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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Ufficio per gli Incontri di Studio
Incontro di studio sul tema:
“Le prove civili: l’onere della prova e la valutazione da parte del giudice”
Roma, 15 - 17 febbraio 2010
Ergife Palace Hotel
La struttura del ragionamento probatorio e la valutazione del Giudice: prova,
argomenti di prova, presunzioni, indizi, fatti notori e massime di esperienza
Relatore
Dott.ssa Rosanna ANGARANO
Giudice del Tribunale di Bari
La struttura del ragionamento probatorio e la valutazione del giudice. Prove,
argomenti di prova, presunzioni, indizi, fatti notori e massime di esperienza.
Sommario
§ 1. La struttura del ragionamento probatorio e la valutazione del giudice: limiti
interni ed esterni
§ 2. I fatti senza prova: fatti notori e massime di esperienza
§ 3. Il ragionamento induttivo: la presunzione semplice e le altre inferenze
§ 4 Argomenti di prova: il contegno delle parti le prove acquisite in altri giudizi
§ 1. La struttura del ragionamento probatorio e la valutazione del giudice.
Al tema della valutazione delle prove è sotteso, nel nostro ordinamento, come in
genere nei sistemi di common law, il principio del libero convincimento del giudice
che trova riconoscimento nel disposto di cui all’art. 116 cpc. Nonostante l’apparente
generalità, lo stesso, così come fissato nella norma citata e nelle altre a corollario che
di seguito si esamineranno, si caratterizza, piuttosto, per i limiti cui è soggetto; può
affermarsi, dunque, che il problema della valutazione del giudice va affrontato con
prevalente riferimento a questi ultimi, interni ed esterni.
Ai sensi dell’art 116 primo comma cpc “il giudice deve valutare le prove
secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti”.
Vi è, pertanto, un primo limite espresso, nelle disposizioni che vincolano nella
valutazione delle prova, ovverosia nelle disposizioni che prevedono le così dette
prove legali.
Al di là di detta statuizione, sulla quale si tornerà in seguito, la libera
valutazione viene ad essere condizionata, nel sistema, dalla previsione di cui all’art.
115 cpc; detta norma, infatti, fissando l’ulteriore principio della disponibilità delle
prove in capo alle parti, costringe il ragionamento probatorio del giudice nei limiti di
quanto portato alla sua attenzione da queste ultime. Alla libertà della valutazione,
dunque, fa da contrappeso la acquisizione vincolata; entrambe soggette a deroghe.
Se di regola il libero convincimento si forma sulle prove acquisite su istanza di
parte, nell’ipotesi in cui il giudice è titolare di poteri istruttori ufficiosi si pone il
problema dei limiti in cui questi ultimi possano essere esercitati in via strumentale al
primo, al fine di conservare l’equilibrio del sistema. Invero, la questione si pone con
prevalenza nel rito del lavoro o negli altri riti su quest’ultimo modellati ove, tramite il
disposto di cui all’art. 421 secondo comma cpc, si è inteso affermare il
contemperamento del principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità
materiale. Anche nel rito ordinario, tuttavia, il giudice ha una rilevante disponibilità
della prova. (artt. 61, 116, 118, 197, 213, 240, 241, 253, 257, 281 ter, 317 cpc). Il
dibattito, comunque, si è svolto essenzialmente sull’art. 421 cpc. La rilevanza del
problema, e la necessità di recuperare un equilibrio tra strumenti di formazione del
libero convincimento e principio dispositivo, si coglie appieno nella sentenza della
Cassazione Sezioni Unite, n. 11353/2004. Detta pronuncia ha fissato il confine tra
2
esercizio discrezionale dei poteri istruttori di ufficio ed arbitrio, affermando che, ove
tutte le prove raccolte consentono la ricostruzione del fatto rilevante, i poteri istruttori
del giudice devono considerarsi estinti e non altrimenti esercitabili, e che, viceversa,
tutte le volte in cui il fatto da provare è rimasto incerto, il giudice, se ha poteri
probatori spendibili, non può fare rigorosa applicazione della ripartizione dell’onere
probatorio di cui all’art. 2697 cc senza averli prima esercitati.
Un secondo limite deriva dalla valutazione di ammissibilità della prova.
La cernita iniziale tra le prove apprezzabili, in quanto ammissibili, e quelle da
tenere fuori dalla piattaforma probatoria, limita ulteriormente il libero convincimento.
Tanto trova conferma nel principio consolidato per cui la nullità di un atto di
acquisizione probatoria non incide sulla sentenza che non si fondi su di esso e non
comporta, in ogni caso, la nullità derivata della stessa; più precisamente i rapporti tra
atto di acquisizione probatoria nullo e sentenza non possono definirsi in termini di
eventuale nullità derivata di quest'ultima, quanto, piuttosto, in termini di
giustificatezza o meno delle statuizioni in fatto della sentenza stessa. Questa, se è
fondata sulla prova nulla, che quindi non può essere utilizzata, non è, a propria volta,
nulla, ma resta censurabile sotto il profilo della motivazione. Ciò deriva dal fatto che
l'atto di acquisizione probatoria, puramente eventuale, non fa parte della indefettibile
serie procedimentale che conduce alla sentenza e il cui vizio determina la nullità, ma
incide soltanto sul merito delle valutazioni in fatto compiute dal giudice, le quali,
peraltro, possono essere sindacate in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di
motivazione ai sensi dell'art. 360, n. 5 cpc1.
Va aggiunto che la valutazione di ammissibilità nell’ipotesi in cui venga
correttamente compiuta al momento della ammissione della prova si pone all’esterno
del libero convincimento; finisce, invece, per condizionare quest’ultimo ove la prova,
se pure inammissibile, sia stata comunque acquisita.
La questione involge la rilevanza delle così dette prove illecite.
Alle luce degli orientamenti giurisprudenziali in materia non sembra possa
affermarsi, quanto meno in via generale, il principio secondo cui una prova
inammissibile resta sempre all’esterno della piattaforma probatoria. Al contrario, con
particolare riferimento alla prova testimoniale è massima consolidata quella per cui la
nullità di una testimonianza resa da persona incapace ai sensi dell'art. 246 cpc,
essendo posta a tutela dell'interesse delle parti, è configurabile come una nullità
relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova,
rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, secondo comma, cpc2, e quella per
cui le limitazioni poste dagli artt. 2721 e seguenti cc all'ammissibilità della prova
testimoniale non attengono a ragioni di ordine pubblico, ma sono dettate a tutela di
interessi di natura privatistica; pertanto, la loro violazione non solo non può essere
rilevata d'ufficio dal giudice, ma neppure è rilevabile dalle parti, ove non sia stata
dedotta in sede di ammissione della prova, ovvero nella prima istanza o difesa
1
2
Cass. 17247/2006
Cass. 23054/2009 e 20652/2009
3
successiva o, quanto meno, in sede di espletamento della stessa3. Invero, si tratta di
orientamento fortemente criticato dalla dottrina la quale osserva che, se al giudice è
precluso utilizzare testi interessati come fonte di convincimento, dovrebbe essere
altresì precluso alle parti di sanare con l’acquiescenza la violazione. La critica,
effettivamente coglie nel segno.
A diverse conclusioni deve giungersi nella ipotesi in cui sia stata ammessa la
prova di un contratto soggetto alla forma scritta ad substantiam perché in detta ipotesi
il divieto è posto a fondamento di interessi di ordine pubblico4. Per la stessa ragione
analoga soluzione dovrebbe adottarsi nella ipotesi di una confessione o di un
giuramento resi nonostante la inammissibilità della relativa istanza. Anche per dette
ipotesi, tuttavia, si profila, secondo un certo orientamento, una parziale utilizzabilità
delle risultanze, se pure valutabili esclusivamente sotto il profilo del comportamento
tenuto dalla parte che le ha rese e, dunque, come argomento di prova ex art. 116
secondo comma cpc.
Al di là dei limiti di utilizzabilità delle prove acquisite contro le regole, la
organicità del sistema va recuperata proprio attraverso l’art. 116 primo comma cpc,
dovendosi ritenere che nel prudente apprezzamento di prove astrattamente
inammissibili, ma pure ammesse, non può non tenersi conto del vizio, quanto meno
sotto il profilo della attendibilità del riscontro
Nonostante i vincoli derivanti dal principio dispositivo e dalle disposizioni sulla
ammissibilità, il libero convincimento incide anche in fase di acquisizione delle prove
nella disponibilità delle parti attraverso il giudizio di rilevanza delle stesse e,
soprattutto, attraverso il giudizio di “superfluità” di ulteriori istanze probatorie
rispetto al materiale già acquisito. Vengono in considerazione il disposto di cui all’art.
183 settimo comma cpc, secondo cui il giudice provvede sulle richieste istruttorie
fissando l’udienza per l’assunzione dei mezzi ritenuti ammissibili e rilevanti; il potere
di cui di cui all’art. 209 cpc di dichiarare chiusa l’assunzione dei mezzi istruttori, tra
le altre, anche nella ipotesi in cui venga ritenuta “superflua” per i risultati già
raggiunti, la ulteriore assunzione; l’ulteriore disposto, a corollario, di cui all’art. 245
cpc di ridurre la lista dei testimoni sovrabbondanti.
Sebbene dovrebbe esservi un rapporto speculare tra la rilevanza e la superfluità,
il ragionamento sotteso al giudizio di cui all’art. 183 cpc, preliminare alla formazione
della prova, è del tutto diverso da quello funzionale alla valutazione di cui all’art. 209
cpc. Infatti, nella fase che precede l’assunzione della prova la valutazione del giudice
è prevalentemente astratta. Un mezzo di prova sarà ritenuto rilevante se astrattamente
idoneo a provare fatti, a propria volta, rilevanti per il giudizio. In questa fase, pertanto,
la discrezionalità nella valutazione è determinante solo nell’ipotesi in cui si debba
valutare la rilevanza di prove costituende in ragione di quanto già acquisito attraverso
le prove precostituite.
