LOST IN TIME - The Books We Want To Read

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LOST IN TIME - The Books We Want To Read
LOST IN TIME
MELISSA DE LA CRUZ
Traduzione a cura della pagina The Books We Want To Read
Revisione: Luna e Aurora
Pagina: https://www.facebook.com/pages/The-books-we-want-toread/258712084286861?ref=hl&ref_type=bookmark
Sito: http://thebookswewantoread.altervista.org/
MAI DIRE ADDIO
UNO
DUE
TRE
QUATTRO
CINQUE
SEI
SETTE
OTTO
NOVE
DIECI
UNDICI
DODICI
TREDICI
QUATTORDICI
QUINDICI
SEDICI
DICIASETTE
DICIOTTO
DICIANNOVE
VENTI
VENTUNO
VENTIDUE
VENTITRE
VENTIQUATTRO
VENTICINQUE
VENTISEI
VENTISETTE
VENTOTTO
VENTINOVE
TRENTA
Ho cercato di dire: “Mi manchi stanotte.”
E loro sostengono che tu sia già morto.
—stellastarr*, “Lost in Time”
Cosa potrai mai fare…
Se non cercare di prendere a piene mani
tutto quello che ti passa vicino,
finché non ti sarai spezzata le dita?
—Tennessee Williams, Orpheus Descending
Mai Dire Addio
Firenze, dicembre
Schuyler non dormì per tutta la notte. Restò sdraiata a guardare le travi di legno
incrociate sul soffitto, oppure il Duomo fuori dalla finestra, che brillava di un oro
rosato alla luce dell’alba. Il suo vestito era un mucchio di seta spiegazzato a terra,
accanto alla giacca nera dello smoking di Jack. La scorsa notte, dopo che gli ospiti
se n’erano andati, dopo che avevano premuto affettuosamente le loro guance contro
le sue per salutarla e dopo che avevano benedetto e toccato il suo anello in segno di
buona fortuna, la nuova coppia era tornata in camera, fluttuando sulle strade fatte di
ciottoli, incoraggiati dalla felicità che avevano trovato nei loro amici e in sé stessi, in
parte divertiti e in parte esausti per gli avvenimenti che circondavano il loro legame.
Nella fioca luce del mattino, gli circondò un braccio con il suo e lui si girò
verso di lei, così da premersi l’uno contro l’altro: il mento di lui sulla sua fronte, le
loro gambe intrecciate sotto il piumone di lino. Lei gli posò una mano sul petto per
sentire il battito regolare del suo cuore e si chiese quando avrebbero potuto stare di
nuovo così.
«Devo andare» disse Jack con la voce ancora impastata dal sonno.
La tirò a sé e il suo respirò le solleticò l’orecchio. «Non vorrei, ma devo.»
C’era una tacita scusa nelle sue parole.
«Lo so» disse Schuyler. Aveva giurato di essere forte per lui e avrebbe
mantenuto la promessa, non lo avrebbe deluso. Se solo l’indomani non fosse mai
arrivato, se solo avesse potuto tenere stretta la notte un pochino più a lungo. «Ma
non ancora. È ancora buio fuori. Era l’usignolo quello che hai sentito, non
l’allodola» sussurrò, sentendosi come Giulietta la mattina in cui aveva supplicato
Romeo di restare con lei, assonnata e con dolcezza, eppure intimorita dal futuro e da
ciò che sarebbe successo.
Schuyler cercava di aggrapparsi a qualcosa di prezioso e fragile, come se la notte
avesse potuto proteggere il loro amore dal tragico destino e dal dolore straziante che
sarebbero arrivati col giorno imminente.
Sentì Jack sorridere contro la sua guancia nel riconoscere la frase d
Shakespeare. Mentre gli tracciava il contorno delle labbra con le dita, sentendone la
morbidezza, lui si mise su di lei, che si mosse finché non furono una cosa sola. Lui
sistemò un braccio sulla sua testa, aggrappandosi forte ai suoi polsi e, quando le
baciò il collo, lei sussultò nel sentire le sue zanne sulla sua pelle. Lo attirò ancora
più vicino a sé, stringendogli i capelli setosi mentre lui si nutriva avidamente del suo
sangue.
Dopodiché, posò la testa sulla sua spalla e lei gli strinse le braccia dietro la
schiena, stringendolo forte. A quel punto la luce del giorno inondava la stanza. Non
si poteva più negare: la notte era conclusa e presto sarebbe stato il momento di
separarsi. Lui si allontanò piano dal suo abbraccio e baciò le ferite ancora fresche
sul suo collo, finché non guarirono.
Lo guardò vestirsi, passandogli gli stivali e il maglione. «Farà freddo. Ti serve
una nuova giacca» disse, pulendo il suo impermeabile nero.
«Ne comprerò una quando arriverò in città» acconsentì. «Ehi» disse vedendo
il suo viso triste. «Andrà tutto bene. Ho vissuto a lungo e ho intenzione di continuare
così.» Riuscì a fare un sorriso veloce.
Lei annuì, il groppo che aveva in gola le rendeva difficile respirare, difficile
parlare; ma non voleva che la ricordasse così. Assunse un tono allegro e gli passò lo
zaino. «Ti ho messo il passaporto nella tasca davanti.» Già adorava il ruolo di anima
gemella, di compagna, di moglie.
Annuì in segno di ringraziamento e si mise lo zaino in spalla, armeggiando con la
cerniera dopo averci messo dentro gli ultimi libri, senza guardarla bene negli occhi.
Lei voleva ricordarlo proprio così: perfetto e bellissimo alla luce del mattino, con i
capelli biondo platino un po’ scompigliati e gli occhi di un verde acceso che
brillavano di determinazione.
«Jack…» La risolutezza di Schuyler vacillò, ma non voleva rendere il loro
ultimo momento più lugubre del necessario. «Ci vediamo presto» disse con dolcezza.
Lui le strinse la mano un’ultima volta.
Poi Jack non c’era più e lei era sola.
Schuyler mise via il vestito del legame, piegandolo delicatamente nella valigia. Era
pronta ad andare avanti, ma mentre raccoglieva le sue cose, realizzò una verità che
Jack si era rifiutato di ammettere. Non aveva paura di andare incontro al suo
destino, si sarebbe piegato dinnanzi ad esso.
Jack non combatterà contro Mimi. Jack si farà uccidere piuttosto che
combattere contro di lei.
Nella chiara luce del giorno, Schuyler capì quello che avrebbe fatto.
Andando incontro alla sua gemella sarebbe andato incontro alla sua sorte.
Non sarebbe andato tutto bene. Non sarebbe mai andato tutto bene.
Aveva cercato di nasconderlo con le sue parole coraggiose, ma Schuyler
sapeva nel profondo che stava andando incontro alla sua fine. Che la notte trascorsa
sarebbe stata l’ultima notte che avrebbero passato insieme.
Jack stava andando a casa e sarebbe morto.
Per un attimo, Schuyler ebbe voglia di urlare, di strapparsi i vestiti e i capelli
per il dolore.
Ma dopo qualche singhiozzo tremante, recuperò il controllo. Si asciugò le lacrime e
si ricompose. Non lo avrebbe permesso. Non poteva accettarlo. Non lo avrebbe
accettato. Schuyler sentì un’ondata di agitazione nelle vene. Non poteva lasciarglielo
fare.
Oliver aveva promesso che avrebbe fatto del suo meglio per distrarre Mimi, e lei gli
era grata che provasse a salvaguardare la sua felicità. Ma era una cosa che doveva
fare per se stessa e per il suo amore. Doveva salvare Jack. Doveva salvarlo da se
stesso. Il suo volo sarebbe partito nel giro di qualche minuto e, senza pensarci, corse
fino all’aeroporto. Lo avrebbe fermato, in qualche modo.
Era ancora vivo e voleva che le cose restassero così.
Jack era sull’asfalto, aspettava di salire le scale del jet privato che lo avrebbe
portato prima a Roma, poi fino a New York. Due Venator vestiti di nero lo
aspettavano davanti all’aereo e guardarono Schuyler incuriositi, ma Jack non
sembrò sorpreso di vederla apparire improvvisamente al suo fianco.
«Schuyler…» Sorrise. Non le chiese cosa ci facesse lì. Lo sapeva già, ma
questa volta fece un sorriso triste.
«Non andare» disse. Non posso farti affrontare da solo il tuo destino. Siamo
legati adesso. Lo affronteremo insieme. Il tuo destino è anche il mio. Vivremo
insieme o moriremo insieme. Non può andare altrimenti, emanò, facendogli sentire le
parole nella testa.
Jack iniziò a scuotere la testa e Schuyler disse con fervore: «Ascolta.
Troveremo il modo di sfuggire alla prova del sangue. Vieni con me ad Alessandria.
Se non avremo successo e tu dovrai tornare a New York, allora condivideremo lo
stesso destino. Se ti distruggeranno, allora distruggeranno anche me, e l’eredità di
mia madre non avrà più senso. Non ti lascerò. Non temere il futuro, lo affronteremo
insieme.
Lo vide soppesare le sue parole e trattenne il fiato.
Il suo destino – e forse il destino di tutti i vampiri – era nelle sue mani. Lei
aveva detto la sua, aveva lottato per lui e ora toccava a lui lottare per lei.
Jack Force aveva un destino oscuro davanti a sé, ma Schuyler Van Alen
sperava – pregava – credeva – che insieme avrebbero potuto cambiarlo.
*** SETTE MESI DOPO ***
UNO
Paradiso
Traduttore: Veru
Se ne andarono da Alessandria proprio mentre la gente arrivava in fuga dal calore del
Cairo. «Sembra che andiamo sempre nella direzione sbagliata» disse Schuyler,
guardando il traffico avanzare lentamente nella carreggiata opposta. Era metà luglio e
il sole era alto nel cielo. L’aria condizionata della loro berlina noleggiata funzionava
appena e doveva tenere i palmi delle mani davanti al sedile del passeggero per
rinfrescarsi un po’.
«Forse è il contrario. Forse questa volta siamo andando nella direzione giusta.»
Jack sorrise e accelerò un po’. In confronto all’orda di auto che scendevano in
spiaggia, il traffico verso la capitale era lieve e, essendo in Egitto, era come viaggiare
a velocità di crociera, se così si poteva descrivere la scena caotica in autostrada. La
strada deserta di Alessandria era tristemente nota per i terribili e fatali incidenti
stradali, ed era facile capirne il motivo: le macchine viaggiavano all’impazzata,
uscendo ed entrando nelle corsie a piacimento, mentre sembrava che i camion enormi
potessero ribaltarsi ogni volta che sterzavano bruscamente per guadagnare un
leggerissimo vantaggio. Ogni tanto qualcuno arrivava ad un ostacolo – una buca
enorme non segnalata o dei detriti che non erano mai stati tolti – e il traffico si
fermava senza preavviso, provocando un massiccio tamponamento a catena. Schuyler
era sollevata che Jack fosse bravo a guidare, sembrava sapere istintivamente quando
accelerare o rallentare, e serpeggiavano tra i veicoli che sbandavano senza farsi un
graffio ed evitando ogni tipo di incidente.
Almeno non stavano viaggiando di notte, quando le macchine non avevano
nemmeno le luci accese, visto che gli automobilisti egiziani credevano che i fari
consumassero la benzina troppo in fretta, e perciò si muovevano senza. Ovviamente
non c’erano problemi per i vampiri, ma Schuyler si preoccupava sempre dei poveri
umani che sfrecciavano nel buio… senza vedere, come pipistrelli che svolazzavano in
una caverna.
Lei e Jack avevano vissuto ad Alessandria per sette mesi, si erano avventurati
nei ristoranti caratteristici e nei musei eterei. La città era stata progettata per
competere con Roma ed Atene al loro massimo splendore. Cleopatra ne aveva fatto la
sede del suo trono e, anche se c’era qualche traccia ancora visibile degli antichi
avamposti – una manciata di sfingi, statue ed obelischi – restava molto poco
dell’antico mondo in quella metropoli trafficata.
Appena arrivati, Schuyler era piena di speranza. E, rincuorata dalla fiducia e
dalla presenza di Jack, era sicura che presto avrebbero trovato ciò che cercavano.
Firenze si era rivelata una trappola e Alessandria era l’unica, altra possibile posizione
del Cancello della Promessa secondo gli archivi di suo nonno, che documentavano i
viaggi di Caterina da Siena tra Roma e il mar Rosso. La madre di Schuyler le aveva
affidato l’eredità della famiglia: cercare e proteggere le restanti Porte dell’Inferno,
che proteggevano il mondo dai demoni degli inferi.
Avevano preso una camera al Cecil Hotel, uno degli hotel preferiti di Somerset
Maugham che era stato popolare durante l’epoca del colonialismo britannico.
Schuyler era rimasta incantata dall’ascensore ingabbiato in stile 1930 e dal suo
splendido atrio di marmo, che trasudava di un antico splendore Hollywodiano.
Immaginava Marlene Dietrich che arrivava con una decina di bauli, mentre un
domestico portava i suoi cappelli coperti di piume.
Schuyler aveva iniziato a fare ricerche nella Bibliotheca Alexandrina, un tentativo di
ricreare la grande libreria che era andata perduta più di duemila anni prima (o almeno
così pensavano i Sangue Rosso, visto che la biblioteca esisteva ancora nel Deposito
Storico della Congrega di New York). Come nell’istituto originale, il territorio della
Bibliotheca si estendeva fino ad includere acri di giardini, un planetario e un centro
conferenze. Una matrona del posto ricca e riservata era stata determinante nella sua
fondazione e Schuyler era certa di aver finalmente trovato Caterina. Ma quando erano
andati a trovare la grande patrocinatrice nel suo salotto, che dava sul porto orientale,
era risultato evidente fin dall’inizio che fosse umana e non una Enmortal, visto che
era malata e morente, sdraiata su un letto ed attaccata ad una serie di tubi.
Mentre lei e Jack erano usciti dalla stanza dell’anziana donna, Schuyler aveva
sentito il primo moto di timore che stesse deludendo non solo il suo amato nonno e la
sua madre enigmatica, ma anche il ragazzo che amava con tutto il suo cuore. Fino a
quel momento, la ricerca della guardiana si era rivelata un compito difficile, se non
impossibile. Jack non aveva detto nulla quel giorno, né aveva mai espresso
pentimento per la sua decisione. A Firenze, nell’aeroporto, era scappato dai Venator e
aveva accettato la sua sfida, acconsentendo al suo piano. Non voleva deluderlo. Gli
aveva promesso che avrebbe trovato il modo per sfuggire alla prova del sangue, un
modo per stare insieme, e lo avrebbe fatto. La guardiana, Caterina da Siena, li
avrebbe aiutati, se solo Schuyler fosse riuscita a trovarla.
La loro vita in Egitto era diventata una piacevole routine. Stanchi di vivere in hotel,
avevano affittato una casetta vicino alla spiaggia e si erano dedicati ad integrarsi
come meglio potevano. La maggior parte dei loro vicini avevano lasciato in pace i
due bei giovani stranieri. Probabilmente percepivano la loro forza da vampiri dietro i
loro sorrisi gentili.
Di mattina Schuyler passava al setaccio la biblioteca, leggendo libri sull’epoca
romana, quando Caterina fu incaricata di fare la custode, e confrontandoli con il
diario di Lawrence. Jack si era impegnato nella parte fisica, usando il suo
addestramento da Venator per trovare indizi su dove si trovasse, camminando per la
città e parlando con gli abitanti del posto. Gli Enmortal erano esseri carismatici e
indimenticabili: Lawrence Van Alen era stato molto popolare durante il suo esilio a
Venezia e Schuyler scommetteva che per Caterina, o comunque si facesse chiamare
adesso, fosse lo stesso: una personalità magnetica che nessuno poteva dimenticare
facilmente. Nel tardo pomeriggio, Jack passava dalla biblioteca e andavano in un
ristorante a pranzare, condividendo stufato mulukhiya con sopra riso o khoshary
piccante, per poi tornare ai loro compiti. Vivevano come gli abitanti del posto,
cenando a mezzanotte e sorseggiando tè all’anice fino al mattino presto.
Alex, così chiamano la città, è un centro turistico e, con l’arrivo della
primavera e della brezza proveniente dal mediterraneo, autobus e navi cariche di
turisti venivano a riempire spiagge e hotel. Schuyler, più avanti, avrebbe capito che i
sette mesi passati insieme erano stati una specie di luna di miele. Una piccola fetta di
paradiso, un breve e brillante rinvio dei giorni oscuri a venire. Il loro matrimonio era
ancora abbastanza fresco, così festeggiavano ogni mesiversario, segnandone la durata
con piccoli gesti, piccoli doni: un braccialetto fatto di conchiglie per lei, la prima
edizione di un libro di Hemingway per lui. Schuyler credeva che se fosse riuscita a
tenere Jack al suo fianco, avrebbe potuto tenerlo al sicuro. L’amore che provava per
lui era uno scudo che lo avrebbe protetto.
Anche se il loro rapporto cresceva in forza ed intensità e loro iniziavano ad
abbandonarsi al lusso della vita giornaliera da legati, il cuore di Schuyler mancava
sempre un battito ogni volta che lo vedeva sdraiato accanto a sé. Ammirava il profilo
della sua schiena, le sue scapole statuarie. Più tardi, pensando al tempo trascorso
insieme in città, si chiedette se in qualche modo avesse sempre saputo cosa sarebbe
successo, come sarebbe andata a finire; come se qualunque cosa fosse successa in
Egitto, che avessero trovato Caterina o meno, che ce l’avessero fatta o meno, avesse
sempre saputo che la loro vita insieme non sarebbe durata a lungo, che non poteva
durare a lungo, e loro si stavano solo mentendo a vicenda, oltre che a se stessi.
Perciò custodiva i suoi ricordi al sicuro: il modo in cui la guardava quando la
spogliava, quando le abbassava lentamente la spallina della canottiera di raso. Il suo
sguardo era vorace e lei si sentiva male dal desiderio, lo desiderava tantissimo. Il
fuoco ardente che sentiva si abbinava all’intensità del suo sguardo: proprio come la
prima volta in cui lui aveva flirtato con lei davanti a quel locale di New York, e la
scarica di passione che aveva provato la prima volta che avevano ballato insieme, la
prima volta che si erano baciati, la prima volta che si erano dati un appuntamento
segreto nel suo appartamento in Perry Street. La forza e la gentilezza con cui l’aveva
stretta a sé quando aveva compiuto la Caerimonia Osculor. Nei giorni a venire,
avrebbe rivisto quei momenti nella sua mente, come foto che poteva prendere dal
portafoglio per guardarle e riguardarle ancora. Ma al momento, la notte, quando si
sdraiavano vicini, col suo corpo caldo accanto al suo, quando lei premeva le labbra
contro la sua pelle, le sembrava che non si sarebbero mai divisi, che ciò che temeva
non si sarebbe mai avverato.
Forse era pazza a pensare che sarebbe durata, che qualcosa – il loro amore, la
gioia che provavano insieme – avrebbe resistito, considerando le ombre che facevano
parte della loro unione fin dall’inizio. E poi desiderava che se lo fosse goduta di più,
che avesse passato meno tempo a leggere libri, trascorrendo ore sola in biblioteca,
meno tempo ad allontanargli le braccia dalla sua vita, dicendogli di aspettare, o
perdendosi la cena in modo da poter rileggere i documenti. Desiderava aver passato
un’altra notte in un bar sul ciglio della strada, a stringergli la mano sotto il tavolo;
desiderava aver trascorso un’altra mattina a leggere il giornale insieme. Apprezzava i
piccoli attimi passati insieme, seduti uno accanto all’altra sul letto, con il solo tocco
della sua mano sul ginocchio a farle venire i brividi alla schiena. Ricordava quando
Jack leggeva un libro, sollevando gli occhiali: la vista gli aveva dato qualche
problema; la sabbia e l’inquinamento gli facevano lacrimare gli occhi.
Se solo fossero potuti restare per sempre ad Alex, a passeggiare lungo i giardini
pieni di fiori, a guardare la gente alla moda di San Stefano. A Schuyler, che era
negata in cucina, piaceva la facilità con cui si riusciva a preparare un piatto. Aveva
imparato a mettere su dei veri banchetti, comprando piatti già pronti di kobeba e
sambousek, accompagnati da tahini e tamiya, insalata a cubetti e un cosciotto arrosto
di agnello o vitello, piccione farcito e pesce sayadeya e pollo pane presi nel mercato
locale. La loro vita le ricordava un po’ l’anno passato con Oliver e sentì una stretta al
cuore. Il suo più caro e dolce amico. Avrebbe tanto voluto che ci fosse un modo per
conservare la loro amicizia; era stato molto galante al suo legame, ma non si erano
rivolti la parola da quando era tornato a New York. Oliver le aveva raccontato
qualcosa di quello che stava succedendo nella sua città e lei era preoccupata per lui e
sperava che fosse prudente ora che non c’era lei ad accertarsene. Le mancava anche
Bliss e sperava che la sua amica – sua sorella – avrebbe trovato il modo di compiere
la sua parte nel destino della madre.
Col passare dei mesi, Schuyler aveva seguito ogni pista, aveva continuato a
fare ipotesi sbagliate e aveva incontrato donne che alla fine non erano Caterina. Lei e
Jack non parlarono di cosa sarebbe successo se avessero fallito. E così i giorni
volarono come sabbia tra le dita, polvere nell’aria, ed arrivò l’estate. Le notizie del
mondo che si erano lasciati alle spalle viaggiavano lentamente: le Congreghe erano
nel caos, c’erano state denunce di roghi e attacchi misteriosi. E con la scomparsa di
Charles e Allegra, non c’era nessuno a condurre la battaglia. Nessuno sapeva cosa ne
sarebbe stato dei vampiri e Schuyler e Jack non avevano fatto progressi nel trovare la
guardiana.
Prima di lasciare Firenze, avevano ordinato ai preti Petruviani di tenere al
sicuro MariElena, di permettere alla giovane, rapita dai Croatan, di portare a termine
la gravidanza. Ghedi aveva dato loro la sua parola che alla ragazza non sarebbe
successo nulla sotto la loro protezione. Schuyler ancora non credeva a quello che
giuravano i Petruviani, che i Sangue Blu avevano ordinato il massacro di donne e
bambini innocenti per mantenere pura la loro stirpe. Ci doveva essere un altro motivo
– qualcosa era andato storto nella storia del mondo – e una volta trovata Caterina, la
guardiana che aveva fondato l’Ordine Petruviano, lei gli avrebbe detto la verità.
Ma mentre i giorni passavano e loro ancora non trovavano la guardiana del
cancello, Schuyler iniziò a sentirsi scoraggiata e apatica. Il fatto che fosse passato
molto tempo da quando aveva usato le zanne non aiutava. Non aveva avuto famigli
dopo Oliver e ogni giorno si sentiva sempre meno vampira e più umana, più
vulnerabile.
Nel frattempo Jack stava dimagrendo e gli si erano formati dei cerchi scuri
sotto agli occhi. Sapeva che faceva fatica a dormire la notte. Si girava e rigirava,
parlando sottovoce. Iniziò a preoccuparsi che potesse ritenerla una codarda per
avergli chiesto di restare.
«No, ti sbagli. Hai fatto una cosa coraggiosa, a sostenere il tuo amato» aveva
detto, leggendole nella mente come al solito. «Troverai Caterina. Ho fiducia in te.»
Ma alla fine Schuyler dovette riconoscere la sconfitta: aveva letto male i
documenti di suo nonno. Dovette accettare che Alessandria era un altro inganno,
un’altra falsa pista. Avevano percorso i vicoli bui della città e passato al setaccio i
centri commerciali, ma non avevano trovato nulla, e le cose non si smuovevano.
Erano al punto di partenza, come quando avevano lasciato New York.
L’ultima notte in città, Schuyler aveva ristudiato i documenti, rileggendo la
parte che le aveva fatto credere che il fantomatico cancello si trovasse ad Alessandria.
«Sulla riva del fiume dorato, la città del vincitore sorgerà di nuovo sulla soglia
del Cancello della Promessa.» Schuyler guardò Jack. «Aspetta. Credo di aver trovato
qualcosa.» La prima volta che aveva letto quel passaggio aveva pensato subito ad
Alessandro il Grande, il conquistatore del mondo antico, ed era certa che il cancello
si trovasse nella città a cui aveva dato il suo nome. Ma nei sette mesi trascorsi in
Egitto, aveva imparato un po’ di arabo e la risposta era così evidente che si
rimproverò immediatamente per aver perso tutto quel tempo.
«Il Cairo – Al-Qahira – letteralmente significa vittorioso.» La città vittoriosa.
La città del vincitore. Mentre il cuore le batteva in preda all’entusiasmo, disse: «Il
cancello è al Cairo.»
Il mattino dopo se ne andarono.
DUE
Inferno
Traduttore: DustAngel
Volare da New York al Cairo era sempre un’esperienza vagamente surreale, lo
sapeva Mimi Force, mentre sedeva in prima classe, agitando il ghiaccio del suo
cocktail. Per ore, avevano sorvolato il deserto infinito, morbide dune dorate che si
estendevano per chilometri, quando all’improvviso un’intera città si innalzò dalla
polvere, diramandosi in tutte le direzioni, immensa e senza fine proprio come il nulla
che l’aveva preceduta. La capitale egiziana era una distesa marrone dorato di edifici
svettanti che si rincorrevano in cerca di spazio. Innalzandosi spalla contro spalla,
sembravano essere stati impilati uno sull’altro come cubi per bambini, tagliati dalle
rive verdeggianti del Nilo.
Alla vista della città, il cuore di Mimi ebbe un fremito di speranza. Era il
momento. Questa volta, si sarebbe ripresa Kingsley. Le mancava più che mai e si
aggrappò alla fiducia intensa e feroce che avrebbe rivisto il suo sorriso e sentito il
calore del suo abbraccio. L’azione nobile e coraggiosa che aveva compiuto durante
l’attacco dei Sangue Argento alla sua disastrosa cerimonia del legame aveva salvato
la Congrega, ma aveva consegnato la sua anima al settimo girone dell’oltretomba.
Rabbrividì al pensiero del prezzo che stava pagando. L’Inferno non era un luogo per
deboli e sebbene sapesse che Kingsley era forte e avrebbe resistito, non voleva che
restasse intrappolato laggiù un istante di più.
La Congrega aveva bisogno del suo coraggio e della sua intelligenza. Kingsley
Martin era stato il loro Venator più attivo e audace, ma l’esigenza di Mimi era più
intensa. Non avrebbe mai dimenticato lo sguardo colmo d’amore e di tristezza che le
aveva lanciato prima di svanire, un tipo di amore che non aveva mai sperimentato con
Jack. Era sicura che il suo gemello non avesse mai provato simili sentimenti nei suoi
confronti per tutto il tempo in cui erano stati insieme. Con Kingsley, Mimi aveva
avuto un assaggio di che cosa fosse il vero amore, ma le era stato portato via così
velocemente da non esserne riuscita a cogliere interamente l’autenticità. Come si era
presa gioco di lui e lo aveva schernito… Quanto tempo avevano sprecato… Perché
non era andata con lui a Parigi come le aveva chiesto prima del legame?
Non aveva importanza. Era venuta in Egitto per salvarlo e si sentiva euforica
alla prospettiva del loro ricongiungimento.
Ciononostante, il suo entusiasmo rischiò di naufragare a causa delle molte noie
connesse a un viaggio internazionale. Alla dogana, le venne detto che il suo visto era
errato e, una volta che ebbe passato il controllo passaporti e recuperato i bagagli,
l’autista messole a disposizione dall’albergo aveva ormai preso a bordo un altro
cliente, lasciando Mimi a sgomitare tra la folla nel tentativo di trovare un taxi.
Una volta riuscita a occuparne uno, si ritrovò a litigare circa la tariffa della
corsa fino all’hotel, dal momento che il conducente le aveva preventivato una somma
spropositata. Se non altro, Mimi non era certo nata ieri. Finalmente giunta al Mena
House Oberoi, scese dal veicolo, lanciò il denaro al tassista attraverso il finestrino e si
allontanò senza salutare. Quando ebbe riferito quanto le era capitato all’addetto della
reception, quell’idiota le domandò per quale motivo non avesse fatto ricorso
all’autista dell’albergo.
Mimi ebbe la tentazione di mettersi a urlare e lanciare qualcosa per aria, ma si
ricordò che ormai doveva dimostrare di avere diciotto anni: era la Reggente della
Congrega e non sarebbe stato opportuno mettersi a pestare i piedi per terra come una
ragazzina viziata.
Esausta per il viaggio, si lasciò cadere direttamente sul letto, salvo essere poi
svegliata dalla cameriera che era venuta a rifare il letto e sprimacciare i cuscini;
fortunatamente per lei, la donna aveva portato con sé dei cioccolatini.
Ma oggi era un nuovo giorno, un nuovo mattino abbacinante e, sotto lo sguardo delle
piramidi che rilucevano al sole, Mimi si preparò per la giornata più importante della
sua vita.
La strega non mi avrebbe mentito, pensò lei mentre si spazzolava i capelli fino
a farli scintillare come oro fuso. «Helda ha fatto un’eccezione solo una volta e da
allora l’Emendamento di Orfeo non è mai stato infranto.» Ingrid Beauchamp, la
bruna libraia di North Hampton, nello stato di New York, capace di prevedere il
futuro, le aveva rivelato, sebbene con riluttanza e solo dopo umilianti preghiere da
parte di Mimi, che in realtà esisteva un modo per liberare un’anima intrappolata nel
settimo girone dell’oltretomba. Era per quella ragione che la settimana prima si era
lasciata trascinare nei bassifondi degli Hampton, innanzitutto, per consultarsi con
Ingrid. La strega poteva anche disprezzarla, vedere la giovane vampira come
nient’altro che una seccatura, ma non le avrebbe mentito. Le streghe erano soggette a
una serie di leggi addirittura più antiche del Codice dei Vampiri. Mimi ne era sicura
mentre si attardava ancora un altro minuto, accoccolata nel tepore delle coperte.
Gli ultimi sette mesi non erano stati facili e Mimi aveva fatto fatica a non
crollare a pezzi: la morte del Nephilim era riuscita solo in minima parte a placare la
crescente paura e instabilità della Congrega; gli Anziani erano sul piede di guerra;
sciogliersi o rifugiarsi sottoterra erano soluzioni che prendevano sempre più piede.
Ma il boccone più difficile da mandare giù era stato il tradimento dei fratelli Lennox.
Invece di tenere d’occhio il suo sleale fratello, come aveva loro ordinato, erano
svaniti nel nulla, adducendo solo una flebile scusa per le loro dimissioni: qualcosa
come braccare insieme ai Venator di Shangai altri Nephilin nascosti in giro per il
mondo. Una nobilissima causa, senza dubbio. Ma gli ordini erano ordini e un atto di
insubordinazione era sufficiente a rilasciare un mandato di cattura. Non che Mimi
avesse altri Venator da sguinzagliare sulle loro tracce; i pochi rimasti erano troppo
occupati a proteggere quanto rimaneva della Congrega. Dagli avamposti giungevano
notizie preoccupanti: i vampiri venivano massacrati in ogni angolo del pianeta. Un
incendio a Londra durante una riunione del Conclave, altri giovani vampiri trovati
prosciugati a Buenos Aires… La minaccia dei Sangue Argento, lontana dall’essere
stata sventata, si era solo fatta più pressante.
Il Principe Oscuro restava intrappolato dietro le Porte dell’Inferno, ma questo
sembrava fare ben poca differenza, dal momento che la Congrega, immobilizzata
dalla paura e dalle lotte intestine, rischiava di distruggersi con le sue stesse mani.
Lucifero aveva colpito al cuore dei Sangue Blu quando aveva mandato la sua nemesi,
l’arcangelo Michele, nella bianca oscurità che aveva reclamato il vero amore di
Mimi. Per quanto riguardava Gabrielle, probabilmente Allegra si era risvegliata e
aveva lasciato l’ospedale, ma nessuno sapeva che cosa ne fosse di lei al momento.
Sopraffatta e oberata di lavoro, Mimi era giunta alla conclusione che non
poteva governare i vampiri da sola. Lo rivoleva indietro. Non aveva nessun’altra
ragione di vivere e soltanto Kingsley Martin, con il suo sorriso arrogante e il tono di
voce sexy, avrebbe potuto aiutarla a ricostituire la Congrega e a creare un porto
sicuro per i vampiri. Ora che quel codardo del suo gemello aveva rinnegato il suo
dovere per restare accanto alla sua puttana mezza-umana. Stando alle voci che le
erano giunte, Jack avrebbe reso quella creatura dell’Abominio sua sposa. La sua
maledettissima compagna.
Non che Mimi provasse più una sola briciola di affetto per Jack, però la
umiliava ancora sentire che si era lasciato tutto alle spalle; aveva spezzato il loro
legame e gettato via il suo destino con quell’abominio. Per prima c’era stata
Gabrielle, che aveva spezzato il suo legame per sposare il suo famiglio umano; ora,
anche Abbadon stava facendo la stessa cosa… Cosa doveva ancora succedere? Niente
aveva più valore? Cosa ne era del Codice dei Vampiri? Anche quello sarebbe stato
gettato nel Fuoco Nero? Avrebbero dovuto vivere come Sangue Rosso tolleranti,
stringendo e spezzando i voti senza ombra di colpa o ripensamento alcuno? Magari
avrebbero dovuto arrendersi, rinunciare alla civiltà e alle antiche tradizioni per vivere
come barbari.
Seguendo il consiglio di Oliver, Mimi si era recata in Egitto a dicembre per
fare un primo tentativo di liberare Kingsley dall’Inferno, fidando nel fatto che, al suo
ritorno a New York, Jack sarebbe stato in catene. Ma i Venator di stanza in Italia le
avevano comunicato che, a Firenze, Jack era riuscito a sfuggire loro e non avevano la
benché minima idea di dove potesse essere andato. Mimi era sorpresa, poiché era
fermamente convinta che il fratello sarebbe tornato per affrontare con onore il
crimine commesso. Non era un codardo, per questo era sicura che avrebbe
quantomeno rispettato il Codice e che si sarebbe difeso nel corso della prova del
sangue. Ovviamente si sbagliava, forse dopotutto non lo conosceva così bene come
credeva. Magari la sua nuova sposa lo aveva rammollito, incoraggiando l’illusione
che avrebbe potuto vivere tranquillo e sereno senza dover pagare le conseguenze
delle sue azioni.
Non aveva aiutato il fatto che il primo viaggio di Mimi in Egitto fosse stato un
fallimento e che avesse fatto ritorno a mani vuote. Sua madre l’aveva convinta a
tornare a scuola, così, a maggio, si era diplomata alla Duchesne. Aveva accettato una
corona di fiori bianchi e posato in un cortile piastrellato nel suo vestito a campana,
con tanto di guanti e scarpette di satin, anch’essi bianchi, come aveva già fatto nelle
sue vite precedenti. Era una farsa, come tutti gli altri eventi del Comitato. I Sangue
Blu anziani si tenevano aggrappati ai loro appuntamenti sociali e ai riti stagionali
mentre il loro mondo si sgretolava. In tutta la sua vita, Mimi non si era mai sentita
così vecchia come in quel giorno. «Voi siete il futuro e possedete la capacità di
cambiare il mondo.» Bla, bla, bla… Tutte cavolate. Il futuro era svanito. Non c’era
futuro senza la Congrega, senza il Codice, senza Kingsley.
Prima di partire nuovamente per il Cairo, Mimi aveva dato istruzioni a quanto
restava del conclave di mettersi in contatto con lei nel caso fosse successo loro
qualcosa di incredibilmente stupido o terribile mentre era via. Non avrebbero potuto
sciogliere la Congrega, dal momento che aveva portato con sé le chiavi del Deposito
che sbloccavano i documenti sul Ciclo contenuti nell’Archivio, come anche gli
oggetti sacri rimanenti. I codardi avrebbero potuto rifugiarsi sottoterra, naturalmente,
ma avrebbero dovuto andarsene sapendo di avere ben poche speranze di ritornare in
un nuovo ciclo. E non tutti erano abbastanza forti da sopravvivere come Enmortal.
Mimi passeggiò lungo il balcone per vedere più da vicino le tre piramidi di
Giza; a così breve distanza, erano grandi e minacciose. Aveva voluto trovarsi il più
vicino possibile ad esse; nei giorni tersi, si poteva scorgerle da diversi punti della
città: apparivano appena al di là dello skyline come incombenti ombre triangolari.
Qui, però, le piramidi erano talmente vicine che le sembrava possibile allungare la
mano e toccarle; solo guardandole, si sentì più vicina a Kingsley. Non mancava
molto, ormai.
Sbadigliò; era ancora provata dall’arrivo del giorno prima e scombussolata dal
jet-lag, quando il telefono squillò. Premette il vivavoce.
«Colazione in terrazza?» le chiese Oliver Hazard-Perry, il suo Conduit. «Ho
visto che oggi hanno i t’aamiyya.»
«Mmm. Adoro quelle piccole tortine fritte.»
