. Il dissenso non può essere
demonizzato. Chi difende le proprie idee non può essere tacciato di omofobia, ma neppure
di libertinaggio. È giusto discutere di tutto. Ad esempio le parole di Domenico Dolce e
Stefano Gabbana sono state irrise, ma indicavano una questione su cui è lecito
interrogarsi: oggi una coppia omosessuale o una donna sola possono andare all’estero e
avere un figlio grazie a ovuli donati (o comprati) e uteri in affitto; ma una coppia
omosessuale o una donna sola non possono andare in un orfanotrofio italiano ad adottare
un bambino.
La discussione però dura da tempo, e non può essere infinita. Prima della fine della
legislatura si dovrà trovare un accordo, diciamo pure un compromesso, parola di cui non si
deve avere paura, perché non rappresenta il tradimento di un ideale ma la conquista di un
terreno comune; che dovrebbe allargarsi anche al tema cruciale del fine vita. Il governo
Renzi fa bene a rivendicare una funzione propulsiva, ma dovrà evitare forzature. Anche a
proposito della nuova legge sulla cittadinanza. Oggi il figlio di italiani è italiano anche se
non vive e non vivrà mai nel nostro Paese: potrà ad esempio contribuire a decidere come
spendere tasse che non paga. Invece il figlio di stranieri nato in Italia non è italiano e non
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lo diventa per troppo tempo: questo anacronismo genera estraneità e irresponsabilità; è
difficile per i nuovi italiani riconoscersi in una comunità di valori da cui si viene esclusi.
Siamo un Paese troppo permeabile per introdurre lo ius soli . La fase storica impone rigore
e serietà, compenetrazione di diritti e di doveri. Ma è possibile fin da ora legare la
cittadinanza al completamento di un ciclo di studi: deve essere la scuola dell’obbligo, oggi
troppo spesso evasa anche dai figli di italiani, a trasmettere la lingua e i princìpi — a
cominciare dall’uguaglianza tra l’uomo e la donna — conquistati con il travaglio di
generazioni, che non vanno dispersi ma diffusi.
È una «grande società» quella che possiamo costruire, in cui nessuno verrà discriminato
per i suoi orientamenti sessuali e per il colore della sua pelle. L’occasione è adesso.
Del 18/05/2015, pag. III RM
Unioni civili, giovedì primi sì in Campidoglio
L’annuncio del sindaco su Facebook. Ventidue coppie verranno iscritte nel registro
cittadino istituito a gennaio Il Celebration Day in Protomoteca. A officiare saranno i
consiglieri comunali: “Un impulso per il governo nazionale”
GIOVANNA VITALE
HANNO deciso di fare le cose in grande, in Campidoglio: come sempre, quando si tratta di
diritti civili. E di bissare, in quanto a pompa magna, la cerimonia organizzata a ottobre per
la registrazione dei matrimoni gay contratti all’estero. Oggi come allora: sarà Celebra-tion
day ha annunciato ieri il sindaco, «un atto concreto nella giornata contro omofobia e
transfobia ». Stavolta a prendersi la scena nella solennità della Protomoteca saranno 24
coppie — 8 di soli uomini, 8 di donne, il resto eterosessuali — che giovedì verranno
simbolicamente unite in “matrimonio” da una schiera di consiglieri comunali, i quali
provvederanno a iscriverle nel registro istituito a Roma a gennaio. E pazienza se per il
radicale Riccardo Magi «in realtà c’è poco da feesulta quello che produrremo è un
semplice atto amministrativo, senza alcun effetto ai fini del diritto di famiglia, il che lascia
l’amaro in bocca: l’Italia è l’unico Paese in Europa che non riconosce le unioni civili e ciò
nonostante una sentenza della Consulta che cinque anni fa ha esortato il Parlamento a
legiferare ». Per «Roma è un enorme passo avanti, utile anche a fare pressione sul
governo rimasto drammaticamente indietro», invece Imma Battaglia, esponente di Sel e
promotrice del registro capitolino: «Noi non siamo scemi, siamo consapevoli che si tratta di
un palliativo, che c’è bisogno di una norma nazionale. Ma proprio per questo ciò che
faremo è importante. Per dire a Renzi: se ci sei batti un colpo... gay», scherza.
