Renata Targetti Lenti Crescita e diseguaglianza nel lungo periodo. L
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Renata Targetti Lenti Crescita e diseguaglianza nel lungo periodo. L
Renata Targetti Lenti Crescita e diseguaglianza nel lungo periodo. L'analisi di Thomas Piketty. 1.Introduzione La "diseguaglianza", in particolare quella nella distribuzione personale dei redditi e della ricchezza, è tornata ad essere oggetto di un intenso dibattito sotto diversi profili: teorico, applicato e di “policy”. Il tema di una diseguaglianza crescente all’interno di paesi molto ricchi, come gli Stati Uniti ha acquistato nuove dimensioni all'interno di ogni paese in relazione alle trasformazioni dei rapporti sociali e personali ed a livello internazionale con l'intensificarsi dei processi di globalizzazione. Amartya Sen (2002, p. 5) ha sottolineato come la sfida principale abbia oggi a che fare "in un modo o nell'altro, con la disuguaglianza, sia tra le nazioni sia nelle nazioni....Una questione cruciale è la divisione, tra paesi ricchi e paesi poveri o tra differenti gruppi in un paese, dei guadagni potenziali generati dalla globalizzazione". Un contributo importante al dibattito sulla diseguaglianza, con riferimento in particolare alla “sostenibilità” di sistemi capitalistici nei quali la diseguaglianza sia crescente è offerto dal “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty (2014). Il lavoro, che è stato recentemente tradotto in italiano, era uscito in francese nel 2013 e, quasi immediatamente era stato tradotto e pubblicato in inglese, nell’aprile del 2014. Numerosi quotidiani e settimanali, soprattutto americani, hanno ospitato recensioni, quasi sempre molto positive. Per economisti ben noti come Krugman (2014), Stiglitz (2014a, 2014b), Milanovic (2014), Solow (2014) si tratta di un contributo importante al pensiero economico, ed in particolare all’interpretazione della relazione tra crescita e diseguaglianza nel lungo periodo. Recentemente sono apparse alcune recensioni critiche, sollecitate da un intervento di Chris Giles (2014) responsabile per la parte economica del Financial Times, circa l’attendibilità delle fonti utilizzate da Piketty, delle evidenze empiriche nonché di alcune stime. I rilievi critici, seguiti da altrettanto numerosi articoli in difesa di Piketty, non riescono ad indebolire significativamente l’impianto del volume. Alle critiche e contestazioni, l’autore ha replicato in modo convincente osservando che le considerazioni sull’aumento della diseguaglianza e sui conseguenti effetti negativi in termini di crescita, tratte dall’evidenza empirica non possono che essere il risultato di un’inferenza imperfetta, così come sempre accade nell’ambito delle scienze sociali. L’evidenza empirica presentata nel volume, relativa a numerosi paesi ed al lungo periodo, ha già consentito, e consentirà anche in futuro di promuovere un dibattito, ricco di spunti innovativi, fondato su basi statistiche più ampie di quanto non sia mai accaduto in passato. Secondo Andrea Brandolini (2014, p. 2), proprio i dati empirici sono “il perno del volume, un elemento distintivo che gli dà originalità e vigore”. Il volume è il risultato di una ricerca, iniziata da Piketty 15 anni fa con riferimento alla Francia e proseguito con alcuni colleghi (Atkinson a Oxford, Saez a Berkeley) per analizzare i casi degli USA e del Regno Unito. L’analisi è stata poi estesa ai dati sui redditi, in quei paesi occidentali dove esiste da tempo un’imposta personale sui redditi, ma anche in Cina, in India ed in molte nazioni dell’America Latina. Il risultato è una vera e propria “rivoluzione” nell’analisi della diseguaglianza, o meglio “delle” diseguaglianze nel lungo periodo. Mai si era stimata la dinamica della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza nel lungo periodo sulla base di una evidenza empirica così ricca come quella presentata in questo lavoro. Raramente le serie storiche sulla concentrazione dei redditi personali hanno riguardato il lungo periodo. Il merito principale del lavoro è di avere riportato al centro del dibattito economico e politico il tema della diseguaglianza e della sua perpetuazione tra generazioni, attraverso la trasmissione ereditaria delle diverse forme di capitale fisico, finanziario ed umano. Secondo Brandolini (2014, p. 1) il volume di Piketty resta “straordinario” principalmente per quanto riguarda “il vincolo indissolubile che lega giudizio normativo e analisi della disuguaglianza. Il discorso sulla distribuzione del reddito e della ricchezza è inevitabilmente un discorso sulla giustizia sociale: possiamo discutere su quali disuguaglianze siano giuste, ma è illusorio pensare che si possa condurre un astratto ragionamento neutrale, in punto di teoria economica.” Piketty afferma "la storia delle diseguaglianze dipende dalla rappresentazione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è che si fanno gli attori economici, politici, sociali, dei rapport di forza tra questi attori, e delle scelte collettive che ne derivano; è ciò che viene determinato da tutti gli attori coinvolti” (Piketty, 2014a, p.43). La distribuzione funzionale tra redditi da capitale e redditi da lavoro torna con Piketty ad essere un tema centrale dell’analisi economica così come era stato per gli economisti del XIX secolo. Questo tema era uscito dall’agenda delle ricerche in economia, anche in relazione alla crescente influenza del pensiero neoclassico. Nello stesso tempo si era consolidata l’ipotesi che le politiche redistributive non siano efficaci. Robert Lucas (2004, p. 15) premio Nobel per l’economia nel 1955 afferma: “Of the tendencies that are harmful to sound economics, the most seductive, and in my opinion the most poisonous, is to focus on questions of distribution.... of the vast increase in the wellbeing of hundreds of millions of people that has occurred .....none of it can be attributed to the direct redistribution of resources from rich to poor” (Lucas, 2004, p. 5). D’altra parte per molto tempo era stata accettata l’ipotesi che la distribuzione “funzionale” del reddito nazionale tra i fattori che avevano contribuito alla sua formazione, si mantenesse costante nel tempo e per questo non fosse importante analizzarla. Secondo Keynes (1939, p. 41) si trattava di una sorta di “miracle". Alcuni studi avevano, poi, fornito supporto empirico a questa ipotesi. Tale regolarità sembra tuttavia essersi interrotta proprio a partire dall’inizio degli anni ‘90, con il progressivo declino della quota del lavoro ed il corrispondente aumento della quota dei profitti e delle rendite finanziarie sul valore aggiunto totale. Un accettabile livello di diseguaglianza era considerato