Quando si diresse al buffet, Mimi trovò Oliver seduto al tavolo davanti ai giardini
affacciati sulle piramidi; indossava una sahariana di lino, un fedora di paglia e stivali
da deserto. Si alzò quando la vide e le scostò la sedia. Il ristorante dell’albergo era
affollato da un gran numero di turisti in cerca di avventura: americani intenti a
spalmare ful, un piatto a base di ceci cotti a fuoco lento («Ceci a colazione!», pensò
Mimi divertita), su pita croccante; famiglie inglesi che consultavano cartine; gruppi
di tedeschi che ridevano a gran voce mentre si fotografavano con le loro macchine
digitali. Un sottofondo generale di autocompiacimento impregnava l’atmosfera
elegante dell’albergo. Mimi aveva imparato che non importava in quale paese si
trovasse, tutti i buffet degli hotel a cinque stelle erano uguali, offrivano affettati
costosi e paste delicate, insieme a una serie di piccole omelette e una selezione di cibi
“locali” presentati secondo il gusto comune della borghesia internazionale. Pur
avendo viaggiato in ogni parte del mondo, non era ancora riuscita a sfuggire agli
abitanti dell’Upper East Side; dal monte Kilimanjaro al Circolo Polare Artico, ci si
poteva imbattere nella tribù dei privilegiati stravaccata sulle spiagge delle Maldive o
che si dava alle immersioni a Palau. La terra era piatta, certo, ed era meglio
attraversarla in sandali griffati.
«Sembri appena uscito da un romanzo di Agatha Christie», disse a Oliver,
allargando il tovagliolo sulle cosce e facendo segno al cameriere di versarle una tazza
di quel loro caffè nero e intenso.
«Stai già pianificando di affogarmi nel Nilo?» le domandò Oliver con un
sorriso.
«Non ancora», ringhiò.
«Perché prima vorrei fare colazione, se non ti dispiace.» Indicò con la testa il
sontuoso buffet. «Andiamo?»
Si riempirono i piatti e tornarono al loro tavolo. Mimi lanciò uno sguardo
dubbioso al piatto di Oliver, sul quale torreggiava in precario equilibrio una
montagna di uova, fragole, waffel, pane tostato, pita, formaggio, cornetti e bagel. Gli
uomini erano delle macchine tritacibo, ma forse la sua idea non era così sbagliata,
chissà quando avrebbero potuto consumare il prossimo pasto? Si sforzò di mangiare,
ma riuscì solo a piluccare i bocconcini saporiti nel suo piatto; si sentiva le farfalle
nello stomaco e aveva perso appetito. Poco male: prima di lasciare New York, si era
recata dal suo attuale famiglio e aveva “fatto il pieno” di sangue per il viaggio, come
un maratoneta che accumula carboidrati la notte prima della gara.
«È un peccato che non restiamo di più», disse Oliver, addentando con gusto un
biscotto friabile. «Ho sentito che di notte c’è una specie di spettacolo con luci laser
alle piramidi. Il concierge dice che la voce narrante è la Sfinge, il che fa sorgere
spontanea la domanda: se la Sfinge potesse parlare, cosa direbbe?»
«È incredibile quello che i Sangue Rosso faranno a qualcosa di così sacro. Non
hanno limiti?» disse Mimi.
«Potrebbe andare peggio, potrebbe esserci un concerto di Sting, come la volta
scorsa», le ricordò Oliver.
Ora, quello sì che era stato un vero disastro, rifletté Mimi. Quando erano
arrivati al Cairo per la prima volta, l’area intorno alle piramidi si era rivelata una
bolgia infernale; non soltanto faceva un caldo insopportabile, mentre tentavano di
farsi largo tra la folla per raggiungere l’entrata, ma per tutto il tempo Sting era
rimasto lassù a cantare a squarciagola le sue strascicate canzoni da yoga da quattro
soldi per gente di mezz’età. Rabbrividì al ricordo. Le rockstar non dovrebbero
invecchiare, ma morire prima di aver compiuto trent’anni o sparire nei loro chateau a
Mustique per ritornare soltanto con voluminosi mattoni infarciti delle loro
disavventure causate dall’eroina.
«Puoi restare», gli propose Mimi, prima che potesse cambiare idea. «Posso
andare da sola, come ho già fatto in passato.» Avrebbe trovato un altro modo per
concludere lo scambio, pensò. Non era obbligato a farlo. Oliver era un po’ rigido e
bacchettone, ma anche dolce e premuroso ed era stata sua l’idea di recarsi dalla
Strega Bianca. Inoltre, grazie a lui, ora Mimi sapeva esattamente come fare per
portare via Kingsley dall’oltretomba.
Questa è la tua ultima occasione, si disse.
Oliver raccolse un po’ di uovo con il pane abbrustolito; aveva compiuto uno sforzo
eroico e il suo piatto era quasi del tutto vuoto. «Hai detto che ti serviva qualcuno che
venisse con te. E in più, non si visita l’Inferno tutti i giorni. Ci saranno dei souvenir?»
Mimi sbuffò. Se solo avesse saputo. Era lui il souvenir. C’era una cosa che la
strega le aveva detto riguardo la missione e che aveva tenuto per sé tutto quel tempo.
L’Emendamento di Orfeo esige un sacrificio in cambio della liberazione di un’anima.
Un’anima per un’anima. Oliver aveva reso le cose fin troppo facili, pensò Mimi. Le
dispiaceva davvero doverlo perdere quando aveva appena cominciato a piacerle, in
qualche modo, erano diventati amici, soprattutto dopo che lui le aveva praticamente
salvato la vita non molto tempo prima. Okay, eliminiamo pure il “praticamente”. Lui
le aveva salvato la vita ed era una vera risorsa per la Congrega, dal momento che
aveva decifrato gli indizi che alla fine li avevano condotti al nascondiglio del
Nephilim. Era un bravo ragazzo e un buon amico per Mimi, eppure andava fatto.
Avrebbe ignorato il crescente affetto che provava per lui se questo le avesse fatto
riavere indietro Kingsley. Non c’era storia, era stata una manna dal cielo il fatto che
si fosse offerto volontario per accompagnarla nel viaggio e Mimi non era certo il tipo
da guardare in bocca a caval donato. Dopotutto, i Conduit umani vivevano per servire
i vampiri loro padroni, no?
TRE
Beatrice
Traduttore: Virginia K. Loveswords
Allegra Van Alen aveva visitato San Francisco altre volte nelle sue vite passate, ma
in questa aveva accuratamente evitato la città, quasi come se ne fosse stata allergica.
Ogni qualvolta gli affari del Conclave l’avevano chiamata fuori dall’Ovest, aveva
sempre trovato il modo di eludere la faccenda mandando qualcuno al suo posto, o
gestendoli in videoconferenza.
Ma ora che aveva ventun’anni, e nell’autunno del 1989, aveva riacquistato
pienamente la memoria e i poteri, non vedeva alcun male nel recarvisi. Si era
diplomata al college in primavera, fiera e a testa alta, insieme a suo fratello sul palco
indossando la sua coccarda (i diplomi sarebbero stati consegnati solo in seguito, dal
segretario). Stupefacente che lei abbia raggiunto un tale traguardo nonostante la sua
dubbia educazione, risultato di un miscuglio di licei e scuole di preparazione di bassa
fama. Dopo aver bruscamente abbandonato la Endicott Academy al primo anno,
Allegra si era rifiutata di ritornare alla Duchesne, preferendo invece vagare, senza
uno scopo ben preciso, per i corridoi della scuola privata di Northeastern, saltando
qualche volta le lezioni di metà semestre.
Cordelia era stata quasi assolutamente certa che Allegra non avrebbe avuto
nessuna possibilità di essere ammessa nella stessa prestigiosa università che aveva già
accolto Charles in pompa magna. Ma sua madre aveva in qualche modo dimenticato
il potere di un cognome blasonato, o di una famiglia con una storia tanto illustre
(insieme alle cospicue donazioni fatte negli anni), e la lettera di ammissione era
arrivata anche per sua figlia. Il college era stato un susseguirsi di feste e drammi, e
Allegra si era lasciata travolgere con gusto dalla vita del campus, con un’energia e
una motivazione mai avuti prima di allora, e del tutto sconosciuti agli anni del liceo.
Sembrava che finalmente stesse superando il terribile errore commesso ad Endicott…
innamorarsi del suo famiglio umano… cacciandosi nei guai. Alla fine la ragazza
aveva accettato il suo destino e il ruolo assegnatole nella società dei Sangue Blu,
compiacendo suo fratello Charles.
Non sarebbe trascorso molto tempo, prima che lei venisse legata al fratello,
reclamando quello che le spettava di diritto. Allegra aveva guardato avanti,
progettando un’esistenza più produttiva nella quale, insieme avrebbero rappresentato
una guida, un esempio per il resto della loro specie, come lo erano dall’alba dei
tempi. Durante gli anni, avevano cambiato molti nomi… Junia e Cassius, Rose e
Myles… ma sarebbero sempre stati Micheal e Gabriella, custodi del Giardino, gli
Incorruttibili, Arcangeli della Luce.
Era per via di Charles che si trovavano a San Francisco. I due erano
inseparabili in quei giorni, e quando lui le aveva chiesto di andare, lei aveva
accettato. Quella mattina Charles era uscito per incontrare un gruppo locale di Elders,
e discutere dell’emergenza con la nuova ondata di vampiri. Allegra era preoccupata,
ma il fratello le aveva assicurato che probabilmente non erano nient’altro che i soliti
problemi dovuti alla Trasformazione. Spuntava sempre qualche grana qui e lì:
qualcuno recuperava troppo presto la memoria, causando confusione e catatonia; altri
avevano problemi col controllare la sete di sangue. Gli Elders erano un gruppo
movimentato.
Allegra e Charles alloggiavano a Nob Hill, in uno dei tanti super lussuosi
appartamenti e residence in giro per il mondo, a loro disposizione come capi della
Congrega. Avendo del tempo da trascorrere tutto per sé, la ragazza aveva deciso di
trascorrere il pomeriggio girovagando per il grazioso quartiere, riacquistando
familiarità con le sue piccole stradine collinari, facendo un po’ di shopping e
fermandosi ad ammirare il panorama. Aveva attraversato Union Square e si era recata
in quel viale tanto simile ad un portagioie, chiamato Main Lane… un’incantevole
strada secondaria piena di piccole boutique e gallerie d’arte, ed era entrata nella
prima di queste.
L’assistente di galleria, un’elegante ragazza mora con occhiali dalla montatura
rossa e un sobrio vestito nero dal generoso decolté, l’accolse prontamente. «Salve.
Abbiamo appena allestito una nuova mostra. Sentiti libera di dare un’occhiata in
giro.»
«Grazie,» rispose Allegra, pensando che avrebbe dato solo una sbirciatina
veloce. Era Charles il collezionista d’arte; aveva iniziato da ragazzo, mettendo su, col
tempo, un’impressionante collezione. Il suo gusto era sempre orientato verso il
costoso e il popolare… faceva sempre offerte alte per gli artisti del momento. Il loro
palazzo a New York era pieno di Schnabel e Basquiat, tele coperte da frantumi di
vasellame e graffiti in stile street-art. Lei non poteva comprenderne il valore, certo,
ma sicuramente non avrebbe mai passato tutta la vita avendo cura di quei quadri.
La Galleria Vespertina sembrava essere specializzata in una nuova corrente di
arte realista, e Allegra aveva già osservato varie opere prima che una in particolare
catturasse il suo sguardo. Era una piccola tela, un quadrato di dodici centimetri circa,
ritratta al centro una ragazza seduta su un letto d’ospedale, la testa fasciata da bende.
Allegra lo osservò di nuovo, non riuscendo a credere a ciò che stava
guardando. Ma era tutto lì… il vassoio con i biscotti, il mobile in vimini. La ragazza
aveva un sorriso disorientato, come se non riuscisse a capire cosa ci facesse lei in un
letto di ospedale. Il riferimento del quadro era un’iconografia religiosa… un’aureola
dorata circondava la testa della ragazza, e i colori luminosi, brillanti con i quali era
dipinta la stanza, la rendevano simile a quelle illustrazioni nei libri di preghiera
medievali, con delicate rappresentazioni di angeli e santi. Il titolo dell’opera era
Always Something There to Remind Me – C’è sempre qualcosa che me lo ricordi.
Allegra rimase senza fiato, diventando quasi rossa, sentendosi come se qualcuno le
avesse giocato un brutto scherzo, e incespicando sui tacchi alti si allontanò dal
quadro. Non poteva essere… poteva? Ma doveva essere… Quella canzone era stato
uno scherzo segreto tra loro due…
«Conosci i suoi lavori?» le chiese la graziosa assistente, comparsa
improvvisamente al suo fianco. La ragazza aveva un ossequioso sorriso stampato in
faccia, come se istintivamente conoscesse quando il “guardando” si sarebbe tramutato
in “comprando”.
«Non ne sono sicura,» rispose Allegra, col cuore che le batteva forte sotto il
sottile pullover di cashmere. Sentiva di avere la faccia in fiamme e le labbra secche.
«Come si chiama?»
«Stephen Chase. È un artista locale. Ha ricevuto un’entusiasmante recensione
dall’Art Forum sulla sua ultima mostra. Lavoro stupendo. Ora tutti ne parlano. Ha
fatto davvero colpo.»
Allegra annuì, incapace di fare altro. Stephen Chase. Ora, esisteva un solo
nome che non sarebbe mai stata in grado di dimenticare, anche se quando si erano
conosciuti, lui si era presentato con il suo secondo nome, Bendix. Era un dipinto di
Ben, ovvio. Lo aveva saputo nel momento stesso che lo aveva visto. «Quanto costa?»
chiese, prima che riuscisse a pensare di fare altro. Ma non c’erano dubbi. Una volta
visto il quadro, doveva averlo.
L’assistente di galleria nominò una bella somma, e mormorò qualcosa sulle
spese extra per la cornice e la spedizione, se richiesti.
«Lo prendo,» disse Allegra, rovistando nel portafogli alla ricerca della carta di
credito. «E mi piacerebbe averlo ora. Portarlo con me, intendo.»
«Magnifico! È un pezzo stupendo. Congratulazioni. Ma temo di non potrà
averlo subito. La mostra durerà fino al mese prossimo, e spediremo tutto i pezzi ai
compratori solo dopo la sua fine. Spero ti vada bene.»
Allegra accennò ad un sì distratto con la testa, nonostante non fosse
completamente d’accordo. Avrebbe preferito prenderlo con sé subito, metterlo in
valigia e portalo via, così da poterlo studiare per bene in privato.
I ricordi di quell’anno disastroso la sommersero. Ben non l’aveva dimenticata
dopotutto. Il dipinto era del giorno in cui si erano conosciuti… il giorno che era stata
colpita alla testa da un dischetto da hockey su prato ed era stata portata in clinica.
Erano stati una sorta di compagni di stanza, condividendo la stessa televisione. Lui
aveva una gamba rotta, ora lo ricordava, e le aveva chiesto quale fosse la squadra di
hockey su prato… quella alla quale lei apparteneva… per farsi autografare
l’ingessatura. Tutto le era ritornato alla mente in un flash, come se fosse stato ieri.
«Fino a quanto ti tratterrai in città?» le chiese l’assistente, mentre faceva
scorrere la carta di credito di Allegra e ne controllava le credenziali.
«Ce ne andiamo domani.»
«Peccato. Ci sarà una party per lui, sabato sera, e a lui fa sempre piacere
conoscere i suoi mecenati.»
Allegra ci pensò su. Poteva chiedere a Charles di restare in città qualche altro
giorno. Lui aveva accennato al fatto di voler presenziare all’inaugurazione della
nuova mostra Olmec al de Young. Di certo avrebbe voluto che lei lo accompagnasse,
ma magari poteva architettare qualche scusa e dormire fuori per il party.
«La mia agenda in realtà è flessibile,» disse alla commessa. «E mi piacerebbe
molto ringraziarlo per questo pezzo…»
La ragazza dette ad Allegra l’indirizzo, appuntandoglielo dietro la ricevuta di
pagamento. «Magnifico! Lui ne sarà entusiasta!»
Allegra non era molto sicura che “entusiasta” fosse la parola giusta. Ricordava
perfettamente l’ultima volta che aveva visto Ben: la prima volta che lo aveva
marchiato come suo famiglio, la prima volta che aveva bevuto il suo sangue,
avendolo tutto per sé. Poi era sparita dalla faccia della terra. Non avrebbe mai pensato
di rivederlo di nuovo. O meglio… lei aveva sperato di non rivederlo di nuovo. Non
dopo la terribile visione che aveva avuto del loro futuro… un futuro dal quale stava
scappando da cinque anni.
Ogni fibra del suo essere immortale, e ogni certezza del suo spirito, le
gridavano di salire sul primo aereo e andare via dalla città. Sarebbe stato pericoloso
incontrare di nuovo Ben. Si era già innamorata di lui una volta, ma il suo cuore era
dalla parte giusta ora. Amava Charles, e insieme avrebbero rinnovato il legame, come
avevano sempre fatto dall’inizio dei tempi… da quando erano partiti dal regno dei
Cieli per portare speranza ai Caduti. Il suo cuore le aveva giurato di amare il suo
gemello, come prima, ma lo stesso cuore cocciuto le aveva suggerito di restare ora, e
non le avrebbe mai permesso di andare via.
Voleva vedere Ben, ne era certa. Se davvero esisteva una cosa chiamata
destino, Allegra sentiva che questo la stava spingendo verso una nuova direzione, che
l’avrebbe portata lontano dalla vita che aveva programmato, lontana dalla Congrega e
dall’angelo che aveva amato per l’eternità. Allegra pensò che avrebbe dovuto sentirsi
tormentata dall’ansia e dal rimorso, invece, uscita dalla galleria, provò solo una strana
emozione… una cosa che non succedeva da tempo: si sentì felice.
QUATTRO
Coltelli al Mercato
Traduttore: Melissa
L’area di sosta sullo Zambezi era diversa da tutto ciò che Schuyler avesse mai visto.
Non solo era un estendersi irregolare di ristoranti e parchi, con gruppi di grandi
famiglie che facevano picnic sul prato mentre si godevano il sole pomeridiano, ma
ospitava anche un safari in pieno stile africano. Il cordiale staff spiegò che gli zoo
erano ormai comuni in molte aree di sosta per le folle di viaggiatori che si spostavano
tra le più grandi città egiziane. Il proprietario aveva progettato quest’area con lo
scopo di imitare il veld africano, zebre e leoni compresi.
«A quanto pare ogni venerdì pomeriggio c’è una caccia al leone» disse Jack,
leggendo la brochure. «Mettono un maiale nella gabbia del leone, e la leonessa…»
«Smettila!» disse Schuyler, cercando di non ridere. «È orribile.»
Sorrisero e si tennero per mano sul tavolo, attenti a non far vedere ulteriori
dimostrazioni d’affetto. L’abilità di Schuyler di cambiare il suo aspetto, insieme ai
suoi vestiti a più strati, le permettevano di mimetizzarsi facilmente, specialmente con
una sciarpa di seta nera intorno ai capelli. Durante il periodo trascorso in Egitto aveva
notato che non tutte le ragazze sceglievano di portare il velo, anche se c’erano
ovviamente alcune donne ricoperte dal burka dalla testa ai piedi. Ma la maggior parte
di loro portava delle colorate sciarpe alla moda intorno alla testa, con dei normali
jeans e delle maglie a maniche lunghe. Le donne ricche piene di gioielli avevano
capelli lisci come se fossero appena uscite dal parrucchiere, e non indossavano
proprio le sciarpe. L’unico inconveniente della vita in Egitto per Schuyler era che non
poteva viaggiare da sola senza dare l’impressione di essere una donna più grande, il
che era stancante. Non che fosse pericoloso, semplicemente le giovani donne non
camminavano per le strade senza nessuno con loro. O si spostavano in gruppo o
venivano accompagnate da un parente di sesso maschile. Schuyler e Jack volevano
richiamare su di loro meno attenzione possibile, quindi cercavano di rispettare le
usanze locali.
Finirono il loro pranzo tardivo nell’area di sosta e si rimisero in strada,
affrontando ancora una volta il folle traffico.
Quando giunsero al Cairo, Schuyler trovò la città travolgente come la prima
volta in cui erano arrivati nel paese, con le sue strade e i marciapiedi completamente
affollati, chiassosi e inquinati, che straripavano di persone e macchine con
l’incessante suono dei clacson. Con una certa difficoltà, Jack riportò la macchina al
noleggio, e poi trovarono un taxi che li avrebbe portati in un hotel. Dato che stavano
cercando di risparmiare, si diressero in centro città, dove Schuyler aveva sentito che
si potevano trovare delle alternative più economiche agli alberghi di lusso lungo le
rive del Nilo. Gli hotel meno cari si trovavano in vecchi complessi di appartamenti
fatiscenti lungo rumorose strade affollate. Videro parecchie bettole sudicie per
viaggiatori in cui Jack si rifiutò di entrare, anche se Schuyler gli aveva detto che per
lei non c’erano problemi. Alla fine decisero di sistemarsi in un piccolo hotel in una
zona relativamente tranquilla, il cui atrio sembrava più pulito rispetto a quelli degli
alberghi là intorno.
Jack suonò la campanella e, dopo una lunga attesa, un direttore assonnato
apparve da una stanza sul retro. «Sì? Come posso aiutarvi?» chiese in modo
scorbutico.
«Vorremmo una stanza» disse Jack. «Ce n’è una libera, signore?»
«Per quanto tempo?»
«Una settimana per ora, forse di più. Si può fare?»
«È sua moglie?» chiese il receptionist, gettando uno sguardo sospettoso in
direzione di Schuyler.
«Sì» disse Jack laconicamente. Alzò la mano con la fede, per farla vedere
meglio al receptionist. Schuyler cercò di apparire modesta e riservata mentre il
receptionist la guardava con prudenza. Jack tamburellò con le dita sul bancone. «È un
problema, signore?» La sua voce era gentile, ma Schuyler percepiva l’irritazione che
vi era dietro. Sapeva che a Jack non piaceva usare la compulsione sugli umani, ma
era stato un viaggio lungo e si stava innervosendo.
Dopo aver passato un bel po’ di tempo a contare i soldi, il receptionist tirò
finalmente fuori una chiave e li condusse al secondo piano. La stanza era modesta ma
pulita, e Jack e Schuyler andarono dritti a letto per potersi alzare presto la mattina
seguente.
Il giorno dopo, Jack se ne andò per parlare con i membri della Congrega del
posto. «Ho intenzione di fare delle telefonate. Per vedere se riesco a trovare qualcuno
che possa aiutarci a rintracciare Catherine» disse. «Tu riposati un po’. Sembri stanca,
amore.» La baciò e uscì dalla porta. Con i capelli biondi nascosti sotto un cappello e
gli occhi verdi protetti da occhiali da sole avvolgenti, vestito con pantaloni beige e
una camicia bianca, Jack appariva pronto e competente; tuttavia, Schuyler temeva per
lui. Sapeva che sarebbe stato al sicuro (in fondo era Abbadon, erano gli altri che
avrebbero dovuto aver paura di lui), ma non poteva farci niente, temeva per la sua
vita. Sapeva che aveva fatto la cosa giusta a fargli cambiare idea riguardo l’affrontare
la prova del sangue, ma aveva paura che non sarebbe stato abbastanza e che, in
qualche modo, Jack le sarebbe stato strappato via senza preavviso, e lei non lo
avrebbe mai più rivisto.
Mentre era via, Schuyler studiò il resto dei diari di suo nonno. Non riusciva
mai a leggerli senza sentire la mancanza di Lawrence. Poteva immaginarlo mentre la
incitava e la sfidava a trovare il vero significato nascosto dietro quelle criptiche
parole. «Di solito quello che cerchiamo è proprio davanti a noi», questa era una delle
sue massime preferite.
Jack tornò nel pomeriggio. Si tolse il cappello e si sfregò gli occhi. «Il quartier
generale del Conclave è stato abbandonato. Ma sono riuscito a rintracciare un
Conduit umano, servitore di un mio vecchio amico. Mi ha detto che la Congrega è
stata sotto attacco durante quest’ultimo mese e che i vampiri si stanno preparando a
lasciare la città. Solo brutte notizie, insomma.» Per un momento apparve sconfortato.
La notizia che un’altra Congrega fosse sul punto di nascondersi era brutta da sentire,
Schuyler lo sapeva. «Comunque, gli ho chiesto se avesse mai sentito parlare di
qualcuno chiamato Catherine da Siena. C’erano poche probabilità, ma a volte le
leggende sopravvivono per molto tempo nelle parti più antiche del mondo.»
«Quindi l’hai trovata?» chiese Schuyler speranzosa.
«Forse. Mi ha dato un nome: Zani, una donna religiosa con un grande seguito.
Tra un’ora incontreremo una guida che ci porterà al suo tempio al suk.» La guardò in
faccia. «C’è dell’altro.»
«Cosa?» chiese Schuyler, mentre dentro di lei iniziarono a suonare dei
campanelli d’allarme alla vista di un Jack così cupo.
«Credo che mia sorella sia qui. Riesco a sentirla… Sta cercando qualcosa.»
Schuyler si portò di corsa al suo fianco. «Allora andiamocene via.»
«No» disse Jack. «In qualche modo riesco a sentire che non è qui per me.»
«Non possiamo correre il rischio…»
«Sì, invece» disse gentilmente. «Non ho paura di Mimi o della sua ira. Ci
incontreremo con questa donna religiosa. Riuscirai a trovare la guarda porte.»
Se ne andarono, facendosi strada a piedi fra le intricate strade del Cairo, dove non
c’erano attraversamenti pedonali, semafori, segnali di stop o corsie per svoltare; oltre
alle macchine, agli autobus e ai minibus pericolanti, le strade erano intasate da carri
trainati da asini e cavalli, e da biciclette e scooter diretti in direzioni opposte. Proprio
come in autostrada, tutti si spingevano e si davano gomitate per farsi strada. Schuyler
notò una macchina ferma nel mezzo della strada con il suo proprietario che stava
aggiustando una gomma a terra, senza preoccuparsi di spostarla fuori dalla
carreggiata, obbligando tutti gli altri ad aggirarla. Usando la loro velocità di vampiri,
riuscirono velocemente a zigzagare fra i veicoli, e ad arrivare con largo anticipo al
mercato.
Il Khan el-Kalili era un suk tortuoso e labirintico. Un tempo, durante il
Medioevo, era stato il centro del commercio del Cairo, ma ora era più che altro
un’attrazione turistica, con dozzine di negozi che vendevano cimeli di faraoni e
gingilli egiziani: scarabei, piramidi di cristallo, servizi da tè della regina Nefertiti e
cartouche d’oro e d’argento con il proprio nome scritto in geroglifici.
Precedentemente organizzati in distretti, i negozi erano ora per lo più accozzati alla
rinfusa, con mercanti di tappeti vicino a negozi di computer. Solo gli artigiani di oro e
di rame e i venditori di spezie erano rimasti nei loro posti storici.
Schuyler camminava in fretta, mantenendo il passo di Jack, e cercando di
ignorare i venditori ambulanti che le gettavano i loro articoli in faccia tentando di
persuaderla ad entrare nei loro negozi. Non l’avrebbe perso di vista. Era convinto che
Mimi non fosse lì per lui, ma Schuyler non ne era sicura, e non credeva che Mimi li
avrebbe lasciati in pace. Cercavano di rimanere insieme, ma la folla era fitta e furono
spesso separati da negozianti aggressivi che gli ostruivano la strada, mostrandogli
ogni tipo di cimelio “autentico”.
«Anelli molto belli molto belli sì? Di vere pietre di giada. Fatti al cento per
cento in Egitto!»
«No, grazie» disse Schuyler, cercando di tenere la mano di Jack e sentendo le
sue dita scivolare dalla sua presa mentre un negoziante si metteva fra di loro.
«Signorina signorina signorina… vieni a vedere… vaso di alabastro dalle
tombe. Molto raro. Molto raro» disse un altro, mostrandole quello che doveva essere
uno scadente soprammobile probabilmente fatto in Cina. Dov’era Jack? Schuyler si
guardò intorno, cercando di non andare nel panico.
«Ankh? Contro il malocchio, signorina… Vieni a vedere. Vieni dentro, molto
altro per te. Molto bello.»
«No, no, grazie…» disse, superandoli e cercando di farsi strada fra una folla di
turisti russi che si erano fermati a fissare inebetiti una copia del sarcofago d’oro di
Tutankhamen. Jack? Emanò.
Sono qui. Non preoccuparti. Jack apparve al suo fianco, e Schuyler riuscì di
nuovo a respirare.
«Signorina! Tu volere, qui bellissimi zaffiri come i tuoi occhi!»
«No, grazie. La prego…» disse Schuyler, spingendo via l’uomo. «Accidenti se
sono insistenti» disse.
«Sono sempre un po’ più disperati del solito durante la bassa stagione. Ah,
ecco il negozio» disse Jack, fermandosi di fronte ad una piccola vetrina in cui era
esposto ogni tipo di ornamento religioso, dai crocifissi ai menorah.
«Chi è questa guida?» chiese Schuyler.
«Roberston ha detto che è uno dei seguaci di Zani, un sacerdote del suo tempio
o qualcosa del genere.» Indicò il cappello da baseball degli Yankees sulla sua testa.
«Dovrebbe essere alla ricerca degli Yankees» spiegò Jack con un sorriso
ironico.
«Tu comprare! Cento per cento autentico!» ordinò un venditore
particolarmente aggressivo, sventolando un tappeto persiano in faccia a Schuyler.
«No grazie, signore…» disse, tentando di mandarlo via.
Di fianco a lei, Jack fu avvicinato da un altro negoziante che cercava di
vendergli un narghilè. Jack voleva essere educato, ma Schuyler stava per perdere la
pazienza con quell’insistente venditore di tappeti. Cercò di schivarlo, quando notò
che Jack era di nuovo sparito.
«Jack?» chiamò, sentendo la sua ansia triplicarsi. Era sicura che stesse bene,
certo, ma Mimi era al Cairo. L’aveva detto proprio lui, e Schuyler iniziò a sentire una
fredda paura nel suo stomaco. «JACK!» Jack? Emanò. Dove sei? Quando si girò, il
suo orologio da polso si impigliò nel tappeto, sfilando parte della lana.
«Tu comprare! Tu rompere, tu comprare!» urlò il venditore. «Tu comprare!»
«Jack!» chiamò Schuyler, spostando il venditore. Aveva trovato la guida?
Dov’era finito? Perché non rispondeva alla sua chiamata nel Glom?
«Signorina! Tu comprare! Tu rompere, tu comprare! Cento dollari!» Le urlò
nell’orecchio il mercante di tappeti prendendola per il braccio.
Schuyler lo spinse via, facendo cadere quel tipo grassoccio dentro una vetrina
di lampade. «Oh mio Dio, mi dispiace» disse, il che lo fece arrabbiare ancora di più,
ed ora erano due i negozianti che le chiedevano di pagare ciò che aveva rotto.
Iniziando a sentirsi come se fosse stata incastrata, si guardò intorno
all’impazzata alla ricerca di Jack e, quando finalmente lo trovò, rimase terrorizzata
nel vedere un aggressore incappucciato che gli spuntava alle spalle, con una lama
d’argento che rifletteva la luce del sole. Il mercato era così movimentato che nessuno
ci fece caso. I turisti e i clienti continuavano a camminare, ignari del pericolo che li
circondava.
Era paralizzata, troppo spaventata per urlare, ma all’ultimo momento Jack si
girò e disarmò rapidamente il suo assalitore, riuscendo ad avere la meglio. Ma poi
guardò nella sua direzione e lasciò improvvisamente la presa.
Cosa stava facendo? Schuyler stava per chiamarlo quando le misero un
cappuccio nero sopra la testa e si ritrovò ad essere trascinata via, gridando e
scalciando. Il rumore del mercato e il caos creato dai venditori di tappeti e di lampade
soffocò le sue urla, e lei fu portata lontano dalla folla in un vicolo silenzioso.
Il suo aggressore continuava a stringerle saldamente il collo, ma Schuyler si
ordinò di calmarsi, portando la mano all’impugnatura della sua lama. In un attimo,
era riuscita ad afferrare il suo manico d’oro.
«Il tuo amico ha già consegnato la sua arma» disse una fredda voce femminile.
«Ti consiglio di fare lo stesso.»
Schuyler gettò a terra la spada di sua madre.
CINQUE
Le Piramidi di Giza
Traduttore: Veru
C’era una limousine nera e lucida davanti all’entrata dell’hotel e un autista in
uniforme li salutò con un inchino, tenendogli lo sportello aperto mentre si
avvicinavano. «Molto meglio» disse Mimi, grata che almeno quel giorno non dovesse
ricorrere al suo trucchetto per non pagare il taxi.
«Come pensavo.» Sorrise Oliver. «Dopo di te.»
Anche se le piramidi in pratica erano attaccate all’hotel, la macchina si
muoveva a passo di formica lungo le strade trafficate. Mentre secondo
un’impressione generale le piramidi si trovavano nel bel mezzo di una vasta distesa
desertica, come piloni contro il cielo pulito, in realtà erano vicino ai sobborghi
affollati di Giza, e la scena nel complesso risultava particolarmente carnevalesca,
piena non solo di turisti provenienti da tutto il mondo, ma anche di scolari in gita
scolastica, venditori ambulanti, cammelli sputanti e guide turistiche scioviniste. Se
Mimi si fosse preoccupata di svolgere i suoi esercizi mnemonici, avrebbe ricordato
che era sempre stato così. Le piramidi erano state costruite da faraoni Sangue Blu
come oculi nell’oscurità, fari per le anime, ka, per ritrovare la strada di casa. Ma, sin
dalla loro costruzione, i Sangue Rosso vi si recavano come tarme attratte dalla luce,
meravigliati dalla loro dimensione e dalla loro bellezza. I vampiri lo trovavano
strano, ma le piramidi erano sempre state attrazioni turistiche.
L’autista parcheggiò il più vicino possibile all’ingresso del sito e loro scesero
dalla macchina. Mimi si riparò gli occhi dal bagliore del sole e guardò le magnifiche
strutture. Erano immense, le pietre erano più larghe dell’uomo più alto al mondo.
Ricordava che erano molto più belle nella loro forma originale, ricoperte di blocchi di
calcare di un bianco lucido. Era un peccato che ne avessero tolto il rivestimento nel
corso dei millenni per poterlo usare in altri progetti edili. Solo la seconda piramide
più grande, Khafra, aveva la punta coperta di calcare.
Dall’altro lato del complesso di piramidi c’era il Giza Hut, così tutti
chiamavano il Pizza Hut dall’altro lato della strada. Durante il loro primo viaggio al
Cairo, Mimi e Oliver avevano pranzato lì e Oliver aveva fatto una foto che ritraeva
l’allegro e moderno logo del ristorante accanto ad una finestra da cui si vedevano le
cripte. Non bisognava essere un Sangue Blu per apprezzare la piacevole ironia e la
pizza fumante.
Era stato un gran colpo di fortuna che Mimi e Oliver avessero scoperto questo
ingresso agli inferi. Oliver aveva studiato i documenti del deposito ed era giunto alla
conclusione che il Cancello della Promessa si trovasse nella città di Alessandria, ma
aveva cambiato idea quando erano atterrati al Cairo e un viaggiatore aveva chiamato
la città il “Grande mango”, portando così ad una discussione sulle radici del nome
della città. Non era riuscito a nascondere il suo entusiasmo quando aveva scoperto
che il Cairo si chiamava anche “città vittoriosa”. La città del vincitore sulla riva del
fiume dorato, aveva spiegato Oliver leggendo i suoi appunti. Non che Mimi avesse
capito qualcosa di tutte quelle storie sulle Porte dell’Inferno. Non erano andati ad
Alessandria, visto che Oliver era convinto che il Cancello fosse al Cairo, e Mimi lo
aveva seguito.
Mentre attraversavano il bazar affollato, Mimi meditò su quanto fosse stato
relativamente facile trovare l’Inferno. Non era uno di quei cancelli che stava cercando
la compagna di legame di suo fratello? Di cui si parlava nella cosiddetta Eredità dei
Van Alen? C’era la possibilità che Jack fosse nei paraggi? Sentiva qualcosa nell’aria,
qualcosa nell’oscurità che sembrava la sua firma, ma non ne era sicura. Era passato
molto tempo da quando erano in grado di comunicare telepaticamente, molto tempo
da quando riusciva a leggergli la mente. Mimi sentì la solita ondata d’odio salirle
come bile in gola. Ogni volta che pensava al suo gemello, le si seccava la bocca,
come se si riempisse di sabbia e di cenere. Si sarebbe presa la sua vita un giorno, si
promise. Le doveva una prova del sangue, una lotta fino alla morte. Ma allontanò i
suoi pensieri astiosi per il momento. La discesa negli inferi richiedeva la sua
completa attenzione.
Anche se il suo viaggio con Oliver non richiedeva una Camminata Mortale –
quella pericolosissima impresa in cui solo i Venator esperti potevano riuscire, visto
che bisognava nascondere la traccia dell’anima per fingere la morte – era comunque
tutt’altro che semplice e senza dubbio sarebbe stato difficile per il suo compagno
umano. Mimi aveva intenzione di entrare nell’oscurità mantenendo intatto il loro lato
fisico; non avrebbero separato la mente dal corpo. I Death Walker avevano la
capacità di trovarsi dovunque in qualunque momento. In questo modo lei ed Oliver
sarebbero stati bersagli più lenti e facili, ma non avevano molta scelta, visto che
Oliver era umano e quindi non era in grado di separare l’anima dal suo corpo.
Comunque non ambiva a diventare una Death Walker. Era troppo rischioso.
Ma prima dovevano raggiungere il cancello, ovviamente. La soluzione
migliore per arrivare a destinazione era usare un cavallo o un cammello e, ancora una
volta, Oliver diede prova del suo valore, visto che aveva già provveduto a procurarsi
delle guide e due bei cavalli neri arabi che li portassero alle cripte. Mimi aveva vinto
molte corse equestri e stava trottando velocemente, mentre Oliver sembrava un po’ a
disagio sulla sella e faceva più difficoltà a controllare la sua giumenta. «Avrei dovuto
lasciarmi convincere da mia madre a prendere lezioni di equitazione piuttosto che di
ballo, vero?» Fece una smorfia.
