Sei metri di carbone da “tagliare”
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Sei metri di carbone da “tagliare”
La storia di Natale Dicembre 1955, miniera di Marcinelle (Belgio) Sei metri di carbone da “tagliare” Racconto di Mauro Neri H o sei metri di carbone da “tagliare”, davanti a me. Anzi, è sopra di me, sul soffitto di un cunicolo nel quale sono entrato coi piedi in avanti e la schiena che striscia nel fango per terra. Tra le mani stringo il motopiq, il martello pneumatico che per otte ore consecutive torturerà il mio stomaco e il cuore, i muscoli delle braccia, i tendini delle gambe e le orecchie, già ferite dal rumore infernale che fa una miniera di carbone in pieno lavoro. Ho impiegato un’ora intera – che nessuno mi pagherà mai – per arrivare a piedi al Pozzo numero 1 della miniera Bois du Cazier di Marcinelle, per farmi riconoscere all’ingresso mostrando la mia medaglia n. 254, per entrare nella “stanza degli impiccati”1, slacciare la fune annodata al piolo che trattiene al soffitto il rullo del mio porta-abiti personale, tirar giù in fretta la tuta – che una volta era blu e adesso è nera, come la terra, come la notte di galleria, come il carbone del Belgio – spogliarmi e rivestirmi al gelo di questo inizio di dicembre del 1955, sistemare i Il racconto è illustrato da immagini del rito della Stella di Faedo. (foto Gianni Zotta) 39 TRENTINO EMIGRAZIONE miei abiti normali sull’appendino e tirarlo in fretta su come si fa con l’alzabandiera fino al soffitto del camerone, dove rimarrà per le otto ore di turno. Poi di corsa al magazzino a ritirare il casco e la lanterna ad olio già accesa, lasciando in deposito la mia medaglia personale; ancora di corsa a mettersi in fila all’ingresso dell’ascensore, aspettare il proprio turno e poi scivolar giù, nelle viscere della terra belga di Marcinelle assieme ad altri venti minatori tutti muti come me, con gli occhi seri come i miei, ancora mezzo addormentati per quella sveglia prima dell’alba. Giù per milleduecento metri in tre spezzoni, in tre lunghi viaggi cigolanti come se le funi che tengon su la grande gabbia dell’ascensore fossero lì lì per sbriciolarsi e le pulegge per spaccarsi a metà. Alle sei in punto la grata di metallo dell’ascensore si è aperta sulla galleria principale a meno 1.238 metri dal livello del suolo: il capo-livello ci ha contati uno a uno battendo sulla spalla destra di ciascuno e poi via, i minatori di taglio col motopiq in mano, i più giovani con le ramazze e i secchi, i novellini appena arrivati con i badili per raccogliere il carbone che cade di continuo dai lunghi nastri trasportatori... Un’ora di lavoro gratis, per prepararsi a lavorarne altre otto di seguito nella galleria assegnata. La mia porta il numero ventiquattro-barra-dodici, significa che è il dodicesimo cunicolo del ventiquattresimo livello del Pozzo 1 della miniera di Bois du Cazier: un intrico, un labirinto buio di gallerie grandi e piccole scavate per andare alla ricerca delle “tagliate” ancor più nere della notte di miniera: sono le “tagliate” di carbone, le vene di antico legname fossile da aggredire con le punte assordanti e impazzite dei motopiq. Ed eccomi qua, infilato di schiena nel dodicesimo cunicolo, con il martello in mano e il grosso filo elettrico alle mie spalle che raggiunge il compressore fuori, nella galleria più ampia, e sono in compagnia di Renato, un giovane pugliese che mi fa da secondo, da aiutante. – ’Taca la luce! – gli ordino in dialetto trentino. Renato capisce solo la parola “luce” ma ormai sa quel che deve fare e corre a collegare il compressore. A quel punto io e il motopiq diventiamo un’unica macchina vibrante, un unico essere mostruoso, un cervello, due gambe e due braccia di muscoli