funzionale alla crescita, sia nei modelli aggregati (keynesiani) che in quelli multisettoriali (neoclassici). Per Lewis la nascita di un settore manifatturiero in un paese in via di sviluppo era reso possibile dalla formazione di profitti ed era accompagnata da una crescita del divario tra salari in agricoltura e salari nell’industria. Per Kuznets la prima fase dello sviluppo è accompagnata da un aumento della diseguaglianza. Una delle ragioni del grande successo che ha accompagnato la pubblicazione del “Capitale nel XXI secolo” è riconducibile al fatto che negli Stati Uniti, negli ultimi anni, è aumentata l’attenzione nei confronti di una diseguaglianza che stava rapidamente crescendo. In un confronto con gli altri paesi industrializzati gli Stati Uniti sono caratterizzati dalla più elevata diseguaglianza nella distribuzione dei redditi personali disponibili. Nel 2013 l’indice di Gini calcolato sulla distribuzione dei redditi di mercato era pari a 0,57, non molto superiore a quello della Spagna o delle nazioni scandinave, ma inferiore a quello di molti altri paesi europei come la Germania, la Gran Bretagna, Grecia e Irlanda. La riduzione dell’indice attribuibile alla redistribuzione risultava molto minore rispetto a quella di tutti gli altri paesi europei considerati. L’indice di Gini, calcolato, sul reddito disponibile (pari a 0,42) si riduceva solo dello 0,15 per cento, molto meno rispetto alla Germania (0,24 per cento) o rispetto al Lussemburgo e Norvegia (0,20 per cento). La diseguaglianza e la polarizzazione dei redditi negli Stati Uniti, non solo sono le più elevate tra i paesi industrializzati, ma sono anche cresciute sistematicamente. Come sottolinea Stiglitz (2012) tra il 2009 ed il 2010 il 93% dei guadagni della ripresa è stato percepito dai redditieri che si collocano nell’1% più elevato della distribuzione. Nel 2012 il quintile più povero di famiglie riceveva solo il 3.4% del reddito di mercato (“money income before taxes”) equivalente, mentre il quintile più ricco riceveva ben il 49.9%. Il 5% più ricco riceveva il 22.1%. L’arricchimento progressivo dell’ultimo quintile è stato accompagnato da un calo del peso della classe “media” definita come quella che corrisponde al secondo, terzo, e quarto quintile (60 per cento delle famiglie). Nel 2012 questa fascia ha ottenuto una quota di reddito pari al 45,7 per cento, di molto inferiore al 53,2 per cento del 1968. Un livello di diseguaglianza così elevato, che colpisce anche la classe media può diventare un fattore di freno per la crescita, se si traduce in minori opportunità per le prossime generazioni. Già oggi il divario nei risultati delle prove di apprendimento (“test scores”) tra bambini ricchi e poveri risulta del 30-40% più ampio di quanto non fosse 25 anni fa. Anche le misure di mobilità sociale, già inferiori a quelle di molti paesi europei, continuano a restare basse Piketty, grazie ad un straordinaria raccolta di dati ed alla rielaborazione degli stessi, non solo documenta le tendenze della diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e della ricchezza, nel lungo periodo e per un numero elevato di paesi, ma anche evidenzia le “connessioni” tra queste variabili e la dinamica del sistema economico. La stima e la rielaborazione delle diverse serie storiche (rapporto capitale prodotto, quota dei redditi capitale, diseguaglianza tra r e g) documentano la validità delle “leggi fondamentali” del capitalismo “patrimoniale”. Queste sono alla base di un modello molto semplificato che, tuttavia, consente di giungere ad una interpretazione completa ed innovativa circa la dinamica delle diseguaglianze in società caratterizzate dal capitalismo patrimoniale. L’evidenza raccolta consente di distinguere tre periodi che mantengono cartteristiche analoghe nei diversi paesi ed in particolare in Europa e negli Stati Uniti. In un primo periodo che intercorre tra la fine dell’ 800 e l’inizio del 900 (1910 o 1920 a seconda delle serie storiche) le diverse forme di diseguaglianza, nella distribuzione della ricchezza e dei redditi, sono state elevate e crescenti. In un secondo periodo (tra il 1920 ed il 1970) definito “età dell’oro” queste stesse diseguaglianze si sono ridotte, o comunque non sono cresciute. Nel periodo compreso tra 1910 ed il 1970 si è verificata, dunque una diminuzione del livello di concentrazione della ricchezza negli Stati Uniti ed in Europa. In questo periodo si è verificata, a livello mondiale una inversione della relazione tra r e g. La diminuzione della diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, almeno negli Stati Uniti, inizia un pò più tardi e cioè a partire dal 1930. In ogni caso tutti i tipi di diseguaglianza hanno ricominciato a crescere dopo il 1970. 2. Il modello interpretativo. Piketty condivide con i “classici” l’ipotesi che la distribuzione del reddito e la corrispondente diseguaglianza non possano che essere il risultato di un conflitto. Il conflitto, in una società caratterizzata dal “capitalismo patrimoniale”, nasce tra categorie ben più eterogenee di quelle prese in considerazione da Ricardo e da Marx. Non solo i lavoratori entrano in conflitto con i percettori di redditi da capitale, ma, anche all'interno di queste due categorie nasce un conflitto distributivo. Ai percettori di interessi da capitale finanziario si contrappongono i percettori di profitti generati dall’utilizzo del capitale fisico e di rendite da proprietà immobiliare. Ai percettori di redditi da lavoro dipendente od autonomo si contrappongono soggetti come i “managers” che percepiscono redditi ben più elevati della media e si collocano all’interno dell’1% più ricco dei percettori. Piketty, in particolare, si discosta dalla scuola classica nell’interpretazione delle relazioni tra diseguaglianza e crescita. Non è interessato ad analizzare gli effetti della dinamica dei profitti e della conseguente accumulazione del capitale sullacrescita, ma piuttosto la relazione inversa. Ovvero di come il tasso di crescita dell’economia, in relazione al saggio di crescita dei rendimenti da capitale, influenza la formazione del capitale patrimoniale e di conseguenza la diseguaglianza. Uno degli aspetti distintivi dell’analisi Piketty “è il tentativo di semplificare ciò che semplice non è” e di cercare di sintetizzare in poche essenziali relazioni fenomeni che per loro natura sono molto complessi. Il rapporto tra il saggio di rendimento del capitale r e saggio di crescita dell’economia g “è una chiave di lettura potente delle tendenze in atto nel capitalismo e delle loro implicazioni per la disuguaglianza. Avere attratto l’attenzione su quel rapporto è un grande merito di Piketty”. (Franzini, 2014, p.1). Il capitale