Mimi schioccò la lingua. «Devi tenere le redini più strette. Falle vedere chi
comanda.»
Superarono gli ingressi pubblici vicino alla grande piramide di Khufu, la più
grande delle tre, e un’altra vicino alla Sfinge che, a differenza delle piramidi,
sembrava più piccola dal vivo che nelle foto.
Non c’era molto da vedere nelle piramidi, che in sostanza erano tombe vuote
non adatte ai claustrofobici. Il sentiero per gli inferi si trovava dentro menkaure, la
piramide più piccola. Legarono i cavalli ad un albero, procurarono cibo ed acqua alle
guide e si incamminarono verso l’ingresso.
«Non si può entrare da lì. Per le visite private guidate da quella parte» disse
una guardia, fermandoli e indicando l’altra piramide.
«Ci mettiamo solo un secondo» disse Mimi, usando la compulsione per farlo
guardare dall’altra parte. Era davvero facilissimo: la mente dei Sangue Rosso era
molto malleabile. Quando si girò, sbloccò le porte con un incantesimo e Oliver le
fece strada all’interno e poi giù per le scale.
Le Porte dell’Inferno erano state costruite sui Sentieri dei Morti dall’Ordine dei
Sette durante il regno di Caligola, per proteggere il mondo terrestre dai demoni degli
inferi. I Cancelli tenevano intrappolati i Sangue Argento, ma tutti potevano entrare
nell’Inferno dall’altro lato se sapevano come fare; anche se i Sangue Rosso di solito
dovevano aspettare di morire per raggiungere il Regno dei Morti.
Mimi tirò Oliver nel Glom, il mondo alternativo nascosto da quello fisico.
«Come stai?» gli chiese vedendolo piegarsi in due e stringersi lo stomaco.
«Ho la nausea. Ma sopravvivrò» rispose asciugandosi la bocca con il suo
fazzoletto.
Almeno per il momento, pensò Mimi.
In lontananza c’era un piccolo cancello di metallo, simile a quello di un
giardino, chiuso con un catenaccio. «Tutto qui?» chiese Oliver scettico. «Quello è il
Cancello della Promessa? Sembra predisposto a tenere i bambini lontani da una
piscina.»
«Sì, va beh.» Mimi scrollò le spalle aprendo il chiavistello. «Credo che tutti lo
vedano in modo diverso. Dall’altra parte sembra una fortezza. Sei pronto? Potresti
sentirti un po’ male.»
«Più di adesso? Avresti dovuto dirmi di portare un sacchetto per il vomito.»
Oliver si asciugò la fronte e fece qualche respiro profondo.
Mimi alzò gli occhi al cielo. Tenne la porta del cancello aperta e oltrepassarono
insieme la soglia. Ogni passo sembrava coprire un chilometro, o anche sette leghe, e
dopo un po’ raggiunsero il Limbo, il primo cerchio del Regno degli Inferi. Lo spazio
tra i mondi appariva come un grande paesaggio deserto, simile a quello da cui erano
venuti, con una strada solitaria sulla sabbia, ma senza piramidi.
«La transizione è più facile se assomiglia al luogo da cui siamo entrati» spiegò
Mimi.
Oliver pensò che assomigliasse un po’ al deserto del Mojave nella Vale della
Morte; roccioso e desolato. C’erano delle palme in lontananza e l’erba mobile
soffiava sulla strada; il caldo era opprimente e lui sudava nella sua giacca da safari.
«Andiamo» disse Mimi, facendo tintinnare le chiavi di una mustang rossa
decappottabile che si era materializzata a lato della strada. «Sali, guido io. Conosco la
strada.»
«Ovvio che la conosci.» Oliver tossì, ma la seguì.
Azrael, Angelo della Morte, era tornato a casa.
SEI
Ritratto dell'artista da Giovane Erede
Traduzione: Ella
Allegra arrivò tardi alla festa. Aveva passato troppo tempo in piedi di fronte allo
specchio, chiedendosi cosa indossare e sentendosi nervosa. Niente di ciò che aveva
portato da New York sembrava andare bene: odiava tutti i suoi vestiti. Charles era
andato all'apertura della mostra come da programma. Allegra era riuscita a
convincerlo di non essere in vena di fare chiacchiere sociali quella sera e che avrebbe
preferito rimanere a casa e recuperare le sue letture arretrate. Fortunatamente, lui era
troppo eccitato dalla possibilità di vedere l'eccezionale collezione di arte antica sud
americana per insistere per avere la sua compagnia. Charles avrebbe goduto del
vortice sociale, gli sarebbe piaciuto crogiolarsi nell'attenzione di una venerabile
Congrega, e lei sapeva che non avrebbe sentito la sua mancanza.
Il minuto dopo che la porta si chiuse dietro Charles, Allegra prese d'assalto il
suo armadio. L'ultima volta che Ben l'aveva vista, lei aveva sedici anni, un viso
fresco, ricco di giovinezza, vita e energia; e sebbene sapesse che cinque anni non
erano poi così tanto tempo, si sentiva più adulta, molto più consapevole della sua
bellezza e della reazione che questa produceva nell'altro sesso. Portava i capelli corti
adesso, tagliati vicino al cuoio capelluto, quasi come un bambino, e Charles li odiava,
aveva adorato i suoi lunghi riccioli dorati, aveva amato passare le dita attraverso
quello spessore sottilissimo. Era rimasto deluso quando era tornata dal parrucchiere
con il suo nuovo taglio.
Ma Allegra amava il sollievo liberatorio: niente più pesantezza dietro il collo,
aveva sempre avuto troppo caldo d'estate, niente più fischi nel traffico ad una fermata
quando correva attraverso la strada, o teste girate quando camminava lungo il
marciapiede, con i suoi capelli dorati che si muovevano dietro di lei come una vela.
Le piaceva essere un po' meno evidente, un po' più dimenticabile, un po' più
ordinaria, quasi come se fosse qualcun altro per un cambiamento. Ma ora, mentre si
sfiorava i bordi smussati della testa rasata, si preoccupò che forse Charles avesse
ragione, che senza i suoi capelli non sembrasse nemmeno lei; che privata della sua
migliore risorsa, sembrasse noiosa e piatta.
Optò per il solito, una camicia bianca di seta, un paio di Levi's da uomo, una
stretta cintura di cuoio e stivali da cowboy malconci.
La festa era in una villa in collina a Pacific Heights. Allegra fece scivolare
velocemente la porta dorata e afferrò un calice di champagne da un cameriere con un
vassoio d'argento. Si fece strada attraverso la folla bella e danarosa, donne in pelliccia
e velluto, uomini in giacche giapponesi su misura. La festa era concentrata nel salone,
un confortevole spazio tappezzato di libri con una vista mozzafiato sul Golden Gate
ed un Monet autentico sopra il camino. Nonostante tutte le rare antichità e la notevole
arte in mostra, riusciva ancora ad essere caldo e accogliente allo stesso tempo.
«Sei così familiare. Sono Decca Chase. Benvenuta in casa nostra.» una delle
matrone più importanti della società di San Francisco, che per caso era la madre di
Ben, sorrise ad Allegra. «Sei la ragazza nei dipinti, non è così?» ce n'era più di uno?
Si chiese Allegra. Lei ne aveva visto solo uno alla galleria. «Mrs Chase.» disse, «è un
piacere rivederla.»
«Dunque ci siamo già incontrate prima!» disse la madre di Ben con piacere.
Era alta, come il figlio, e condivideva il suo longilineo, tutto americano bell'aspetto,
ed era impeccabilmente vestita di strisce di cashmere bianco.
Allegra si ricordò di qualcosa che le aveva detto la sua compagna di stanza alla
scuola privata, che la madre di Ben era un'ereditiera di una grande fortuna di San
Francisco, e il suo secondo nome veniva dal ramo materno della sua famiglia.
«Andavo a scuola con Ben. Alla Endicott.» spiegò Allegra, sentendosi un po'
intimidita dalla sua ospite amichevole.
«Certo! Sarà felice di vedere una sua vecchia amica.» Decca Chase roteò in
mezzo alla festa, tenendo la mano di Allegra, e alla fine si fermò di fronte ad un
ragazzo alto in una logora giacca blu che intratteneva una folla enorme e adorante
con un'affascinante storia che li faceva sbuffare nei loro cocktail. «Guarda chi ho
trovato.» disse trionfante.
Allegra improvvisamente si sentì profondamente a disagio e desiderò aver
accompagnato Charles a quella mostra. Che ci faceva lì? Non apparteneva a quel
posto. Sua madre era stata così carina da risultare dolorosa. Magari avrebbe potuto
semplicemente sparire dalla festa e nessuno si sarebbe mai ricordato che c'era anche
lei. Ma rimase immobile sul posto, e Ben si stava voltando per salutarla.
Lui era esattamente lo stesso, alto e con i capelli biondi, con lo stesso sorriso
amichevole e felice, gli stessi brillanti occhi blu, la sua intera personalità chiara e
solare come un pomeriggio d'estate. «Gambe!» disse. Fece un po' male ad Allegra
sentire quel suo vecchio soprannome, e sentirlo usare così facilmente. Le diede un
abbraccio caloroso e un bacetto sulla guancia, come se fossero stati solo vecchi
compagni di classe e nulla più... come se non lo avesse mai marchiato, come se non
avesse mai preso il suo sangue e fatto suo.
Si chiese cosa l'avesse spinta ad andare quella sera. Perché era andata lì? Di
cosa aveva avuto paura? Era andata per vedere se lo avesse rovinato in qualche modo,
se lo avesse distrutto? Era rimasta delusa nello scoprire che non lo aveva fatto? No.
Aveva fatto bene a lasciare la Endicott quando aveva dovuto, quando era stata
avvertita dalla visione. Guarda, stava meglio senza di lei. Era lo stesso vecchio Ben,
con le guance rosee e il sorriso increspato. Indossava una logora cravatta a righe
come cintura, il solito vecchio studente di scuola privata. I jeans erano elegantemente
colorati a spruzzi, ovviamente. Ma se c'era qualche messinscena o macchinazione,
non riuscì a trovarla in lui. Era naturale ed amichevole, così difficile da detestare, uno
di quei ragazzi che tutti amano, motivo per il quale Charles lo aveva detestato sin
dall'inizio.
«Ben, ciao.» disse Allegra, restituendogli il bacio sulla guancia, mascherando
con un sorriso la battaglia di emozioni che sentiva sotto la superficie.
«Nessuno mi chiama più così.» disse, prendendo un sorso dal suo bicchiere di
birra e guardandola pensieroso.
«Nemmeno a me nessuno chiama “Gambe”, ad eccezione di te.» disse
debolmente.
Ben ghignò. «Stavo solo scherzando. Chiamami come vuoi. O non chiamarmi
affatto.» scherzò. La folla attorno a lui si disperse, come fosse ovvio che la nuova
splendida ragazza, e Allegra non avrebbe dovuto avere alcun dubbio, era ancora
sensazionale anche con i capelli corti, avrebbe avuto tutta la sua attenzione.
«Bene, voi ragazzi riacquistate familiarità. Dovrei andare a vedere cosa sta
facendo tuo padre; ad accertarmi che non si sia mangiato tutti i crostini di caviale.»
disse Decca Chase, guardando con soddisfazione i due. Allegra si era dimenticata che
sua madre era lì. Lei e Ben la guardarono muoversi facilmente attraverso la folla,
spremendo un gomito lì, ridendo ad una battuta là, una padrona di casa consumata.
Un cameriere scivolò vicino per riempire il bicchiere di champagne di Allegra,
e lei fu grata per quella distrazione. Non sapeva cosa dire a Ben. Ancora non sapeva
cosa ci facesse lì. Solamente era sorta l'occasione di rivederlo, e lei l'aveva colta
come un naufrago che raggiunge un salvagente. «Tua madre è forte. Non lo avevi
mai detto.» Si ricordò che lui le aveva detto che i suoi genitori non avevano avuto
molto tempo per crescerlo. Forse stavano cercando di rimediare ora, con questa festa
sensazionale.
«Ho dimenticato di dirlo.» Sorrise Ben. «Oh, giusto. Ti avevo rifilato la recita
del Povero Ragazzino Ricco, no?»
Allegra rise. Era sempre riuscito a farla ridere, e a lei era mancato il loro
piacevole cameratismo. «Bella casa.» disse, alzando le sue sopracciglia al Picasso
sopra il tavolo da pranzo.
Ben roteò gli occhi. «I miei genitori.» disse, «La cosa peggiore di avere soldi è
che non posso essere un artista povero.»
«É cosi brutto?» disse Allegra, con tono un po' beffardo.
«Oh è la cosa peggiore.» disse Ben allegramente, «Mangio bene, e mia madre
usa le sue conoscenze per far scrivere a tutti di me o per far comprare i miei lavori. È
dura, te l'ho detto.»
Allegra sorrise. L'ambiente di Ben era semplicemente parte di lui. Non era
responsabile per chi erano i genitori, era solo fortunato ad essere loro figlio.
Ben la guardò attentamente. «Hai tagliato i capelli.» disse, aggrottando il
sopracciglio.
«Ho pensato che fosse tempo di cambiare.» disse, cercando di apparire
coraggiosa. Dio, li odiava, lei avrebbe potuto dirlo. Perché mai si era tagliata i
capelli? Cosa le era saltato in mente?
«Mi piacciono.» disse lui con una nota di approvazione. «Comunque, la
galleria mi ha detto che hai comprato un dipinto.»
«Si.» annuì, notando che c'era un gruppo di persone che indugiava attorno a
loro, aspettando che Ben la lasciasse andare così da poter piombare su di lui.
«Bene, ho bisogno dei soldi.»
«Bugiardo.» fece cenno alla sua folla adorante. «Penso che io ti stia trattenendo
dai tuoi fans.»
«Oh, che si fottano.» sorrise Ben. «É davvero bello vederti, Gambe.» disse
caldamente. «Ti andrebbe di venire allo studio domani? Vedere un paio di altre cose?
Ti prometto che non proverò a vendertele. Beh, forse non del tutto.»
Voleva rivederla. Il cuore di Allegra perse un battito. «Certo. Perché no.» alzò
le spalle con noncuranza, come se volesse fermarsi solo se non aveva niente di
meglio da fare.
Il suo viso si illuminò e sembrò quasi gioire. «Grande! Dirò alla galleria di
darti l'indirizzo.»
Infine, un ospite esitante, un gentiluomo anziano con una barba spuntata, si
stancò di aspettare. «Stephen, scusa l'interruzione, ma devi incontrare uno dei nostri
migliori clienti, è entusiasta delle tue opere ed insiste per comprare l'intera
collezione.»
«Un secondo.» disse ben al suo venditore. «Mi dispiace.» disse ad Allegra, «Il
lavoro chiama. Ma resta. Goditi la festa. Alcuni del vecchio gruppo sono qui, almeno
un mucchio di Peithologians. Li trovi al bar a farsi degli shot. Le vecchie abitudini
sono dure a morire.»
Poi se ne andò, portato via dai suoi ospiti che erano venuti a festeggiare il suo
successo.
Ben era felice, amichevole, carino. Lui era carino. Allegra decise di essere
felice per lui, ed era contenta di aver fatto la cosa giusta a stroncare la loro piccola
relazione, qualunque cosa fosse, proprio sul nascere. Mentre si diresse in direzione
del bar per trovare i suoi vecchi amici, non poté evitare di sorridere. Era contenta che
gli fossero piaciuti i suoi capelli.
SETTE
Riflessi
Traduttore: Virginia K. Loveswords
I rapitori li avevano trascinati fuori dal suk, e Schuyler era stata spinta all’interno di
un veicolo, che ora percorreva a gran velocità strade accidentate. Lei riusciva a
percepire la presenza di Jack al suo fianco, ma non ne era sicura. Il cappuccio che i
sequestratori le avevano messo sulla testa, la disorientava… non era semplice stoffa
nera, era di un materiale particolare, creato appositamente per disabilitare la vista dei
vampiri. Sicuramente un’altra arma dei Venator. Aveva perso la cognizione del
tempo e stava tentando di calcolare da quanto fossero in viaggio, quando finalmente
venne fatta scendere dalla macchina e portata in un luogo chiuso. Schuyler iniziava
ad avere paura, era terrorizzata, ma voleva essere forte.
Ti senti bene? Le chiese la voce pacata di Jack nella sua testa. Se solo provano
a farti del male, li ridurrò in mille pezzi.
Quindi Jack era lì con lei. Pronto a soccorrerla, come se lei glielo avesse
gridato. Sto bene. Dove ci troviamo? Chi ci ha rapiti? La sua mente percorse
velocemente tutte le possibili risposte… I Venator da New York? Forse l’esercito
della Contessa si era riorganizzato?
Prima che Jack potesse risponderle, le venne tolto il cappuccio dalla testa, e
qualcuno alle spalle le puntò un coltello alla gola. Il suo aggressore la strattonò per i
capelli, costringendola a portare in dietro la testa, e a scoprire il collo. Jack le sedeva
di fronte, con le mani legate. Riusciva a vedere la scintilla di rabbia che animava i
suoi occhi verdi come il vetro mentre tentava di mantenere sotto controllo i suoi
terribili poteri. Con una sola parola, avrebbe potuto uccidere i loro rapitori all’istante,
ma ancora una volta, veniva frenato dalla sua debolezza… l’amore che provava per
lei. Con Schuyler in pericolo, Jack perdeva ogni potere. Era questa la cosa che più
odiava di sé stessa, poter essere usata per controllarlo.
La ragazza che teneva puntato il coltello alla gola di Schuyler era una
bellissima Venator cinese, il tipo di uniforme militare che indossava, insieme a tre
croci d’argento appuntate al colletto, denotavano il suo alto grado.
«Guarda. E’ uno dei nostri.» Il suo compagno, un ragazzo tarchiato
dall’espressione benevola, fece un cenno verso Jack. «Generale Abbadon. Questa sì
che è una sorpresa. Non lo hai riconosciuto, Deming?»
«Rujiel,» disse Jack, chiamando il Venator col suo appellativo angelico, mentre
si liberava abilmente e facilmente dalle manette. «Non sapevo che il West Wind
permettesse al suo gruppo di allearsi con i traditori. Mi rammarica vedere te e tuo
fratello agli ordini di Drusilla.»
«Noi non siamo traditori,» esclamò bruscamente Sam Lennox. «La Contessa
potrà anche aver raggirato la Congrega Europea ma noi non staremo al suo gioco.
Non lavoreremo mai più per tua sorella.»
«Meglio per te, o verrai rispedito in città col prossimo volo,» ringhiò Ted.
«Bene, allora potresti gentilmente chiedere alla tua amica, di lasciar andare mia
moglie?» chiese Jack. «Se ciò che dite è vero, e noi non siamo nemici, non vedo
alcun motivo per tutta questa ostilità.»
La ragazza cinese lanciò uno sguardo interrogativo a Sam, e dopo il suo cenno
di assenso, abbassò il coltello che aveva puntato su Schuyler.
Schuyler tirò un sospiro di sollievo. «La spada di mia madre. Dov’è?»
Un’altra ragazza… praticamente identica alla Venator che le era accanto, le
lanciò la lama, e Schuyler dopo averla afferrata prontamente ed averla rimpicciolita,
se la fece scivolare in tasca. Le due Venator cinesi assieme ai gemelli Lennox
formavano un’accoppiata interessante. Erano il riflesso gli uni degli altri. I loro
movimenti, complementari a vicenda, un misto di grazia e destrezza, ricordavano una
di quelle macchine antiche, dagli ingranaggi perfettamente funzionanti. Sembravano
decisamente provati ed esausti.
Jack prese in mano la situazione… assumendo il ruolo di leader che gli era così
congeniale… e passando alle dovute presentazioni. «Schuyler, questi sono Sam e Ted
Lennox, conosciuti anche come i fratelli Rujiel e Ruhuel, gli Angeli del West Wind.
Due bravi soldati. Militavano nelle mie legioni molto tempo fa. Gli unici superstiti
della squadra di Kingsley Martin a Rio. E se non sbaglio, queste due giovani
affascinanti ragazze, sono Deming e Dehua Chen. Ricordo entrambe dal Ballo dei
Quattrocento» Ed indicando Schuyler. «Lei è Shuyler Van Alen. La mia legata.»
«Il famoso Jack Force,» esclamò Deming senza nascondere il disprezzo nella
propria voce. Mentre i gemelli Lennox si erano rivolti a Jack con referenza,
trattandolo come il loro vecchio comandate, era palese che lei non provasse a
considerarlo con lo stesso rispetto. Era una ragazza forte, dal temperamento tanto
impetuoso, quanto era dolce quello della sorella Dehua. Deming non avrebbe esitato
nemmeno un istante a tagliarle la gola, Schuyler ne era certa. «Mi ricordo bene di te,»
disse a Jack. «Mi hanno raccontato che nello scontro di New York, sei fuggito via
con l’abominio creato da Gabrielle, spezzando il legame con Azrael. Non credevo
fosse vero.» Lo sguardo carico di disprezzo con cui guardava Jack, fece comprendere
a Schuyler per la prima volta, l’enormità del gesto che Jack aveva fatto, tutto quello
che aveva abbandonato per lei… la sua posizione, il suo posto d’onore nella comunità
dei vampiri, il suo orgoglio e il suo mondo. Agli occhi dei Venator, lui non era altro
che un codardo, uno che aveva spezzato un patto celestiale.
«Fa attenzione. Non mi interessa ciò che dici, non m’interessano le tue accuse.
Ma non ti permetterò di insultare in alcun modo mia moglie.» Rispose Jack. Il suo
tono era calmo, ma le parole cariche di minaccia.
«È la verità,» disse Daming. «L’errore di Gabriele è stato enorme, ma tu hai
fatto di peggio rompendo il giuramento e per andartene con la sua progenie.»
«Pagherai per questa volgarità» ordinò Jack, scattando in piedi.
Deming alzò la testa, altezzosa come un’imperatrice cinese. «Dimentichi che
non siamo più ai tuoi ordini. L’onore di Azrael è intatto. Com’è il tuo?»
«Lascia che te lo mostri.» Sorridendole, Jack sguainò la sua spada.
In un attimo, i due avevano incrociato le spade, dalle lame celestiali scaturirono
scintille.
«Non azzardarti a minacciare mia sorella,» lo avvertì Dehua, puntandogli
addosso la sua arma, mentre Sam e Ted facevano lo stesso.
«Fa attenzione, Abbadon,» disse Sam. «Non siamo nemici, ma non esiteremo a
proteggerci a vicenda.»
La cosa era andata avanti abbastanza a lungo. Schuyler si intromise tra gli altri
angeli, le braccia tese, così da costringerli ad abbassare le spade.
«Jack va tutto bene. Deming, anche se non mi conosci, sono sicura che
troveremo il modo per appianare le cose. C’è in gioco qualcosa molto più importante
di noi,» disse Schuyler. «Per favore. Se iniziamo a combattere tra noi, perderemo
tutto.»
Deming le lanciò uno sguardo torvo, ma Jack fece un passo indietro. «Hai
ragione, come sempre,» disse a Schuyler, guardandola in modo dolce. E rivolgendosi
ai suoi avversari, «Ti avverto, Kuan Yin, pretendo che tu tratti mia moglie col
massimo rispetto da oggi in poi. Ma mi scuso per averti intimidita.»
Le armi furono subito riposte, e le coppie riunite… Sam e Deming e Ted e
Dehua ritornarono istintivamente ai loro posti. Guardarono cautamente i nuovi
arrivati, insicuri sul da farsi.
«Bene allora,» continuò Jack, come se nulla fosse accaduto. «Se voi quattro
non siete qui per arruolarmi al servizio della Contessa, o portarmi da mia sorella per
la prova di sangue, perché ci avete teso un’imboscata?»
«Cerchiamo i Nephilim,» disse Deming. Puntò la spada verso Schuyler, e per
un istante sembrò che stesse per scoppiare un altro scontro. Ma disse semplicemente,
«La sua firma nel Glom è confusa, un misto tra divino ed umano, come la loro.
Pensavamo fosse una di loro.»
OTTO
Checkpoint Charlie
Traduttore: Cubbins
Oliver ricordò il viaggio al mojave. Fu una di quelle gite dell'ultimo momento. I suoi
genitori avevano degli amici che vivevano a Palm Springs, e i loro figli...un paio di
ragazzini californiani viziati, bohos del Brentwood con i capelli arruffati e giocattoli
costosi, gli avevano chiesto se volesse vedere la Death Valley con loro. Si era parlato
di cercare una città fantasma, e Oliver aveva preso l'occasione al volo, visto che
qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che stare seduto mentre gli adulti si ubriacavano
da Pimm's Cup parlando di tornei di tennis.
All'inizio pensò di aver commesso un errore. Le strade di terra lungo i canyon
erano inondate a causa di un temporale, e ciò che doveva essere una gita di due ore si
trasformò in un'odissea di otto simile ad un incubo. Fortunatamente, i suoi anfitrioni
si erano rivelati di buon cuore e predisposti all'avventura, anziché imbronciati e
irritati, e si erano divertiti a guidare attraverso l'immenso paesaggio desertico che
somigliava un po' alle fotografie che aveva visto della superficie della luna, solitario,
vuoto e singolare.
«È stata così la prima volta che sei stata qui?» chiese Oliver a Mimi mentre
sbirciava fuori dal finestrino impolverato.
«No. È sempre diverso. Penso che sia così perché ci sei tu con me. Prende
spunto da elementi della tua testa che sei in grado di gestire.»
Oliver armeggiò con il sintonizzatore sul cruscotto, ma l'unica musica era
Wagner.
«Le personalità,» disse Mimi. «Helda è un'appassionata. Dovresti riposare. Ci
metteremo un po' ad arrivare.»
«Da quanto siamo qua giù?»
«Il tempo non è lo stesso», spiegò Mimi. «Non come lo è là sopra. Negli inferi,
non c'è un passato o un futuro; solo il presente. Arriveremo quando arriveremo. È un
test di resistenza. Potremmo guidare in cerchio in eterno come punizione.»
«Buon Signore»
«Tipo sbagliato» Mimi fece un sorrisetto. «Ma tu non sei morto, e io non sono
umana, quindi penso che Helda stia solamente giocando con noi.»
«Chi è questa Helda di cui continui a parlare?»
«È come la dirigente del posto. L'ha chiamato come se stessa.»
«Giusto.»
Oliver fece una serie di riposini, ma dal momento che il tempo non era più un
elemento, era difficile dire come si sentiva. Era affamato? Aveva fatto una buona
colazione, ma il passaggio nel Glom gli aveva tolto tanto. Servivano il pranzo
all'inferno? Avrebbe dovuto prepararsi uno spuntino? Perché all'improvviso pensava
al cibo? Si sentiva stanco e confuso; dava l'impressione di un leggero jet lag, che lui
stava ancora combattendo. Sperava che Mimi sapesse dove stava andando.
Aveva accettato di andare con lei. Dopo il diploma, quando Mimi aveva sentito
che lui aveva rinviato la sua lettera di accettazione ad Harvard, gli aveva offerto un
posto come suo Conduit e lui aveva accettato. I suoi genitori avevano provato a
dissuaderlo, e volevano che tenesse il suo posto al Deposito, dove sarebbe stato al
sicuro. Ma gli impiegati erano interessati solo ad immagazzinare ed archiviare,
preparandosi ad un eventuale scioglimento della Congrega. Era scoraggiante. Non
sapeva cosa sarebbe successo se i vampiri fossero scesi sottoterra, e neanche i suoi
genitori sembravano saperlo. Unirsi a Mimi era sembrato il compito più avventuroso,
e lui voleva essere d'aiuto. Non voleva passare le ore a fare l'inventario.
Oliver si stava anche accorgendo che Mimi non sarebbe riuscita ad affrontare
la Reggenza da sola, e avrebbe avuto bisogno del pugno di ferro di Kingsley insieme
al suo per guidare la Congrega in fallimento. Oliver aveva preso sul serio il suo
compito da Conduit dei vampiri. Non avrebbe permesso che la Congrega fallisse, ed
era deciso ad onorare il suo dovere ai Sangue Blu, assicurandosi che Mimi avesse
tutto ciò di cui aveva bisogno per mantenere la Congrega al sicuro ed intatta, a
qualunque costo.
Inoltre, Mimi era un'amica. Erano arrivati ad un'intesa, e Oliver era sorpreso di
quanto andassero d'accordo. Aveva capito che sotto l'atteggiamento da principessa,
c'era una creatura anziana e pratica, e la rispettava. Quando lo invitò a scendere negli
inferi con lei, aveva colto l'occasione, per dovere, curiosità e l'intenzione di
assicurarsi che fosse al sicuro. Poteva anche essere il terribile Angelo della Morte, ma
anche Mimi aveva un cuore che si poteva spezzare, e Oliver non voleva che fosse da
sola se avesse fallito nel salvare Kingsley. Avrebbe avuto bisogno di un amico. Cosa
aveva da perdere lui? Aveva già perso Schuyler.
Tuttavia, guidarono per quelle che sembrarono ore. Per miglia e miglia alla
radio non ci fu altro che "La cavalcata delle Valchirie", che era definitivamente
diventata vecchia dopo l'ennesima riproduzione. Oliver riusciva a percepire la
crescente frustrazione di Mimi, e fu con sollievo che finalmente raggiunsero un
vecchio posto di controllo, una vecchia sbarra di legno sulla strada, dietro la quale
c'era un distributore.
Due uomini, o almeno ad Oliver erano sembrati tali, ma visti più da vicino non
lo erano affatto, parlarono con Mimi in una lingua che lui non comprese. Erano alti
almeno due metri e mezzo, e i loro corpi ingombranti erano coperti da pellicce
arruffate, mentre i lineamenti dei loro visi erano contorti, con grossi nasi e piccoli
occhi gialli e brillanti. Indossavano dolorosi collari fatti di filo spinato argentato.
Mimi fece degli strani suoni simili a grugniti. Dopo un attimo l'uomo si spostò
per parlare con il loro supervisore.
«Cosa sono loro?» sussurrò Oliver.
«Sono troll. Lavorano qua...per i demoni.»
«Brutte cose» sussultò Oliver. «Quei collari.»
«L'unica cosa che gli impedisce di attaccarci,» disse Mimi contrariata.
Questi collari avvolgevano stretti i colli dei troll, e schizzavano sangue ogni
volta che si muovevano. Oliver non poté far altro che provare disgusto e compassione
per quelle creature.
Si guardò in giro. «Quindi questa Helda che incontrerai...è un demone?»
«No.» Mimi scosse la testa. «È più che altro la loro...nonna.»
Oliver impallidì, e Mimi continuò a spiegare. «È una delle divinità. Di quelle
vecchie, prima che arrivassimo noi, come la strega che visitammo nel North
Hampton.»
«Ci sono molte cose che non so di questo mondo,» sussurrò Oliver.
I troll tornarono ed indicarono la stazione di servizio oltre il posto di controllo.
Mimi parcheggiò l'auto. «Aspetta qua,» disse.
«Con loro?» Oliver indietreggiò. Avrebbe voluto aprire il tettuccio, ma ormai
era troppo tardi. I troll lo annusarono, uno di loro piegandosi in avanti così tanto che
Oliver poteva sentire il suo caldo respiro sulle guance. «Umano,» disse all'altro in un
perfetto inglese.
«Vivo.» Annuì il suo amico con un sorriso malizioso.
«Lui è mio, bestia! Toccalo e assaporerai l'acciaio di Azrael,» intervenne
Mimi. I troll indietreggiarono, ma Oliver non era convinto di sentirsi piú al sicuro. Lo
stavano ancora guardando come se fosse la cena.
«Ti stanno solo prendendo in giro. Non mangiano carne,» lo assicurò. Mimi
omise "solo anime", ma Oliver non doveva saperlo e sembrava già terrorizzato.
«Smettila di essere così pappamolle. Troll, lasciatelo in pace.»
Mimi andò verso il piccolo ufficio nel retro del distributore. Non voleva dirlo
ad Oliver, ma l'interminabile viaggio l'aveva preoccupata. Temeva che fosse il segno
che Helda non l'avrebbe fatta passare per i livelli più bassi, e avrebbe dovuto
raggiungere i sette se voleva trovare Kinglsey. Un altro troll, una femmina feroce con
una chioma di bronzo, era di guardia sulla porta dell'ufficio di Helda. Indossava una
pesante fascia di ferro carica di proiettili, e aveva ciò che sembrava un AK-47.
Perquisì Mimi in cerca di armi. «Cos'è questo?» chiese con la mano sulla sua schiena.
Incredibile che il troll avesse trovato l'ago che Mimi teneva puntato al suo
reggiseno. «È la mia spada.»
«Dovrai lasciarla qui. Puoi riaverla quando finisci con Helda.»
Mimi l'assecondò e consegnò l'ago, tirandolo fuori da sotto la maglietta. «Posso
entrare ora?»
Il troll fece un cenno e aprì la porta.
Helda non sembrava contenta di vederla. La Regina dei Morti era un'anziana
donna vestita rigorosamente di nero con i capelli legati in uno chignon grigio e
stretto. Il suo viso era teso, rugoso e aveva le labbra fini e raggrinzite di un'eterna
fumatrice, così come gli occhi piccoli e brillanti di un giocatore d'azzardo che ha
speso il suo ultimo dollaro in un cavallo perdente. Non somigliava per niente alla
nipote del North Hampton. C'era qualcosa di perfido e antico in lei, come se avesse
visto il peggio del mondo e l'avesse semplicemente ignorato. Era seduta dietro una
scrivania piena di libri mastri, incassi, appunti spiegazzati e involucri strappati.
Sembrava la scrivania di un contabile stressato, che, pensandoci bene, era proprio ciò
che era Helda, da quando il Regno dei Morti era un po' come un'amministrazione che
collezionava anime al posto di tasse. «Sei tornata,» disse piattamente.
«Grazie a tua nipote,» disse Mimi.
«Quale?»
«Erda.»
«Che delusione. Erda è sempre stata la più intelligente. Freya lo farebbe solo
per indispettirmi.» Helda guardò Mimi con freddezza. Mimi pensò che Helda non
fosse diversa da quelle donne ricche che gestivano i comitati di volontariato e
provavano gusto nell'escludere gli scalatori sociali dal gruppo. «Quindi. Cosa cerchi
nel mio territorio, Azrael?»
«Sai cosa voglio. La stessa cosa che volevo l'ultima volta. Sono venuta per
recuperare un'anima da oltre l'Abisso.»
«È per Araquiel, vero? Vergognati. È stato una grande risorsa qua sotto; un
grande aiuto nel tenere i demoni in riga. Non c'è modo di dissuaderti dal tuo
obbiettivo?»
Mimi fece segno di no con la testa. Helda si aspettava che credesse a quelle
stronzate? Kinglsey stava soffrendo là sotto. Chissà quali torture e sofferenze avrà
sopportato. Non sapeva a che gioco stesse giocando Helda, ma decise di tenere la
bocca chiusa in modo d'avere il via libera per passare.
«Sei preparata questa volta. Hai il tuo scambio?»
«Ce l'ho,» disse Mimi, facendo cenno verso la finestra.
Helda vide Oliver che cercava di stare il più lontano possibile dai troll
cercando di non dare l'impressione che li stesse evitando. «Vedo,» sospirò. «Un
misero rimpiazzo umano in cambio dell'anima che mi vuoi portare via. Ma va bene.
Se riesci a convincere Araquiel a tornare con te, puoi averlo.»
NOVE
Sessione di Studio
Traduttore: Inkheart
L'indirizzo che l'assistente della galleria aveva lasciato nella sua segreteria telefonica
portò Allegra ad un magazzino vicino alla via dei supermercati. Prese uno
scricchiolante ascensore da fabbrica e salì fino al loft all'ultimo piano.
La notte scorsa aveva passato il tempo che restava della festa ricordando i
tempi delle scuole superiori con i suoi vecchi amici, molti dei quali stavano
cominciando la loro vita nel mondo: banche d'investimento nuove di zecca e studenti
di legge, una manciata di assistenti personali della televisione e club dei giornalisti,
insieme ad un'assistente di moda e i sedicenti signori e signore del tempo libero che
avevano ricevuto la loro eredità ed erano pronti a passare la loro vita nei circuiti
sociali. Le loro vite erano una successone di feste e beneficienze e festival; una massa
di gente altolocata che frequentava Wimbledon, Art Basel, ed il Venezia Film
Festival. I suoi amici ammirarono il suo nuovo taglio di capelli e vollero sapere il
perché del suo allontanamento dalle loro vite senza spiegazioni. Le persone come
Allegra non avrebbero dovuto fare cose così sgradevoli. Il loro restare in contatto per
abitudine raccontandosi sempre i gloriosi giorni di quando qualcuno era stato
un’attaccabrighe alla St. Paul o all’Endicott. Lei si scusò molto e promise di invitarli
tutti a casa sua, a New York, una volta che avessero finito la restaurazione della loro
casa nella Quinta Strada, dove lei e Charles avrebbero dovuto vivere una volta legati.
L'ascensore si aprì proprio dentro lo studio di Ben. «C'è nessuno?»
«Avanti!» chiamò Ben. Si incamminò e lo trovò in piedi di fronte ad un grande
dipinto, a strofinarsi le mani con uno straccio umido. «Sei qui, » disse lui, come se
non riuscisse a crederci. Lanciò lo straccio e si passò le mani sui jeans. Era sorpresa
di scoprire che fosse nervoso. Non aveva più la spigliata nonchalance che aveva
dimostrato la sera prima.
«Mi hai invitata tu.»
«Non ero sicuro che saresti venuta,» ammise.