Viceversa, il giudizio di superfluità di ulteriori prove, sotteso alla chiusura della
assunzione, è un giudizio fortemente condizionato dalla discrezionalità del giudice in
3
4
Cass. 9925/2006
Cass. 144/2002
4
quanto reso in concreto su tutte le risultanze già acquisite e, quindi, reso già in vista
della decisione finale.
Mentre non sembra destare dubbi di sorta l’assunto secondo cui in fase di
ammissione la valutazione di rilevanza o superfluità è meramente speculare, in fase di
chiusura della istruzione, la giurisprudenza sia di legittimità che di merito, sembra,
piuttosto, orientata nel valutare la superfluità, non più in contrapposizione alla
rilevanza, bensì, in contrapposizione alla sufficienza della prova che, invece, è
concetto ben diverso. La prudenza richiesta nella valutazione delle prove deve,
pertanto, guidare il giudice anche nel giudizio di rilevanza e di superfluità.
La giurisprudenza della Cassazione sembra attribuire al giudice un ampio spettro
di azione nella valutazione della superfluità della ulteriore istruzione. Per massima
consolidata il giudice ha la facoltà di escludere, anche attraverso un giudizio implicito,
la rilevanza di una prova e non è tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le
ragioni per cui lo ritenga irrilevante, nè ad enunciare specificamente che la
controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni 5 . L’unico
limite sembra ravvisarsi nel divieto per il giudice di escludere un mezzo di prova per
poi imputare alla parte di non aver assolto al proprio onere probatorio.
Va osservato, tuttavia, che il giudizio di superfluità di ulteriori prove è del tutto
diverso dal giudizio di sufficienza di quelle già acquisite. Sicchè, a fronte della
acquisizione di un materiale probatorio sufficiente per il giudice a fondare il proprio
convincimento, si pone il problema se possa ritenersi superflua solo una prova volta a
rafforzarlo o anche una prova volta a contrastarlo.
Una prova contraria rispetto ad un convincimento già formato non dovrebbe per
definizione considerarsi superflua, potendosi, viceversa, considerare tale solo quella
che tende a dimostrare ciò che è stato gia altrimenti dimostrato. E’ un distinguo che,
però, non si coglie nella giurisprudenza della Cassazione la quale, viceversa,
sottopone il giudizio di superfluità al libero convincimento, senza distinguere tra
prove difformi o conformi a quest’ultimo, purchè via sia congrua motivazione6. In
altre pronunce, per altro, si ammette che il giudizio di superfluità di una prova - come
della escussione di ulteriori testi7 - possa risultare anche implicitamente quando lo
stesso giudice abbia, con ragionamento logico e giuridicamente corretto, ritenuto di
avere già raggiunto, in base all'istruzione probatoria già esperita, la certezza degli
elementi necessari per la decisione8.
La questione, pertanto, si sposta con riferimento ai parametri cui rapportare la
congruità della motivazione rispetto alla non ammissione, in quanto superflua, di una
prova contraria al convincimento sotteso alla decisione. Molto spesso detta
motivazione si fonda sulla inverosimiglianza dei fatti da provare in ragione di quanto
già acquisito agli atti 9 . Trattasi, tuttavia, di affermazione che si presta ad un uso
distorto del ragionamento presuntivo sotteso al giudizio probabilistico. Infatti, un
5
Cass. 16499/2009.
Cass. 13375/2009
7
Cass. 6361/2000
8
Cass. 9942/1998
9
Cass. 13375/2009 in motivazione
6
5
fatto inverosimile è pur sempre un fatto possibile. Se, pertanto, il giudizio di
verosimiglianza ha una sua ragion d’essere nel momento in cui, completata la
piattaforma probatoria, deve decidersi su quest’ultima, non convince l’utilizzo del
medesimo per respingere una richiesta di prova sull’evento eccezionale. Una
mediazione potrebbe essere ricercata nel potere del giudice di chiedere chiarimenti
alla parte che vuol provare l’inverosimile invitandola ed esplicitare le circostanze che,
nel caso di specie, hanno reso possibile ciò che ordinariamente non lo è, riservando la
valutazione di superfluità della prova alla sola ipotesi in cui detta spiegazione risulti
niente affatto convincente.
La incisività del principio del libero convincimento del giudice anche nella fase
di ammissione delle prove, a seguito della valutazione della loro rilevanza, si coglie
appieno a proposito dell’interrogatorio formale. Ai sensi dell’art. 115 cpc il libero
convincimento trova un limite invalicabile nelle prove legali alle cui risultanze il
giudice deve necessariamente attenersi. Tuttavia, se, una volta acquisita, la prova
legale vincola il giudice, quest’ultimo può liberamente apprezzare la sua rilevanza ai
fini della ammissione o della successiva esclusione. Ricorre nella giurisprudenza
della Cassazione l’assunto secondo cui il giudice può non ammettere l’interrogatorio
formale - oltre che nel caso in cui debba escludersi che l’interrogando sia a
conoscenza dei fatti di causa10 - quando il medesimo appaia dilatorio e defatigatorio;
resta, invece preclusa qualsiasi valutazione sull’improbabile esito confessorio 11 .
L’interrogatorio, poi, viene, in molte massime, valutato dilatorio o defatigatorio sia
quando appaia in contrasto con altre risultanze già acquisite12, sia quando appaia in
contrasto con il comportamento processuale delle parti13.
Maggiori esitazioni si ritrovano con riferimento alla valutazione di rilevanza del
giuramento decisorio. A ben vedere, tuttavia, queste dipendono, non da un diverso
trattamento cui il giuramento è soggetto rispetto all’interrogatorio formale, che è pure
una prova legale, ma da una non uniforme concezione del medesimo come mezzo di
prova o come mezzo per risolvere automaticamente la lite. La giurisprudenza, invero
remota, che equipara il giuramento ad un qualsiasi mezzo di prova, è incline ad
assoggettare il medesimo allo stesso giudizio di rilevanza o di superfluità previsto per
qualsiasi ulteriore prova, e ad affermare che la valutazione sulla sua ammissibilità
(nella sua interezza o in uno dei vari capitoli in cui esso si articoli) è riservata - al pari
della valutazione della rilevanza e della pertinenza di ogni altro mezzo di prova - al
giudice del merito, il quale non ha l'obbligo di ammettere ulteriori prove, né di
motivare specificamente tale diniego, in ordine a fatti la cui certezza abbia desunto
dalle prove già acquisite14. Altre decisioni, invece, negano tale potere e, ritenendo il
giuramento, a differenza della confessione, un mezzo per troncare la lite, concludono
per la necessità della sua ammissione, senza alcuna discrezionalità, anche quando i
10
Cass. 6816/1988
Cass. 24370/2006
12
Cass. 3188/2006
13
Cass. 4296/1987
14
Cass. 1022/1985
11
6
fatti dedotti sono stati già accertati o esclusi sulla scorta delle ulteriori risultanze15 e,
in particolare, anche quando dalla confessione giudiziale o stragiudiziale del
deferente, o da altra prova di carattere privilegiato, risulti provata una situazione di
fatto contraria a quella che si intende provare con il giuramento stesso16.
Quanto ai limiti interni del libero convincimento vi è da sottolineare che l’art.
116 cpc non fa propriamente richiamo al concetto di libertà né di discrezionalità,
precisando che la valutazione del giudice deve essere “prudente”. Ogni tentativo di
dare un significato concreto alla prudenza finisce col tradursi nell’adozione di
ulteriori formule prive di specifici contenuti. Piuttosto, la portata del disposto si
coglie appieno avendo riguardo all’obbligo di motivazione di cui all’art. 111 Cost;
infatti, il controllo esterno della decisione presuppone che il giudice abbia condotto
ed esplicitato il proprio ragionamento secondo criteri logici e razionali, restando
escluso che questa, o comunque la sua rappresentazione attraverso la motivazione,
possa apparire il risultato di un intimo convincimento di carattere meramente
intuitivo.
Si pone, di conseguenza, la questione dei limiti della c.d. motivazione per
implicito e della necessità per il giudice di dar conto, nella esplicitazione del
ragionamento probatorio, anche delle risultanze che, benché acquisite, esclude dal
proprio convincimento. In altre parole, occorre verificare se la valutazione del giudice
subisca limite in ragione della necessaria completezza della stessa e della
giustificazione delle scelte conseguenti.
In giurisprudenza sembra prevalere l’orientamento contrario. Si afferma, infatti,
che il giudice, nel porre a fondamento della propria decisione una prova,
escludendone un’altra, non incontra altro limite se non quello di indicare la fonte del
proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento
acquisito, dovendosi ritenere implicitamente disattese tutte le prove che, sebbene non
specificamente indicate, restano incompatibili con la decisione adottata; ciò a
condizione che sia logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per
implicito, agli elementi utilizzati17.
Una volta individuati i limiti interni ed esterni del prudente apprezzamento,
ulteriore questione è se il medesimo, a prescindere dalla sua rappresentazione, debba
comunque condursi secondo una critica razionale. Si è già detto che lo stesso non può
fondarsi su di un approccio meramente intuitivo. Senza entrare nel campo riservato
più alla filosofia che al diritto, può affermarsi che lo sviluppo del ragionamento
probatorio dovrebbe articolarsi attraverso successivi passaggi che, partendo dal
confronto di tutte le risultanze probatorie, e passando attraverso la scelta di quelle più
attendibili e utili al convincimento e attraverso la graduazione della loro idoneità ed
efficacia, si concluda con la verifica della verità o falsità delle allegazioni di parte,
optando per quelle che appaiano razionalmente confermate con il maggior grado di
attendibilità.