La cerimonia sarà ricalcata sulle nozze con rito civile. Solo che al posto degli articoli del
codice, i celebranti — oltre ai firsteggiare, matari della delibera (Tempesta, Raggi, Celli,
Magi), il capogruppo del Pd Panecaldo, quello di Sel Peciola, i consiglieri D’Ausilio e Azuni
— pronunceranno una formula predisposta dal direttore dell’Anagrafe. E poi, se vorranno,
pure un bel discorsetto. «La celebrazione sarà molto simile a quella di un matrimonio »,
ribadisce Battaglia. Decisa a trasformare l’happening in una sorta di maratona dei diritti:
«Vivremo una grande giornata d’amore e di festa», insiste l’attivista gay: dalle 14 alle 18 e
oltre, dieci minuti per coppia, con brindisi finale sulla terrazza Caffarelli. «A un mese dal
Pride, a pochi giorni dalla giornata internazionale contro l’omofobia mandiamo un
bell’impulso al governo nazionale», sorride Giulia Tempesta. Un appuntamento che, dopo
giovedì, tornerà ogni settimana: in lista d’attesa, già 200 coppie.
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del 18/05/15, pag. 21
La norma esiste ma è bloccata da due anni
Il testo di Scalfarotto ha avuto il via libera dalla Camera. Poi le liti e lo
stop. I dubbi delle associazioni
ROMA La proposta di legge contro l’omofobia c’è. Ha avuto il primo via libera alla Camera.
Ma è ferma al Senato dal 2013. Complotto degli integralisti cattolici? No. A non volerla,
oltre all’ala più oltranzista delle formazioni politiche di ispirazione cattolica sono state
associazioni Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender).
Lo sa bene Ivan Scalfarotto, sottosegretario pd alle Riforme, che ne è primo firmatario e
relatore, e tra maggio e settembre del 2013 l’ha fatta mettere all’ordine del giorno, ha
trovato l’accordo e ha portato a casa il primo sì della Camera. Ma per questo è diventato
bersaglio di critiche aspre dal mondo Lgtb, dal quale proviene.
Lo ha scritto lui stesso ieri, in un post sul suo blog. «Forsennate reazioni ideologiche da
tutte le parti hanno purtroppo preso il sopravvento e ci troviamo a celebrare l’ennesima
giornata contro l’omofobia e la transfobia senza una legge in vigore. Per il momento, etero
o gay che siate, è una sconfitta per tutti». E al Corriere spiega: «Ormai sono una persona
non gradita alle associazioni Lgtb più oltranziste. Sono accusato di essere sceso a
compromessi. Ma quelli che in queste ore mi chiedono che fine ha fatto la norma, erano gli
stessi che dicevano: meglio nessuna legge che questa. Invece avremmo dovuto cogliere
l’occasione».
Ma cosa prevede quel testo fermo in commissione giustizia al Senato? Estende la legge
Mancino alle discriminazioni di genere. Punisce con la reclusione fino a un anno e 6 mesi,
chiunque «inciti o commetta atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o
motivati dall’identità sessuale della vittima». E da 6 mesi a 4 anni chi commette o provoca
atti di violenza per gli stessi motivi. In più introduce l’aggravante specifica dell’identità di
genere e dell’orientamento sessuale.
Ma la bagarre che ha poi bloccato l’iter della legge si è scatenata su una clausola: il
subemendamento Gitti. Venne posta per superare l’opposizione di chi considerava la
norma una limitazione di libertà del pensiero. Prevede che non siano perseguibili i
comportamenti, rivolti all’interno, di associazioni di tendenza: quelle costituzionalmente
riconosciute (i neonazisti non lo sono). Se un prete in chiesa fa un sermone pro famiglia
etero non deve temere di essere arrestato. «Le associazioni Lgtb ne hanno gonfiato gli
effetti. La norma mirava a tutelare il pluralismo», lamenta Scalfarotto.
Ora l’attenzione Lgbt è spostata sulla legge sulle Unioni Civili, in commissione giustizia al
Senato, contro la quale Carlo Giovanardi, di Area popolare, ha presentato tremila
emendamenti. Prevede per le coppie gli stessi diritti degli sposi. Inclusa, oltre alla
reversibilità della pensione, la possibilità di adottare il figlio del partner avuto grazie a
fecondazione artificiale e maternità surrogata.