e di ossa che sono un tutt’uno con quella mitragliatrice di colpi incessanti che... TU-TU-TUM... TU-TU-TUM... TU-TU-TUM... si ficcano nella vena del carbone, frangono la materia nerastra, la sbriciolano spruzzando polvere ovunque: scaglie di carbone cadono dappertutto, mi vengono addosso, entrano sotto la tuta mentre il respiro velenoso di quel pulviscolo malsano si insinua tra le labbra, mi entra in bocca e s’impasta con la saliva. Sputo e risputo, mi pulisco la bocca col rovescio 40 della manica e mi ritrovo più sporco di prima. Ma il “motopiq” non ha polmoni, non ha occhi e nemmeno mani, lui: TU-TU-TUM... TU-TU-TUM... TU-TU-TUM... picchia e basta, picchia con gioia, con un ritmo allegro che mi ricorda i balli che facevo da giovane sulla piazza grande di Faedo, a terrazza sulla Piana Rotaliana, sul castello di Monreale e su Mezzolombardo laggiù, dall’altra parte della valle, dove abita il mio amore, la mia Luciana. Tocca al piccolo Renato cavarmi di dosso il carbone che cade dal soffitto, mettere i pezzi grossi e quelli più piccoli in un secchio e portarli di corsa fuori dal cunicolo per gettarli sul nastro trasportatore che rulla rumoroso al centro della galleria. Forse è stato il ricordo della mia Luciana, la donna che attendo da sette anni di sposare in chiesa, a far partire le immagini del mio paese come fosse un film, uno di quei film che la domenica talvolta vado a vedere con gli amici al cinema di Marcinelle. Sono le immagini di quella Faedo che non vedo da quattro anni interi e che adesso, agli inizi di dicembre, probabilmente è già sotto la neve. E mentre il motopiq... TU-TU-TUM... TU-TU-TUM... TU-TU-TUM... continua il suo martellante lavoro di demolizione lungo i sei metri di “tagliata” nera di carbone che mi spettano in questo turno di lavoro, come in una catena senza fine, in un rosario recitato a maggio le foto del passato si aggrappano le une alle altre ed emergono prepotenti alla memoria... Il campo di patate della mia famiglia, giù ai Molini di Faedo, alla fine della guerra non era più sufficiente a mantenerci tutti. Allora scesi a Trento a cercar lavoro, alla Sloi o alla Michelin: non so quante file ho fatto davanti agli uffici di quelli che scelgono gli operai, file inutili però, perché la precedenza veniva data ai reduci che tenevano famiglia e che avevano magari due o tre bocche piccole da sfamare. Per noi giovani scapoli non restava mai nulla: per quel che gliene importava, potevamo anche morir di fame. Meglio per tutti! Certo, c’era Luciana, la mia ragazza di Mezzolombardo: innamorati pazzi tutti e due, ci vedevamo tre volte la settimana a casa sua, oppure su a Faedo, all’ombra di qualche albero alla Pineta, ma a diciassette anni era troppo giovane per accasarsi e i suoi magari avrebbero preferito un uomo con tanto di lavoro, non un giovincello come 41 me che possedeva sulla carta solo il settimo di un campo inutile di patate in condivisione con sei fratelli. Fu così che decisi di partire: era già il 1951 e avevo atteso anche troppo. Vent’anni di età e solo qualche lavoretto in paese sulle spalle, ad aiutare questo e quello in campagna o in cantina o nella stalla... Vent’anni senza senso e allora che fare? Qualcuno mi parlò del Belgio, delle miniere in cui pagavano bene... «Cinque o sei anni di mina e torni a casa con un bel gruzzolo... » mi dissero i vecchi di Faedo. Sono quattro anni che lavoro al buio e all’umido di Marcinelle, ma vi assicuro che di gruzzoli ne ho visti ben pochi! Mi sa che mi toccherà morir di vecchiaia o di silicosi o di un incidente, in questi cunicoli di carbone! – Facimu ’na pausa, patrunu!2 – strilla Renato battendomi con una mano sul casco. Piccola pausa di cinque minuti dopo tre ore d’inferno: questo è il lavoro