15
Cass. 9912/1998
Cass. 1901/2009
17
Cass. 12362/2006
16
7
In particolare, le caratteristiche della esplicitazione del ragionamento del giudice
attraverso la motivazione sono state stigmatizzate dalla Cassazione la quale ha
affermato che, in linea di principio, ogni statuizione contenuta in sentenza deve
emergere dagli elementi della causa come un prodotto necessario, tale da escludere
ogni alternativa decisione. La motivazione, quale percorso logico che conduce dagli
elementi della causa alla decisione, è la descrizione di questa necessità attraverso
adeguata critica che escluda la rilevanza degli elementi esterni (al predetto percorso
logico), di natura materiale, logica o processuale, astrattamente idonei a delineare
conseguenze divergenti dall'adottata decisione. La potenziale idoneità di un elemento
ad una diversa decisione, delineando la mancanza della necessità, costituisce la
decisività richiesta dall'art. 360 c.p.c., n. 5, per integrare il difetto di motivazione18.
La questione relativa alla conduzione dell’apprezzamento secondo criteri
razionali o meramente intuitivi consente di introdurre un ulteriore profilo di
particolare rilievo in un epoca in cui il processo è sempre più spesso condizionato
dalla scienza. Si tratta di verificare come il prudente apprezzamento possa rapportarsi
al materiale probatorio di carattere scientifico, a prescindere dal fatto che il medesimo
sia stato acquisito in via diretta o a seguito dell’ausilio di un consulente tecnico.
Infatti, al di là della affermazione secondo cui il giudice è perito tra i periti - priva
nella realtà di una concreta prospettiva di attuazione - vi è il rischio che la prova
scientifica finisca con il rappresentate indirettamente, ma in modo tale da creare una
anomalia nel sistema, un ulteriore limite al libero apprezzamento. Il problema che si
pone è quello di rendere l’accertamento scientifico strumento dell’accertamento
giuridico - evitando che il primo si sostituisca al secondo, sì da diventare una sorta di
prova legale occulta - e di rendere effettivo l’assunto secondo cui la decisione è, e
resta, il risultato del prudente apprezzamento del giudice e non del suo ausiliario.
Una massima pressoché consolidata nella giurisprudenza sia di merito che di
legittimità sembrerebbe consentire al giudice di rinunciare a formare con mezzi
autonomi il proprio convincimento, appiattendosi su quanto accertato dal ctu, e ciò
anche nelle ipotesi in cui vi siano state censure dei consulenti di parte, purchè queste
ultime siano state sottoposte al vaglio dell’ausiliario. Si afferma, infatti, che il giudice
del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico, che nella
relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte,
esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo
convincimento 19 . Si aggiunge che, ove fra due successive contrastanti indagini
tecniche d'ufficio il giudice aderisca al parere del consulente tecnico che abbia
espletato la sua opera per ultimo, la motivazione della sentenza è sufficiente, pur se
tale adesione non sia specificamente giustificata, purchè il secondo parere fornisca gli
elementi che consentano, sul piano positivo, di delineare il percorso logico seguito e,
sul piano negativo, di escludere la rilevanza degli elementi di segno contrario, siano
essi esposti nella prima relazione od aliunde deducibili.20
18
Cass. 4850/2009
Cass. 282/2009
20
Cass. 4850/2009
19
8
La necessità di restituire al giudice, ed alla sua valutazione, la centralità della
decisione si ritrova, tuttavia, in altre massime che, viceversa - in presenza di
contestazione delle parti, o in caso di dissenso dello stesso giudice dalle conclusioni
del proprio ausiliario - impongono un percorso argomentativo che si differenzia da
quello solito perché, non più fondato soltanto sulla logica, bensì anche sulla scienza.
Si afferma, così, che è affetta da vizio di motivazione la sentenza con la quale il
giudice di merito, a fronte di precise e circostanziate critiche mosse dal consulente
tecnico di parte alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, non le abbia in alcun
modo prese in considerazione e si sia invece limitato a far proprie le conclusioni della
consulenza tecnica d'ufficio; si aggiunge che il potere di detto giudice di apprezzare il
fatto non equivale ad affermare che egli possa farlo immotivatamente e non lo esime,
in presenza delle riferite contestazioni, dalla spiegazione delle ragioni - tra le quali
evidentemente non si annovera il maggior credito che egli eventualmente tenda a
conferire al consulente d'ufficio quale proprio ausiliare - per le quali sia addivenuto
ad una conclusione anziché ad un'altra21. Ancora più esplicitamente si afferma che il
giudice, il quale disattenda il parere espresso dal consulente tecnico d'ufficio, ha
l'onere di dare di ciò adeguata motivazione, autonomamente e direttamente,
penetrando nella questione tecnica e di questa giungendo a dare propria, diversa e
motivata soluzione 22 ; si precisa, ancora, che il giudice di merito, quando intende
discostarsi dalle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, deve adeguatamente
motivare le sue valutazioni ed i suoi apprezzamenti, e non limitarsi alla mera
affermazione di principi tecnici, di cui non sia indicata la fonte e non sia pertanto
possibile verificare congruità ed esattezza23.
Sebbene dette massime sembrino fare accenno ad una valutazionw che si muova
non solo sul piano logico o giuridico, ma anche su quello tecnico-scientifico, nel
momento in cui si scende più nel dettaglio per individuare i reali strumenti attraverso
i quali il giudice, evidentemente privo delle necessarie cognizioni, deve controllare la
consulenza, quelli propriamente tecnici perdono di incisività, restando il controllo
essenzialmente affidato a quelli logici. Si afferma, infatti, che il controllo deve
operare sotto tre differenti profili: a) la verifica della autorità scientifica del
consulente, che, tuttavia non può che presupporsi ove il medesimo sia iscritto all’albo
b) l’utilizzo di metodi di indagine comunemente accettati dalla comunità scientifica la
cui violazione, in realtà è veramente rara c) la coerenza logica della sua motivazione
sulla quale, pertanto, finisce con il concentrarsi l’effettività del controllo.
In effetti, nell’ipotesi in cui il consulente abbia esposto la sua motivazione in
modo trasparente, la logica di quest’ultima resta il principale strumento di controllo
del giurista e, dunque, sia del giudice che del difensore. Sotto tale profilo, pertanto,
l’affermazione ricorrente nelle giurisprudenza della Cassazione, secondo cui il
giudice non è tenuto a motivare sui rilevi mossi alla consulenza dal difensore in
quanto quest’ultimo non è datato delle conoscenze scientifiche necessarie ad
21
Cass. 4797/2007
Cass. 10816/2003
23
Cass 14849/2004
22
9
assicurare alla sua critica il crisma dell’attendibilità24, non sembra possa interpretarsi
con riferimento agli eventuali rilievi alla logicità del ragionamento scientifico del
consulente rispetto ai quali dovrebbe, al contrario, assicurarsi una risposta piena.
Invero, persiste il rischio che la consulenza, pur logicamente incensurabile,
giunga a risultati erronei in quanto fondata su dati falsi o incompleti. Per detta ipotesi,
l’unico reale strumento di controllo, in caso di ignoranza da parte del giudice dei
rudimenti della scienza di riferimento, resta solo il contraddittorio.
Il difficile rapporto tra il giudice e la scienza presenta un risvolto della medaglia.
Il progressivo allontanarsi delle singole scienze dal patrimonio comune di cui, in
genere, è dotato, non solo l’uomo di media cultura, ma anche l’uomo particolarmente
colto, ma estraneo alla specifica branca, pone un problema di compatibilità tra la
valutazione prudente delle prove ed il principio per cui il giudice è il perito dei periti.
Prevale in giurisprudenza l’assunto secondo cui il giudice di merito, per la
soluzione di questioni di natura tecnica o scientifica, non ha alcun obbligo di
nominare un consulente d'ufficio; può ben fare ricorso alle conoscenze specialistiche
che abbia acquisito direttamente attraverso studi o ricerche personali; può dissentire
dalle conclusioni del perito anche sulla base di teorie non prospettate dalla parti e,
perciò, tratte dal suo bagaglio culturale25. Si afferma in proposito che il potere di
nomina del consulente tecnico - in quanto esercizio di una facoltà concessa al giudice
per integrare le conoscenze tecniche che, non rientrando nelle nozioni di comune
esperienza, egli non ha il dovere di conoscere e di cui, invece, il consulente è dotato non preclude affatto al giudice la possibilità di avvalersi, oltre che delle massime di
esperienza, che ha il dovere di conoscere, siccome patrimonio comune del sapere
laico, anche delle conoscenze tecniche e specialistiche di cui sia per avventura in
possesso o delle quali acquisisca direttamente il possesso attraverso studi o ricerche
personali. Si osserva, altresì che tale conclusione non è contraddetta dal principio che
vincola il giudice ad attenersi ai fatti ed alle allegazioni di parte perché quest’ultimo
si riferisce solo alla conoscenza privata dei fatti storici e non anche al sistema
generale delle conoscenze peritali.
Va rilevato, tuttavia, che in alcune massime, soprattutto nella materie più
strettamente tecniche, emerge, viceversa, una certa diffidenza nel giudice perito tra i
periti; si fa, così, riferimento alla necessità di una motivazione più pregnante
attraverso la quale verificare che questi abbia potuto risolvere, sulla base delle sue
personali conoscenze scientifiche e sulla base di criteri corretti, tutti i problemi
tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti.26
Largamente contraria, invece, è la dottrina, secondo cui il divieto di scienza
privata del giudice non potrebbe ridursi alle mere circostanze di fatto, dovendosi,
piuttosto, estendere a tutte le nozioni non di patrimonio comune; tanto, perché sia per
le prime che per le seconde non dovrebbe potersi prescindere dal contraddittorio.