Virginia Piccolillo
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 18/05/15, pag. 8
La compravendita del bagnasciuga
Il governo ha ripreso un vecchio progetto di forza italia e lo ha già
inserito nella legge di stabilità: è probabile che entro breve inizi la
svendita
Il più bello non si può dire, sicuramente è uno degli angoli più suggestivi d’Italia, Lerici.
Una volta a destinazione basta chiedere della spiaggia di Indro Montanelli. Il vecchio del
grande giornalismo era qui che veniva a rilassarsi, e poco a dire il vero. Anche in spiaggia
mica riusciva a stare fermo.
E quando si metteva a discorrere con gli altri villeggianti, davanti al mare di Lerici, diceva
sempre, un po’ per finta e un po’ per davvero, “tra breve venite qui a cercarmi, mi troverete
a fare il bagnino”. Non ci riuscì, tirato per la giacca, una volta a fare il direttore, un’altra a
rientrare dalla porta di via Solferino al Corriere della Sera, un’altra a scrivere libri.
Ma finché la salute glielo permise era lì, a Lerici. Che c’entra tutta questa storia? C’entra,
assolutamente.
Perché la spiaggia dove Montanelli doveva fare il bagnino, è a pagamento. E costa anche
una discreta somma. Fino ai cento euro al giorno. Prezzo che può variare. Anche perché
l’astuto Matteo Renzi ha pensato bene di sposare una delle vecchie battaglie di Forza
Italia: perché non venderle queste spiagge? Rendono poco le trentamila concessioni,
appena 102 milioni all’anno e non tutti pagano, invece con la vendita le stime salirebbero.
Renzi potrebbe tappare qualche buco di bilancio. E la legge esiste già.
È stata mascherata , ma c’è: “Le aree appartenenti al patrimonio dello Stato”, si legge al
comma 11 dell’articolo 6, “sulle quali alla data del 30 settembre 2014 siano stati realizzati
da privati immobili o manufatti sono alienate a cura dell’Agenzia del Demanio mediante
vendita diretta in favore del soggetto legittimato che ne faccia richiesta”. La lobby è salva.
La Versilia
La direttiva Bolkestein che vuole aprire bandi per le concessioni è stata arginata: tutti
contenti. Perché questo è il Paese del sole, ma anche quello degli accessi al mare vietati.
Una sorta di privatizzazione c’è già. La barzelletta dell’accesso al mare non funziona in
questo Paese. Una legge direbbe che la battigia è di tutti, ma provate voi a passare: la
parte da attraversare è affittata ai gestori degli stabilimenti balneari. In Italia le leggi si
possono interpretare, spesso modificare a favore di una lobby, qualche volta derogare.
Nulla di quello che è scritto diventa precedente. La Liguria e la Toscana sono sicuramente
due casi emblematici. Livorno, per raccontarne una, ha una serie di stabilimenti balneari
sul lungomare della città. Tutti in cemento, attrezzati, pieni di bar, docce, ristoranti e
gabbioni, che sarebbero campi di calcetto in cemento dove la palla non esce mai. E al
mare vai solo se hai l’abbonamento. Bello sarebbe dire al bagnino vado a farmi un bagno
ed esco: quello, che di solito è un portuale in pensione, ti prende per le orecchie e ti
manda a fare un giro. Legittimo? No, ma funziona così. È l’interpretazione labronica, molto
originale. I ragazzini a volte provano a entrare via mare, a nuoto: l’epilogo è sempre quello
di un bagnino che ne prende tre alla volta e li rispedisce da dove sono arrivati. Il mare
sarebbe di tutti, non provateci a Livorno. Troverete un buon alleato nel sindaco a 5 Stelle,
Filippo Nogarin, ma il braccio di ferro per ora lo stravincono i bagnini, non i bagnanti. Più
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sfuggente la questione in Versilia, dove qualche spiaggia libera esiste e diventa un
possibile accesso.
Ma andate in qualsiasi stabilimento balneare, per esempio il Twiga, giusto per fare un
nome, e chiedete di avere accesso al mare.