in miniera. Una sosta breve per bere mezza tazza di caffè amaro e per sbocconcellare una fetta di pane secco... e poi via col “motopiq” di nuovo e via anche coi sogni e con i ricordi... Quanto mi manca Faedo... Non solo per Luciana, che dopo quattro anni mi scrive ancora una lettera al mese, mezzo foglio scritto a fatica per dirmi che va tutto bene, che i suoi la assillano facendole conoscere e portandole in casa i giovanotti più benestanti di Mezzolombardo, Mezzocorona e San Michele, ma lei dice sempre di no a tutti. «Io amo te, Carlo, e ti aspetterò fin quando vorrai... Ma fa’ presto, ti prego: torna presto a casa e portami via con te...». Certo che ritorno, Luciana, le ho scritto nella mia ultima lettera, ma non so quando. Forse tra un anno o due prendo il coraggio a due mani, poso il motopiq, prendo il treno verso Milano e corro ad abbracciarti... Faedo mi manca soprattutto a Natale: è bello, il Natale, al mio paesino. È il tempo delle feste, di presepi bellissimi e di grandi mangiate e sonore bevute nelle cantine degli amici, ma questo capita anche nei paesi vicini e in tutte le valli del Trentino. No: a Faedo il Natale è bello per una cosa particolare, che capita solo qui e da poche altre parti... A quel punto è proprio il rumore martellante del mio che si fa accompagnamento musicale, che diventa una nenia ripetitiva sulla quale la mia mente ricama le note e le parole di un antichissimo canto... Dapprima sono note e parole mute che s’illuminano nella mente del minatore piegato di traverso per scalfire con la punta del martello la parte profonda della vena... «Naaaa-naa-na...Naaa na-naaaaa... Na-na naaa-na Naaa na-naaaaa». Poi le parole escono dalla fessura delle labbra con sbuffi di vapore, o forse è polvere sottile e tossica, chissà, e si mescolano con il TU-TU-TUM... TUTU-TUM... TU-TU-TUM... del motopiq che diventa TRENTINO EMIGRAZIONE un’orchestrina di fisarmonica e violino: «Puer natus in Bethleheeeem... unde gaude Hierusaleeeem». Non è la voce di Carlo, quella. Sì, è lui che canta, ma nella sua mente sono le voci in coro dei ragazzi e delle ragazze di Faedo che cantano a squarciagola nel freddo invernale: fiotti di vapore si alzano nei vòlti e negli androni del vecchio paese... «Hi jace in preseeeepio... Qui regna in eteeeerno...» – ’Ce ’ddiciti, patrunu? – urla Renato per farsi sentire nel TU-TU-TUM del martello pneumatico. – Iti tittu quarche cosa?3 Carlo si gira a guardare il ragazzo, gli fa un sorriso rassicurante e torna a controllare la punta del motopiq. Ma cosa gli salta in mente di mettersi a cantare in miniera? Perché si è fatto prendere il cuore dai ricordi? Adesso la vede come fosse lì, nel buio di quel cunicolo, la sua Luciana che da Mezzolombardo, ogni Natale, aveva preso l’abitudine di salire a Faedo per cantare nel coretto della “Stella”. Quello della “Stella” è un rito antichissimo, un tempo chiamava a raccolta i soli maschi di Faedo, che così festeggiavano l’arrivo dell’età adulta ma, dopo la seconda guerra mondiale, per penuria di giovanotti con la prima barba ha coinvolto anche le ragazze del paese e le loro amiche che venivano da fuori. Da Natale all’Epifania, il coretto accompagnato dai tre Re Magi gira di casa in casa, di frazione in frazione e, magari, scende anche a San Michele, a Grauno e talvolta si spinge su fino a Palù di Giovo per cantare “Puer natus in Bethlehem”, oppure “Dormi dormi, oh bel bambin”... “E noi siam tre Re d’Oriente”... Un salame, mezza forma di formaggio, un fiasco di vino, qualche dolcetto fatto in casa e magari un paio di soldi sono i piccoli regali, le ricompense che i ragazzi raccolgono nel corso dei loro giri. E il tutto si trasforma, all’Epifania, in una gran festa tutti assieme, a bere e a mangiare