così come definito da Piketty è in realtà la ricchezza patrimoniale. E’ costituito da capitali industriali e commerciali, capitali finanziari, capitali immobiliari, incluse le abitazioni di proprietà, capitali agricoli, brevetti e altri beni immateriali. Questo capitale-ricchezza, d’ora innanzi, per semplicità, indicato solo con il termine capitale, genera un reddito per i suoi proprietari che viene definito tasso di rendimento r. Il rapporto capitale prodotto nel lungo periodo è determinato ricorrendo ad un modello del tipo Harrod-Domar (Piketty, 2014a, p. 353). Esso è pari al rapporto tra saggio di risparmio e saggio di crescita dell’economia ovvero β=s/g. Questo implica che in una società stagnante, dove l’ammontare dei patrimoni è elevato, la propensione al risparmio eccederà il saggio di crescita (s>g), e dunque il rapporto capitale/reddito β risulterà elevato e crescente. La quota α dei redditi da capitale sul reddito complessivo è derivata in un modello basato su di una funzione di produzione del tipo Cobb-Douglas (Piketty, 2014a, p. 333), dove Y=F(K, L) ed α = r β, ovvero α è eguale al prodotto tra tasso di rendimento del capitale r e rapporto capitale/prodotto β. La relazione α = r β costituisce la “prima legge fondamentale del capitalismo” (Piketty, 2014a, p. 87). L’aumento di α dipenderà dall’elasticità di sostituzione del capitale rispetto al lavoro (σ) nella funzione di produzione Y=F(K, L). Se si accetta l’assunzione standard che il valore di σ sia eguale ad 1, quando cresce β il tasso di rendimento r del capitale diminuisce nella stessa proporzione e α rimane costante. Se invece si pone l’ipotesi che σ sia maggiore di 1 il tasso di rendimento del capitale r diminuisce meno di quanto aumenti il capitale nel rapporto β così che anche α cresce. Ne deriva che, in questo caso, quando il capitale aumenta più velocemente del reddito non aumenta solo il patrimonio, ma anche la quota dei redditi da capitale rispetto ai redditi da lavoro sul reddito complessivo. A parità di altre condizioni, poi, la concentrazione nella distribuzione della ricchezza cresce nella misura in cui il tasso di rendimento del capitale r sia maggiore del tasso di crescita del reddito nazionale. La diseguaglianza r>g costituisce la il “fattore di divergenza fondamentale” (Piketty, 2014a, p. 49). Se il processo di crescita del prodotto netto g rallenta a causa di fattori esogeni (demografici o tecnologici) ed il capitale si accumula aumentando più rapidamente del reddito nazionale non solo i patrimoni ricevuti in eredità “prevalgono largamente sui patrimoni accumulati nel corso di una vita di lavoro”, ma cresce anche la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, e di conseguenza la diseguaglianza complessiva (Piketty, 2014a, p. 51). Si innesta un circolo vizioso tra diseguaglianza e crescita. Questo è tanto più vero quanto più i redditi da capitale sono costituiti da rendite improduttive, e cioè provenienti da beni ereditati piuttosto che da beni accumulati con il risparmio originato dai redditi da lavoro. I “patrimoni ereditati dal passato si ricapitalizzano più in fretta rispetto all’andamento del processo di produzione e dei redditi.... In tali condizioni è pressochè inevitabile che i patrimoni ricevuti in eredità prevalgano largamente sui patrimoni accumulati nel corso di una vita di lavoro, e che la concentrazione del capitale raggiunga livelli assai elevati” (Piketty, 2014a, p.51). Piketty precisa che la diseguaglianza r>g non comporta necessariamente mutamenti della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Rispondendo ad alcune osservazioni di Mankiew (Mankiew, 2015) afferma “Indeed, as rightly argued by Mankiw (2015), the inequality r>g holds true in the steady-state equilibrium of the most common economic models, including representative-agent models where each individual owns an equal share of the capital stock....and this does not entail any implication about wealth inequality” (Piketty, 2015, p. 4). Al fine di derivare da r>g implicazioni in termini di variazione della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza è necessario tener conto di quei fattori (shocks) che nel tempo modificano “the wealth trajectories of families” e contribuiscono a rendere la distribuzione molto ineguale. Questi sono di varia natura, demografici, diversa abilità degli individui ad effettuare buoni investimenti, diversa propensione al risparmio e così via. “A central property of this large class of models is that for a given structure of shocks, the long-run magnitude of wealth inequality will tend to be magnified if the gap r g is higher. In other words, wealth inequality will converge towards a finite level. The shocks will ensure that there is always some degree of downward and upward wealth mobility, so that wealth inequality remains bounded in the long run... a higher gap between r and g allows to sustain a level of wealth inequality that is higher and more persistent over time (i.e. a higher gap r-g leads both to higher inequality and lower mobility...In this class of models relatively small changes in r - g can generate very large changes in steady-state wealth inequality.” (Piketty, 2015, p. 5-6; Piketty, Zucman, 2015, section 5.4). La diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, e di conseguenza in quella dei redditi, cresce fino a raggiungere gli elevati livelli osservati nell’ultimo decennio. Una diseguaglianza crescente finisce con il costituire un freno invece che uno stimolo alla crescita. Si verifica, infatti, una riduzione della partecipazione al processo di formazione del capitale umano da parte di una quota significativa della popolazione, e di conseguenza si riduce la mobilità sociale che dovrebbe essere un elemento caratterizzante delle moderne democrazie. L’accesso ai gradi più elevati dell’istruzione è costoso e le categorie più povere, ma oggi anche gran parte della “classe media”, ne vengono escluse. Una società più equa è, secondo Piketty, alla base di un’economia più efficiente e dinamica oltre che la condizione per l’esistenza di una società democratica. In un sistema caratterizzato da ciò che Piketty definisce il "capitalismo patrimoniale", basato sull’accumulazione del capitale ereditato e non guadagnato con il lavoro da parte di pochissimi ricchi "il capitalismo produce automaticamente diseguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in discussione i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche" (Piketty, 2014a, p.12). La “contraddizione” insita nel capitalismo “patrimoniale”, non è dunque la caduta tendenziale del saggio di profitto, come avava ipotizzato Marx, bensì la crescita delle rendite da capitale patrimoniale. Quando questo aumento supera quello del reddito diventa conveniente per l’imprenditore trasformarsi in rentier. Se questo surplus sarà investito andrà ad aumentare la quota di capitale sul prodotto, in un processo che si autoalimenta potenzialmente all’infinito. I patrimoni ereditati si ricapitalizzeranno quindi più in fretta di quelli di nuova costituzione, legati al lavoro e alla produzione. Il quadro analitico di riferimento implica che un Paese con risparmi elevati e crescita lenta accumuli, nel lungo periodo, un stock di capitale elevato e tenda, quindi, a sperimentare una diseguaglianza crescente , e, nel lungo periodo, un rallentamento della crescita stessa. Il passato “divora” il futuro. 