«Beh, ora sono qui.» Fece un sorriso incerto. Non riusciva a capire come mai si
stesse comportando in modo così strano. L'aveva per caso frainteso? L'aveva invitata
e vedere lo studio, e lei aveva pensato che fosse un invito sincero, non una di quelle
cose casuali ed educate che la gente si dice alle cene. Era l'ennesimo errore? Quella
mattina si era svegliata eccitata alla prospettiva di vederlo di nuovo, sperando di
trovarlo solo. Rimasero a guardarsi così a lungo che Allegra alla fine pensò che stesse
diventando sgarbato. «Beh, hai intenzione di mostrarmi i tuoi lavori?»
Ben arrossì. «Scusa, sembra che mi sia dimenticato le buone maniere. Prego,
fai pure.»
Allegra camminò per la stanza. Lo studio era un grande loft dipinto di bianco
con finestre grandi dal pavimento al soffitto che davano sulla baia. C'erano pittura e
pennelli ovunque, e teli di plastica sul pavimento. L'odore oleoso del gesso riempiva
l'aria.
«Scusa, è un po' disordinato,» disse.
Lei annuì, insicura su cosa dire. Il loft era pieno di tele di ogni misura, alcune
alte più di due metri e larghe tre. C'erano anche dipinti più piccoli appoggiati sui
cavalletti o appesi al muro. Alcuni erano incorniciati e rivestiti dalla plastica. Mentre
Allegra si guardava intorno, notò un tema presente in ogni suo lavoro. Ogni dipinto dall'affresco che mostrava una ragazza addormentata in un letto, come una moderna
odalisca, ai più piccoli, che erano come quello che aveva comprato lei - ogni dipinto
nello studio era un ritratto di lei.
Camminò attraverso lo spazio, studiando i dipinti ed i disegni in un silenzio
completamente scioccato. Ben la seguì ammutolito, aspettando di sentire la sua
reazione. Per ora, non ne aveva avuta nessuna. Stava semplicemente processando le
informazioni che le aveva dato. I dipinti mostravano la loro breve storia d'amore:
Allegra nel letto, con indosso la canottiera bianca; Allegra nel bosco, la sera della sua
iniziazione ai Peithologians, “una società segreta di poeti ed avventurieri,” che
significa che si ubriacavano nella foresta dopo il coprifuoco; Allegra che tiene un
manuale di latino, ridendo per quanto poco sapesse di quella lingua; Allegra nuda,
con le spalle rivolte all'osservatore. C'era un piccolo dipinto scuro, tutto nero ad
eccezione dei brillanti capelli biondi e delle zanne di avorio. Allegra la principessa
vampira.
Ora aveva capito. Lo spensierato e giocoso artista erede-della-città che era stato
la sera prima era tutta finzione. I baci da famiglio lo avevano segnato, lo avevano
cambiato, e per riuscire a convivere con il suo abbandono, le aveva creato un
santuario. Questi ricordi ossessivi di ogni momento della loro relazione era il suo
modo di tenerla vicina a se. L'aveva dipinta ancora ed ancora per far si che non la
dimenticasse mai. Era tutto li, il suo amore ed il suo bisogno di lei. Questo era il suo
vero cuore, aperto ed esposto e sanguinante.
Ora capiva cosa intendeva sua madre quando le aveva detto, “Sei la ragazza dei
dipinti.” Decca Chase era preoccupata per il suo ragazzo, ed aveva pensato che
magari, avvicinandolo ad Allegra, sarebbe riuscito a trovare un modo per stare con lei
o per superarla. Donna intelligente.
Ben strascicò i piedi, la sua faccia si stava lentamente tingendo di una sfumatura di
cremisi. Lui deglutì. «Beh, che ne pensi?»
«Mi dispiace averti lasciato,» disse Allegra lentamente, incapace di incontrare i
suoi occhi. «Sono così dispiaciuta di essere scomparsa quella notte. Tu non capisci.
Io non sono libera…. Non posso scegliere chi amare. Devi dimenticarmi…. É meglio
per tutti. Per te.»
Ben si accigliò. «No… no… non capisci.»
Ma Allegra era già all'ascensore, e questa volta non sarebbe tornata. Aveva
sbagliato nel cercare di tirarlo fuori, nel mettere il suo stesso futuro a rischio, e non lo
avrebbe fatto di nuovo.
A volte era meglio tenere il vaso di Pandora chiuso.
DIECI
La Città dei Morti
Traduttore: Ella
Fu solo quando i Venator si rilassarono che Schuyler notò l’ambiente circostante. Si
trovavano dentro una piccola stanza di pietra, e non ne era sicura, ma sembrava come
se gli scaffali fossero stati ricavati da lapidi, e che due lapidi scolpite ornamentali
formassero il tavolo.
«Siamo dove penso che siamo?» chiese.
Sam annuì, scusandosi per l’odore, e spiegò perché vivevano in un mausoleo,
chiamato la Città dei Morti dagli abitanti del luogo. Erano nella parte più a est della
città, in una necropoli che serviva come casa per le persone i cui antenati erano stati
seppelliti nelle catacombe del seminterrato, o per coloro che erano stati mandati via
con la forza dalle affollate aree del Cairo, incapaci di permettersi degli appartamenti.
C’erano ovunque da trentamila a un milione di persone che vivevano tra i morti,
spiegò Sam. I cimiteri erano equipaggiati con un sistema fognario e idrico minimo,
mentre cavi elettrici connessi alle moschee vicine provvedevano alla luce e al
riscaldamento. Da quando le tombe erano state costruite per permettere il tradizionale
periodo di lutto, quando le persone rimanevano al cimitero con i loro defunti per i
quaranta giorni e notti richiesti, vivere in essi era una normale conseguenza se non vi
erano altre opzioni.
«Abbiamo ottenuto un vantaggio su una comunità Nephilim a Tehran.
L’abbiamo abbattuta, lo stesso con una a Tripoli, poi siamo venuti qui quando
abbiamo sentito dei pettegolezzi riguardo delle ragazze scomparse dalla Città dei
Morti.» Spiegò che le scomparse e i rapimenti non erano conformi ai crimini tipici
dei Sangue Rosso. C’era un aspetto sistemico, perfino rituale per loro che aveva
suscitato l’interesse dei Venator. «C’era dappertutto la scritta nato-all’inferno, così ci
siamo accampati qui per essere vicini al bersaglio.»
«La scorsa settimana abbiamo assalito la loro tana e li abbiamo presi tutti, ad
eccezione di uno che è fuggito.» Disse loro Deming.
«Hai pensato fossi io.» Disse Schuyler.
Deming annuì. «Si.» Lei non si scusò per l’errore. Raccontò gli eventi a New
York, come aveva catturato il Nephilim che era stato dietro ai vampiri.
«Così è come avevamo sospettato.» Disse Schuyler, riprendendo fiato alla
notizia. «Questo andrà avanti per un po’ di tempo adesso.» Disse loro quello che
avevano scoperto a Firenze, e confermò ciò che i Venator già sapevano riguardo i
sanguinosi lavori dei preti Petruviani, che cacciavano e uccidevano le donne umane
che venivano prese dai Croatan, insieme con i loro figli. «La ragazza che è stata presa
aveva un segno: un intreccio di tre cerchi che contengono il sigillo di Lucifero, una
pecora, e il simbolo per l’unione dei Sangue Blu.»
«Paul, il Nephilim di New York, portava lo stesso simbolo sul braccio.» Disse
Deming, «Sembrava più un segno di nascita che un tatuaggio. Tutti i Nephilim ne
portano uno sul corpo.»
«Ma non sono nati cattivi.» disse Schuyler, «Queste donne e bambini sono
vittime di un crimine malvagio; sono innocenti.»
«Non so quanto sia innocente,» sostenne Deming, «Paul Rayburn ha preso due
vite immortali. Chi sa quanti altri vampiri ha ucciso negli anni.»
«Così questi Petruviani… questi preti assassini credono di fare il lavoro di
Dio,» disse Sam, «Non ho mai sentito di loro finché Deming non ci ha riferito quello
che ha detto quel bastardo, e scommetto che è la stessa cosa anche nelle Congreghe, il
che significa che non fanno parte della storia ufficiale. Come può essere?» chiese al
suo ex comandante.
«Non lo so.» si accigliò Jack, «Non facevo parte dell’Ordine dei Sette e non
sono al corrente di decisioni prese a quel tempo.»
«In ogni caso, la pulizia dei Petruviani va contro ogni cosa nel Codice dei
Vampiri, che impone la tutela della vita umana.» Sostenne Schuyler.
«I Nephilim non sono umani.» Disse Deming, «Ho le cicatrici che lo provano.» Alzò
la manica per mostrare i segni bianchi che portava per aver combattuto i loro nemici.
«Qualcuno ha visto i rapporti dei Venator per quest’area?» Chiese Jack, «Ho
cercato di trovare gli uffici del conclave locale, ma nessuno mi ha voluto dire dove
sono collocati.»
Sam scosse la testa. «La Congrega qui si tiene in piedi a malapena. Molti dei
suoi membri sono stati brutalmente uccisi, bruciati, non solo i più giovani ma anche i
più anziani. C’è stato un attacco alla Torre del Cairo lo scorso mese, il loro quartier
generale. Per questo non hai potuto trovarli, erano pronti ad andare sotto terra. È così
ovunque. La nostra specie si sta ritirando, tornano nell’ombra.»
«Quali sono le ultime notizie da New York?» Volle sapere Jack.
Deming e Sam si scambiarono un’occhiata. «La Reggente è scomparsa e
presumibilmente ha portato con se le chiavi del Deposito, per trattenere la Congrega
dallo scioglimento. Nessuno sa dove è andata. Ma senza tua sorella, New York non
durerà molto a lungo.» Disse Deming.
Così. Mimi era la Reggente. Oliver aveva detto la verità. Schuyler guardò Jack
elaborare questa informazione. Lei pensò di sapere cosa stesse pensando, che sarebbe
dovuto stare con Mimi; che senza i gemelli, la Congrega non aveva nessuno.
«Pensiamo che Azrael sia venuta dopo di te.» Disse Ted a Jack, «Per la prova
del sangue, quando non sei tornato a New York.»
«Non abbiamo visto Mimi,» Disse Schuyler, «Non ancora, comunque.»
«Cosa stavate facendo al Cairo?»
Schuyler stette attenta a non rivelare l’esatta ragione del loro viaggio.
«Stavamo cercando qualcuno. Catherine di Siena, un’amica di mio nonno. Jack aveva
sentito di una santa donna di nome Zani, che abbiamo pensato potesse essere lei. Uno
dei suoi seguaci avrebbe dovuto incontrarci al mercato e portarci da lei. Voi ragazzi
dovete averlo spaventato. Sapete dove possiamo trovarla?»
«Il nome mi suona, dove lo abbiamo sentito prima?» Chiese Sam.
«È il nome di una sacerdotessa del tempio di Anubi,» Disse Deming, «Dove
sono scomparse le ragazze.»
UNDICI
Le nozze bianche
Traduttore: Medea Knight
«Dove dobbiamo andare ora? C’è una mappa?» chiese Oliver.
Quando vide l’espressione di Mimi, si pentì di averlo chiesto. «Ok, prometto di
smetterla con le domande stupide. Era solo per fare conversazione.»
«Ci sarà un secondo posto di blocco o cose del genere,» spiegò Mimi. Stavano
ancora attraversando il deserto, ma dopo qualche miglia, Oliver notò che la strada era
diventata una spiaggia e si vedevano le onde blu di un oceano, con la brezza che
spirava. Stavano scendendo ancora di più nell’Inferno, ma le cose miglioravano
anziché peggiorare. Mimi continuò a guidare finché non raggiunsero un elegante
hotel sulla spiaggia.
«Sto forse sognando? Sembra il vigneto di Martha,» disse Oliver. Riconobbe
l’hotel. Era famoso sull’isola. Quasi si aspettava che ne uscissero fuori dei teenager
ubriachi con indosso t-shirt Black Dog.
Mimi entrò nel parcheggio e si guardò intorno con un’aria di attesa. Quando
non arrivò nessuno per farla parcheggiare, fece un sospiro. «All’Inferno non ci sono
parcheggiatori?» chiese, cominciando a parcheggiare da sola.
Oliver rise sommessamente. «Non somiglia a Vineyard? Che posto è questo?»
«Lo scopriremo presto,» disse Mimi. Uscirono dall’auto e si avvicinarono
all’entrata del Resort. Mentre un quartetto d’archi allietava l’ambiente, comparve una
cameriera in camicia bianchissima e pantaloni neri, con dello champagne. «La festa è
nel retro. Unitevi a noi.»
Oliver prese un bicchiere. Lo champagne aveva un odore delizioso… burroso e
frizzante, al gusto di mela e fragole e retrogusto muschiato di qualcosa di terroso, ma
buono. Non si sorprese del fatto che tutt’a un tratto indossasse un vestito kaki e una tshirt bianca aderente, mentre Mimi indossava un vestito di lino e dei sandali, con
tanto di fiori nei capelli. «Se la vita nell’oltretomba è questa, non mi pare così male,»
disse, facendo un brindisi con Mimi.
«Questo è ciò che pensi tu, ovviamente,» disse Mimi, roteando gli occhi al
cielo. «Ma aspetta di vedere il Paradiso.»
«E com’è il Paradiso?»
«È passato così tanto tempo che non me lo ricordo più. Era semplicemente…
diverso. Tranquillo,» disse con nostalgia.
«Noioso.»
«No. Non era noioso. È ovvio che la gente pensi che sia noioso, ma non lo è. È
come il giorno migliore della tua vita, ma vissuto per tutta la vita,» disse Mimi.
«Comunque, pare che siamo qui per una specie di matrimonio.» Seguirono la folla
nel retro dell’hotel, sulla spiaggia, dove videro delle sedie pieghevoli di legno
bianche e un corridoio di sabbia che portava ad un traliccio decorato da fiori. Gli
ospiti erano un mucchio di gente del New England, con le loro tipiche facce
arrossate… gli uomini indossavano il seersucker e le donne dei modesti abiti eleganti.
I bambini si rincorrevano tra le bolle di sapone. C’era una bella aria di festa e non
faceva molto caldo.
Eppure c’era qualcosa di vagamente familiare in quella scena, che sembrava
troppo simile a qualcosa che Oliver non voleva ammettere di aver vissuto. Ma non
fece nemmeno in tempo a bere un sorso dal suo bicchiere. «Di chi è questo
matrimonio?» disse, digrignando i denti, mentre il quartetto cominciava a suonare
“All Things Bright and Beautiful”, il suo inno preferito.
«Il nostro, naturalmente.» Comparve una ragazza al suo fianco. Era la copia
esatta di Schuyler. Aveva i suoi stessi lunghi capelli scuri e occhi azzurri e indossava
il vestito della cerimonia del legame, quello di seta blu chiaro che le scendeva dalle
spalle. Aveva le solite lentiggini che le venivano sempre durante l’estate, quando
stavano insieme su quella spiaggia.
Oliver non sapeva cosa fare o dove guardare. Stava avvampando e si sentiva
come se il suo cuore fosse stato esposto al pubblico solo per farlo umiliare e spezzare
da tutti.
«Ollie, c’è qualcosa che non va?» sembrava Schuyler e parlava anche come lei.
Cos’era questa… chi era questa persona? Un vero miraggio. Chissà che stregoneria
aveva creato questa sosia, pensò Oliver, mentre tentava di allontanarsi da lei. Dov’era
finita Mimi? Si guardò intorno come un pazzo, ma non riuscì a trovarla. La falsa Sky
gli prese il braccio e lo intrecciò al suo, proprio come faceva lei, poggiando la testa
sulla sua spalla.
«Mi sei mancato,» disse.
«Anche tu,» rispose Oliver, senza nemmeno pensarci.
«Sono così contenta che sei qui,» gli sussurrò lei.
Si rimangiò le parole dette. Questo era davvero l’Inferno. In quel momento
aveva capito esattamente dove si trovasse e cosa fosse quella scena. Era il suo
desiderio più profondo, che aveva seppellito nel suo cuore in modo da poterne gioire
con la sua più cara amica nel suo giorno speciale. Vedere quel sogno diventare realtà
in modo così spietato lo costrinse ad ammettere che, nonostante fosse guarito e non
stesse più male per lei, nonostante non fosse più né un suo demone familiare né un
Conduit, ma solo un amico, lui l’amava ancora e l’avrebbe sempre amata.
Come poteva provare amore e desiderio, ma non sentire dolore? Freya, la
strega che aveva incontrato nel Villaggio dell’Est, aveva cancellato dal suo sangue il
marchio da famiglio, ma il suo cuore avrebbe sempre ricordato e desiderato lei.
Sapeva che avrebbe amato Schuyler Van Alen fino alla fine dei suoi giorni.
«Non odiarmi, ma non credo di poterlo fare. Amo Jack. Davvero. Ma dopo
averti visto oggi… Ollie… mi dispiace tanto.» La sosia di Schuyler lo guardò negli
occhi e per un attimo gli mancò il respiro.
«Per cosa?» chiese, realizzando solo in quel momento di stare rivivendo la
conversazione avuta con lei la sera prima del suo Legame… ma la conversazione
stava prendendo una piega diversa e lui sapeva esattamente ciò che lei avrebbe detto,
ancor prima che lei lo dicesse, perché erano le parole che lui avrebbe voluto sentirsi
dire.
«Per aver fatto lo sbaglio più grande della mia vita,» disse con voce roca,
stringendo ancora di più il braccio di lui, che riusciva persino a sentire il suo
profumo. Aveva iniziato a metterlo solo poco tempo prima, gli spiegò poi. Era una
fragranza creata appositamente per Caterina De’ Medici, quando aveva comprato il
Convento di Santa Maria Novella.
«Non farlo,» disse con voce rotta, toccandosi il colletto, perché gli sembrava di
nuovo di non poter respirare. «Non fare così. Tu non sei Sky. Lasciami in pace.»
«No, devi ascoltare,» disse lei, con la bocca incollata al suo orecchio. Riusciva
a sentire il morbido respiro di lei mentre gli sussurrava le parole che sognava di
sentirsi dire quel bel giorno di dicembre in Italia. «Non avrei mai dovuto andarmene.
Ti amo. Ti amo più di prima.»
Poi lo baciò e quelle erano le labbra di Schuyler, l’odore di Schuyler, i capelli
setosi e soffici di Schuyler e sapeva che quando lei si sarebbe voltata avrebbe visto un
neo tra le sue scapole, proprio come quello che aveva Schuyler. Era davvero
Schuyler, ricambiava il suo amore e Oliver non capiva perché dovesse fingere di non
volerlo, di non volere lei o ciò che stava accadendo in quell’esatto momento.
DODICI
Servizio di sangue
Traduttore: DustAngel
«Charles! Se rientrato presto» esclamò Allegra quando tornò nell’appartamento. Non
si aspettava di vederlo e, mentre si liberava di sciarpa e cappotto, sperò non notasse
che le tremavano le mani.
«Abbiamo finito prima del previsto.» Gli occhi gli si illuminarono nel vederla entrare
nella stanza. «Dove sei stata?»
«A vedere dei quadri» rispose. Dal momento che potevano leggere l’uno nel pensiero
dell’altra, almeno fino a un certo punto, era piuttosto semplice costruire bugie con
mezze verità.
«Hai comprato qualcos’altro?» Sapeva dell’acquisto del giorno prima, ma non
conosceva il nome dell’artista né il soggetto del dipinto.
«Oggi no.»
«Sono contento che ti interessi di nuovo all’arte» disse, sorridendole amorevolmente.
Charles era cresciuto parecchio negli ultimi anni, sviluppandosi nel pieno della sua
altezza. Finalmente, si era liberato della formalità impacciata e della rigidità che lo
avevano caratterizzato da adolescente. Ora, si muoveva con grazia e sicurezza.
All’età di ventuno anni, aveva preso possesso del considerevole fondo fiduciario dei
Van Alen, che costituiva il grosso della loro eredità; parlava di fondare una società di
media e di voler fare la differenza nel mondo. Eletto di recente da una rivista molto in
voga come uno dei migliori scapoli d’oro di New York, Charles Van Alen era
bellissimo e non passava certo inosservato, con i suoi capelli neri dai riflessi bluastri
e i lineamenti decisi degli antichi romani. Non possedeva la cordialità affabile di
Benedix Chase, mostrava piuttosto una benevolenza regale che gli aveva fatto
guadagnare rispetto e timore anche al di fuori della comunità vampirica.
Batté la mano sullo spazio del divano al suo fianco e Allegra gli si rannicchio
accanto, il suo braccio a circondarle le spalle. Erano fatti l’uno per l’altra, lo erano
sempre stati, solo che in questa vita le c’era voluto troppo tempo per capirlo. Iniziò a
rilassarsi, sentendo che l’angoscia per le rivelazioni di quel giorno scivolava via in
sua presenza. Quello che era successo con Ben era stato un errore fin dal principio,
una cotta adolescenziale che non meritava la sua attenzione. Le dispiaceva per Ben,
naturalmente. Era dura portare il marchio dei famigli, ma lui sarebbe stato bene,
aveva denaro e comodità e, con il tempo, si sarebbe dimenticato di lei. Se soltanto
non fosse entrata in quella galleria…
«Tutto a posto con gli Anziani?» gli chiese. «Che volevano?»
Un’ombra scura passò sul volto di Charles, ma andò via prima che Allegra se ne
accorgesse. «I soliti problemi con la Trasformazione. Non riesco ancora a capire
perché vogliano che resti qui. Stanno solo sprecando il mio tempo.»
«Mr Van Alen? La sua auto è arrivata.» Disse il maggiordomo, che era entrato nella
stanza senza fare il minimo rumore.
«Stai uscendo?» domandò Allegra, allontanandosi da lui. Charles sapeva che quella
sera era impegnata con le sue ex compagne di squadra di hockey, perciò era logico
che si fosse organizzato di conseguenza. «Dede, non è vero?»
Lui annuì. Aveva iniziato a tenere dei famigli, per questo appariva vigoroso, ricolmo
di sangue e di vita, di potere e invincibilità. In qualità di leader della Congrega, gli
erano concessi alcuni privilegi, così aveva un entourage di famigli in ogni città, una
ragazza in ogni porto. Era generoso con loro, le colmava di regali, attenzioni e, di
tanto in tanto, di qualche gingillo di Cartier o Buccellati. Allegra aveva visto gli
scontrini, era lei a pagarli: un orologio da polso d’oro rosa con un castone di
diamante, il suo peso rassicurante; bracciali scintillanti finemente decorati con zaffiri
e smeraldi; delicati orecchini a petalo di Van Cleef.
«Le è piaciuto l’orologio che le hai regalato per il suo compleanno?» gli chiese,
riflettendo sul fatto che un oggetto costato trentamila dollari era un regalo
estremamente generoso. Eppure, i Sangue Rosso davano loro qualcosa di
infinitamente più prezioso.
Charles sembrò preoccupato dalla durezza del suo tono. «Non puoi essere gelosa,
Allegra.» La sua voce aveva un’intonazione confusa, come se lei avesse cambiato le
regole del gioco.
«Non lo sono,» rispose lei, rivolgendogli un sorriso sereno e allungando una mano
per scompigliargli i capelli. Era così che andavano le cose. Il modo in cui erano
sempre andate. Il modo dei Sangue Blu. C’era il legame, e poi c’erano i famigli
umani. L’uno forniva cibo per l’anima, gli altri nutrivano il sangue immortale.
Charles le posò una mano calda sul viso. «Sei pallida e fredda,» disse, sfregandole la
guancia. «Hai bisogno di dare un morso. E non alla cena.»
«Lo so.» Disse chinando il capo. Aleggiava tra loro un disaccordo inespresso. Sapeva
che a Charles non piaceva il fatto che non avesse preso nessun altro famiglio da quel
primo, fatale disastro al liceo. Non avevano mai parlato di Ben, ma lei sapeva che
Charles sarebbe stato sollevato, una volta che si fosse scelta un nuovo famiglio.
Aveva rimandato, esitato, timorosa di innamorarsi ancora una volta della persona
sbagliata; una paura del tutto infondata, senza dubbio. Nelle sue numerose vite, aveva
avuto migliaia di famigli umani e aveva fatto un errore solo quell’unica volta. C’era
un’altra ragione, naturalmente, una ragione che non voleva ammettere neppure con se
stessa, ma non voleva dimenticare Ben e, se avesse bevuto il sangue di un altro, parte
del ricordo del loro legame sarebbe stato spazzato via.
Charles si accigliò. «Se non vuoi affrontare il problema, c’è pur sempre il servizio.
Lascia che i Condotti si prendano cura di te. Ti sentirai molto meglio.»
Allegra annuì. Quando i loro famigli non erano disponibili o non c’erano più, i
Sangue Blu potevano avvalersi del servizio di sangue fornito dai Condotti: umani
nascosti venivano offerti ai vampiri secondo il loro gusto. Il servizio non aveva lo
squallore delle case del sangue; si trattava di transazioni distaccate, non tanto diverse
dall’ordinare una bistecca con il servizio in camera. «Ci penserò,» promise.
Charles le diede un bacio sulla fronte. «Lo so che sei ancora preoccupata per quello
che è accaduto l’ultima volta, ma devi guardare avanti.»
Non c’erano segreti tra di loro. Non più. Charles sapeva che si era innamorata di Ben,
che la relazione con il suo famiglio umano aveva quasi messo a rischio tutto quanto,
incluso il legame sul quale si fondava la Congrega, che li teneva uniti l’uno all’altra e
alla terra. Che lui l’avesse perdonata, che l’amasse ancora, era qualcosa con cui
Allegra avrebbe dovuto convivere ogni giorno.
Si abbandonò sul divano, sollevata di avere lasciato in tutta fretta lo studio di Ben.
Non aveva avuto la tentazione di restare. Era a casa e al sicuro. Avrebbe incontrato le
sue amiche per una cena veloce e poi, forse, avrebbe telefonato al servizio, come le
aveva suggerito Charles. Era giunto il momento.
«Bene. Mettilo sul mio conto,» disse Charles. Le aveva letto nel pensiero, come al
solito.
Quando Allegra rientrò dalla serata movimentata con le sue ex compagne di squadra,
trovò un cartoncino sul proprio comodino. Era un biglietto da visita con il nome del
servizio e un numero di telefono. Era certa che i Condotti le avrebbero procurato un
buon famiglio, magari uno che in seguito avrebbe potuto seguirla a New York.
Afferrò il telefono, pronta a comporre il numero, quando sentì un colpetto alla porta e
si materializzò il maggiordomo. «È arrivata una lettera per lei, miss Van Alen.»
Allegra aprì la busta. Dentro, trovò un messaggio scarabocchiato in tutta fretta su un
biglietto che recava stampate in oro le seguenti iniziali. SBC. Stephen Benedix Chase.
Incontriamoci nella stanza Redwood al Clift. Per favore.
È importante.
Ben
TREDICI
La sede del ciclo
Traduttore: Sherm
Qualche giorno dopo l'incontro con i Venator, Jack ritornò da un'escursione con delle
notizie alquanto preoccupanti. L'umano Conduit Alastair Robertson, che aveva
raccontato a Jack della santa che poteva essere Caterina da Siena, era stato trovato
morto in casa sua. La polizia dei Sangue Rosso era convinta che fosse una casualità,
una rapina andata male. Ma con i Nephilim in giro e la Congrega nel pieno caos, Jack
la pensava diversamente. Si alleò con i gemelli Lennox per rintracciare una pista a
Gezira, un'isola dall'altra parte del Nilo, una volta appurato che il fango trovato sulla
scena del crimine conteneva tracce di argilla rossa proveniente dalla sponda
settentrionale del fiume.
E senza Jack nei paraggi, Schuyler era l'unica persona presente nella loro
stanza d'hotel nel momento in cui Dehua Chen entrò bruscamente dalla porta.
L'Angelo dell'Immortalità sembrava stranamente sconvolta. Una manica della sua
camicetta era strappata e il suo volto era pieno di graffi.
«Cos'è successo?» chiese Schuyler, alzandosi all'istante e raggiungendo la sua
arma.
«La sede del ciclo del Cairo è sotto attacco... quel Nephilim che era riuscito a
scappare è tornato con un paio di nuovi amici» ansimò, «i ragazzi non riusciranno a
tornare in tempo. Deming sta lottando contro di loro, ma presto verrà sopraffatta.
Sono arrivata qui il più velocemente possibile. Vieni. Aiutaci.»
Schuyler seguì Dehua mentre correvano tra le strade tortuose del Cairo,
impersonando un confuso insieme di seta nera e di acciaio argentato. La sede del
ciclo si trovava nella cittadella, un antico complesso costruito su di una scarpata che
svettava sul confine orientale della città. Costruita da Saladin per allontanare i
Crociati, predominava tutto il panorama fino all'orizzonte. La sede del ciclo era sotto
attacco! Il Nephilim era davvero deciso a vendicarsi se stava inseguendo gli spiriti
non ancora rinati dei Sangue Blu che erano conservati lì. Se non ci fossero stati gli
spiriti di sangue non ci sarebbero state più nascite per questa Congrega.
Dehua guidò Schuyler attraverso i sentieri che conducevano alle stanze
segrete. La Venator spiegò che avevano ricevuto una richiesta di soccorso per
un'emergenza grave dai Guardiani della Cittadella. Quando Schuyler e Dehua
arrivarono, i vampiri che lavoravano per l'Archivio erano già morti, e un gruppo
molto accanito di Venator egiziani stava combattendo contro un'armata di Nephilim. I
mezzi-demoni stavano portando delle torce che bruciavano di Fuoco Nero, ma finora
non erano comunque riuscite ad entrare nella sagrestia, dove venivano tenuti i
contenitori degli spiriti di sangue.
Il caldo era opprimente e il fumo nero ricopriva tutto il corridoio. Dehua si
fece strada fino all'anticamera. «Oh no» urlò, mentre lei e Schuyler scavalcavano i
corpi decaduti dei Venator morti, i cui cadaveri erano stati fatti a pezzi o decapitati,
con gli occhi bruciati o cavati via. La porta della sagrestia era stata spalancata e
Schuyler aveva paura di essere arrivata troppo tardi per salvare qualcuno,
specialmente loro stesse.
Deming era circondata da uno sciame di Nephilim. Stava contrattaccando, ma
si stavano avvicinando uno alla volta. Mentre colpiva i nemici con la sua spada,
teneva un vaso dorato sotto un braccio. «NEXI INFEDELI! » urlò. Morte agli
infedeli! Morte ai traditori!
Il Nephilim urlò, e la loro furia riempì la nebbiosa stanza nera. Ce n'erano
dieci, venti, trenta e attaccavano Deming, infuriati, come scarafaggi in delirio. Presto
Schuyler non avrebbe più potuto vedere la coraggiosa Venator cinese o la sua spada
dorata.
«Santo cielo, ce ne sono troppi» urlò Dehua, mettendosi in ginocchio. «Non
ce la faremo! Deming!» pianse.
Schuyler la trattenne. «Cerca di calmarti!» ordinò alla già agitata Venator.
Desiderava che Jack fosse lì, ma visto che non c'era, avrebbe dovuto farsi coraggio
per tutti loro. Abbadon non avrebbe mai permesso che gli spiriti non ancora rinati
morissero. Non avrebbe rinunciato alla sede del ciclo. Sarebbe morto difendendola, e
così avrebbe fatto anche lei.
Non avevano molto tempo, il fumo del Fuoco Nero stava inghiottendo la
stanza, e Schuyler doveva strizzare gli occhi per vedere qualcosa e cercare di non
respirare. Dovevano uscire il più velocemente possibile. Non era stata addestrata al
combattimento, ma era leggera e veloce, e se lei e Dehua avessero collaborato,
potevano prendere alla sprovvista i loro nemici. «Tu vai da quella parte, io andrò
all'ingresso.»
La Venator affranta annuì, si asciugò le lacrime e sguainò la spada. Si divisero
e avanzarono lentamente verso le rispettive destinazioni.
Quando furono pronte, Schuyler alzò la spada di Gabrielle e accolse la folla
dei Venator.
«MORTE! MORTE! MORTE AGLI INFEDELI! MORTE AI MISCREDENTI!»
Dehua si unì all'urlo di battaglia dei Sangue Blu insieme a Schuyler. Erano
angeli e guerrieri, e se fossero cadute, sarebbero morte combattendo. Non c'era
alternativa. In un colpo solo, si fecero strada attraverso la numerosa, oscura folla.
QUATTORDICI
Sosia
Traduttore: Sherm
Mentre faceva un giro per la festa, Mimi si tolse i sandali, assaporando la sensazione
della sabbia sui piedi nudi. Non sapeva dove era andato Oliver, e pensò che avrebbe
dovuto cominciare a cercarlo molto presto, in caso si fosse cacciato in qualche guaio.
Per quanto ne sapeva, erano arrivati ad un piacevole matrimonio del New England
perfettamente nella norma. Era un luogo ambiguo per la loro ricerca, ma quando notò
che un certo gentiluomo dai capelli scuri vestito con un completo su misura di lino si
stava facendo strada verso di lei, improvvisamente capì cosa stava succedendo.
«Mimi» disse l'uomo, con quel sorriso malizioso che si ricordava così bene.
Per un secondo il suo cuore fece i salti di gioia alla sua vista – il suo amore
era ritornato da lei – ma si fermò presto, non appena lo guardò negli occhi. «Non
sono stupida. So cosa sta succedendo. Non sei lui» rispose lei seccamente. Le sue
parole erano più forti delle sue intenzioni, in ogni caso, perché era un'ottima
imitazione. Il ragazzo che le stava accanto aveva quell'insieme di capelli e occhi scuri
ricolmi di malizia che aveva anche Kingsley. Aveva persino lo stesso odore di
Kingsley, sigarette e whiskey, zucchero bruciato e caffè, e quella combinazione
accelerò il battito cardiaco di Mimi. Vedere quest'accoppiata era doloroso. Le
ricordava solo quanto tempo era passato dall'ultima volta che aveva visto il vero
Kingsley. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che l'aveva stretta fra le sue
braccia robuste. Quanto tempo era passato da quando l'aveva provocata e persuasa a
sorridere.
«Come fai a saperlo? Sei venuta fino a qui per me. Beh, eccomi» disse con
quel familiare, provocante sorriso. «Come stai?»
«Io sono di qui, ricordi? Questo giochetto non funzionerà con me.»
«A proposito di giocare, so quanto ti piacevano i nostri piccoli giochetti»
disse lui, prendendo la sua mano e accarezzandone il palmo. Quando la toccò, ebbe
come un flashback di un ricordo, di un accappatoio che cadeva per terra e i denti di
lui sul suo collo… del suo corpo, snello e rigido contro di lei.
Lei scosse la testa. «Non sono venuta fino a qui per un sosia qualunque»
sbraitò lei.
Non-Kingsley fece l'occhiolino a Mimi. «Fa come ti pare. Ma non riuscirai ad
andare avanti senza il tuo amico. Sono abbastanza sicuro che sia stato rivendicato»
disse lui, facendo un cenno verso la terrazza, dove Oliver stava baciando una ragazza
che non era Schuyler.
«Oh, per l'amor del cielo! Questa storia è andata avanti troppo a lungo!» Mimi
buttò il suo bicchiere di champagne a terra e si incamminò bruscamente verso il suo
Conduit per dirgliene quattro.
«Oliver Hazard-Perry!» gli urlò, sentendosi imbarazzata per lui. Oliver e lo
spettro erano seduti su una poltrona da salotto, avvolti in uno stretto abbraccio, e la
situazione aveva quasi raggiunto il livello da “prendetevi una stanza”. Se Mimi non
fosse stata più giudiziosa, avrebbe giurato che quello spettro stesse per mordere
Oliver sul collo. «Amico, dobbiamo proseguire» disse lei, scuotendolo.
Oliver aprì gli occhi. Sembrava frastornato, meravigliato, come se Mimi lo
avesse appena svegliato mentre stava facendo un sogno fantastico.
Scosse la testa lentamente. «Non posso andarmene. Oggi mi sposo.»
«Quella ragazza non è chi pensi che sia. Lo sai. So che lo sai. Non sei un idiota» disse
bruscamente Mimi.
«Non ha la minima idea di cosa sta dicendo» disse Non-Schuyler, scuotendo
la testa in modo sprezzante. «Resta qui e invecchia con me, Ollie. Esattamente come
dicevamo sempre.»
«Lascialo andare, sirena» disse Mimi .
«Non ascoltare questa stronza. So che la odi. L'abbiamo sempre odiata.»
Oliver fece un forte sospiro e la allontanò. «No. Non è vero. Non abbiamo mai
odiato Mimi. Forse eravamo un po' spaventati da lei o intimiditi, e so che la
compativi alla fine. Ma non l'abbiamo mai odiata.» Si voltò verso Mimi. «Non ti
odiavamo, Mimi. Schuyler non ti odia.»
Mimi annuì mentre lo aiutava ad alzarsi dalla poltrona. «Lo so. Per questo l'ho
provocata. Pensavo che ti avrebbe aiutato se questo essere avesse detto qualcosa che
Schuyler non direbbe mai. Forza, andiamo.»
La sosia lanciò un'occhiataccia a Oliver. «Osi sottrarti ai desideri di una
sirena?»
«Sì» disse lui, trovando la voce.
La sirena fece uno stridio di disapprovazione e prese il braccio di Oliver in
una morsa.
«LASCIALO ANDARE!» gridò Mimi, mentre Oliver cercava di liberarsi,
impallidendo alla vista del volto della sua amata trasformarsi in una maschera da
strega.
La sirena urlò, infuriata.
Mimi tirò fuori l'ago che aveva nel reggiseno. Una volta trasformatosi in una
spada, la puntò contro l'arpia. La lama risplendeva di scintille argentate.