24
Cass. 8297/2005
Cass. 14759/2007
26
cfr. Cass. 4369/1998
25
10
§ 2. I fatti senza prova, ovvero fatti notori e massime di esperienza
Si è detto che il ragionamento probatorio del giudice deve fondarsi su quanto
acquisito al giudizio. Tele principio, nella sua connotazione negativa, si traduce nella
irrilevanza della scienza privata e si completa con il divieto di cui all’art. 97 disp. att.
cpc di ricevere private informazioni. L’art. 115 cpc pone un'unica deroga alla
formazione della prova nel processo, consentendo al giudice di tener conto delle
“nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. La norma, in sostanza,
disciplina il principio secondo cui notoria non egent probationem.
All’interno delle nozioni di fatto contemplate dall’art. 115 cpc si suole
distinguere tra fatti notori e massime di esperienza. Le due categorie, benché spesso
oggetto di indifferente richiamo, non sono fatte della stessa sostanza: i primi si
pongono sul piano delle circostanze e sono veri e propri accadimenti senza prova; le
seconde, invece, sono giudizi ipotetici fondati su leggi scientifiche, naturali statistiche
o di esperienza e si pongono sul piano della valutazione, sicchè non sono oggetto del
ragionamento probatorio, quanto, piuttosto, strumento del medesimo.
I fatti notori.
Per fatto notorio si intende una circostanza conosciuta (o che possa essere
obiettivamente conosciuta) da una generalità di persone di media cultura di un dato
luogo e in un dato tempo. Il requisito della notorietà è stato dalla giurisprudenza
relativizzato sotto il profilo spazio-temporale, ammettendosi la notorietà ristretta,
riferita, cioè, al tempo ed al luogo, della decisione e, sotto il profilo sociale,
ammettendosi una notorietà limitata ad una cerchia di persone.
Trattasi di definizione che risulta difficile specificare ulteriormente alla luce
degli accadimenti che - pur limitandosi alla sola giurisprudenza della Cassazione sono assurti nel tempo alla valutazione di “notorietà”, attesa la loro estrema
disomogeneità, pure a fronte di massime di identico contenuto, quanto ai presupposti
teorici. Pertanto, pure a fronte di affermazioni consolidate, secondo cui il notorio
deve essere acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed
incontestabile, e non può mai essere elevata a notorio una situazione opinabile, o
particolare, l’unica disamina possibile resta di carattere analitico.
Sono state considerate notorie le seguenti circostanze: i tassi di interesse
bancario, secondo l’assunto che rientrano nel patrimonio di conoscenze comuni e
generali in possesso della collettività nel tempo e nel luogo della decisione, anche in
quanto oggetto di sistematiche forme di diffusione e pubblicità, e, quindi, sono
conosciuti da ciascun individuo di media cultura ordinariamente partecipe delle
attività socio - economiche della collettività stessa27; la svalutazione, con riferimento
agli indici sul costo della vita elaborati dall'Istat, attesa la loro provenienza da
organismo pubblico e la forma di pubblicazione28; il requisito della notorietà è stato
27
28
Cass. 16132/2005
Cass. 376/2005
11
negato, invece, al corso dei cambi delle monete estere29. Sono stati considerati notori
i valori di mercato di veicoli usati, per la notevole estensione che hanno assunto nella
vita quotidiana i relativi scambi e perchè vengono riportati in moltissime
pubblicazioni di stampa a larga diffusione30; i particolari geografici e topografici di
una città, ma non la segnaletica stradale31.
Particolare interesse, per i distinguo attuati, riveste la giurisprudenza in tema di
valore degli immobili. E’ stata considerata notoria una crisi edilizia al fine di tener
conto dell’aumento o decremento del valore degli immobili 32 ; viceversa, è stato
escluso che possa ricorrersi al notorio quando sia richiesta una precisa
determinazione del valore del bene, per esempio con riferimento alla determinazione
di una indennità di esproprio 33 ; ne è stato ammesso, invece, il ricorso al fine di
determinare il tasso generale di incremento, per ciascun anno, del valore delle aree in
una determinata zona34. Sulla scorta di detto distinguo è stato escluso il ricorso al
notorio per individuare l’importo della imposta di registro35 o dell’Invim36. Analoghe
affermazioni si ritrovano con riferimento al reddito degli immobili. Infatti, si è
considerato notorio il canone locatizio corrente in una determinata zona per
determinare la indennità di avviamento commerciale37 e per accertare il diritto di cui
all’art. 2923 cc spettante all’acquirente di cosa pignorata di non rispettare la
locazione ove il canone sia inferiore di 1/3 al giusto prezzo o a precedenti canoni38;
ne è stato escluso, invece, il ricorso per la determinazione del reddito di un immobile
quando debba essere determinato con esattezza il canone di locazione mediamente
applicato, ma non nell’ipotesi in cui serva per valutare comparativamente le
condizioni dei coniugi ai fine di quantificare l’assegno divorzile39.
Non sono stati considerati fatti notori la prestazione di lavoro straordinario
nell’ambito di una azienda 40 , il numero di dipendenti di una società, al fine di
verificare la sussistenza dei parametri per la tutela reale del lavoratore 41 , ma non
nell’ipotesi in cui si tratti di aziende certamente conosciute come le Ferrovie dello
29
Cass. 829/1988
Cass. 13056/2007
31
Cass. 23978/2007 che in motivazione esclude che possano essere annoverati nel notorio anche
quegli elementi valutativi che implichino, oltre che cognizioni particolari, anche solo la pratica di
determinate situazioni.
32
Cass. 9244/2007 e Cass. 6735/2005. Contra Cass. n. 7044/2005 in un caso, in cui, tuttavia, il
notorio era stato reclamato dalla parte per giustificare, in ragione di una crisi immobiliare, una
perdita di valore di un immobile realizzatasi in pochi mesi.
33
Cass. 4556/2003
34
Cass. 8513/1991 in un caso, però, in cui si dava atto della “impossibilità di fare riferimento ai
canoni di locazione di immobili con analoghe caratteristiche effettivamente pagati nella zona”.
35
Cass. 5232/2008 in un caso in cui la sentenza censurata aveva ritenuto corretta la valutazione
dell’Ufficio in quanto in sintonia con i valori di mercato vigenti.
36
Cass. 24959/2005
37
Cass. n. 5038/1991
38
Cass 16243/2005
39
Cass. 2018/1976
40
Cass. 6023/2009
41
Cass. 3160/1986
30
12
Stato 42, purchè non diventi rilevante il numero dei dipendenti addetti alla singola
unità produttiva, o nello stesso Comune43. Ugualmente si è riconosciuto il requisito
della notorietà rispetto alla sussistenza, nel settore delle riparazioni e costruzioni
navali, dei requisiti giustificativi di contratti di lavoro a tempo determinato44
Su un piano parzialmente difforme si pone il c.d. notorio giudiziario, ossia i fatti
di cui il giudice venga a conoscenza per motivi del suo ufficio. E’ pressoché unanime
l’affermazione secondo cui detti ultimi fanno parte della scienza privata del giudice
sicchè possono avere rilevanza in altro giudizio solo nei casi previsti dalla legge.
Una volta chiariti, se pure in via alquanto empirica, i confini della notorietà delle
circostanze di fatto, si pone la questione delle modalità del loro ingresso nella
piattaforma probatoria.
L’art. 115 cpc stabilisce il principio per cui il Giudice può porre le medesime a
fondamento della decisione pur in mancanza di prova. La formulazione della norma
induce ad affermare che anche il potere di allegazione del fatto notorio non è
riservato alle parti.
La questione rilevante è, piuttosto se il giudice abbia la possibilità di fondare il
proprio ragionamento probatorio su circostanze di fatto, non soltanto non dedotte
dalle parti, ma anche rimaste del tutto estranee al contraddittorio.
Invero, non si pone un reale problema rispetto ad un fatto notorio principale,
ovverosia che rappresenti uno degli elementi costitutivi della pretesa; si pensi
all’ipotesi di una domanda risarcitoria che abbia tra i suoli elementi costitutivi il
crollo o l’abbattimento di un intero edificio che, per le circostanze di particolare
rilevanza dell’accadimento, è di dominio pubblico. Infatti, se la circostanza notoria è
elemento costitutivo della pretesa, ove la medesima non sia in alcun modo desumibile
dalla esposizione dei fatti, alla sua mancata allegazione consegue nullità della
citazione per incompiuta esposizione ex artt. 163 n. 4 e 164 cpc. La questione della
allegazione presenta, invece, risvolti più interessanti con riferimento a fatti secondari
che abbiano le caratteristiche del notorio. Del resto, la rilevanza del fatto secondario
rispetto alla decisione finale è spesso influenzata dal ragionamento probatorio, cui le
parti restano comunque estranee e, rispetto al quale è, al massimo esercitabile una
valutazione ipotetica.
Si pone, pertanto, la questione della necessità che il giudice sottoponga il fatto
notorio al contraddittorio delle parti prima di utilizzare il medesimo nella conduzione
del ragionamento probatorio. Chi esclude che il fatto notorio possa far parte del
ragionamento probatorio del giudice se prima non è passato per il processo,
argomenta, in genere su una regola che si assume immanente al sistema - e che
discende direttamente dall’art. 24 Cost - secondo cui è fatto divieto al Giudice di
introdurre elementi non preventivati dalle parti. Il riscontro processuale, poi,
dovrebbe trovarsi nell’art. 183 quarto comma cpc ai sensi del quale il giudice indica
le “questioni rilevabili di ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”; nell’art.