La legge è chiara
Spiegatelo voi che esiste una legge del 2006 che dice delle cose precise e che fino a
prova contraria andrebbe rispettata. Obbliga “i concessionari di garantire il libero e gratuito
accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l’area compresa nella
concessione, anche al fine di balneazione” aggiungendo poi “il vincolo per gli Enti Locali,
nel predisporre i piani di utilizzazione del demanio marittimo, a individuare un corretto
equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili nonché a
individuare le modalità e la collocazione dei varchi necessari al libero transito per il
raggiungimento della battigia, anche ai fini della balneazione”.
Budelli privata
Il paradosso si può vivere in uno degli arcipelaghi più belli del mondo, quello della
Maddalena. Spiagge rosa, deserte fino agli anni Ottanta, sono diventate proprietà dei
privati. Come Budelli, posto che vale qualsiasi pena. Bene: l’isola se l’è acquistata un
privato, il neozelandese Michael Harte. È sua. Se volete andare a buttarvi in mare, almeno
per educazione, andrebbe chiesto il suo permesso. Il più democratico, sempre dalle parti
della Costa Smeralda, è sempre stato l’Aga Khan. C’è una spiaggia, a Cala di Volpe, che
si chiama spiaggia del principe perché si trova proprio sotto casa del principe ismailita.
Raggiungibile, ma con una camminata di tre chilometri che, sotto il sole d’agosto, non
sono il massimo. Un deterrente. Ma è tutta la Costa Smeralda che è proprietà privata. Se
non sono ville sono alberghi a cinque stelle. E per i sardi è quasi incomprensibile anche
perché nel resto dell’isola, gli stabilimenti balneari non esistono. Male che vada tocca
pagare il parcheggio.
Il “lungomuro”
Lo chiamano il lungomuro. Il sindaco di Roma Ignazio Marino quest’anno ha iniziato col
pugno di ferro: divieto di ostacolare i varchi di libero accesso alla spiaggia, valido anche di
notte, e obbligo per gli stabilimenti di consentire il passaggio per raggiungere la battigia
anche per fare il bagno, pena una multa fino a 500 euro. L’ordinanza esiste, l’ha firmata
Marino stesso, e hanno già iniziato a fare qualche multa. Vediamo chi molla per primo. Ma
i varchi aperti di mattina il 16 aprile scorso a colpi di piccone, dall’ex magistrato Alfonso
Sabella neo Assessore capitolino alla Legalità, il giorno dopo erano già stati richiusi.
Congelati da una sospensiva del TAR presentata da alcuni concessionari degli
stabilimenti. Ma i muri più difficili da abbattere non sono solo quelli di cemento o meglio
delle cabine in cemento che diventano B&B alla bisogna. Per quanto l’allarme mafia a
Ostia sia oggetto d’indagine della Procura di Roma, per quanto la Capitaneria di Porto
abbia rilevato irregolarità in nove stabilimenti su dieci, Alfonso Sabella, che conduce
un’inchiesta amministrativa sugli abusi e la cementificazione sul litorale, procede non
senza ostacoli. Un incendio doloso, secondo gli investigatori, scoppiato a novembre
nell’ufficio del demanio marittimo in via Martin Pescatore all’Infernetto, ha distrutto le
pratiche amministrative delle spiagge del X Municipio. Tanto che il Tar nel pronunciarsi
contro l’apertura dei varchi voluta da Marino, ha potuto visionare planimetrie parziali.
Documenti in pieno conflitto d’interesse secondo Stefano Esposito commissario del Pd a
Ostia, dal momento che si è trattato di carte firmate dall’ingegner Renato Papagni
presidente di Federbalneari, proprietario lui stesso di stabilimenti sul litorale. Marino
avrebbe annunciato di voler abbattere il lungomuro, per vederci chiaro e rendere ai romani
finalmente la vista del mare. E che il clima sia rovente lo dimostra il fatto che nei giorni
caldi delle ruspe il senatore Esposito avrebbe detto: se il clima non cambia, consiglio a
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Marino di azzerare tutte le concessioni a fine stagione e rimettere tutto in gioco, con un
nuovo bando e prezzi aggiornati. Già, le concessioni, l’oggetto del desiderio e del
contendere a Bruxelles che vorrebbe imporre all’Italia l’applicazione della direttiva
Bolkenstein, ma non ci riesce. Contro la liberalizzazione, capofila è proprio quel Renato
Papagni che con il suo sindacato rappresenta 28mila imprese. Questione di lavoro che
sfumerebbe e di investimenti per il futuro, perché con il via libera alla sdemanializzazione
chi compra spiagge, compra oro. Soprattutto a Ostia dove 17 chilometri di lungomuro,
senza soluzione di continuità, tra l’aeroporto e il porto di Fiumicino potrebbero cambiare il
volto della città.