La sirena emise un fischio e sputò dell'acido, ma indietreggiava dal momento
che Mimi avanzava con la spada. Mimi puntò la lama alla gola della creatura e
quest'ultima finalmente allentò la presa su Oliver, sparendo in una fiamma argentata.
In un battito di ciglia, il cielo sopra di loro si oscurò completamente, e dei tuoni
rimbombarono in lontananza.
Un fulmine saettò nel cielo, e la pioggia cominciò a cadere come schegge pungenti.
L'illusione si era spezzata, dissolvendosi nuovamente nelle ombre.
Oliver e Mimi si fecero largo velocemente attraverso la folla, ritornando alla
mustang parcheggiata all'ingresso. Mimi ritirò il tettuccio di fretta per evitare di
inzupparsi completamente.
«Stai bene? So che è difficile resistere» disse Mimi mentre usciva dal
parcheggio. Questo era solo il primo test, la prima tentazione. Sapeva che il percorso
sarebbe stato difficile, e che Helda non avrebbe lasciato andare l'anima di Kingsley
così facilmente.
Oliver si strofinò il braccio nel punto dove la creatura gli aveva infilato gli
artigli. Stava cominciando a realizzare che forse aveva fatto il passo più lungo della
gamba partendo per questa piccola avventura nell'oltretomba. Ma era un sollievo
vedere che erano tornati a indossare i loro vecchi vestiti. Quell'orribile illusione
matrimoniale era davvero finita. «Dov'eri finita?»
«Hanno cercato di tentarmi con una specie di sosia di Kingsley.»
«Perché per te è stato più facile allontanarti da lui mentre io non riuscivo a
rendermene conto?»
Mimi ci pensò. «Io sono… nata qui. Gli Angeli dell'Oscurità sono stati creati
dalla stessa fonte che ha creato l'oltretomba. Perciò sapevo che era solo un sosia.
Conosco i loro trucchi, perciò ero in vantaggio.»
C'erano anche altri segnali, pensò. Il vero Kingsley non si faceva mai la barba, e
quello al matrimonio aveva la pelle morbida e liscia al tocco. Troppo morbida.
Kingsley era uno scintillante coltello dalla punta di diamante, e la sua pelle era ruvida
come carta vetrata. E anche così, resistere a quella sirena non era stato facile quanto
aveva fatto credere a Oliver, ricordandosi che quando aveva avvistato per la prima
volta il sosia sotto gli alberi, si era convinta che il suo amore era finalmente ritornato.
«Mi dispiace» disse Oliver con un tono grave. «Per un momento, non mi
ricordavo dov'ero. Non succederà di nuovo.»
«Bene, perchè sicuro come l'oro non vuoi restare incastrato qui. Inoltre, per lei
non ne vale la pena, sai. Ti ha lasciato» disse Mimi. Non voleva sembrare
maleducata; era un fatto. In verità, Schuyler e Jack si meritavano l'un l'altro. Erano
entrambi inutili e sleali.
Oliver decise di ignorare quella provocazione e cambiò argomento. «Cosa
sarebbe successo?» chiese lui. «Se fossi rimasto con quella… cosa.»
«Non ne sono sicura, ma non sarebbe stato un bello spettacolo.»
Oliver poteva immaginarselo. Avrebbe sposato la sirena credendo di star
vivendo una vita vera con Schuyler al suo fianco. Ma pian piano, l'illusione sarebbe
sparita... non in un solo colpo come oggi, ma lentamente, con il passare del tempo, lo
spettro si sarebbe stancato della farsa e la maschera avrebbe cominciato a scivolare
via. Avrebbe scoperto di essere legato ad un'arpia, a un mostro, che si era incastrato
da solo in una relazione con una creatura senz'anima che lo avrebbe deriso e preso in
giro giorno e notte per il suo amore maledetto. Grazie a Dio Mimi l'aveva fermata.
Oltretutto, non voleva pensare a Schuyler in quel modo. Non voleva
ammettere che anche se era stato curato dal bacio del famiglio, l'amava ancora.
L'aveva amata sin da prima che prendesse il suo sangue, quindi quell'amore sarebbe
sempre stato una parte di lui, sia che fosse stato il suo famiglio o no. Si sforzò di
tenersi stretto il ricordo della sua felicità per la sua amica al loro legame, quando si
sentì forte, coraggioso e generoso. Era stato capace di essere davvero felice per lei
allora, e il sosia aveva portato via quella sensazione da lui. Non era fiero di sé stesso
e si odiava per essersi arreso alle sue oscure fantasie. Non era quel tipo di ragazzo.
Aveva rinunciato a Schuyler, aveva stretto la mano di Jack. Oliver si sentiva come se
avesse tradito tutti cedendo al suo più profondo e segreto desiderio. Peggio, aveva
tradito sé stesso. Era migliore di ciò che aveva fatto.
«Non hai bisogno di scusarti o di spiegare» disse Mimi dolcemente. «Quella
prova, ciò che hai appena passato… è stato crudele.» Mimi cercò di non pensarci
troppo, specialmente visto che aveva programmato di lasciarlo quaggiù, il che
significava l'essere condannato a vivere esattamente quel tipo di tristezza per sempre.
«Ora non importa» disse lui, facendo spallucce. «Troviamo Kingsley e usciamo da
qui. L'Inferno non è divertente come pensavo. Finiamola con questa storia.»
QUINDICI
Il diamante Bendix
Traduttore: Duvrangrgata
Le altissime sequoie erano una meraviglia, alcune tra i più belli e maestosi esseri
viventi che avessero mai adornato la Terra. Allegra ricordava quando le avevano
piantate, all'alba dell'universo, e una volta ogni pochi cicli lottava per andare a
visitarle, per respirare l'aria di una terra più simile possibile a quella del Paradiso.
Perciò il Redwood Room era uno dei suoi bar preferiti a San Francisco. Era contenta
di scoprire che era ancora lo stesso, ancora un alto spazio con quel lungo, enorme
bancone. La leggenda diceva che era stato fatto dal tronco di un'unica quercia. Il bar
era passato per le mani di diversi proprietari, ma fin da quando aveva iniziato ad
essere alloggiato nell’ Hip Clift Hotel, era considerato abbastanza carino e alla moda
che Charles non avrebbe mai pensato di entrarci. Il suo gemello era un devoto
tradizionalista e detestava cose come i mobili in plastica di Louis Quatorze, cosa che
poteva essere trovata al Redwood Room in grande abbondanza.
Allegra trovò Ben seduto ad un tavolo sul fondo, e scivolò sulla panchina, sentendosi
in imbarazzo. Ora era scappata due volte da lui, e due volte era tornata. «Mi dispiace
per stamattina. Non avevo intenzione di andarmene così all'improvviso» disse.
«Sembra che io tiri fuori sempre questo da te» rispose Ben, suonando divertito.
Sembrava essersi ripreso dal precedente imbarazzo. La facciata preppie era tornata al
suo posto, così come il suo sorriso storto.
«Cosa prendi?» chiese.
«Martini.»
«Vecchia scuola.» Sorrise e fece un gesto alla cameriera, per poi ordinare.
Si guardarono attraverso il tavolo, un pesante silenzio sospeso tra loro finché Allegra
non riuscì a sopportare oltre. «Ben...»
«Gambe, aspetta. Prima che tu dica qualcosa, lasciami spiegare. Volevo che vedessi i
dipinti perché raffiguravano te. Ma li ho fatti anni fa, quando mi hai lasciato.» Si
piegò in avanti e fece per continuare, quando una ragazza si unì al loro tavolo. Era la
brunetta carina della galleria.
«Ehi dolcezza», disse baciando Ben sulle labbra. Sorrise ad Allegra. «Allegra, questa
è Renny. Renny, hai già incontrato Allegra.» disse Ben, sollevando le sopracciglia.
«Renny e Benny!» Renny ridacchiò. «É un piacere rivederti. Ben ha detto che ti
avremmo incontrata qui. Avresti dovuto dirmi che eri una sua vecchia amica quando
hai comprato il dipinto.» La ragazza le sorrise a trentadue denti e mise un braccio
intorno alle spalle di Ben con fare possessivo.
Allegra continuò a sorridere e annuire, senza parole per un momento, e fu sollevata
quando Renny si scusò per andare a parlare con alcuni amici che aveva visto
attraverso la stanza.
La guardarono andare via, e poi Ben tornò a girarsi verso Allegra. «Non volevo darti
l'impressione sbagliata. Renny non ha visto quegli altri tuoi dipinti. Mia madre voleva
che li gettassi via anni fa, ma volevo che tu li vedessi. Avevo bisogno che tu li
vedessi. Ma come ho detto, sono il lavoro che ho fatto subito dopo la Endicott, dopo
la tua scomparsa.»
«Mi dispiace tanto.»
«Va tutto bene…», declinò le sue scuse con un cenno. «So che mi hai cambiato.
Posso sentirlo. Mi svegliavo e avevo solo… così tanto bisogno di te. Ma poi ho
iniziato a dipingere ed è andata meglio, un po’ alla volta.»
«E ora stai bene», disse lei allegramente.
«Sì.» Lui la studiò. «Non volevo che tornassi a New York ancora preoccupata per
me. Volevo che sapessi che ho passato l’inferno… ma che va tutto bene, sono
sopravvissuto.» Arrossì. «Scusa se sono così melodrammatico, ma è per questo che ti
ho invitata nello studio. Volevo solo che li vedessi.»
Allegra gli fece un sorriso brillante. «Sono così felice. Lei sembra una ragazza
fantastica.»
«Lo è. Intelligente. Mi tiene ancorato al terreno.» Ben si schiarì la gola. «Ci
sposeremo in primavera.»
Allegra annuì e prese un sorso del suo Martini, costringendo il liquido freddo giù per
la gola. Non poteva invidiare un matrimonio, soprattutto quando lei stessa si sarebbe
legata presto a Charles.
«Ho pensato, perché aspettare, giusto? Quando incontri la persona con cui vuoi
passare il resto della tua vita, perché aspettare per niente.» Ben sospirò. «Renny va
bene per me.»
«E la tua famiglia?». Allegra dovette chiederlo. A loro lei piace? Tua madre vorrebbe
che fossi io?
Ben fece un sorrisetto. «Mia madre non è terribilmente felice. Pensa che dovrei
aspettare.»
Allegra cercò di non mostrare quanto fosse d’accordo con Mrs. Chase. Sembrava
quasi che Ben si stesse lanciando in tutto quello… e qual era la ragione?
«Ma io non voglio.»
«Buon per te.» Allegra finì il resto del suo drink. «Sono così felice per te. Sono felice
per entrambi.»
Renny tornò verso il tavolo e si sedette vicino a Ben. «Cosa mi sono persa?»
«Congratulazioni. Ben mi ha detto la lieta novella.» Allegra sorrise mentre Ben
baciava la mano della sua fidanzata. Non poté non notare il diamante della taglia di
una meteora sul dito della ragazza. Renny rise e agitò la mano, mandando onde di
luce per la stanza. «So che è un po’ troppo, non è vero?» chiese ad Allegra in tono
cospiratorio. «Ho detto a Ben che non avevo bisogno di un anello, ma lui ha insistito.
È il diamante Bendix. Era stato fatto per la sua bisnonna da Alfred Van Cleef in
persona.»
«È bellissimo.» Allegra chiamò la cameriera. «Una bottiglia del vostro miglior
champagne, per favore. Stiamo festeggiando.»
Ben sembrò contento e imbarazzato allo stesso tempo, mentre Renny sorrideva a
trentadue denti. La cameriera mise una magnum di champagne in un secchio
d’argento al centro del tavolo, e Ben fece gli onori, facendo scoppiare il tappo di
sughero e versando tre bicchieri di spumoso, frizzante liquido. Lo champagne era
perfetto: freddo in modo tonificante, aspro e invecchiato. Allegra non sapeva dire
come riuscì a mantenere un sorriso ingessato sulla faccia per l’intera serata, ma ce la
fece, ordinando una bottiglia di champagne dopo l'altra , il suo sangue di vampiro era
immune all’alcol. Le diede un’oscura soddisfazione sentire Renny lamentarsi della
stanza che girava dopo pochi giri.
Mentre la coppia felice si strofinava il naso a vicenda, Allegra decise che avrebbe
chiamato il servizio come prima cosa l’indomani mattina. Charles aveva ragione,
come sempre. Non sapeva come mai le ci fossero voluti cinque anni per capirlo, ma
era tempo di voltare pagina. Ben l’aveva fatto.
SEDICI
Acqua Santa
Traduttore: Virginia K. Loveswords
I piccoli bambini demoni avevano occhi color cremisi con pupille argentee, e quando
sibilavano mostravano la lingua biforcuta. Quando Schuyler e Dehua tentarono di
attaccarli, si divisero facilmente, però solo quando Schuyler posò una mano sul polso
di Deming, capì il perché.
Deming era un sosia e si dissolse in una pioggerellina sottile al tocco di
Schuyler. Era una trappola. In un secondo, Schuyler e Dehua furono circondate dai
Nephilim. Si alzò un grido da un angolo remoto e lontano, e videro la vera Dehua
legata ad una colonna, le fiamme del Fuoco Nero a pungerle le caviglie.
«NO!» urlò Dehua muovendosi verso la sorella per salvarla. Ma presto, anche
lei venne sommersa dalla furia dei colpi dei loro nemici.
Schuyler si fece largo con la sua lama, la sua parata incontrò il pesante metallo
di un’ascia demone. Il mezzo demone rise orribilmente e quando la sua arma colpì il
bersaglio, provocandole una ferita profonda proprio al entro del torace, Schuyler
venne pervasa da un freddo e lancinante dolore.
Il Nephilim sollevò di nuovo l’ascia per finirla, ma una lama… brillando di
pura luce celeste… apparve all’improvviso, e tagliò nettamente l’ascia nera in due.
Un aiuto finalmente! Il nuovo Venator si sbarazzò velocemente dei demoni che li
circondavano, e presto la stanza si riempì del putrido odore di sangue e morte. I
Nephilim ruppero i ranghi e fuggirono. Dehua, ferita e sanguinante, era sopravvissuta
e corse a liberare Deming.
«A quanto ammontano le perdite?» chiese l’eroe sconosciuto alle gemelle. Era
alto, capelli scuri, con un volto dalla bellezza classica… una fossetta sul mento e
un’attraente dolcezza gli attraversava gli occhi infossati.
Deming scosse la testa. «Hanno incendiato tutto. Sono riuscita a salvare solo
un barattolo,» disse, estraendo una piccola urna dorata dal suo zaino.
«Il Reggente del Cairo sta portando una feluca al rifugio di Luxor,» disse lo
sconosciuto. «Prendete la strada di ritorno verso il fiume e consegnate l’urna a lui.»
Le due Venator annuirono e partirono per consegnare ciò che ormai restava del
sangue degli spiriti della Congrega Egiziana al loro ultimo capo.
Dal pavimento, Schuyler gemette. La punta della spada del Nephilim doveva
essere stata avvelenata col Fuoco Nero. Bruciava e il dolore era acuto e palpitante,
mentre il sangue zampillava dalla ferita, formando una chiazza sotto la maglietta.
«Quanto ti fa male?» chiese il bellissimo Venator, inginocchiandosi vicino a
lei. «Il tuo sangue è rosso. Significa che tu sei la Dimidium Cognatus. Sei la figlia di
Gabrielle.» Pronunciò quelle parole come un dato di fatto, senza alcun pregiudizio.
«Si,» rispose lei.
«Dove ti fa male?»
Lei alzò la maglietta mostrandogli il punto preciso nel quale era stata colpita… giusto
vicino al cuore, una profonda ed orrenda ferita.
«Sei fortunata,» disse lui, pressando le dita sul taglio. «Qualche centimetro più
a destra e il veleno sarebbe entrato nel cuore. Non saresti sopravvissuta. Comunque,
dobbiamo fare in fretta.»
La guardò con dolcezza. Il suo tocco era delicato, ma Schuyler sentì gli occhi
riempirsi di lacrime per il dolore quando lui iniziò a curare la ferita. Prese una
boccetta sulla quale era incisa una croce dorata.
«Tu sei un guaritore,» tossì Schuyler. I Venator erano organizzati in questo
modo: investigatori, guaritori, soldati, comandanti.
Lui annuì e versò qualche goccia. Schuyler dovette mordersi una mano per
evitare di urlare. Il liquido bruciò come acido sulla ferita. Ma lentamente la dissolse e
dissipò il veleno, fino a che non rimase altro che una piccola cicatrice.
«Purtroppo temo che non guarirà mai del tutto. Porterai questo segno per
sempre,» disse il guaritore. «Ma le cose sarebbero potute andare peggio.» Le porse la
boccetta. «Prendi, bevine un po’. Eliminerà ogni traccia residua di veleno. È acqua
santa.»
Schuyler ne prese un sorso. «Questa non è quella che si trova nelle chiese.»
«No.» Sorrise lui. «Sangue Rosso… » Si strinse nelle spalle. «Quest’acqua
proveniva dalla fontana,» disse. «Dei giardini del Paradiso, molto tempo fa.»
Quell’acqua era la più limpida e pura che Schuyler avesse mai assaggiato. Si
sentì rinnovata e rinvigorita, come se il suo corpo fosse stato di nuovo ricucito
assieme.
Si rimise la maglietta e si alzò in piedi. «Grazie.»
L’uomo fece un cenno del capo. «Sei la benvenuta. I Venator mi hanno detto
che sei venuta al Cairo a cercare Caterina da Siena.»
«Si. Conosci Caterina?»
«Sfortunatamente, sono anche io alla sua ricerca.» Lui le tese la mano.
«Sembra che io abbia dimenticato le buone maniere. In questa parte del mondo sono
conosciuto come Mahrus Abdelmassih. Al momento vivo in Giordania, ma molto
tempo fa sono stato un guaritore, a Roma. Caterina da Siena è mia sorella.»
DICIASETTE
Il demone dell'avarizia
Traduzione: Fae e JJ
La pioggia non cessò e guidarono per ore al buio, sotto un oscuro cielo pieno di
fulmini. La strada cominciava a cambiare e non erano più i soli, a causa del il traffico
che si era creato in tutte le direzioni. Oliver si chiese dove stessero andando. Non
erano più nel Non-Nantucket o in qualsiasi altro posto che assomigliasse alla costa
orientale degli Stati Uniti, ma comunque la pioggia continuava a cadere e a inondare
l'autostrada. Ma così come era cominciata, improvvisamente smise di piovere e
l'autostrada a due corsie si divise in otto, con dei passaggi che uscivano da ogni
direzione.
Mimi guardò il segnale a intermittenza. Diceva: PRENDERE LA PROSSIMA
USCITA. «Credo sia per noi», disse, accelerando verso la corsia di destra. L'uscita la
portò verso un largo viale di grattacieli e un valletto con una giacca di velluto rosso le
fece segno dal parcheggio dell'edificio più grande ed illuminato di tutti. Il viale era
pieno di macchine europee e costose.
«Qui,» fece segno il valletto, puntando attraverso la porta di vetro. «Vi stanno
aspettando.»
«Avevi torto; allora ce li hanno i valletti all'Inferno,» scherzò Oliver. Notò che
il valletto indossava un collare argentato. Quindi erano i troll a controllare il posto.
Erano le mani invisibili che permettevano ai treni di arrivare in orario e alla cena di
non essere mai in ritardo. Il lavoro da schiavi del mondo sotterraneo.
Oliver si graffiò la faccia, sentendo all’improvviso un raggio di sole delle
cinque sul mento. Quando passò dalle porte notò il suo riflesso. Indossava una
maglietta di flanella, un cappellino, occhiali da sole da aviatore, jeans larghi e scarpe
costose. «Sembro un coglione,» disse.
«Smettila di lamentarti,» disse Mimi corrugando le labbra allo specchio. Per
questa parte del viaggio era vestita alla moda: jeans stretti, tacchi alti, maglione nero
e largo. Aveva gli occhiali da sole sulla testa e una borsa costosa al braccio. Si
sentiva quasi se stessa.
Attraverso la porta di vetro c’era un largo ingresso di marmo. Mimi andò
all'ascensore e premette il tasto. Quando le porte dell’ascensore si aprirono al piano di
sopra, si trovarono in un altro desolato e bellissimo ingresso. Tutto nel posto era stato
disegnato per renderlo intimidatorio e sconcertante, per far sentire le persone piccole,
umili e non abbastanza carine.
Oliver seguì Mimi alla reception, dove tre troll femmina con le cuffie
ricevevano le chiamate. Le cuffie erano fatte di argento ed erano avvolte al collo
come dei collari per cani. Niente sangue comunque. Quella più vicina a loro sorrise
quando si avvicinarono. «Sì?»
«Mimi Force e… ah, Oliver Hazard-Perry. Ci aspettano,» disse Mimi.
«Certo. Sedetevi, gli farò sapere che siete qui».
Andarono verso i mobili belli ma scomodi. Un'altra troll vestita in modo strano
ma chic si avvicinò a loro. Il suo collare argentato era un girocollo e Oliver poteva
giurare che avesse dei diamanti sopra. «Mimi? Oliver?» disse, «Posso portarvi
qualcosa? Acqua? Caffè? Tè freddo?»
Mimi scosse la testa. «Sto bene.»
«Per me niente, grazie», disse Oliver. Quando l’assistente se ne andò, si girò
verso Mimi. «Che cos'è tutto questo? Dove siamo?»
«Penso che Helda mi farà un'offerta» disse Mimi. Era un'altra tentazione, un
altro ostacolo che la teneva lontana da quello che lei voleva davvero.
Nel momento in cui Mimi glielo disse, gli scattò qualcosa, e Oliver comprese
perché gli sembrava tutto così familiare. Dal momento che Helda stava per fare
un’offerta a Mimi, il loro ambiente era stato progettato per sembrare e dare
l’impressione di essere in una raffinata agenzia di Hollywood.
Aspettarono per un’ora; le assistenti continuarono a girargli attorno e a
portargli bevande anche se loro non le avevano ordinate. Oliver si sentì irrequieto nei
suoi jeans dal tessuto strappato. «Per quanto dobbiamo aspettare?» Sperò che non
sarebbe stato tanto lungo quanto il loro viaggio attraverso il Limbo.
«Imprevedibile» sbuffò Mimi.
Finalmente l’assistente tornò, e questa volta non gli chiese se volevano
qualcosa da bere. «Venga con me,» le disse con il sorriso preconfezionato di una
hostess o di una cameriera di un ristorante.
«Aspettami qui, non berlo,» lo avvertì Mimi. Oliver sputò il caffè che stava
bevendo, e Mimi seguì l’assistente in un grande ufficio con una spettacolare vista
sulle verdi colline rotondeggianti punteggiate da tetti con tipiche piastrelle spagnole.
Il demone seduto alla scrivania era girato dall’altra parte, con le gambe
appoggiate sui braccioli della sua sedia. Si girò e le fece l’occhiolino. «È nel mio
ufficio proprio in questo momento. Si, glielo dirò. Sembra una buona idea. Faremo
pranzo. C’è un nuovo posto di cui tutti stanno parlando. Non si riesce ad avere una
prenotazione ma conosco i proprietari. Va bene. Ciao. A dopo.» Si tolse le cuffie e si
girò verso Mimi con un sorriso furbo stampato in faccia. Aveva viscidi capelli lunghi
fino alle spalle e un lucente completo, ed era affascinante come lo erano gli uomini
potenti. Aveva un’aura di confidenza, ricchezza e spietatezza. I suoi gemelli
luccicavano alla luce del sole, un bagliore argenteo. «Azrael! Bellissima! Quanto
tempo, piccola,» disse alzandosi e dandole un forte abbraccio.
«Mamon,» disse lei. «Vedo che ti sei rimesso a posto.»
«Ti piace la parte ninja? È molto alla moda adesso, o così mi hanno detto i miei
stilisti strapagati.» La sua faccia si aprì in un largo sorriso. «Allora, come ti va la
vita? Ho sentito che le cose ultimamente non sono messe così bene lassù. Michael e
Gabrielle sono andati, le Congreghe si stanno dirigendo sottoterra, eccetera,
eccetera.»
«Non sapevo che ti interessasse. Pensavo che il gossip fosse insignificante per
te.»
«Mi piace mantenermi informato su ciò che succede sulla terra, o in questo
caso, sul soffitto.» Sorrise. «Allora, come sta andando il viaggio fin’ora?»
«Scomodo.»
«È abbastanza, è abbastanza,» disse, mescolando i fogli sulla sua scrivania.
«Beh, sapevi di non poterti aspettare un tappeto rosso.»
Mimi si infuriò. «Che cosa vuoi, demone? Perché sono qui? Devo andare
attraverso i sette gironi, e tu mi stai trattenendo da ciò che voglio. È una cosa che
detesto.»
«Okay. Frena. Ti ho fatta venire qui perché Helda vuole farti una proposta. E
prima che tu dica di no, ascoltami.»
Mimi sollevò un sopracciglio. «A meno che non sia Kingsley vivo e vegeto,
non sono interessata.»
Il Demone dell’Avarizia agitò le dita. «Beh, sai che quello non è possibile. Ma
abbiamo qualcosa di meglio per te. Reggente della Congrega.»
«Sono già Reggente,» gli rispose. «E mi hanno offerto il lavoro migliore me lo
hanno offerto l’anno scorso e non l’ho accettato.» Incrociò le gambe seccata.
«Ah, ma non ti hanno ricontattata, non è vero? In questo momento li tieni in
ostaggio avendo fatto sparire la chiave. Ma se noi ti rendiamo Regis, la tua parola da
sola potrebbe vincolarli e non avresti neanche più bisogno del depositario. L’anima
della Congrega sarebbe nelle tue mani.»
Mimi alzò le spalle.
«So come ti sei sentita negli anni, Azrael. Non si sono mai fidati di te, non
dalla Caduta, non da quando li hai traditi. Tutti quegli anni lavorando per gli
Incorrotti, e per cosa? Loro ti vedono ancora come una di noi. Ma con Michael
disperso e Gabrielle chissà dove, e tu come Regis, potresti avere il rispetto e il potere
che hai voluto per tutti questi anni. Potresti guidare i Caduti. Potresti essere la loro
regina. Con te alla guida, nessuno si ricorderebbe di Gabrielle. Gabrielle, chi? Una
troia che è rimasta incinta troppe volte, ecco chi.»
Non voleva mostrargli di essere d’accordo con lui, anche se lo era. Si dovette
concentrare su ciò per cui era scesa quaggiù. Tutto ciò era a malapena una
distrazione. «Che cos’altro hai?» mamon si accigliò. «Non è abbastanza?»
«Neanche lontanamente.»
Il bellissimo demone la guardò con attenzione. «D’accordo allora. Cosa ne dici
di questo? Tuo fratello morto ai tuoi piedi.»
«Puoi farmi avere Jack?» Chiese Mimi, incapace di nascondere l’eccitamento
insidiarsi nelle sue parole.
«Abbadon? Certamente. Un gioco da ragazzi. Basta che tu lo dica, tesoro. Sai
che possiamo. Mandare i nostri migliori segugi infernali sulle sue tracce. Loro
riportano.» Quando sorrise, i suoi denti apparvero appuntiti, come piccoli coltelli
nella sua bocca, luccicando alla luce. Saltò dalla sua sedia.
Mimi sussultò. La forza e la capacità dei segugi per la malvagità erano
leggendari in tutte le dimensioni.
«Vieni, fai un giro con me,» le disse, raggiungendo la sua mano.
Quando Mimi aprì gli occhi, era sola davanti all’altare. Era il giorno dopo il quale ci
sarebbe stato il loro legame, il giorno in cui Jack l’aveva lasciata per andare a Firenze
con Schuyler. Mimi era li per portare a termine i suoi doveri, ma lui l’aveva lasciata.
La rabbia e l’odio passati tornarono in superficie. Jack era con il suo mezzo sangue, il
suo piccolo Abominio, mentre lei stava aspettando alla chiesa da sola. Curioso che
Schuyler non la odiasse. Ma Mimi non era così generosa. Lei odiava Schuyler con
ogni centimetro della sua anima immortale. Lei odiava Schuyler per ciò che aveva
fatto, aveva fatto rinunciare Abbadon al suo legame e gli aveva permesso di
dimenticare il Codice. Senza il quale, i vampiri erano nulla. Nessuno valeva tanto.
Nessun amore valeva tanto. Il sangue degli angeli era sulle mani di Schuyler. La
figlia di Allegra doveva essere la Salvatrice dei Caduti. Certo, sicuramente.
«Ridono di te, lo sai,» mamon le sussurrò all’orecchio. «Quando sentono che
Abbadon ti ha lasciata all’altare. Che sei stata respinta. Si dicono l’un l’altro, per
forza lui l’ha lasciata. Azrael, chi potrebbe mai amarla, lui non ha sempre amato
Gabrielle, non era questa la debolezza di Abbadon per la Luce? Ridono ancora di te
alle tue spalle. Ti chiamano Azrael l’Indesiderata.»
Mimi chiuse gli occhi, e poteva sentire le lacrime e la rabbia dietro di essi.
Sapeva che ogni parola che il demone diceva era vera. Per forza, non era la prima ad
essere stata umiliata in quel modo, anche il più importante angelo tra di loro era stato
rifiutato al suo legame, ma Mimi non era nel ciclo allora, e non lo aveva visto. Tutto
ciò che sapeva era ciò che aveva provato. La fredda nausea della vergogna e del
rifiuto.
«Helda potrebbe cambiare tutto questo.»
Quando aprì di nuovo gli occhi, Jack era steso per terra di fronte a lei. La sua spada
spezzata in due, e lui guardava in alto verso di lei con la paura negli occhi. Si stagliò
sopra di lui, tenendo la sua spada in alto; e senza alcun avviso, la calò sopra di lui,
proprio in mezzo al petto, dritto nel suo cuore, così a fondo che lo tagliò in due,
uccidendolo. Il calore della sua spada diede fuoco al suo corpo e al suo sangue.
Mimi sentì il sangue di suo fratello sulla faccia, sentì il calore dalle fiamme
nere. Jack non c’era più. La sua gioia era oscura, profonda e trionfante.
«Mimi! Mimi! Che cosa stai facendo?» Oliver corse verso di lei, i suoi occhi
spalancati dal terrore e dalla preoccupazione. «Mimi! Fermalo! Fermalo una volta per
tutte! Tu non vuoi farlo!»
Mimi guardò il corpo morto e spezzato di Abbandon e gridò. «Si che lo voglio!
Lui mi ha lasciata! Per secoli siamo stati legati, fatti di oscurità e legati ai nostri
doveri! LUI DEVE MORIRE!»
Puntò la sua spada verso Oliver. «Non mi fermare!»
«Tu non vuoi questo. Tu vuoi Kingsley, ricordi? Siamo qui per Kingsley.»
«Fai la tua scelta, Azrael» tuonò il demone. «Dì la parola e Abbadon sarà tuo, e
tutto ciò che hai appena visto sarà reso reale.»
Si. Si! Si!
«Mimi, pensa a Kingsley.»
Kingsley. Se avesse accettato ciò che mamon le stava offrendo, non lo avrebbe
mai raggiunto. Avrebbe avuto il potere e la sua vendetta, ma non il suo amato. Non
avrebbe avuto niente per cui vivere una volta che il sangue si sarebbe asciugato dalla
sua faccia e la sua spada fosse stata pulita.
«Ricordati ciò per cui siamo venuti,» la implorò Oliver. «Ricordati perché
siamo qui.»
«Di la parola e lui sarà tuo. La sua morte ti porterà gloria,» sussurrò mamon.
Gloria. Vendetta. Sangue. Le risate finirebbero. L’umiliazione finirebbe.
Avrebbe avuto il suo orgoglio e il suo nome indietro. Sarebbe andata fino in fondo, e
avrebbe mostrato ad Abbadon che cosa succede a coloro che non seguono il loro
legame.
Kingsley…
Ma quando pensava a Kingsley non provava rabbia e calore. Quando pensava a
Kingsley, pensava al suo sorriso e alle sue parole, e una gentilezza arrivava in lei, una
coperta di calma che faceva andare via la rabbia e il calore. Pensò al suo sacrificio, e
a ciò che aveva fatto per lei, per loro, per la Congrega. Alle sue parole il giorno del
legame.
Vieni via con me, e vivi una nuova avventura.
Era andata all’Inferno per lui. Non avrebbe lasciato gli Inferi senza di lui al suo
fianco.
«Niente da fare,» disse sputando fuori le parole. «Portami fuori di qui!»
Come le parole uscirono dalle sue labbra, la vista si schiarì, e fu come se le pesanti
tende di velluto avessero separato il palco, e loro furono fuori dal settimo girone.
Erano su una collina, guardando verso il basso, sopra un’alta città.
Tartarus. La capitale dell’Inferno.
«Che strano,» disse Oliver. «Sembra identica a New York.»
DICIOTTO
Verità e bugie
Traduzione: Fae
I mesi passarono e Allegra ritornò alla sua vita a New York. Il ritratto arrivò con un
bigliettino felice di Renny. Grazie ancora per la bella serata. Spero di rivederti
presto! Allegra strappò a metà il bigliettino e mise il quadro nell'attico prima che
Charles potesse chiederle cosa fosse. La stagione sociale autunnale era in pieno
sviluppo e c'erano tante cose da fare: beneficenza, rivedere i rinnovamenti nella casa
in città nell'Upper East Side, dirigere i vari comitati che formavano la società dei
vampiri. La routine immortale, pensò Allegra, vedendo che molto del suo lavoro
fosse ornamentale in questi giorni e non troppo diverso dalla frivolezza giornaliera
che piaceva ai noti personaggi vuoti in testa dei Sangue Rosso, che si divertivano nel
nome della filantropia. Aveva provato a far uscire Bendix dalla sua testa e ci era
riuscita la maggior parte delle volte. Viveva come avrebbe dovuto: si sarebbe
sposato, avrebbe avuto dei figli e avrebbe condotto una vita felice e senza eventi. Non
aveva bisogno di lei, non ne aveva mai avuto. Lei gli avrebbe portato solo
disperazione e pazzia. Era una fortuna che lui fosse stato abbastanza forte da
sopravvivere all' essere stato scelto come famiglio all'inizio.
In questo giorno pungente d'ottobre, Allegra stava tornando a casa dopo aver
visitato il deposito. quando notò un grande furgone bianco che bloccava l'entrata sulla
101esima strada. Sembrava un’ambulanza, ma sopra non aveva nessun nome di
ospedale o clinica. Nonostante la loro non fosse una strada molto trafficata, aveva
comunque bisogno delle corsie per il traffico per funzionare a dovere e un gruppo di
ficcanaso si era raccolto vicino al furgone, aspettando di vedere se qualcuno sarebbe
uscito con la barella. Sapevano di sangue e disastro e Allegra era un po' repulsiva
verso la loro avidità. Si stava anche cominciando a preoccupare. E se fosse successo
qualcosa a Charles o a Cordelia? Si fece strada tra la folla ed entrò dalla porta
principale, con la trepidazione nel petto.
Non sembrava che ci fosse qualcosa fuori posto, comunque. Cordelia parlava
della cena con lo staff in cucina e Charles era nel suo studio, mentre discuteva con
Forsyth Llewellyn. Charles cercava di convincere Forsyth a trasferirsi a New York e
a unirsi al Conclave. Forsyth non era una delle sue persone preferite e Allegra
sperava che Charles non dipendesse troppo da lui. C'era qualcosa nel modo in cui
Forsyth la guardò che la fece innervosire. Era come se lui sapesse cose su di lei…
cose segrete e oscure che neanche lei sapeva. Charles era cresciuto vicino a Forsyth
in questo ciclo. Si ricordò che non era mai piaciuto a loro padre. Lawrence non
sarebbe stato contento.
Smisero di parlare quando lei entrò nella stanza.
«Charles, cos’è quel furgone là fuori? Ha a che fare con noi? Sta bloccando
l’intera via. C’è una folla riunita attorno».
«Forsyth, puoi spostarlo?» chiese Charles.
«Certamente», disse Forsyth, saltando dalla sedia. Sembrava nervoso, pensò
Allegra. Perché era nervoso?
«Che succede?», chiese a Charles quando Forsyth si allontanò.
«C’è stato un incidente», disse Charles. «Ma niente di cui devi preoccuparti,
tesoro». Lui non disse più niente e Allegra si innervosì.
«Lo stai facendo di nuovo, mi nascondi le cose. Sai che lo odio».
Charles sembrò ferito. «Non è mia intenzione. È solo che…»
Allegra si morse l'interno della guancia per la frustrazione. Sapeva perché
Charles si comportava in quel modo. Tutto si riconduceva a quello che era successo a
Firenze, durante il Rinascimento, quando aveva commesso quell’errore che le era
costato tutto. Non l'avrebbe mai superato. Non si sarebbe mai perdonata. Era un
ricordo che si sarebbe portata per tutto il resto della sua vita immortale. La cosa
peggiore era che non sapeva neanche tutto ciò che era successo. Sapeva cosa aveva
fatto, ovviamente, ma c'era altro nella storia, ne era sicura. Charles negava che
mantenesse dei segreti, le diceva che sapeva tutto ciò che era necessario sapere, e lei
ogni tanto provava a investigare, provava a vedere se riusciva ad avvicinarsi agli
angoli più reconditi della sua memoria, ma non ci era mai riuscita. O lui era bravo a
nascondere i suoi pensieri, o le stava dicendo la verità. Non sapeva cosa fosse peggio.
Charles sospirò. «Comunque, la situazione è sotto controllo. Ma hai chiesto,
quindi te lo dirò. C'è una specie di malattia che si sta sviluppando tra gli umani che ha
già infettato dei giovani vampiri a San Francisco. C'è un famiglio umano
nell'ambulanza che è morto questa malattia. Stiamo facendo analizzare il suo sangue
dai medici».