42
Cass. 22271/2004
Cass. 20987/2004
44
Cass. n. 5792/1990
43
13
184 cpc ai sensi del quale nell’ipotesi in cui il giudice disponga d’ufficio mezzi di
prova, deve assegnare alle parti un termine per articolare i mezzi di prova ritenuti
necessari rispetto ai primi; da ultimo nell’art. 101 cpc nella versione modificata dalla
l. n. 69/2009 che, vietando le c.d. decisioni a sorpresa o la terza via, impone al
giudice, che intenda porre a fondamento della decisione una questione rilevata di
ufficio, di sottoporla al contraddittorio.
Deve subito rilevarsi che, seguendo detta interpretazione, la circostanza notoria
finisce con l’omologarsi a qualsiasi altra circostanza rilevante per il processo,
differenziandosene solo per la possibilità di essere allegata anche di ufficio e per il
fatto di restare svincolata dalla preclusioni connesse alla individuazione del thema
probandum. Per altro, alla luce della recente modifica dell’art. 115 primo comma cpc,
che impone al giudice di porre a fondamento della decisione “i fatti non
specificamente contestati dalla parte costituita”, perde, quanto meno con riferimento
ai processi in cui non vi siano parti contumaci, qualsiasi rilevanza anche la superfluità
della prova. Infatti, una volta che il fatto sia stato allegato la questione sulla sua
notorietà resterebbe superata o dall’eventuale istruttoria o dalla non contestazione che
renderebbe la circostanza comunque provata.
La tesi secondo cui il fatto notorio potrebbe essere utilizzato solo dopo essere
stato sottoposto alle parti non appare convincente. In senso contrario, del resto, è la
giurisprudenza della Cassazione che, se pure al fine di sottolineare la necessità di un
uso rigoroso del notorio, precisa che quest’ultimo deroga sia la principio dispositivo
che al principio del contraddittorio45. La formulazione dell’art. 183 terzo comma cpc
come modificato sul punto dalla l. n. 353/1995, argina il potere del giudice di indicare
le questioni rilevabili di ufficio - così come di chiedere chiarimenti - nell’ambito delle
allegazioni proposte dalle parti. Va notato, per altro, che il testo precedente alla
riforma non conteneva l’inciso che limita l’intervento del giudice rispetto ai soli “fatti
allegati”. La modifica, pertanto, ha inciso proprio sul potere di introdurre fatti
autonomamente ricercati o ipotizzati, sicché non vi è modo di ritenere che la norma si
riferisca anche ai fatti di cui all’art. 116 cpc .
Le questioni di cui all’art. 183 cpc, pertanto, si pongono su di un piano del tutto
difforme rispetto alle circostanze notorie che, invece, rientrano nella piena
disponibilità del giudice, anche quanto alla loro allegazione. Del resto, sebbene non
via sia unanimità di vedute sulla norma citata, secondo una interpretazione
largamente, diffusa il potere di sottoporre questioni alle parti riguarderebbe le sole
questioni pregiudiziali o di diritto. Non sembra, infine, che alcuna innovazione sia
stata portata sul punto dalla nuova formula dell’art. 101 cpc che fissa solo la
disciplina applicabile per consentire alle parti di contraddire su quanto rilevato dal
giudice.
Una volta che il fatto notorio risulti acquisto al processo, vi è da chiedersi se
possa concepirsi una prova diretta o contraria sullo stesso. Parlare di prova di un fatto
notorio potrebbe sembrare una contraddizione in termini, atteso che questo dovrebbe
caratterizzarsi per la sua essenziale obiettività e, di conseguenza, incontestabilità. Va
45
Cass. 5232/2008
14
rilevato, del resto, che tutte le volte in cui la giurisprudenza sembra fare riferimento
ad una prova (contraria) del notorio, si è piuttosto di fronte ad una massima di
esperienza rispetto alla quale la parte tende a dimostrare, non tanto la sua falsità,
quanto, piuttosto, la eccezionalità del caso46.
Un problema di prova si pone, però, proprio in ragione del fatto che la
circostanza notoria si muove su un piano del tutto diverso da quello della scienza del
giudice. Dovrebbe supporsi che questa comprenda tutto il notorio come il più sta al
meno. Tuttavia, la relatività del concetto di notorio adottato dall’art. 115 cpc e la sua
rilevanza, nella applicazione giurisprudenziale, in ragione di criteri, oltre che di
cultura media, anche spaziali, temporali e a volte anche sociali, cioè connessi alla
appartenenza ad un gruppo, rende possibile che un fatto, obiettivamente notorio, resti
sconosciuto al giudice. Ci si chiede, pertanto, se alle parti sia consentito provare un
fatto notorio, o meglio la notorietà di un fatto, al fine di consentirne la sua
acquisizione anche al di fuori delle preclusioni di allegazione e prova. E’ evidente,
infatti, che nell’ipotesi in cui queste ultime non siano maturate, non vi è alcuna
particolare complicazione, se non connessa all’inutile dispendio di risorse, ben
potendo accadere che la circostanza notoria venga comunque trattata alla stregua di
qualsiasi altra circostanza.
Ritengo che si debba escludere la prova della notorietà. Ciò deriva dal tenore
testuale dell’art. 115 cpc. Quest’ultimo al primo comma individua il materiale che il
giudice “deve” porre a fondamento della decisione, ovverosia le prove proposte dalle
parti. Al secondo comma, invece, indica le circostanze di fatto che rientrano nella
comune esperienza, come materiale che il giudice “può” porre a fondamento della
decisione. poiché il potere del giudice non equivale al suo arbitrio, va esercitato nel
senso che questi deve tener conto del fatto notorio, sia qualora il medesimo faccia
comunque parte della sua scienza, sia qualora possa essere facilmente acquisito anche
aliunde.
La discrezionalità del giudice nella applicazione del notorio pone l’ulteriore
questione del controllo sulla decisione.
E’ consolidata la massima secondo cui l'affermazione del giudice di merito
circa la sussistenza di un fatto notorio non può essere censurata in sede di legittimità
mediante una mera negazione della notorietà del fatto assunto come tale, ma solo
qualora il ricorrente deduca che sia stata posta a base della decisione una inesatta
nozione del notorio, ovvero prospetti elementi specifici e significativi tali da
escludere l'utilizzabilità della nozione stessa e da infirmare, sul piano motivazionale,
la valutazione; il giudice, infatti, una volta affermato che un fatto è acquisito per
comune conoscenza, non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali tale
determinazione si fonda47.
46
Cfr. Cass. 981/2006 ove si censura la sentenza di merito nella parte in cui, sull’assunto che il
ritrovamento nei pressi di un'area di servizio dell'autostrada di un animale domestico dimostrasse
che era stato ivi intenzionalmente abbandonato, in conformità a un diffuso malcostume, era stata
negata la prova volta a dimostrare lo smarrimento e le successive ricerche
47
Tra le più recenti Cass. n. 20965/2009. Nel caso di cui alla sentenza citata il ricorrente aveva
censurato la sentenza di merito nella parte in cui aveva ritenuto fatto notorio le condizioni
15
Diversamente, allorché si assuma che il fatto considerato come notorio non
risponde al vero, la sentenza potrà formare esclusivamente oggetto di revocazione48.
Le massime di esperienza
Si è già detto in cosa le massime di esperienza differiscono dai fatti notori. I
primi sono circostanze non soggette a prova; le seconde sono regole di giudizio
basate su leggi scientifiche, naturali, statistiche, o di esperienza, comunemente e
pacificamente accettate in un determinato ambiente. Rispetto a queste ultime non si
pone un problema di applicazione discrezionale da parte del giudice. Al contrario, il
loro utilizzo nel ragionamento probatorio è doveroso, pena la illogicità della
motivazione che deve essere sempre ricostruita sulla scorta di massime di esperienza
comunemente riconosciute e, quindi, comprensibili e controllabili.
Il limite di applicazione delle massime di esperienza si determina, piuttosto, in
negativo indicando ciò che non può entrare nel ragionamento probatorio senza
viziarne la logicità e, cioè, a) massime appartenenti, non alla generalità di un
ambiente sociale, ma a minoranze di qualsiasi tipo b) massime contraddette da regole
scientifiche c) massime contraddette da altre massime di senso comune.
La discrezionalità nel ragionamento probatorio, tuttavia, viene in rilievo anche
con riferimento alle massime di esperienza tutte le volte in cui, rispetto alla congruità
di più massime rispetto ai fatti da esaminare, ma conducenti a risultati contrapposti, il
Giudice scelga quale applicare nell’esame del materiale probatorio. Si pensi in
proposito alla valutazione di deposizioni testimoniali tra di loro contrastanti, la cui
credibilità sia sorretta da massime di esperienza entrambe valide. Un esempio può
servire ad esplicitare il concetto. Si supponga che il giudice debba raffrontarsi a più
deposizioni di testimoni oculari di un fatto tra di loro contrastanti che non si
differenzino, tuttavia, rispetto alla credibilità soggettiva, apparendo tutti egualmente
credibili. In tal caso, la valutazione di credibilità non può che spostarsi sul piano
oggettivo. Sarebbe logicamente viziata, in quanto contraria ad una massima di
esperienza una motivazione che ritenesse più credibile il testimone che vi ha assistito
da una distanza maggiore rispetto a quello più vicino, così come una motivazione che
ritenesse più credibile il teste che ha reso la sua dichiarazione a distanza di anni a
fronte di quello che l’ha resa dopo pochi giorni. Il principio del libero convincimento
governa, invece, la possibilità di privilegiare l’una rispetto all’altra delle massime di
esperienza comunque in gioco.