3. L’accumulazione della ricchezza e la dinamica del rapporto capitale reddito nel lungo periodo. Piketty poggia la sua interpretazione su di una raccolta di dati “straordinaria” per estensione geografica e storica e per qualità statistica (Piketty, 2014b). Con un metodo innovativo, riesce a stimare i valori della ricchezza patrimoniale. Partendo dalle statistiche sulle imposte di successione arriva a quantificare la trasmissione per via ereditaria dei patrimoni, e dunque non solo la dinamica della formazione delle diseguaglianze patrimoniali, ma anche il peso delle eredità. Accanto ai dati sui patrimoni sono stati raccolti quelli sui redditi da capitale di varia natura (affitti, dividendi, interessi, plusvalenze). Piketty documenta l‘andamento delle variabili β e α, stimando le corrispondenti serie storiche nei diversi paesi presi in considerazione, in Europa e nel mondo nel suo complesso. Figura 1 La figura 1 riporta le stime del valore complessivo della ricchezza privata espressa in annualità di reddito nazionale dal 1870 fino al 2010, ovvero del rapporto β in alcuni paesi europei (Germania, Francia e Regno Unito). Si osserva una curva ad U di grande ampiezza (Piketty, 2014a, p.49). Il rapporto β si è mantenuto sostanzialmente stabile attorno a valori molto elevati compresi tra 6-7 “annualità” nel periodo che corrisponde agli ultimi decenni del 1800 ed alla cosidetta “belle époque”. Ha subito una drastica diminuzione in corrispondenza al periodo 1910- 1950 per scendere a valori pari a 1,8 volte in Germania, a 2,2 volte in Francia, a 3 volte nel Regno Unito nel 1950. Questo è stato il periodo della grande redistribuzione. Il peso della ricchezza patrimoniale ha ricominciato a crescere fino ad arrivare, nel 2010, a valori pari a circa 6 volte in Francia, a 5 volte nel Regno Unito ed a 4 volte in Germania. Si è così tornati ad una società caratterizzata dal “capitalismo patrimoniale” in cui i valori di β sono molto elevati. Si osserva un andamento del tutto simile anche nel caso dell’Europa nel suo complesso. Figura 2 Negli Stati Uniti, invece, in confronto all’Europa, la curva ad U (figura 2) appare molto meno pronunciata, quando il numeratore di β sia costituito da un valore che include anche il capitale pubblico (Piketty, 2014a, p. 253). Figura 3 La figura 3 mostra l’andamento del valore del capitale privato, inteso sempre come quota percentuale del reddito nazionale, in un periodo più breve e cioè tra il 1970 ed il 2010 in alcuni “paesi ricchi” (Piketty, 2014a, p. 261). Nell’intervallo 1970-2010 β aumenta sensibilmente in tutti i paesi europei considerati, ma anche negli Stati Uniti, in Canada, in Australia ed in Giappone. In Italia questo rapporto è aumentato più velocemente che negli altri paesi da un valore di 3 volte nel 1970 ad un valore di 7 volte nel 2010. Questa crescita è attribuibile sia all’aumento dei prezzi degli immobili sia ad un trasferimento di ricchezza pubblica verso quella privata grazie alla crescita ed al collocamento presso i privati del debito pubblico. Figura 4 La figura 4 mostra la dinamica della ricchezza privata a confronto con quella pubblica (Piketty, 2014a, p. 281). Si può osservare, ad esempio, come in Italia la ricchezza publica sia sistematicamente diminuita dal 1970 al 2010 mantenendosi sempre negativa. Solamente in Canada si osserva un andamento analogo. Figura 5 L’aumento del rapporto β negli ultimi decenni è spiegato dal “ritorno a un regime di crescita relativamente lenta” (Piketty, 2014a, p. 50). Il saggio di risparmio s è cresciuto più velocemente del saggio di crescita dell’economia g. In corrispondenza alla crescita di β è aumentata anche la quota dei redditi da capitale α. Questo è avvenuto proprio nel periodo 1975-2010. In questo periodo sono aumentati contemporaneamente il rapporto capitale prodotto e la quota dei redditi da capitale in tutti i paesi industrializzati (figura 5). La quota α ha oscillato tra un minimo del 13% (Regno Unito) ed un massimo di 25% (Italia) nel 1975 (Piketty, 2014a, p. 340). Nel 2010 il divario tra i diversi valori si era ridotto. Il massimo era ancora per l’Italia pari al 28% ed il minimo, questa volta, si osservava in Francia con un valore pari al 25%. 4. La diseguaglianza nella distribuzione personale della ricchezza e dei redditi nel lungo periodo. Le domande a cui Piketty (Piketty, 2014a, p.11) ha tentato di rispondere con il suo lavoro di ricerca sono sostanzialmente le seguenti: “Che cosa sappiamo realmente del processo di distribuzione dei redditi e dei patrimoni dal XVIII secolo in poi, e quali lezioni possiamo trarne per il XXI?... La questione della distribuzione delle ricchezze è oggi una delle più rilevanti e dibattute. Ma che cosa si sa, davvero, del suo sviluppo sul lungo termine? La dinamica dell’accumulazione del capitale privato comporta inevitabilmente una concentrazione sempre più forte della ricchezza e del potere in poche mani, come pensava Marx nel XIX secolo? Oppure le dinamiche equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico determinano, nelle fasi avanzate del processo economico, una riduzione spontanea delle disuguaglianze e un’armonica stabilizzazione dei beni, come pensava Kuznets nel XX secolo?” Piketty ha avuto la capacità di rivitalizzare il metodo messo a punto da Simon Kuznets (1955) mezzo secolo prima avviando la riscoperta di un giacimento ricchissimo di dati, in generale facilmente accessibili ma trattati con distacco dagli economisti, ad eccezione di qualche adepto di scienza delle finanze o di storia economica. Questi dati sono le tabulazioni per classi di reddito delle entrate assoggettate alle imposte personali sui redditi. Kuznets ha mostrato come se ne potessero derivare risultati generali rapportandole ai totali della popolazione e dei redditi tratti dai censimenti e dai conti nazionali. “Ciò non è bastato a vincere la ritrosia degli economisti” (Brandolini, 2014, p. 2) anche se poteva essere giustificata dalla “difficoltà” di condurre ricerche come