Allegra sollevò un sopracciglio. «Sai quanto me che non esiste nessuna
malattia umana che possa infettare un vampiro».
«Non che noi ne siamo a conoscenza», rispose Charles accigliato.
«Charles, anche tu sai che è impossibile. Non essere ottuso». Lei incrociò le
braccia. «Dimmi cosa c'è nel furgone».
La guardò dritto negli occhi. «Mi stai accusando di mentire?». La sua voce era
calma, ma ferma e Allegra poteva vedere il dolore riflesso nei suoi occhi grigio scuro.
Le sue spalle si abbassarono. «No… Non lo sto facendo. Sai che non dubito di
te», disse rinunciando. «È solo che è strano».
«Concordo, ed ecco perché dobbiamo tenerlo d'occhio». Si schiarì la gola.
«Cos’è che ti dà fastidio? Sei irritabile da quando abbiamo fatto quella gita in
California. È successo qualcosa? Non volevo indagare. Ho pensato che me l'avresti
detto se fosse stato importante».
Allegra scosse la testa. Avrebbe voluto dirglielo, ma non voleva scatenare una
scenata e, senza volerlo, si rese conto di essersi allontanata di nuovo da lui. «Ho visto
Ben», ammise alla fine, preparandosi alla disapprovazione di Charles. «Non è quello
che pensi… Non è successo niente… Sta per sposarsi». Esalò. «Ma non è questo il
motivo. Intendo… beh, sai cosa intendo».
Charles prese l'informazione tranquillamente con un consenso pensieroso. «Mi
dispiace che tu sia triste. So quanto ci tenevi a lui».
Allegra si sentì come se si fosse finalmente tolta un grosso peso dalla
coscienza. Si sedette affianco al suo gemello e appoggiò la testa sul suo braccio.
«Tutto bene?», chiese lui gentilmente.
«Sì, è che… mi ha spaventato. Rivederlo. Dopo tutto quello che è successo
l'ultima volta, ricordi?». Aveva dimenticato quanto fossero vicini. Charles era il suo
migliore amico, la persona a cui confidava tutti i suoi segreti, la persona di cui si
fidava di più, l'unica che conosceva profondamente. Erano due facce della stessa
medaglia. Condividevano una vita immortale: memorie infinite che risalivano
all'inizio, quando erano solo sangue unito all'altro. Non aveva nulla da nascondergli.
Lui la stinse a sé. «Non aver paura».
Forsyth ritornò, roteando le chiavi. «Tutto a posto. Ho trovato parcheggio sul
Riverside».
Charles si staccò riluttante dall'abbraccio di Allegra. «Tesoro, potresti lasciarci
un po' da soli? Io e Forsyth abbiamo un po' da fare».
Allegra chiuse la porta dietro di sé. Si sentiva meglio dopo essersi confessata
con Charles e ciò che lui aveva detto era vero: non le aveva mai mentito. Ma mentire
per omettere era comunque un peccato. Non riusciva a non pensare che ci fosse
dell'altro in questa storia e che ci fosse qualcosa che Charles le stava nascondendo,
qualcosa di importante, e lei doveva scoprire cosa fosse.
In tutta la loro storia lei non aveva mai sentito che ci fosse qualcosa come una
malattia umana che potesse influenzare la fisiologia dei vampiri. Niente poteva
infettare i vampiri. Oh, c'erano i raffreddori e le influenze come tutti quanti. Erano
fatti della stessa materia di cui erano fatti i Sangue Rosso, con una sola differenza,
ovviamente, ma alla fine erano immuni ad ogni malattia seria. Quando i cicli finivano
ed era tempo di riposarsi, la “morte” era solo un sonno profondo fino a quando il
sangue blu si sarebbe risvegliato in un nuovo tramite. Non c'erano cose come il
cancro o problemi di cuore nei Caduti.
Charles le avrebbe mai mentito? La rendeva triste, il fatto che stesse anche
pensando a questa possibilità. Questo mostrava quanto si fossero allontanati. Lei non
si fidava più di lui, non del tutto, e non era neanche colpa sua.
Allegra indossò la sua tenuta da corsa. Le piaceva correre nel parco per
schiarirsi la mente. «Sto uscendo», disse, così nessuno si sarebbe preoccupato.
Fare un po' di jogging sulla collina, pianificando di scendere di corsa lungo
l'argine del fiume che l'avrebbe portata al bacino delle barche. C'erano poche altre
persone che correvano sul tragitto, alcuni con i pattini, i ciclisti, mamme che
correvano con i loro bei passeggini. Manteneva una velocità media, le sue sneakers
che battevano il terreno con un ritmo intermittente. Mentre tornava a casa avvistò il
furgone, che Forsyth aveva parcheggiato tra la Riverside e la 99esima. Esitò per un
momento, ma prevalsero curiosità e scetticismo e si mosse verso di esso. Non c'era
nessun altro per strada ed era abbastanza semplice aprire la serratura. Tirò la porta
posteriore ed entrò dentro.
C'era un sacco per cadaveri sul pavimento. Conteneva un corpo umano, aveva
detto Charles. Un famiglio che portava una malattia.
Ebbe un flashback di quando era un Venator a Firenze, dove si faceva chiamare
Tomasia. Aveva passato le serate a passare da un tetto all’altro con la sua squadra,
cacciando i traditori Sangue d’Argento che erano intrappolati da quella parte dei
cancelli. Come Venator, avevano catturato e ucciso tutti i restanti Croatoan… o così
avevano creduto. Come Charles, era certa che fossero finalmente al sicuro dal male,
ma poi c'era stato l'incidente a Roaroke. Avevano perso un'intera colonia. Cordelia e
Lawrence avevano sempre creduto che i Sangue d'Argento non sarebbero mai stati
sconfitti, che la Congrega era stata compromessa, corrotta in qualche modo. Charles
pensava fosse ridicolo, ovviamente. Aveva riposto la sua speranza nei cancelli. E se
invece Lawrence e Cordelia avevano ragione e Charles aveva torto?
Chi, o meglio cosa, c'era nel sacco?
Allegra aprì la cerniera, il cuore che batteva. Non era sicura di cosa stesse
cercando o di cosa si aspettava di trovare. Aveva già visto corpi senza vita di vampiri
che erano stati portati alla piena consunzione prima d'ora; aveva sentito i Sangue
d'Argento parlare con le voci dei suoi amici caduti, dei suoi compagni morti che
erano stati risucchiati per diventare parte di un mostro, il loro spirito immortale
intrappolato per sempre, incatenato ad uno spirito malvagio. Ma non era successo
niente da Roanoke e Charles era convinto che forse la colonia scomparsa aveva
deciso di andare sottoterra, anche se il messaggio sull'albero diceva il contrario. I
Sangue d’Argento erano stati cancellati dai loro libri di storia. Charles non voleva che
le vecchie paure influenzassero le loro vite nel Nuovo Mondo.
Cosa c'era nel sacco?
Poteva essere?
Non voleva neanche dar voce alla sua paura.
Finalmente, aprì del tutto per vedere.
C'era una ragazza nel sacco. Una ragazza umana, la sua pelle già grigia.
C’erano due piccole cicatrici, quasi invisibili, sul collo, cosa che indicava che era il
famiglio di un vampiro.
Chissà che malattia portava, si chiese Allegra. Morire in questo modo, così
giovane e così sola. Era un peccato. I Sangue Rosso avevano delle vite così brevi.
Allegra sollevò di nuovo la cerniera. Non riusciva a crederci, ma una parte di
sé si era quasi aspettata di trovare un vampiro morto, per quanto impossibile, ed era
sollevata che Charles le avesse detto la verità, dopotutto.
DICIANNOVE
L'ultimo Venator
Traduttore: Fae
Era sera tardi quando Jack tornò da Gezira e la prima cosa che fece fu controllare la
ferita di Schuyler, rimuovere le bende dal torace e controllare il lavoro fatto da
Mahrus. La pelle era ancora ruvida, ma non più rossa e, anche se si notava la
cicatrice, non era proprio brutta. «Una ferita da battaglia», disse, «sono fiero di te. Sei
stata coraggiosa a combattere in quel modo».
Schuyler si abbottonò la camicia e si sedette a gambe incrociate sul loro letto
nell'hotel. La piccola stanza aveva cominciato a sembrare casa, anche se il ragazzo
alla reception continuava a lanciare loro delle occhiate sospette. «Non avevo altra
scelta», disse, «so che avresti fatto la stessa cosa».
«Sarei dovuto rimanere con te», disse. Aveva ascoltato la sua storia senza
interromperla ed era rimasto impassibile, ma adesso la piena consapevolezza, quello
che avrebbe potuto perdere, stava cominciando a colpirlo e Schuyler vedeva quanto
fosse difficile per lui controllare le sue emozioni.
«Non ti preoccupare, amore mio». Schuyler sorrise e gli mise una mano sulla
guancia. «Sentivo che la tua forza era con me. Non ce l'avrei mai fatta senza di te. E
tu… hai trovato quello che cercavi per il Nilo?»
Jack scosse la testa con rabbia. «Quando siamo arrivati al rifugio, il Nephilim
se n'era andato da parecchio. Penso che volevano portarci dalla parte sbagliata. I
fratelli Lennox hanno visitato il tempio, ma hanno detto che non c'era nessuna
sacerdotessa di nome Zani, che avevano sicuramente sentito male».
«Forse Mahrus ha delle buone notizie che possono aiutarci nell'arena», disse
Schuyler.
«Se ha lavorato in quest'area per tutto il tempo che ha detto, spero che le
abbia», annuì Jack. Avevano pianificato di incontrarsi con il Venator dopo che Jack
sarebbe ritornato, così avrebbero potuto scambiarsi le informazioni e discutere la
strategia seguente. I gemelli Lennox se n’erano andati dopo Deming e Dehua, che
stavano ancora tentando di rintracciare i membri restanti della Congrega Egizia, per
poter consegnare gli spiriti del sangue.
Il bar era pieno di studenti, di anziani che si scambiavano storie di guerra, di famiglie
che cenavano tardi, mentre una musica franco-araba usciva fuori dagli altoparlanti.
Jack e Schuyler presero un tavolo nei posti dietro, dove potevano controllare le
entrate. Finora i Nephilim non avevano colpito nelle aree dei Sangue Rosso.
Sembravano contenere gli attacchi e la violenza alle roccaforti dei vampiri… ma era
meglio essere preparati e in guardia. Mahrus arrivò subito, all'ora stabilita. Era così
bello che tutti nel locale si girarono a guardarlo.
Jack si alzò dal tavolo per salutarlo e gli strinse la mano. «Ti devo la sua vita.
Grazie, guaritore. So che non potrò mai ripagarti, ma la mia spada è tua, ogni volta
che ti servirà, hai la mia parola».
Mahrus si inchinò. «L’onore è mio, Abbadon».
La cameriera arrivò con le tazze fumanti di caffè turco e, per qualche minuto, i
tre rimasero seduti a godersi l'aria serale, bevendo la miscela scura e forte. Schuyler
si sentì meglio con un po' di caffeina nel corpo. Il caffè la faceva stare all'erta.
Siccome non beveva più sangue, doveva fare affidamento su altre risorse per avere
l'energia necessaria.
«Non ho notizie di questa sacerdotessa chiamata Zani», disse Mahrus, «se è
una nota donna sacra, i Guardiani l'avrebbero saputo. Chiederò».
«Pensiamo possa essere Catherine», disse Schuyler.
«Interessante», disse, «potrebbe essere. Pensavo di trovare mia sorella al
museo del Cairo. Era appassionata di storia egizia e un'amante dell'arte. Ma non era
lì». Mahrus disse loro della sua vita in Giordania. Dopo aver lasciato Roma durante il
regno di Caligola aveva viaggiato sul fronte orientale, cercando casa in un avamposto
del precedente impero Ottomano.
«Eravamo una Congrega pacifica», disse, «per secoli abbiamo vissuto in
armonia, fino a quando…»
«Vai avanti»
Gli occhi di Mahrus si rabbuiarono. «È successo così lentamente e insidiosamente
che all'inizio non ce ne accorgemmo neanche. Eravamo ciechi alla minaccia… e la
Congrega non ci aveva avvertiti. Non c'erano notizie da New York; nessuno ci aveva
avvisato di quello che era successo a Rio o a Parigi. Se solo l'avessimo saputo,
saremmo stati in grado di prepararci», disse amaramente. «Per quello che era,
eravamo una vittima facile».
Schuyler prese la mano di Jack sotto al tavolo, mentre ascoltavano la storia di
Mahrus.
«Cominciò tutto con gli umani, le ragazze scomparse. Era un problema dei
Sangue Rosso, pensammo, ma facemmo comunque attenzione. Poi scoprimmo un
covo di Nephilim, ma dato che i nostri Venator li stavano combattendo, anche il
Croatoan nascosto nel nostro conclave ha avuto l’opportunità di colpire».
Li guardò con tristezza. «Tutti quelli della mia Congrega sono morti». Chiuse
gli occhi. «Sono l'unico sopravvissuto. L’ultimo Venator rimasto». Sospirò. «È grazie
ai miei compagni Venator che sono vivo».
«Intendi Deming e Dehua? E Sam e Ted?»
«Sì, stavano combattendo contro i Nephilim… erano l'unico aiuto che abbiamo
ricevuto dall’esterno. Erano diretti al Cairo, sulle tracce di vari demoni appena nati.
Sono andato con loro, dato che sapevo che Catherine era lì e dovevo avvisarla di
quello che stava succedendo. C'è qualcosa di molto più importante della Congrega».
«Sapevi che faceva parte dell'Ordine dei Sette».
«Sì», annuì, «ero lì quando costruimmo il cancello a Lutetia. Sapevo che era
stata chiamata a farlo».
«Pensi che i Nephilim siano qui per il cancello?» chiese Schuyler.
«Ne sono sicuro. In ogni città, lo schema è sempre lo stesso. Prima colpiscono i
giovani, poi gli Anziani, poi i nascituri. I Nephilim sapevano esattamente dove
colpire nella casa del ciclo. Sono feroci e forti, ma non sanno dei nostri lavori
nascosti. Hanno bisogno di una mano per guidare i loro mali. Era questo il lavoro di
un Croatoan. Uno degli allievi più forti di Lucifero, che nascose il Principe Oscuro e
tenne in vita il suo spirito sulla Terra. Credo che sia lo stesso che ha distrutto
sistematicamente tutte le Congreghe, a partire da quella di New York».
VENTI
Nightclub alla fine dell'universo
Traduttore: Fae
Oliver aveva torto. Mentre camminavano per le strade affollate, aveva cambiato idea.
Il Tartaro non era per niente come New York, completamente diverso dalla città che
chiamava casa. New York era dinamica, viva: sapeva di ambizione e fuoco, la sua
energia era contagiosa. Era elegantemente strutturata, distesa su un reticolo tra fiume
e fiume, a parte l'unica eccezione delle impronte di precedenti mucche che formavano
il West Village. New York aveva un ordine e una logica alla sua esistenza. Sapevi
sempre dove ti trovavi. O almeno, Oliver lo sapeva. Crescendo, aveva esplorato tutti i
suoi angoli e i suoi rifugi. Conosceva Manhattan come il palmo della sua mano e ne
andava fiero. Amava New York. Come tutti i suoi abitanti, non poteva immaginare di
vivere da qualche altra parte.
Il Tartaro, al contrario, era morto, marcio all'interno e pieno di vermi. Non solo
era la capitale dei morti, ma anche il cadavere di una città disteso su un tavolo
operatorio. Non c’era il sole, ma era caldo e puzzolente e tutti erano ammassati. I
corpi sui marciapiedi si muovevano fiaccamente; tutti sembravano esausti, abbattuti.
Non c’erano bambini. Oliver pensò che non si era mai trovato in un posto così privo
di speranza. Era un posto terribile, brutto e opprimente. Puzzava di spazzatura e
c’erano mosche ovunque, le mosche più grandi che avesse mai visto: si muovevano
velocemente, piccoli portatori di malattie.
Guardando le strade contorte, pensò che qualcuno avrebbe potuto perdersi per
sempre tra i vicoli serpeggianti. Come aveva detto Mimi, non c’era nessun passato
all’inferno, né futuro; solo il presente. E quindi il Tartaro era un casino, un miscuglio,
un orribile patchwork di edifici che non avevano senso a stare uno accanto all'altro.
Tutto si scontrava, colori, stili, urbanistica… non c’era ordine, non c’era un design
estetico. Parte di esso sembrava un centro commerciale a strisce sotto effetto di
steroidi: tutte luci intermittenti e piccoli negozi con vernice staccata e poster video
antiquati. Oppure, c’erano dozzine di lotti vuoti e abbandonati e quasi tutto, i muri, i
marciapiedi, le strade, era coperto di sporcizia e fuliggine.
«Forza, questo è solo l'anello esterno. Dobbiamo scendere giù,» disse Mimi,
accompagnandolo verso quella che sembrava una stazione della metropolitana.
Il treno che arrivò nella stazione era coperto di graffiti dentro e fuori. Ogni
posto era stato vandalizzato… le finestre graffiate. Quando crepitò l'annuncio, tutto
era statico; nessuno riuscì a capire ciò che venne detto. Saltarono su. Mimi sembrava
sapesse dove stesse andando, e Oliver si fidò per farsi accompagnare. Attirò
l'attenzione con i suoi capelli color platino, la cosa più luminosa di tutta la città, ma a
parte quello, furono lasciati soli. Nessuno minacciò Oliver. L'unica emozione
accettabile che potesse sentire era la massima indifferenza. A nessuno interessava. La
loro indifferenza era un’entità fisica. Oliver poteva quasi sentire che a loro non
importasse; né interessati, né curiosi della loro presenza. Era un disinteresse attivo,
ostile, che non aveva mai provato. Tutto lo fece rabbrividire.
La metropolitana sbandò in avanti e continuarono la corsa per un po' di
fermate.
Finalmente raggiunsero la destinazione. «Eccola, usciamo,» disse Mimi.
Oliver notò un cartello proprio sopra l'uscita della metropolitana: LASCIATE
OGNI SPERANZA,VOI CH'ENTRATE.
Non era la prima volta che si chiedeva cosa stesse facendo laggiù. Non era di
certo il posto per un essere umano, per non parlare di uno vivo.
Di nuovo fuori, i bassifondi erano anche peggio del centro, o qualsiasi fosse la
parte in cui erano stati. Le strade erano ancora più gremite, l'aria sapeva di cenere e
brace ed era sempre più difficile respirare. Oliver vide i troll incatenati con dei collari
argentei che facevano paura. Lavoravano come tassisti e camerieri e spazzavano le
strade, anche se sembravano impossibili da pulire. Riconobbe i demoni con le loro
facce quasi rosse e piccole corna che spuntavano dalle loro fronti; i loro brutti
sguardi. Ma il peggio erano le creature con le facce così belle che erano difficili da
ammirare. I loro occhi erano piatti e freddi; la loro indifferenza era la più forte tra
tutte.
«Croatoan», sospirò Mimi.
Oliver rabbrividì. I demoni avevano un aspetto brutale e animalesco, ma i
Sangue d’Argento, che una volta erano stati angeli, avevano una bellezza corrotta,
come dipinti immersi negli escrementi.
«Non ci daranno fastidio quaggiù,» disse Mimi, «Anche se abbiamo visto il
Principe Oscuro in persona, a lui non interessa.»
«È per questo che vogliono la Terra?» chiese Oliver.
«Sì. L'inferno è morto. Qua non cresce niente,» disse Mimi. «Non è sempre
stato così, ma è così che il mondo è stato diviso all'inizio. Sopra tutta la luce, sotto
l’oscurità.»
«Dov’è Lucifero?», chiese Oliver.
«Probabilmente sotto il nono»
«Che sarebbe?»
«Il nucleo,» disse Mimi, «il centro del mondo sotterraneo. Dove furono creati
gli Angeli Oscuri. A nessuno è permesso di andare lì sotto. Abbiamo a malapena il
permesso per venire qui, nel settimo». Gli spiegò la gerarchia dell’Inferno. In cima
c’erano i Croatoan, Lucifero e i suoi Angeli d’argento. E proprio sotto di loro vi
erano i demoni di ghiaccio e fuoco, che vivevano nel mondo sotterraneo. Poi c'erano
le anime perdute, umani che erano stati giudicati per essere entrati nel Regno dei
Morti ed erano stati consegnati al livello successivo per l’eternità. Poi c’erano i troll
incatenati, che non erano angeli, né demoni, né umani, ma altre nuove creature…
nessuno lo sapeva di sicuro, solo che portavano i desideri dei demoni. Erano più in
basso di tutti, la classe in fondo, la casta più bassa, gli intoccabili. «Ci sono anche i
Cerberi, ovviamente,» gli disse, «ma sono molto rari, probabilmente si trovano giù
insieme a Lucifero. Dopo che si sono ribellati e sono rimasti con noi a Roma, se li è
portati al suo fianco. Gabrielle ha sperato di poterli portare dalla nostra parte un
giorno, ma chissà se succederà mai».
Oliver rivide le sue idee. Se il Tartaro fosse stato come New York, a quest'ora
si sarebbero trovati nel Lower East Side, prima che hipster, locali alla moda e hotel di
lusso si fossero spostati lì, ma senza quelle gastronomie italiane accoglienti con gli
uomini in carriera col sudore velato che giocavano a carte vicino alle entrate.
Al centro del vicinato c’era un edificio scuro, con una marea di gente tutto
intorno. Della musica, musica ronzante e senza ritmo, ma comunque musica, usciva
dalle porte. Oliver notò che la gente aspettava ansiosa e che un bel demone, con le
corna infilate in piccoli punti sexy e affilati, sedeva di guardia, guardando la gente in
modo sprezzante. A volte muoveva la sua coda e i robusti troll, i buttafuori, si
spingevano tra la folla, attraverso i pochi eletti che erano riusciti ad arrivare di fronte
al cordone rosso.
Oliver conosceva bene quella pratica. Era chiamata “controllo facciale” o
“supervisione della porta” e aveva a che fare con il rifiuto e l'umiliazione in egual
misura, insieme ad una bassa autostima.
Era l’inferno, Oliver pensò che doveva davvero smettere di pensarci. Stava
diventando un clichèd. L'altra cosa che sapeva era che sarebbe rimasto bloccato in
ascensore con degli sconosciuti.
Mimi si stava facendo strada tra la folla sciamante e ansiosa. «Beh, vieni?»
chiese, quando voltandosi, notò che lui era rimasto indietro esitante.
«Sì», fosse lui, rassegnato. Forse non sarebbe rimasto troppo tempo nella folla
se fosse stato con Mimi.
«Questo sembra il luogo migliore da cui cominciare. Dio sa quanto piacciano i
nightclub a Kingsley,» disse, «Abbiamo solo bisogno che quella stronza maledetta mi
noti». Mimi si infilò due dita in bocca e ne fece uscire un fischio penetrante.
Tutti si girarono, anche il demone pieno di sé, che li guardò entrambi per quello gli
sembrò un’eternità. Per un momento, Oliver si sentì piccolo, indegno e di nuovo
quattordicenne, quando cercava di sgattaiolare fuori da un moomba e fallendo. Ma
alla fine, il demone puntò la coda nella loro direzione.
Mimi si fece vedere. La folla si divise in due come il Mar Rosso, i buttafuori si
riunirono e proprio in quel modo, vennero portati dentro.
VENTUNO
La casa dei sogni
Traduttore: Nyssa
Nella primavera dell’anno successivo, Charles acquistò un’azienda mediatica e
pianificò una conquista dell’etere, che avrebbe incluso un concorrente dell’attuale
canale di informazione attivo ventiquattro ore su ventiquattro, un quinto canale e
numerose compagnie radiofoniche e giornalistiche. Il suo obiettivo era orchestrare le
comunicazioni di tutto il mondo, e influenzare la cultura dei Sangue Rosso attraverso
il più insidioso meccanismo di comunicazione. Si stava comprando un pulpito.
La casa di città in Fifth Avenue era quasi pronta; Allegra trascorreva la
maggior parte del tempo con i decoratori, discutendo del colore delle pareti, del
trattamento alle finestre, e dell’arredamento. Avevano intenzione di tenere un paio
delle loro cose della villa a Riverside. Cordelia aveva promesso loro il divano e
l’argenteria come regalo, ma tutto ciò che Allegra desiderava era un nuovo inizio.
C’erano alcuni che pensavano che comprare mobili fosse una pratica borghese. In
alcuni ambienti, solo i mobili ereditati erano giudicati appropriati, ma Allegra non era
d’accordo. Le tradizioni erano una bella cosa, ma lei voleva che tutto nella sua futura
casa fosse nuovo e luminoso, con nulla che avesse a che fare con il pesante bagaglio
di ricordi del passato.
C’erano delle tradizioni che intendeva però preservare. Fin da quando in
Egitto, avevano regnato come menes e meni, la loro unione era suggellata dal
trasferimento dei possedimenti della sposa nella nuova casa. I traslocatori si
sarebbero presi cura della roba pesante, ma Allegra aveva intenzione di portare lei
stessa alcuni oggetti: la sua scatola di gioielli, il piccolo vaso d’olio in cristallo, una
ciotola di riso, e una caraffa d’acqua, che avrebbero portato fortuna nella nuova casa.
Quel pomeriggio, Allegra era in piedi nel futuro salotto.
Charles entrò. «Non sapevo che fossi qui».
«Volevo solo dare un’occhiata alla carta da parati. Temevo che fosse troppo luminosa
per la stanza, ma penso che vada bene».
«Ci sta benissimo» disse.
«Ti piace?»
«Molto» annuì.
«Bene» disse.
Charles le sorrise. «Mi fa piacere vederti felice».
«Io sono felice» disse Allegra.
Se lo avesse detto abbastanza, forse alla fine ci avrebbe creduto.
VENTIDUE
Febbre di sangue
Traduttore: Lis
«Sei stata silenziosa per tutta la sera» disse Jack, quando tornarono nella loro stanza.
Schuyler annuì e si sedette sul bordo del letto, togliendosi le scarpe e gli orecchini.
Stava ancora riflettendo su tutto quello che Mahrus aveva detto loro riguardo la
distruzione sistematica delle Congreghe. Quelle di Rio, Parigi, Kiev, Shanghai,
Amman e il Cairo non esistevano più, o si erano nascoste. Quella di New York, uno
dei pochi rifugi sicuri rimasti, stava resistendo a malapena, e chissà per quanto ancora
sarebbe sopravvissuta. Dovevano trovare Catherine e proteggere la porta, prima che il
resto dei Sangue Argento riuscisse a irrompere dall’altro lato.
Jack notò la sua angoscia e le mise una mano sulla spalla. «Non perdere le
speranze. Sono tempi bui, ma ho fiducia nel fatto che riusciremo a trovare un modo
per fermare questo male e sopravvivere.»
Schuyler annuì. Doveva pensare a un modo per trovare Catherine. Dove si era
nascosta? Era in città, Schuyler lo sapeva; persino Mahrus riteneva che la sua teoria
fosse corretta. L’attività dei Nephilim era molto forte in città. Era il posto giusto.
Schuyler doveva trovare il modo di stanarla.
«Non pensi che sia strano?» chiese improvvisamente a Jack. «Se è più facile
tenere i demoni lontani da questo mondo distruggendo completamente i varchi, come
ha fatto Kingsley quando ha liberato l'Abisso, perché Michael ha invece creato le
porte?»
«Avrà avuto una buona ragione. La legge della Creazione stabilisce che ciò che
fu creato dall’Onnipotente non dovrà essere distrutto. Le Porte dell’Inferno hanno
tenuto questo mondo al sicuro per secoli. Michael ha utilizzato tutta la sua forza per
costruirle. Sono state indebolite solo perché anche lui è stato indebolito» disse Jack
pensieroso.
«Pensi che Mahrus abbia ragione? Sul fatto che il Sangue Argento dietro tutto
questo venga da New York?» chiese Schuyler. Dopotutto era il luogo in cui erano
iniziati gli omicidi, in cui si erano verificate le prime morti per piena consunzione. In
Italia, Oliver gli aveva detto di come Forsyth Llewellyn fosse scomparso, e di come
Mimi e i Venator lo avessero additato come il traditore. Anche Bliss aveva
confermato che suo padre, Forsyth, il seguace più fidato di Charles, era in realtà il
Croatan nascosto fra loro, che aveva mantenuto vivo in sua figlia lo spirito di
Lucifero. «Pensi che Forsyth sia qui?» chiese, rabbrividendo. «Che sia colui che ha
architettato tutto questo?»
«Lo scopriremo» disse Jack, «e quando lo faremo, lo distruggeremo» promise.
«Non abbiamo nulla di cui avere paura, men che meno di quel traditore.»
Schuyler si accovacciò accanto a lui, e Jack appoggiò la testa contro il suo
collo. Schuyler poggiò una mano sulla sua guancia, sentendo la sua barba. Si voltò
verso di lui, e caddero dolcemente sul letto. Presto sentì i suoi canini perforarle la
pelle e iniziare a succhiarle il sangue.
Schuyler provò quella felicità sonnolenta che sentiva sempre dopo il Bacio
Sacro. Percepì Jack che si allontanava, girandosi per spegnere la luce. Era sul punto
di addormentarsi quando sentì un dolore acuto allo stomaco e si mise seduta,
piegandosi in due per stringersi la pancia.
«Qualcosa non va?» chiese Jack, allarmato. «Ti ho fatto male? Schuyler…
dimmi qualcosa.»
Scosse la testa. Non riusciva a parlare, faceva troppo male. Le sembrava di
essere stata spezzata in due. Si sentiva stordita e disorientata, aveva la nausea. Fece
qualche respiro profondo.
«Sto bene… sto bene…» disse, prima di vomitare tutta la cena sul pavimento.
«Schuyler!» urlò Jack, sentendosi inutile.
Si aggrappò al comodino, le spalle che si sollevavano violentemente, ignorando
Jack per un secondo. L’attacco di nausea passò, e approfittò di quel momento per
respirare. Poi fu presa da un altro conato, questa volta ancora più forte e spaventoso
del precedente… sangue e bile formavano una pozzanghera densa e scura.
Jack pulì in fretta quel casino con un asciugamano del bagno. La guardò.
«Sdraiati un po’.»
«Meglio di no. Mi sento meglio in piedi.»
Gettò l’asciugamano in un angolo e si portò al suo fianco. «Allora appoggiati a
me.»
Si aggrappò a lui, tremante. Non si sentiva troppo bene fin dal loro arrivo al
Cairo, ma ora stava più male di quanto lo fosse mai stata in tutta la sua vita. Era
ancora peggio della Trasformazione; peggio di quella volta in cui era stata lontana
dalla Congrega e il suo sangue si era prosciugato. Le sembrava di stare per morire.
Ma quella sensazione passò, e il suo stomaco tornò normale. Si sentiva molto meglio.
«Sto bene» disse, ancora stretta a lui. «Probabilmente è solo un qualche virus. Forse è
il prezzo da pagare per aver mangiato da Cairo Belly.»
«Sei sicura?»
«Sì. Sto bene. Ho solo un po’ di nausea. Mi è già successo.» Gli fece un sorriso
rassicurante.
Jack non nascose la sua preoccupazione. Non si era accorto che stava male, e
loro condividevano tutto. La sua ignoranza lo lasciava sconvolto, ma ci doveva essere
una ragione. Poi capì. «Da quanto tempo va avanti?» chiese sommessamente.
«Dimmelo, amore.»
Schuyler alzò le spalle. «Da qualche settimana, forse da un mese al massimo.»
Aveva ragione. Glielo aveva nascosto, ecco perché non se n’era accorto. «Non volevo
che ti preoccupassi, con tutto quello che sta succedendo. Sto benissimo, lo giuro.»
Jack non rispose, ma continuò a stringerla fra le sue braccia, entrambi in
silenzio. Tutti e due avevano dei segreti che non volevano rivelare all’altro; segreti
che stavano tenendo nascosti per amore. Ma poco a poco, e di sicuro, entrambi
sarebbero usciti allo scoperto.
VENTITRE
Sotto i riflettori
Traduttore: NYSSA
Solo quando furono all’interno Oliver notò che il nightclub era ospitato in uno spazio
che somigliava molto a un’antica cattedrale, una chiesa sconsacrata che era stata
trasformata in un oasi di peccato. La musica era assordante e il locale puzzava di
fumo e sudore umano. Riuscivano a muoversi a malapena, la folla era pigiata
all’inverosimile. Era un vero strazio. Oliver aveva paura di guardare in giù e vedere
cosa stesse indossando, ma non c’era bisogno di essere preoccupato: era vestito allo
stesso modo di quella mattina, con un gilet e un paio di jeans. I suoi tipici vestiti.
Forse nel Tartarus non si curavano delle allucinazioni, o forse lo stilista dell'Inferno
aveva il giorno libero? Voleva chiederlo a Mimi, ma lei era impegnata a farsi strada a
spintoni. Girava la testa da ogni parte, cercando Kingsley. Sembrava conoscere bene
il locale, e lo guidò su per una rampa di scale, dove si trovavano le stanze VIP.
Le stanze private sul retro erano costruite come delle bambole Matryoshka, in
cui ogni spazio conduceva ad un altro. Oliver aveva la sensazione che si potesse
passare l’eternità a vagare attraverso una successione di stanze sempre più piccole,
più buie, più calde, mentre il ronzio monotono della musica techno –bum, bum, bumrisuonava nel cervello fin quando non si diventava pazzi e i demoni circondavano il
posto. Ogni porta era sorvegliata da un controllore del dress code e da un buttafuori,
ma Mimi vi passò avanti come se quel posto le appartenesse.
Infine si fermò, e Oliver quasi andò a sbattere contro la sua schiena. Era
arrivata alla fine delle stanze VIP. Non c’erano più porte dall’altra parte. Prese posto
a un tavolo e fece cenno a Oliver di fare la stessa cosa. Si sistemarono nella
poltroncina di spesso velluto rosso. Si erano appena seduti quando il manager, un
mastino in uno scintillante e brutto completo, arrivò da loro. «Caduta» disse,
puntando il dito verso Mimi. «Non sei una di noi. Esci.» ringhiò. «Non serviamo
quelli come te qui.»
Mimi si alzò in piedi, offesa, e iniziò a ribattere. «Helda mi ha dato il
permesso...»
«Helda è di sopra» rispose il demone, indicandolo con il pollice. «Non mi
interessa cosa ha detto. Nessun Caduto nel mio club. A meno che il tuo sangue non
sia argentato è fuori discussione, dolcezza. Faresti sentire tutti a disagio.» indicò i due
brutti troll fermi davanti alle porte (che li aveva lasciati entrare, in effetti…) e questi
spinsero Mimi e Oliver via dai loro posti.
«Lasciatemi andare!» ordinò Mimi. «Non potete farlo! Sapete chi sono io?»
«E lui?» uno dei troll chiese al capo, indicando Oliver.
«E lui?» gli fece eco il demone.
«É vivo» disse il troll con aria affamata. «Possiamo prendercelo?»
«Sì, non mi importa.»
I troll grugnirono in approvazione e iniziarono a sbavare.
Mimi lottò, ma i troll erano troppo forti. Iniziarono a condurli fuori dalla stanza VIP
quando una voce bassa e morbida si fece strada attraverso il ronzio della musica.
«Lasciali andare, Belzebub.» Quella voce era familiare, e Mimi si pietrificò.
Per qualche istante non riuscì a respirare, non riusciva a credere che dopo tutte le
avversità affrontate nel suo viaggio sarebbe stata ricompensata alla fine. Si voltò
lentamente fino a vedere un bellissimo uomo in piedi in un angolo, con il volto
immerso nell’ombra.
Non accadde nulla. Il demone ringhiò.
«Ho detto di lasciarli andare. O non sono stato abbastanza chiaro?»
«Calmi, ragazzi» disse il demone, e i troll lasciarono andare la presa.
Oliver guardò di sbieco la sagoma nera che gli aveva salvato la vita. Era
abbastanza sicuro di sapere chi fosse, ma per un attimo non seppe se sentirsi sollevato
o ancora spaventato. Decise che qualsiasi cosa sarebbe stato meglio che avere quei
troll a sbavargli addosso.
«Ma capo, stanno facendo puzzare questo posto» si lagnò il demone, intimidito
e spaventato.
«Stai solo sentendo il tuo odore» rispose l’uomo affascinante, con un sorrisetto
divertito quando disse quell’insulto. «Adesso andate e trovate altri clienti da
molestare, ma lasciate in pace i miei amici.»
Fece un passo avanti verso la luce e allungò la mano. «Force» disse Kingsley
Martin, calmo e cortese come sempre. C’era qualcosa di nuovo e diverso in lui, ma
non nel suo aspetto: era ancora la stessa bestia sexy, con lo stesso ciuffo ribelle e gli
stessi occhi neri e brillanti. Kingsley sembrava sempre pronto a divertirsi, ma ora
sembrava anche rilassato e a proprio agio, perfettamente comodo nel nuovo ambiente.
Non sembrava né triste né tormentato, e Mimi dovette trattenersi dal correre nelle sue
braccia e tenere a bada le proprie emozioni.
Kingsley non sembrava sorpreso di vederla. O scioccato, o eccitato, o qualsiasi
delle emozioni che lei credeva avrebbe mostrato quando si sarebbero finalmente
ritrovati. Sembrava come se qualcosa di minore interesse fosse entrato nel locale.
«Che bello vederti qui. Vuoi qualcosa da bere?»