L’unico affaccio della Capitale d’Italia sul Mediterraneo, la sola capitale europea, oltre
Atene, adagiata sul mare. Un valore inestimabile, economico ma anche culturale, finora
incompreso. C’è chi dice che le famiglie mafiose locali che controllano da sempre il
territorio, abbiano grandi progetti. Le inchieste Anco Marzio e Nuova Alba le hanno
appena scalfite, i santi in paradiso sono tutti lì a guardare. I giovani di Ostia sperano nella
rinascita artistica di questo territorio da quando è apparsa la Venere delle Corde. Una
statua misteriosamente approdata un anno fa sul pontile di fronte allo stabilimento preso in
sub-concessione dall’erede di uno storico pregiudicato locale. Corde come speranze,
quelle colorate della Venere ogni tanto spuntano sui muri, una forma virale d’arte finita
sulla copertina di un giornale di Dubai e, chissà perché, non da noi. Forse gli arabi hanno
fiutato l’affare milionario per chi comprerà la costa di Roma.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 18/05/2015, pag. 9
Scuola al rush finale la minoranza del Pd offre
al governo una tregua armata
Niente barricate come per l’Italicum: “La legge non è blindata” Il premier
sul blocco scrutini: non si gioca sulla pelle dei ragazzi
FRANCESCO BEI
Per la Buona Scuola sono arrivati gli esami finali. Si entra nel vivo già questa mattina, per
gli ultimi tre giorni di battaglia nell’aula della Camera. Al voto gli articoli più contestati della
riforma, il numero 9 sui poteri del preside, il 10 sui precari e l’articolo 17 che riguarda il
5x1000. Mentre le opposizioni affilano le armi (ma con i numeri della maggioranza a
Montecitorio non potranno far molto), Renzi prosegue nel suo contrattacco mediatico
iniziato la scorsa settimana con il video alla lavagna. «Non si può minacciare il blocco
degli scrutini — ha dichiarato a l’Arena di Giletti — non si può giocare sulla pelle dei
ragazzi. Anche chi boicotta il test Invalsi non dà un bell’esempio di educazione civica». E
ancora, sui no piovuti contro la valutazione dei docenti: «Penso anche che in qualche
professore ci sia ancora l’idea di mantenere la filosofia del 6 politico. Ma quella stagione è
finita». Intanto la minoranza dem sembra aver scelto una politica diversa rispetto alla
totale contrapposizione sull’Italicum che portò 38 deputati a non votare la fiducia al
governo. Non una tregua vera e propria, ma un’apertura speculare a quella mostrata dal
governo. «Vediamo — afferma Nico Stumpo, uno dei leader dell’area bersaniana — se è
possibile fare accordi nel Pd. Sull’Italicum fu la decisione di Renzi di mettere la fiducia a
far saltare il tappo, ma sulla scuola non c’è alcuna logica di bandiera. Abbiamo presentato
emendamenti di buon senso». Quali siano i punti su cui insisteranno di più lo spiega
Andrea Giorgis: «Il 5 per 1000 non ha più senso, visto che non si tratta di risorse
aggiuntive ma di soldi dello Stato. Bisogna poi dare almeno una prospettiva futura di
stabilizzazione a tutti i precari che hanno fatto corsi abilitanti. Infine c’è la questione
centrale, la collocazione dei docenti sul territorio: non si può immaginare di creare scuole
di serie A con più risorse e con i docenti migliori e scuole di serie B con gli altri ». Ma, di
nuovo, niente barricate: «C’è un clima diverso — ammette Giorgis — perché il governo
non ha blindato la riforma. In commissione il testo è stato migliorato e ora speriamo di
migliorarlo anche in aula. Comunque a tutti noi sta a cuore una vittoria del Pd alle regionali
e lavoriamo per riconnettere il partito con il mondo della scuola». Chi invece ancora non
ha scelto se votare o meno il ddl è Alfredo D’Attorre, l’anima più ribelle — insieme a
Stefano Fassina — del Pd: «La mia valutazione finale dipenderà dalle modifiche
sostanziali che devono essere fatte al progetto. Allo stato purtroppo non credo ci siano le
condizioni per un voto favorevole ». Fassina fa della riforma della Scuola addirittura un
test, «un passaggio decisivo per scegliere se restare» o meno nel partito. Anche Sel e
Cinque Stelle, ovviamente, non faranno sconti. Carla Ruocco, l’unica donna del direttorio
pentastellato, annuncia che domani il M5S sarà in piazza Montecitorio «per una grande
mobilitazione insieme agli insegnanti e ai nostri attivisti». Ma già da oggi, benché molti
deputati grillini (Ruocco compresa) non possano partecipare ai lavori perché sanzionati,
«ci saranno scintille».