quella di Piketty. Per stimare la distribuzione personale dei redditi Piketty ricorre ad una fonte alternativa a quelle tradizionali. Al posto delle indagini campionarie sui redditi individuali (o famigliari) utilizza i dati fiscali così come aveva fatto Pareto. L’analisi di questa fascia di percettori è molto recente poiché, per effettuarla, è necessario adottare specifici metodi di stima, condizionati dalle differenze fra i regimi fiscali e fra i tassi di evasione. In particolare occorre risolvere i problemi di comparabilità tra paesi, con particolare riferimento alla stima dei redditi di origine finanziaria. Piketty ha impiegato le statistiche fiscali per stimare la quota di reddito dei contribuenti più ricchi dapprima in Francia, e poi insieme a Emanuel Saez e Facundo Alvaredo, negli Stati Uniti. Infine, coordinando insieme ad Anthony Atkinson un progetto internazionale, ha potuto arrivare a costruire il “World Top Incomes Database”, una ricca e innovativa banca dati liberamente accessibile on line (Alvaredo F., Atkinson A., Piketty T., Saez E.). Per lungo tempo, le autorità fiscali di molti paesi hanno pubblicato sintetiche informazioni sulla distribuzione dei redditi dei contribuenti. La definizione dei redditi fiscali risponde a criteri amministrativi invece che economici e può escludere componenti importanti del reddito complessivo. I valori possono risultare “distorti” dall’evasione fiscale. I valori riflettono il regime di imposta differenziato nel tempo e nei diversi paesi. La comparazione delle serie storiche richiede dunque un processo di armonizzazione. Tuttavia la fonte fiscale è la sola che consente di disporre di serie storiche molto lunghe. Per alcuni paesi queste serie sono disponibili per l’intero secolo XIX e XX. La fonte fiscale, poi, consente, con buona approssimazione, di stimare i redditi più elevati, ed in particolare quelli percepiti dall’1% più ricco della popolazione. D’altra parte anche i dati delle indagini campionarie non sono esenti da difetti “risentono della reticenza degli intervistati, particolarmente per i redditi finanziari, soffrono di discontinuità in occasione dei cambiamenti delle metodologie di rilevazione e, per la loro natura campionaria, non riescono a rappresentare la distribuzione dei redditi più elevati” (Bradolini, 2014, p. 3). Piketty ritiene la distribuzione personale dei redditi dipenda, almeno in parte, dalla distribuzione funzionale, e cioè dal peso relativo delle quote di reddito percepite dal capitale e dal lavoro e dal diverso livello di concentrazione che li caratterizza. I dati raccolti documentano come la concentrazione dei redditi personali rifletta, in ogni periodo, la concentrazione esistente nei redditi da capitale e nei redditi da lavoro. I redditi da capitale presentano una concentrazione maggiore rispetto a quella dei redditi da lavoro. Questo significa che il peso dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro sul prodotto nazionale, e la loro dinamica, contribuisce in modo significativo a determinare il livello della diseguaglianza nella distribuzione personale dei redditi. Per i redditi da capitale la principale causa di diseguaglianza è individuata nella trasmissione ereditaria dei patrimoni che ne determina la concentrazione, e, come già osservato nel divario tra saggio di rendimento e saggio di crescita dell’economia, ovvero dalla diseguaglianza r>g. I fattori di diseguaglianza all’interno dei redditi da lavoro sono di vario tipo. Tra questi spiccano per importanza quelli istituzionali comprese le norme che regolano il mercato del lavoro. Proprio l’esistenza di queste norme comporta che i redditi da lavoro dipendente siano più equamente distribuiti di quelli da lavoro autonomo e di quelli da capitale. Fanno eccezione i redditi percepiti da alcune categorie di lavoratori che solo formalmente sono “dipendenti”, come, ad esempio, i “top manager”. Al fine di individuare i fattori che hanno determinato variazioni, e molto spesso crescita, della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza Piketty stima l’andamento delle due variabili r e g nel lungo periodo. La figura 6 riporta i dati relativi al periodo 1000-2100 con riferimento al mondo nel suo complesso (Piketty, 2014a, p.546). Si possono individuare tre distinti periodi. In un primo periodo, tra il 1000 ed il 1820, il rendimento del capitale a livello mondiale si è mantenuto tra il 4,5% ed il 5%, mentre il saggio di crescita dell’economia si è attestato ad un livello molto più basso tra lo zero e l’1,5%. Solamente a partire dal 1820 r ha cominciato a diminuire arrivando ad un minimo pari all’1% nel 1913. A partire da questo momento, il saggio g ha iniziato a crescere rapidamente raggiungendo un valore pari a circa il 2%. Il terzo periodo (1970-2100) è stato contrassegnato da valori di r crescenti e sempre superiori al saggio di crescita g. Dunque, se si eccettua periodo 1920-1970, la diseguaglianza fondamentale r>g, che costituisce la “contraddizione fondamentale del capitalismo” sembra avere solide basi empiriche. “Available micro-level evidence on wealth dynamics confirm that the high gap between r and g is one of the central reasons why wealth concentration was so high during the 18th-19th centuries and up until World War 1 (Piketty, 2015, p.7). Figura 6 Per Piketty il periodo 1920-1970 costituisce una vera e propria “anomalia”. Questo periodo, per sottolinearne l’eccezionalità, è stato definito “età dell'oro”. Questa fase è terminata con il 1970. Si è, dunque entrati, nuovamente, in una fase storica in cui la trasmissione ereditaria è più efficace del lavoro nel produrre ricchezza. “During the 20th century, it is a very unusual combination events which transformed the relation” between r and g “(large capital shocks during 1914-1945 period, including destructions, nationalization, inflation, taxation; high growth during reconstruction period and demographic transition”) (Piketty, 2015, p. 7). Piketty poi, formula la previsione che, se si estrapolano i trend storici fino al 2200, la distanza tra r e g sia destinata ad ampliarsi. Per ottenere questo risultato Piketty ha raggruppa i due sotto periodi 2012-50 e 2050-2100 in un’unica media ed ipotizza “che i tassi della seconda metà del XXI secolo si mantengano per tutto il XXII, il che non è affatto sicuro”. Si presuppone, poi che “nessuna reazione politica di rilievo giungerà ad alterare, nei prossimi due secoli, il corso del capitalismo e della globalizzazione finanziaria” (Piketty, 2014a, p. 548). Quest’ultima è naturalmente un’ipotesi molto forte e di difficile realizzazione. “In the future, several forces might push toward a higher r-g gap (particularly the slowdown of population