Mimi si domandò che gioco stesse giocando. Non voleva mostrare come si
fosse sentito nel rivederla davanti ai troll e ai demoni che li circondavano? Il ragazzo
dalle dita veloci e la voglia insaziabile? Si ricordava di quanto velocemente riuscisse
a spogliarla quando la desiderava…e la desiderava davvero molto e spesso, un tempo.
Il ragazzo che si era sacrificato affinché lei potesse vivere? Beh, sapeva eguagliare il
suo tono leggero. Era Mimi Force, dopotutto, e se Kingsley voleva giocare a quel
gioco, se voleva una caccia, lei gliene avrebbe data una.
«Certo. Cosa ci offri?» chiese, spostando i capelli sulla spalla e risistemandosi
al tavolo all’angolo.
Kingsley schioccò le dita e apparve una strega. L’Amazzone era alta almeno un
metro e ottanta e vestita con un minuscolo vestito argentato che metteva in risalto le
sue forme generose. «Siren, assicurati che i miei amici abbiano tutto ciò che
desiderano.» disse lentamente.
«Certamente, capo.» La cameriera posò sul tavolo due menù rilegati in pelle.
«Cosa prenderete? La casa offre tutto.»
Mimi aprì il menù per scegliere un drink, e quando alzò la testa, Kingsley era
scomparso. Guardò Oliver con aria interrogativa, ma questi scrollò le spalle.
«Siete amici di Araquiel? Siete davvero fortunati» sussurrò la cameriera.
«Perché? É il proprietario del club?» chiese Oliver.
«Meglio. É il consigliere.» disse la cameriera.
«É un membro della mafia?» Oliver sembrava confuso.
«Una specie. E’ il braccio destro di Helda, qualcosa del genere.» disse Mimi,
tornando ad appoggiarsi allo schienale e prendendosi un momento per valutare la
situazione. Non c’era da meravigliarsi che l'Inferno avesse messo su una dura lotta
durante il loro viaggio. Helda non avrebbe voluto perdere il suo consigliere più
importante solo perché Mimi rivoleva il proprio fidanzato.
«Uh. É bello avere amici ai piani alti, vero?» chiese Oliver, con un sorriso
nervoso.
Mimi non rispose. Aveva trovato Kingsley, ma sembrava che Helda avesse
detto la verità. Kingsley era tutt’altro che perso, e non aveva nessun desiderio di
essere ritrovato.
VENTIQUATTRO
La sposa vestiva Arancione
Traduttore: Francesca F.
«Come sei bella», disse Charles, quando trovò Allegra in piedi di fronte allo specchio
del suo spogliatoio, che si preparava per la serata.
Si girò e sorrise appena finì di mettersi gli orecchini. «Te li ricordi?» Chiese
lei. «Me li hai dati a Roma».
«Sì» annuì. «Erano opera di artigiani greci; mi sono costati una fortuna».
«Grazie a Dio Cordelia non li ha dati via. Avevo paura di non trovare niente
dopo le sue pulizie di primavera». Allegra prese con attenzione una collana dalla
scatola dei gioielli. Era una collana di corniola, dall’Egitto. «Mi aiuti con questa?»
Charles gliela legò con attenzione al collo e mise la chiusura a posto. La baciò
teneramente dietro la nuca.
«Ora, procedi da sola. Non porta sfortuna vedere la sposa prima del
matrimonio?» Allegra sorrise, sebbene fosse ben lontana dall’essere superstiziosa,
dopotutto questo era solo uno degli innumerevoli legami che avrebbero condiviso
dall’inizio del tempo. Si sentiva più leggera, e per la prima volta da Firenze, non
dubitava di se stessa. Non vedeva l’ora di andare avanti con la sua vita, la loro vita
insieme, così come di andare alla festa che avrebbe seguito immediatamente la
cerimonia.
La Congrega era riunita al Tempio di Dendur, e presto sarebbe andata all’altare
e avrebbe detto le parole che l’avrebbero legata alla sua anima gemella per il resto
della vita.
Era vestita in modo da ricordare a tutti la loro storia passata, con gli orecchini
romani, la collana egiziana, un vestito di seta e lino cucito stretto al corpo. Hattie
aveva intrecciato lavanda nei suoi capelli, nel modo in cui li aveva Allegra al tempo
dei suoi legami a Roma. Non indossava un vestito bianco, ma un abito di una
deliziosa tonalità di arancione, proprio la stessa che aveva sul Nilo. Radiosa, felice e
festosa. Aveva anche un velo, un drappo in seta che le avrebbe coperto la testa.
Come era da tradizione, Charles avrebbe viaggiato verso la cerimonia di
legame da solo, con i suoi assistenti, e Allegra sarebbe arrivata pochi minuti più tardi.
Si sarebbero incontrati davanti ai gradini del tempio al tramonto.
Era quasi pronta quando bussarono alla porta della sua camera da letto. «C’è
qualcuno giù per te. Dice di essere un tuo vecchio amico», disse Hattie, con un tono
un po’ scettico.
«Chi è?»
«Non l’ha detto. Ho riferito a Julius di non lasciarlo entrare. Non voglio che tu
faccia tardi».
«In effetti non è un buon momento», disse Allegra. «Non riuscite a sbarazzarvi
di lui?»
«Ci abbiamo provato, ma non cambierà idea. Forse è meglio se lo cacci via tu».
Allegra scese con attenzione le scale con le sue scarpe ingioiellate e andò fuori
dall’ingresso principale, dove trovò Ben Chase fermo sulla scalinata, con Julius, il
loro autista, che lo teneva d’occhio.
«Ciao», disse lei, toccandolo sulla spalla. «Cosa ci fai qui?»
«Ciao. Scusami, è un brutto momento?» Guardò il suo vestito e il velo. «Festa
in maschera?»
«No, è… » Non poteva dirgli cosa stava indossando. Di sicuro non lo sapeva.
Era il suo abito da sposa, ma i Sangue Rosso si vestivano di bianco ai loro matrimoni.
«Cosa ci fai qui?»
Lui mise le mani nella tasca del cappotto e piegò la testa verso il parco. «Vuoi
fare una passeggiata con me?»
«Ora?» Allegra guardò l’orologio. Si supponeva che lei fosse in viaggio verso
l'appuntamento proprio in quel momento.
Julius la guardò curiosamente. «Faremo tardi, miss». Ma quale sposa era
puntuale al suo matrimonio?
E se c’era un momento per sentire quello che Ben aveva da dire, era ora. Dopo
quella sera sarebbe stato troppo tardi. «Certo». Si tolse i tacchi alti e si mise un paio
di infradito che aveva preso nell’atrio.
Camminarono per qualche isolato giù verso Riverside Park, e attraverso
l’acqua. Le foglie stavano iniziando a cambiare. Sarebbe stato presto inverno, freddo.
Le loro scarpe facevano scricchiolare le foglie. Il suo vestito produceva un fruscio
nell’erba. Entro un’ora, sarebbe stata legata a Charles.
Allegra parlò per prima. «Che ci fai qui?»
«Non mi sono sposato», disse lui.
«Hmm», rispose lei, non sapendo bene come dire, e in qualche modo non ne
era sorpresa. Quando l’aveva visto sull’ingresso, il suo cuore aveva fatto un grande
balzo, e aveva saputo istantaneamente che questo era ciò che era venuto a dirle. Per
qualche ragione, sebbene credesse che questa parte della sua vita fosse finita e il
pericolo fosse passato, era come se qualcuno avesse mantenuto aperto il libro alla
stessa pagina, qualcuno che insisteva che lei e Ben dovessero rivedersi. Chi era
questo qualcuno? Era lei? Era lui? Perché improvvisamente era così semplice
dimenticarsi dei piani attentamente orchestrati per il suo matrimonio? Doveva essere
in auto ora. In pochi minuti si supponeva che fosse al tempio.
Charles sarebbe stato davanti all’altare con il suo smoking. I loro ospiti si
sarebbero sistemati intorno a loro, mantenendo delle candele. Loro si sarebbero detti
alcune parole l’uno all’altro. Aveva già spostato le sue cose nella casa in città quella
mattina, un attento rituale che praticavano ancora dall’antico mondo egizio, dove un
legame stava a significare per la moglie portare le sue cose nella casa del marito
senza bisogno di cerimonie. Quanto erano stati sensibili a questo, in realtà.
E ora, in un sospiro, in un flash, aveva gettato al vento i suoi piani, aveva
accettato di fare una passeggiata con Ben. Forse sarebbero dovuti essere superstiziosi,
dopotutto. Forse aveva portato sfortuna quella mattina, per Charles, vederla.
O forse era stata fortuna, infatti perché mai Ben era lì, ora, in quel momento
così inopportuno? Se fosse venuto domani, lei non lo avrebbe accolto. O se fosse
venuto ieri, lei avrebbe avuto troppo tempo per pensare prima di agire, tempo per
arrivare a ragionare e avere buonsenso. Ma il momento era ora. Non c’era tempo da
perdere, né per pensare. C’era solo il battito del suo cuore. Era in abito da sposa.
Aveva lavanda intrecciata nei capelli.
Ben trovò una panchina e la invitò a sedersi con lui. «Non te l’ho detto prima
perché non pensavo fosse importante. Ma è importante ora. Renny era incinta. O
almeno diceva di esserlo».
«Cosa è successo?»
«Non lo so. Non ne sono sicuro. Sembra che lei non sia mai stata incinta. Lo
credeva soltanto. Mia madre crede che lei stesse tentando di sposare il figlio del capo.
Mia madre lo pensa di ogni ragazza che sta con me». Sospirò Ben. «Volevo
procedere comunque con il matrimonio. Cosa importava se lei era incinta o meno…
la amavo».
Allegra annuì. Era difficile sentirlo dichiarare il suo amore per un’altra
ragazza, ma l’aveva constatato lei stessa quella sera al bar Redwood, il suo
comportamento gentile con Renny, l’affetto evidente fra di loro.
Si inclinò sulla panchina e tolse la sciarpa, rigirandola nelle mani. «Alla fine…
non ho potuto farlo. L’ho annullato. Ho capito che dovevo seguire la mia felicità, che
è dove sono ora». Si girò verso di lei, e i suoi occhi erano del blu più brillante e
chiaro che avesse mai visto.
«Ben… non dire niente che non pensi», lo ammonì. «Sei solo entrato in crisi.
Non è una cosa facile rompere con qualcuno che stai per sposare». Avrebbe dovuto
saperlo, pensò. «Non sai cosa stai dicendo».
«È proprio questo il punto, invece», disse lui. «Ora so quello che voglio. Ed è
quello che ho sempre voluto. Solo che non pensavo di poterlo avere».
Allegra andò in panico. Non era quello che voleva, aveva messo gli oli, le
spade erano state benedette, gli anelli portati al sicuro. «Stai rendendo le cose
complicate, e io voglio che noi rimaniamo amici. Non sai cosa stai facendo».
«Ascoltami per favore, Gambe», disse lui.
Lei annuì, con il cuore che batteva forte. Doveva andarsene ora, non poteva
rimanere a sentire, avrebbe solo complicato le cose. Ma invece di pensare agli ospiti
nel tempio, o alla processione ordinata di eventi che ora stavano lentamente andando
fuori controllo, lei voleva, così tanto, sentire cosa aveva da dire Bendix.
«Quella notte quando tu sei tornata nella mia vita… io non potrò mai
dimenticarlo. Mi ha causato una tale agitazione dentro…» disse lui, con le mani che
facevano movimenti circolari sul petto.
«Ben. Non posso. Ti ho detto…» la voce di Allegra crebbe, soffocata
dall’emozione. «Ti ho detto che non posso».
«So cosa sei, e ti amo. Ti voglio. Non mi importa se sei… non umana». Non
riusciva a pronunciare la parola.
Lei scosse la testa. «È più di questo. È molto più di questo». Inclinò il capo.
«C’è qualcosa che devi sapere».
Gli disse della visione che aveva avuto la prima volta che erano stati insieme,
la prima volta che lei aveva bevuto il suo sangue. Gli disse del loro bambino, e che
aveva visto se stessa in coma nel letto, e della sua certezza che se fossero stati
insieme lui sarebbe morto, che il suo amore per lui avrebbe significato la sua morte,
che stare insieme avrebbe comportato la sua fine in qualche modo.
Ben rimase in silenzio per un po’. Alla fine parlò. «Quindi se stiamo insieme,
io morirò?»
«Non lo so». Allegra fece un’espressione dura e risoluta. «Ma penso di sì».
«Hey». Ben sorrise, e fu come se il sole splendesse attraverso le nuvole. Le
afferrò il mento.
«Ascolta, Gambe. Morirò in ogni caso. Sono umano. E non so cosa pensi tu,
ma io non credo nelle visioni sul futuro. Io credo che scegliamo noi il nostro destino.
Non mi hai dato scelta l’ultima volta. Te ne sei semplicemente andata. Ma ora sono
qui. E ti amo. Stai con me. Non avere paura del futuro; lo affronteremo insieme».
Le asciugò le lacrime. Le sue mani erano calde e morbide.
VENTICINQUE
Il tempio delle vergini.
Traduttore: Clarissa Herondale Swift
Per una settimana il gruppo setacciò il Cairo per trovare qualsiasi traccia del
passaggio del Nephilim, perlustrando ogni angolo che potevano riuscire a trovare, ma
era come se il mezzo-demone fosse svanito nell’aria. Ogni strada che percorrevano si
rivelava infruttuosa e dato che ormai i giorni passavano senza nessun progresso,
Schuyler si rese conto che stavano continuando la ricerca nel modo sbagliato. Aveva
ancora mal di stomaco e la nausea tutte le mattine, l’odore della carne le provocava
conati di vomito. Ma aveva la mente lucida. Aveva anche la sensazione di sapere
quale fosse la causa del suo malessere, ma teneva per se le sue considerazioni. Non
voleva dirlo a Jack fin quando non ne avesse avuto la certezza. Nel frattempo
avevano un lavoro da svolgere.
Se non fossero riusciti a trovare il Nephilim avrebbero fatto in modo che il
nemico venisse da loro. Schuyler ricordava qualcosa che Sam le aveva detto quando
si erano conosciuti la prima volta: avevano rintracciato il Nephilim nella Città dei
Morti perchè avevano il presentimento che le ragazze scomparse dalla necropoli
fossero state portate negli Inferi.
Le ragazze rapite erano seguaci del tempio di Anubi, l’antico dio egizio della
morte. Mentre i moderni cittadini egiziani si erano lasciati alle spalle le vecchie
tradizioni, le persone della necropoli non le avevano mai dimenticate, e un gruppo del
tempio delle vergini teneva ancora vive le fiamme sacre. Schuyler formulò un piano e
lo espose al gruppo, e passarono il resto della giornata esaminando fino a fondo tutti i
dettagli. Quando furono soddisfatti dell’esito, ritornarono a
casa.
«Non mi piace tutto questo,» disse Jack, il giorno dopo. «E’ troppo pericoloso!
Ti stai esponendo ad un grande rischio.»
«Non c’è nessun altro modo per trovare la porta a meno che loro non mi portino
direttamente dentro,» gli ricordò lei. «Non correrò alcun pericolo.» Non c’era più
tempo per domande o altro. Dovevano agire ora, prima che i Sangue d’Argento
nascosti abbattessero le barriere.
«Tu sei ancora malata,» affermò Jack. «Non è sicuro.»
«Il malore va e viene,» disse lei con un sorriso. «Starò bene. Avrò Deming e
Dehua al mio fianco. Sono una minaccia per qualsiasi demone.» Schuyler indossò le
vesti bianche del tempio delle vergini e nascose il viso dietro un velo. «Inoltre, sarai
esattamente dietro di noi. Una volta arrivati al cancello, tu e il resto della squadra
sarete in grado di metterli al tappeto.»
Schuyler chiese al sacerdote che custodiva il tempio di non mandare più altre
ragazze per quel giorno, cosi lei e i due Venator avrebbero potuto organizzarsi per
svolgere tutti i loro doveri. Sapevano che le ragazze venivano rapite di notte, quando
uscivano dal tempio per dirigersi verso la zona periferica a sud del cimitero dove
raccoglievano legna da ardere per il giorno seguente.
Il tempio era situato verso la parte più affollata della necropoli, accanto a negozi e
caffetterie. Era una semplice struttura squadrata, con un piazzale nel quale la gente si
riuniva, un luogo privato a cui era consentito l’accesso solo a sacerdoti e vergini.
Nell’antico Egitto solo i faraoni e l’ordine sacerdotale potevano offrire doni al dio
con la testa di sciacallo, Anubi, ma nel diciannovesimo secolo le regole cambiarono e
così ragazze giovani sui quattordici anni vennero chiamate per officiare rituali
purificatori e preghiere, ed era ormai credenza che solo alle preghiere dei puri e casti
avrebbe risposto il dio dell’oltretomba.
Quando Schuyler e le Venator arrivarono, immersero le mani e i piedi nelle
acque superficiali della piscina alla base del tempio, una pratica purificatrice per lo
più come metafora alla natura (nel passato la piscina era profonda e i sacerdoti vi si
immergevano totalmente prima di entrare nel tempio). Schuyler si lavò il tutto il più
velocemente possibile e seguì Deming e Dehua in un enorme corridoio fiancheggiato
da grandiose colonne portanti. Il tempio risaliva all’era di Tolomeo, ed era
scrupolosamente custodito dalla gente della necropoli.
Poiché Schuyler e le ragazze dovevano fingere di essere delle discepoli,
dovevano svolgere tutti i compiti ordinari delle vergini del tempio così,
nell’eventualità che il Nephilim le stesse osservando, niente sarebbe potuto andare
storto. Il loro primo compito era quello di accendere le candele e purificare l’aria,
procedere nelle camere interne con le loro candele accese, cantilenando sotto voce
fino alla cappella che ospitava la statua di Anubi. Posizionarono le loro candele nei
loro supporti e aspettarono alcuni minuti prima di iniziare a pulire la statua.
Anubi aveva il corpo di un uomo e la testa di una bestia, e Schuyler si sentiva un
po’ inquieta mentre strofinavano e lubrificavano a fondo la statua. Deming portò un
lenzuolo di lino piegato dalla stanza adiacente e vestì la statua, mentre Dehua aveva
l’incarico di strofinare il rosso dalle guance e applicare un olio sacro sulla sua fronte.
Schuyler portò cibi e bevande, cesti di pane e alcune bottiglie di vino lasciati al
tempio come offerte, e li posizionò di fronte la statua.
«E ora che si fa?» chiese Dehua, controllando la loro opera. La statua splendeva nella
fioca luce.
«I fedeli aspettano» disse Schuyler. «Andiamo a lavorare.»
Trascorsero l’intera giornata sul piazzale esterno del tempio, pregando,
mantenendo il fuoco acceso, ungendo gli altri fedeli del tempio con un olio sacro.
Schuyler chiese al sacerdote di dire al resto del suo ordine sacerdotale di non
programmare nessun funerale o memoriale per quel giorno, dato che non sarebbe
stato giusto nei confronti dei veri fedeli che loro facessero incantesimi e preghiere.
«Fa caldo qui» disse Schuyler, quando lei e le Venator furono sole nella stanza
interna. Era zuppa di sudore sotto gli strati di vestiti che indossava.
Le gemelle scrollarono le spalle, poiché, come vampiri, potevano regolare la
temperatura del loro corpo. Schuyler iniziava a sentirsi stordita, aveva la testa leggera
e si domandò se Jack avesse avuto ragione quando prima di partire per questa
impresa, le aveva detto che era preoccupato per lei. Aveva convinto se stessa di non
avere altra scelta.
Mentre Deming e Dehua erano combattenti esperte, lei era l’unica che poteva
adempiere all’eredità di suo padre. Non avrebbe potuto far trovare a loro il cancello
senza la sua presenza.
Come sta andando lì? Emanò Jack.
Tutto tranquillo, rispose Schuyler.
Voi vedete qualcosa?
Nulla.
Le Venator erano nervose, mettendosi in guardia da qualunque fedele le
guardasse con sospetto. Ma il giorno passò tranquillo, e all’arrivo del tramonto
dovettero incamminarsi per raccogliere legna per il fuoco. Jack e i fratelli Lennox le
avrebbero seguite alcuni passi dietro.
Le ragazze camminavano lentamente attraverso i sentieri disabitati. La maggior
parte della gente viveva nella parte settentrionale della necropoli, e non era sicuro
avventurarsi nella parte meridionale perchè si diceva pullulasse di spacciatori e ladri.
Non vi erano lampioni, e vi era una calma piatta che snervava le ragazze. Nessuna di
loro fiatava, e Schuyler sentiva i capelli che le solleticavano il collo. Però riuscirono
ad arrivare alla catasta di legna indisturbate, presero quello che serviva per accendere
il fuoco e ritornarono al tempio incolumi.
«E ora?» chiese Dehua, mettendo il suo mucchio di legna sul focolare.
Schuyler fece spallucce. Stavano facendo qualcosa di sbagliato? Il Nephilim
sospettava qualcosa?
Non abboccheranno all’esca. Emanò Jack. Lui e i ragazzi sorvegliavano il
tempio da un tetto situato dall’altra parte della strada.
No, loro verranno per noi, lo sento. Emanò di rimando Schuyler. Chiuse gli
occhi e ascoltò il rumore del vento. Riusciva a sentire qualcosa nell’aria, attesa forse,
come la quiete prima di una battaglia, quando tutti sono tesi finche il primo colpo non
viene sparato.
Deming guardò in modo scettico la sorella. «Forse sono andati via. Hanno già
distrutto gli spiriti di sangue e la Congrega è sottoterra. Cos’altro vogliono?
Dovremmo andare avanti. Mahrus pensa che il loro prossimo obiettivo sia
Gerusalemme.»
Schuyler stava per protestare quando un forte vento spense tutte le candele del
tempio, gettando la stanza nell’oscurità. Sono loro, emanò Schuyler. Non attaccate,
ricordò alle ragazze. Non muovetevi. Lasciate che ci prendano. Ricordate, per questa
volta siamo noi quelle deboli e umane.
Un gruppo di uomini le accerchiarono, comparsi dalla nebbia. Schuyler fu
sorpresa di scoprire che i loro rapitori erano umani e non avevano lingue biforcute e
luccicanti occhi color cremisi dei figli degli Inferi. Mani ruvide la tenevano da
entrambi i lati. Gridò terrorizzata, come fecero le gemelle Cinesi. Era una buona
performance. Nella sala riecheggiavano le loro grida di panico.
Schuyler non doveva sforzarsi di fingere molto, poiché una gelida paura
attanagliava la sua anima, ma lei credeva che gli altri Venator e il suo amato le
avrebbero ritrovate.
«La zaniyat avrà la sua progenie!» annunciò il loro leader, e il resto degli uomini
applaudì vigorosamente. Le loro risate avevano qualcosa di ripugnante, folle,
potevano essere associate a un gruppo di iene che ululavano su una carcassa, e
Schuyler rabbrividì.
Notò che gli uomini avevano dei tatuaggi sulle braccia, il simbolo del triglifo
che aveva visto su MariElena. Il Marchio di Lucifero che insieme al simbolo della
specie umana dei Sangue Blu simbolizzava l’unione sacra delle due razze.
«Lasciateci andate!» urlò Schuyler. «Lasciateci sole!»
Deming e Dehua fingevano di resistere anche, lottando contro i loro aggressori.
Gli uomini le ignoravano, e il loro leader ridacchiava mentre colpiva il focolare
con una lancia aprendo un buco sul pavimento del tempio. Schuyler gridò sul serio
questa volta quando gli uomini scomparvero nell’apertura del pavimento e anche lei
ruzzolò dritta verso quell’oscurità viva negli Inferi.
Jack! Puoi sentirmi! Loro sono qui! Emano Schuyler ma sapeva che non sarebbe
servito a nulla. Erano fuori veduta e irraggiungibili.
Poteva combattere, e voleva farlo, pensò, forse era ancora presto per usare la
loro presunta debolezza come vantaggio. I servitori del Nephilim credevano di aver
rapito tre ragazze umane indifese. Essere sottovalutate era sempre una cosa positiva.
VENTISEI
L’unica ragazza al mondo
Traduttore: AnyaJ
«Pensi vada bene se beviamo questi?» chiese Oliver, indicando il set di cocktails di
fronte a loro.
Uno di essi sembrava fatto di lava bollente: era di una forte sfumatura scarlatta, e
faceva fumo e bolle da dentro un calice d’argento. Il secondo era di una brillante
sfumatura di verde, e sputava scintille sibilanti alla menta. Non aveva mai visto
nessuno dei due, ma nonostante la forte paura di tutto quello che aveva in torno
avesse messo radici dentro di lui, era curioso di scoprire il loro sapore. Non avevano
né bevuto né mangiato niente dal loro arrivo, e lui era ancora stordito e affamato.
«Non lo so. E non mi interessa», scattò Mimi, guardando per tutto il nightclub
alla ricerca di Kingsley.
Oliver prese un sorso cauto. La mistura che sembrava lava era calda e burrosa,
deliziosa, ma quasi troppo dolce. Il cocktail verde sapeva di melone d’inverno,
eccetto che di nuovo, sembrava che il melone fosse troppo maturo, e quasi ma non
del tutto marcio. Era uno schema che cominciava a notare in Tartaro, che anche se
qualcosa era piacevole, non era perfetto. Il club era o troppo freddo o troppo caldo,
non era mai confortevole. Era come se la temperatura ideale, come se l’ideale di
qualsiasi cosa non esistesse veramente. Era sempre oltre il limite, o da una parte o
dall’altra. Poteva far diventare le persone matte, pensava lui, se tutto quello che
mangiavano era o troppo saporito o troppo blando, troppo salato o troppo dolce,
troppo croccante o troppo molle, e niente andava mai davvero bene. Beh, dove
credeva di essere…giusto? Oliver si rimproverò delle beffe che stava facendo, ma
non riusciva a non divertirsi. Era tutto ciò che aveva, a quel punto.
Non era sicuro di cosa fare con Kingsley. Non lo conosceva così bene quando
erano insieme a Duchesne, ma l’atteggiamento da ragazzo figo non lo sorprendeva.
Oliver non sapeva se Kingsley fingesse che non gli importasse, o se fosse stato
nell'Inferno così tanto che davvero non provava più gli stessi sentimenti per Mimi.
Povera ragazza. Questo non se lo aspettava. Sembrava un po’ persa, un po’ disperata,
mentre guardava per il club. Il suo viso si afflosciò; la sua corazza fragile si stava
sgretolando e ad Oliver dispiacque per lei. Lei non se lo meritava dopo tutto il duro
lavoro che aveva fatto per arrivare lì. Desiderò di poterla tirar su, di poterle offrire
qualche forma di consolazione. Quando il DJ suonò qualcosa di nuovo, qualcosa che
non fosse un tale tormentone o qualcosa che infastidiva, una canzone che aveva
davvero ritmo e melodia, Oliver vide un’opportunità.
«Dai», disse. «Balliamo».
Mimi non poteva resistere ad un giro sulla pista da ballo, e se all’inizio era
intenzionata a dire no ad Oliver, inghiottì la sua frustrazione e il suo fastidio. Se
Kingsley voleva giocare a questo stupido gioco, uno in cui fingeva di non provare
quello che provava per lei, non c’era nulla che lei potesse farci. Aveva cominciato a
dubitare dei ricordi del suo così, chiamato amore. Cosa c’era tra loro dopo tutto?
L’avevano fatto un paio di volte e, certo lui era tornato a New York per convincerla
ad abbandonare il suo legame; e certamente lui si era sacrificato per salvarla, per
salvarli tutti, ma Kingsley non aveva mai promesso niente: non le aveva mai detto
cosa provava per lei. E se si fosse sbagliata? Cosa ci faceva lì? Mimi fece qualche
respiro profondo. Non voleva pensare a ciò che poteva significare, così invece prese
la mano di Oliver e raggiunsero la pista da ballo, nel mezzo dei corpi che si
contorcevano. Avrebbe dato a quei demoni qualcosa per cui ricordarla.
Oliver era un buon partner di danza. A differenza di molti ragazzi, non
sembrava come se non avesse idea di ciò che stesse facendo. Aveva ritmo, e si
mossero insieme elegantemente, Mimi che si dimenava mentre lui le posava una
mano leggera sulla vita.
Lei si girò e volteggiò, sentendo la musica nelle vene, sentendo la libertà che
veniva dal muoversi a tempo, diventando lentamente un tutt’uno con la musica. Il suo
viso si arrossò, il suo petto si gonfiò, cominciò a sentire una luce risplenderle dentro,
e per la prima volta nel loro viaggio all'Inferno, il suo viso si rilassò e sorrise. Oliver
ghignò e batté le mani.
Era divertente, pensò Mimi. Era passato molto tempo dall’ultima volta che
aveva fatto qualcosa solo per il piacere di farla, e per un momento era di nuovo
un’adolescente, senza una preoccupazione al mondo. Quando chiudeva gli occhi
poteva fingere di essere di nuovo in città. C’era un nightclub proprio come questo una
volta. Era strano come il paesaggio newyorkese cambiasse come niente. Mentre i
palazzi rimanevano gli stessi, sinagoghe del diciannovesimo secolo si trasformavano
in viali da fashion-show. Banche e cattedrali ora ospitavano discoteche e cocktail bar.
La danza divenne più frenetica, la folla si strinse e Mimi fu premuta contro
Oliver, spingendolo. Mentre si girava per scusarsi, lo colse al loro tavolo, sorseggiare
i cocktail diabolici. (Avrebbe probabilmente dovuto avvertirlo riguardo ad essi, ma
ora era troppo tardi). Lui alzò le spalle come se non avesse idea di come era accaduto.
Quindi di chi erano le mani sulla sua vita? Chi stava premendo il corpo contro
il suo con un famigliare e possessivo peso? Si girò lentamente, anche se conosceva
già la risposta.
Kingsley fece un ghigno malvagio, e lei poté sentire il corpo di lui rispondere al suo
mentre ruotavano e si dimenavano a ritmo di musica. Lui si avvicinò e poggiò il
mento alla base del suo collo. Lei poteva sentire il suo sudore caldo sulla pelle. Le
mani di lui viaggiarono, andando dalla vita ai fianchi, avvicinandola a sé. Lei sentiva
il suo cuore battere a ritmo di musica ma anche in sincrono con quello di lui, come se
fossero solo loro, il calore della pista da ballo e l’oscurità un bozzolo che li
circondava.
«Belle mosse, Force», mormorò lui.
Lei si tirò indietro, non volendo arrendersi così facilmente. Lui le girò
sapientemente intorno, spingendola e tirandola così forte che il suo naso le arrivava
praticamente nella scollatura. Dannazione, era furbo. Ma cosa si aspettava? Realizzò
che nel tempo in cui erano stati separati aveva costruito un’immagine ideale di lui;
aveva ricordato solo le parti luminose di lui, e il modo in cui l’aveva guardata
quell’ultima volta, prima che lui sparisse nell’Oscurità Bianca. Quello era tutto quello
su cui aveva fondato la sua speranza, quell’ultimo sguardo. Si era dimenticata di
come era veramente. Imprevedibile. Impertinente. Subdolo. Dopotutto, lui non le
aveva mai detto di amarla. Lei l’aveva solo dedotto…
Ma ora lui la spingeva di nuovo contro di sé, ed erano faccia a faccia, la sua
testa sulla spalla di lui, e la mano di lui sulla sua schiena. La musica era qualcosa che
lei conosceva. “Let’s Get It On” di Marvin Gaye. Troppi dei suoi famigli amavano
metterla prima della Caerimonia. La classica canzone da pomiciata, un cliché quasi
quanto “Moondance” di Van Morrison. Kingsley cantava dolcemente nel suo
orecchio, e la sua voce aveva quel suono basso e rauco che a lei era piaciuto sin
dall’inizio. “Donare te stessa a me non può mai essere sbagliato se l’amore è vero…”
Mimi cercò di non ridere. Era proprio un bel elemento, questo tipo. Ma era
serio? Pensava a una cosa e una soltanto? Era tutto qui? Pensava davvero che lei
avesse fatto tutta quella strada nell'Inferno così che potessero farlo? Provò a non
sentirsi troppo insultata.
La musica si fermò, e lei si scostò dall’abbraccio. Capendola, anche Kingsley
si scostò. Stava ancora sorridendo. Non aveva bisogno di dire niente: lei sapeva che
lui stava pensando che fosse stupida a fingere che non sarebbero finiti a letto prima o
poi.
Mi sbaglio? La sua voce era forte e chiara nella testa di lei, e poteva sentire la
sicurezza dietro di essa.
Ma Mimi la ignorò in quel momento. Non voleva tornare alle loro vecchie
abitudini, fingere che a nessuno dei due importasse dell’altro, che fosse solo un
Venator, con benefici; che lui non avesse sacrificato tanto per lei, o che lei fosse
scesa all'Inferno per qualsiasi altra ragione diversa dal farvi uscire lui. Tutti gli eventi
di quel giorno, Il matrimonio finto di Oliver, l’offerta di Mamon, il viaggio nel
Tartaro, e vedere di nuovo Kingsley, tutt’un tratto erano troppo pressanti. Le girò un
po’ la testa come se stesse per scoppiare in lacrime. Era troppo, e sentì le ginocchia
cederle. Stava per svenire.
«Hey», disse Kingsley, preoccupato. Mise amichevolmente il braccio intorno
alle sue spalle e la strinse a sé. «Dai, scherzavo. Stai bene?»
Lei annuì. «Ho solo bisogno di un po’ d’aria. Fa caldo qui dentro».
«Già». Kingsley la accompagnò di nuovo al tavolo. «Dove alloggi in città?»
Mimi scrollò le spalle. «Non lo so». Non ci aveva ancora pensato.
«Vai dal mio amico al Duke’s Arm. Vi darà una camera carina, assicurati che
Hazard-Perry lì non si faccia prendere di mira dai troll, o peggio, dai cerberi», disse
Kingsley, scrivendo un indirizzo sul retro di un biglietto da visita e passandoglielo.
«Cosa ti ha detto?», chiese Oliver quando Kingsley se ne fu andato.
«Di rimanere in hotel», rispose Mimi, sentendo di nuovo l’assurdità della
situazione. Aveva rischiato tutto per lui, e ora…
«Quindi cosa si fa, capo?», chiese Oliver.
Mimi si rigirò il biglietto tra le dita. Le faceva male la testa. Aveva fatto tutto il
viaggio fin giù. Non si sarebbe arresa in quel momento. Doveva scoprire cosa
Kingsley provasse per lei. Se lui la voleva nello stesso modo in cui lei voleva lui, e
non solo per una notte senza senso e senza amore. La cosa vera. L’amore che gli era
sfuggito tutta la sua vita immortale negli anni con Jack.
Se Kingsley non la voleva intorno, non le avrebbe chiesto di rimanere, giusto?
Ragazzi. Anche all'inferno era arduo decifrare le loro intenzioni. Pensò al modo in cui
si erano mossi insieme, come la faceva sentire. Doveva esserci più che attrazione
fisica tra loro. Doveva significare qualcosa, o no? Pensò a come aveva riso delle
ragazze che pensavano che se un ragazzo andava a letto con loro, significava che le
amava. Ora era una di quelle ragazze bisognose e appiccicose. Che strano era scoprire
che il suo cuore era più vulnerabile di quello che aveva mai pensato sarebbe potuto
essere. Come diavolo aveva lasciato che si innamorasse di uno come Kingsley
Martin? Era irritante. Era come cercare di afferrare una stella cadente con le mani. Si
sarebbe solo bruciata.
Ma lei era fatta di una pasta più dura di così. Mimi avrebbe preso parte al
gioco. Sarebbe rimasta finche lui non le avesse detto di andarsene. Fino a che non le
avesse detto la verità su ciò che provava per lei.
Prese nota mentale dell’indirizzo e mise il biglietto nella borsa. «Credo che
dovremmo sistemarci. A quanto pare staremo qui per un po’».
VENTISETTE
La colombaia
Traduttore: Nyssa
Il momento della giornata che Allegra preferiva era quello poco prima del tramonto.
Quell’estate a Napa, quasi un anno dopo aver lasciato New York, i giorni erano così
lunghi che potevano essere le ventuno quando il buio calava sulla valle. Il calore del
giorno si dissipava nel tardo pomeriggio, e una brezza frusciante soffiava fra gli
alberi. Le colline ondeggianti erano ricoperte di un caldo color ruggine, di una
bellezza effimera, senza tempo. Nel vigneto le stanze di degustazione e le cantine
erano gioiosamente vuote. I turisti e gli amanti del vino se n’erano infatti andati, così
come i braccianti e i vinai che erano diventati loro amici e colleghi, ed erano rimasti
solo loro due. Ben era solito uscire dal proprio studio e Allegra apriva una bottiglia
del loro Chardonnay più recente. Mangiavano sotto gli alberi, osservando i colibrì
volare di fiore in fiore. La vita non avrebbe potuto essere più dolce.
«Non siamo fortunati che la nostra famiglia abbia acquistato questo posto?»
disse Allegra, inzuppando un pezzo di croccante pane francese nell’olio di oliva fatto
in casa. «È come essere in un sogno.»
Si erano trasferiti al vigneto con la ragione apparente di aiutare con i
preparativi del raccolto autunnale, quando i grappoli d’uva sarebbero stati rigonfi e
pieni zeppi di succo. Il padre di Ben aveva acquistato l’intera proprietà per capriccio
un paio di anni prima, quando si era fermato per un drink nella sua enoteca preferita
solo per scoprire che il suo solito bicchiere di Syrah non era più disponibile poiché il
vigneto stava chiudendo per bancarotta. Era una cosa che i suoi genitori facevano
spesso, le aveva spiegato Ben: acquistavano cose che gli piacevano in modo da farle
continuare a vivere. I loro hobby e interessi li avevano portati a diventare proprietari
di un piccolo ristorante greco a New York che serviva ancora crema d’uovo, e di
un’intera linea di cosmetici francese. Erano attivisti e tradizionalisti. Uno dei più
grandi benefici di essere così agiati era la loro abilità di preservare le cose belle del
mondo dall’estinguersi e scomparire per sempre.