Il governo comunque ritiene di aver aperto a sufficienza già in commissione, in aula il testo
sarà difeso così com’è. «Ulteriori modifiche — rivela un renziano — ce le riserviamo
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semmai per il passaggio al Senato». Intanto, sottotraccia, si apre un primo braccio di ferro
tra governo e Ragioneria dello Stato. Oggetto: i bacini territoriali dai quali il preside potrà
pescare gli insegnanti. Per la Ragioneria sarebbero troppo stretti.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 18/05/15, pag. 32
Salone del Libro
Ma dove vai se la coda non ce l’hai?
La folla in attesa all’ingresso delle sale convegni è un termometro degli
amori (e dei rifiuti) del pubblico. Che si rivela sempre più libero e
indipendente
Mario Baudino
Al padiglione della Germania il bookshop ha esaurito i testi in lingua originale da ormai due
giorni. Era stato rifornito largamente, ma a quanto pare non è bastato. L’ultimo raid è stato
quello di un signore che ha chiesto tutto Stephen Zweig, e si è portato via un bel po’ di
volumi in entrambe le lingue. Katharina Storch, una delle responsabili della trasferta
tedesca, ci racconta persino un po’ stupita di aver calcolato almeno 10 mila presenze tra i
visitatori dello stand e chi ha partecipato agli incontri dedicati al Paese ospite. Sullo
sfondo, la Sala Azzurra dove si sta addensando, manca ancora un bel po’ alle 11, una
coda notevolissima per Jennifer Teege, scrittrice di padre nigeriano e madre tedesca che
ha scoperto di essere la nipote di un nazista con ruoli di comando in un Lager, e ne ha
tratto un libro, Amon.
Mio nonno mi avrebbe ucciso (appena uscito in italiano per Piemme) che ha avuto un
grande successo nel suo Paese. Anche in questo caso, copie in tedesco esaurite ben
prima delle presentazione.
Le code, quest’anno, sono parse più del solito un termometro delle scelte, degli amori e
naturalmente dei rifiuti, un indicatore di gusto. Se non sono quasi mai mancate agli eventi
della Germania - segno di una grande curiosità e anche forse del fatto che molte più
persone studiano il tedesco, rispetto anche solo a qualche anno fa - sono state altresì il
segno più forte degli incontri che maggiormente intercettavano gli umori dei lettori. Perché
una coda ha anche una dimensione temporale: può essere lunga, o molto lunga, ma è
soprattutto interessante con quanto anticipo lo è rispetto all’orario di inizio.
Valga l’esempio di Bauman, il popolarissimo (e onnipresente) sociologo cui si deve
l’abusata definizione di «società liquida»: liquida o solida, la coda che attraversava il lungo
atrio di fronte alla Sala Gialla era già lunghissima un’ora prima che incominciasse il suo
intervento. Mentre ad attendere relatori più squisitamente politici c’erano magari una
quarantina di persone. È un segno di cambiamento: per molti anni il Salone è stato anche
un’arena politica, con scontri anche aspri, ruvide polemiche e cozzare di idee. Ora i politici
ci sono sempre, e in buon numero, ma un po’ in secondo piano, come sullo sfondo: con le
ovvie eccezioni dei personaggi pubblici (come la presidente della Camera Laura Boldrini:
grande coda venerdì) che propongono temi e narrazioni di più ampio orizzonte; o come
Walter Veltroni quando parla, poniamo, di Pasolini. O ancora come Enrico Letta, l’ex
premier, che torna in scena col suo libro Andare insieme andare lontano (Mondadori).