growth, and rising global competition to attract capital) and higher wealth inequality. But ultimately which forces prevail is relatively uncertain. In particular, this depends on the institutions and policies that will be adopted” (Piketty, 2015, p.7). Durante il ventennio 1950-1970 una crescita sostenuta nei paesi europei è stata favorita da alcune precise circostanze come la necessità di ricostruire la capacità produttiva distrutta dalla guerra. Non solo aumentava l’occupazione insieme alla crescita del prodotto nazionale, ma si andava consolidando la cosiddetta classe “media” costituita da operai ed impiegati grazie ad una organizzazione del lavoro di tipo fordista. Il rapido processo di industrializzazione, insieme a politiche fiscali e di spesa pubblica progressive, hanno favorito la formazione della classe “media”, e, nello stesso tempo, il consolidamento della democrazia ed una elevata crescita in tutti gli Stati occidentali. In questo periodo si è verificata, in tutti i paesi europei ed anche negli Stati Uniti, una riduzione della diseguaglianza. La spiegazione risiede nell’operare congiunto di due guerre, che hanno provocato la distruzione del capitale fisico, e di una crisi economica senza precedenti, quella del 1929, che ha drasticamente ridotto, se non annullato, il valore di patrimoni accumulati nei secoli precedenti. Si è così “spezzata” l’interazione tra accumulazione e rendimento del capitale che si era verificata nel precedente lungo periodo. L’andamento della concentrazione della ricchezza in Europa e negli Stati Uniti, tra il 1810 ed il 2010, viene stimato da Piketty al fine di verificarne la coerenza con il divario che caratterizza l’andamento di r e g nei diversi sottoperiodi appena individuati. La concentrazione della ricchezza è misurata dalla quota del “decile e percentile superiore nella composizione del patrimonio complessivo” (figura 7). Sia in Europa che negli Stati Uniti il valore massimo dell’indice viene raggiunto nel 1910 (Piketty, 2004a, p.538). A partire da quell’anno l’indice inizia a diminuire e raggiunge un minimo per gli Stati Uniti nel 1940 per l’Europa nel 1970. Negli Stati Uniti il valore dell’indice si mantiene costante tra il 1910 ed il 1970. A partire dal 1970 l’indice inizia ad aumentare. In Europa si mantiene sempre al di sotto del valore osservato negli Stati Uniti. Nel periodo precedente, invece, e cioè tra il 1810 ed il 1970 la quota di ricchezza del 10% più ricco in Europa era sempre stata superiore a quella degli Stati Uniti. Nel periodo compreso tra 1910 ed il 1970 si verifica, dunque una diminuzione del livello di concentrazione della ricchezza. Questa fase, in larga misura, coincide con l’ “età dell’oro”, cioè quando si è verificata, a livello mondiale una inversione della relazione tra r e g, e cioè la diseguaglianza si è invertita (g>r). Figura 7 La crescita della diseguaglianza è stata più moderata di quanto fosse avvenuto nel XIX secolo. In Europa, nel primo periodo, la quota di ricchezza posseduta dal decile superiore era pari a valori compresi tra l’80% (nel 1810) ed il 90% (1910). Si configurava così, secondo la definizione di Piketty, era una vera e propria “società patrimoniale” (Piketty, 2014a, p. 539). Negli Stati Uniti i valori oscillavano tra il 58% (nel 1810) ed l’80% nel 1910. Oggi la concentrazione della ricchezza è ancora molto elevata, ma certamente meno accentuata di quanto fosse accaduto nel XIX secolo. Nel periodo 1970-2010 negli Stati Uniti la quota di ricchezza posseduta dal decile superiore variava tra il 65% ed il 70%. Le tendenze della diseguaglianza nella distribuzione del reddito sono riconducibili, almeno in parte, al processo di accumulazione della ricchezza. Piketty documenta la dinamica della diseguaglianza nella distribuzione personale dei redditi, utilizzando come misura della concentrazione dei redditi la quota di redito percepita dall’ultimo decile di popolazione (figura 8). L’andamento di questa quota negli USA è stata crescente con valori compresi tra il 40% nel 1920 ed il 50% nel 1930 (Piketty, 2014, p.48). Essa ha mantenuto una certa stabilità attorno al 45% negli anni compresi tra il 1930 ed il 1940, ha subito una drastica diminuzione all’inizio degli anni 40, ed ha mantenuto, ancora, una certa stabilità, ad un livello abbastanza basso, attorno al 35% durante l’età dell’oro (1942-1970). Successivamente la quota dell’ultimo decile è nuovamente cresciuta fino a raggiungere un livello piuttosto elevato, attorno al 50%, nel 2010. Nel periodo compreso tra il 1910 ed il 1940 si osserva una sorta di curva ad U rovesciato corrispondente ad una crescita della diseguaglianza fino ad un massimo raggiunto attorno agli anni 30 ed una successiva caduta fino al 1940. Dopo un lungo periodo di stabilità la diseguaglianza ha ricominciato a crescere sistematicamente a partire dagli anni 70. Come sottolinea Brandolini (2014, p. 1) Kuznets già nei primi anni cinquanta aveva rimarcato “nel suo monumentale studio sulla distribuzione dei redditi negli Stati Uniti (Shares of Upper Income Groups in Income and Savings, 1953), che mai nelle statistiche si era registrata una caduta della quota del reddito dei più ricchi paragonabile, per “dimensione e persistenza”, a quella che aveva documentato per il periodo tra il 1929 e il 1946. Era un risultato di formidabile portata. Per Kuznets, rappresentava un’evidenza decisiva per giustificare la sua ipotesi che nel lungo periodo la disuguaglianza dei redditi segua un profilo a “U rovesciata” e tenda quindi a diminuire man mano che lo sviluppo economico procede verso stadi più maturi, dopo essere aumentata nella prima fase dell’industrializzazione”. Figura 8 Figura 9 Un profilo analogo a quello osservato per gli Stati Uniti caratterizza la dinamica della diseguaglianza in Europa (figura 9). Negli Stati Uniti, tuttavia, nel periodo compreso tra il 1970 ed il 2010 la quota di reddito posseduta dal decile più ricco è cresciuta più velocemente rispetto a quanto avvenuto in Europa (Piketty, 2014a, p. 497). Il divario tra le due curve si è progressivamente allargato. Negli Stati Uniti si è passati da un valore della quota di reddito posseduto dal 10% più ricco pari a circa il 34% nel 1970 ad uno molto più elevato pari al 48% nel 2010. In Europa invece l’indice di concentrazione ha assunto un valore pari al 35% nel 2010 rispetto ad un valore pari al 30% nel 1970. Come sottolinea Piketty (2015, p.3) nell’ultimo periodo la diversa dinamica della concentrazione della ricchezza in Europa rispetto agli Stati Uniti, non è sufficiente a spiegare la progressiva divergenza nei livelli di concentrazione dei redditi. Un fattore di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, che