La domanda di dove avrebbero vissuto Allegra e Ben aveva ottenuto risposta
quando Allegra aveva menzionato per caso di avere qualche conoscenza sulla
produzione del vino. Subito dopo era stato deciso che non si sarebbero stabiliti nella
Baia di San Francisco, ma piuttosto si sarebbero trasferiti a Nord per aiutare a gestire
l’azienda vinicola.
Allegra aveva abbandonato la propria vita il pomeriggio in cui aveva fatto una
passeggiata a Riverside Park, e non era più tornata indietro. Non aveva lasciato alcun
biglietto di spiegazioni e aveva tagliato la comunicazione telepatica che condivideva
con Charles, arrivando anche a coprire la sua firma nel Glom. Aveva preso la
precauzione più estrema per assicurarsi che lui non l’avrebbe mai trovata. Era certa
che Charles avesse potuto inviare un esercito di investigatori e Venator e nessuno
sarebbe mai riuscito a scovare la sua vera localizzazione. Non l’avrebbe mai
perdonata per questo: averlo mollato durante il giorno del loro legame. E lei non
voleva pensare al dolore che gli stava causando. Tutto ciò che sapeva era che
qualcosa dentro di lei non riusciva più a digerire la vita che stava vivendo; e
nonostante ogni fibra del suo corpo immortale le dicesse che stava commettendo un
grosso errore, il suo cuore era fermo su questa decisione.
Era stata davvero una pazzia lasciare la propria vita senza nulla in mano.
Indossava ancora il vestito del legame quando era saltata su un taxi insieme a Ben.
Non aveva portato nulla con se’: né uno spazzolino né un cambio di vestiti, e
nemmeno soldi a sufficienza per un biglietto dell’autobus.
Ma non importava, i soldi non erano un problema, poiché Ben aveva
organizzato tutto. Avevano lasciato la città quella notte, e fu portata in fretta e furia
sul suo jet, un aereo di famiglia, diretto a Napa. Ora entrambi si nascondevano nella
colombaia, pensò Allegra. Due piccioncini.
Durante il giorno, Ben dipingeva in una piccola casetta che faceva parte della
proprietà. La stanza godeva di buona luce, e dalla finestra panoramica riusciva a
vedere le viti crescere sulla sponda della collina. Allegra gestiva il negozio: aveva un
talento innato per il commercio di vino, e amava ogni aspetto di esso: dal potare e
coltivare le viti al realizzare etichette; dal controllare le botti al vedere la loro
fermentazione al vendere il vino d’annata nella piccola stanza di degustazione. Aveva
ottenuto un abbronzatura scura lavorando nei campi, ed era conosciuta nella piccola
comunità agraria per il suo pane e formaggio. Aveva invitato i bambini del vicinato
per l’annuale spremitura alla fine della stagione, poiché il loro era l’ultimo vigneto ad
aver mantenuto la tradizione di calpestare i grappoli dopo il raccolto. Il loro vinaio,
un produttore di vino rinomato a livello mondiale, aveva rinominato il loro ultimo
Chardonnay con il suo nome. Ragazza dorata, si leggeva sull’etichetta.
Il sole finalmente tramontò quella sera, e portarono dentro i loro piatti e
bottiglie vuote. Dopo aver pulito, Ben disse di voler lavorare ancora un po’, e Allegra
lo raggiunse nel suo studio.
Si accoccolò sul divano ricoperto di tele e lo guardò dipingere. Stava lavorando
ad una serie di quadri astratti in quei giorni, e lei era consapevole della loro bellezza.
Sarebbe diventato famoso, e non solo grazie alla sua famiglia ma grazie al suo
talento. Ben si voltò e pulì i pennelli sulla trementina.
«Ti va un altro ritratto?» chiese.
«Pensi che sia saggio?» lo stuzzicò, flirtando un po’. «Potrebbe riportare
indietro brutti ricordi.»
«Appunto» sorrise lui.
Era bellissimo, pensò, biondo e abbronzato e con la sua risata generosa. Amava
il modo in cui la faceva sentire: spensierata, felice. Il mondo in cui stavano insieme:
sereni, sorridenti. Si sentiva umana accanto a lui. Non pensava al futuro o cosa ci
fosse in serbo per loro. Si era lasciata alle spalle tutto questo. Qui, nel cuore della
dormiente vallata del Napa, non era Gabrielle l’Incorruttibile, non era la regina dei
vampiri ma semplicemente Allegra Van Alen: una ex ragazza di New York che si era
trasferita in campagna per produrre vino.
Si spostò sul lenzuolo sopra la piattaforma e si sfilò lentamente i vestiti: la
salopette che sganciò e lasciò cadere sul pavimento, la vecchia t-shirt che indossava
quando lavorava nei campi e non nel negozio. Girò il busto e chiese «Così va bene?»
Ben annuì lentamente.
Allegra mantenne così quella posa. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro.
Riusciva a sentirlo mentre la guardava, memorizzando ogni linea, ogni curva del
corpo per il suo quadro.
Non ci fu alcun suono per il resto dell’ora fatta eccezione per i leggeri ticchettii
e le dolci pennellate di un pennello sulla tela.
«Bene» disse, facendole capire che poteva sciogliersi dalla sua posa.
Lei si avvolse in una vestaglia e si avvicinò per guardare il dipinto. «È il
migliore finora.»
Ben mise via i suoi pennelli e la tirò verso il proprio grembo. «Sono così felice
che tu sia qui.»
«Anche io.» disse lei, affondando tran le sue braccia. Rintracciò le vene del suo
collo, poi affondò i canini nella pelle e iniziò a bere.
Ben si appoggiò all’indietro, e presto la vestaglia cadde e divennero una cosa
sola.
Era il momento più felice della sua vita.
Allegra riusciva quasi a convincersi che avrebbero potuto vivere insieme per il
resto delle loro vite.
VENTOTTO
Le spose di Lucifero
Traduttore: Medea Knight
Erano molto in profondità sottoterra, su un percorso al di sotto della Necropoli, che
portava ad una scala sotterranea. Schuyler inciampò in un sasso e si tagliò una
caviglia. Era difficile mantenere l’equilibrio con gli uomini che la spingevano e la
trascinavano a destinazione. Gli assalitori li avevano bendati dopo essere caduti nel
baratro e, anche se sapeva che si trovavano negli Inferi, non sapeva quanto in
profondità l’avessero portata. Avevano già attraversato il cancello? Il suo piano aveva
funzionato? Ma se avevano fatto breccia nel Cancello della Promessa, dove si trovava
il custode?
E cosa avrebbe fatto ora che Jack e il resto del team non sapevano dove fossero
finite? Avrebbero combattuto? Avrebbero aspettato? Schuyler pensò che avrebbero
aspettato. Finalmente giunsero a destinazione e le venne tolta la benda. Schuyler si
guardò intorno. Si trovava in una specie di sala d’attesa, ma non vedeva né Deming
né Dehua. Era sola con i suoi rapitori, due uomini dalla carnagione scura che la
stavano studiando attentamente. Il Sangue Rosso alla sua destra sbavò su di lei. «I
nostri padroni ci ricompenseranno. Sei un bel bocconcino.»
Schuyler sentì lo stomaco contorcersi e cercò di rassicurarsi pensando al fatto
che aveva la spada di Gabrielle nascosta nel suo vestito. A tempo debito, avrebbe
potuto combattere e uscire da lì.
Si aprì la porta ed entrò un demone femmina. Schuyler non ne aveva mai visto
uno. Jack le aveva raccontato dei vari mostri dell’Inferno, dei demoni che vivevano
nell’Helheim, quelli che erano stati creati dall’oscurità e sputavano Fuoco Nero.
«Che cosa avete portato?» chiese. «Abbiamo due gemelle nella stanza accanto.
Molto carine. Piaceranno ai ragazzi. Cos’abbiamo qui?»
Gli assalitori di Schuyler la spinsero in avanti. «È il top come prezzo della
sposa questa qui.»
«Togliti l’hijab,» ruggì il demone. «Voglio vedere cosa stiamo comprando.
Avanti, ora.»
Schuyler si sfilò l’abito, afferrando la spada di Gabrielle, diventata un piccolo
coltello in suo pugno. Era in piedi, in mutande, a braccia conserte davanti al petto.
Il demone le si avvicinò e l’annusò. «Cos’hai in mano, signorina?»
Prima che Schuyler potesse reagire, la mano del demone le afferrò il polso e lo strinse
forte. Schuyler si sentì le ginocchia cedere dal dolore e non ebbe altra scelta se non
aprire la mano e lasciare l’arma.
Il demone la prese e il coltello si trasformò in una lunga e scintillante sciabola.
«Come pensavo. Questa è una spada dei Caduti. Falla controllare a Baal. E avvisa gli
altri… potrebbero essere uguali a lei.» Il demone si posò le mani carnose in grembo e
sorrise. «Grazie, ragazzi, avete fatto un buon lavoro. I capi avranno degli angeli nei
loro letti stasera.» Sorrise. «Andate via ora. I troll vi pagheranno alla cassa.»
Gli uomini se ne andarono e il demone studiò Schuyler. «Questa è una proposta
interessante. Non è propriamente ciò che avevamo chiesto, ma penso che troveremo
qualcuno a cui piacerai così come sei.» Se ne andò anche lei, sbattendo la porta.
Una volta sola, Schuyler perlustrò tutta la stanza alla ricerca di un’uscita,
poiché la porta era chiusa con un incantesimo invisibile e le pareti era fatte di solida
roccia. Tentò di tutto, ma nessun incantesimo fu abbastanza potente da spostare la
roccia di un solo pollice. Cercò di controllare il panico che stava per soggiogarla e si
sforzò di pensare. Aveva perso la spada, ma di sicuro avrebbe trovato qualcos’altro
per difendersi prima che fosse stato troppo tardi. Purtroppo, però, prima ancora di
poter pensare alle basi di un piano di fuga, il demone tornò e stavolta non era solo.
C’era con lui un angelo Croatan, dai capelli argentei… bellissimo, ma aveva
degli occhi gelidi, rosso cremisi e delle cicatrici sul volto, che lo distinguevano come
servo di Lucifero. L’angelo corrotto la guardò in modo lascivo e lei riusciva a
percepire la sua lussuria come fosse un attacco fisico, mentre le trasmetteva immagini
dalle quali non riusciva a fuggire. Non riusciva a chiudere gli occhi, mentre quei
pensieri le attraversavano la mente e vide esattamente cosa la aspettava se non fosse
riuscita a fuggire. Sentì il coraggio venirle meno. Era intrappolata là… disarmata,
vulnerabile… ma alzò il mento e gli occhi le si riempirono di rabbia. Avrebbe
combattuto con tutto il corpo e l’anima.
«Può andar bene,» disse il Croatan. Aveva una voce bassa e melodiosa, ma uno
sguardo malizioso e gelido. «Preparala.» Le prese il mento in mano. «I ragazzi
avevano ragione. Sei molto carina. Ma non pagherò il prezzo della sposa per lei. La
Caduta non potrà darmi i figli dei quali ho bisogno.»
«Ma guardale i capelli e gli occhi… è la copia esatta di Gabrielle,» protestò il
demone. «Di sicuro…»
«È inutile. Sei già abbastanza fortunata che me la sto prendendo,» disse e diede
un altro buffetto alla guancia di Schuyler prima di andarsene.
«Beh, hai sentito quel pazzo. Andiamo,» borbottò il demone. «Andiamo, ti
porto alla casa degli zani.»
«Zani?» chiese Schuyler. «Intendi la sacerdotessa del tempio di Anubi?» sentì
che il battito cardiaco le si accelerava al pensiero di trovare Caterina di Siena.
«Di che stai parlando, ragazzina?» Il demone schioccò la lingua. «Qua sotto, la
zaniyat Babel e ciò che definiamo un bordello. Le puttane di Babilonia. Le spose di
Lucifero. Ovviamente, non tutte vengono scelte dal Principe Oscuro. Tu per esempio
sposerai Danel. Per tua fortuna, è di bell’aspetto, non credi?»
Schuyler deglutì per attutire lo shock di quell’informazione. “Zani” non era una
sacerdotessa. Era una parola in codice per quell’operazione… catturare umane per
darle in sposa ai demoni.
No. La zaniyat Babel non era una donna casta. Non avrebbe trovato Caterina di
Siena là. “Zaniyat” era un nome antico, certo. I Croatan avevano adottato molti nomi
per definire le donne nel corso dei secoli: Deming le aveva detto che il Nephilim
aveva chiamato sua madre “l’amante”. L’amante di Satana. Le puttane di Babilonia.
Erano la stessa cosa. L’amante di Firenze doveva essere stata la prima a partorire un
ibrido, un mezzo demone, ma da quel momento in poi ce ne erano state altre come lei
e ora sarebbe toccato anche a Schuyler.
Il demone la condusse verso un altro vicolo sotterraneo e quando ne uscirono si
trovarono in mezzo ad un bazar di paese, circondato da vecchi palazzi non molto
diversi dai mercati del Cairo. Il demone bussò alla porta di uno dei palazzi e dopo
qualche minuto vennero fatti entrare.
Un gruppo di matrone umane molto truccate e vestite in modo succinto li
accolse all’entrata. Schuyler pensò che la presenza dei Sangue Rosso indicasse che si
trovavano nel Limbo, il primo cerchio dell’Inferno, proprio oltre la soglia dei viventi.
Gli umani non potevano sopravvivere a lungo se andavano troppo in profondità
nell’Inferno.
«Danel vuole che sia pronta per il Legame tra qualche ora,» disse loro il
demone. «E non vuole che la droghiate.»
Le matrone annuirono e due di loro condussero Schuyler verso un piccolo
boudoir con un camerino. La fecero sedere di forza su uno sgabello imbottito di
fronte ad uno specchio per cosmesi.
«Vediamo un po’ cos’abbiamo qui,» disse la signora più grassa, vecchia e
scura, facendo tintinnare i suoi braccialetti d’oro.
«È troppo magra,» disse la sua collega. «Dovremo farle mangiare delle
cotolette.»
«Danel le sceglie sempre giovani.»
Schuyler sedeva sullo sgabello e le guardava. «Lasciatemi andare,» ordinò, ma
che fosse perché i poteri della compulsione non funzionavano all’Inferno o perché gli
umani avevano trovato un modo per difendere le loro menti da essa, non servì a nulla.
Le signore risero semplicemente di lei.
Non riusciva a credere quanto per loro fosse così normale fare ciò che stavano
facendo. «Voi date le vostre figlie ai demoni,» disse loro. «Dovreste vergognarvi di
voi stesse.»
La signora Sangue Rosso le tirò uno schiaffo. «Parlami ancora in questo modo
e ti taglio la lingua.»
«Ferma!» la avvertì la collega. «Così le farai gonfiare il labbro. Al capo non
piacciono quando vengono pestate. Ricordate che dobbiamo farla bella.»
VENTINOVE
Il Palazzo sul Fiume
Traduttore: JJ
Il Duke Arms non era un hotel. Bensì una reggia, un vero e proprio castello nel cielo,
un suntuoso attico in un meraviglioso grattacielo collocato al limitare della città,
vicino al fiume Styx. L’edificio era volgare, frivolo, terribilmente brutto e pacchiano,
con sontuose colonne rosa, angioletti d’oro e terrificanti gargoyle, decorato in modo
da far mostra della propria ricchezza, pensò Mimi. Un pugno nell’occhio molto
costoso. Non pensava fosse colpa di Kingsley: il palazzo sarebbe sempre stato così
indifferentemente dal consigliere in carica. Mimi notò che era in una delle migliori
parti della città: l’aria vicino al fiume non era così grigia e inquinata.
Il portiere gli disse che li stavano aspettando, e li accompagnò all’ascensore.
Quando le porte si aprirono, Mimi e Oliver si ritrovarono di fronte all’ingresso
di un magnifico appartamento con una tripla scalinata di fronte a loro. Un gruppo di
troll servitori in divisa stavano in fila: maggiordomi e valletti in uniforme,
domestiche e cuochi in abiti neri con grembiuli inamidati. Tutti portavano il girocollo
con il sigillo della casata inciso sopra.
«Benvenuti,» disse il capo maggiordomo «Vi stavamo aspettando, Lady Azrael.»
Mimi gli fece un regale cenno col capo.
Beh, questo era più da lei, pensò Oliver.
«Desiderate cenare, o posso mostrarvi le vostre camere?»
Mimi alzò un sopracciglio verso il suo compagno di viaggio. «Sto morendo di
fame, ma credo che preferirei dormire prima.» sbadigliò Oliver.
«Le nostre camere, dunque.»
«Da questa parte, prego,» disse una domestica inchinandosi. La seguirono
lungo l’androne ad un altro ascensore, che li condusse ad una suite rivolta verso la
costa orientale del fiume.
«Qui è dove risiede Helda quando viene in visita,» annunciò la domestica
aprendo le doppie porte della lussuosa camera, mostrando la meravigliosa vista del
fiume. Mimi annuì. Kingsley voleva sicuramente intenderlo come un onore, ma
mentre era grata per il così bel trattamento riservatogli, era anche un pochino delusa
che l’avesse lasciata così in fretta. Avrebbe decisamente preferito stare in una
capanna da sola con lui piuttosto che in questo frivolo appartamento. Diede la
buonanotte a Oliver e si preparò per andare a dormire.
Lo stesso fece Oliver. L’arredamento della sua camera da letto era suntuoso e
ben fornito, ma come si aspettava, i cuscini erano troppo soffici, il letto troppo grande
e l’aria condizionata era impostata troppo alta. Tuttavia non si lamentò. Era grato di
avere un posto dove potersi finalmente riposare, anche se si trovava in un’imitazione
di un castello di carte con raccapriccianti domestici trogloditi. Quando la sua testa
toccò il cuscino, non gli importò del fatto che fosse troppo soffice; si addormentò
immediatamente, come se fosse morto, completamente immobile.
Da parte sua, Mimi rimase sveglia nel letto per ore. Aveva trovato un
assortimento di trasparenti camicie da notte di seta nella cabina armadio, e dopo un
lungo bagno nella vasca di marmo, aveva indossato la più provocante, era scivolata
sotto le coperte, e aveva aspettato. Finalmente, dopo quelle che sembrarono ore, sentì
le porte dell’ascensore aprirsi, e riconobbe il rimbombare dei passi di Kingsley.
Aspettò che lui entrasse nella sua stanza e agisse di conseguenza.
Gli avrebbe detto di fermarsi, ovviamente, e gli avrebbe chiesto di chiarire i
suoi sentimenti per lei, prima di andare oltre. Ma successivamente, dopo che le
avesse giurato la sua devozione e che l’avesse pregata per il perdono per quella data
occasione, l'ambigua accoglienza che le aveva riservato, gli avrebbe lasciato fare
qualsiasi cosa avesse voluto, e dovette ammettere che non vedeva l’ora di essere
scopata. Si contorse d’impazienza, ricordando il modo in cui ballavano insieme, la
sensazione delle sue forti braccia attorno alla sua vita, e il modo in cui il corpo di lui
si muoveva con il suo, si posizionò sui cuscini in modo da sembrare più addormentata
e innocente possibile.
Ma il rumore dei passi si allontanò invece che avvicinarsi, e poi ci fu il
silenzio. Mimi aprì un occhio seccata. Sistemò di nuovo i suoi capelli sul cuscino,
assicurandosi che la sua vestaglia le cadesse addosso in modo attraente e sensuale e
riprese la sua posizione. Era forse parte del gioco? Irritarla ancora? Ma i minuti
passarono e ancora non ci fu niente. Mimi dormì praticamente con un occhio aperto
tutta la notte, ma Kingsley non le fece visita in camera da letto. Non quella prima
notte, e neanche quelle a venire. In realtà, non lo vide affatto nei giorni successivi.
Ben fatto, Martin, pensò Mimi. Ben fatto. Era determinata a non chiedere
informazioni sulla sua posizione, o a dare segni che stesse aspettando che lui facesse
la prima mossa. Lui l’aveva invitata nella sua casa, e quindi era ovvio che la volesse
li. Pensava di sapere perché la stava facendo aspettare. Lui voleva che lei crollasse e
si arrendesse in modo che la sua vittoria sul suo cuore sarebbe stata completa. Mimi
aveva un po’ più orgoglio di così. Una settimana dopo furono spostati al commilitone
del Duca, così chiamato perché era tradizionalmente il posto del Duca dell’Inferno,
una settimana dopo la loro imbarazzante riunione, Mimi finì contro Kingsley nella
sala della colazione, e fu capace di tirare fuori il suo tono rispettoso.
«I miei troll si stanno prendendo cura di voi in modo adeguato?» chiese
Kingsley, sedendosi al suntuoso tavolo da pranzo con la sua ciotola di frutta e cereali.
«Si, molto bene, grazie.» annuì Mimi.
Lui le chiese informazioni sulla comodità della sua stanza e la incoraggiò a fare
come se fosse a casa sua, oltre di chiedere ai maggiordomi qualsiasi cosa il suo cuore
desiderasse. Kingsley era un perfetto padrone di casa. Era davvero sconfortante.
«Come trovi la vista?» le chiese.
Mimi alzò lo sguardo dai suoi cereali (che Oliver descriverebbe come troppo
asciutti e non abbastanza nutrienti) e alzò le spalle. «È okay».
«Mi rendo conto che non sia Central Park.»
«Non mi aspettavo che lo fosse.» Guardò in basso verso il suo piatto, indecisa
su come introdurre l’argomento della loro relazione. Era come se ci fosse un muro
impenetrabile attorno a lui. Non si erano visti dalla prima notte, e lui non le aveva
ancora chiesto la ragione della sua presenza, non le aveva parlato in nessun modo.
Lui era il Duca dell’Inferno e lei era a malapena un ospite d’onore. Non sapeva
quanto a lungo lui avesse pianificato di portare avanti questa farsa.
Kingsley prese un pezzo di frutta dalla sua ciotola e iniziò a mangiarlo. «Lo so
che è tutto un miraggio, e che in realtà non sto mangiando questa mela. Ma aiuta, no?
Avere una routine giornaliera, avere un certo ordine nella giornata. Non diventa mai
buio qui, o luminoso. Niente sole, ovviamente. Solo la luce del Fuoco Nero, che non
si spegne mai. Sempre in fiamme ma non tramonta mai,» mormorò.
«Mmm» rispose Mimi, «Buona permanenza.» le disse. E poi se ne andò, e
Mimi rimase a mangiare il suo yogurt lievemente acido da sola.
***
Da parte sua, Oliver passò la maggior parte dei suoi giorni nuotando nella piscina di
acqua salata all’ultimo piano. Dopo l’iniziale eccitazione del vivere in una reggia,
non che ci fosse poi tutta questa differenza da come viveva nell’Upper East Side,
aveva iniziato a sentirsi indolente e fiacco. Come se i suoi muscoli si fossero
atrofizzati dalla mancanza della necessità di andare da qualche parte o fare qualsiasi
cosa, o usare la sua mente per ragioni diverse del chiedere ai troll le sue ciabatte. Non
c’erano gallerie d’arte, auditorium, teatri, opere, librerie, nessun divertimento
artistico o letterario di alcun tipo a Tartaro. Peggio ancora, non c’era nulla da leggere.
C’erano solo night club e bar, incontri tra gladiatori e eventi sportivi. La televisione
mostrava repliche dei più scontati generi di programmi: sitcom non divertenti o
volgari reality show; e in Internet c’erano solo porno. Era divertente all’inizio, ma poi
i vizzi diventano noiosi se non c’è castità a bilanciarli. Quando non c’è altro che
peccaminosa indulgenza, essa diventa noiosa.
Oliver pensò di poter morire di noia. Quindi si rifugiò nella piscina
olimpionica, qualsiasi cosa per sentire male ai muscoli. Sperò che Kingsley fosse
semplicemente già tornato insieme a Mimi. Beh, che cosa stava aspettando? Voleva
solo farla aspettare? Certo, Mimi era abbastanza.. beh, fastidiosa era il termine che
stava cercando, ma non era poi così male, e sicuramente Kingsley era attratto da lei.
Poteva esserci molto peggio di Mimi Force.
Non che non fosse mai passato per la mente di Oliver; era un uomo, dopo tutto,
e Mimi era una bellissima ragazza. Ma pensava che l’idea di loro due come una
coppia fosse aliena e ridicola, non riusciva a vedere la loro amicizia evolversi in
niente di più. E questo era tutto ciò che erano, amici. A Oliver piaceva Mimi, ma non
la trovava attraente in quel senso (lei gli direbbe che il sentimento era reciproco,
ovviamente). Ecco tutto.
Però, Kingsley era ancora un fortunato diavolo. Dopo tutto, Mimi aveva
abbandonato tutto nella sua vita per stare con lui. Era qui adesso. La loro storia
avrebbe avuto sicuramente un lieto fine se solo Kingsley avesse smesso di essere,
beh, Kingsley. A differenza sua, Oliver non avrebbe mai avuto ciò che voleva; non in
questa vita o in qualsiasi altra. Non era la prima volta che Oliver si chiedeva se i
buoni finivano davvero sempre per ultimi.
Mimi decise che la ragione per cui Kingsley stava sembrando così distaccato era che
forse non la trovava più così irresistibile. Le notti passarono, una dopo l’altra, e lei
aspettava che lui entrasse dalla sua porta e si mettesse sotto le coperte, iniziò a
pensare che forse non sarebbe mai successo. Forse aver preso i suoi doveri verso la
Congrega troppo a cuore e aver rifiutato il lavoro a tempo pieno aveva fatto si che
non sembrasse più la più bella ragazza di New York.
Bene, allora. Questo era facilmente rimediabile. Sfinì lo staff con le sue
richieste per un balsamo di uovo e miele per i suoi capelli, bucce di arancia per la sua
faccia, un bagno di latte e mandorle per rendere la sua pelle morbida ed elastica.
Bruciò la punta delle matite per gli occhi per potersi truccare e indossò rossetto fatto
da petali di rose pestati. Aveva notato che Kingsley solitamente si fermava a casa per
un drink prima di andare a cena o dovunque andasse senza invitarla, e pianificò di
scendere una sera l’imponente scalinata in un favoloso vestito. I troll che sapevano
cucire le promisero che la seta era stata tessuta dalle nuvole di Elysium, che il
Principe Oscuro stesso non aveva mai indossato un vestito di un tessuto tanto
pregiato. Il vestito era tagliato quasi all’ombelico, e Mimi si arricciò i capelli, come li
aveva a Roma, quando Kingsley l’aveva notata per la prima volta.
Come a farlo apposta, Kingsley stava bevendo un bicchiere di brandy al fondo
della scalinata quando Mimi fece la sua splendida entrata. I suoi occhi brillarono di
gradimento. Finalmente, una reazione, pensò Mimi, e un sorriso compiaciuto apparve
sulle sue labbra. Adesso era più come prima.
«Oh, ciao,» disse, come se non stesse pianificando tutto da una settimana, e
avesse semplicemente deciso di apparire splendida, come una dea che si fosse
degnata di graziarlo della sua presenza.
«Vai da qualche parte stasera?» le chiese gentilmente.
«Si. Credo che andrò a vedere quel nuovo posto di cui Mamon non fa altro che
parlare,» accennò. «Tu?».
«Beh, divertiti» le disse, sbadigliando. «Io ho avuto una giornata faticosa. Sto
andando a dormire. Divertiti, in ogni caso. Non metterti nei guai, Force,» disse,
agitando le dita.
Mimi lo guardò sparire nel corridoio dei suoi appartamenti. Adesso era tutta
vestita, con nessun posto dove andare. Stupido, pensò. Il pugnale che le aveva spinto
nel cuore si contorse un po’ più a fondo. Che cosa le aveva fatto pensare che lui ne
valesse la pena?
TRENTA
Regina amara
Traduttore: Ella
Tutte le fiabe finiscono ad un certo punto, e il mondo di Allegra era crollato in un
giorno qualunque di fine autunno mentre stava contando le ricevute. La vendemmia
annuale svoltasi il sabato precedente aveva avuto un successo straordinario, con
centinaia di persone che ballavano nella vigna e calpestavano l’uva. Allegra aveva
riso e danzato con loro, e aveva passato la serata nella calda e unita compagnia degli
amici. Il martedì seguente, la vigna era chiusa per affari. Ben era in città per prendere
alcune provviste per la settimana, e Allegra aveva appena aperto il libro mastro
quando scese il buio.
Erano una sfocatura, troppo veloci per essere visti dall’occhio umano, ma
tuttavia ad Allegra apparivano come se fossero al rallentatore. Poté vedere
chiaramente ognuna delle loro facce stoiche, così come le armi che portavano, torce
di Fuoco Nero. Era un’imboscata, un attacco furtivo che un tempo ella stessa aveva
organizzato per sottomettere un demone. Lei era la loro regina e loro erano venuti per
lei come se non fosse più che una bestia infernale.
Allegra scappò attraverso la porta, mandando in frantumi una sfilza di bottiglie
sui tavoli. Non c’era niente al mondo che potesse usare per difendersi dal Fuoco
Nero. La sua unica possibilità di libertà era di fare una fuga veloce.
«No, no, non si fa così» disse Kingsley Martin, incontrandola sulla porta sul
retro. Teneva svogliatamente una spada al suo fianco. A suo vanto, non la stava
puntando contro di lei. «Non penso sia una buona idea, non credi?»
«Che significa tutto questo?» sibilò, mentre veniva catturata dalla squadra dei
Venator, i suoi polsi stretti in manette d’argento.
«Lo sai perché siamo qui, Allegra» rispose Kingsley, «Stiamo eseguendo gli
ordini.»
Allegra esaminò le facce impassibili. Kingsley Martin, il Sangue Argento
riformato; Forsyth Llewellyn. Ovviamente era stato tirato in mezzo a questo casino.
Sembrava si stesse divertendo un po’ troppo; Nan Cutler, a cui non era mai piaciuta
sin da Firenze. Beh, il sentimento era reciproco. La circondarono con le spade, non le
parlarono, non ascoltarono le sue suppliche né le mostrarono un briciolo di
compassione.
«Dopo di voi,» disse Kingsley, indicando alla squadra la cantina in fondo alle
scale.
La sbatterono in una piccola stanza dove il Syrah e il Pinot Nero venivano
conservati, e la ammanettarono ad una sedia. Lavoravano velocemente e
sistematicamente, creando delle corsie intorno alla zona, assicurandosi che nessuno
fosse in grado di entrare nella stanza. Allegra si accorse che i Venator sapevano
esattamente dove fosse tutto, il che significava che l’avevano tenuta d’occhio per
parecchio tempo. Sapevano quando Ben si recava in città per fare rifornimento.
Sapevano che la vigna non era aperta il Martedì. Sapevano che sarebbe stata sola.
«Che cosa succederà a Ben?» chiese.
Kingsley scosse la testa. «Sai che non posso parlare dell’operazione.»
«Per favore.» Allegra sentì una morsa di panico alla gola. Una volta lei aveva
comandato operazioni come questa, e nonostante sapesse che l’addestramento dei
Venator non permetteva compassione o fallimento, e che lei si trovava ora nella
stessa posizione di tutti i criminali a cui aveva dato la caccia in passato, tentò di far
leva sulla natura più buona di Kingsley per il bene dell’uomo che amava. Sapeva che
questo era una punizione e un castigo. Aveva lasciato il suo legame per stare con il
suo famiglio umano, e ora ne avrebbe pagato il prezzo. Nessuno poteva surclassare il
Codice dei Vampiri.
Kingsley controllò le sue manette e annuì, convinto che avrebbero retto. Poi i
Venator se ne andarono, chiudendosi la porta alle spalle, e Allegra attese suo fratello
da sola nel buio.
Si fece notte, ma Charles non si era fatto vivo, né i Venator le diedero ancora fastidio.
Non era preoccupata per se stessa, ma non riusciva a darsi pace pensando a Ben.
Dove era? Era al sicuro? Non gli avrebbero fatto del male… vero? Era andato in città,
la stava cercando ora? Perché la stavano tenendo in cantina? Lo avevano già preso da
qualche altra parte?
Cosa ho fatto, pensò Allegra. Cosa non sono riuscita a fare.
La mattina successiva, Allegra ipotizzò che fosse dopo l’alba, Kingsley tornò
con un bicchiere d’acqua e del pane. Senza parlare, mise tutto accanto alla sua sedia.
C’era olio d’oliva sul pane, e Allegra pensò amaramente all’ultima volta che aveva
fatto un vero e proprio pasto: nella veranda, con Ben al suo fianco, entrambi
innocenti come bambini. Non avrebbe mai dovuto trascinarlo in tutto ciò. Questo
mondo di segreti e sangue e oscurità e immortalità. Lui era come il sole mentre lei era
una meteora, un detrito, una stella cadente.
Aveva appena finito il suo pasto quando la porta si aprì con un colpo e Charles
entrò a grandi passi nella stanza. I suoi capelli neri erano già striati di grigio e non
aveva nemmeno un quarto di secolo. Entrò come se possedesse il posto. Allegra fu
sorpresa di quanto era diventato imponente. Era cresciuto nel suo potere e se lo
godeva. Godeva nel dimostrarle come l’avesse trovata facilmente. Come l’avevano
trovata? Anche con tutti i suoi attenti preparativi? Che errore aveva fatto? O forse
l’errore era stato pensare che si sarebbe liberata di lui una volta per tutte? Che lui
l’avrebbe mai lasciata in pace? Erano legati l’uno all’altra. Il loro legame poteva
logorarsi ma non si sarebbe mai spezzato; ora l’aveva imparato. Non si poteva
nascondere dal suo gemello.
«Liberala» ordinò a Kingsley, che subito le tolse le manette.
Allegra si massaggiò i polsi con rabbia.
«Te la farò più semplice.» disse Charles
«Come?»
«Ho il tuo famiglio.»
Allegra sentì una pugnalata al cuore. Così avevano Ben. Ovviamente. Non
c’era dubbio che facesse parte del piano. Ben era umano… era totalmente indifeso di
fronte ai vampiri. Non poteva competere con loro. Allegra non poteva credere che
Charles fosse caduto così in basso da minacciare un Sangue Rosso. Questo andava
contro ogni legge che avevano stipulato. Questo era indegno del suo potere.
«No» disse Allegra violentemente, «Non lo faresti mai»
«Dipende da te, in realtà, ciò che gli accadrà» disse Charles, il suo viso privo di
emozioni, «Non mi importa in un modo o nell’altro.»
«Non faresti mai del male ad un umano. Va contro il Codice. Lo stesso Codice
che hai scritto con il tuo stesso sangue, Michael.»
Charles chinò la testa. Quando la guardò, c’erano lacrime nei suoi occhi. Le si
rivolse come lei aveva fatto, con i nomi che si erano dati quando la terra e i cieli
furono creati, e loro stessi erano nati nella bellezza della Luce. «Gabrielle, questa
farsa è andata avanti abbastanza. So che vuoi farmi del male, e lo hai fatto. Ma per
favore. Questa infatuazione è un capriccio infantile. Finiscila.»
Lei vide cosa stava vedendo: le amare rovine del loro giorno di celebrazione
del legame: Cordelia stava aspettando sui gradini del museo, poi Charles, il suo viso
pallido e i suoi capelli che subito divennero grigi. Il dolore fu così profondo, un colpo
devastante. Gli ospiti inorriditi e confusi, la Congrega armata. Allegra era scomparsa,
era stata rapita? La paura… e poi… la scioccante comprensione di cosa aveva fatto.
L’aveva lasciato. Li aveva lasciati. Aveva voltato le spalle alla Congrega.
«Lo amo, Michael.» disse «Non me ne sarei mai andata, non avrei mai fatto
quello che ho fatto, se non fosse così. Lo amo con tutto il cuore e l’anima e il
sangue.»
«Non puoi» disse Charles piattamente, «Non sai di cosa stai parlando. Lui è
inferiore a te. Tu hai un dovere nei confronti del tuo legame e della tua Congrega.»
Hai un dovere nei miei confronti, pensò senza dirlo.
«Lo amo» disse Allegra, «Lo amo più di quanto abbia mai amato te.»
Dimentica il legame, dimentica la Congrega. Allegra era stanca di essere una regina;
voleva semplicemente essere una ragazza di nuovo.
Charles era impassibile. «Amalo quanto vuoi, Gabrielle. Io ti amo ancora. Ti
amerò sempre, e questo è tutto ciò che importa. Ti perdonerò qualsiasi cosa, e ti
perdonerò anche questo.»
Allegra sentì il suo stomaco contorcersi. Sapeva che stava dicendo la verità, e
poteva vedere quanto questo lo stesse ferendo. Gli posò una mano sul braccio. «Se mi
ami, dimmi cosa è successo a Firenze, cosa è successo veramente. Perché non lo
ricordo? So cosa ho fatto ma ci sono parti della mia memoria che mi sono state
nascoste e riesco a sentirti in esse, Michael. Riesco a sentire la tua magia dentro di
me. Mi stai nascondendo i miei ricordi. Non ne hai il diritto.»
Charles non rispose. Invece, mentre lui usciva dalla stanza e chiudeva la porta,
Allegra lo sentì dire delicatamente «Ne ho tutto il diritto.»
E in quel momento seppe che non avrebbe mai scoperto la verità della sua
storia. E mentre ancora credeva che in nessun caso Michael, Puro di Cuore, il più
grande angelo mai esistito, avrebbe ferito un semplice umano, Allegra fu
improvvisamente molto, molto spaventata.