Una questione particolare si pone con riferimento al confine tra massime di
esperienza e le specifiche cognizioni di natura tecnica di cui si è parlato a proposito
della valutazione del giudice. Invero, le massime di esperienza non differiscono del
atmosferiche nelle quali si era sviluppato l'incendio per cui era causa, assumendo che era stata
utilizzata una inesatta nozione del notorio, che non trovava riscontro nella giurisprudenza della
Corte, la quale, invece, richiedeva la presenza di elementi di prova concreti e specifici, riferiti al
luogo ove si verifica l'evento dal quale sia derivato il fatto dannoso.La Cassazione ha escluso la
censurabilità della sentenza sotto il profilo dedotto.
48
Cass. 11643/2007
16
tutto dal punto di vista ontologico dalle leggi scientifiche, ovverosia dalle regole della
scienza e della tecnica. Se, infatti, vi sono delle massime di esperienza che si
pongono su un piano differente rispetto a quello della scienza e della tecnica, ve ne
sono altre che risentono della medesima natura e la cui caratteristica sta solo
nell’essere, o nell’essere divenute, di dominio pubblico, quanto meno tra persone di
media cultura. Pertanto, il confine è anche variabile nel tempo, essendo insito nella
stessa evoluzione sociale che cognizioni specialistiche diventino nel tempo massime
di esperienza. Si può affermare, dunque, che quando il sapere diventa specialistico
supera il confine della massima di esperienza.
Invero, può ritenersi che la distinzione non assume rilievo con riferimento ai
poteri del giudice; ciò in ragione del principio sopra esposto, secondo cui questi, per
la soluzione di questioni di natura tecnica o scientifica, non ha alcun obbligo di
nominare un consulente d'ufficio e può fare ricorso alle sue conoscenze specialistiche;
la distinzione, però assume rilievo sotto il profilo del contraddittorio. Il confine tra
massime di esperienza e conoscenze specialistiche determina l’applicabilità del
disposto di cui all’art. 183 cpc e di cui all’art. 101 cpc che impone al giudice di
sottoporre la questione alle parti, ovverosia di chiamare queste ultime a controdedurre,
prima della decisione, sulla soluzione scientifica del caso alla quale è giunto in
ragione di sue specifiche conoscenze.
§ 3 Il ragionamento induttivo: le presunzioni semplice e le altre inferenze
Fin ora si è parlato delle massime di esperienza come strumento di valutazione
della prova.
Queste hanno un ulteriore ruolo nella valutazione del giudice costituendo il
fondamento del ragionamento induttivo sotteso, sia alla presunzione semplice di cui
agli artt. 2727 ss cc, sia ad altri istituti che pure si fondano su un ragionamento
inferenziale. In dette ipotesi le massime di esperienza non restano più all’esterno del
processo di formazione della prova, ma entrano a farne parte, ponendosi come
collegamento tra il fatto (secondario) provato ed il fatto principale (da provare).
La presunzione semplice
La presunzione semplice, ovvero hominis, è lo strumento normativamente
concesso al giudice che permette di arrivare alla conoscenza di un fatto del quale non
via sia diretta dimostrazione attraverso un procedimento logico.
Su un piano del tutto diverso si pongono le presunzioni legali che prescindono
dal convincimento del giudice e la cui efficacia probatoria è fissata dalla legge senza
alcun margine di discrezionalità. L’eccezione è del tutto evidente rispetto alle
presunzioni assolute che, non ammettendo prova contraria, si pongono anche al di là
dello stesso concetto di prova; ma anche nelle presunzioni relative, per le quali, ove
la prova contraria non venga fornita, il principio del prudente apprezzamento del
giudice viene messo da parte a favore di una certezza che resta acquisita per volontà
delle legge.
17
Tralasciando i limiti di ammissibilità previsti dall’art. 2729 secondo comma cc,
le presunzioni pongono una serie di questioni sia con riferimento al fatto secondario,
che a quello principale, che al ragionamento induttivo che lega al primo il secondo.
Quanto al primo profilo, secondo il disposto di cui all’art. 2727 cc la incidenza
nell’ambito del processo dei fatti secondari diviene rilevante solo ove siano ritenuti
dal giudice “gravi, precisi e concordanti”. L’orientamento prevalente in
giurisprudenza è nel senso che il fatto principale da provare possa desumersi anche da
un unico fatto secondario, purché sia tale da condurre ad un margine di incertezza
minimo sul fatto principale 49 . L’ostacolo a tale tipo di interpretazione non è
rappresentato, come è ovvio, dall’utilizzo del plurale. Infatti, anche l’art. 115 cpc fa
riferimento alle “prove” ma ciò non esclude che la decisione possa fondarsi su di
un'unica prova. L’ostacolo è rappresentato dal riferimento alla concordanza che
presuppone un rapporto tra due risultanze. La concordanza, tuttavia, non è relazione
che deve sussistere tra due fatti secondari, bensì è caratteristica del ragionamento
induttivo, nel senso che la conclusione deve essere univoca, non potendosi fondare un
giudizio di fatto attendibile in presenza di più presunzioni che giungano a risultati
differenti.
Ugualmente, non appartiene al fatto il requisito della gravità che, invece, va
inteso con riferimento al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a
produrre. Attiene al fatto, invece, il requisito della precisione il quale impone che il
fatto noto sia ben determinato nella sua realtà storica. Resta, di conseguenza vietata la
c.d. presumptio presumptionis50. Infine, il fatto secondario deve essere allegato e
provato dalle parti.
Maggiori problemi, si pongono con riferimento al fatto desunto. La presunzione
opera certamente sul piano probatorio. Ciò dovrebbe indurre a ritenere che il fatto
desunto debba comunque essere allegato dalle parti e che il ragionamento induttivo
possa essere utilizzato dal giudice solo per ritenerlo provato. Come accade per i fatti
notori la questione non si pone tanto con riferimento ai fatti costitutivi della pretesa,
rispetto ai quali la mancata allegazione comporta la nullità della citazione e la sua
necessaria integrazione; si pone, invece, con riferimento a fatti rilevanti, ma non
costitutivi, dovendosi chiarire se il giudice da un fatto allegato e provato possa
desumere, attraverso il ragionamento inferenziale, un fatto non soltanto non provato,
ma nemmeno allegato dalle parti. Verrebbe da affermare che la allegazione dei fatti è
riservata al contraddittorio. Potrebbe obiettarsi, tuttavia, che la questione va, piuttosto,
49
Cass. 17574/2009 Deve darsi atto della esistenza anche di un indirizzo difforme. In particolare la
massima ufficiale tratta da Cass. 26631/2008 prevede che il ricorso alla prova presuntiva esige
indefettibilmente che a fondamento di essa il giudice ponga una pluralità di elementi, caratterizzati
dai requisiti della gravità, precisione e concordanza. Pertanto l'indicazione, nella sentenza di merito,
di un solo ed equivoco elemento presuntivo dal quale è stata ricavata la prova del fatto ignorato
costituisce un vizio motivazionale. Tuttavia, dalla lettura integrale della motivazione emerge,
piuttosto, che ad essere censurato era il ragionamento inferenziale, nel senso che il medesimo non
consentiva di desumere dal fatto noto quello ignorato. In particolare il giudice del merito,
nell’ambito di una azione revocatoria, aveva ritenuto di desumere l’eventus damni di una atto di
vendita dalla sola sproporzione tra il valore di mercato ed il prezzo dichiarato in atti
50
Cass. 1044/1995
18
posta sotto il profilo della valutazione doverosa del materiale acquisito, e che il fatto
ignoto, proprio per le caratteristiche del ragionamento presuntivo, è già insito nel
fatto noto, sicché la sua emersione non è il frutto di una attività di allegazione, bensì
del solo ragionamento probatorio. Va da sé che in detta ultima ipotesi, soprattutto a
seguito della riforma dell’art. 101 cpc, il giudice ha l’onere di sottoporre la questione
alle parti. In questo caso, infatti, si è in presenza di una questione che viene sì rilevata
dal giudice, ma nell’ambito di quanto allegato dalle parti.
Quanto al ragionamento probatorio, la giurisprudenza è sempre più incline a
ritenere che il nesso tra i due fatti si caratterizzi in termini di probabilità e non di
necessarietà assoluta; che occorre una connessione possibile e verosimile di
accadimenti 51 ; che, invece, deve escludersi che possa attribuirsi valore ad una
presunzione fondata su dati meramente ipotetici52.
Il ragionamento presuntivo si complica nell’ipotesi in cui il giudice sia in
presenza di più elementi indiziari. La giurisprudenza ammette che la presunzione
possa fondarsi su di un unico fatto secondario; per altro verso, è incline a ritenere che
il giudice, nell’esplicitare attraverso la motivazione le ragioni del suo convincimento,
non è tenuto a dar conto di tutte le risultanze istruttorie, bensì solo di quelle poste a
fondamento del medesimo. Tuttavia, in presenza di più indizi non univoci, richiede la
completezza della motivazione. Si afferma, infatti, che il procedimento che deve
necessariamente seguirsi in tema di prova per presunzioni si articola in due momenti
valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno
degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, invece,
conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e
della gravità, ossia presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia
probatoria; successivamente, occorre che proceda a una valutazione complessiva di
tutti gli elementi presuntivi isolati, accerti se essi siano concordanti e se la loro
combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che, magari, non
potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni
indizi. È pertanto viziata da errore di diritto la decisione in cui il giudice si sia
limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti, senza accertare se essi,
quand'anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di
assumerla, ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto
rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento53.Si
osserva, del resto, che se il controllo della Corte di Cassazione non può riguardare il
convincimento del giudice del merito sulla rilevanza probatoria degli elementi
indiziari o presuntivi - convincimento che costituisce indubbiamente un giudizio di
fatto - può tuttavia incidere sulla congruità e logicità della motivazione postane a base,
sicché la sentenza potrà essere censurata sotto il profilo della insufficiente
motivazione, consistente nella mancata rilevazione, da parte del giudicante, del fatto
51
Cass. 16993/2007
Cass. 23079/2005
53
Cass. n. 19894/2005
52
19
che gli elementi noti e non considerati deponevano, con il dovuto grado di probabilità,
nel senso della ricorrenza del fatto ignoto54.