Il «Grand Tour» del pubblico, per restare al tema delle «Meraviglie d’Italia», risponde a
esigenze più complesse e in qualche modo pluralistiche. Non sarà così liquido, ma è
mutevole, e talvolta imprevedibile. Arrivano ragazzi e giovani da ogni dove allo stand Ibs
per uno stimato e popolare blogger, Daniele Rielli (alias Quit the donner) che intanto ha
scritto il suo romanzo d’esordio, Lascia stare la gallina (Bompiani), gentili signore
inseguono lo chef scienziato Marco Bianchi, un passato alla Fondazione Veronesi e un
sorriso da attor giovane. La coda si incammina stoicamente di nuovo verso la Sala Gialla
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(è inevitabile, essendo la più grande) per il direttore della Stampa Mario Calabresi (Non
temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa, Mondadori) e presidia in serata
l’Auditorium per Massimo Gramellini e Chiera Gamberale, che parlano del loro Avrò cura
di te (Longanesi).
Se qualcosa emerge dal Salone di quest’anno è che il lettore è sempre più libero,
imprevedibile, indipendente, magari frastornato da mille richiami, dal web e persino dal
self-publishing. Ma in fin dei conti ha bisogno che qualcuno sappia prendersi cura di lui.
del 18/05/15, pag. 33
Attenzione, l’ebook
ci rende superficiali
Una studiosa americana mette in guardia: il digitale è utile se si integra
e non sostituisce la lettura su carta
Iuri Moscardi
Leggere in digitale è qualcosa di ben più complicato di un semplice cambio di supporto. Lo
sostiene Naomi Baron nel suo saggio Word Onscreen. The Fate of Reading in a Digital
World (Oxford University Press). L’autrice, executive director del Center for Teaching,
Research and Learning dell’American University di Washington, ha studiato il digitale
come motore di un cambiamento che investe tutte le attività connesse con la lettura.
Con l’ebook i libri sono paragonati a qualsiasi prodotto digitale di cui la vita, soprattutto dei
«nuovi lettori» più giovani, è satura: sono loro, per ragioni anagrafiche cresciuti con i
supporti digitali, al centro dello studio. Ed è partendo da alcuni dati, raccolti dal 2010 tra
alcuni studenti universitari suoi e di colleghi in Germania e Giappone, che l’autrice parte
per descrivere la rivoluzione del digitale.
Durante lo studio, gli intervistati hanno dichiarato di preferire la carta al digitale: gli ebook
costano meno (anche se un’instabile politica del prezzo può renderli meno convenienti del
previsto) e sono immagazzinabili a centinaia in un solo strumento connesso a Internet, ma
quando abbiamo il tempo di leggerli tutti? Inoltre – sebbene consentano sottolineature e
commenti – non permettono di scrivere a mano nei margini e nemmeno di essere
consultati contemporaneamente, due processi fondamentali per chi studia. Senza contare
che la mancanza di fisicità riduce la memoria di ciò che leggiamo e elimina il concetto di
possesso perché ci vengono concessi solo in licenza.
La realtà studiata dall’autrice è quella degli Stati Uniti, dove gli ebook hanno raggiunto il
20% dei libri letti. Negli Usa il digitale sta avendo importanti ripercussioni a livello
scolastico: molte scuole e college, vista l’impennata dei prezzi per i libri di testo e la
riduzione del loro budget, sono passati al meno caro ebook. Ma, a livello generale, la
diffusione degli strumenti digitali trasforma le abitudini di lettura degli studenti, che si
modellano sempre più su quelle che tali supporti diffondono: testi brevi, da scorrere per
cercare informazioni specifiche o per approfondimenti e non troppo complessi, adatti a una
lettura usa e getta. Baron lamenta, da docente, come questi formati disabituino gli studenti
all’attenzione necessaria per testi lunghi (obbligando docenti e editoria a puntare su testi
sempre più brevi per non perdere una rilevante fetta di mercato). Agli studenti viene offerto
un universo frammentato di micro-testi, tutti sullo stesso dispositivo: se al libro di scuola si
può accedere con lo stesso strumento utilizzato per Facebook, lo studente paragonerà il
libro ai social network e a tutte le altre app, dalle quali si farà distrarre in continuazione
durante la lettura.