cantando in coro “Noi siamo li tre Re”... Carlo all’improvviso spegne il motopiq e un grande silenzio riempie il cunicolo. La lanterna ad olio illumina la nube di polvere che piano piano scende verso il basso e va a coprire la tuta scura, le mani ancora aggrappate alle maniglie del martello, il casco nero come la notte. Renato rientra nel budello con il secchio vuoto e s’accorge subito del silenzio strano. – È ’ccappata quarche cosa, patrunu?4 Carlo non risponde ma appoggia il motopiq a terra, nella melma bagnata della galleria, e si mette a cantare con voce dapprima roca e poi sempre più pulita e fresca: – Noi siamo li tre Re... noi siamo li tre Re... venuti dall’Oriente ad adorar Gesù... Dov’è il Bambinèlo grazioso e bèlo... in braccio a Maria che l’è madre di Lui... in braccio a Maria, che l’è madre di Lui... 42 – Stati bbuenu, mesciv Carlu?5 Il minatore s’interrompe e si volta a guardare l’aiutante, quel ragazzo pugliese capitato in Belgio non sa nemmeno lui come e perché. – Te sei ’n bòcia, ti: no’ te pòdi capir! Certo che Renato non poteva capire: parlava solo pugliese, lui. E per giunta il pugliese mezzo siciliano che si usa a Nardò, un paesino perso nel cuore del Salento. Ma gli occhi, no: gli occhi di Carlo il minatore si facevano capire eccome. Erano occhi pieni di gioia, quelli, lucidi di lacrime e di ricordi. Erano occhi vivi in quel cimitero di carbone. Erano occhi che parlavano da soli. – Taca ancor la luce, va là! – esclama Carlo con un sorriso e quando il TU-TU-TUM... TU-TU-TUM... TU-TUTUM.. riprende vibrante e violento, il minatore ricomincia a scavare come un forsennato, aggredendo la “tagliata” di carbone con vigore strano. Sei metri interi, ne scava quel giorno. Sei metri centimetro dopo centimetro, scaglia sopra scaglia, secchiello dopo secchiello. Sei metri in poco meno di otto ore, quasi un record per Carlo, al suo quarto anno di miniera. Quando Renato lo raggiunge per avvisarlo che il turno è finito, l’uomo si trascina a stento e con le ossa spezzate fuori dal cunicolo, trascinandosi dietro il motopiq. Quando s’alza in piedi, la testa gli si mette a vorticare violenta e le mani cominciano a tremare per lo sbalzo di pressione. Ma il tutto dura dieci secondi appena e quan- do le forze gli tornano allunga una mano e scompiglia i capelli scuri e ricci del ragazzo pugliese. Di solito Carlo gli sussurra “A domani!”. Oggi no: oggi rimane in silenzio e sempre senza parlare si mette in fila davanti alla grata dell’ascensore, con la lanterna mezza spenta in mano e gli occhi chiusi persi chissà dove. Ci vuole un’altra ora – che nessuno gli pagherà mai! – per risalire all’aperto, per attendere dieci minuti che le orecchie si stappino e per raggiungere la “stanza degli impiccati”. Fatta la doccia e rivestito con gli abiti normali, s’avvia all’uscita camminando a fatica e lì cerca con gli occhi il suo capo-uomini. Giorgio è un valtellinese, una pasta d’uomo che ha preso a ben volere il giovane trentino. Lo accoglie quindi con un sorriso, quando Carlo gli si avvicina e gli porge la medaglia personale col numero 254. – Che c’è? – chiede Giorgio con gli occhi improvvisamente seri. – Cosa vuol dire questa medaglia, Carlo Calovi? – Vuol dire, capo, che me ne vado! – dice in un fiato il minatore, temendo di perdere il coraggio accumulato nel cunicolo di sotto, al suono natalizio del suo motopiq. Giorgio è un cinquantenne che ha scavato in miniera per più di trent’anni. È uno dei primi italiani arrivato a Marcinelle e, adesso che non scava più, ma che convive con una silicosi all’ultimo stadio, deve inspirare almeno quattro volte prima di fare un respiro profondo e trovare il fiato per parlare. – Sai che vuol dire, se te ne vai all’improvviso? – Io sono assunto