La prova acquisita a mezzo di giudizio presuntivo non è una prova debole e può
essere assunta a base anche esclusiva della decisione55. Non soltanto; la medesima
può essere privilegiata e posta a fondamento della decisione anche in contrasto con
altre prove, purchè sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli
elementi di giudizio ad essa contrari56.
Ulteriore questione si pone con riferimento ai limiti del controllo sul
ragionamento presuntivo. E’ principio consolidato nella giurisprudenza della
Cassazione quello secondo cui la censura per vizio di motivazione in ordine
all'utilizzo o meno del medesimo non può limitarsi a prospettare l'ipotesi di un
convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare
emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio.
Le altre ipotesi di ragionamento inferenziale
Sempre nell’ambito del sistema civilistico il riferimento alla presunzione non è
contenuto esclusivamente negli art. 2727 cc. Vi sono, infatti, una serie di altre norme
che, comunque sembrano fare riferimento ad un ragionamento di carattere
inferenziale.
In particolare, di presunzione si parla anche nell’art. 633 secondo comma cpc
che subordina la emissione del decreto ingiuntivo in presenza di una
controprestazione o di una condizione all’offerta da parte del ricorrente di elementi
atti a farne presumere l’adempimento o l’avveramento. Ugualmente l’art. 14 cpc fa
riferimento ad una presunzione di competenza per valore del giudice adito la cui
contestazione si risolve allo stato degli atti. Altre norme, invece, pur non servendosi
della parola “presunzione”, richiamano comunque un ragionamento di tipo
inferenziale di cui occorre evidenziare le differenze rispetto alla presunzione hominis.
In particolare, vengono in considerazione l’art. 2724 n. 1 cc che consente di
ammettere la prova per testimoni in presenza di un principio di prova per iscritto;
l’art. 621 cpc che consente al terzo che abbia spiegato opposizione alla esecuzione
che i beni mobili pignorati presso il debitore sono sui solo quando ciò appaia
verosimile in ragione della professone o del commercio suo o del debitore; l’art. 572
cpc che impedisce al giudice di procedere alla vendita dei beni pignorati se vi è “seria
possibilità” di una vendita migliore.
In tutte queste norme il ragionamento del giudice prende le mosse da un
elemento materiale, cui potrebbe genericamente darsi il nome di indizio. Va
evidenziato, per altro, che detto termine viene utilizzato sia per indicare il fatto
secondario di cui alla presunzione semplice sia per indicare qualcosa di ancora meno
consistente di un argomento di prova, sia, più in generale, nel senso sopra precisato
54
Cass. SU 584/2008
Cass. n. 10847/2007 richiamata pedissequamente da Cass. n. 24028/2009
56
Cass. 16993/2007
55
20
per indicare una qualche entità, comunque presa in considerazione dal legislatore, per
sollecitare un ragionamento inferenziale.
La caratteristica comune a tutte dette ulteriori norme sta nel fatto che in esse il
ragionamento inferenziale non porta ad una prova.
§ 4 Argomenti di prova
Non vi è una definizione univoca degli “argomento di prova”.
Il riferimento principale, ma non esclusivo, è contenuto nell’art. 116 secondo
comma cpc il quale prevede che il giudice possa trarne dalle risposte date dalle parti
nel corso dell’interrogatorio libero, dal rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni e
dal contegno delle parti nel processo.
Va precisato che la norma, nella parte in cui fa riferimento all’interrogatorio
libero non ha, evidentemente, riguardo alla ipotesi in cui anche le dichiarazioni rese
nel corso di quest’ultimo integrano una vera e propria confessione giudiziale. Ciò
accade nel caso in cui risulti che non siano state provocate da una domanda del
giudice ma siano state resa autonomamente ed il verbale rechi la sottoscrizione della
parte, necessaria ai fini della prova della consapevolezza e volontà della
dichiarazione, ossia, in sostanza, del requisito della spontaneità 57. In detta evenienza
si è in presenza, non soltanto di una prova piena, ma anche di una prova legale.
Deve aggiungersi che l’interrogatorio libero svolge una ulteriore funzione sul
piano probatorio contribuendo a fissare i fatti non contestati. Nell’art. 116 secondo
comma cpc, tuttavia, il medesimo viene preso in considerazione come strumento dal
quale trarre elementi sussidiari di convincimento.
La norma citata trova completamento nell’art. 185 cpc il quale, nel prevedere
che l’interrogatorio libero possa essere reso dal procuratore speciale, statuisce che la
mancata conoscenza da parte di quest’ultimo dei fatti di causa può essere valutata ai
sensi dell’art. 116 secondo comma cpc. Sulla stessa scia si pone l’art. 200 cpc che,
attraverso il richiamo all’art. 116 secondo comma cpc, prevede che il giudice possa
trarre argomenti di prova da quanto dichiarato dalle parti al ctu.
Su un piano del tutto diverso si pongono, invece, l’art. 310 cpc e l’art. 59 l. n.
69/2009 con riferimento alle prove acquisite in giudizio estinto o in giudizio
introdotto innanzi a giudice privo di giurisdizione.
Si è in presenza, pertanto, di una categoria di fatti processuali estremamente
eterogenea, comprendendo essa: a) fatti secondari accaduti dinanzi al giudice, come
57
Cass. 11403/2006. La ratio della affermazione discende dalla circostanza che l'art. 229 c.p.c.,
prevede che la confessione spontanea può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato
dalla parte personalmente, salvo il caso dell'art. 117 cpc e che la disposizione va interpretata - avuto
riguardo al precedente art. 228, che contrappone alla confessione giudiziale spontanea quella
provocata mediante interrogatorio formale - nel senso che non può essere considerata giudiziale
spontanea (e quindi non può formare piena prova ai sensi dell'art. 2733, comma 2, c.c.) la
dichiarazione avente contenuto confessorio, se provocata dalle domande rivolte dal giudice in sede
di interrogatorio non formale, e cioè con modalità diverse da quelle espressamente previste per
l'interrogatorio formale dall'art. 230 cpc
21
nel caso degli artt. 116 118, 210 e 232 cpc b) dichiarazioni di scienza rappresentative
di fatti rese dalle parti (o dai terzi: art. 421, ultimo comma, cpc.) davanti al giudice
(come nel caso degli artt. 117, 183 e 420 cpc) o ad un suo ausiliario (v. art. 200 cpc);
c) vere e proprie prove, ma assunte in altro giudizio (art. 310cpc e art. 59 l. n.
69/2009).
Pur nella difficoltà di definizione, la ratio sottesa alle prime due categorie di fatti
rilevanti come argomenti di prova, ovverosia i comportamenti e le dichiarazioni, è
evidente. Il legislatore ha voluto attribuire al giudice uno strumento per consentire di
far entrare nel suo prudente apprezzamento quanto ricavabile, in generale,
dall’atteggiamento processuale delle parti. Dal tenore letterale della norma dovrebbe,
altresì, desumersi che tanto ha fatto escludendo che detto comportamento,
comprensivo del contegno come delle dichiarazioni, possa essere valutato di pari
peso rispetto alla prova dei fatti.
Ciononostante, si pone la questione se il giudice possa fondare la propria
decisione esclusivamente su argomenti di prova e, in particolare, sugli argomenti
desumibili dal comportamento delle parti.
Si prospettano in dottrina tre diverse soluzioni, cui fa riscontro una
giurisprudenza non sempre univoca.
Un indirizzo minoritario ritiene che gli argomenti di prova hanno la medesima
efficacia di qualsiasi altra prova valutabile. Si obietta che è assunto in evidente
contrasto con l’art. 116 cpc e che non tiene conto della circostanza che gli
accadimenti valutabili quali argomenti di prova non sono mai direttamente
rappresentativi di fatti direttamente rilevanti per il giudizio, ovvero di fatti costituivi o
impeditivi, estintivi, modificativi.
Acquisito, pertanto, pressoché all’unanimità, il diverso assunto che, muovendo
dal tenore letterale dell’art. 116 cpc, differenzia la prova dall’argomento di prova, si
registrano, piuttosto, due diversi orientamenti. Accanto ad una prima teoria secondo
cui dovrebbe individuarsi una sorta di gerarchia che vede in testa le prove legali, il
cui esito vincola il giudice, poi le prove libere, che il giudice deve valutare
prudentemente, e, infine, gli argomenti di prova, che il medesimo può trarre da
specifici accadimenti processuali, quali il comportamenti delle parti, ve ne è una
seconda per la quale gli argomenti di prova sono paragonabili ai fatti secondari della
presunzione, sicchè potrebbero costituire piena prova, ove siano rispondenti ai
requisiti di gravità, precisione e concordanza previsti per i primi. Detto orientamento
si fonda sull’assunto che sarebbe del tutto irragionevole consentire al giudice di
inferire un fatto principale da un fatto secondario extraprocessuale, se pure provato,
attraverso il ragionamento presuntivo, ma non dal comportamento delle parti che,
pure, è accadimento processale formatosi sotto la sua diretta percezione. Va osservato,
tuttavia, che gli argomenti di prova, richiedono una doppia inferenza che, come si è
visto, è vietata rispetto alle prime. Infatti, il Giudice, prendendo le mosse dal fatto
certo, che è il comportamento della parte, deve desumere che non ha valide ragioni da
spendere in giudizio e che, pertanto, i fatti allegati dalla controparte sono veri.