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Concludendo, questo saggio non è un grido d’allarme apocalittico: Baron analizza con
occhio scientifico il fenomeno e, riconosciuta la supremazia tecnica del medium digitale,
giunge ad alcune conclusioni utili per il futuro. Sfruttare l’ibridazione carta-digitale (libri con
contenuti aumentati, copie digitali gratuite per chi acquista il cartaceo) per promuovere la
lettura, compensare testi lunghi e brevi e non presupporre che gli studenti sappiano
leggere onscreen (sta ai docenti insegnarglielo) né di conoscere le preferenze di lettura
degli altri solo perché usano dispositivi digitali. I lettori saranno sempre consapevoli che
digitale e carta possono essere impiegati per scopi diversi. Il digitale può tuttavia definire
una nuova idea di lettura, in cui giudicheremo irrilevanti lunghezza e complessità dal
momento che le nuove tecnologie non incoraggiano questi approcci alla lettura. Se non è
questa la lettura che vogliamo, sta a noi raccogliere la sfida.
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ECONOMIA E LAVORO
del 18/05/15, pag. 2
Rimborsi, la promessa del premier «500 euro
a 4 milioni di pensionati»
ROMA Dopo giorni di indiscrezioni e simulazioni, persino di sospetti sulla reale voglia di
intervenire prima delle Regionali, Matteo Renzi taglia la testa al toro e annuncia che il
governo interverrà oggi, accogliendo in questo modo la bocciatura del blocco delle
indicizzazioni delle pensioni da parte della Consulta: «Nessun pensionato perderà un
centesimo. Noi scriveremo una nuova norma rispetto al blocco dell’indicizzazione che
restituirà in tasca a 4 milioni di italiani 500 euro a testa. Quanti pensano che sia un bonus
per le elezioni non potranno dirlo perché» l’una tantum verrà data «dal 1 agosto». Sulle
risorse necessarie, ci sono «questi 2 miliardi che mi ero tenuto da parte per le misure
contro la povertà», ma, assicura, «le faremo lo stesso». Il capo del governo spiega alcuni
dettagli del provvedimento, che l’esecutivo sta scrivendo. Saranno tenuti fuori dal rimborso
gli assegni oltre i 3mila euro lordi. «Ovviamente non è un rimborso totale — aggiunge —
che sarebbe di 18 miliardi. Significherebbe tagliare la scuola, il sociale e le strade».
Negativa la reazione del leader di Forza Italia al Tg1: «Non credo sia una cosa corretta,
tutti i pensionati devono vedersi restituiti i soldi».
Nel corso della trasmissione condotta da Massimo Giletti, l’Arena, su Rai1, il premier fa
anche autocritica sulla riforma delle scuola. Ammette che «ci sono stati errori di
comunicazione da parte mia, ma gli italiani sappiano che cerco di fare del mio meglio»,
Ribadisce che è disponibile al confronto nel merito, «sul preside discutiamo». Distingue
quanto sta accadendo con la riforma del sistema di istruzione da quanto accaduto con la
legge elettorale: «La scuola è il luogo più importante. Sulla legge elettorale abbiamo fatto
una forzatura, sulla scuola invece non sto dicendo questo. Aiutatemi a capire dove stiamo
sbagliando del merito». Detto questo restano fermi alcuni principi, per esempio sul sistema
di valutazione, che può essere affidato un comitato, ma, aggiunge il premier, «penso che
in qualche professore ci sia l’idea di mantenere la filosofia del 6 politico. Ma questa
stagione è finita. Dalle lettere che mi sono arrivate credo che la maggior parte dei
professori sia pronta ad un sistema di valutazione».
E sulle proteste dei sindacati che minacciano di congelare gli scrutini, Renzi aggiunge che
«i professori devono capire che non si possono bloccare gli scrutini. Non si può giocare
sulla pelle dei ragazzi», cosa che sta già accadendo, aggiunge, quando capita di leggere
che in alcune scuole i docenti consigliano agli alunni di non rispondere ai test Invalsi: «I
test vanno fatti». Arrivano domande anche personali. Brutto carattere? «Ho un sacco di
limiti, se la gente parla male di me fa bene. Ma non importa se a qualcuno non stai
simpatico ma fare cose che servono. Sono quello che ero. Non farò politica per sempre».
E promette che la Salerno-Reggio Calabria sarà finita nel 2016.
Marco Galluzzo
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