non dipende dalla relazione tra r e g, è costituito dalla crescita dei redditi da lavoro molto elevati e cioè i “top labor incomes”. Si deve a questi aumenti la crescita della quota di reddito percepita dal decile (10%) ovvero dal percentile (1%) più ricco. Questi redditi corrispondono ad una quota significativa del reddito nazionale e del totale delle entrate fiscali anche se sono percepiti da una percentuale molto ridotta della popolazione (Piketty, Saez, Stantcheva, 2014).. Sia il tasso di crescita del reddito nazionale che l’indice di concentrazione assumono di conseguenza valori differenti a seconda che i redditi più elevati siano esclusi dalle stime o vi siano compresi. All’interno dei “top labor incomes” si collocano i “managers”, che hanno progressivamente acquisito il potere di fissare le proprie remunerazioni sulla base della posizione di potere, spesso indipendente dall’effettivo contributo fornito alla produzione dell’azienda. Si sta, dunque, consolidando un nuovo modello basato anche su di un’elevata diseguaglianza all’interno dei redditi da lavoro e non solo sulla diseguaglianza esistente all’interno dei redditi da capitale. Quest’ultima rimane comunque elevata e dipende non solo dalla distribuzione del capitale, ma anche dalle norme sulla successione ereditaria e dalla tassazione del capitale. Non si devono trascurare poi gli effetti della crescita dell’economia finanziaria e l’accresciuta mobilità dei capitali. Anche le modifiche nella “governance” delle società e la crescita delle “stock options” hanno prodotto una crescita dei rendimenti del capitale. Negli Stati Uniti, ad esempio, il reddito disponibile dell’1% più ricco della popolazione è cresciuto con una velocità ben superiore a quella di qualsiasi altro gruppo. In parallelo all’arricchimento progressivo dell’ultimo decile e dell’ultimo percentile della distribuzione si è verificato non solo un impoverimento del decile inferiore, ma anche della “classe media”. Un livello di diseguaglianza così elevato, che colpisce anche la classe media può diventare un fattore di freno per la crescita, poichè si tradurrà in minori opportunità per le prossime generazioni. Il “capitalismo patrimoniale” americano potrebbe diventare sempre meno sostenibile, in assenza di interventi redistributivi efficaci. Una importante lezione che, secondo Piketty, deriva dall’esperienza storica da lui documentata è che non sia necessaria una elevata diseguaglianza, come quella che si era verificata nell’800, per favorire la crescita. Nel periodo 1930-70 una crescita sostenuta è stata accompagnata anche dalla riduzione della diseguaglianza. Al contrario, proprio tassi di crescita dell’economia bassi, negli ultimi 30 anni, sono stati accompagnati da un aumento della diseguaglianza. La conclusione non può che essere molto pessimistica. Il recente aumento delle diseguaglianze, che tra le altre cose ha portato alla crisi del 2007, non è un’anomalia, ma un ritorno alla norma. Europa e Giappone sono i due esempi esaminati da Piketty per comprendere come abbia potuto progressivamente crearsi una società “patrimoniale”, dove bassa natalità e bassa crescita economica rendono prevalenti le ricchezze accumulate, quasi mai reinvestite in modo efficiente e produttivo. All’interno dei paesi europei l’Italia, dove gran parte del capitale è costituito da ricchezza immobiliare, rappresenta uno dei casi più significativi a questo proposito. Questa caratteristica, insieme all’invecchiamento della popolazione, spiega gran parte del calo della produttività dell’ultimo decennio. La tendenza verso una sempre maggiore concentrazione dei patrimoni, evidenziata a più riprese dalla Banca d’Italia, sarebbe dunque un fenomeno strutturale legato alla bassa crescita del nostro Paese. 5. Le politiche di riduzione della diseguaglianza. La diseguaglianza, secondo Piketty, non è il risultato di forze economiche ineluttabili, bensì anche il prodotto delle politiche. “Esistono strumenti in grado di far sì che la democrazia e l’interesse generale riprendano il controllo del capitalismo e degli interessi privati, senza peraltro fare ricorso a misure protezionistiche e nazionalistiche” (Piketty, 2014a, p.12). Negli Stati Uniti, ad esempio, molte delle cause dell’elevata diseguaglianza sono strutturali. I divari nei livelli d’istruzione e di competenze professionali tra i diversi gruppi di popolazione sono il risultato dell’operare del libero mercato in un’economia capitalistica avanzata. Storicamente un meccanismo molto importante per la riduzione delle diseguaglianze è stato la diffusione di conoscenze, di competenze e l'istruzione. Questa è stata la forza più potente per ridurre le disparità tra i paesi. Questo meccanismo può funzionare anche all'interno dei paesi, se sono caratterizzati da istituzioni educative e sociali sufficientemente avanzate ed inclusive che permettano ad ampi segmenti della popolazione di accedere alle competenze ed a lavori adeguati. L’istruzione, tuttavia, anche se risulta di importanza fondamentale, da sola può non essere sufficiente per ridurre la diseguaglianza e favorire la mobilità sociale. Nello stesso tempo politiche volte a rendere più efficace l’azione redistributiva dello Stato, non sono certamente sufficienti a ridurre la diseguaglianza nella distribuzione del reddito disponibile. Per evitare che i gruppi che dispongono dei redditi e della ricchezza più elevati siano i soli ad acquisire posizioni di rilievo nella società, è necessario introdurre una pluralità di interventi, alternativi ed eterogenei perchè eterogenea è la composizione del patrimonio. Non è sufficiente e il ricorso alla tassazione sui patrimoni, ma occorre riformare il sistema fiscale adottando una tassazione progressiva non solo del reddito ma anche dei diversi tipi di ricchezza. Sarebbe necessario introdurre una imposta progressiva sui patrimoni, sulle successioni, uniformare la tassazione dei capitali a livello mondiale od almeno europeo. Una imposta progressiva sul patrimonio su scala globale, fondata sullo scambio automatico delle informazioni bancarie, è suggerita da Piketty non solo come una "utile utopia", ma invece come una proposta su cui riflettere e discutere. Potrebbe essere lo strumento per invertire la disuguaglianza r > g e dunque ridurre il saggio di crescita del capitale patrimoniale ed il peso del capitale ereditato. Le imposte sul capitale, sia in forma di imposte sui terreni o sulle eredità sono state tra le prime, in passato, ad essere state introdotte. Estendere questo tipo di tassazione a tutti i tipi di capitale sembra a Piketty una misura del tutto corretta. Non si deve trascurare, poi, il fatto che i requisiti tecnici per tale imposta (che in una