Una terza opzione, per così dire intermedia, ritiene che gli argomenti di prova
abbiano una valenza inferiore solo in fase di istruttoria, nel senso che non sarebbero
22
idonei a consumare il diritto alla prova contraria. In altre parole, in presenza di soli
argomenti di prova non potrebbe fondarsi un giudizio di superfluità della prova di cui
all’art. 209 cpc o di maturità della causa per la decisione ex art. 187 primo comma
cpc. Va rilevato, tuttavia, che, se si aderisce all’orientamento maggiormente
garantista, cui si è fatto prima riferimento, che esclude a priori la possibilità di una
valutazione di superfluità di una prova contraria al convincimento già formatosi del
giudice, non vi sarebbe più alcuna differenza tra argomenti e prove.
La giurisprudenza, sembra orientata nel ritenere che, consentita la istruzione, la
decisione ben potrebbe fondarsi esclusivamente su argomenti di prova. Detta
massima ricorre non solo con riferimento al disposto di cui all’art. 420 cpc58 che, con
formula più incisiva, prevede che la mancata comparizione possa essere presa in
considerazione ai fini della decisione, ma anche, più in generale, ed al di fuori del rito
del lavoro, con riferimento al disposto di cui all’art. 116 cpc59. Deve rilevarsi, tuttavia,
che in alcune pronunce la giustificazione della decisione in ragione del solo
comportamento di una parte assume un evidente carattere sanzionatorio per
violazione del dovere di lealtà di cui all’art. 88 cpc. Si assume, infatti, che il giudice
possa trarre elementi di convincimento anche esclusivi, ai fini dell'accertamento dei
fatti controversi, dalle contraddizioni che si colgono nell'assunto difensivo di uno dei
soggetti della lite e, più specificamente, dalla circostanza che, con riferimento
all'oggetto del processo, siano state fornite versioni diverse, in violazione del dovere
di cui alla norma citata 60 . In altre massime si limita la possibilità di fondare il
convincimento sul solo comportamento della parte e, in particolare, sulle sole risposte
date in sede di interrogatorio libero, quando questa sia a diretta conoscenza delle
circostanze, o comunque queste siano state direttamente percepite o percepibili dalla
medesima 61 .Vi sono, poi, anche pronunce che escludono espressamente che la
decisione possa fondarsi esclusivamente su argomenti di prova62.
Alla teoria che equipara gli argomenti di prova alla prova piena si obietta che il
contegno delle parti, in alcuni casi, ma per espressa volontà legislativa, acquisisce
una efficacia rafforzata rispetto a quella prevista dall’art. 116 cpc. Viene a tal
proposito in considerazione l’art. 232 cpc che, a fronte della parte che non si presenti
a rendere l’interrogatorio formale, prevede che il giudice possa, se pure valutato ogni
altro elemento di prova, ritenere come ammessi i fatti dedotti. E’ evidente che,
sebbene non si sia in presenza di una prova legale, in detta diversa fattispecie il
comportamento, lungi dal valutarsi alla stregua di una prova del fatto – forte o debole
che sia – può, addirittura, equipararsi alla stessa ammissione del fatto. Invero, il
significato da attribuirsi al termine ammissione è tutt’altro che pacifico. Tuttavia,
scartando le teorie più estreme - secondo cui la ammissione equivarrebbe alla
confessione o, sul versante opposto, il disposto di cui all’art. 232 cpc non avrebbe
portata diversa da quello di cui all’art. 116 cpc - appare più convincente la tesi
58
Cass. 8066/2009
Cass. 10268/2002
60
Cass. 2815/2006
61
Cass. 10497/1998
62
Cass. 443/2002
59
23
secondo cui il comportamento di cui a detta ultima norma ha una intensità probatoria
superiore rispetto a quella di qualsiasi altro comportamento rilevante nel processo.
Infatti, la valutazione delle altre prove cui la stessa fa riferimento, non presuppone
affatto che le medesime debbano concorrere con il comportamento processuale alla
prova dei fatti dedotti. La stessa, viceversa, impone di valutare tutte le prove, ma non
richiede la loro concordanza. Ciò vuol dire che, sottesa all’art. 232 cpc, vi è la
espressa volontà di attribuire al comportamento della parti un valore probatorio pieno
rispetto a determinati fatti. Tanto, tuttavia, dovrebbe portare ad escludere, in ipotesi
non espressamente contemplate dal legislatore, che agli ulteriori comportamenti,
generalmente valutabili come argomenti di prova, possa riconoscersi detto ulteriore
effetto di prova esclusiva .
Viene altresì in considerazione l’art.. 420 cpc che, invece - senza alcun richiamo
all’art. 116 secondo comma cpc e non facendo nemmeno riferimento agli altri
elementi di prova - prevede che nel processo del lavoro la mancata comparizione
personale delle parti alla udienza di discussione, ove non vi sia un giustificato motivo,
è comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione.
Come già detto, su un piano parzialmente difforme si pone la norma di cui all’art.
310 terzo comma cpc la quale prevede che le prove acquisite in un giudizio estinto
possano essere valutate a norma dell’art. 116 secondo comma cpc. L’art. 59 l .n.
69/2009 ha previsto, inoltre, che, nel caso di pronuncia sulla giurisdizione, nel
giudizio instaurato a seguito della riproposizione della domanda innanzi al giudice
indicato, le prove raccolte davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere
valutate come argomenti di prova.
Una prima questione è lo strumento processuale attraverso il quale dette prove
trovano ingresso nel giudizio. A tal proposito, secondo una massima risalente nel
tempo, il giudice può trarre argomenti di prova dalle risultanze istruttorie di un
processo estinto, desumendole dai relativi fascicoli d'ufficio, senza necessità di
particolari formalità di produzione o di esibizione, essendo sufficiente, a tal fine, la
istanza della parte onerata di avvalersi delle prove raccolte nel processo estinto e la
relativa acquisizione dei fascicoli d'ufficio 63 . Trattasi tuttavia di massime rese in
giudizi introdotti prima della riforma di cui alla l. n. 353/1990 relativa alle preclusioni
istruttorie e che, comunque non sembra possa applicarsi pedissequamente con
riferimento alla fattispecie di cui all’art. 59 l. n. 69/2009
Ulteriore questione è la eventuale diversa valenza probatoria di prove raccolte in
altri giudizi - e non, pertanto, in precedente identico giudizio già estinto - tra le stesse
o anche tra altre parti. Con riferimento a dette ultime si suole parlare di prova atipiche
dove la connotazione di atipicità discende, non dalla circostanza che si tratti di
strumenti non conosciuti dalla legge, ma da un utilizzo dei medesimi diverso da
quello tipico. In tal senso, del resto, può parlarsi di prova atipica anche rispetto alla
consulenza tecnica o alla sentenza quando vengano, per l’appunto, utilizzate come
mezzo di prova.
63
Cass. 2762/1980 ripresa da Cass. n. 16372/2005.
24
Pur tralasciando la complessa questione delle prove atipiche in generale, il
problema della efficacia probatoria in particolare delle prove acquisite in altri giudizi
è rilevante ai fini della interpretazione dell’art. 310 cpc e dell’art. 59 l. n. 69/2009. In
via di prima approssimazione non può negarsi che queste ultime stanno alle prime
come il più sta al meno; sicché, stabiliti i limiti di efficacia di cui all’art. 310 cpc non
può certamente attribuirsi alle altre una efficacia probatoria maggiore. Invero,
seguendo la graduazione della efficacia probatoria di cui all’art. 116 cpc dovrebbe
giungersi alla affermazione che le circostanze di fatto da cui non possono trarsi
nemmeno argomenti di prova sono meri indizi, utili soltanto per orientare la
istruttoria, ma non idonei a costruire la piattaforma probatoria del giudice, sicché tale
sorte andrebbe riservata alle prove acquisite in altro giudizio. Argomentando
diversamente, tuttavia, può affermarsi che le norma di cui all’art. 110 terzo comma
cpc e di cui all’art. 59 l. n. 69/2009 hanno un rilievo prevalentemente in negativo
essendo volte, in sostanza, a stabilire ciò che le prove acquisite in altro giudizio ancorché identico a quello in corso ed estintosi o conclusosi con pronuncia sulla
giurisdizione - non possono certamente acquisire, ovvero la piena efficacia probatoria.
In tal senso la norma non differenzierebbe affatto le prove acquisite in giudizi estinti rispetto all’identico giudizio successivamente introdotto - da quelle acquisite in
qualsiasi altro giudizio. Questo, del resto, sembra essere l’orientamento prevalente in
giurisprudenza che, nel riconoscere efficacia probatoria alle prove acquisite in altro
giudizio, non sembra fare distinzioni tra una fattispecie e l’altra.
Piuttosto, ove si ritenga che anche nel nuovo regime di preclusioni processuali
l’acquisizione delle prove assunte nell’identico giudizio estinto sia sottratta alle
medesime, potrebbe rinvenirsi rispetto alla acquisizione delle prove assunte in
qualsiasi altro giudizio questa unica differenza, dovendosi affermare che in detto
ultimo caso la stessa vi resti, invece, sottoposta.
Rosanna Angarano
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