a cottimo, capo – risponde Carlo, giocherellando con la medaglia tra le dita, – e quindi se ci sono e lavoro, mi pagano, se non ci sono e non lavoro, non mi paga nessuno. È semplice, no? – Quanti anni sono che sei a Marcinelle? – Quattro al novembre scorso. E ho nostalgia di casa. – Abbiamo tutti nostalgia di casa, Carlo. Vorremmo tutti prendere e andarcene di punto in bianco. Io, quella voglia, l’avrò avuta almeno venti volte al mese, il primo anno che ero qui. Ma poi ci si abitua, ci si fa il callo e quando la tua donna ti raggiunge, allora le fisime svaniscono. Per sempre. O quasi. – Ecco: io voglio andare dalla mia donna, in Italia, in Trentino, a Faedo. Voglio andare da lei, chiederle di sposarmi e tornare qui tutti e due. Prenderci una casetta in affitto e fare dei figli... – Ascoltami – continua Giorgio abbassando la voce. – Io sono vecchio, ormai: cinquant’anni di cui trenta in miniera è una vita intera. La direzione mi ha chiesto di scegliermi un aiuto, un giovane minatore che possa imparare un po’ alla volta a fare il capo-uomini. Dev’essere un tipo tosto, con il cervello sulle spalle, senza grilli per la testa e 43 gran bravo lavoratore. Tu sei tutte e quattro queste cose: se oggi te ne vai, io devo scegliere un altro! Carlo rimane solo un istante in silenzio. Un paio di dubbi gli attraversano la mente ma... «Puer natus in Bethlehem...» gli canta in un orecchio il coretto di donne di Faedo con la sua Luciana al centro... – Sentite, capo: se voi credete in me, se mi ritenete un tipo adatto a fare il capo-uomini, allora potrete aspettarmi un mese, va bene? Un mese soltanto, ma io nel frattempo torno a casa, sistemo alcune cose e sposo la mia Luciana... Non aggiunge che nel frattempo avrebbe partecipato, forse per l’ultima volta, al rito della “Stella” e non dice nemmeno che si sarebbe travestito da Re Mago... la sua pelle scura di carbone, poi, è l’ideale per interpretare il moro Baldassarre che porta la misteriosa mirra in dono al Bambin Gesù... Giorgio guarda il giovane in fondo agli occhi e capisce che c’è qualcosa d’altro che spinge quel trentino a tornare a casa. Non indaga oltre, ma gli appoggia una mano sulla spalla... – D’accordo, Calovi, hai ragione tu: quattro anni senza casa sono troppi per chiunque. Parlerò io alla Direzione centrale e vedrò di farti avere anche un po’ di stipendio durante la tua assenza. Ma poi torna, te ne prego, perché qui a Marcinelle hanno bisogno di minatori come te... Se il capo-uomini quel giorno avesse avuto il tempo di seguire Carlo fino alla baracca in cui viveva, lo avrebbe sentito cantare a squarciagola e per strada: «Or noi ce ne andiamo e noi ce ne andiam... per i nostri paesi da cui venuti siam... Ma qui ci resta il cuore in braccio al Signore... in braccio a Maria e al Bambinèl Gesù... in braccio a Maria e al Bambinèl Gesù...»6. 1) Era chiamata così la grande stanza dello spogliatoio, perché gli abiti appesi in alto sul soffitto davano l’idea di tanti impiccati. 2) Facciamo una pausa, capo?. 3) Cosa dite, capo? Avete detto qualcosa?. 4) È successo qualcosa, capo?. 5) State bene, mastro Carlo? 6) La mattina dell’8 agosto 1956, quindi circa otto mesi dopo gli avvenimenti della storia che abbiamo qui raccontato, nello stesso Pozzo 1 della miniera Bois du Cazier di Marcinelle un carrello esce dalle guide e va a sbattere contro un fascio di cavi elettrici ad alta tensione senza rete di protezione. L’incendio furioso che ne derivò uccise 262 minatori dei 275 presenti nelle gallerie in quelle ore. Tra i deceduti ben 136 erano italiani e un solo trentino, Primo Leonardelli (36 anni) di Viarago. Negli anni Cinquanta del secolo scorso furono ben 867 gli italiani che persero la vita lavorando nelle miniere del Belgio.