forma rudimentale esiste nella maggior parte delle economie avanzate) non sono molto complicati. La proprietà immobiliare è già tassata in tutti i paesi industrializzati. Il valore di mercato dei diversi strumenti finanziari, e l’identità dei proprietari, potrebbe facilmente essere accertata. Non si può ignorare, tuttavia che la “fattibilità politica”, nel contesto internazionale attuale, è bassa. L'applicazione di tale imposta in singoli paesi può facilmente favorire il deflusso di capitali verso l’estero. La collaborazione internazionale appare un requisito indispensabile. E’ molto improbabile, tuttavia, che questa cooperazione sia offerta da quei paesi che attualmente beneficiano maggiormente della “opacità” delle transazioni finanziarie e che si offrono come “paradisi fiscali” per i ricchi. Alcune economie emergenti potrebbero non essere disposte a sottoscrivere un eventuale accordo. Secondo Piketty, tuttavia, una proposta di cooperazione più ristretta, che coinvolga solo paesi membri dell'OCSE (o tra la UE e gli Stati Uniti) è fattibile (Piketty, 2015). La recente (2010) normativa contenuta nel “Foreign Account Tax Compliance Act” (FATCA) può essere considerata come un primo passo che negli Stati Uniti, potrebbe portare alla tassazione regionale del capitale. Il FATCA è una legge federale che richiede ai cittadini degli Stati Uniti, compresi quelli che vivono all’estero, di segnalare i propri conti finanziari detenuti al di fuori degli Stati Uniti. Impone, poi, agli istituti finanziari esteri di segnalare all’ “Internal Revenue Service” (IRS) i nominativi dei loro clienti statunitensi. Il Congresso ha approvato il FATCA per rendere più difficile ai contribuenti statunitensi nascondere le attività detenute in conti “offshore” e in società fantasma. E questo al fine di recuperare entrate fiscali federali. Il FATCA costituisce una parte delle misure introdotte negli Stati Uniti come incentivi per stimolare l’assunzione di nuovi lavoratoei da parte delle imprese. La teoria della tassazione ottimale dei capitali era stata sviluppata da Piketty in un precedente lavoro pubblicato con Emmanuel Saez (Piketty, Saez, 2013). In base al modello sviluppato in quel lavoro, e tenendo conto del fatto che la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi dipende, contemporaneamente, dai redditi da capitale e da lavoro “the optimal tax policy is also two-dimensional: it involves a progressive tax on labor income and a progressive tax on inherited wealth. Specifically, we show that the long-run optimal tax rates on labor income and inheritance depend on the distributional parameters, the social welfare function, and the elasticities of labor earnings and capital bequests with respect to tax rates.... For realistic empirical values, we find that the optimal inheritance tax rate might be as high as 50-60%, or even higher for top bequests, in line with historical experience.” (Piketty, 2015, p.7). Più complicata è la stima della tassa annuale ottimale sul patrimonio e sui redditi da capitale. E’ impossibile prevedere il saggio futuro di rendimento delle attività possedute, e dunque il valore attuale delle stesse (Piketty, 2015, p.8). In ogni caso Piketty avanza una proposta ovvero “a simple rule-of-thumb... one should adapt the tax rates to the observed speed at which the different wealth groups are rising over time... if one aims to stabilize the level of wealth concentration, then one might need to apply top wealth tax rates as large as 5% per year, and possibly higher” (Piketty, 2015, p. 8; Piketty, 2014a, p. 672; Saez, Zucman, 2014)). Sottolinea con forza come siano necessarie, soprattutto, la trasparenza e buone rilevazioni statistiche al fine di monitorare in maniera più efficace di quanto oggi avvenga la dinamica del reddito e della ricchezza dei diversi gruppi sociali. Solamente in questo modo sarà possibile adattare le politiche sociali ed i livelli di tassazione alle condizioni reali di un paese. 6. Osservazioni conclusive. Secondo Piketty la diseguaglianza è destinata a crescere, almeno nei paesi industrializzati, poichè difficilmente questi paesi potrano sperimentare in futuro tassi di crescita elevati. Si tornerà ad un capitalismo patrimoniale. Una diseguaglianza crescente finirà con il costituire un freno invece che uno stimolo alla crescita. Verrà compromessa la sostenibilità di un modello di capitalismo basato sull’accumulazione della ricchezza per pochi. Si verificherà, come è gia avvenuto, una riduzione della “classe media”. Di conseguenza diminuirà la partecipazione al processo di formazione del capitale umano da parte di una quota significativa della popolazione e si ridurrà la mobilità sociale che dovrebbe essere un elemento caratterizzante delle moderne democrazie. Storicamente un meccanismo molto importante per la riduzione delle diseguaglianze è stato la diffusione di conoscenze, di competenze e l'istruzione. Questa è stata la forza più potente per ridurre le disparità tra ed all’interno dei diversi paesi. L’istruzione, tuttavia, anche se risulta di importanza fondamentale, da sola può non essere sufficiente per ridurre la diseguaglianza e favorire la mobilità sociale. Per evitare che i gruppi che dispongono dei redditi e della ricchezza più elevati siano i soli ad acquisire posizioni di rilievo nella società, è necessario introdurre una pluralità di interventi, alternativi ed eterogenei perchè eterogenea è la composizione del patrimonio. Non è sufficiente e il ricorso alla tassazione sui patrimoni, ma occorre riformare il sistema fiscale adottando una tassazione progressiva non solo del reddito ma anche dei diversi tipi di ricchezza. Sarebbe necessario introdurre una imposta progressiva sui patrimoni, sulle successioni, uniformare la tassazione dei capitali a livello mondiale od almeno europeo. Una imposta progressiva sul patrimonio su scala globale, fondata sullo scambio automatico delle informazioni bancarie, è suggerita da Piketty non solo come una "utile utopia", ma invece come una proposta su cui riflettere e discutere. E’ ben consapevole, tuttavia che la “fattibilità politica”, nel contesto internazionale attuale, è bassa. Per il momento sarebbe desiderabile, comunque, e probabilmente fattibile, introdurre una imposta sui trasferimenti ereditari ed una imposta progressiva sul patrimonio, a livello nazionale. Riferimenti - Alvaredo F., Atkinson A., Piketty T., Saez E. (2014), The Top World Incomes Database, at http://topincomes.parisschoolofeconomics.eu/ -Atkinson A., Piketty T., Saez E. (2011), Top Incomes in the Long Run of History, Journal of Economic Literature, 49(1), 2011, pp. 3–71. -Brandolini A. 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